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SALLUSTIO STORICO

DELLA CRISI DI ROMA

Crispo Caio Sallustio nasce nell’86 a.C. in Sabina, da famiglia plebea di agiata
condizione e legata alla nobilitas del luogo; dopo i 20 anni arriva a Roma e
viene coinvolto nelle lotte civili del I secolo. Dopo il 44 abbandona la vita
politica e si dedica alla scrittura delle vicende che hanno segnato la crisi
della Repubblica romana.

Compì il cursus honorum, divenendo prima questore (54), poi tribuno della
plebe (52) ed infine senatore (51). Nel 50 viene cacciato dal Senato "per
indegnità morale"; pare tuttavia che si sia trattata di una vendetta politica
messa in atto da parte dell'oligarchia senatoria. Partecipò alla guerra civile del
49 a.C. tra Cesare e Pompeo, schierato tra le file cesariane. Dopo la sconfitta
di Pompeo, Cesare lo ricompensò per la sua fedeltà conferendogli la pretura,
riammettendolo in Senato e nominandolo governatore della provincia
dell'Africa Nova. Nuove accuse di concussione compromisero la sua posizione
politica e, in seguito all'uccisione di Cesare, si ritirò dalla vita politica e si
dedicò alla stesura di opere a carattere storico, in particolare le due
monografie De Catilinae coniuratione e Bellum Iugurthinum, le prime
della storiografia latina, composte tra il 43 e il 40, e delle Historiae,
un'opera di tipo annalistico iniziata verso il 39 e rimasta incompiuta.
Sposò Terenzia, l’ex moglie di Cicerone.

SALLUSTIO GIUSTIFICA LA SUA SCELTA DI DEDICARSI ALLA


STORIOGRAFIA

Sallustio, nel proemio delle sue opere, spiega le motivazioni che lo hanno
spinto a dedicarsi alla storiografia; all’epoca di Sallustio le attività intellettuali
(come appunto la storia) sono ancora viste con sospetto, come un qualcosa
che non deve intralciare la vita politica, ovvero l’unico ambito in cui l’uomo può
trovare la sua più nobile e concreta realizzazione. Gli studi filosofici o poetici
possono andar bene essere accettati come “attività del tempo libero” (otium) o
per ottenere una preparazione umana atta alla formazione di un buon uomo
politico (come in Cicerone), ma in sé e per sé non hanno valore per il civis
romanus.

La scelta di dedicarsi alla storiografia ha però anche una matrice


autobiografica: dopo il ritiro alla vita privata in seguito all’accusa di
consussione, si sente spinto dal duplice intento di giustificare il proprio ritiro
dalla vita pubblica e di nobilitare il proprio operato, che come abbiamo visto
non doveva essere stato al di sopra di tutte le critiche.

Dal proemio del De coniuratione Catilinae:

È bello giovare allo Stato; anche non è disdicevole il bene esprimersi, è lecito
acquistare fama in pace o in guerra; molti hanno ottenuto gloria operando,
molti narrando le imprese altrui. Quanto a me, sebbene non pari gloria segua
chi scrive e chi compie le imprese, tuttavia mi sembra oltremodo arduo
scrivere storie: primo perché bisogna equiparare le parole ai fatti, secondo
perché, nel riprovare i delitti, i più riterranno le tue parole dettate da
malevolenza, e nel narrare il grande valore e la gloria dei buoni, ognuno
accoglierà di buon animo ciò che crede di poter agevolmente operare, ma ciò
che è al di sopra crederà falso come parto di fantasia.
Ora, fin da giovane, come i più, fui tratto da ambizione alla vita pubblica, e ivi
incontrai molte avversità, poiché invece della modestia, della parsimonia, del
valore, regnavano sfrontatezza, prodigalità, avidità. Sebbene il mio animo
disprezzasse tutto ciò, inesperto tuttavia fra tanti vizi, la mia fragile età,
sedotta dall'ambizione, veniva mantenuta in un clima di corruzione, e sebbene
dissentissi dai pravi costumi degli altri, tuttavia la medesima cupidigia di gloria
mi tormentava esponendomi come gli altri alla maldicenza e all'invidia.

Dunque, allorché l'animo trovò posa fra tante tribolazioni e pericoli, e decisi di
trascorrere il resto della mia vita lontano dalle cure pubbliche, non pensai di
consumare un tempo prezioso nell'inerzia e nella pigrizia, né spenderlo
dedicandomi all'agricoltura o alla caccia, attività da schiavi; ma tornato alla
mia passione d'un tempo da cui mi aveva distolto la mala ambizione, decisi di
narrare le gesta del popolo romano per episodi, così come mi risultavano
degne di memoria, tanto più che avevo l'animo scevro da speranze, timori,
passioni politiche.

Dal proemio del Bellum Iugurthinum:

Ma fra queste attività, le magistrature e i comandi militari, insomma ogni


forma di partecipazione alla vita pubblica, non mi sembrano in alcun modo da
desiderare in questi tempi, perché le cariche onorifiche non vanno ai più
meritevoli e neppure quelli che le hanno ottenute con l'intrigo sono per questo
più sicuri o più onorati. Governare, infatti, la patria e la famiglia con la
violenza, ammesso che riesca e valga a frenare gli abusi, non è impresa priva
di rischi, soprattutto perché ogni rivoluzione è foriera di stragi, esili e altre
violenze. Impegnarsi poi in sforzi vani e in cambio della propria fatica ottenere
nient'altro che odio, è vera follia, a meno che non si sia dominati dalla voglia
ignobile e rovinosa di sacrificare alla potenza di pochi la propria dignità e la
propria libertà.

Del resto, fra le altre attività intellettuali, di particolare utilità è da considerarsi


la rievocazione degli avvenimenti del passato. Penso, peraltro, di non dovermi
soffermare sulla sua importanza, dato che già molti ne hanno parlato; non
voglio, poi, che si pensi che proprio io mi metta a esaltare, per vanità, i meriti
della mia fatica. Eppure non mancheranno, credo, coloro che chiameranno ozio
un'occupazione nobile e importante come questa, dal momento che ho deciso
di vivere lontano dalla politica: e saranno senza dubbio quei tali che ritengono
attività estremamente importanti rivolgere saluti alla plebe e ingraziarsela con
banchetti. Ma se si considereranno in quali tempi mi toccarono le cariche, a
quali uomini furono negate e che razza di gente mise poi piede in Senato,
certamente riconosceranno che ho cambiato il mio modo di pensare a ragion
veduta più che per viltà e che questo mio ozio gioverà alla repubblica più
dell'affaccendarsi di altri. Quinto Massimo, Publio Scipione e altri eminenti
personaggi della nostra città erano soliti affermare, come più di una volta ho
udito narrare, che, osservando i ritratti degli antenati, sentivano accendersi nel
loro animo un vivissimo entusiasmo per la virtù. Certo né quella cera né quelle
fattezze celavano in sé tanta forza: era il ricordo delle antiche gesta che
teneva desta tale fiamma nel cuore di quegli egregi uomini e non
permetteva che si spegnesse prima che il loro valore avesse eguagliato
la fama e la gloria dei loro antenati. Ma nell'attuale situazione di
decadenza, chi c'è fra tutti che gareggi con i suoi antenati non per ricchezza e
lusso, ma per onestà e operosità? Anche gli "uomini nuovi", che prima erano
soliti superare i nobili in virtù, ormai si aprono la strada alle cariche militari e
civili più con intrighi e con aperte rapine che con mezzi onesti: quasi che la
pretura, il consolato e tutte le altre cariche di questo tipo siano nobili ed
eccellenti di per sé e non vengano invece giudicate secondo i meriti di coloro
che le ricoprono.

SALLUSTIO GIUSTIFICA LA SCELTA DELL’ARGOMENTO

Nel De Coniuratione Catilinae:

…decisi di narrare le gesta del popolo romano per episodi, così come mi
risultavano degne di memoria

Dunque narrerò in breve, con quanta più verità potrò, la congiura di


Catilina; poiché tale fatto stimo sopra tutti memorabile sia perché quel
piano criminoso non aveva precedenti sia perché mai si era avuta una
minaccia così grave per lo Stato.

Nel Bellum Iugurthinum:

Intendo narrare la guerra combattuta dal popolo romano contro il re dei


Numidi Giugurta; in primo luogo perchè essa fu lunga, sanguinosa e
dall'esito incerto; poi perchè allora per la prima volta si fece fronte
all'arroganza dei nobili. Questo conflitto, che sconvolse leggi umane e
divine, giunse a tale follia, che soltanto la guerra e la devastazione
dell'Italia posero fine alle discordie civili.

Bellum scripturus sum, quod populus Romanus cum Iugurtha rege Numidarum
gessit, […] quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam itum est.

LE CAUSE DELLA CRISI DI ROMA


In entrambe le opere Sallustio traccia un breve excursus della storia di Roma,
per ricercare le cause della crisi della Repubblica.

Nel De Coniuratione Catilinae:

Roma antica:

La città di Roma, secondo la tradizione, ebbe per fondatori e primi abitanti i


Troiani, che vagavano in incerte sedi, profughi sotto la guida di Enea,
insieme con gli Aborigeni, popolo agreste, senza leggi né magistrati, libero e
indipendente. Questi, dopo che si raccolsero fra le stesse mura, diversi di
razza, di lingua, di costumi, appare incredibile ricordare con quanta rapidità si
fondessero: così, in breve tempo, la concordia di una turba dispersa e
nomade fece una città. Ma dopo che il loro Stato si accrebbe di cittadini, di
costumi, di terre, e apparve prospero e vigoroso, allora, come per lo più
accade nelle cose umane, dalla ricchezza sorse l'invidia. Allora re e popoli vicini
sperimentarono la guerra: pochi degli amici portarono aiuto; gli altri atterriti si
tenevano lontano dai pericoli. Ma i Romani, sempre attivi in pace e in guerra,
sempre in moto, sempre pronti, si esortarono a vicenda, affrontarono il
nemico, con le armi difesero la libertà, la patria, la famiglia. Poi, respinto con il
valore il pericolo, portavano aiuto ad alleati e ad amici, e con l'accordare, più
che con il ricevere benefici, si guadagnavano le amicizie. Avevano un governo
legittimo, il capo aveva titolo di re. A vantaggio dello Stato consultavano
uomini scelti, di cui il vigore fisico era indebolito dagli anni, ma l'ingegno valido
per la saggezza: questi, per età e somiglianza di ufficio, erano chiamati
«padri». Poi, quando il potere regio, sorto in principio per conservare la
libertà e ingrandire lo Stato, degenerò in una superba tirannide, mutarono
sistema di governo, si diedero due capi che avessero potere annuale: in tal
modo pensavano che l'animo umano non potesse più insolentire senza freni(…)

Dunque i buoni costumi prosperavano in pace e in guerra: v'era


massima concordia, nessuna avidità, il giusto e l'onesto valevano
presso di loro non più per legge che per natura. Liti, discordie, rivalità
rivolgevano contro i nemici; i cittadini non contendevano tra loro se non per la
gloria. Nei sacrifizi agli Dèi erano generosi, in casa parsimoniosi, fedeli con gli
amici. Con queste due qualità, l'audacia in guerra, l'equità in pace
reggevano se stessi e lo Stato. Di ciò ho queste due prove inconfutabili: in
guerra punivano più severamente coloro che combattevano il nemico senza
averne ricevuto l'ordine, o richiamati indietro avevano tardato a uscire dalla
battaglia, piuttosto che i disertori o i battuti che avevano lasciato il posto;
invece in pace esercitavano il comando più con la bontà che con il timore, e
ricevuta un'offesa preferivano perdonare che punire.

Ma come con travaglio e giustizia lo Stato crebbe, grandi re furono domati in


guerra, nazioni barbare e grandi popoli furono sottomessi con la forza,
Cartagine rivale di Roma perì dalle fondamenta, aperti ai vincitori tutti
i mari e le terre, la fortuna cominciò a incrudelire e a rimescolare tutto.
Quelli stessi che avevano sopportato travagli e pericoli, situazioni incerte e
aspre, trovarono nella quiete e nelle ricchezze, beni fino allora desiderabili,
peso e miseria. Crebbe la cupidigia, prima di danaro, poi di potenza: ciò
fu, per così dire, alimento d'ogni male.

Infatti l'avidità sovvertì la lealtà, la probità, i buoni costumi; in luogo di essi


insegnò la superbia, la crudeltà, trascurare gli Dèi, avere tutto per venale.
L'ambizione spinse molti a divenire mendaci, ad avere una cosa sulle labbra,
un'altra chiusa nel cuore, far conto dell'amicizia e dell'inimicizia non del merito,
ma dell'utile, essere buoni in volto più che nell'animo. Queste iatture dapprima
crebbero lentamente, e furono talvolta punite; poi, quando il contagio dilagò a
guisa di pestilenza, la città fu sconvolta, il governo, prima sommamente giusto
e buono, diventò crudele e intollerabile. (…)

Ma dopo che Silla, conquistato con le armi il potere, da buoni inizi riuscì a
malvagità, tutti si diedero a rapine, a ruberie, a desiderare chi una casa, chi
una fattoria, e i vincitori a non avere né misura né moderazione, a compiere
contro i cittadini azioni turpi e crudeli. A ciò aggiungi che Silla, per rendersi
fedele l'esercito che aveva guidato in Asia, contro il costume degli avi lo aveva
tenuto nelle mollezze e nel lusso eccessivo. Luoghi ameni e deliziosi avevano
facilmente ammorbidito nell'ozio l'animo fiero dei soldati. (…)

Dopo che le ricchezze cominciarono ad essere in onore, e la gloria, il potere, la


potenza a seguirle, il valore cominciò a infiacchirsi, la povertà ad essere tenuta
in conto di disonore, l'integrità ad essere ritenuta malevolenza. Dunque, dopo
le ricchezze, la lussuria, l'avidità insieme con la superbia invasero i giovani;
rapinare, dissipare, stimare poco il proprio, desiderare l'altrui, senza
distinzione vergogna e pudicizia, promiscui l'umano e il divino, nulla avere di
ponderato e di moderato. (…)

In una città così grande e corrotta, Catilina, ciò che era facilissimo a farsi,
raccoglieva intorno a sé tutti i vizi e i delitti come guardie del corpo. (…)

Ma soprattutto egli ricercava l'intimità dei giovani: i loro animi ancora teneri e
malleabili per l'età si lasciavano facilmente prendere nell'inganno. Infatti,
secondo la passione di cui ciascuno ardeva per i suoi anni, agli uni procurava le
ganze, ad altri acquistava carri e cavalli, infine non badava a spese né al suo
onore purché se li rendesse soggetti e fedeli.

Nel Bellum Iugurthinum:


Con il Bellum Iugurthinum, Sallustio si prefigge di continuare la propria
inchiesta sulle cause della corruzione dello stato romano iniziata nel De
Catilinae coniuratione. Per questo, l'autore risale ancora più indietro del tempo,
ricostruendo il primo episodio storico in cui la corruzione della nobiltà ha
determinato un danno allo stato, cioè prolungando una guerra altrimenti
destinata a durare poco. Tutta l'opera è infatti centrata sul tema della
corruzione della nobiltà: il tema portante viene infatti esplicitamente dichiarato
dall'autore nell'introduzione (capitolo 5) e in seguito (cap. 8):

In quel tempo nel nostro esercito v'erano molti, sia "uomini nuovi" che nobili, i
quali apprezzavano assai più le ricchezze della rettitudine e dell'onestà,
influenti in patria, potenti presso gli alleati, famosi più che stimati. Questi
infiammavano l'animo già tutt'altro che umile di Giugurta, promettendogli
spesso che, se fosse venuto a mancare il re Micipsa, il regno di Numidia
sarebbe toccato a lui solo: d'altronde egli aveva tutte le qualità necessarie e a
Roma tutto era in vendita.

Intendo narrare la guerra combattuta dal popolo romano contro il re dei


Numidi Giugurta; in primo luogo perché essa fu lunga, sanguinosa e
dall'esito incerto; poi perché allora per la prima volta si fece fronte
all'arroganza dei nobili. Questo conflitto, che sconvolse leggi umane e
divine, giunse a tale follia, che soltanto la guerra e la devastazione
dell'Italia posero fine alle discordie civili. Ma prima di iniziare questa
narrazione, mi rifarò un po' indietro, perché il complesso degli avvenimenti
risulti più chiaro e comprensibile.

L’excursus sulla riforma dei Gracchi:

Tra il capitolo 41 e 42 si apre un secondo excursus storico dedicato all'epoca


dei Gracchi. Secondo una lettura moraleggiante più accentuata che nell’opera
precedente, Sallustio vede nel declino dei costumi la causa principale
della crisi della Repubblica: al tempo delle origini dello Stato a Roma vigeva la
pace sociale, dal momento che non c'erano molte ricchezze e la città era
minacciata da nemici potenti (è la teoria del cosiddetto metus hostilis, il
“timore del nemico” che stimola il valore). Ma dopo la vittoria nelle guerre
puniche e l'afflusso di ingenti ricchezze nelle casse romane, la nobiltà secondo
l’autore è caduta preda dell'avidità, mentre il popolo si è impoverito a causa
della lunghezza del servizio militare. La ricostruzione del periodo dei Gracchi
vuole così rintracciare le radici dello scontro intestino (il  os partium et
factionum) che condiziona l’andamento della guerra contro Giugurta.

Prima della distruzione di Cartagine, il popolo e il senato di Roma governavano


insieme la repubblica in armonia e con moderazione e i cittadini non
lottavano tra loro per ottenere onori e potere: il timore dei nemici ispirava ai
cittadini una giusta condotta. Ma svanito quel timore dai loro animi,
subentrarono, com'è naturale, la dissolutezza e la superbia, compagne
inseparabili della prosperità. Così quella pace che avevano tanto desiderato nei
momenti difficili, una volta conseguita, si rivelò ancora più dura e crudele.
Infatti la nobiltà trasformò in abuso la propria dignità, il popolo la
propria libertà: ognuno si diede a prendere per sé, ad afferrare, ad
arraffare. Così tutto fu diviso fra due partiti e la repubblica, che era sempre
stata un bene comune, fu fatta a pezzi. Peraltro i nobili erano più potenti per
la loro salda coesione, mentre la forza della plebe disorganizzata e dispersa
nella massa si faceva sentire meno. In pace e in guerra si viveva secondo
l'arbitrio di pochi; nelle loro mani erano erario, province, magistrature, onori e
trionfi. Il popolo era oppresso dal servizio militare e dalla povertà, mentre i
condottieri dividevano il bottino con pochi altri. Intanto i padri e i figli piccoli
dei soldati, se per caso era loro confinante uno più potente, venivano cacciati
dalle loro terre. Così l'avidità, assecondata dal potere, cominciò a propagarsi
ovunque, senza modo né misura, portando con sé corruzione e distruzione
e non avendo rispetto né timore religioso, finché precipitò in rovina da sola.
Infatti, non appena emersero dalla fazione dei nobili alcuni uomini che
preferivano la gloria a una ingiusta potenza, la città si scosse e la lotta civile si
scatenò come un terremoto.
Quando Tiberio e Gaio Gracco, i cui antenati durante la guerra punica e in
altre guerre avevano molto giovato alla repubblica, incominciarono a
rivendicare la libertà della plebe e a svelare le malefatte dell'oligarchia, la
nobiltà, sapendosi colpevole, fu presa dal terrore. Essa si era opposta, perciò,
all'esecuzione dei progetti dei Gracchi, ora per mezzo degli alleati e dei Latini,
ora per mezzo dei cavalieri romani, che si erano allontanati dalla plebe nella
speranza di associarsi ai nobili. Per primo trucidarono Tiberio, alcuni anni dopo
Gaio, che seguiva le orme del fratello, tribuno della plebe il primo, triumviro
per la deduzione delle colonie il secondo; e con loro Marco Fulvio Flacco.
Ammettiamo pure che i Gracchi, per smania di vincere non abbiano saputo
mantenere una condotta moderata. Ma per l'uomo onesto è meglio essere
vinto che trionfare sull'ingiustizia con mezzi violenti. I nobili, dunque,
abusando di quella vittoria secondo il loro capriccio, eliminarono molti cittadini
con le armi o con l'esilio e furono da allora più temuti che potenti. Questa è la
causa che ha provocato spesso la rovina di stati potenti, in quanto gli uni
vogliono prevalere ad ogni costo sugli altri e infierire sui vinti con troppa
crudeltà.

LE CAUSE DELLA GUERRA IN NUMIDIA

L’argomento è la guerra combattuta contro il re di Numidia Giugurta che


impegna Roma dal 111 al 105 a.C. ed è condotta a termine dal console romano
Gaio Mario (112-105 a.C.).
La Numidia era stata alleata di Roma dai tempi della seconda guerra
punica (218-202 a.C.), quando Massinissa si era schierato apertamente contro
Cartagine durante la campagna di Scipione in Africa. Micipsa, successore di
Massinissa, aveva due figli, Aderbale e Iempsale. Insieme a questi aveva
educato nella sua reggia anche il nipote Giugurta, figlio di suo fratello
Mastanabale. Giugurta, dotato di molte qualità, si guadagna ben presto le
simpatie del popolo; Micipsa, temendo per la successione al trono dei figli,
manda il nipote a combattere al fianco di Scipione Emiliano nella guerra di
Numanzia, sperando nella sua morte in combattimento.
Ma le cose vanno diversamente. Giugurta viene apprezzato per le sue
qualità dallo stesso Scipione, e il giovane numida scopre pure il
carattere corrotto della nobiltà romana, facendosi l'idea che “Romae omnia
venalia sunt”. Vedendo vicina la morte, Micipsa, non potendo far niente
contro la popolarità di Giugurta, decide di dividere in parti uguali il regno
tra i due figli e il nipote. Ma Giugurta disattende subito il patto e uccide
Iempsale, mentre Aderbale, sconfitto in battaglia, fugge a Roma cercando
l'appoggio del senato romano. Roma si pone allora come paciere tra i due re
rivali. I problemi sorgono quando gli emissari del senato, corrotti da Giugurta,
favoriscono il nipote di Micipsa in ogni modo.

Nella seconda guerra punica, in cui il comandante cartaginese Annibale aveva


logorato più di ogni altro le forze italiche da quando si era imposta la
grandezza del nome di Roma, il re di Numidia Massinissa, riconosciuto
nostro alleato da quel Publio Scipione che fu poi detto l'Africano per il suo
valore, si era distinto in molte e gloriose azioni di guerra. Perciò, quando
furono vinti i Cartaginesi e fu fatto prigioniero Siface, signore in Africa di un
vasto e potente impero, il popolo romano fece dono al re di tutte le città
e le terre da lui conquistate. Da allora Massinissa fu per noi sicuro e
fedele alleato, ma con la sua vita finì anche il suo impero.

Tra i protagonisti della guerra in Numidia troviamo:


● Giugurta, il giovane dalle ottime virtù ma corrotto dal contatto con la
nobiltà romana, ed abile nello sfruttare le proprie ricchezze per corrompere la
classe senatoria. Nel “ritratto” del prinicipe numida (capitoli 6-8) emerge una
personalità complessa, affascinante nella sua mescolanza di pregi e malvagità,
virtù e perdizione. Giugurta è quindi un personaggio affine a Catilina nel suo
essere un eroe tragico, am con una sostanziale differenza: se nel nobile
romano la corruzione è innata, in Giugurta viene instillata proprio dal contatto
con i suoi futuri nemici.

● Il console Metello, che da un lato è uno dei pochi nobili ancora capaci
di agire per il bene della patria, ma che dall’altro si rivelerà meschino nel
difendere i propri privilegi dimostrandosi contrario alla candidatura al consolato
di Mario.

● Gaio Mario, figura chiave del racconto, incarna la virtù che ha reso
grande Roma e che forse è ancora presente negli strati non aristocratici della
popolazione, da cui Mario proviene Egli diventa infatti il vero salvatore della
patria non solo in occasione della guerra contro Giugurta, ma soprattutto
nell'episodio conclusivo del conflitto contro i Cimbri e i Teutoni, dove non è in
gioco solo il controllo degli interessi romani in Africa, ma la sopravvivenza
stessa della città.

SALLUSTIO E L’ARTE DEL RITRATTO

ANTITESI: CONFLITTO INTERIORE, ASPETTI CONTRARI COMPRESENTI IN UNA


STESSA PERSONALITA’

VIS//INGENIUM

Il ritratto di Catilina: (cap. 5)

Lucio Catilina, di nobile stirpe, fu d’ingegno vivace e di corpo vigoroso, ma


d’animo perverso e depravato. Sin da giovane era portato ai disordini, alle
violenze, alle rapine, alla discordia civile, in tali esercizi trascorse i suoi giovani
anni. Aveva un fisico incredibilmente resistente ai digiuni, al freddo, alle veglie,
uno spirito intrepido, subdolo, incostante, abile a simulare e a dissimulare.
Avido dell’altrui, prodigo del suo; ardente nelle passioni, non privo di
eloquenza, ma di poco giudizio; un animo sfrenato, sempre teso a cose
smisurate, incredibili, estreme. Finito il dispotismo di Silla, fu preso dalla
smania di impadronirsi del potere; pur di raggiungerlo, non aveva scrupoli;
quell’animo impavido era turbato ogni giorno di più dalla penuria di denaro e
da cattiva coscienza, rese più gravi dalle male abitudini cui ho accennato. Lo
spingeva inoltre su quella china la corruzione della città, nella quale
imperavano due vizi diversi ma parimenti funesti, lusso e cupidigia.
Il ritratto di Giugurta:

Costui, divenuto un giovane prestante e di bell'aspetto, ma soprattutto


ragguardevole per intelligenza, non si lasciò corrompere dai piaceri e dall'ozio,
ma, secondo gli usi della sua gente, cavalcava, lanciava il giavellotto,
gareggiava con i coetanei nella corsa: e, benché eccellesse su tutti, a tutti,
nondimeno, era caro. Dedicava, inoltre, la maggior parte del suo tempo alla
caccia, era il primo o fra i primi a colpire il leone e simili fiere: quanto più
agiva, tanto meno parlava di sé. Dapprima Micipsa era stato lieto di tutto
questo, pensando che dal valore di Giugurta sarebbe venuta gloria al suo
regno; tuttavia, vedendo il prestigio di quel giovane aumentare sempre più,
mentre lui era già anziano e i suoi figli ancora piccoli, cominciò a preoccuparsi
gravemente di tale fatto, rivolgendo in sé mille pensieri. Lo atterriva la natura
umana, avida di potere e pronta a soddisfare le proprie passioni, e inoltre
l'opportunità della sua età e di quella dei suoi figli, adatta a traviare, con la
speranza di un facile successo, anche gli uomini meno ambiziosi; lo atterriva,
infine, il forte affetto dei Numidi per Giugurta, che gli faceva temere
l'insorgere di una rivolta o di una guerra civile, se avesse ucciso con l'inganno
un tale uomo.

A queste doti Giugurta univa un animo generoso e un'intelligenza vivace,


grazie a cui aveva stretto una familiare amicizia con molti Romani.

Discorso di Mario:

http://online.scuola.zanichelli.it/perutelliletteratura/files/2010/01/traduzioni_s
allustio_t20.pdf

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