Homo Faber Fortunae suae: l’uomo è l’artefice del proprio
destino. Questa frase, ripresa dal mondo classico, rappresenta la nuova concezione che si va instaurando tra la popolazione dell’Umanesimo e del Rinascimento.L’uomo, secondo questa concezione, “è come un dio terreno”, riprendendo le parole dello storico Eugenio Garin, ovvero è creatore e signore del proprio mondo. Emerge quindi in questo periodo la centralità dell’uomo come forza attiva e trasformatrice: mentre il Medioevo riteneva che l’uomo avesse un destino ultraterreno, cioè fosse parte di un ordine cosmico prestabilito, per il Rinascimento l’uomo deve costruire e conquistare il proprio posto nell’universo. Questa nuova visione dell’uomo è data anche dalla nascita di un nuovo genere di intellettuali. Nel Medioevo essi erano uomini di Chiesa o ad essa legati, che si ponevano il compito di preservare e di tramandare gli insegnamenti della religione al fine di assicurare la salvezza delle anime e stabilire i precetti adatti all’ordine politico e civile; il loro punto di riferimento principale era la tradizione ecclesiastica formatasi nel periodo tardoantico e agli inizi del Medioevo. La figura di intellettuale che si viene a creare nel Rinascimento è radicalmente diversa. Gli intellettuali del Rinascimento si consideravano autonomi e vedevano in tale condizione un valore da coltivare e da difendere. La loro attività fu resa possibile in maniera essenziale dalla protezione accordata da sovrani, grandi nobili, e anche papi caratterizzati da un nuovo spirito di mondanità. Costoro, favoriti anche da una rinnovata prosperità economica e sociale, misero a disposizione degli intellettuali ingenti risorse economiche ottenendone in cambio prestigio. E sicuramente questa nuova e forte spinta data alla cultura da parte dei grandi signori permise agli studiosi del tempo di approfondire, studiare e riscoprire ideali e concetti fondamentali allo sviluppo di una nuova mentalità, caratterizzata dalla rivalutazione del piacere, della natura e della stessa dignità dell’uomo. Niccolò Machiavelli, con la sua più grande opera, Il Principe, incarna alla perfezione la nuova visione dell’uomo padrone di se stesso, uomo che attraverso le sue opere può decidere di diventare qualunque cosa, seguendo il principio esposto da Giovanni Pico della Mirandola nel “De Hominis Digntate”. Certo, la fortuna influenza le azioni degli uomini in maniera imprevedibile ma gli stessi uomini possono sfruttarla a proprio vantaggio, ed è ciò che Machiavelli enuncia a Lorenzo II de’ Medici nel suo libro. Il principe infatti dovrebbe governare con astuzia e forza, come una volpe e un leone, seguendo il principio esposto dal poeta classico Sallustio, ovvero simulando e dissimulando, senza preoccuparsi dei principi etici e morali . Nonostante questa visione evidentemente pessimistica della vita e della natura umana, è possibile vedere in Machiavelli un’esaltazione della potenza umana, che attraverso l’uso dell’ingegno non ha limiti davanti a sè. Non per forza però questa nuova concezione di uomo deve allontanarsi dalla quella cristiana e Tommaso Moro, come molti altri studiosi cristiani, ha cercato l’anello di congiunzione che legasse indissolubilmente entrambe:
“ Dammi o Signore la grazia di lavorare alla realizzazione delle
cose per cui prego ”
Questa immensa capacità dell’uomo di poter fare qualunque cosa
non è per forza contraria alla visione cristiana della vita: e Tommaso Moro nel suo libro, “Utopia”, lo dimostra alla perfezione. Nel Rinascimento infatti Dio non smette di esistere e in pochi sono quelli che vanno contro la sua autorità, cambia però l’influenza che la Chiesa possiede sull’uomo comune, uomo che smette di essere oppresso dai vincoli morali a cui la Chiesa lo incatenava e che adesso diventa consapevole delle sue potenzialità. Vi è poi chi porta all’estremo la valorizzazione del piacere e del libero arbitrio, creando un mondo dispotico dove tutto è concesso. Luigi Pulci con il suo “Morgante” e ancora prima di lui Francois Rabelais con “Gargantua e Pantagruel” sono delle accese satire, caratterizzate da un forte sarcasmo, che però nascondo la nuova visione dell’uomo nel Rinascimento. Rabelais infatti si pone contro l'ascetismo e il dogmatismo medievale, contro il tentativo di sopprimere gli istinti da parte delle religioni cattolica e protestante, contro le teorie e i procedimenti speculativi di teologi e filosofi.L’ideale è quello di un uomo tollerante e libero, naturalmente buono, e la regola stabilita nell'Abbazia di Thelème ("Fa' quello che vuoi"), riassume la fiduciosa e utopistica aspirazione alla libertà, contrapposta al dogmatismo della cultura ufficiale e alla censura del potere ecclesiastico e politico. L’enorme distanza tra questi ideali e quelli cattolici / protestanti non si esaurirà mai del tutto e sarà sempre motivo di lotte feroci. L’uomo è davvero “faber fortunae suae” ?.