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“La polvere di Morandi”

di Mario Chemello del 2010, diretto e montato da Germano


Maccioni e Victor Loh.

Si può creare una riflessione interessante seguendo lo svolgi-


mento narrativo dell’evoluzione artistica di Morandi: la qua-
lità tecnica incisiva della matrice, risolta nel processo della
stampa, si può paragonare al processo caricaturale nella forma
‘oggettuale’ pittorica. L’elemento diviene caricatura di se stesso,
incisione per ‘impressione’. Come disse Wayne Thiebaud si
parte dalla percezione della superficie sviluppando una pres-
sione, la natura morta ha una “meravigliosa e quiete tensione”.
Equilibrio e disequilibrio. Si occupa allo stesso modo di com-
posizione dell’oggetto ma è comunque difficile guardare. La
“muscolatura” morandiana ha un’ambiguità nelle sue intenzio-
ni, nella risonanza talmente bassa in cui l’esistenza dell’oggetto
non è persuasiva in termini di energia. Momento di intimità
silenziosa della ‘dimensione’ piatta. L’oggetto venendo dipinto,
o con la polvere, diviene pigmento pittorico e venendo ritratto
ritorna oggetto dipinto nel quadro.
“Caravaggio”

di Derek Jarman del 1986.

Le inquadrature, come il rapporto cromatico di luci e


ombre nella ripresa risuonano del carattere pittorico
del linguaggio caravaggesco. “Le stelle sono i diaman-
ti dei poveri, i ricchi nascondono i loro diamanti in
casse forti. Si vergognano a doverle comparare con le
ricchezze del signore che splendono nel cielo.” Il pitto-
re delle ombre, il suo carattere è il destino dell’uomo.
Viene evocato un immaginario grottesco, pornografi-
co, sporco e malsano nell’impianto del film tipico del
regista (pittore anch’egli), già rinchiuso silenziosamente
nella pittura del Caravaggio. La piena morbidezza del
pennello stesa sullo schermo/tela impregna l’immagine
di quella pastosa consistenza innovativa rinascimen-
tale. Quella stessa densità dominata dal colore anche
eccessivo, che pervade la scena e si riflette nella pittura
caravaggesca, diventando strumento espressivo di una
cupezza costante che, insieme al malessere esistenziale
dell’artista, sembra attraversare l’intera vicenda uma-
na rappresentata nel film. “Un triste riflesso dei nostri
tempi”, come definito da uno dei personaggi.
“Blow up”

di Michelangelo Antonioni del 1966.

Il bello e la bizzarria raggiungono nuove forme. Estetica


fotografica nel riquadro cinematografico. Gli piace fare l’a-
more con il soggetto, “è come trovare la chiave in un libro
giallo”. La fotografia ha una recitazione ‘piatta’ Antonioni
ridà allo ‘scatto’ il movimento ‘immortalato’, rimanen-
do comunque tale nel film. Come sostiene Benjamin in
“Piccola storia della fotografia” la fotografia è “il mezzo
tecnico capace di catturare l’immagine, di crearla, anzi, ex
novo a partire dagli elementi disordinati che è possibile
cogliere dalla realtà.” La riproducibilità o, al contrario,
l’unicità dell’immagine è la questione del tempo che essa
cattura, per fissarlo nell’immagine di un istante eterno. La
fotografia nel film è l’unico complice silenzioso e testimo-
ne ‘impresso’.
“Zabriskie Point”

di Michelangelo Antonioni del 1970.

“Si deve far qualcosa solo quando ne si ha bisogno. Io


ne ho bisogno prima.” “Il prezzo di una cosa non è mai
alto o basso se non in rapporto al suo potenziale d’uso”.
Nella loro impotente disperazione i due personaggi,
Mark e Daria, non possono far altro che immaginare la
distruzione di tutti i simboli della spietata società nella
quale è costretta a vivere. La fuga, l’incontro casuale,
l’amore estatico, il collasso del mondo. Caos e Caso
sono una coppia perfetta nell’America di Antonioni in
cui i giovani ribelli sono attorniati da scritte pubblici-
tarie ormai divenute arte ed il deserto diventa luogo
di comunione. La società dei consumi, la violenza, la
falsità (falsificabilità) dei media di contro alla riscoper-
ta della solitudine dell’individuo e della casualità come
fonte di un barlume di speranza. Un sacrificio ben più
che simbolico. Dal pieno del consumismo morboso al
vuoto delle emozioni aperte del bianco.
Di “Antologia surrealista” mi viene solo di espri-
mere ciò che vedo: uno sfrenato, sregolato richia-
mo del mondo in chiave simbolista. I surrealisti
cercarono di abolire il confine tra sogno e veglia,
cercando una “scrittura automatica” da semiad-
dormentati (Robert Desnos), oppure creando
immagini “ipnagogiche”, che si vedono tra il pas-
saggio del chiudere e riaprire gli occhi dallo stato
di incoscienza del sonno. Figurativo, l’erotismo e
la magia bizzarra.
“Dillinger è morto”

di Marco Ferreri del 1969.

Il film si può definire un design della disperazione, le


parole lasciano il posto agli oggetti che si trasformano
in segni. Il lungo ‘segmento’ dentro casa del designer
Michel Piccoli (che è in realtà la abitazione del pittore
Mario Schifano, escluso la cucina della casa di To-
gnazzi a Velletri) si svolge in un crescendo di paranoia
e solitudine. Da una parte la vitalità degli oggetti,
il numero esorbitante di provviste negli scaffali, il
disordine dei libri, la pop art dei quadri di Hamilton e
Lichtenstein. Dall’altra l’insensatezza delle azioni degli
esseri umani, la noia, la perversione ‘scopica’, la psicosi
paranoica, le prove di auto soppressione e l’omicidio.
“L’isolamento in una camera che non debba comuni-
care con l’esterno perché piena di un’atmosfera morta-
le, una camera quindi dove per sopravvivere è necessa-
rio portare una maschera ricorda molto le condizioni
di vita contemporaneo...il fatto di sapere di dover
portare la maschera non da un senso di angoscia?”.
“Gruppo di famiglia in un interno”

di Luchino Visconti del 1974.

Appare come un film racchiuso dentro le mura dell’appartamento


nel quale, il professore (senza nome), decide di rifugiarsi chiu-
dendosi al mondo. Ed è il giusto contrappasso a questa accentuata
solitudine vedere il panorama della città, dall’ampio balcone, cir-
condato da cupole, palazzi gentilizi, ma tutti di cartone. Il colorarsi
di agganci col presente rende evidente il rifiuto del regista per certe
espressioni della contemporaneità che diventano rifiuto politico
dello stato delle cose. Mostrare la parte più malata dell’animo uma-
no che scivola verso l’abiezione e la decadenza di ogni principio. La
solitudine ricercata come un’alleata dal rifiuto del mondo, diviene
prigione del passato, del vecchio, della morte. Come un bel mobile
d’epoca con i tarli sotto la vernice. La polvere gli si è stratificata
addosso.
“Le sang d’un poete”

di Jean Cocteau del 1932.

La voce declamante dell’artista è il filo di sutura tra


il pensiero e la visione in uno stato di dormiveglia
che permette la discesa nelle zone più profonde
dell’Io. “Qualsiasi poema è un blasone, è necessa-
rio decifrarlo”; film orfico impregnato di caratteri
rievocanti il paesaggio del“Le metamorfosi” di
Ovidio. Un viaggio intenso nella creazione poeti-
ca: non solo nell’oggetto di questa creazione, ma
nell’invenzione della stessa. Le scene possiedono
una superficie molto pittorica in bianchi e nere, a
riaffiorare quasi l’esperienza con l’opera delle lezio-
ni di Roberto Longhi. La frase portante dell’im-
maginario artistico di Cocteau è: “GLI SPECCHI
FAREBBERO BENE A RIFLETTERE UN PO’ DI
PIÙ PRIMA DI RIMANDARE LE IMMAGINI.”
“L’avventura di un fotografo”

di Francesco Maselli del 1983.

“Il gusto della fotografia spontanea naturale


colta dal vivo”, dice, “uccide la spontaneità,
allontana il presente”. La fotografia diventa
per lui un’ossessione conoscitiva, che lo porta
dietro ad una macchina fotografica, a chiedersi
quale sia il significato degli atti dei fotografi e
dei fotografati, e se l’essenza del ritratto pos-
sa essere colta in un fluire d’istantanee, che
ricostruiscano come in un puzzle l’individuo, o
nella maschera sociale di una posa, che rive-
lerà poi i suoi significati. Quanto al senso della
fotografia va citato il Calvino delle Lezioni
americane: «Penso a una possibile pedagogia
dell’immaginazione che abitui a controllare
la propria visione interiore senza soffocarla e
senza d’altra parte lasciarla cadere in un con-
fuso, labile fantasticare, ma permettendo che le
immagini si cristallizzino in una forma ben de-
finita, memorabile, autosufficiente, “icastica”».
E’ una riflessione sull’arte e sul cul de sac cui in
cui essa è destinata a cadere inevitabilmente.

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