Nasce a Ferrara con Giorgio de Chirico, vi aderiscono anche il
fratello Andrea, noto con lo pseudonimo di Alberto Savino, Carlo Carrà e Giorgio Morandi. Il termine “metafisica” è di origine greca, fu Andronico di Rodi a distinguere gli scritti di Aristotele in due gruppi di opere: 1. Quelle che studiano la fisica e le leggi della natura, cioè i fenomeni naturali percepibili attraverso i cinque sensi. 2. Quelle che si occupano dell’essenza delle cose cioè, che indagano tramite il ragionamento le realtà di cui non abbiamo esperienza diretta. Per De Chirico il termine “metafisica” allude ad una realtà diversa, che va oltre a ciò che vediamo, fatta di oggetti usati al di fuori del loro solito contesto e che sorprendono. Se si interrompono i ricordi, che associano significati ed usi ad ogni cosa, tutto diventa all’improvviso nuovo. Estraniando gli oggetti dal loro usuale contesto si crea una diversa realtà, e ciò avviene anche mostrando come inanimati luoghi fatti per contenere persone. Non è l’inizio del Surrealismo, anche se i Surrealisti ritennero De Chirico loro precursore in quanto esula dall’intento di De Chirico il ricorso al sogno, all’automatismo, all’inconscio, al voler conciliare sogno e veglia in una realtà trasfigurata e superiore. La pittura Metafisica si colloca temporalmente prima del movimento surrealista ed è in opposizione al Futurismo italiano e alle esperienze dell’Impressionismo e del Divisionismo francesi. All’immediatezza visiva degli Impressionisti, alla scomposizione delle forme e allo spazio dinamico dei Futuristi, la Metafisica oppone uno spazio rigidamente geometrico, una prospettiva schematica ma ordinatrice, un colore omogeneo, una solida volumetria degli oggetti, un segno netto. Un richiamo all’ordine della tradizione pittorica italiana, che risponde alla condizione di smarrimento e di bisogno di sicurezza dovuta alla guerra e alla profonda crisi dei valori che ne segue. Un richiamo all’ordine che viene ricercato in Italia e in altre parti d’Europa. Valori Plastici La rivista “Valori Plastici”, fondata nel 1918 dal pittore Mario Broglio, diffonde i contenuti della pittura metafisica attraverso gli scritti di De Chirico, Savinio, Carrà. La rivista si prefigge di mantenersi coerente alla tradizione pittorica italiana del Trecento e del Quattrocento, quella tradizione fatta di forma e di solidità volumetrica, per l’appunto valori plastici. La rivista aspira all’internazionalità dell’informazione. Novecento e Novecento italiano Nel 1922 si esaurisce l’esperienza di “Valori Plastici” quando a Milano alcuni artisti, tra questi Mario Sironi, organizzano una prima esposizione i cui contenuti pittorici sono il richiamo all’ordine. Contenuti che già avevano ispirato “Valori Plastici”, ma con una più accentuata volumetria e contrasto chiaroscurale, finalizzate a una classica solennità compositiva. Nel 1924 il gruppo esordisce alla XIV Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, le sue idee sono condivise da molti artisti italiani che si esprimono mediante una rappresentazione pittorica naturalistica e oggettiva ma permeata di un’atmosfera magica, che viene definita “Realismo magico”. Un ritorno della pittura all’ordine della forma e del volume, agli ideali di concretezza e semplicità, alla corposità dei piani e delle penombre, caratteristiche dell’arte italiana. Nel 1926 fa seguito la prima mostra del “Novecento italiano”, il gruppo ormai cresciuto è diventato movimento nazionale. Tuttavia i risultati del movimento, orientato verso un’arte popolare e nazionale, sfociano in un’arte di regime. Agli inizi degli anni Trenta i contenuti dei due gruppi sono assorbiti dall’estetica fascista. Giorgio De Chirico (1888-1978) Capisaldi dell’arte di De Chirico, dichiarati anche nelle frasi epigrafiche che accompagnano due suoi autoritratti, sono l’enigma, la metafisica e la classicità.
1. L’enigma è il mistero, il dubbio, il segreto da svelare
2. La Metafisica è quella verità nuova che si cela in ogni oggetto se solo si riesce a immaginarlo al di fuori del suo solito contesto 3. Classicità è l’essere in linea con la tradizione pittorica italiana basata sul disegno, sulla forma e sul volume Giorgio De Chirico, figlio di un ingegnere ferroviario italiano, in Grecia per lavoro, nasce a Volos, in Tessaglia. Nella culla della civiltà occidentale compie i suoi primi studi. Nel 1906, dopo la morte del padre, si trasferisce a Milano e poi a Firenze con la madre ed il fratello Andrea. Nel 1910 frequenta l’Accademia di Belle Arti a Monaco, qui approfondisce la filosofia di Nietzsche e di Schopenhauer che sono alla base delle concezioni artistiche dell’artista e della sua pittura metafisica. Nel 1911 raggiunge il fratello che si è trasferito a Parigi ed espone al Salon d’Automne. Nel 1913 espone al Salon des Indépendants. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale rientra in Italia con il fratello per arruolarsi, ottenendo come destinazione Ferrara. Qui conosce Carrà ed inizia a partecipare attivamente alla rivista “Valori Plastici”, nasce ufficialmente la pittura metafisica. Nel 1924 ritorna a Parigi dove frequenta il gruppo dei Surrealisti, trascorre due anni a New York, poi si trasferisce a Firenze e di seguito a Roma, dove rimarrà fino alla sua morte, all’età di 90 anni. Negli ultimi decenni della sua vita, dopo un lungo periodo caratterizzato dal rinnovarsi continuo dei suoi modi e temi pittorici, ripropone, immutata, la pittura metafisica del primo ventennio del Novecento. Le chant d’amour, il canto d’amore Il dipinto mostra tre oggetti senza relazione tra loro: un calco della testa dell’Apollo del Belvedere, un rosso guanto di gomma da chirurgo inchiodato al muro, e in basso, una sfera verde. Sullo sfondo un muro, dietro cui si alza il fumo di una locomotiva. Una piazza su cui incombono le ombre degli edifici e della sfera. La piazza, elemento ricorrente Le chant d’amour, il canto d’amore, Giorgio nelle sue opere, è spopolata, non De Chirico, 1914, olio su tela, 73x59,1 cm, c’è traccia di umanità. Museum of Modern Art, New York Le dimensioni degli oggetti rappresentati sono fuori scala, enormi. Guanto e calco invadono completamente il fianco dell’edificio su cui sono appesi. I tre elementi non hanno alcun nesso tra loro, né con il luogo dove sono riuniti che appare silenzioso e inanimato. Il quadro ha un fascino misterioso, come quasi tutte le opere metafisiche di De Chirico, si presenta come un enigma la Le chant d’amour, il canto d’amore, Giorgio cui soluzione non potrà mai De Chirico, 1914, olio su tela, 73x59,1 cm, Museum of Modern Art, New York essere trovata. Ettore e Andromaca I protagonisti del dipinto sono due manichini che rappresentano Ettore e Andromaca e sono al centro della scena. La scena rappresentata è citata nel sesto libro dell’Iliade. L’abbraccio tra i due avviene davanti alle porte Scee appena prima che l’eroe troiano si immoli per la patria affrontando Achille.
E3ore e Andromaca, Giorgio De Chirico,
1917, olio su tela, 60x90, Collezione privata, Milano E’ rappresentato l’ultimo bacio tra i due, la tragicità della scena è accentuata dal fatto che i due manichini sono privi degli arti superiori, e di conseguenza sono impossibilitati ad abbracciarsi in quest’ultimo saluto. L’eroe è consapevole di andare verso una morte certa, ma nonostante tutto non si tira indietro al suo destino crudele e lo affronta coraggiosamente.
E3ore e Andromaca, Giorgio De Chirico,
1917, olio su tela, 60x90, Collezione privata, Milano L’enigma dell’ora, De Chirico, 1911, olio su tela, 55x71, collezione privata, Milano L’enigma dell’ora, De Chirico, 1911, olio su tela, 55x71, collezione privata, Milano
Un porticato sovrastato da una loggia
occupa quasi l’intero spazio della tela. Nell’ombra del porticato una figura umana immobile aspetta. In basso, i raggi del sole pomeridiano, che generano ombre lunghe, sfiorano appena una vasca con uno zampillo d’acqua… investondo l’uomo vestito di bianco che le sta di fianco. L’architettura essenziale del portico e del loggiato richiama le architetture fiorentine dello Spedale degli Innocenti, con la sopraelevazione che un restauro ha poi eliminato, e il Corridoio Vasariano. I due uomini immobili e l’orologio che indica l’ora stabiliscono con l’osservatore un rapporto di attesa.
Attesa di un evento sconosciuto,
enigmatico, che apparentemente sta per compiersi, ma che, probabilmente, non si compirà mai. Anche il tempo si è fermato nel silenzio di una piazza quasi disabitata. Le Muse inquietanti Nel mezzo di una grande piazza ai cui margini si erge il Castello Estense di Ferrara, città in cui il pittore si trova all’inizio della Prima guerra mondiale, si protende un palco formato da tavole di legno.
Le Muse inquietan9, De Chirico, 1917,
olio su tela, 97x66cm, Collezione MaHoli, Milano Le commettiture delle assi sembrano governate da una prospettiva rigorosa, in realtà non è così, infatti i punti di fuga del palco sono due, molto vicini, da sembrare uno solo. Castello estense, Ferrara Le alte ciminiere sulla sinistra non buttano fumo, pertanto non ci sono segni di vita o di attività. Sul palco delle statue manichino con grandi teste ovoidali sono collocate su piedistalli. La figura inanimata al centro è sedu ta su un parallelepipedo azzurro, ha la testa smontata appoggiata a terra. Altri corpi geometrici colorati, come i giochi di un bimbo, si trovano tra i muti manichini di pietra.
Le Muse inquietan9, De Chirico, 1917,
olio su tela, 97x66cm, Collezione MaHoli, Milano L’uomo non è presente, le finestre degli edifici sono buie e chiuse. Le Muse, protettrici delle arti, sono colonne consunte dal tempo, sono immobili ed enigmatiche. Mute presenze depositarie di un mistero inaccessibile e inquietante. La brezza che muove i vessilli sul castello, la nitidezza del segno, le ombre nette e lunghe, il colore caldo, il silenzio che regna, il tempo sospeso sono gli elementi di cui l’artista si serve per rappresentare una realtà diversa da quella usuale, metafisica, di cui non Le Muse inquietan9, De Chirico, 1917, olio su tela, 97x66cm, Collezione siamo sempre consapevoli, ma che è MaHoli, Milano insita in tutte le cose. Carlo Carrà (1881-1966) Aderisce inizialmente al Futurismo, firmandone i Manifesti, quello dei pittori futuristi e quello tecnico della pittura futurista, insieme a Boccioni, Russolo, Balla e Severini. Per divergenze con Boccioni e Marinetti se ne allontana per aderire alla pittura Metafisica e poi al Realismo magico. Carlo Dalmazzo Carrà nasce a Quargnento, Alessandria, da una modesta famiglia di artigiani. A Milano svolge l’attività di decoratore e si iscrive ai corsi serali dell’Accademia di Brera. Nel 1900 risiede per breve tempo a Parigi, dove conosce le opere dei pittori romantici Delacroix e Gèricault ed è affascinato dagli Impressionisti e dal realismo di Courbet. Ritorna a Milano e aderisce al Futurismo, ma presto ne è insoddisfatto, alla continua ricerca di qualcosa di diverso. Nel 1912 a Parigi entra in contatto con i cubisti e la sua pittura cambia radicalmente, orientandosi verso una maggiore solidità della forma. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, è mandato a Ferrara in convalescenza, qui incontra Giorgio De Chirico e il fratello di lui, Alberto Savinio. Si avvicina così la pittura metafisica, praticata da De Chirico già dal 1909 e che aveva avuto modo di conoscere durante un soggiorno parigino nel 1914. L’incontro con De Chirico lo converte ad una pittura che rientra nella tradizione italiana, fondata sulla forma ed il volume. La stagione Metafisica di Carrà è breve ma molto intensa. Breve e problematica è l’amicizia con De Chirico, egli infatti organizza una mostra a Milano in cui non invita a partecipare anche l’amico De Chirico e neppure lo cita in un suo libro “Pittura Metafisica”. Conclusa l’esperienza metafisica Carrà si rivolge al Realismo magico. Nel 1941 ottiene la cattedra di Pittura all’Accademia di Brera. I funerali dell’anarchico Galli, Carlo Carrà, 1911, olio su tela, 198,7x259,1 cm, Museum of Modern Art, New York I funerali dell’anarchico Galli Durante gli scontri in seguito allo sciopero generale di operai e contadini del 1904, è ucciso l’anarchico Angelo Galli. Durante i suoi funerali si verificano altri scontri con le I funerali dell’anarchico Galli, Carlo Carrà, 1911, forze dell’ordine, i lancieri del olio su tela, 198,7x259,1 cm, Museum of Modern re caricano la folla in mezzo Art, New York alla quale si trova anche Carlo Carrà, simpatizzante ora per gli anarchici, ora per i socialisti. Il giovane artista resta impressionato della scena cruenta, e a distanza di sette anni dai fatti, dipinge la tela secondo i dettami futuristi. Un concitato movimento della folla in fuga, sotto la minaccia delle armi delle forze dell’ordine. I cavalli e le lance dei lancieri I funerali dell’anarchico Galli, Carlo Carrà, 1911, olio su tela, 198,7x259,1 cm, Museum of si moltiplicano a destra e a Modern Art, New York sinistra, la folla è disposta tra i due schieramenti. I fendenti delle armi dei soldati sono rappresentati mediante tratti raggiati. I colori sono cupi, le forme aguzze, un sole infuocato genera un insieme di ombre tagliate da lame di luce. Il quadro nasce dal ricordo e da una serie di disegni che l’artista fa subito dopo l’avvenimento. Ed è sempre il ricordo che gli I funerali dell’anarchico Galli, Carlo Carrà, 1911, fa scrivere nel Manifesto olio su tela, 198,7x259,1 cm, Museum of Modern tecnico della pittura futurista Art, New York la frase: “Noi metteremo lo spettatore al centro del quadro”. Simultaneità: donna al balcone, Carlo Carrà, 1912, olio su tela, 147x133 cm Collezione privata, Milano Simultaneità: donna al balcone Due glutei femminili e un ripetuto arcuarsi della schiena di una donna al balcone nel dipinto cubo-futurista. I motivi futuristi si sommano alla scomposizione per piani dei volumi di un paesaggio cittadino ricomposto in solide masse geometriche. Le case sembrano rovesciarsi all’interno della tela e l’inferriata del balcone sta davanti, di fianco e di dietro alla donna. Simultaneità: donna al balcone, Carlo Carrà, 1912, olio su tela, 147x133 cm Collezione privata, Milano La musa metafisica Carrà vuole dare dignità poetica alle cose e alle situazioni ordinarie, isolandole e riunendole in modo non omogeneo e in un contesto inconsueto.
La musa metafisica, Carlo Carrà, 1917,
olio su tela, 90x66 cm, Pinacoteca di Brera, Milano In un interno angusto, rappresentato prospetticamente, una piramide tronca a base poligonale, variamente colorata, si trova nella posizione più lontana, verso la parete di fondo. Una tela dipinta è collocata obliquamente rispetto alle pareti, un dipinto nel dipinto che rappresenta un paesaggio. Una scatola con la carta geografica dell’Istria, allude ai campi di battaglia della Prima guerra mondiale ed un bersaglio da tiro a segno. Una presenza inquietante è una bambola di pezza rappresentante una tennista dall’enorme testa di manichino, richiama “Le muse inquietanti” di De Chirico. Monocromia nella tennista e nell’ambiente che è interrotta solo dalla vivacità dei colori della piramide e della carta geografica. La maestosità delle forme richiama la tradizione figurativa italiana, quella di Giotto. Madre e figlio È una tela su cui Carrà ha lavorato molto, modificandola più volte fino ad ottenere il risultato desiderato, e la superficie pittorica ne porta tutt’ora i segni. Inizialmente pensata con la sola presenza del manichino di destra, la madre, circondata di sfere e pesi, si è trasformata, infine, nel dipinto che è oggi.
Madre e figlio, Carlo Carrà, 1917, olio
su tela, 90x59,5cm, Pinacoteca di Brera , Milano Una stanza con una prospettiva irregolare, in quanto esistono più punti di fuga Sul muro di fondo a destra, una porta buia, indica un altrove; al centro un muro obliquo con una riga graduata. A sinistra un grande libro dietro il quale si diparte un lungo tubo. In posizione centrale e avanzata si trova il figlio, un manichino da sarto con un completo “alla marinara”, fissato su un basamento cilindrico e raffigurato frontalmente. Alla sua sinistra la madre, un busto di manichino con una doppia base, parallelepipedea e cilindrica, tenuto in equilibrio da un telaio metallico. Madre e figlio, Carlo Carrà, 1917, olio su tela, 90x59,5cm, Pinacoteca di Brera , Milano Il busto carenato della madre è formato da elementi metallici colorati assemblati, la testa è rosata. A terra, in sequenza, sono allineati un grande dado con le pareti inflesse, un rullo da tipografo, un pallone da mare. Contrariamente ai dipinti metafisici di De Chirico, in quelli di Carrà non è tanto l’attesa a determinare l’enigma e l’impressione di un evento che sta per accadere, quanto la sospensione del gesto che aspetta solo di riprendere vita. Madre e figlio, Carlo Carrà, 1917, olio su tela, 90x59,5cm, Pinacoteca di Brera , Milano Manichini antropomorfi ambientati in angusti interni, popolati da rigorosi volumi geometrici, dove l’artista propone il congelamento di ogni segno di vita e di ogni gesto.
Madre e figlio, Carlo Carrà, 1917, olio
su tela, 90x59,5cm, Pinacoteca di Brera , Milano Le figlie di Loth Tema che Carrà riprenderà nell’acquaforte del 1924 e nella litografia del 1961, senza rinunciare ai dettami della pittura metafisica. Il tema è ripreso dal libro della Genesi, in cui si narra che dopo la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra, le figlie del patriarca Loth, che hanno perso la madre, giacciono con il padre, stordito dal vino, per generare dei figli.
Le figlie di Loth, Carlo Carrà, 1919, olio
su tela, 110x80 cm, Mart, Rovereto Il tema scabroso è trasformato da Carrà nell’esaltazione della vita, con sicuro riferimento all’eccidio avvenuto nella Prima guerra mondiale. La fanciulla gravida è sull’uscio di casa, l’altra, sulla destra è inginocchiata e le tende la mano destra. Carrà si rifà allo schema dell’Annunciazione. Lo spazio è costruito prospetticamente.
Le figlie di Loth, Carlo Carrà, 1919, olio
su tela, 110x80 cm, Mart, Rovereto La prospettiva, non rigorosa, presenta numerosi punti di fuga, richiamando quella trecentesca.
Le figlie di Loth, Carlo Carrà, 1919, olio
su tela, 110x80 cm, Mart, Rovereto A sinistra la casa di scorcio, a destra un piedistallo sormontato da una pigna. I colori, la gestualità ed il paesaggio brullo illuminato da un cielo screziato di nubi è di chiara ascendenza giottesca; mentre le mani con le lunghe dita delle ragazze e il cane dal corpo slanciato, è un richiamo al Gotico Internazionale. Le linee prospettiche del pavimento e il bastone in primo piano, disposto diagonalmente, contribuiscono alla resa spaziale. Le figlie di Loth, Carlo Carrà, 1919, olio su tela, 110x80 cm, Mart, Rovereto Acquaforte tecnica calcografica che consiste nel corrodere una lastra di metallo (zinco o rame) con un acido, per ricavarne immagini da trasporre su un supporto di carta per mezzo di colori. La lastra viene: • ripulita con carta smeriglio • sgrassata con ovatta intrisa con carbonato di calcio sciolto in acqua • cosparsa con un coprente, asfalto, gomma, mastice • affumicata con un mazzo di candele • si incide il disegno con una punta sottile, mettendo a nudo il metallo in corrispondenza dei segni • s'immerge la lastra in acido, dopo averne cosparso di coprente la faccia posteriore, inizia così la morsura, l'acido incide il metallo solo dove non è protetto. • si lava la lastra con benzina od acquaragia, la si asciuga e la si tiene come matrice del disegno da replicare. • la stampa avviene al torchio calcografico su carte poco collate e inumidite, cospargendo di inchiostro grasso la lastra e scaldandola per favorire la penetrazione della tinta nei solchi e la sua cessione alla carta, previa pulitura delle parti che dovranno risultare bianche sul foglio stampato. Litografia La matrice è fatta di pietra calcarea: • viene levigata con pomice o sabbia • disegnata con una matita grassa o con inchiostro litografico che è grasso, si spennella la lastra con un liquido a base di acido nitrico, gomma arabica acidificata e acqua, l'acido nitrico trasforma tutte le parti non protette dall'inchiostro litografico, trasformando il carbonato di calcio in nitrato di calcio, sostanza idrofila. • la stampa avviene dopo 24 ore dalla preparazione, mediante il torchio litografico, la matrice disegnata viene bagnata e poi inchiostrata con un rullo di caucciù. • l’inchiostro sulla pietra così trattata è respinto dalle parti inumidite e trattenuto dalle parti grasse • Al torchio, il foglio di carta riceve solo l’inchiostro che si deposita sulle parti disegnate e non sulle altre. Il pino sul mare Si esprime attraverso il senso metafisico di calma, sospensione e di attesa. Il dipinto è ispirato da un soggiorno in Liguria. La solidità dei volumi richiama i dipinti di Giotto, l’ambiente naturale è rappresentato in modo ordinato, non c’è presenza umana, anche se è suggerita dalla presenza dell’abitazione a sinistra e dall’antro roccioso in fondo, Il pino sul mare, Carlo Carrà, 1921, olio su lambito dal mare quasi tela, 68x52,5 cm, collezione privata immobile. Altro elemento che suggerisce l’esistenza di esseri umani è un cavalletto su cui è steso un panno ad asciugare e che si trova in prossimità di un pino dal tronco curvo e da una esigua chioma.
Il pino sul mare, Carlo Carrà, 1921, olio su
tela, 68x52,5 cm, collezione privata Donna al mare, Carlo Carrà, 1931, olio su tela, 71x95 cm, Museo Revoltella, Trieste Donna al mare I dipinti che Carrà esegue tra il 1930 e il 1966 esprimono meglio il legame con il passato pittorico dell’Italia medioevale e quattrocentesca. Una giovane donna seduta sulla spiaggia è appoggiata Donna al mare, Carlo Carrà, 1931, olio su con la mano destra sulla tela, 71x95 cm, Museo Revoltella, Trieste sabbia e volge la testa verso il mare mosso dalle onde alte e increspate. Il cielo è dello stesso azzurro cupo del mare. Due barche sono in secco sulla spiaggia, in lontananza una a vela è in balia delle onde. La donna ha la camicetta bianca sotto l’ascella destra così da scoprirne il seno. La monumentalità del corpo Donna al mare, Carlo Carrà, 1931, olio su femminile richiama la pittura tela, 71x95 cm, Museo Revoltella, Trieste di Giotto che qui si amalgama ancora con la tematica metafisica dell’attesa. Carrà ha diviso la tela in due parti orizzontalmente, nella metà superiore c’è il mare e il cielo dai toni freddi, nella parte inferiore la spiaggia dai toni caldi. Il corpo della donna segue una delle diagonali della tela.