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De Coniuratione Catilinae
Bellum Iugurthinum
Historiae (incompiute)
86 a.C: nasce ad Amiterno, in Sabina (presso l'attuale l'Aquila)
Compie gli studi a Roma
Era un homo novus ed entra in politica, sostenendo i populares. Diventa prima questore e
nel 52 a.C. tribuno della plebe
Nel 50 a.C. viene espulso dal Senato per indegnità morale
Cesare, di cui Sallustio era un fervente seguace, lo fa riabilitare; così nel 46 a.C. viene
nominato governatore dell'Africa Nova, dove, secondo il malcostume dell'epoca, si
arricchisce senza ritegno, sfruttando la liquidazione dei beni del re numida Giuba e
incassando laute tangenti sugli appalti
Tornato a Roma, con difficoltà riesce ad liberarsi dalle accuse di malversazione, ma la sua
carriera politica è definitivamente tramontata. Sotto consiglio di Cesare, si ritira a vita
privata, fino alla morte avvenuta nel 35 a.C.
L'allontanamento dalla scena politica coincide con l'inizio della sua attività di scrittore.
Sallustio è il primo grande storico di Roma. Per lui, la storiografia è un'opera nobilmente
letteraria e allo stesso tempo rappresenta una forma sostitutiva dell'impegno politico,
altrettanto utile per il bene della civitas; anzi, proprio perché la politica rappresenta
un teatro di corruzione e malaffare, Sallustio preferisce abbandanare i negotia, per
dedicarsi ad attività civilmente e moralmente ben più rilevanti
Ora, fin da giovane, come i più, fui tratto da ambizione alla vita pubblica, e ivi incontrai molte avversità, poiché
invece della modestia, della parsimonia, del valore, regnavano sfrontatezza, prodigalità, avidità. Sebbene il mio
animo disprezzasse tutto ciò, inesperto tuttavia fra tanti vizi, la mia fragile età, sedotta dall'ambizione, veniva
mantenuta in un clima di corruzione, e sebbene dissentissi dai pravi costumi degli altri, tuttavia la medesima
cupidigia di gloria mi tormentava esponendomi come gli altri alla maldicenza e all'invidia. Dunque quando
l'animo si riposò dopo molte miserie e pericoli, e decisi di dover tenere il resto della vita lontano dallo stato, non
decisi di logorare il buon ozio nella pigrizia e nell'inoperosità, ma nemmeno di passare la vita intento
a coltivare i campi o cacciare, attività da servi; ma tornando a quella impresa e a quella passione da
cui una cattiva ambizione mi aveva distolto, decisi di scrivere le imprese del popolo romano per
monografie, in base a come ciascuna mi sembrasse degna di memoria, ancor di più per il fatto che
avevo l'animo libero dalla speranza, dalla paura e dalle fazioni dello stato.
Ma dapprima l'ambizione più che l'avidità tormentava l'animo degli uomini, poiché è tuttavia un vizio, ma
alquanto più vicino alla virtù. Infatti sia l'uomo valoroso sia l'ignavo desiderano gloria, onore, potere; ma il
primo li persegue per la giusta via, l'altro, poiché manca di buoni mezzi, cerca di raggiungerli con inganni e
menzogne. L'avidità reca in sé la brama di denaro, che mai nessun saggio ha desiderato: essa, quasi
imbevuta di veleni perniciosi, effemina il corpo e l'animo virile; è sempre infinita e insaziabile, non è
sminuita né dall'abbondanza né dalla penuria. Ma dopo che Silla, conquistato con le armi il potere, dopo
buoni inizi giunse a pessimi risultati, tutti si diedero a rapine, a ruberie, a desiderare chi una casa, chi una
fattoria, e i vincitori a non avere né misura né moderazione, a compiere contro i cittadini azioni turpi
e crudeli. A ciò aggiungi che Silla, per rendersi fido l'esercito che aveva guidato in Asia, contro il costume degli
avi lo aveva tenuto nelle mollezze e nel lusso eccessivo. Luoghi ameni e deliziosi avevano facilmente
ammorbidito nell'ozio l'animo fiero dei soldati. Ivi per la prima volta l'esercito del popolo romano si avvezzò a
fornicare, a bere, ad ammirare le statue, i quadri, i vasi cesellati, a strapparli ai cittadini privati o alle comunità
a spogliare i templi, a violare il sacro e il profano. Dunque quei soldati, ottenuta la vittoria, non lasciarono
nulla ai vinti. E certo se una condizione fortunata mette a prova l'animo dei saggi, tanto meno quelli di corrotti
costumi potevano moderarsi nella vittoria.
De Catilinae Coniurationae, 11
12. Dopo che le ricchezze cominciarono ad essere considerate di gran pregio e motivo di onore,
e la gloria, il potere, la potenza a seguirle, il valore cominciò a infiacchirsi, la povertà ad
essere tenuta in conto di disonore, l'integrità ad essere ritenuta malevolenza.
Dunque, dopo le ricchezze, la lussuria, l'avidità insieme con la superbia invasero i giovani;
rapinavano, dissipavano, stimavano poco i propri beni, desideravano quelli altrui, sovvertivano
il senso dell'onore e della pudicizia, le cose umane e divine; non avevano nessun scrupolo, né
moderazione. [...] 13. Per essi (i privati cittadini) mi pare che le ricchezze fossero divenute un
trastullo; infatti si affrettavano a sperperarle vergognosamente invece di investirle
onestamente. Né con minore violenza li aveva presi la libidine dello stupro, della gozzoviglia e
di altri piaceri; uomini soggiacevano in atti di femmina, donne facevano scempio d'ogni
pudore; per ingozzarsi frugavano dovunque in terra e in mare; dormivano prima di aver sonno;
non aspettavano la fame, la sete, né il freddo, né la stanchezza, ma con raffinata mollezza ne
prevenivano l'arrivo. Tutto ciò, dissipato il patrimonio, stimolava la gioventù al delitto: gli
animi ingolfati nei vizi, non resistevano facilmente alle passioni; perciò con tanta maggior
profusione si abbandonavano al guadagno e allo sperpero
(De Catilinae coniuratione, 12- 13)
Quanto ai rimedi, Sallustio auspica la fine del "regime dei partiti" (mos partium et
factionium) e l'avvento di un potere super partes, quello di Cesare, che dia corpo ad
un'opera di riordinamento dello stato e di rinsaldamento delle sue strutture
sociali. Oltre a ristabilire la concordia fra i ceti possidenti ("la concordia
ingigantische ciò che è piccolo, la discordia indebolisce le realtà più grandi", Bellum
Iughurtinum, capo. 10, 6), bisogna per Sallustio allargare la base senatoria con
fresche immissioni nell'élite municipale: proprio questo, come sappiamo, fu tra i
principali provvedimenti assunti da Cesare nella sua breve stagione riformatrice.
Le sue dichiarazioni ci mettono di fronte ad uno scrittore moralista, inguaribile
nostalgico delle priscae virtutes e severo censore dei vitia contemporanei: la
disonestà, l'avarizia, l'ottusità bellica, l'incapacità della nobilitas di guardare ai più alti
interessi dello stato. E per rimarcare queste insufficienze contemporanee, Sallustio
mitizza l'età dell'antica respublica, con la sua temperanza di vita (della quale la
Sabina, sua terra d'origine, conserva tracce evidenti), con la sostanziale concordia
tra i cittadini uniti nella lotta contro i nemici esterni, con i sentimenti di
abnegazione, disinteresse, dovere civico che avevano fatto grande Roma.
De Catilinae coniuratione
La prima monografia, dedicata alla coniuratio di Catilina, si sofferma a
rappresentare i mali nascosti di una società divenuta ricca e potente dopo le
vittorie sui nemici esterni (Cartagine in particolare) ma che poi aveva abbandonato
i valori del mos maiorum, che erano alla base di tale successo. Abbandonate, dunque,
quelle basi ideali, la città si era divisa in fazioni e la nobilitas corrotta, invece di
costituire come in passato, la guida sicura dello stato, iniziava a piegarsi a forme di
vera e propria criminalità politica: Catilina è l'incarnazione del pericolo
eversivo che minacciava ormai apertamente la res publica. Catilina viene
descritto da Sallustio come un uomo malvagio, capace di ogni eccesso e di ogni
misfatto. La condanna morale nei suoi confronti è netta e senza appello, appena
mitigata dalla giustificazione che l'incitamento al male veniva dai costumi
corrotti della città.
Catilina, nato da nobile famiglia, fu di grande forza sia dell'animo che del corpo, ma di indole malvagia e
depravata. A questo fin dalla giovinezza furono gradite le guerre civili, i massacri, le rapine, la discordia
civile, e lì esercitò la sua età matura. Il corpo era tollerante alla fame, al freddo, alla veglia, più di quanto
possa essere credibile per chiunque. L'animo era temerario, subdolo, incostante, simulatore e
dissimulatore di qualsiasi cosa, desideroso dell'altrui, prodigo del proprio, focoso nei desideri; aveva
abbastanza eloquenza, ma poca saggezza. L'animo mutevole desiderava sempre cose smoderate e
troppo alte. Dopo la dittatura di Silla lo aveva occupato il massimo desiderio di impadronirsi dello stato;
e non gli importava per niente con quali mezzi conseguisse questa cosa, pur di procurarsi il regno. Il suo
animo impetuoso era agitato sempre di più di giorno in giorno dalla mancanza di patrimonio familiare e
dalla consapevolezza dei delitti, entrambe le quali cose egli aveva accresciuto con quelle arti che ho
ricordato in precedenza. Inoltre lo incitavano i costumi corrotti della cittadinanza, che i mali peggiori e
diversi tra di loro - ovvero l'amore per il lusso e l'avidità - tormentavano. L'argomento stesso sembra
esortarmi, poiché la circostanza mi ha fatto ricordare dei costumi della città, a ritornare indietro e a
descrivere con poche parole le istituzioni degli antenati in pace e in guerra, in che modo abbiano
governato lo stato e quanto grande l'abbiano lasciata, e come essendo mutato poco per volta sia
diventato da bellissimo e ottimo, pessimo e scelleratissimo.
De Catilinae coniuratione, 5
La critica ha coniato per questa celebre pagina la formula di "ritratto paradossale": un
espediente letterario che consiste nel disegnare fisionomie vigorose, dotate di
tutte le virtù tipiche della mentalità romana (audacia, energia, capacità di
leadership), ma in cui esse sono poste al serivio di vizi altrettanto eccezionali.
Nel capitolo 15 lo scrittore ritornerà sulla fisionomia di Catilina, notando come il male
morale che lo ha invaso, giunga a stravolgerne i lineamenti. Il personaggio si presenta
con il colorito esangue, gli occhi cattivi, l'andatura a scatti.
Un altro "ritratto paradossale" sarà quello di Sempronia, la perversa rivoluzionaria,
"che spesso aveva compiuto cattive azioni con un'audacia da uomini". Madre del
cesaricida Decimo Giunio Albino, aveva partecipato alla congiura, perché aveva concesso
la sua casa perché si potessero incontrare i capi della cospirazione e i legati degli
Allobrogi, una popolazione gallica che si voleva coinvolgere nella congiura. Sallustio le
dedica un ritratto così esteso e curato per offrire il ritratto esemplare di una donna
moderna, libera e spregiudicata, che nel rinnegare totalmente i valori della
tradizione, è una perfetta interprete del suo tempo.
Ma tra questi vi era Sempronia, che spesso aveva commesso molte azioni di virile
audacia. La fortuna le aveva dato tutto: la nascita, la bellezza, il marito e i figli; era
istruita nelle lettere greche e latine, nel suonare la cetra e nel ballare in maniera più
raffinata di quanto fosse necessario per una donna onesta, e inoltre in molte altre cose
che sono strumenti di dissolutezza. Ma per lei furono sempre gradite tutte le cose più del
decoro e del pudore; tu non avresti potuto capire a cosa tenesse di meno, se al denaro o
al buon nome; la libidine era così ardente (lubido adcensa) che ricercava gli uomini più
spesso di quanto fosse cercata da loro. Di regola, mancava di parola, non pagava i
debiti, e le era accaduto di essere stata complice di delitti; la depravazione e il bisogno
l'avevano fatta cadere sempre più in basso. Eppure, non mancava d'intelligenza: era in
grado di comporre versi e battute di spirito, sapeva esprimersi con modestia, con garbo o
sfrontatezza; insomma, in lei c'erano molta arguzia e molta grazia.
A battaglia finita, avresti ben potuto vedere quanto ardimento e forza d'animo vi fossero
nell'esercito di Catilina. Infatti, quasi tutti coprivano, con il proprio corpo, quel posto che da vivi,
combattendo, avevano occupato. Soltanto pochi, che stando al centro erano dispersi dalla
coorte pretoria, erano caduti un po' più lontani, ma tutti feriti al petto. Quanto a Catilina. fu
trovato lontano dai suoi, tra cadaveri nemici: respirava ancora un poco, e mostrava sul volto la
fierezza d'animo che sempre aveva avuto da vivo
Oltre ai ritratti dei protagonisti, l'altro punto di forza della prima monografia sallustiana è data
dalla pregnanza dei suoi excursus storici, volti a ricercare le cause dell'attuale crisi. Il punto
decisivo di svolta è da collocare nella distruzione di Cartagine nel 146 a.C.: fu questo
l'evento che segnò l'esaurimento del metus hostilis, e che acutizzò da una parte ambitio e
avaritia, dall'altra il concentrarsi dell'aggressività verso gli avversari politici interni. In
realtà il De Catilinae Conurationae a questo tema del metus hostilis accenna appena, attribuendo anzi
il peso preponderante dell'involuzione alla fortuna: saevire fortuna ac miscere omnia coepit.
L'argomentazione sarà poi ampiamente ripresa nel Bellum Iughurtinum e nelle Historiae, declinato
come metus punicus.
Il Bellum Iugurthinum
Questa seconda opera prende in esame la guerra condotta da Roma, negli anni tra il
111 e il 105 a.C., contro il re numida Giugurta. Quella contro Giugurta fu, a detta di
Sallustio, la prima occasione in cui "si osò andare contro l'insolenza della nobiltà". Gli
esponenti della classe romana, infatti, inizialmente inviati a combattere contro Giugurta,
erano stati corrotti a stipulare una pace vantaggiosa dal re Numida, sconfitto da Mario solo
grazie al tradimento di Bocco, il re della Mauritiana, inzialmente suo alleato.
Anche nella seconda monografia, lo storico si concentra su un'epoca precedente, in un
movimento di origine del male, che potrà essere vinto se e solo se ne siano strappate le
radici. A tinte fosce Sallustio dipinge lo stato di corruzione in cui versava l'aristocrazia
romana di qualche decennio prima: qui, a suo giudizio, deve essere rintracciata l'origine
della svogliata condotta della guerra e l'origine dei mali della res publica. Accanto
alla prima vittoriosa resistenza dei populares, si delinea nell'opera quella radicalizzazione
dello scontro politico nelle due opposte fazioni che avrebbe condotto alle successive
fasi della crisi istituzionale, della guerra civile fra Mario e Silla, alla coniuratio capeggiata da
Catilina, fino al conflitto generalizzato fra Cesare e Pompeo.
[41,1] Del resto da qualche anno a Roma era invalso l’uso delle lotte tra i partiti e gruppi di potere: da esse derivò il
malcostume. Vi contribuirono la pace, il benessere, al quale gli uomini tengono più d’ogni altra cosa; [2] laddove prima
della distruzione di Cartagine popolo e Senato si dividevano il governo della Repubblica con misura, con
moderazione e tra i cittadini non esisteva competizione di gloria né di potere, la paura dei nemici teneva il
popolo sul retto cammino. [3] Ma quando quel terrore cadde dagli animi, prosperarono i vizi che il benessere favorisce
e cioè la sfrenatezza e l’arroganza, [4] sì che quella quiete che nei momenti difficili avevano tanto desiderata, quando
l’ebbero ottenuta, si rivelò più dolorosa e più acerba. [5] E infatti i nobili incominciarono a servirsi della loro autorità, il
popolo, a sua volta, della libertà, per soddisfare ciascuno le proprie passioni: non facevano che profittare, rubare,
saccheggiare; tutto quel che c’era divenne oggetto di contesa fra due parti opposte e la Repubblica che stava
nel mezzo fu dilaniata. [6] I nobili erano più forti perché più compatti; la plebe, disunita, dispersa, pur
essendo più numerosa, aveva minor potere; [7] sia in pace, sia in guerra, dipendeva tutto da un gruppo dominante.
Erano sempre gli stessi a disporre dell’erario, delle province, delle magistrature, degli onori, dei trionfi. Sul popolo pesava
la miseria, incombeva sul popolo l’obbligo delle armi, ma le prede fatte in guerra se le dividevano in pochi, quelli che
comandavano. [...] [9] la cupidigia, stimolata dall’esercizio del potere, non conobbe limiti né pudore, si diffuse
ovunque, profanò, devastò ogni luogo, non vi fu più nulla che ispirasse rispetto o apparisse sacro, sino a che
l’avidità stessa fu causa della sua rovina. [10] E infatti quando tra i nobili vi fu chi antepose la vera gloria a un
potere iniquo, la popolazione incominciò ad agitarsi e la discordia civile scoppiò simile ad un terremoto
Bellum Iughurtinum, 41, 1-10
Le Historiae
Dovevano costituire l'opera più vasta di Sallustio, che vi ripristinò la tradizionale scansione
annalistica. Purtroppo però di questa terza e più vasta impresa storiografica di Sallustio,
incentrata sugli anni che vanno dalla morte di Silla alla vittoria di Pompeo contro i pirati
(78-67 a.C.), restano solo frammenti, seppur significativi. Tra i discorsi, spicca quello di Lepido
contro il sistema di malgoverno dei sillani. Tra le lettere, ha notevole rilievo l'epistola che
Sallustio immagina scritta da Mitridate, re del Ponto, al re dei Parti, Arsace XII, e che dà voce
alla protesta dei provinciali contro il sistema di dominio romano.
Ma il quadro generale che appare dall'opera è quello di una crisi ormai irreversibile. Sulla
scena si avvicendano ormai solo avventurieri e corrotti, in un clima di disfacimento totale.
Ormai, dopo le Idi di Marzo e la morte di Cesare, non erano più pensabili per Sallustio
attese o progetti di riscatto. La sua ammirazione va dunque a quei ribelli che, come
Sertorio, postosi a capo di un regno indipendente nella penisola iberica, contestano
apertamente le istituzioni repubblicane, mettendosi in luce grazie al loro valore e
non a manovre demagogiche.