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Alla periferia dell’Impero romano e oltre i suoi confini: i caratteri comuni e le origini dei

cristianesimi orientali (II-IV sec.)

###1. Introduzione: tratti comuni

Il cristianesimo si è diffuso nelle aree periferiche dell’Impero romano o al di là dei suoi


confini, sia in direzione dell’Oriente asiatico sia verso l’Africa settentrionale, in regioni che già da
tempo avevano elaborato una pluralità di culture e le avevano espresse nelle lingue dei gruppi
etnico-sociali locali, e che dall’età ellenistica in poi avevano instaurato una dialettica più o meno
intensa con la civiltà greco-romana, che si esprimeva in greco e in latino. Già la prima fase
dell’ellenizzazione, a seguito dell’impresa di Alessandro Magno (332 a.C.), aveva disseminato il
Vicino Oriente e l’Egitto di abiti mentali, stili di vita, modelli di amministrazione, configurazioni
urbanistiche di origine greca, accolti secondo gradi differenziati di integrazione. La successiva
dominazione romana esercitò la propria influenza non solo nel campo dell’amministrazione, ma
anche in quello del vivere civile e del modo di pensare. Tuttavia il greco continuava a essere diffuso
nel Mediterraneo orientale: pertanto la presenza romana in Egitto dal I sec. d.C. e l’impresa di
Lucio Vero in Mesopotamia nel II sec. debbono essere considerati momenti di una seconda fase di
diffusione dell’ellenismo. Con questa complessa ellenizzazione si trovarono a interagire i sostrati
culturali locali, innescando un altrettanto complesso processo culturale dagli esiti diversificati nelle
varie aree. A tutto ciò fu sensibile l’espansione del cristianesimo in periferia e oltre i confini
dell’Impero: di conseguenza la multiformità fu un carattere distintivo dei fenomeni di
cristianizzazione delle regioni periferiche vicino- e medio-orientali, ma altrettanto, se non più
rilevante fu il tratto comune che segnò il rapporto di questi territori con il cristianesimo, cioè il fatto
che l’evangelizzazione fornì nuovi stimoli al processo già in atto dell’emersione di nuove élites
autoctone in un contesto politico dominato dell’Impero romano e in un ambiente culturale più o
meno ellenizzato.
Alcune novità si affermano infatti tra II e III sec. d.C. con l’attivismo economico dei gruppi
etnici orientali, favorito anche dall’estensione della cittadinanza romana sotto l’imperatore
Caracalla (212 d.C.), e la conseguente rinnovata vivacità della vita municipale. Tale possibilità di
affermazione sociale apertasi per i ceti etnici emergenti è stata intercettata dalle comunità cristiane,
che hanno garantito a questi una posizione di rilievo e di prestigio all’interno non solo della vita
religiosa, ma anche della dirigenza comunitaria. In ambiente persiano, o negli stati satelliti tra i due
grandi imperi, i fenomeni di diffusione del cristianesimo si sono incontrati con comunità giudaiche
vivaci, trovando in esse una sede particolarmente adatta, anche se non unica, alla ricezione del
messaggio. Un altro fenomeno interessante è da notare in questi contesti periferici: l’elaborazione di
lingue letterarie utili all’attività intellettuale, attuata da gruppi di levatura sociale medio-alta, da ceti
nobiliari locali che, pur potendo utilizzare il greco, hanno voluto dotarsi anche di una lingua scritta
intimamente legata alla loro etnia, che meglio ne rilevasse l’identità. Ciò accade o prima o durante
la fase della cristianizzazione: se il siriaco scritto precede la presenza di gruppi cristiani in Osroene
e Adiabene, l’armeno e il georgiano letterario sono certamente da connettersi con l’attività di forti
chiese cristiane nelle regioni caucasiche.
Ciò premesso, in questo capitolo forniremo qualche notizia sulle origini e la crescita del
variegato cristianesimo alla periferia meridionale e orientale dell’Impero romano, nonché nelle
forme statali, piccole e grandi, al di là dei confini, per tutta la fase che precede l’esplosione delle
controversie cristologiche (431 d.C.), ben consci del fatto che, se esso non può essere isolato dal
multiforme cristianesimo greco-latino, nello stesso tempo presenta tratti di insopprimibile
originalità, che avranno una loro rilevanza quando esso entrerà da protagonista nelle lotte religiose
tra i grandi patriarcati. Partiremo da qualche notizia relativa alla Siria, alla Mesopotamia e
all’Egitto: in queste aree infatti l’espansione del cristianesimo ha dato luogo a comunità molto
differenziate già a partire dal II secolo. In un secondo momento prenderemo in considerazione
Armenia, Georgia ed Etiopia, che nei secoli II e III d.C. sono state oggetto di una penetrazione
cristiana sporadica, mentre solo a partire dal IV sec. esibiscono un’evidenza indubbia di
cristianizzazione, nella forma di una conversione verificatasi dall’alto della scala sociale, a partire
dalle case regnanti. Il quadro politico in cui queste prime fasi di sviluppo del cristianesimo hanno
avuto luogo vede il prevalere di due grandi centri di potere: l’Impero romano, con il suo assetto
territoriale vasto e articolato; la Persia, dominata dalla dinastia degli Arsacidi, e poi, a partire dal
224-226 d.C., dai Sasanidi, ideologicamente ispirati all’antico e glorioso impero achemenide e
religiosamente fedeli al mazdeismo, religione dotata di un culto e di un clero destinati a crescere nel
quadro dell’apparato statale e a scontrarsi con il cristianesimo]] .[[[5146]]]

###2. Siria e Mesopotamia

1. L’area geografica di diffusione di gruppi cristiani che si esprimono in aramaico (un


insieme di lingue del ceppo semitico), e in particolare nella varietà chiamata “siriaco”, si estende a
oriente di Antiochia: essa comprende la porzione interna delle provincie della Syria prima e della
Syria secunda, ma soprattutto la Mesopotamia, a partire dalle sue articolazioni regionali
settentrionali di Osroene e Adiabene, con i rispettivi capoluoghi di Edessa e di Nisibi (due città
fondamentali per gli sviluppi della cultura del cristianesimo siriaco), per passare attraverso l’area
della capitale Seleucia-Ctesifonte e giungere fino alle regioni meridionali che si affacciano sul
Golfo Persico. Si tratta di due realtà culturalmente diverse: la Siria è infatti erede di una ricca e
vivace civiltà ellenistica, è sede di fiorenti città, con élites dotate di un forte senso dell’autonomia
municipale; il vasto territorio mesopotamico, invece, presenta una civiltà meno urbanizzata, anche
in ragione della sua peculiare struttura politica, e più resistente alla cultura greco-romana,
caratterizzata da una facies linguistica che vede il greco assumere un ruolo significativo (anche a
livello pubblico), ma soprattutto prevalere le lingue iraniche e semitiche. Tale vasta regione tra I e
III sec. è luogo di continui conflitti e conosce una mobilità estrema dei confini che dividono
l’impero romano dalle formazioni statali di ambito persiano. Tra la fine del II sec. e l’inizio del III
sec., la Mesopotamia, nuovamente contesa dai Parti, diventa romana, destino cui anche l’Osroene
deve aderire dopo un breve periodo di indipendenza. Solo con la sconfitta di Giuliano detto
l’Apostata nel 362 Nisibi ritorna all’interno della Persia. Questa è l’area dove, nonostante il
frazionamento politico e lo stato di guerra continuo, il cristianesimo, nella multiformità dei suoi
movimenti, ha mantenuto maggiore stabilità. Non dobbiamo tuttavia dimenticare i numerosi
spostamenti di cristiani, e anche qualche missione più organizzata, dipanatisi nei secoli sulla via
della seta, verso l’India e verso la Cina, che hanno lasciato tracce più o meno durature del loro
passaggio.
Eusebio di Cesarea si interessa del cristianesimo dell’Osroene fin dal I libro della Storia
delle chiesa (par. 13), quando riporta la leggenda della conversione al cristianesimo della casa
regnante di Edessa, nella persona del re Abgar, per opera di un discepolo di Gesù (Taddeo o Addai),
citandola da un originale siriaco più antico e più breve di quello pervenutoci indipendentemente (V
sec.). Dà inoltre prova di un’attenzione appassionata per i fenomeni cristiani che si manifestano
nella regione, svelando il coinvolgimento dell’Osroene nella controversia pasquale della fine del II
sec. (V,23), o accennando con ammirazione a un intellettuale siriaco come Bardesane di Edessa
(IV,30). Nonostante questo, non sembra provvisto di una documentazione adeguata sul
cristianesimo dell’area mesopotamica, ragione per cui dobbiamo rivolgerci ad altre fonti per
ricostruire per lo meno alcune situazioni di cristianizzazione: epigrafia, archeologia, scritti
eresiologici (ad esempio l’Elenchos, Efrem di Nisibi, Epifanio di Salamina, Teodoro Bar Konai),
testi letterari, i quali in taluni casi costituiscono l’unica traccia dell’esistenza di forme di
cristianesimo taciute dalle fonti tradizionali.
La varietà delle ipotesi di ricostruzione delle origini cristiane nella regione può essere ridotta
a due tendenze maggiori: quella che vede predominante l’influsso della città greca di Antiochia, il
quale avrebbe raggiunto gli ambienti ellenizzanti di Edessa e dintorni; quella che invece insiste su
una missione palestinese o gerosolimitana di carattere più semitico, che avrebbe toccato l’Osroene
ma soprattutto l’Adiabene, luogo della presenza di un vigoroso ebraismo, al quale si era convertita
anche la casa regnante, dotato di un’accademia. Uno sguardo sinottico delle testimonianze non
permette di dirimere la questione, e probabilmente un modello che preveda la poligenesi dei
fenomeni cristiani nella vasta regione rende giustizia della grande varietà di tendenze che si
intravvede dietro le fonti.
Per completare il quadro bisogna aggiungere un’osservazione linguistica: il siriaco appare
per la prima volta non in prodotti letterari cristiani o ebraici, ma nei mosaici e nelle epigrafi funerari
dell’élite non cristiana che ha dominato Edessa dal I sec. d.C. in poi, sia quando era capitale di un
libero stato, sia quando è stata ridotta a colonia romana. Si ricordi quanto abbiamo detto appena
sopra a proposito della volontà dei ceti nobiliari di non occultare, accanto all’ellenizzazione,
un’immagine di sé che conservasse propri elementi identitari come la lingua e la sua espressione
scritta di carattere semitico. Di tale prezioso strumento linguistico, che era a disposizione accanto al
greco, si sono impossessati ebrei e cristiani per dotarsi di una cultura scritta.

2. Primo monumento letterario insigne di quest’area, probabilmente rapportabile a Edessa, è


la traduzione dell’Antico Testamento, chiamata a partire da IX secolo Pešīttā, “la semplice”,
databile tra il I e il III secolo d.C., la cui caratteristica più qualificante è l’esser stata compiuta a
partire da un modello ebraico e non dalla versione greca dei Settenta, come è invece accaduto nelle
altre letterature cristiane orientali. Gli ambienti che ne sono responsabili sfuggono ad una
immediata identificazione: si sono proposti il giudaismo di Edessa o il giudeocristianesimo, di
lontana matrice palestinese; qualche critico ritiene ipotizzabile un’evoluzione e trasformazione degli
ambienti intellettuali responsabili, per cui l’operazione del giudaismo edesseno, marginale rispetto a
quello rabbinico e poco sensibile alle tematiche cultuali legate al tempio, sarebbe stata continuata da
convertiti giudei al cristianesimo ancora capaci di comprendere l’ebraico.
È attribuibile a Taziano, allievo del martire Giustino, giunto in zona siriaca nel 172,
l’iniziativa di scrivere il Diatessaron, un’armonia evangelica (Matteo, Marco, Luca e Giovanni),
non è chiaro se in greco o in siriaco, ricostruibile oggi attraverso citazioni e versioni in varie lingue
antiche. Questa iniziativa aveva una sua netta caratterizzazione ideologica. Sappiamo infatti che
venivano eliminate le genealogie di Gesù, per sottolinearne la provenienza senza mediazioni da
Dio, e che erano particolarmente enfatizzati i passi evangelici compatibili con un accentuato
encratismo. Di segno diametralmente opposto era invece la traduzione dei Vangeli separati,
contemporanea o di poco posteriore, che insisteva sulle genealogie di Gesù, in linea con alcune
preoccupazioni tipiche di ambienti giudeo-cristiani.

3. Questo rapido giro d’orizzonte sulle versioni bibliche fa intuire quale varietà di posizioni
teologiche ed etiche abbia ospitato il cristianesimo di area siriaca, soprattutto in zona edessena.
L’encratismo non è solo tratto caratteristico di Taziano, ma pervade anche tutta la letteratura legata
al nome dell’apostolo Tommaso (Vangelo e Atti), conservata in copto, greco e siriaco, collocabile in
Osroene pur senza prove decisive, dove una protologia in cui l’essere umano è presentato come
unitario e non sessualmente differenziato, costituisce anche il paradigma escatologico; Tommaso
costituisce l’esempio del vero credente, gemello di Gesù il vivente, e quest’ultimo assume in alcuni
casi i tratti tipici della cristologia docetica.
Una cristologia anch’essa alta, centrata su un Cristo rivelatore e salvatore cui l’intimità del
credente desidera conformarsi, espressa in un linguaggio immaginifico ispirato ai Salmi, è illustrata
nelle Odi di Salomone, uno degli insiemi testuali di più difficile datazione e collocazione
ideologica: lo dimostra il fatto che le Odi sono utilizzate da intellettuali distanti come Lattanzio e
l’autore gnostico della Pistis Sophia, e che in siriaco sono trasmesse nell’ambito di manoscritti di
contenuto biblico. Non stupisce che in epoca moderna siano state classificate variamente tra i due
poli estremi del giudeo-cristianesimo e dello gnosticismo.
Una sensibilità spiccata verso l’elaborazione filosofica greca caratterizza Bardesane (154-
222), caposcuola di una corrente intellettuale cristiana fiorita a Edessa tra II e III secolo, connessa
alla corte e destinata nel IV sec. ad essere marginalizzata. A lui o all’autore delle Odi di Salomone è
attribuibile l’iniziativa di comporre versi poetici in lingua siriaca. La sua personalità sfugge a una
classificazione nei termini delle correnti cristiane dell’epoca. Certamente il suo sistema e la sua
etica non sono vicini a quelli prevalente nella Grande Chiesa (Ireneo, Origene), ma nemmeno
contigui allo gnosticismo classico, né all’encratismo della letteratura legata a Tommaso, anzi è tutto
percorso da una polemica contro il marcionismo condotta sulla base di una teologia del logos
coniugata con speculazioni sull’eternità della materia, la quale rifiuta l’opposizione marcionita tra il
Dio dell’Antico Testamento e il Dio “straniero” padre di Gesù Cristo.
L’atteggiamento di polemica esplicita o implicita contro Marcione è stato riconosciuto non
solo negli scritti di Bardesane, ma anche in alcune Odi di Salomone, nella leggenda di Abgar,
nonché nei più tardi autori del IV secolo, Efrem e Liber graduum. Non vi possono essere dubbi sul
fatto che, mentre le sette gnostiche hanno condotto una vita appartata in ambiente siriaco, il
marcionismo abbia costituito una reale sfida agli altri movimenti cristiani.
Dalla parte opposta del ventaglio delle opzioni teologiche si colloca il giudeo-cristianesimo,
rappresentato sia in Osroene, sia nelle Mesopotamia orientale e meridionale. Qui i gruppi di
giudeocristiani battisti fin dal II sec. hanno costituito comunità significative, ispirate al profeta
Elchasai (“la potenza del nascosto”), cui reagiranno dialetticamente i movimenti più tardi come il
mandeismo e il manicheismo.
Il manicheimo è un elemento fondamentale di questo quadro, quello che probabilmente ha
contribuito al rafforzamento dell’identità della Grande Chiesa in tutta l’area, proprio per la
radicalità con cui ha posto il problema del dualismo, del male, delle nature, dell’etica, della chiesa.
Esso nasce nella Mesopotamia sasanide, ma Mani (216-276), secondo la capitale testimonianza
della sua biografia conservata nel Codice manicheo di Colonia, indirizza una lettera anche ai
credenti di Edessa, dove evidentemente intende acquisire proseliti, per convertirli alla religione dei
due principi, la luce e la tenebra.

4. In questo pullulare di iniziative, di maestri, di profeti, dove si colloca la Grande Chiesa,


nucleo della futura ortodossia? L’iscrizione di Abercio costituisce testimonianza principe non solo
della sua diffusione in Asia minore e in altre zone del Mediterraneo, ma anche della sua presenza a
Nisibi, come conferma qualche decennio più tardi il dialogo intitolato Libro delle leggi dei paesi,
attribuibile alla scuola di Bardesane. Per Edessa il Chronicum edessenum presenta un documento
civico in cui si parla del “tempio della chiesa dei cristiani” in relazione ad un’inondazione del 201:
ci si domanda se si tratti di una casa-chiesa del tipo di quella scoperta a Dura Europos, e se essa sia
traccia della presenza di una comunità raccolta attorno ad un vescovo, piuttosto che di gruppi
raccolti attorno a profeti e maestri ai limiti dell’ortodossia. Non esiste una risposta sicura. Certo è
che la leggenda di Abgar, nella sua più tarda versione siriaca, sostiene che un certo Palut di Edessa
sarebbe stato ordinato da un personaggio storico, Serapione vescovo di Antiochia, all’inizio del III
sec. La vera e propria chiesa episcopale di Edessa è stata fatta costruire dal vescovo Qōnā all’inizio
del IV sec. Dunque il monoepiscopato è venuto crescendo di importanza durante il III sec. in
Osroene e probabilmente ha esercitato la sua influenza su Nisibi e la Mesopotamia. Nel IV secolo
esso è la norma in Osroene e Adiabene, le cui sedi episcopali dipendono con ogni probabilità da
quella di Antiochia.
All’inizio del IV sec. nella Persia sasanide sono presenti non solo il modello del
monoepiscopato, ma anche forme di centralizzazione del potere religioso, che si imperniano su una
delle capitali dell’Impero, Seleucia-Ctesifonte, e che si fondano su di un vescovo, Pāpā. Questi,
deposto in un primo tempo da un gruppo di suoi colleghi, viene ristabilito attorno al 329 dai vescovi
“occidentali”, cioè responsabili di diocesi collocate nell’Impero romano vicino ai confini con la
Persia. Va ricordato che la forma dell’episcopato monarchico dev’essere penetrata in Persia non
solo attraverso la via di Edessa, ma anche per il tramite delle deportazioni operate dai persiani
vittoriosi al tempo di Valeriano (260): sappiamo che l’imperatore fu deportato all’interno
dell’impero persiano assieme a una grande massa di antiocheni e dunque anche di cristiani (forse
anche il vescovo Demetriano), ed è del tutto probabile che questi ultimi abbiano rifondato nella
diaspora delle comunità rette secondo un modello molto evoluto dell’episcopato monarchico.
Proprio nei confini di questo impero, mentre in occidente l’era costantiniana apre un periodo
di pace relativa per il cristianesimo, si scatena una persecuzione anticristiana che dura per alcuni
decenni. Di tale persecuzione le Esposizioni di Afraate, scrittore siriaco della metà del IV sec.,
forniscono una sofferta testimonianza. Diventa subito chiaro che il rapporto tra cristianesimo e
potere non cristiano è uno dei grandi problemi nella storia della chiesa di Persia: tale situazione di
minorità contraddistinguerà la medesima chiesa sotto il potere islamico e nel corso delle sue lunghe
e avventurose missioni verso il medio e l’estremo oriente.
La situazione politica ha certamente favorito una progressiva autonomia della Chiesa di
Persia dalle chiese occidentali. La probabile dipendenza da Antiochia non è ricordata esplicitamente
dalla fonti. È invece sottolineata, nella grande raccolta degli atti sinodali siriaci, la presenza di
vescovi “occidentali”, cioè appartenenti all’Impero romano, nei primi sinodi persiani che, all’inizio
del V sec., vanno a sancire l’identità di questa chiesa: con il concilio del 410, svoltosi con il
permesso dell’imperatore Yazdgerd, e promosso da Marutha, che è ad un tempo vescovo di
Maipherkat e ambasciatore dell’imperatore Arcadio presso l’Impero persiano, si ha la formale
accettazione del simbolo e dei canoni di Nicea e la dichiarazione dell’ordine delle provincie
ecclesiastiche persiane, capeggiate da quella di Seleucia-Ctesifonte, dove risiede il vescovo più
importante, definito catholicos; nel 420, in presenza di Acacio, vescovo di Amid (Impero romano),
il concilio dei vescovi persiani accetta il diritto sinodale antiocheno e ribadisce la centralità di
Seleucia-Ctesifonte; il concilio del 424, infine, sottolinea che il vescovo della capitale non deve
avere un riferimento superiore, nemmeno tra i padri occidentali. Con questo la chiesa persiana
dichiara la propria autonomia e libertà nella gestione di propri affari interni. Solo con il passare del
tempo, il vescovo di Seleucia-Ctesifonte aggiungerà al titolo di catholicos quello di “patriarca”.
Un’ultima notazione permette di accennare a un tratto di originalità di questa chiesa. Il
monoepiscopato si diffonde in comunità in cui da tempo è presente un’antica istituzione ascetica, i
bnay qyāmā, espressione che può essere resa con “figli del patto”. Si tratta di gruppi di asceti,
sposati o non sposati, che hanno scelto comunque la via della continenza e della dedizione totale
alla chiesa. Rispetto al monachesimo, che essi precedono di molto, i “figli del patto” propongono
uno stile di vita ascetico in stretto legame con le chiese delle città e dei villaggi. L’ideale dell’unità
antropologica è alla base di questa forma di ascetismo, i cui membri possono definirsi come “unici”
(ihidāyē): unità di vita, non divisa dalle preoccupazioni per il matrimonio e per i figli; unità
psicologica, dovuta alla concentrazione sull’unico fine religioso della vita; unità mistica con
l’Unigenito (ihidāyā), modello a cui conformarsi in tutto. Questo è quanto viene delineato dai testi
siriaci quali le Esposizioni di Afraate, gli Inni di Efrem e il manuale di spiritualità che è il Liber
graduum. Tali gruppi convivono con l’istituzione episcopale, spesso in tensione con essa,
intendendo costituire una sorta di avanguardia, una traccia della situazione escatologica
nell’attualità della chiesa. Con l’affermarsi del monachesimo essi perderanno di importanza, pur
non scomparendo del tutto. [[[15734]]]

###3. L’Egitto e la nascita del copto

1. L’Egitto ellenistico e romano è la regione dove meglio possiamo cogliere la


giustapposizione e poi la fusione culturale tra due etnie diverse, gli egiziani e greci, cui più tardi si
aggiungono i romani. Esso è inoltre il luogo di un’evoluzione tutta particolare del giudaismo, nella
forma del giudaismo ellenistico, la cui eredità viene ricevuta in ambito cristiano anche dopo la
rivolta giudaica del 115-117 d.C. e la sua dura repressione. La storia del cristianesimo egiziano
risente di questa complessa dialettica etnico-culturale. Esso è iniziato in Alessandria per diffondersi
a ondate in tutto l’Egitto, superando le divisioni etniche e linguistiche tradizionali e la dicotomia tra
la grande metropoli e il resto del paese. I primi gruppi cristiani in Alessandria si sono espressi
certamente in greco, ma quando diverse forme di cristianesimo si sono diffuse nell’entroterra
egiziano, essa hanno assunto anche l’elemento linguistico egiziano. Nello stesso tempo, anche le
religioni tradizionali, che definiamo impropriamente pagane, fanno uso anch’esse delle due lingue e
rimangono a lungo praticate nelle due etnie. Solo alla fine del IV secolo possiamo notare che il
rapporto di forze tra cristianesimo e religioni tradizionali si sta capovolgendo a favore del primo.
La quantità di fonti da utilizzarsi è davvero notevole se rapportata a quelle relative al
cristianesimo di altre regioni. Oltre a quelle più tradizionali di tipo storiografico, canonico,
agiografico, omiletico, teologico, conservate in greco e in copto, ma anche in arabo e altre lingue
orientali, meritano una specifica menzione le fonti di archivio del patriarcato di Alessandria; i papiri
letterari greci e copti veicolanti testi rimasti poi ai margini dell’ortodossia (legati al nome di
Origene e di coloro che a lui si sono ispirati, allo gnosticismo, al manicheismo); le architetture delle
chiese e dei monasteri, e le espressioni iconografiche, manifestanti una complessa relazione con il
passato faraonico e poi ellenistico; i testi documentari, costituiti da papiri, ostraca e altro materiale,
che illustrano il funzionamento della Chiesa dal III sec. d.C. in poi anche nelle sue unità più piccole,
e che costituiscono, per essere stati redatti in date quasi sempre certe e in situazioni concrete, un
sistema di controllo delle notizie trasmesse da altri tipi di fonti.

2. Nonostante una tradizione risalente all’inizio del III sec. d.C. attribuisca la prima
evangelizzazione a Marco evangelista, le origini del cristianesimo in Alessandria rimangono avvolte
nell’oscurità. La nuova religione appare con i suoi rappresentanti storicamente documentati solo
dopo la rivolta giudaica del 115-117 d.C. Nonostante le fonti ci rendano edotti circa l’esistenza di
una pluralità di gruppi dall’orientamento religioso molto diverso, bisogna constatare che i primi
nomi registrati sono quelli di famosi maestri gnostici, come Basilide e Valentino, che avranno largo
seguito in Egitto. Questo non deve portare alla conclusione che nel II sec. non sia esistita una
gerarchia ecclesiale di altro orientamento, come in altre parti del Mediterraneo. Bisogna piuttosto
pensare che tale gerarchia è esistita, ma ha avuto scarso peso culturale, e non ha lasciato traccia di
sé nelle fonti. Personaggi in vista dal punto di vista sociale si erano avvicinati al cristianesimo nella
sua forma gnostica o platonica, strutturata in circoli di intellettuali. Persino un pensatore non
gnostico come Clemente Alessandrino non dà peso alla gerarchia ecclesiastica (pur menzionata nei
suoi tre gradi di diacono, presbitero, vescovo), mentre la sua attenzione è attratta dal rapporto che
egli avverte come centrale, quello tra maestro e discepolo. Nonostante questo, Eusebio di Cesarea e
una pletora di fonti egiziane e orientali ci hanno lasciato una lista di vescovi di Alessandria a partire
da Marco: in essa il dato storico, forse non inconsistente, ma difficilmente verificabile, ha lo scopo
ideologico di creare una linea di successione episcopale continua, che risalga fino all’età apostolica.
È dunque un prodotto piuttosto tardo, la cui prima elaborazione è collocabile nel III sec., con
ritocchi nel IV e nel V.

3. All’inizio del III sec. d.C. si osservano i segni di una reazione a questa struttura
evanescente della comunità cristiana e al suo orientamento religioso. L’iniziativa è attribuibile a
Demetrio, primo vescovo di Alessandria (189-232) storicamente verificabile, che decise di sfruttare
l’enorme potenziale intellettuale del maestro Origene e la sua capacità di reagire intellettualmente
allo gnosticismo. Certamente è con l’assenso di questo vescovo che Origene operò all’interno di
una nuova struttura, la scuola catechetica (didascaleion), nella quale egli, in un secondo momento,
aprì anche un livello superiore di istruzione. A differenza dei maestri gnostici o di Clemente,
Origene esercitava il suo ruolo di maestro sotto il controllo del vescovo. La sua opera educatrice
permise a Demetrio di fare della comunità di Alessandria una chiesa a un tempo non gnostica e
gerarchicamente strutturata, caratterizzata dalla pluralità dei livelli sociali e culturali, aperta alla
cultura e all’élite sociale. Questo non significa che non vi siano state tensioni tra episcopato e
scuola, come dimostra la sofferta vicenda di Origene, che a un certo punto della sua carriera dovette
trasferirsi in Palestina.
Dopo Demetrio fu vescovo Eracla (232-247), amico di Origene, che in seguito alla partenza
di quest’ultimo, era stato promosso alla guida della scuola. A Eracla succedette Dionigi (248-264),
uno dei personaggi più in vista di Alessandria, in precedenza direttore della scuola: questi passaggi
tra scuola ed episcopato dimostrano come la scuola si fosse ormai completamente integrata nella
struttura della Chiesa. Ma questo comportò anche dei dissensi: un gruppo di fedeli alessandrini
protestò presso la sede di Roma contro il vescovo Dionigi, criticando la sua dottrina trinitaria; lo
scontro di Dionigi con il millenarismo presente in alcune regioni egiziane (tra le quali il Fayyum), è
prova delle difficoltà incontrate dalla politica culturale della scuola integrata nell’episcopato. Questi
dissensi non provenivano solo da cristiani di scarsa preparazione o levatura sociale, perché solo da
persone di una certa preparazione poteva provenire l’accusa alla scuola di essere troppo sensibile
alla filosofia greca.
D’altra parte, è evidente che con Demetrio si sta affermando anche ad Alessandria, con un
certo ritardo, la forma dell’episcopato monarchico. Possiamo ipotizzare che esso subentri ad una
struttura presbiterale, forse attiva ai vertici della chiesa di Alessandria nel II secolo. Tale struttura,
di forte impronta giudaica, ha lasciato le sue tracce nel sistema di elezione e ordinazione del
vescovo di Alessandria, che in una prima fase prevedeva che fossero i presbiteri della metropoli a
scegliere e consacrare come vescovo un loro membro. Demetrio diffonde il modello dell’episcopato
monarchico anche all’esterno della metropoli, nella Valle del Nilo, portando così alla formazione
delle prime diocesi. Con il rescritto dell’imperatore Gallieno (261-262) inizia un periodo di pace
che sarà interrotto soltanto dalla persecuzione di Diocleziano (303): è il periodo in cui la Chiesa si
diffonde per tutto l’Egitto, anche nelle oasi, dando luogo, al tempo del vescovo Pietro I (300-311), a
quella rete di cento vescovi che con aggiunte marginali rimarrà stabile fino alla dominazione araba.
La scuola catechetica, nonostante le lacune della nostra documentazione, sopravvive, anche se il suo
rapporto con l’episcopato è meno organico che alle origini.
I nuovi vescovi, tutti dipendenti da quello di Alessandria, dopo il 250 intendono far sentire
la loro voce nella scelta del loro primate, che dunque viene eletto non più soltanto tra i presbiteri
alessandrini, ma nell’ambito più largo del clero d’Egitto. A tale scelta partecipano anche i vescovi
che, con Alessandro (312-328), ottengono la sanzione liturgica di questo nuovo stato di cose,
consistente nella loro partecipazione all’ordinazione del vescovo scelto.

4. La nascita delle diocesi, attestate dai papiri documentari già nella seconda metà del III
sec. (i più noti sono quelli relativi a Sotas di Ossirinco), è significativa per la popolazione della
Valle del Nilo, soprattutto per quella di etnia egiziana: essa vede la chiesa della metropoli farsi
prossima alle sue esigenze religiose, fatto che si riflette nella presenza sempre più fitta di cristiani
egiziani nelle fonti del III sec.
Va osservato che lo sviluppo della rete delle diocesi non permette il prevalere di alcuna città
sulle altre, né nella Valle del Nilo, né in Libia, né in Cirenaica: Alessandria rimane il perno del
sistema. Non si dà dunque alcuna premessa per la formazione di una struttura metropolitana, come
invece accade in altre parti del Mediterraneo (ad esempio la vicina Antiochia di Siria), ragione per
cui in Egitto (come in Italia meridionale, in rapporto a Roma), non esistono metropoliti e tutti i
vescovi dipendono da quello della capitale. Tale fenomeno affonda le sue radici nella storia sociale
e amministrativa dell’Egitto, nella quale solo tardi (IIII sec. d.C.) i capoluoghi dei nomoi egiziani
hanno attenuto lo status municipale, in altri termini sono stati considerati delle poleis con la loro
élite municipale.
Il periodo che va da Demetrio a Dionigi è significativo anche per la storia linguistica delle
comunità egiziane. La chiesa comunica in greco, ma, a partire dalla seconda metà del III secolo, uno
spazio è lasciato anche ad una forma specifica di egiziano, sebbene limitatamente ad alcuni ambiti
della produzione scrittoria: proprio in questa fase il copto comincia ad affermarsi. Si deve tener
conto del fatto che ancora nei primi secoli dell’Impero la produzione di testi egiziani e la loro
copiatura avveniva nei vari alfabeti noti in Egitto, la cui difficoltà ne facevano un appannaggio di
un’élite ristretta, legata ai templi. La progressiva decadenza di tali alfabeti a livello epistolare,
amministrativo, e più tardi anche legislativo, portò inevitabilmente ad una situazione nella quale il
greco avrebbe potuto divenire l’unico veicolo della comunicazione scritta anche presso gli egiziani.
Tuttavia ci fu una reazione a questo: proprio all’interno dell’élite dell’etnia egiziana, durante il III
secolo, avvenne la creazione di un lingua letteraria, il copto, con un suo alfabeto di semplice
utilizzazione e apprendimento, in gran parte preso a prestito da quello greco. Le prime attestazioni
vedono una prevalenza di testi che possiamo definire latamente cristiani, in particolare traduzioni
dal greco di testi biblici, gnostici e cristiani ortodossi, ma tradiscono altresì la presenza significativa
di materiale magico legato alle religioni tradizionali, per cui è difficile prendere una posizione sulle
origini confessionali di questa lingua letteraria. Solo a partire dal secondo quarto del IV sec. il copto
è usato nella corrispondenza privata, ma limitato ad ambienti monastici o ascetici. Il copto è una
lingua letteraria che, nel far riferimento alla lingua egiziana, la modernizza, prendendo atto dei
cambiamenti intervenuti in una società che è divenuta progressivamente bilingue. Un ceto nuovo,
economicamente in crescita, ormai ellenizzato e conscio dell’irreversibilità del processo che nei
secoli precedenti aveva portato alla decadenza della civiltà del passato, sente il bisogno di
evidenziare il proprio prestigio mediante la formulazione di una lingua letteraria, la quale, se pur
deriva dalla secolare evoluzione linguistica egiziana, è anche totalmente aperta all’influsso
lessicale, sintattico e naturalmente concettuale della cultura greca dell’epoca.
All’interno di questa élite dotata di una sua lingua letteraria si riproducono le tensioni
culturali che sono presenti nei testi greci. La diffusione della Chiesa gerarchica, la sua presenza più
capillare e più organizzata sul territorio, favorisce il processo di marginalizzazione dello
gnosticismo, la cui eredità letteraria continua tuttavia a essere copiata e tradotta. In questo contesto
si svolge la propaganda manichea a partire dal 270, che va incontro a pagani, cristiani cattolici e
gnostici. A una Chiesa che esprime testi copti “ortodossi” si contrappongono ambienti che
traducono, copiano e interpolano più o meno profondamente testi gnostici e testi manichei. Ma
nell’ambito stesso della produzione ortodossa, si riscontrano testi di aperta tendenza antiorigenista e
testi maggiormente aperti all’influsso della tradizione origeniana. 4453/4671
Nel contesto di questa diffusione sempre più capillare della chiesa episcopale e nel quadro di
questa vita culturale molto ricca dobbiamo collocare anche le origini del monachesimo, destinato ad
incidere profondamente nella chiesa egiziana e del Mediterraneo. Il periodo delle origini è
caratterizzato da una pluralità non solo di motivazioni, ma anche di forme, nonché da un’identità a
volte incerta, anche nei confronti di altre forme di ascetismo cristiano, spesso legato alla vita di città
o di villaggio, con cui i monaci intrattengono rapporti di cooperazione o di concorrenza.

5. La persecuzione dioclezianea è stata traumatica, ma non ha annientato la chiesa egiziana,


che da essa emerge ancora ben strutturata, sebbene profondamente divisa. Gli editti di persecuzione
(303) certamente segnano un momento di crisi, provocando la fuga di molti vescovi e presbiteri, la
deportazione di altri, la loro condanna ai lavori forzati nelle miniere, il martirio di rappresentanti
illustri dell’élite, la distruzione di chiese e di libri. La conseguenza più vistosa di tale situazione è
l’esplosione di uno scisma che è profondamente radicato da una parte nell’insofferenza nei
confronti della gerarchizzazione della vita episcopale, sempre più incentrata sul vescovo di
Alessandria, dall’altro nello stato di disordine creato dalla persecuzione, che, in assenza di
un’autorità centrale anch’essa perseguitata e incapace di prendere decisioni, ha fatto sì che intere
diocesi fossero lasciate a se stesse, o in mano a un clero non sempre adeguato, preparato e
coraggioso. Questa centralizzazione, che non sostiene le comunità perseguitate, è stata radicalmente
criticata da Melizio, vescovo di Licopoli. Questi si è sentito in diritto, nonostante il divieto canonico
per i vescovi di celebrare ordinazioni al di fuori delle diocesi di competenza, di ordinare diaconi e
presbiteri nelle situazioni di bisogno, Delta compreso, a partire dal 304. Con questo atto Melizio
apre uno scisma destinato ad avere ripercussioni molto pesanti per tutta la prima metà del IV secolo,
portando a una divisione fra il clero e il monachesimo egiziano.
Condannato al Concilio di Nicea del 325, tale movimento scismatico troverà modo, un
decennio dopo, di alimentarsi grazie ad un’alleanza tattica con il clero ariano o contiguo
all’arianesimo. Quest’ultimo, nato attorno al 318 dal libico Ario, uno dei presbiteri responsabili
delle chiese di Alessandria, viene condannato prima dal vescovo Alessandro di Alessandria e poi
dal Concilio di Nicea, ma trova rapido supporto in Oriente, in ambienti episcopali ostili alla crescita
sempre più pronunciata del potere religioso della sede episcopale alessandrina. In questo contesto di
crisi interviene la figura complessa e problematica di Atanasio (328-373), probabilmente consacrato
mediante un colpo di mano organizzato all’interno dell’episcopato egiziano antimeliziano. La sua
personalità è caratterizzata da una fiducia incondizionata nella giustezza delle sue ragioni, da foga
polemica contro gli avversari ecclesiali, da costanza e resistenza nei confronti delle numerose
persecuzioni capitategli anche da parte del potere imperiale: dunque un uomo che può attrarre per la
sua forza carismatica, ma anche portare a divisioni e contese. Alla situazione ecclesiastica difficile
il vescovo cerca di rimediare con una politica complessa, in cui l’elemento propagandistico e
polemico estremamente aspro e gli atti di costrizione e di violenza non sono disgiunti da forme di
riconciliazione volte a rinsaldare il proprio partito ecclesiale. La struttura ecclesiale atanasiana tenta
di emergere fra altri partiti agguerriti, ma con grande difficoltà. Una delle intuizioni di Atanasio più
gravide di conseguenze è l’alleanza con il monachesimo in tutte le sue forme: tale fenomeno della
vita cristiana diventerà sempre più decisivo nella vita della chiesa.
Se l’episcopato di Atanasio è totalmente coinvolto nella crisi ariana, che è ad un tempo
teologica, politica ed ecclesiastica, in quanto riguarda sia il rapporto tra cristianesimo orientale e
quello occidentale, sia le relazioni tra Impero e Chiesa, il periodo che segue è invece caratterizzato
dalla crescita di potenza delle sedi episcopali orientali più importanti, tra le quali Alessandria tenta
di emergere, soprattutto quando si rende conto che Costantinopoli, in virtù della sua posizione
politica di capitale dell’Impero, è destinata a crescere anche come potere religioso. Con il vescovo
Teofilo (385-412) viene elaborata un’immagine di Alessandria come città da sempre ortodossa,
segnata dal martirio, di origine apostolica attraverso l’opera dell’evangelista di Marco, allievo
dell’apostolo Pietro, intenzionalmente opposta alla concorrente Costantinopoli, che tali qualità non
può vantare. A ciò si aggiunga anche la lotta al paganesimo, tema sul quale Alessandria vuole
entrare in piena sintonia con l’imperatore Teodosio, con la distruzione (parziale) del Serapeo.
Vittima di questa politica di potenza del seggio alessandrino sarà Giovanni Crisostomo, vescovo di
Costantinopoli, la cui morte nel 407 segnerà la rottura della comunione con la sede di Roma. Solo
dopo la morte di Teofilo i rapporti tra Alessandria e Roma saranno ristabiliti. [[[17793]]]

###4. Cristianesimi del Caucaso: chiesa armena e chiesa georgiana

1. L’area geografica in cui si espandono i cristianesimi caucasici è quella delimitata dal


massiccio del Caucaso, dalla costa orientale e meridionale del Mar Nero, dalla costa sud-
occidentale del Mar Caspio e dai rilievi montuosi del Kurdistan. All’interno di questo territorio tre
regioni sono significative per la presenza di forme cristiane ben connotate: Armenia, Georgia
(Iberia), Ałuania (meno correttamente: Albánia). L’Armenia si presenta come un vasto e articolato
territorio a nord della Mesopotamia, che si estende su un’ampia sezione dell’Anatolia orientale. La
Georgia si suddivide in una zona prospicente sulla costa orientale del Mar Nero (Colchide / Lazica)
e una zona più orientale (Iberia), volta verso la Persia. L’Ałuania è la regione che costeggia il Mar
Caspio, in un territorio corrispondente all’attuale Azerbajan: qui la cristianizzazione non ha avuto
effetti stabili nel tempo.

2. Tralasciando le leggende apostoliche di evangelizzazione dell’Armenia, regione che


conosce una divisione politica tra i due grandi imperi della tarda antichità, quello romano e quello
persiano, e che soltanto per brevi periodi sperimenta forme di relativa autonomia, abbiamo motivo
di pensare che essa sia stata toccata in età antica da correnti cristiane di due diverse provenienze:
quella meridionale e siriaca (da Edessa) e quella nord-occidentale greco-cappadoce. In h.e. VI 46,2
Eusebio menziona una lettera di Dionigi di Alessandria (248-264) a “quelli che sono in Armenia,
presieduti da Meruzanes”, a proposito dei lapsi: si tratta di una diocesi interna all’Impero romano.
Ma la conversione al cristianesimo di quello che possiamo definire propriamente il regno
armeno avvenne in un momento non precisato tra il 306 e il 314: le opinioni dei critici, anche di
recente, divergono, in quanto le fonti fondamentali, di carattere agiografico e storiografico, quali la
vita di Gregorio, attribuita a un certo Agatangelo, l’epica storica che passa sotto il nome di P῾awstos
Buzand, o l’opera storiografica di Mosé di Corene (V / VIII sec.) sono afflitte da anacronismi di
vario tipo. Tale conversione ufficiale sarebbe avvenuta grazie all’opera di Gregorio
l’«Illuminatore», il quale, secondo le fonti armene, sarebbe stato un nobile di origine partica,
educato a Cesarea di Cappadocia. Rientrato in Armenia al seguito del re Trdat III, figlio di Chosrov
I, a causa della sua fede cristiana sarebbe stato gettato in un pozzo, dove sarebbe rimasto vivo per
quindici anni. La situazione si sarebbe risolta con la guarigione del re Trdat da parte di Gregorio
stesso, che avrebbe provocato la conversione ufficiale di tutto il regno al cristianesimo. Gregorio
sarebbe poi stato ordinato capo della chiesa a Cesarea di Cappadocia, e avrebbe preso possesso
canonico del paese nella città di Aštišat.
Questo insieme di tradizioni è traccia di una conversione dell’élite regnante armena nel
primo quarto del IV secolo. Certamente vi sono motivi politici e identitari in questa scelta da parte
della casa regnante, soprattutto in contrapposizione alla Persia mazdea. Gregorio, come capo della
chiesa, assumeva le prerogative che prima appartenevano al capo dei maghi zoroastriani (“giudice
del regno e amico dei poveri”); i figli dei sacerdoti pagani furono educati per divenire il nuovo clero
armeno. Emerge nelle fonti il ruolo che Cesarea di Cappadocia ha giocato alle origini di questa
chiesa. Qui furono ordinati Gregorio e i suoi successori, di padre in figlio in linea ereditaria, fino
all’epoca di Nerses I Parthew (353-373), dopo il quale tale la chiesa armena si configura, almeno
parzialmente, come indipendente da Cesarea. D’altra parte, la sede di Gregorio, come capo
dell’episcopato armeno, fu la città di Aštišat, nella regione meridionale del Taron, una zona a stretto
contatto con gli influssi provenienti dall’area siriaca. Solo più tardi nel V secolo la sede fu trasferita
a Vałaršapat (Edjmiatsin) e a Dvin, nella regione settentrionale di Ayrarat, vicino al centro politico
della Persarmenia. Dunque, anche in queste tradizioni possiamo cogliere una dialettica vivace tra
due influssi diversi, uno greco-cappadoce e uno siriaco-persiano, che segnano il cristianesimo
armeno delle origini.

3. Tale dialettica ha lasciato le sue tracce anche nella cultura letteraria. Questa deve il suo
sviluppo a quello che la storiografia armena ritiene essere un evento capitale per la sua letteratura,
cioè l’invenzione dell’alfabeto armeno da parte di Mesrop Maštoz († 439), avvenuta con il sostegno
convinto del catholicos d’Armenia Sahak († 438), vicenda su cui ci informa la Vita di Mesrop
Maštoc scritta Koriun poco dopo la morte del suo eroe. Prima di allora la Bibbia doveva venir
tradotta all’impronta e oralmente da lettori in grado di comprendere o il siriaco o il greco.
L’invenzione dell’alfabeto, avvenuta a Edessa e perfezionata a Samosata, secondo il racconto di
Koriun, stimolò anche l’avvio di una vasta opera di traduzione che Mesrop non poté certo realizzare
da solo, ma con l’aiuto di generazioni di traduttori, che appresero le lingue e le tecniche in tutti i
centri più importanti della cristianità bizantina. Il risultato fu una serie di traduzioni a partire da testi
siriaci e greci, che portò a una mescolanza interessante di tradizioni teologiche e spirituali. Per
quanto riguarda la Bibbia una prima traduzione parziale condotta sul siriaco operata da Mesrop fu
seguita da una seconda, sulla base del testo greco, per opera di Eznik. Quindi si tradussero opere
storiografiche, nonché gli scritti di impegno teologico ed esegetico, anche quelli appartenenti alla
tradizione antiochena, e la letteratura canonica. Solo a questo punto cominciò una produzione
originale in lingua armena.

3. La Georgia ha conosciuto diverse forme statali, alcune di notevole rilievo come quella
sorta fin dal IV sec. a.C. L’Iberia divenne protettorato romano nel 65 a.C. Se la parte orientale ebbe
relazioni soprattutto con la zona persiana, più orientata verso l’Impero romano fu la parte
occidentale (Colchide). Il documento più importante circa la cristianizzazione e la conversione della
Georgia al cristianesimo è il racconto riportato da Rufino (h.e. I,10-11) sull’apostolato di santa
Nino, una “prigioniera”, risalente a qualche decennio prima, tratto dal resoconto orale di un
membro della famiglia reale dell’Iberia in rapporto con lo storico. L’avvenimento si sarebbe
verificato al tempo di Costantino, durante il regno di Mirian (†342). Ovviamente numerose
tradizioni, relativamente all’apostolato di Andrea o al ritrovamento della tunica di Cristo, tentano di
connettere la chiesa del IV secolo con il periodo delle origini apostoliche, ma non illuminano in
alcun modo i fenomeni di cristianizzazione prenicena che certamente dovettero verificarsi. Le zone
costiere dovevano già avere rapporti con la Chiesa a occidente, se è vera la notizia della
partecipazione del vescovo di Pityonta al concilio di Nicea. D’altra parte è probabile che il
cristianesimo sia penetrato anche dall’Armenia e della Siria, come la circolazione di testi prodotti in
quelle zone farebbe supporre. Il primo vescovo georgiano sarebbe Giovanni (Ioane, 335-363 ca.),
ordinato, secondo Rufino, da Alessandro di Costantinopoli. Nonostante questa notizia, è attestato
ampiamente il fatto che i catholokoi dell’Iberia furono ordinati per qualche secolo in Antiochia, che
dunque rimase la città di riferimento.
Il racconto della Conversione della Kartli accenna anche alla costruzione di una chiesa nella
capitale, con la sovvenzione del re. Quindi la cronaca accenna ai vescovi e infine alla fondazione
del catholicosato, forma di autonomia della chiesa georgiana dalle chiese occidentali. Non è chiaro
se l’alfabeto georgiano sia nato in connessione con quello armeno. Le prime traduzioni di testi
biblici dall’armeno furono immediatamente riviste su modelli greci. Le altre traduzioni furono fatte
in Terra Santa, dove i georgiani furono presenti fin dal V sec.

### 4. L’Etiopia

1. Il regno di Axum aveva il suo centro nell’altopiano abissino, nel Tigray, ad una notevole
distanza dalle zone più meridionali dell’Egitto; nello stesso tempo esercitava la sua influenza
politica al di là del Mar Rosso, nella penisola arabica sudoccidentale (Yemen), con la quale
condivideva alcuni elementi culturali e linguistici. Le iscrizioni reali, redatte sia in ge’ez, la lingua
etiopica classica, in un alfabeto che ricorda quello sabeo, sia in greco, attestano la penetrazione
dell’ellenismo anche in questa zona così remota.
La Storia della Chiesa di Rufino è importante anche per inquadrare le notizie e le
testimonianze numismatiche e epigrafiche circa la diffusione del cristianesimo in Etiopia (che qui
chiameremo Axum), una delle avventure più straordinarie del cristianesimo antico. L’altro
documento capitale è la lettera, citata da Atanasio nell’Apologia a Costanzo 31, nella quale
l’imperatore Costanzo, dopo il 337, esorta i re di Axum ‛Ezana e Sazana a inviare ad Alessandria,
presso il vescovo Giorgio che ne è a capo (dopo la cacciata di Atanasio nel 356), il vescovo
Frumenzio, affinché ne verifichino la fede, dato che la sua ordinazione è stata effettuata da
Atanasio, uomo riprovevole secondo l’imperatore, e duque probabilmente in contrasto con le leggi
vigenti della chiesa. La lettera di Costanzo non ci dà la data di questa prima ordinazione.
Attualmente c’è un certo consenso critico sui primi anni Cinquanta del IV sec.1.
Rufino colloca il primo arrivo del cristianesimo (h.e. I, 9-10) «al tempo di Costantino».
Secondo lo storico, due giovani di provenienza siriaca, Frumenzio ed Edesio, a seguito
dell’assassino del loro maestro con cui viaggiavano sulle coste dell’«India ulterior» (cioè l’Etiopia,
probabilmente dalle parti di Adulis, sul Mar Rosso), furono ridotti in schiavitù e consegnati al re di
Axum. Essi seppero acquistare la fiducia del re al punto che, alla sua morte, Frumenzio divenne
primo ministro della regina reggente. Si adoperò dunque per reperire dei cristiani tra i commercianti
romani nel regno di Axum e diede loro facoltà di costruire chiese e di celebrare i riti. Più tardi
Edesio ritornò a Tiro. Frumenzio, invece, si recò ad Alessandria da Atanasio per informarlo degli
avvenimenti di cui era stato testimone; da lui fu ordinato vescovo per il paese. Tale ordinazione,

1
come abbiamo visto, è confermata dalla lettera di Costanzo, che la considera illegale. Non risulta
chiaro il motivo per cui Frumenzio andò a presentarsi ad Alessandria anziché ad Antiochia. Forse le
ragioni vanno ricercate in legami preesistenti tra alcuni nuclei cristiani etiopici e sedi episcopali
egiziane nel sud. Con questo atto la nascente chiesa etiopica si pone sotto la tutela di quella
egiziana, dalla quale dipenderà formalmente fino al XX secolo.
Questo racconto e la lettera di Costanzo sembrerebbero trovare riscontro riscontro nella
numismatica e nell’epigrafia. Sulle monete attribuibili alla metà del IV sec. comincia a comparire la
croce, al posto della tradizionale simbologia religiosa, e nelle epigrafi sia greche che ge’ez
l’adesione al cristianesimo è resa esplicita.
2. Ben presto, dopo la conversione della casa regnante, dovettero iniziare le traduzioni dal
greco in etiopico. Risulta molto problematico capire quali testi far risalire a questa fase.
Attualmente vi è un certo consenso che il corpus aksumita possa comprendere la Bibbia, tradotta
gradualmente tra IV e VI sec., apocrifi come il Libro di Enoch o l’ Ascensione di Isaia, il Pastore di
Erma, nonché testi patristici più tradizionali come il Fisiologo, l’Ancorato di Epifanio, la raccolta
dogmatica denominata Qērellos (da “Cirillo”, ovviamente quello di Alessandria), la raccolta di testi
canonici e storiografici denominata Collezione Aksumita, e infine testi agiografici e monastici. Non
si esclude per questo periodo la composizione di testi originali in ge’ez di carattere agiografico o
omiletico. Questa fase dell’attività di traduzione deve essere tenuta ben distinta da quella
medievale, che sarà rivolta soprattutto ai testi cristiani circolanti in lingua araba.[[[11920]]]

Indicazioni bibliografiche

2. Siria e Mesopotamia. Introduzioni sugli studi: S.P. Brock, An Introduction to Syriac


Studies, Piscataway 2006; S. Chialà, Chiese di tradizione siriaca, in Dizionario del sapere storico-
religioso, Bologna 2010, pp. 443-468. Sulla letteratura: P. Bettiolo, Letteratura siriaca, in
Patrologia V. I Padri orientali (secoli V-VIII), a cura di A. di Berardino, Marietti 1820, Genova
2000, pp. 415-493. Sulla Bibbia: M.P. Weitzman, The Syriac Version of the Old Testament. An
Introduction, Cambridge 1999. R. Contini, Il cristianesimo siriaco preislamico: il problema delle
traduzioni bibliche, in Roma, la Campania e l'Oriente cristiano antico, a cura di L. Cirillo - G.
Rinaldi, Napoli 2004, pp. 397-410; G. Lenzi, I Vangeli siriaci, in I Vangeli dei Popoli, a cura di G.
Cavallo, F. D’Aiuto et alii, Roma 2000, pp. 37-45. Sui primi sviluppi del cristianesimo siriaco e la
sua teologia: R. Murray, Symbols of Church and Kingdom. A Study in Early Syriac Tradition,
Cambridge 1975, V. Berti, Il cristianesimo siriaco. Protagonisti, stagioni e nodi problematici dalla
prima evangelizzazione all’esordio del V secolo, in Costantino I. Enciclopedia costantiniana sulla
figura e l’immagine dell’imperatore del cosiddetto Editto di Milano 313-2013, volume I, Roma
2013, pp. ???.

3. L’Egitto e la nascita del copto. Geografia e documentazione papirologica:


www.trismegistos.org; Das christlich-koptische Ägypten in arabischer Zeit: Eine Sammlung
christlicher Stätten in Ägypten in arabischer Zeit unter Ausschluss von Alexandria, Kairo, des Apa-
Mena-Klosters (Der Abu Mina), der Sketis (Wadi n-Natrun) und der Sinai-Region, ed. S. Timm. 6
voll., Wiesbaden 1984-1992. Sulle origini e la forma del cristianesimo fino al V secolo: E.
Wipszycka, Études sur le christianisme dans l'Égypte de l'antiquité tardive (SEA 52), Roma 1996;
L’Egitto cristiano: aspetti e problemi in età tardo-antica, a cura di A. Camplani (SEA 56), Roma
1997; Egypt in the Byzantine World, 300-700, ed. by R.S. Bagnall, Cambridge – New York –
Melbourne – Madrid 2007; A. Luijendijk, Greetings in the Lord: Early Christians in the
Oxyrhynchus Papyri Cambridge, MA 2008.

4. Cristianesimi del Caucaso: chiesa armena e chiesa georgiana. F. Thelamon, Païens et


Chrétiens au IVe siècle. L’apparat de l’«Histoire ecclésiastique» de Rufin d’Aquilée, Paris 1981. J.-
P. Mahé, L’Arménie et la Géorgie, in Histoire générale du christianisme des origines au XVe siècle,
éd. J.-R. Armogathe, P. Montaubin, M.-Y. Perrin, Paris 2010, pp. 652-674 con bibliografia.
Sull’Armenia: Storia religiosa dell’Armenia, a cura di L. Vaccaro, B.L. Zekiyan, Milano 2010.
N.G. Garsoїan, L'Église Arménienne e le Grand Schisme d'Orient, Louvain, 1999. Sulla Georgia:
Santa Nino e la Georgia. Storia e spiritualità cristiana nel Paese del Vello d’oro, a cura di G.
Shurgaia, Roma 2000.

5. Etiopia. Introduttivo sulle problematiche accennate: A. Bausi (ed.), Languages and


Cultures of Eastern Christianity: Ethiopian (Variorum, The Worlds of Eastern Christianity [300-
1500] 4), Farnham, Surrey 2012. Fondamentale strumento di lavoro: Encyclopaedia Aethiopica,
Volume 1: A–C; Volume 2: D-Ha; Volume 3: He–N; S. Uhlig - A. Bausi (eds.), Volume 4: O–X; A.
Bausi – S. Uhlig (eds.), Volume 5: Y–Z, Wiesbaden 2003, 2005, 2007, 2010, 2013. Sulle origini: H.
Brakmann, ΤΟ ΠΑΡΑ ΤΟΙΣ ΒΑΡΒΑΡΟΙΣ ΕΡΓΟΝ ΘΕΙΟΝ. Die Einwurzelung der Kirche im
spätantiken Reich von Aksum, Bonn 1994.
[[[3031]]] / [[[TOTALE 53.869]]]

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