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SECRETUM 16/11/14 11:42

“Due di Due” di Andrea De Carlo e la fine degli Eighties


di Tommaso Tuppini

Gli anni Ottanta hanno apparentemente segnato, tra l’altro, l’abbandono dell’impegno politico in arte, almeno nell’ambito del consumo
su larga scala. Soprattutto nel cinema, che si può considerare il termometro più preciso dell’evoluzione del gusto delle masse cui
apparteniamo, un tornante della fruizione artistica da noi e nelle zone limitrofe sembra di facile reperibilità: con l’uscita di due film come
La Boum in Francia (1980) e di Vacanze di Natale in Italia (1983). Nel primo il disimpegno si riflette nella figura paradigmatica
dell’adolescente Vic, la quale – come scriveva Tullio Kezich – archiviata ogni velleità d’engagement, si interessa ormai solo ai motorini,
ai festini e altre quisquilie del genere e segue i precetti di una bisnonna, rudere della belle époque, la quale pratica una filosofia del tipo
quant’è bella giovinezza1. Nel secondo, Vacanze di Natale, esso è il presupposto della fenomenologia di un’umanità coinvolta in modo
pressoché esclusivo nella soluzione di problemi come il calcolo delle ore che si
impiegano a coprire in Mercedes la distanza tra via Montenapoleone a Milano e
l’Hotel Cristallo di Cortina d’Ampezzo.
In realtà la vulgata sul disimpegno politico dei ruggenti Eighties regge fino ad un
certo punto. È più corretto dire che il discorso sociale in arte non si abolisce, ma
procede mascherato, e propone modelli differenti da quelli dei due decenni che
erano preceduti. Ciò che determina lo stacco della sensibilità sociale degli anni
Ottanta in cose d’arte si può sommariamente indicare in tre punti: 1. il progetto che
viene di volta in volta proposto riguarda microcomunità, entità privilegiate (yuppies,
consorterie sportive, ecc.) e non è estendibile agli altri se non con difficoltà; 2. il
telos del progetto in questione è invariabilmente di carattere edonistico:
un’esperienza di piacere senza compromessi, spese o sacrifici, la produzione di
un’onda energetica incapace di decrescere (una sorta di rovescio speculare
dell’esperienza sadiana della pura negatività); 3. l’ottenimento del piacere coincide
con il possesso e consumo di un oggetto determinato (la droga, la vacanza, la
modella) che strappa il piacere allo spazio utopico in cui esso risiede per tutte le
ideologie della liberazione e, al prezzo della sua reificazione, lo fa presente qui e
ora2.
In Italia, dal punto di vista della letteratura, che vide il successo esplosivo del
genere fantasy e della fantascienza (sotto l’impulso ovvio e decisivo di Tolkien e
Lovercraft), gli anni Ottanta finiscono ufficialmente con la pubblicazione del
romanzo di Andrea De Carlo Due di Due, che è del 1989. Ciò che in questo
romanzo accade è, anzitutto, la ripresa esplicita del tema dell’impegno politico
come azione pubblica (uno dei perni della vicenda è la partecipazione dei due
protagonisti, Mario e Guido, alla proteste studentesche di Milano negli anni
Settanta), ma schiacciato sul medesimo piano delle vicende sentimentali che danno
forma alle avventure dei nostri in una Grecia estiva di cui tanti ragazzi e ragazze
italiani, proprio sulle orme di questo racconto, sarebbero andati con foga e
speranza alla ricerca nel decennio successivo. Da un lato già questo è indicativo di
un radicale cambio di modalità di fruizione del testo romanzesco: esso non viene
più usato come opportunità d’evasione, baloccamento fantastico con elfi, gnomi e
varie creature del bosco per consolare chi si è visto propinare fin da bambino solo il giardinetto popolato dai nani di terracotta; il
romanzo diventa direttrice di rotta, manuale di vita che può divenire immanente al decorso quotidiano delle cose3. Ancora più
caratterizzante per il contesto letterario dell’epoca è però il disegno preparatorio generale su cui è costruito il romanzo di De Carlo. Per
quanto abbiamo detto in precedenza il primo significato di questo lavoro è quello dell’analisi. L’aggregato che negli Ottanta tiene
insieme edonismo e società viene dissolto per poter ricollocare i due elementi paratatticamente, l’uno a fianco dell’altro. Impegno,
momento progettuale, e godimento immediato, emozione cristallizzata nel possesso fugace di un oggetto, vengono allestiti sullo stesso
piano di rappresentazione e tenuti in istato di reciproco equilibrio. “Equilibrio” è, non a caso, una nozione che ricorre diverse volte nel
romanzo di De Carlo. I discorsi di Guido, dice l’amico Mario, sono prevalentemente “discorsi sui danni agli equilibri”. Il libro è costellato
di situazioni emotive che nascono quasi per reazione chimica, per il funzionamento di agenti di scambio che di volta in volta
trasformano l’odio in amore e l’amore in indifferenza. L’equilibrio, a mano a mano che si procede nella lettura, diventa condotta di vita
di alcuni personaggi e legge della scrittura.
Due di due: tutta una serie di dualità e di duelli che vanno circoscritti, contenuti, tradotti entro un perimetro i cui bordi dovrebbero
garantire lo svolgimento sereno di una dialettica evolutiva sopportabile, ma che, per l’infelicità di chi dentro quel perimetro si muove,
risultano sempre troppo sfrangiati. La dualità più macroscopica da tenere in equilibrio è quella dei protagonisti Mario/Guido, senz’altro.
Ma molti altri duelli aiutano il lettore a dipanare il filo della storia: quello scuola/impegno, ad esempio. Oppure (frontiera differenziante
che passa all’interno dell’impegno stesso): anarchici/katanga. E anche: Italia/Grecia, città/campagna (cioè, sostanzialmente:
Milano/Gubbio, dove la prima diventa la cifra del più colpevole conformismo e la seconda allude a una possibilità di riscatto attraverso
la valorizzazione del lavoro agricolo). E quella che è forse la dualità più sottile e significativa del libro, quella che tiene coerentemente
insieme i lunghi anni di Gubbio: casa abitata/casa disabitata. Casa abitata versus (come viene detto una volta) casa “idea”: strumento
ed evento incorporeo, corpo e vapore sulla prateria, come scriveva Deleuze. L’equilibrio di cui si diceva sembra tradursi per Mario,
verso la fine del romanzo, soprattutto nel problema concreto di come istituire una forma di comunicazione adeguata tra gli spazi
famigliari della casa abitata e il vuoto di un edificio destinato a non essere mai occupato dall’ospite per cui propriamente è stato
costruito.
Equilibrio della dualità da architettare, dunque, ma sempre minacciato dal disequilibrio. Anzitutto perché i rapporti di forza tra le
persone, apparentemente stabili, si rovesciano (i movimenti dei due protagonisti, dopo la prima parte del romanzo, non procedono più
paralleli, finiscono per intersecarsi disegnando una sorta di grande chiasmo, in cui il carisma di Guido si smarrisce a mano a mano che
Mario acquista di sicurezza nelle proprie scelte, ed in questo il paradigma del romanzo rimane quel Tenera è la notte che presenta la
medesima inversione tra collocazione iniziale e finale di Dick e Nicole). Perché in fondo gli anarchici sono degli improvvisatori che
fanno da semplice controfigura imbelle al settarismo dogmatico di Capanna&Co., e così diventano quasi uno sfondo per la figura in
primo piano del Movimento Studentesco, una sua ragione di evidenza percettiva. Perché la Grecia, dopo una breve illusione, non è più

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luogo di aggregazione comunitaria, ma terra di conquista per gl’italioti ciabattanti, gli angli ubriaconi, le fidanzate borghesucce. Perché
sulla campagna umbra, in cui si ritira Mario, si stende ben presto il reticolo della divisione del lavoro e dei prestiti bancari, senza i quali
nessuna “purezza” da vita agreste sarebbe possibile: la perfezione autarchica inizialmente vagheggiata cede il passo alla circolazione
mercantile, anzi, ad una sua variante politically correct, quella dell’agricoltura biologica (cliché, questo del biologico, cui la civiltà
industriale è affezionata come a pochi altri). E soprattutto per via del rogo che nelle ultime pagine distrugge la casa “idea”, lasciando
intatto il suo doppione rassicurante, rogo che mette insieme (potenza della scala telescopica del romanzo di cui De Carlo si rallegra
nella nuova prefazione al libro) la paura e la seduzione dello spettacolo che i sistematici del Settecento definivano sublime, la
campagna mediterranea e un rito funebre da mitologia scandinava. Rogo che ha la bellezza e la difficile austerità del finale del
Sacrificio di Tarkovskij.
Ciò che inizialmente appare equilibrato ed orbitante intorno ad un sicuro punto d’attrazione finisce allora per sottomettersi ad un
principio dell’entropia: tutto si scardina e precipita in una nebulosa dalla quale la luce degli incontri rimanda solo riflessi di grigio. La
nebulosa ed il grigio: ecco l’importanza di Milano nel romanzo. Che non viene affatto messa semplicemente alla berlina per i suoi
irrespirabili veleni come potrebbe accadere in una qualunque gazzetta ecologista (così come vuole il luogo comune del rapporto tra De
Carlo e la sua città natale), ma che, foss’anche controvoglia, diventa uno dei protagonisti più memorabili del libro, celebrata da De
Carlo con il sentimento attento del rinnegatore, comunque indelebilmente illustrata anche solo con quelle intermittenti luci al neon che
ne tagliano la nebbia lattiginosa. Milano appare come l’intimo destino dei personaggi, al di là di ogni loro dislocazione geografica o
consapevole scelta: la cifra di Milano è quell’inerzia d’asfalto, quella inscalfibilità delle cose cui, in un modo o nell’altro, finiscono per
arrendersi sia il contadino Mario che lo scrittore Guido – “decorosamente” e in modo responsabile il primo, coerentemente con la
prudenza del proprio demone, in modo suicidale il secondo, posseduto dall’impazienza e dalla passione rovinosa per l’immediatezza
dei terroristi, sollecito a portare a puntiforme coincidenza le dimensioni avverse dell’esistenza che Mario (massime nell’esemplare
scelta della costruzione delle due case4) desidera di tenere accortamente divaricate. In questo De Carlo è più pessimista di Drieu o di
Rilke: di solito gli scrittori nei loro romanzi o poesie fanno suicidare i non-scrittori o gli scrittori falliti, salvando i colleghi che lavorano.
“Se tu avessi visto come la vita rifluisce nei versi e non torna indietro – avresti resistito”, diceva il poeta tedesco pensando all’amico che
si era fulminato le cervella. Diventa un bel problema quando anche il personaggio-scrittore decide di farla finita, e non per finta, con
l’inchiostro, pubblicando ad esempio un libro “maledetto” come Canemacchina, ma disegnando con l’automobile un tratto rettilineo
contro un palo. Con il suicidio più o meno volontario di Guido e il rogo della casa “idea” fallisce implicitamente anche il progetto di
Gubbio, ossia di ciò che doveva essere la sintesi inverante delle lotte degli studenti (i cui gruppi formano delle comunità dalla struttura
abbastanza compatta, che si mummificano però nell’irrigidimento gerarchico) e dello spontaneismo della vacanza in Grecia (comunità
instabile, che si tiene insieme come un libero flusso di energie libidiche, ma sempre pronta a prostituirsi come “turismo”). Come se gli
anni Ottanta avessero intravisto per un attimo la possibilità di dare un senso costruttivo all’esperienza del piacere immediato, avessero
messo a fuoco la liberazione marcusiana delle energie creative al servizio del bisogno, per subito ritrovarsi gli occhi pieni di lacrime che
bruciano. Alla sintesi che non riesce tra l’uno e l’altro polo dell’equilibrio minacciato,
tolta la via del prospettamento utopico, già battuta a sufficienza nel corso dei
vent’anni ch’erano preceduti, De Carlo sostituisce l’implosione rovinosa dei termini
nell’atto suicidale. Con questo gesto gli anni Ottanta sono stati squadernati, tagliati a
pezzi, ricomposti e digeriti.
Ma, nonostante tutto, Due di Due rimane un bollettino della vittoria in cui trova
espressione anche una profonda gioia. Equilibrio e disequilibrio sono infatti non solo
gli oggetti del romanzo di De Carlo, ma soprattutto i criteri di una scrittura che
procede in senso inverso rispetto alla lenta catastrofe della storia. Una scrittura che
non va dal primo al secondo, ma, per vocazione, dal secondo al primo, funzionando
dall’inizio alla fine come una profilatura rigorosa del caos. Che traduce la carne e il
sangue degli eventi più densi in una coreografia dei movimenti (i confronti tra
studenti e polizia), in una geometria degli sguardi (le scene di seduzione), dei suoni,
degli affetti, che dà una impressionante nettezza di gelo a tutto ciò ch’è di per sé
mobile e scivoloso e che, ciononostante, non viene dalla geometria salvato, perché
la precisione della scrittura abbandona – si potrebbe dire “eroicamente” – gli eventi a
tutta l’insignificante perfezione di cui sono fatti, proprio mentre li mette in scena.
Perché la ressa delle percezioni viene ordinata per grandi simmetrie, appiattita su di
un piano cartesiano, ad essa viene dato un orientamento, un senso, ma nessun
significato trascendente o redenzione. La bellezza della scrittura di De Carlo consiste
nel saper fare una sorta di esercizio sismografico, nel trascrivere le vibrazioni
emotive, nello spazializzare il tempo del racconto senza alcun residuo e senza la
consolazione di nessun retromondo. Essa ci mostra come il flusso cronico è solo
un’illusione immaginativa di primo grado, una comoda antropizzazione
dell’esperienza, e che in esso, immanente, insiste una dimensione diagrammatica
dell’esperienza, che nella vicenda inarrestabile e pastosa delle cose sono
trasversalmente confitte immobili sezioni geologiche le quali hanno la durezza del
diamante, la trasparenza del cristallo e l’eternità di un attributo spinoziano (per questo, nonostante le numerose allusioni ai mondi
possibili di Leibniz in esso contenute Due di Due fa parte soprattutto della famiglia ristretta del grande romanzo spinoziano).

1. Il fatto che la citazione sia a memoria mi consente di non virgolettare, pur non volendo io qui in alcun modo sottrarre la paternità
della divertente formulazione a Kezich.
2. È difficile fare una considerazione analoga per gli Stati Uniti, dove le responsabilità mondiali ed il reaganismo imperante
introducevano pur sempre nel cinema una esplicita sociologia celebrativa del self-made man o del militare inviperito chiamati a
ristabilire un ordine minacciato (si pensi ai vari Rocky o Rambo o Top Gun), dovere di esplicitezza cui non si sottrasse neppure il
neonato filone teenageresco, vero boom di quegli anni, coinvolto nella messa in scena di quindicenni impegnati in serrati confronti con
le forze dell’adultità prevaricatrice (polizia o addirittura entità governative) dai quali i primi dovevano uscire come vittoriose cellule
generative della futura nazione americana (l’esempio migliore è senz’altro l’E.T. di Spielberg). Per questo, oltreoceano, le nuove forme

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dell’impegno edonistico dovettero trovare rifugio in una forma d’arte cui veniva assegnata una minore responsabilità formativa di quella
che veniva riconosciuta al cinema, perché più elitaria, socialmente meno diffusa, e quindi sostanzialmente innocente, come la
letteratura. È così, nello spazio di una casella che Hollywood aveva lasciato scoperta, che nacquero i libri del Brat Pack, quelli scritti da
Jay McInerney e Bret E. Ellis avanti a tutti.
3. Chi negli anni Novanta, ottenuta la maturità liceale, si è recato sulle isole greche sa che spesso accadeva di trovare campeggiatori o
vicini di spiaggia che tenevano sotto il cuscino o dentro lo zaino Due di Due e non pochi tra questi misuravano la riuscita iniziatica del
proprio viaggio sul paradigma offerto da Guido e dalla sua internazionale comunità ivi descritta. Anche per questo non si può negare
che De Carlo è uno dello sparuto gruppo di scrittori italiani non ancora imbalsamati dalla celebrazione scolastica che sia riuscito a dare
forma alla rêverie concreta di una intera generazione (e non solo della sua parte colta), la quale non era nemmeno quella cui egli
apparteneva.
4. Tra esperienza dell’equilibrio e destinazione al disequilibrio si svolgono anche le storie che De Carlo aveva raccontato in
precedenza, di cui alcuni momenti simbolici erano, ad esempio, la “momentanea sbilanciatura di tratti”, la “increspatura non prevedibile
in una superficie omogenea” che il fotografo Giovanni coglieva nella vita privata dei divi hollywoodiani in Treno di panna o i muri senza
spigoli delle stanze abitate da Macno (l’eroe eponimo del terzo romanzo di De Carlo) il quale, nel suo precedente lavoro di giornalista,
si era lasciato sedurre dalla possibilità di “mixare i suoni e uniformare bene i colori e far scivolare via le immagini in modo che nessuno
noti l’ombra di una sfasatura”.

In copertina e nelle foto: lo scrittore Andrea De Carlo.

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