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Luca Giuliani

Castel Viscardo e le sue fornaci


Storia, giurisdizione e commerci di una
microsignoria nell’orvietano

2014

1
Autorizzazioni alla pubblicazione delle immagini e ringraziamenti

I documenti dell’Archivio di Stato di Terni – Sezione Orvieto sono


stati riprodotti “Su concessione del Ministero dei Beni e delle Attivi-
tà Culturali, autorizzazione n. 81 dell’Archivio di Stato Sezione di
Orvieto”, del 6 febbraio 2014.

Per le altre fotografie si ringrazia: Petronio Stefani e Maria Luigia


Borri, il Comune di Castel Viscardo, la Biblioteca “Leopoldo Sandri”
di Castel Viscardo, l’associazione “Anche il dilettante è artista” nelle
persone di Simonetta Sterpa e Annunziata Tiracorrendo, la famiglia
dei conti Valentini e Simeone Stefani, la Fondazione Cassa di Ri-
sparmio di Orvieto, in particolare il presidente Vincenzo Fumi e Mar-
co Starna, la Società Geologica Italiana e Alessandro Zuccari, la par-
rocchia della SS.ma Annunziata di Castel Viscardo, Nadia Tiezzi, An-
na Bruna Cimicchi e Norberto Seccafieno, Franca Sugaroni e Vera
Bianchini, Gianfranco Borri, la Graphisphaera nelle persone di Cesare
Goretti e Valeria Zannoni, Eligio Sugaroni e Antonietta Pasqualetti.

Un ringraziamento particolare a Mara Luigia Alunni e a Elisa Cer-


checci.

2
a tutti i “fornaciari” maestri di vita di ogni tempo
e in particolare a Piramo, Marcello e Stefano

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4
INDICE

Introduzione

1. Castel Viscardo e il Museo Multimediale


delle Terrecotte p. 7
2. Preambolo su Castel Viscardo p. 12

Capitolo 1: «il Castello non hà che fare con Orvieto»

1. Rapporti di confine: problemi e risoluzioni tra


Quattrocento e Cinquecento p. 20
2. Lavori di fornace a Orvieto e nel circondario: dal XIII
secolo alle prime indicazioni di Castel Viscardo p. 29
3. Il commercio del “materiale di fornace”:
importanti lavori nella città di Orvieto p. 33
4. Castel Viscardo, i lavori di fornace e il “misto imperio” p. 45
5. Nuovi commerci verso Orvieto p. 67

Capitolo 2: Storia e storie delle fornaci di Castel Viscardo

1. I fornaciai di Castel Viscardo nella seconda metà


del Cinquecento p. 76
2. Fornaci e fornaciai a Castel Viscardo nel corso
della prima metà del Seicento p. 86
3. Dispute, contratti e accordi con il signore del Castello:
le fornaci di Castel Viscardo dalla seconda metà del
Seicento al Settecento p. 99
4. Stoviglie, orci, vasi e maiolica: le altre
fornaci di Castel Viscardo p. 113
5. Statistiche e altre curiosità sulle fornaci tra
Ottocento e Novecento p. 125

5
6
Introduzione

1. Castel Viscardo e il Museo Multimediale delle Terrecotte

Tutte le volte che si riscrive una storia già cento volte narrata
l’autore commette una doppia colpa: condanna le menti alla
noia di risentir cose sapute e tenta di rubare porzioni di tempo
ai già troppo assediati lettori. Il torturatore e il ladro deve, fin
dal principio, giustificarsi. L’attenuante più valida, in tali casi,
è la promessa di offrire alcunché di nuovo. Confido che valga
anche per me.

Con questo preambolo, l’illustre scrittore e poeta Giovanni Papini (Fi-


renze, 1881-1956), nel 1937 introduceva la sua Storia della Letteratu-
ra Italiana, quasi a scusarsi per una nuova ed ennesima riproposizione
di un argomento così abusato1. Mutuando questo stesso concetto, tor-
no sull’argomento protagonista dei miei ultimi anni di studio, ossia le
fornaci e i laterizi di Castel Viscardo, per il quale ho già dato alle
stampe più di una pubblicazione. Come giustificazione giova ricorda-
re, oltre al reperimento di nuovo e inedito materiale, anche la recente
inaugurazione e apertura al pubblico del Museo delle Terrecotte, per-
tanto l’occasione non poteva sembrare più propizia, visto il nuovo ma-
teriale ritrovato, insieme al cortese invito di far parte di una collana a
cura del GAL Trasimeno Orvietano.
Tanto più che rinnovare un museo nel corso dei tempi che viviamo,
con piccoli accorgimenti e nuova multimedialità, potrebbe intendersi
per i più come una intenzione anacronistica, fuori dagli schemi del ne-
cessario. Se si tratta per giunta di un piccolo museo, in corrispettiva
realtà, vediamo come spesso tanti sforzi rischino di rimanere vaghi o
non capiti.
In questa avventura, consapevole della validità della cultura locale e
dello scopo della nuova istallazione, il Comune di Castel Viscardo ha
scelto di cavalcare l’onda contraria, immergendosi in un nuovo tenta-
tivo di allestimento (mai così multimediale), specchio di una realtà e
di una cultura locale che ripercorre i secoli in un legame indissolubile
con l’artigianato manifatturiero laterizio del quale, documenti alla

1
G. Papini, Storia della Letteratura italiana, vol. I, Firenze 1937, p. 9.

7
mano, si hanno notizie ininterrotte almeno dal Cinquecento, quando
ancora “spadroneggiava” nel territorio la famiglia orvietana dei Mo-
naldeschi della Cervara.
Grazie a questo connubio e alla certezza che dalla tradizione locale
possa (ri)trovarsi la strada o, almeno, nuove risposte alle tante doman-
de del tempo odierno, anche grazie al contributo della Regione Um-
bria, il Comune di Castel Viscardo ha rinnovato e implementato
l’allestimento museale, allo scopo di valorizzare l’ininterrotta tradi-
zione del cotto fatto a mano. Tali innovazioni segnano il naturale sus-
seguirsi di quanto “messo in moto” dal biennio 2003-2005, grazie
all’impegno dello stesso e al contributo del GAL Trasimeno-
Orvietano, in attuazione del progetto pilota “Museo Multimediale del
Cotto”, adibendo una sede recuperata da un antico fontanile. Questa è
stata intesa da subito quale mezzo con cui descrivere e mettere in ri-
salto le tematiche legate alla lavorazione dei manufatti di argilla, pri-
maria attività produttiva del territorio, anche attraverso lo svolgimento
di incontri divulgativi e attività seminariali. Nel corso del 2006 è stato
poi allestito un laboratorio didattico permanente, attrezzato per la ma-
nipolazione dell’argilla e per la sperimentazione tecnica, nonché per la
decorazione della terracotta, e, di seguito, si è lavorato per arricchire
l’impianto museale realizzato con i prodotti dell’attività artigianale. Il
passaggio successivo è stato cercare di far comprendere come la lavo-
razione si sia evoluta nel corso degli anni, per non dimenticare la stra-
da tracciata dai nostri antenati, i cui antichi ritrovati sono ancora attua-
li e alla base delle moderne tecnologie di produzione, il tutto attraver-
so la redazione di una prima ricerca storica realizzata tra il 2008 e
2009 e, quindi, pubblicata nel dicembre di quest’ultimo anno2.
I recenti lavori di allestimento hanno notevolmente incrementato
l’offerta per i visitatori, tanto che il percorso museale inizia con la ri-
costruzione del luogo di lavoro delle fornaci e di una parte di un pozzo
per la cottura dei laterizi, con tanto di pannelli esplicativi delle varie
fasi lavorative.

2
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…Il Castello di Viscardo e le sue fornaci, Castel
Viscardo 2009.

8
Museo delle Ter-
recotte di Castel
Viscardo: rico-
struzione di una
“cappanna” dove
si producono i la-
terizi (foto Petro-
nio Stefani, g.c.)

La visita continua nella sala conferenze, ove si assiste alla visione di


un filmato sulla storia delle fornaci di Castel Viscardo, sia di laterizi
che delle perdute manifatture di pignatte, orci, vasi, ziri, stoviglie, ac-
cessori per la cura della persona e immagini sacre (le cosiddette “ma-
donnelle”); quest’ultime sono ancora oggi visibili nelle vie del paese,
ora su un architrave, ora sui muri delle abitazioni più antiche. Nello
stesso spazio, sono allestite una serie di immagini, messe a disposizio-
ne dalle locali aziende, rappresentanti la loro commissione più signifi-
cativa e, ai lati, due imponenti orci da olio dell’inizio del XX secolo,
opera del mastro Gioacchino Borri. Infine, l’angolo dell’archivio, un
approfondimento documentale o anche un “libro aperto”, con slide
sfogliabili, nel quale ripercorrere la storia artigianale attraverso i vari
atti sin qui ritrovati, una sezione per i laterizi e una per le altre mani-
fatture.
Al piano superiore, un secondo filmato in 3D ricostruisce la storia di
Castel Viscardo, dalla fine del XIII secolo al 1928: dalla prima torre di
avvistamento e insediamento intorno alle proprietà di Viscardo Ranie-
ri (dal quale deriva il toponimo) di fine Duecento, al “tardo incastel-
lamento”, allo sviluppo del borgo all’interno delle mura, sino alla “di-
sgraziata” distruzione novecentesca delle case dell’antico paese, sorto
all’interno del perimetro più stretto del Castello. Grazie alla tecnologia
si torna così a riscoprire vie e luoghi ormai perduti a causa
dell’indiscriminata autoreferenzialità del tempo fascista.

9
Il Castello di Viscardo: a sinistra la configurazione prima del 1928, a destra il solo
castello dopo la distruzione delle antiche abitazioni.

Ai lati, sono stati posti dei pannelli rappresentanti un affresco di Ca-


stel Viscardo del XVII secolo e due vedute dello stesso con e senza le
case del rione detto «Suddentro»; dall’altro lato, delle riproduzioni del
catasto gregoriano con indicazioni dell’abitato e insediamento delle
fornaci di mattoni e terrecotte nel 1876.
Nel piano sottostante il museo è, inoltre, allestito un laboratorio, dota-
to di forno per la cottura e la smaltatura, dove si organizzano in buona
cadenza, con la partecipazione della locale Pro Loco, corsi di manipo-
lazione dell’argilla ed è possibile, su richiesta, predisporre attività
specifiche. Sono stati prodotti
diversi manufatti che decorano
il paese in alcuni luoghi carat-
teristici, come la fontana de-
nominata “Il Girotondo delle
Stagioni” (realizzata nel 2011
in piazza Gen. Cimicchi) o
quella posta all’ingresso dello
stesso museo, il monumento ai
caduti e invalidi sul lavoro (in
piazza 4 Novembre), il prese- Il forno per la cottura dei manufatti allestito
pio di terracotta, le pergamene nel laboratorio del Museo (foto Petronio Ste-
ricordo utilizzate nelle varie fani, g.c.).
manifestazioni, la targa della
locale biblioteca comunale, ora dedicata al grande archivista Leopoldo
Sandri, nativo di Castel Viscardo, e tanti altri lavori di artisti locali.

10
Il “Girotondo delle stagioni”, opera di più
artisti locali, composta di vari pannelli te-
matici in terracotta realizzati e cotti nel la-
boratorio del Museo delle Terrecotte. A sini-
stra il pannello raffigurante l’estate con le
fornaci e il “solleone”.

Da quale realtà prende le mosse tale allestimento? Quali sono le ra-


gioni che giustificano questi investimenti di denaro pubblico? Sono
effettivamente presenti cognizioni storiche atte alla valorizzazione del
territorio? Rispondere a queste domande appare opera di straordinaria
difficoltà, in realtà tanto più isolata all’interno della condizione odier-
na della stessa Orvieto e del suo comprensorio, dove Castel Viscardo
trovò (in passato come oggi, anche per la mera autogestione di servizi
culturali) spazi del tutto personali di giurisdizione che esulavano dal
costante e preponderante potere orvietano. Pur facendone parte a pie-
no titolo, Castel Viscardo godeva al tempo di prerogative non comuni,
il cosiddetto “misto imperio”, che lasciava ampi (?) margini di gestio-
ne al signorotto del luogo, ripercuotendosi anche sul commercio e la
produzione artigianale3.
Prima di addentrarci nelle questioni storico-amministrative e di ana-
lizzare i rapporti tra il piccolo feudo e Orvieto, soprattutto riguardo al
commercio, è quanto mai necessario anteporre un breve quadro sullo
stato della ricerca delle origini di Castel Viscardo, allo scopo di sfatare
maggiormente alcune leggende che, nonostante tanto impegno, conti-
3
Per approfondimenti sul “misto imperio”, con particolare attenzione alla situazione
storica di Castel Viscardo, si rimanda all’interessantissimo studio di M. D’Amelia,
Orgoglio baronale e giustizia, Castel Viscardo alla fine del Cinquecento, Roma 1996.

11
nuano ancora a essere diffuse, soprattutto in opere di carattere com-
merciale e divulgativo, atte alla “informazione” generale sul territorio.

2. Preambolo su Castel Viscardo4

Il Castello di Viscardo:
ingresso del XVII secolo
(foto Archivio Famiglia
Valentini, g.c.).

Della storia e tradizione manifatturiera dei laterizi di Castel Viscardo,


piccolo paese umbro e capoluogo dell’omonimo Comune, si sente
parlare molto e il più delle volte a sproposito. Se da un lato il tutto
deve essere certamente connaturato a quanto succedeva nel territorio
circostante, molte volte abbiamo riferimenti quanto mai disparati a
fantomatici fondatori o, ancora, alla presenza di impianti di laterizi
già dal XIII e, per giunta, istauratisi per la costruzione del castello.
Tutto questo nonostante, i documenti lo testimoniano, i vari passaggi
di “crescita”, estensione e definizione non erano così pacifici, ma anzi
richiedevano lo scorrere di numerosi secoli, tramutando il fortilizio da
sede di incastellamento tardivo, a rocca, sino a maniero e, quindi, di-
mora di campagna, con tutti i cambiamenti che tali variazioni pre-
scrissero.

4
Le informazioni di questo paragrafo sono una sintesi di quanto ampiamente rico-
struito a cura di chi scrive, con tanto di riferimenti documentali, in altre sedi, ossia il
citato Nel mio piccolo loco…, per quanto riguarda le origini e le fornaci, e in Le for-
naci di Castel Viscardo tra la metà del XVI secolo e l’inizio del XVIII, in «Proposte e
ricerche», 36/71 (2013), pp.184-202.

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Di certo sappiamo che il borgo deve la sua denominazione a tal Vi-
scardo Ranieri, vissuto nella seconda metà del XIII secolo; questi era
ripetutamente segnalato nel catasto del contado di Orvieto del 1292,
come proprietario di terre confinanti con i possidenti dell’antica villa
denominata Selci, oggi scomparsa, la cui antica presenza è attestata
dal podere che ancora riporta la denominazione «Santa Maria», la
stessa di una delle chiese ivi erette.
Selci era antecedente a Castel Viscardo e, senza rifarsi all’epoca etru-
sca (della quale rimane la necropoli detta delle «Caldane», databile al
VI secolo a.C.) o romana (il cui stanziamento era certamente presso il
podere denominato la «Torricella», con una stazione di posta attorno
alla quale sono ancora visibili i resti di una cisterna catalogata dalla
competente Soprintendenza), prendeva la sua denominazione dalla
grande quantità di pietra di basalto presente. Esso era citato nella rap-
presentazione del contado del 1278, a proposito dei «pleberi» di San
Giovanni di Monte Pagliano e di San Donato, nella cui descrizione in-
terna troviamo la chiesa di San Bartolomeo di Selci e, successivamen-
te, in quello del 12925. Nel 1297 la rettoria di Santa Maria e San Bar-
tolomeo di Silce pagava le decime a Roma6. Di questa villa (ossia in-
sediamento non fortificato) esiste testimonianza nel 1357, anno nel
quale era raggiunta in atto di sacra visita dal vescovo Ponzio Perotto
Guascone e, ancora, in quello successivo7.
Nel catasto del 1292 a Selci, tra i diversi proprietari di terre o vigne,
erano censiti alcuni esponenti o eredi della famiglia Ranieri, tra questi,
molti avevano come confinante o limitrofo un certo signor Viscardo di
Ingramo, ossia quello stesso Viscardo Ranieri, a cui si deve la fonda-

5
Orvieto, Archivio di Stato (d’ora in poi ASO), Archivio storico comunale di Orvieto
(d’ora in poi ASCO), Instrumentari, 877, c. 4rv. L’unità riporta il titolo: «Hic est liber
de confinibus pleberiorum». Ringrazio Laura Andreani per avermi gentilmente segna-
lato il documento.
6
P. Sella, Rationes Decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Umbria, (Studi e testi,
161), Città del Vaticano 1952, p. 915. Tra l’altro, si veda anche E. Carpentier, Orvieto
a la fin du XIII siècle, Ville et campagne dans le cadastre de 1292, Paris 1986, p. 80
(nota n. 338).
7
Orvieto, Archivio Vescovile (d’ora in avanti AVO), Cartulari, Codice B, c. 19v/6-7.
Sulla «villa Selci» si veda L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 26-29 e, sulla
visita pastorale Perotto: G. Della Valle, Storia del Duomo di Orvieto dedicata alla
Santità di Nostro Signore Pio Papa Sesto Pontefice Massimo, Roma 1791, pp. 37-38.

13
zione del primo torrione dal quale prese le mosse la storia
dell’omonimo castello8.

Catasto del contado 1292, villa Selci, indicazione del confinante: «signor Viscardo di
Ingramo».

Allo stesso modo, se non è possibile testimoniare la presenza del pae-


se nel XIII secolo (la prima notizia indiretta ritrovata riporta al
1298)9, di pari passo deve essere considerata quella delle eventuali
fornaci, escludendo certamente con questo gli impianti stabili.
Nel 1357 anche il Castello di Viscardo era oggetto della citata visita
pastorale, tanto che, recatosi il presule nella chiesa di Sant’Angelo, la
ritrovava sufficientemente tenuta dal suo rettore. L’anno successivo,
Castel Viscardo era citato quale parte dell’eredità di Ranieri e Gualte-
rio di Zaccaria e Angelo di Pietro (tutti nipoti del cardinal Teodorico)
entrando, parimenti alla villa Selci ed altri luoghi vicini (tra cui Mon-
terubiaglio, Vitiano, Fibiano, Malgiano e Torricella), nei possedimen-
ti di un certo Bonifacio. Per Castel Viscardo si parlava di un territorio
composto da boschi e terreni, nel quale era insediata, in un fortilizio o
cassero, la nuova comunità di vassalli con propri massari10. Nel 1385
il paese partecipava alla «Tregua fra i Muffati seguaci dell’antipapa, e
Melcorini per il papa e i Bretoni», sottoscrivendo insieme a tutti gli
insediamenti circostanti11. Altri riferimenti successivi riguardo Castel
8
ASO, ASCO, Catasti, 400, cc. 170r-171v.
9
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., p. 25.
10
AVO, Cartulari, Codice B, c. 20r/2, e ASO, Archivio Notarile Mandamentale
(d’ora in avanti ANM), I versamento, 39, cc. 119v-128v. Ringrazio Simone Moretti
Giani per avermi gentilmente segnalato l’atto inerente l’eredità.
11
L. Fumi, Codice Diplomatico della Città d’Orvieto, Documenti e regesti dal secolo
XI al XV e La Carta del Popolo Codice Statuario del Comune di Orvieto con illustra-
zioni e note, Firenze 1884, pp. 583-585. Tra gli altri, a p. 584, si faceva menzione di
tal: «Donna Antonia vedova del signor Bonifazio» e, a p. 585, nell’elenco delle co-
munità sottoscrittici della tregua, abbiamo Castel Viscardo. Tale documento (numera-

14
Viscardo, a partire dal 1387, si ritrovano in maniera indiretta
nell’Archivio dell’Opera del Duomo: si tratta di alcune segnalazioni
estratte dai registri dell’entrata e dell’uscita circa i rapporti con alcuni
suoi abitanti o provenienti, sia come vetturali, cioè coloro che curava-
no il trasporto di alcune materie o generi alimentari, sia per il paga-
mento di alcune imposte o l’acquisto di cera per le candele.
Il 19 gennaio 1387 si faceva menzione di Castel Viscardo come luogo
di provenienza di Vannuzio, vetturale che, per conto del suddetto en-
te, trasportava del carbone12. Vannuzio era anche riportato una decina
di anni più tardi (il 26 gennaio 1398) e, ancora, per il trasporto di car-
bone da utilizzarsi per le operazioni di fusione di una campana. Poco
dopo e per il medesimo motivo, era segnalato anche tal Mecuzio da
Castel Viscardo13. All’inizio del Quattrocento, Vannuzio da Castel
Viscardo forniva, in collaborazione con Cecco di Ninno, un conside-
revole numero di pali atti alla vigna cosiddetta del «molino del pon-
te», anch’essa di proprietà dell’Opera; del grano era stato trasportato
nel 1435 da Curtio di Cataluccio originario dello stesso luogo. Altri
riferimenti a vetturali ci portano alla metà del secolo, ancora per del
grano proveniente dalle terre che riteneva lo stesso ente nei pressi di
Castel Viscardo (nel 1450), il pagamento saldato nel 1447 a un tale di
Castel Viscardo per il trasporto di un quartengo di grano e di un fa-
scio di lino o di un sacco di carbone (pagato quattordici soldi a tal
Mariano di Fontone nel 1448; il figlio di questi, due anni prima aveva
corrisposto il “terratico” per una somma pari a otto quartenghi di gra-
no)14.
Nel 1440 il camerario riceveva dal sindaco di Castel Viscardo, ossia
dall’ufficiale che in rappresentanza della comunità intratteneva i rap-

to DCCXV nella sequenza del Fumi) era citato anche a p. 3 della memoria in favore
dei “naturali” di Castel Viscardo, prodotta per la Corte di Appello di Roma
dall’avvocato Wenceslao Valentini nel 1898, in occasione della vertenza sul ricono-
scimento degli usi civici contro il principe Federico Spada Veralli e dal titolo I Natu-
rali di Castel Viscardo contro il Principe di Castel Viscardo, Affermazione di servitù,
di semina, di pascolo ecc. e ripreso successivamente da M. Maffei, Castel Viscardo e
gli Spada, Castel Viscardo 1990, pp. 27-28.
12
Archivio dell’Opera del Duomo di Orvieto (d’ora in poi AODO), Camerari, 11, c.
363r. Tra l’altro, nel documento erano indicati anche la canapa e il lino come oggetto
del trasporto verso Orvieto.
13
Ivi, 12, cc. 361v, 362r. La citazione del secondo è del 2 febbraio 1398.
14
Ivi, 13, c. 302v; 17, c. 202r; 20, cc. 131r, 240r, 438v; 21, c. 52r.

15
porti con gli altri enti del territorio, tre lire e otto soldi come offerta
per un cero del peso di quattro libbre e sette once, oblazioni che le va-
rie comunità del contado erano solite pagare per la festività
dell’Assunta15. Tali tributi risultavano anche per gli anni 1460 e 1507,
per un cero di cinque libbre, una delle offerte minori tra tutte quelle
elargite dalle comunità del contado, fattore che potrebbe far presup-
porre la presenza in loco di un ristretto numero di persone insediate16.
La comunità era comunque istaurata e operante sul territorio, come
consta dai detti pagamenti o da alcune annotazioni riconducibili al pe-
riodo tra l’11 maggio 1400 e il 9 gennaio 1401, reggente la città Joan-
nello Thomacello, duce, rettore e governatore di Orvieto durante il
pontificato di Bonifacio IX. Tra le altre annotazioni di carattere gene-
rale, come l’elezione del vicario della città o, ancora, l’estrazione de-
gli ufficiali pertinenti al contado di Orvieto, ma anche a Bolsena, San
Lorenzo, Grotte di Castro, Gradoli, Latera, Lugnano, Montefiascone,
e altri castelli, si trovava registrata la «Venditio gabelle Castrorum
Viscardj et Montis rubiagli», per scudi venticinque, lo stesso corri-
spettivo imposto per i vicini castelli di Allerona, Ficulle e Rocca Ri-
pesena17. I rapporti con Orvieto vertevano, quindi, oltre che sulla vi-
cinanza riguardante la gestione che la città esercitava sul contado, an-
che sulle questioni di difesa, a volte non ottemperate a pieno dal cen-
tro maggiore. Era il caso di quanto successo alla metà del Quattrocen-
to, quando i castelli di Viscardo, Monterubiaglio e Torre Alfina subi-
vano un duro saccheggio da parte di Gentile della Sala che li riduceva
quasi allo stremo, danneggiando fortemente le loro mura di difesa e
riducendo la popolazione alla fame, tanto che essa paventava la vo-
lontà di abbandonare l’insediamento («vi prego di nuovo che vi piac-
cia averlj per racomandatj in per cio che non faccendo a predicto ter-
15
Ivi, 19, c. 28v; il pagamento era, infatti, saldato il 14 agosto, alla vigilia di tale fe-
stività.
16
G. Della Valle, Storia del Duomo di Orvieto…, cit., pp. 256, 261. Si veda anche il
citato fascicolo a stampa degli atti processuali nella vertenza contro il principe Spada
Veralli, alle pp. 3-4.
17
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 113/14, 13. Il nominato a vicario era tal
Vezzocchio de Panalphinis de Orto; altre indicazioni tratte dal registro riportano alla
vendita dei frutti della selva di Monte Rufeno, all’elezione del fisico, all’immunità per
i forestieri abitanti nella città o contado di Orvieto, alla locazione di beni, alle lettere
sulla nuova imposta di 1.500 scudi, attuata per il recupero dei castelli di Civitella e
Sipicciano occupati da Tartalea de Avello.

16
mine ciaschuno di loro serraria lustio a andarvese con dio»). Per que-
sto Corrado di Bernardo dei Monaldeschi, signore di Castel Viscardo,
scriveva alle autorità orvietane perché prendessero provvedimenti ri-
spetto ai gravi danni subiti dai suoi vassalli, facendosi latore di una
supplica tesa a ottenere una qualsiasi esenzione dal pagamento dei tri-
buti, in modo da reimpiegare il denaro per la restaurazione del castel-
lo. Il 3 settembre 1451 il consiglio generale analizzava la supplica de-
gli uomini di Castel Viscardo per l’esenzione delle bocche e «assigne
pro aliquo tempore», concedendo una dispensa di tre anni, atta alla
riparazione delle mura del danneggiato castello18. L’anno successivo,
il consiglio di Orvieto confermava ancora la disposizione presa, tanto
che, data la loro povertà, riaffermava la deroga dal pagamento; il 5
marzo stabiliva per la stessa comunità il pagamento ridotto di un du-
cato per il «subsidium»19.

Lettera di Corrado Monaldeschi per richiedere l’esenzione in seguito ai gravi danni


subiti dai castelli di Viscardo e Monterubiaglio.

Interessante notare come, in seguito, la storia stessa di Castel Viscar-


do non sia facilmente ricostruibile, se non attraverso uno studio delle
fonti che riconduca alle diverse denominazioni con le quali
l’insediamento tardo duecentesco era conosciuto in città e nel conta-

18
Ivi, Lettere originali, 697, 6II/21 e Riformanze, 210, cc. 146r-148r.
19
Ivi, Riformanze, 210, cc. 173v-174r e 211, cc. 15v-16r. Ringrazio Antonio Santilli
per avermi gentilmente segnalato questo atto. Qualche anno dopo, la stessa richiesta
era inoltrata da Aurelia Colonna, rimasta vedova di Paol Pietro e in seguito alla morte
in giovane età del figlio Corrado (si veda nella stessa serie, 213, cc. 67v-68r).

17
do. Se da una parte deve essere notato come, ancora oggi, la denomi-
nazione di Castello riconduca esplicitamente e chiaramente per tutti, i
suoi abitanti o anche quelli dei paesi vicini, a Castel Viscardo, in pas-
sato si ritrovano altre identificazioni, come «Castello di Madonna An-
tonia», tanto che ancora all’inizio del Settecento, in una relazione de-
scrittiva del feudo Spada Veralli, si identificava come: «Castel Vi-
scardo, altrimenti detto di Madonna Antonia». Questo nonostante il
documento più antico su Castel Viscardo, la visita pastorale del 1357,
riporti chiaramente il toponimo «de Castro Viscardj», così come, del
resto, le indicazioni trecentesche o i riferimenti degli studi del mar-
chese e storico orvietano Filidio Marabottini. Questi, in una ricerca
commissionata dal marchese Orazio Spada per ricostruire le origini
del paese e la discendenza genealogica che aveva portato il castello
alla sua famiglia, dopo averne appurato il fondatore nella persona di
Viscardo Ranieri, personalità che riteneva delle proprietà nei pressi
della «villa Selci», informava che, secondo le sue ricerche, le prime
notizie su Castel Viscardo (anche queste indirette) risalirebbero al pe-
riodo a cavallo tra il 1298 e il 1302. In particolare scriveva: «La prima
volta io lo trovo cosi nominato. Quidam de Valcellis habitator Castri
Domini Viscardi, nell’anno 1298; et un’altra volta nell’anno 1302 si
enuncia Castrum olim Domini Viscardi»20.
Le più antiche indicazioni come «Castello di Madonna Antonia», una
delle prime proprietarie e diretta discendente di Viscardo Ranieri, ri-
salgono al XV secolo; si tratta di una delibera della comunità di Alle-
rona del 1471, con la quale si stabiliva di affidare una fornace in quel
territorio a tale mastro Rosso, abitante del «Castello di Madonna», e,
quindi, all’anno 1485, con Ottaviano Berardelli da Benano che riferi-
va su alcuni avvenimenti «del Castello di Madonna Antonia»21; allo
stesso modo, deve essere notato come nella corrispondenza di Corra-
do e Luca Monaldeschi della Cervara di metà XV secolo, la data topi-

20
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 19, 25.
21
ASO, ASCO, Lettere originali, 686, 5/64. Di Madonna Antonia Ranieri, Marabotti-
ni scriveva: «fù certamente Signora di Castel Viscardo, e visse nel secolo del Mille e
trecento. Di lei non mi è ancor nota l’agnazione, ma non crederei di errar gran tratto,
se la publicassi senz’altra congruenza del sangue del descritto Viscardo. È ben certo
che fù Donna di non volgare condizione, del che mi danno potente argomento non
meno il titolo di Madonna solito a darsi in quel secolo solo a Signore grandi, che le
cospicue qualità del marito» (si veda L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., p. 30).

18
ca fosse sempre espressa senza nessuna indicazione dell’antica pro-
prietaria, ma anzi: «Castello Vj» o dal «Castello Viscardo»22. Ancora
nel 1542, Porzia Liviana, moglie del secondo Paol Pietro, scriveva al-
le autorità orvietane scusandosi per l’impossibilità di compiacerli nel-
la loro richiesta di legname, datando cronologicamente «Dal Castel-
lo» la sua missiva23. Quindi, almeno per quanto analizzato e con po-
che eccezioni, sembrerebbe che la denominazione di «Castello di Vi-
scardo» o «Castello» fosse utilizzata dai suoi proprietari o da chi da
quel luogo scriveva (come nelle lettere dei podestà nel Cinquecento),
al contrario, per parlarne dall’esterno (rispetto ai suoi avvenimenti o
abitanti) si era soliti indicare il luogo come «Castello di Madonna An-
tonia». Alla metà del Cinquecento Castel Viscardo poteva essere an-
che indicato come il «Castello del Signor Pavol Pietro» Monalde-
schi24. Tra tutte, la suggestiva denominazione che rimandava ad An-
tonia si radicava nel tempo e superava i secoli, tanto che, ancora
all’inizio del Novecento, Umberto Principe, dipingendo il Castello
con la tecnica «vernice molle e acquatinta su carta», intitolava la sua
opera «Il Castello di Madonna».

Umberto Prencipe:
Il Castello di Ma-
donna” (1906);
opera esposta nel-
la “Galleria Pren-
cipe” presso la
sede della Fonda-
zione della Cassa
di Risparmio di
Orvieto (g.c.).

22
ASO, ASCO, Lettere originali, 697, 4/35.
23
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 2/1, 80.
24
Castel Giorgio, Archivio parrocchiale (d’ora in avanti APCG), Registri Sacramen-
tali, Battesimi, 1, c. s.n.

19
Capitolo 1
«il Castello non hà che fare con Orvieto»

1. Rapporti di confine: problemi e risoluzioni tra Quattrocento e


Cinquecento
Per comprendere le prerogative e le limitazioni del commercio nei ter-
ritori assoggettati al potere di Orvieto e la sua lunga mano sui diritti e
sulle libertà delle comunità circostanti (da più parti si ritiene che tale
attitudine sia espressa anche nello stesso stemma della città,
nell’inquartato raffigurante un’oca che tiene nella zampa una palla che
simboleggerebbe il contado e la vigilanza su di esso), occorre un pic-
colo prologo inerente gli scambi di vari generi operati o bloccati sulle
zone di confine, ove la città aveva posto i suoi gabellieri.
In questa realtà rientravano anche questioni inerenti la produzione del-
le fornaci del territorio che riconducevano forzatamente, visto anche il
loro necessario commercio e la costruzione di opere sia nella città che
nel contado, ad altre di più complicata e mera organizzazione del peri-
odo. Tra queste, i mancati pagamenti e, soprattutto, la gestione dei
confini entro i quali si soleva cercare di introdurre o estrarre svariato
materiale, a volte in combutta con i gabellieri, altre volte tentando del-
le frodi. Tali problematiche nascevano spesso nei territori limitrofi sui
cui confini s’istauravano delle vere e proprie dispute, atte alla restitu-
zione di quanto sovente sequestrato ai vetturali con veri e propri atti di
forza, sia stato il materiale trasportato che le stesse bestie da soma.
Il Quattrocento, come del resto parte dei secoli successivi, era per Or-
vieto un periodo nel quale si era soliti dirimere situazioni legate agli
scambi commerciali, le cui esecuzioni da e verso l’esterno erano pos-
sibili attraverso il pagamento di alcune gabelle sui luoghi di confine,
soprattutto per quanto riguarda il territorio posto sull’altopiano
dell’Alfina. Così spesso nascevano dispute in luoghi come Torre Alfi-
na e Benano, insediamenti posti sotto lo stretto controllo della comu-
nità maggiore che intendeva far rispettare i propri diritti, soprattutto
per quanto riguarda la cosiddetta “gabella del passaggio”, senza alcu-
na limitazione contro chi contravveniva25.

25
Si veda il caso esposto da una lettera di Luca de Sabellis da Corneto (10 maggio
1503), nella quale manifestava il suo dissenso relativamente ad alcune carcerazioni
realizzate a Benano (ASO, ASCO, Lettere originali, 707, 2/55).

20
Tali prospettive si configuravano appieno su realtà come quella di Ca-
stel Viscardo, astretta tra la forza dominante della famiglia del Castel-
lo (all’epoca ancora i Monaldeschi della Cervara) e i diritti vantati da
Orvieto, scontri che si andranno a intensificare nel corso del Cinque-
cento e nel primo Seicento, soprattutto quando la proprietà passò alla
famiglia romana dei Veralli, il cui maggiore esponente Giovanni Bat-
tista, forte del suo baronato, non intendeva sottostare alle disposizioni
cittadine. Gli stessi Monaldeschi poi, nella persona di Paolo Pietro, già
dal Quattrocento lamentavano tali ingerenze, perpetrate a danno dei
loro vassalli. Per questo nel 1438 scriveva da Bolsena26, dove si trova-
va, circa la situazione di un certo Angelo de la Luna da la Torre (Alfi-
na), un uomo dei suoi possedimenti il quale, cercando di estrarre dal
territorio orvietano del materiale, era stato fatto tornare indietro con
annesso pignoramento del carico. L’anno dopo, lo stesso e dal mede-
simo luogo, si lamentava circa l’arresto di alcuni uomini da parte degli
orvietani, rei di non aver pagato le decime al vescovo e, quindi, del
sequestro di un asino a un uomo di Bolsena entrato nel territorio di
Orvieto per vendere del pesce. Lo stesso Monaldeschi informava, po-
co dopo, circa un certo Giulio da Roma giunto in Bolsena con dei suoi
compagni e che stimava di inviare la sera stessa «al castello a Monte-
rubiaglio» e rispondeva circa le ragioni addotte per il sequestro di al-
cune bestie a Antonio di Pavolo del Massaro, eseguito per ordine del
pontefice, perché ritrovato sprovvisto della necessaria lettera patente27.
Ancora attraverso un’intromissione del potere centrale, nel 1445 il
cardinale di Aquileia perorava la causa della comunità di Montefia-
scone, intesa a far condurre del grano ad alcuni suoi cittadini attraver-
sando i territori orvietani. Il porporato intimava Orvieto, sotto pena di
cento ducati da pagarsi alla Camera Apostolica, affinché potessero
26
In questa sede lo troviamo già dal 1433, mentre l’anno successivo scriveva a Orvie-
to da Bagnoregio (o Bagni?) (si veda Lettere originali, 697, 1/9 e 1/13).
27
ASO, ASCO, Lettere originali, 697, 1/23, 1/29, 6II/15 e 6II/16. Il maltolto era rite-
nuto dal camerario del pontefice, al quale lui non poteva opporre resistenza e, quasi
scusandosi, scriveva: «Vostre Magnificenze ben deggono stimare essendo io huomo et
soldato di Nostro Signore me convenne ubbidire [...]», mostrandosi comunque dispia-
ciuto dell’accaduto, tanto che, se fosse stato in suo potere, le avrebbe rese senza indu-
gio per l’amicizia che nutriva e per la vicinanza. Nello stesso periodo, Paol Pietro av-
vertiva dell’arrivo in Orvieto di tal «Francescho da monterobiaglia» che definiva «no-
stro castellano», al quale pregava di dare piena fede (si veda nella stessa busta,
6II/20).

21
transitare senza pagare il passaggio, se non il consueto dei tempi pas-
sati, perché non avrebbe tollerato nessuna innovazione28. Alla metà
del secolo, le questioni toccavano poi ben altri confini, come quello
verso il territorio di Todi, i cui priori lamentavano la gabella e il suo
pagamento inerente le bestie, richiamando a un aggiornamento dello
statuto di Orvieto che prevedeva nuovi impedimenti, da loro ignorati,
e ponendo l’accento sui buoni rapporti da mantenere tra le due vicine
comunità29.
Gli stessi laterizi e, soprattutto la calcina, erano oggetto di un fitto
commercio che contraddistingueva le varie pratiche di estrazione del-
le quali si hanno diverse testimonianze: nel 1459, per esempio, Cecco
dei Baschi richiedeva una soluzione alla questione che riguardava
Sermugnano e la possibile estrazione di calcina da quel luogo senza le
dovute autorizzazioni30.
Al di là del materiale trasportato, verso la Toscana la situazione non
era migliore, tanto che nel 1480 sorgevano dei contrasti con Chian-
ciano, dovuti al sequestro di alcuni animali sui confini e sempre per il
trasporto di materiale verso l’esterno: interessante notare, lo sarà poi
nella stragrande maggioranza delle lettere analizzate sul tema, il con-
tinuo richiamo a una antica benevolenza usata solitamente e alla buo-
na amicizia che doveva intrattenersi tra i vicini, prerogative che sem-
bravano venire meno con l’inasprimento della normativa operata da
Orvieto. Del resto, nello stesso anno, arrivavano lamentele anche da
Corneto (l’odierna Tarquinia), per le gabelle nei pressi di Benano, e
da Perugia, i cui priori delle arti, due anni dopo, rifacendosi a un bre-
ve e all’obbedienza ai disposti del papa, richiamavano a determinate
condizioni di benevolenza per coloro che abitano sulle frontiere con
Orvieto e Todi, in modo che fosse lasciato il passaggio con animali e

28
Ivi, 718, 5/16. Sulle questioni di Montefiascone in questo dato periodo, si veda an-
che la richiesta di Corrado di Bernardo che si proponeva di fare da tramite tra Orvieto
e quella comunità, richiedendo per questa la licenza di passaggio di alcuni generi ac-
quisiti in quel di Todi, affinché potessero transitare liberamente per il contado orvie-
tano. Lo stesso proponeva di seguito la medesima richiesta anche per Lubriano, addu-
cendo alla presente guerra, richiedendo esenzioni su alcuni pagamenti e introducendo
anche due massari di quel castello a perorare la causa presso Orvieto (si veda nella
stessa serie, l’unità n. 697, 6II/22 e 6II/23).
29
Ivi, 695, 10/12.
30
Ivi, 698, 5/7.

22
«robbe» senza nessun aggravio di gabella31. Le stesse prerogative e-
rano richiamate anche da Siena nel 1483, a proposito del caso di un
loro suddito di Bettona il quale, passando per i terreni di Orvieto, si
era visto requisire una cavalla da un contadino e dall’appaltatore sen-
za una chiara informazione; i senesi, dal canto loro, manifestavano la
volontà di restituire delle altre bestie sequestrate allo scopo di non
turbare i buoni rapporti richiedendo, nello stesso tempo, la riconsegna
di alcuni beni tolti agli abitanti di Fichino (che identificano come
«terra nostra») per aver causato dei danni dati ad alcuni seminati degli
uomini di Monteleone, promettendo che sarebbe stato «satisfacto il
danno come e conveniente»32.
Sulle problematiche di confine non potevano poi mancare delle dia-
tribe con Acquapendente, al limite del quale era posta la stazione di
gabella nei pressi di Torre Alfina (all’epoca, come giusto e come sto-
ricamente attestato da più fonti, all’interno del contado di Orvieto e
limite della sua giurisdizione), dove si istauravano continui scontri e
ripicche anche di una certa violenza, contraddistinte da varie accuse
reciproche: se i torresi erano incolpati di aver ucciso dei suini agli ac-
quesiani, allo stesso tempo si denunciava il comportamento di questi
ultimi, i quali in una notte del dicembre 1485 avrebbero assalito a
mano armata dei pastori di Torre Alfina e Allerona e, non paghi, sa-
rebbero arrivati anche in paese scorrazzando tutta la notte e dandosi
ad alcuni furti33.
Oltre alle diatribe di confine, altri avvenimenti dovevano sconvolgere
in quell’anno le campagne del contado orvietano, ossia gli strascichi
di una presunta guerra con tanto di scorribande e attacco alle comuni-
tà e ai loro beni da parte di alcuni esponenti della famiglia Orsini,
preoccupazioni che turbarono la stessa Orvieto e i loro confinanti,
creando una fitta rete di scambi epistolari volti alla richiesta di trasfe-
rimenti o di passaggio di bestiame e altri generi nel territorio orvieta-
no, non interessato, almeno per il momento, dalle irruzioni vissute nei
territori circostanti.
Nel 1486, a tal proposito, la comunità e i consiglieri di Castel Viscar-
do richiedevano l’invio di alcuni fanti da Orvieto a protezione del loro

31
Ivi, 686, 1/2, 1/4, 2/4 e 695, 1/4.
32
Ivi, 695, 8/7, 8/8.
33
Ivi, 686, 5/12, 5/28.

23
insediamento, impauriti dal passaggio di un fantomatico duca di Ca-
labria del quale erano stati avvertiti da Onano34.
Intanto, i sequestri di materiale e animali da soma continuavano su tut-
ti i confini nonostante le intromissioni dei vari porporati, volte a pero-
rare cause di vassalli o loro postulatori, tanto che tra il 1488 e la fine
dello stesso secolo si assisteva a una fitta rete di lamentele volta alla
restituzione del maltolto. Da San Lorenzo si parlava del cosiddetto
«facto del mulo» di un certo Octobaldo, cittadino orvietano, «tolto per
fraude di passagio per li nostri Gabellierj», quasi discolpandosi per
l’accaduto giacché: «per lo passato semo stato [...] esser sempre bon
figliolj della vostra Magnifica Citta et Ciptadini de essa» o, più tardi,
si manifestavano diverse proteste (come quella del 1504) per altri se-
questri dovuti a debiti dei loro cittadini ai quali erano stati ritenuti de-
gli animali (quali buoi o asini)35; da Acquapendente nel 1492 ci si la-
mentava dello stesso comportamento ai danni di tal Domenicho di
Marco di Casella. Questi, recatosi a fare «jonchi» per legare del fieno,
in «contrada del fossato» e territorio acquesiano, si era soffermato a
pescare nel fiume Paglia e, al ritorno, era stato fermato da tre gabellie-
ri, identificatisi come di Orvieto, che gli buttarono la soma in terra, gli
tolsero il pesce e l’asino, conducendolo poi a Torre Alfina senza spie-
gare il motivo di tali azioni, giudicando la cosa come «aliena da omne
debito di rascione et la nostra mutua benivolentia non recercha tal co-
sa», tanto che si ritenevano «non sonno obligati ad pagar passo ne pe-
na alcuna et cussì vole la rascione». Allo stesso modo, sui tesi rapporti
sul confine di Torre Alfina, ancora i priori di Acquapendente lamenta-
vano il sequestro di dodici bestie «bufaline» necessarie al trasporto del
legname per la Santa Trinità; il tutto nonostante il proprietario avesse
«libero et valido salvo conducto dal Governatore di testa cipta». Tali
diatribe continuavano anche nel XVI secolo e da entrambi i lati, come
nel caso del sequestro di alcuni asini a un orvietano, richiamando in
causa anche alcuni privilegi di cui godeva la chiesa del Santo Sepol-
cro36. Nel 1530 ancora dallo stesso luogo ci si lamentava a più riprese
34
ASO, ASCO, Lettere originali, 669, 3/20. Una analisi di quanto occorso tra il 1485
e 1486, o meglio di quanto emerge dalle lettere giunte in quel di Orvieto, è già stata
redatta nel testo di prossima uscita dal titolo: Il Castello di Meana in Val di Paglia,
per la collana “Quaderni alleronesi”, a cura di chi scrive e di Claudio Urbani.
35
ASO, ASCO, Lettere originali, 684, 7/8, 707, 3/9.
36
Ivi, 688, 3/6, 696, 1/5, 707, 5/12

24
sull’ingiusta «captura» fatta dai «Torresi» nel territorio acquesiano,
denunciando una mancata giustizia e il non consono intervento del
popolo e del podestà di Torre Alfina; per tali motivazioni ci si rivol-
geva alle autorità orvietane, considerate giuste e sapienti, affinché li-
mitassero al minimo qualsiasi scandalo37. Al contrario, da Grotte di
Castro (Terre Cryptarum), nel 1520 si dava ampia disponibilità al pas-
saggio di bestiame sul loro territorio, visto i capitoli e gli interessi del
gabelliere38.
I rapporti divenivano burrascosi anche nei confronti di alcune città
maggiori come Firenze o Perugia, come nel caso dei furti subiti da un
loro ufficiale di ritorno da Roma (per la prima) o le diatribe tra i limi-
trofi abitanti di Fabro, Piegaro, «Casteldelapieve» o Monteleone e
l’arroganza dimostrata dai gabellieri orvietani, con strascichi che
coinvolgevano la giurisdizione e i buoni rapporti di vicinato: «simili
insolentie [...] A cio che la nostra bonna vicinita et amicitia non se
habbia in alcuna parte a diminuire».
Se nel 1497, Luigi di Alviano si lamentava per delle bestie sequestrate
a degli uomini di Lubriano, paventando anche la scarsa fiducia dimo-
strata dalle autorità orvietane nei suoi confronti, nello stesso periodo i
priori e il consiglio di Allerona facevano lo stesso per il sequestro a
Torre Alfina di una «bestia asinina» ai danni di «Bindo de Meyo», il
quale, insieme con alcuni compagni acquesiani, stava seminando del
grano; supplicavano perché fosse fatta giustizia, anche perché non ri-
tenevano conveniente che un abitante del contado di Orvieto e a esso
appartenente dovesse subire tali abusi nel suo stesso territorio39.
In quest’ambito, in una realtà di scambio “cortese di minacce”, già dal
Quattrocento si poneva Castel Viscardo, anch’esso all’interno del ter-
ritorio orvietano, dal quale cominciavano a nascere alcune diatribe
volte alla difesa degli interessi del Castello; alla metà del Quattrocen-
to si trovano su questo tema testimonianze di Corrado e Luca Monal-
deschi della Cervara, figlio e genero di Paol Pietro, a sua volta nipote

37
Ivi, 714, 6/2, 6/14.
38
Ivi, 713, 2/30.
39
Ivi, 684, 8/33; 695, 4/1, 4/3, 5/1; 696, 2/11; 697, 3/2. Le diatribe sui confini verso
Perugia continuavano anche nel XVI secolo, basti vedere i continui scambi epistolari
volti alla risoluzione di alcune controversie emerse nel 1503 tra gli abitanti di Città
della Pieve e Allerona, con conseguente sequestro di grano (si veda la stessa serie,
707, 2/21).

25
di madonna Antonia Ranieri. Pur in rapporti ancora simili agli altri
castelli, la presenza forte del ramo Cervara dei Monaldeschi chiariva
da subito alcune questioni insorte con i Conservatori, soprattutto ri-
guardo una bolla, o meglio al suo contenuto e quanto stabilito, che i
due sembravano avere «chiara» e per la quale cercavano una interme-
diazione da parte delle autorità orvietane. La volontà di perorare alcu-
ne questioni e difendere i diritti, si manifestava nel caso del furto di
una cavalla e di un puledro di diciotto mesi, entrambi di proprietà di
Luca, rubati nel cuore della notte a Castel Viscardo da parte di quelli
che definiva quattro mascalzoni, andati poi a finire «dellà da paglia»,
passando certamente per Viceno, e che credeva stessero cavalcando
per raggiungere Civitella40.
Le questioni legate alla giurisdizione, con la lunga mano dell’autorità
cittadina che sembrava allungarsi su prerogative del tutto interne, inte-
ressavano anche altre comunità, come la sottoposta Torre Alfina, dalla
quale nel 1486 ci si lamentava circa la delegazione di una causa di due
suoi «terazanj», ossia i mastri Matteo e Gemmino, la cui risoluzione
era stata affidata dal governatore arbitrariamente alle autorità orvieta-
ne. Tale decisione rappresentava al momento una novità rispetto al so-
lito, tanto che la comunità di Torre Alfina, pur nella grande fiducia
che nutrita, lamentava come «non e stata mai consueta», giudicando
«ogni innovazione e odiosa». A questa incomprensione dovevano es-
sere aggiunti, nello stesso anno, alcune lamentele palesate da Nicola
Angeli circa una certa fornitura di mattoni proveniente dalla stessa
comunità, rilasciati a un prezzo minimo, il cui conto totale non era an-
cora stato saldato41. Le dispute sul commercio e i mancati pagamenti
coinvolgevano sovente anche le autorità limitrofe, come nel 1487, an-
no nel quale si accendeva una controversia con i Conservatori dei
priori e Anteposti della vicina Acquapendente, anche se questi, non
conoscendo precisamente gli accordi presi dalle parti, promettevano
sin da subito di risolvere la questione come conveniva «alli homini da

40
Ivi, 697, 2/41 e 4/35. Nella medesima unità sono condizionate altre testimonianze
del periodo provenienti da diverse località, quali Rieti (4/37), Torre Alfina (4/38),
Bolsena (4/39) e Castiglione in Teverina (2/43), dandoci il senso del potere della fa-
miglia e della sua radicazione nel territorio che gli permetteva di richiedere o, comun-
que, discutere alla pari con le autorità della città dominante, di cui erano originari e
nella quale continuavano a gestire un certo potere dato dalla loro condizione.
41
Ivi, 684, 5/3.

26
bene». Si trattava, in sostanza, di un mancato pagamento da parte di
ser Britio nei confronti dell’orvietano messer Simone che richiedeva
le sue ragioni non essendo stato saldato di una «certa Calcina» di cui
lo aveva rifornito42.
Anche altre comunità, dipendenti direttamente da Orvieto, difendeva-
no diritti ed erano interessate da dispute nelle quali s’inserivano so-
vente prerogative non del tutto chiarite, nonostante le forme regola-
mentari acquisite. In tale prospettiva devono essere intesi i richiami
volti a tale Miscinello de Nicola di Orvieto nel 1488, rispetto al ruolo
di responsabilità su San Vito, inerente le facoltà di «far condure robe
da potere murare», diritto che arbitrariamente travalicava i suoi ambiti
di confine, estendendosi anche verso gli uomini di San Venanzo e Pa-
lazzo Bovarino, per i quali si raccomandava di non gravare eccessi-
vamente43. Interessante, in quest’ambito, per quanto riguardava i pre-
supposti di superiorità della città rispetto alle comunità assoggettate,
era la circostanza verificatasi sul finire del XV secolo con le autorità
di Allerona. Queste, infatti, scusandosi, scrivevano sulle limitazioni
occorse in una richiesta fornitura di calcina, la quale, evidentemente,
doveva essere destinata in primis ai bisogni cittadini, in questo caso
per la costruzione di un ponte. Nella disamina di quanto occorso, da-
vano notizia di aver ricevuto una lettera per mano di tale mastro Co-
luccio «sopra el facto de la calcina», limitata nella fornitura perché
necessaria a sanare una parte del campanile della loro chiesa e, per ri-
parare al torto, promettevano: «che per honore de la Magnificenza
Vostra non tanto la calcina, ma se bisognasse de sangue de le vene no-
stre per irridare essa calcina, cel mettaremmo [...]», operando, inoltre,
uno sconto di un bolognino a soma44. I responsabili di questa comuni-
tà si lamentavano, inoltre, di come tutti i paesi vicini si recassero ad
Allerona mostrando una licenza per fare approvvigionamento di gra-
no, tanto che il paese sembrava essere diventato «Uno formicaio che
non <...> persona di questi castelli intorno che qui non vengano per
grano», richiedendo di regolarizzare tali permessi in modo che non vi

42
Ivi, 5/20, 6/11.
43
Ivi, 686, 8/22.
44
Ivi, 696, 2/12. La lettera non riporta l’indicazione dell’anno, ma è datata da Allero-
na il 26 luglio. Computato lo sconto, la richiesta fornitura equivale alla somma di sette
bolognini per ogni soma di calcina.

27
fossero abusi45. La penuria di grano doveva essere intesa quale una
piaga sul finire del XV secolo, tanto che nel 1488 il vescovo di Ba-
gnoregio dava il suo assenso per la sua estrazione verso Orvieto46. Di
tali difficoltà si faceva menzione anche per tutto il Cinquecento, tanto
che su quest’oggetto si scriveva diffusamente dall’interno (Monteru-
biaglio) o dall’esterno del territorio (Orte, Foligno), onde regolarne la
circolazione e limitarne la richiesta al netto di quanto dovuto a Roma
per volere pontificio. Vigeva, infatti, un assiduo controllo affinché la
disposizione, data per mezzo di breve, non fosse disattesa, rimandando
magari ad altre zone che si dicevano averne in abbondanza (come San
Lorenzo in Campo, nello stato del duca di Urbino, durante l’anno
1529). Questa penuria era oggetto di missiva ancora nel 1570, da parte
Ludovico di Marsciano da Castel di Fiori, ma anche dei priori di Mon-
tefiascone, adducendo a «la malignità dei tempi», degli ufficiali di Ca-
stiglione che paventano come, se non si fosse provveduto, «molti po-
ver huomini periranno della fame» o dei corrispettivi di San Lorenzo
che ne richiedevano per il sostentamento «della poverta di quella ter-
ra». L’anno successivo, monsignor Nicolo Visconte, referendario del
papa e governatore della città di Orvieto, imponeva e sollecitava
l’assegna del grano posseduto e «delle bocche», proibendone, nel con-
tempo, l’estrazione perché necessario distribuirlo ai bisogni47.
Nello stesso periodo continuavano, inoltre, le diatribe al confine tra
Torre Alfina e Acquapendente circa le gabelle, il cui rispetto sembra-

45
Ivi, 696, 2/1.
46
Ivi, 685, 10/6. Su questo tema e sulle varie limitazioni, deve essere citato un bando,
databile agli anni venti del Cinquecento, sull’estrazione del grano da un territorio
all’altro; in esso si rimarcava, secondo il volere del potere centrale, il divieto assoluto
di estrazione, pena ammenda e sequestro degli animali, anche se lasciava la possibilità
di riottenere gli animali a coloro che erano colti in fragranza di reato (si veda nella
stessa serie 714, 2/1).
47
Ivi, 714, 3/21, 5/37-5/38, 716, 4/50, 5/9-5/10 e Miscellanea atti giudiziari, 32/5,
143; 66/10, 222-223. Già nel 1569, i Conservatori avevano dato ordine circa il tra-
sporto del grano a Roma e gli sgravi da applicarsi ai castelli («Sermugnano Monte
rubiaglio Castello di Madonna Antonia Torre, Benano Lerona, et Fabro dal magazino
di Salce, al Ponte di paglia Ficulle, et Monte Cabioni et Poderani»), con cui stabiliva-
no, onde limitare gli oneri: «[…] che in communità di facci detto Carreggio, o levare
quella quantità di grani che potrete, et non mancate di cossi eseguire che cossi per util
ordine ci siamo convenuti» (si veda ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 148/18,
241).

28
va essere difeso con degli abusi da entrambe le parti, nonostante i pro-
blemi legati alla scarsa quantità di grano che metteva a repentaglio le
stesse vite dei più poveri e le connesse autorizzazioni ricevute dai
«Signori Superiori in Roma» da dove, in caso di bisogno, si parlava di
«commune Patria»48.

2. Lavori di fornace a Orvieto e nel circondario: dal XIII secolo


alle prime indicazioni di Castel Viscardo
L’attività di produzione di maioliche, stoviglie, brocche o altro del
genere, ma anche di laterizi e, quindi, di materiale costruttivo, aveva
origini antiche nell’orvietano, se si pensa che alcuni testimoni o con-
finanti di proprietà indicati come “vascellari”, vasai o produttori di
tegole sono rintracciabili in antichi atti notarili inerenti l’attività e la
gestione episcopale, soprattutto per quanto riguarda la mensa vescovi-
le. Di certo sappiamo che dal 1250 il mestiere era già ampiamente
“riconosciuto” a Orvieto e, in seguito, alcuni riferimenti di una “ri-
formanza” di fine secolo testimoniano che le due corporazioni dei va-
sai e dei tegolari avevano già esclusive forme aggregative49. Le due
associazioni di mestiere («fornaciari» e «vascellari») erano, insieme
alle comunità, tra quelle obbligate (come i mercanti, pellicciai, barbie-
ri, macellai, scalpellini, tessitori, mulattieri, calcinai, cacciatori, colle-
gio dei dottori e notai) a donare un cero alla vigilia della festività
dell’Assunta (si ritrovano, per esempio, nel 1337), mansione per la
quale erano morose negli anni 1610 e 161450.
Le più antiche notizie in merito alla presenza di questi artigiani in Or-
vieto risalivano al 1211, con un certo «Petrus vascellarius» del rione
di Santa Maria di Orvieto, citato nel cosiddetto Codice B
dell’Archivio Vescovile di Orvieto, circa alcune terre del vescovado
site in Morrano e per il pagamento di alcune tasse allodiali al Capito-

48
ASO, ASCO, Lettere originali, 716, 4/10, 5/7. L’accenno alla patria comune si tro-
va in una lettera di Paris Filippeschi da Roma dell’8 giugno 1570 (si veda la stessa
unità al documento 4/29).
49
A. Imbert, Ceramiche Orvietane dei secoli XIII e XIV : Note sui Documenti, Roma
1909, [ed. anastatica a cura e con postfazione di Lucio Riccetti, Foligno 2005], pp. 14-
15.
50
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 21/4, 183; 82/11, 217. Per il riferimento al
XIV secolo si veda G. Della Valle, Storia del Duomo di Orvieto…, cit., p. 262.

29
lo, o il «Filius Benedictuli vasarii» che pagava un censo per una casa
del vescovado che riteneva nello stesso rione. Nel 1220, nelle perga-
mene del Codice di San Costanzo, era citato «Guiccone vascellario»
e, due anni dopo, un certo «Gualtieroctus condam Iohannis Petri va-
scellarii» che dichiarava come l’allodio di una casa spettasse ai cano-
nici di San Costanzo. Nel 1250 esercitava anche un certo Fidanza di
Pietro «vascellario», citato come confinante in una donazione di una
casa nella regione di San Cristoforo in Orvieto51.
Sul finire dello stesso secolo, si ritrovava «Masseo tegolarius», pos-
sessore di una casa del vescovado di Santa Maria, o tal «Girardus Ta-
dhei tegularii», presente alla rogazione di un atto del 12 febbraio
129352.
Del resto l’attività, atta soprattutto alla costruzione, era attestata anche
nel contado rispetto alla realizzazione delle grandi opere della città, in
particolare nella villa di Montanso, posta nei dintorni del piviere di
Ficulle, che si configurava tra la fine del Duecento e per il Trecento
quale fiorente centro di produzione laterizia. Dalla metà di
quest’ultimo secolo, abbiamo poi riferimenti anche a una produzione
nei pressi di Corbara53. Tra l’altro, anche uno statuto della città, ri-
conducibile agli anni tra il 1313 e il 1315, proponeva la “mattonatura”
delle vie, tramite il titolo: «De certis viis Civitatis mactonandis», atte-
stazione più antica della volontà cittadina di utilizzare tale materiale
per la pavimentazione di alcune strade interne54.

51
A. Imbert, Ceramiche Orvietane dei secoli XIII e XIV…, cit., p. 11. La lista docu-
mentale proposta continuava nelle pagine successive (12-14), spingendosi dal 1223
sino al 1406, con citazioni estratte ancora dal codice capitolare di S. Costanzo, dal
catasto del 1292 e dalle riformanze comunali. Si veda, ASO, Insinuazioni delle dona-
zioni, 1, c. 2v/2.
52
AVO, Cartulari, Codice A, c. 154v/3 e Codice C, c. 104v/1 (cfr. ASO, Archivio
Perali, 29). Ringrazio Sabina Bordino per avermi gentilmente messo a disposizione
queste segnature archivistiche.
53
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 46-48.
54
L. Andreani, Un frammento di statuto del comune di Orvieto (1313-1315). Note a
margine, in «Bollettino Istituto Storico Artistico Orvietano», XLII-XLIII (1986-
1987), pp. 123-172; in particolare pp. 123, 135, 171-172. Si veda anche L. Giuliani,
Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 46-47.

30
L’area stessa dell’orvietano aveva storicamente garantito una buona
qualità di materie prime per la fabbricazione in terracotta. Essa era
compresa nella fascia collinare pros-
sima al lato meridionale della pianura
padana. In questa fascia, che poi si
spinge verso sud parallelamente alla
costa Adriatica sino agli Abruzzi, so-
no stati da sempre rilevati centri di
produzione di laterizi. Le materie
prime si trovano in abbondanza nei
pressi di giacimenti alluvionati (nelle
aree pianeggianti) e di quelli plio-
pleistocenici (sulle aree collinari e
Fossili e argilla esposti al Museo delle
pedecollinari)55. Terrecotte di Castel Viscardo.
All’interno del territorio orvietano,
anche la zona di Castel Viscardo si configurava per la sua ricchezza di
conglomerati argillosi (silicato idratato di alluminio o caolinite), in
particolare la parte centrale e orientale; questa peculiarità favoriva già
in passato l’insediamento di numerose fornaci di laterizi, soprattutto
nei pressi del cospicuo affioramento di ar-
gille e argille sabbiose aventi età pliocene
superiore-pleistocene inferiore (3/4 milio-
ni di anni fa), la cui origine marina o sal-
mastra, con frequenti letti di sabbie e con-
glomerati, ne configurava l’insediamento
nella porzione superiore della serie.
Numerosi studi, intrapresi già
dall’Ottocento, riconoscono come questo
territorio fosse prettamente formato da
sabbie gialle e da argille turchine sabbio-
se, analoghe a quelle che si trovano nelle
Varietà di Strombus coronatus montagne del bolognese. Questi depositi
e Murex torularius di grandi litorali e sublitorali, oltre a contenere re-
dimensioni ritrovati a Castel sti di invertebrati, sono ancora ricchissi-
Viscardo e pubblicati da Fore- mi di avanzi di molluschi, ben conservati
sti alla fine dell’Ottocento.
55
L. Rainaldi, Quando il fuoco camminava, Nascita e sviluppo dell’industria laterizia
in Abruzzo, Villamagna (Chieti) 2005, p. 59.

31
e abbondanti, non solo per individui, ma anche per genere e specie,
tanto che annoverano delle caratteristiche particolari, non comuni ne-
gli esemplari che si raccolgono nelle stesse formazioni plioceniche di
altre località. Questi fattori concorrevano già dall’Ottocento al loro
studio e donazione da parte del principe Spada al Museo geologico e
paleontologico dell’Università di Bologna e al geologo Lodovico Fo-
resti, tra i fondatori, dopo studi di medicina, della Società Geologica
Italiana56.
Nonostante le buone prerogative e il fabbisogno di materiale nel com-
prensorio, non sono ancora emersi, almeno per quanto riguarda i rife-
rimenti storici, informazioni atte ad accertare la presenza e produzio-
ne di materiale a Castel Viscardo già dal XIII secolo, epoca della sua
stessa fondazione, sebbene, nel corso dei successivi, soprattutto dal
Cinquecento, si comincino a ritrovarne nessi in diversi archivi sia del
paese, sia della vicina Orvieto. Il tutto deve essere necessariamente
correlato alla natura stessa dell’antico artigianato il quale, nonostante
una tradizione istaurata nel corso dei secoli e i buoni risultati econo-
mici di fine XX secolo (oggi rallentati dall’attuale crisi economica
mondiale), non si configurava (a Castel Viscardo, ma anche in gene-
re) come un fattore esclusivo della popolazione, fungendo, al contra-
rio, da corollario alla ben più diffusa pratica agricola. Infatti, pur es-
sendo il fornaciaio uno dei mestieri più antichi e diffusi in Umbria,
esso conviveva da sempre con l’impegno posto dalle popolazioni nel
settore agricolo: la forza lavoro era utilizzata in questo settore nei pe-
riodi lasciati liberi dall’attività nei campi. Nel corso dei secoli,
l’industria stagionale della produzione manifatturiera dei laterizi si era
andata contraddistinguendo per la sua posizione semirurale nei luoghi
come Castel Viscardo, dove era facile disporre delle materie prime
necessarie alla fabbrica, ma anche particolarmente strategiche dal
punto di vista del mercato57.
La posizione nel comprensorio di Orvieto rendeva Castel Viscardo
parte di un determinato territorio a cavallo tra regioni diverse (oggi

56
L. Foresti, Di una varietà di Strombus Coronatus Defr. e di un’altra di Murex To-
rularius Lk. del Pliocene di Castel-Viscardo (Umbria), in «Bollettino della Società
Geologica Italiana», VII (1888), pp. 27-34, + 2 tavv.
57
R. Covino, M. Giansanti, Fornaci in Umbria : Un itinerario di archeologia indu-
striale, Perugia 2002, pp. 13-14, 20.

32
Umbria, appunto, ma anche Lazio e Toscana); una zona che in passa-
to aveva una certa autonomia, anche dopo essere ritornata all’interno
dello Stato Pontificio. La situazione geografica di confine rendeva
particolarmente favorevole l’esportazione del materiale prodotto sia
verso Orvieto, sia verso i paesi posti all’interno della Provincia del
Patrimonio o verso le terre al confine con lo Stato di Castro (la cui
capitale era distrutta nel 1649)58. I primi segnali di questo commercio
si avevano solo dalla metà del Cinquecento e, allo stato attuale della
ricerca, pur non potendo escludere con certezza l’esistenza o meno
della manifattura in un periodo precedente, si tratta dei più antichi ri-
ferimenti documentari rinvenuti sull’esistenza delle fornaci a Castel
Viscardo.

3. Il commercio del “materiale di fornace”: importanti lavori nel-


la città di Orvieto
Essendo la calcina e il laterizio materiale costruttivo, la fornitura pro-
dotta dalle fornaci del territorio di Orvieto s’immetteva su diversi pia-
ni di analisi. Oltre a quello squisitamente storico, inerente l’erezione o
la ristrutturazione di chiese, tramite le quali possono trarsi notizie ine-
renti costruzioni, restauri o adeguamenti, non devono essere tralasciati
i continui riferimenti alle questioni dei vari scambi commerciali intes-
suti tra Quattrocento e Cinquecento che, come mostrato, erano sovente
portatori di incomprensioni tra le autorità confinanti. Interessante era
anche notare come, secondo le antiche consuetudini, il materiale che
doveva essere impiegato nei lavori in chiese o edifici contigui non era
soggetto alla “gabella del passo”, ma anzi poteva circolare liberamente
sui vari confini, con gli annessi tentativi di frode intesi a ottenere le
esenzioni che, di converso, non facevano altro che inasprire i controlli
anche oltre il dovuto, con conseguente irritazione dei rapporti. Per

58
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco, cit., p. 92. Ancora all’inizio del Settecento, quan-
do di Castro rimanevano solo macerie da circa mezzo secolo, in una relazione econo-
mica sulla gestione del feudo di Castel Viscardo (al momento posseduto dalla fami-
glia Spada Veralli), riguardo la presenza delle fornaci si sottolineava come ve ne fos-
sero di mattoni e di calce, rimarcando come di: «questi materiali ve n’è grande spac-
cio nello stato di Castro», puntualizzando, inoltre: «sarebbe maggiore, e con più utile
se si regolassero meglio le cose con farsi meglior lavoro, e non venderlo avanti fatto, e
per grascia valutata rigorosamente».

33
quanto riguarda i materiali di fornace, ritroviamo nel corso del XVI
secolo vari esempi al riguardo, come quanto occorse ai priori di Bol-
sena circa la chiesa della Madonna del Giglio. In due diverse missive
del 1520 si specificava come fosse stato dato il «cottimo» per la co-
struzione della chiesa a un certo mastro Antonio e suoi compagni. Per
la detta realizzazione era però necessaria l’estrazione di calcina già
prodotta a Sermugnano e, poiché non era possibile «cavare» senza la
licenza delle autorità orvietane, si pregava, per l’amore alla Madonna,
il rilascio della necessaria licenza; aggiungevano come, da parte loro,
in passato avessero fatto uscire i frutti dell’ospedale e delle chiese
senza gabella e, per questo, si aspettassero lo stesso trattamento senza
nessun costo aggiuntivo. Tale concetto era poi ribadito di seguito, non
avendo in prima istanza ricevuto ancora nessuna risposta in merito,
richiedendo celerità al fine di non pregiudicare la fabbrica59.
Pochi anni dopo (1525) e dallo stesso luogo, il cardinale Ipporegiense
(al secolo Bonifazio Ferrero60), richiedeva la stessa esenzione, avendo
commissionato una certa quantità di calcina in Sermugnano, «loco del
vostro distrecto», allo scopo di riparare la rocca di Bolsena, perorando
affinché l’incaricato di estrarre la calcina non avesse sofferto nessun
impedimento o molestia: «ve lo havemo voluto fare intendere accio
siate contenti de lassarla cavare liberamente»61.
Sulla presenza di fornaci, anche nella stessa Orvieto, abbiamo poi te-
stimonianze nel catasto cittadino del 1530; in particolare, in quello di
«Santa Pace», nel quale «Sebastiano di Jacho di Cola» assegnava di
possedere una vigna «di la da paglia» che confinava con «Arrigo for-
naciaro e la strada», e della «Serancia», dove si registravano diversi
proprietari come tale «Joanniandrea di Hieronimo di Mozamano» che
assegnava un campo di mezzo quartengo nella zona definita «alli for-
naci», mentre, nella partita di coloro che erano definiti gli eredi di San
Paolo, si annotava, probabilmente nella zona di Monteleone: «Item
piu una fornacj da mattonj con terre in sumj existenti posta in contrada
[…]»62. Altro fornaciaio orvietano della metà del Cinquecento era tale
59
ASO, ASCO, Lettere originali, 713, 2/27.
60
G.A. Bianchi, Ragioni della Sede Apostolica nelle presenti controversie colla Corte
di Torino, vol. 2, s.l. 1732, p. XXXII.
61
ASO, ASCO, Lettere originali, 713, 3/4.
62
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 57/9, 4, c. 22r e 7, cc. 16r, 20r. A cavallo tra Cinque
e Seicento, si aveva notizia della presenza di una fornace a Monteleone tramite una

34
«Jacuccio fornaciario», al quale era stata inflitta una imposizione di
pagamento per un importante debito contratto, verosimilmente per i
suoi «laborisia fornacis»63.
La produzione del materiale entrava in gioco anche per quanto riguar-
da la costruzione di grandi opere orvietane, oltre a strade, a palazzi e
alla cattedrale; devono essere rimarcate le disposizioni prese per il co-
siddetto ponte Giulio e quello che in seguito prenderà la denominazio-
ne di pozzo di San Patrizio, fabbrica quest’ultima iniziata all’indomani
del Sacco di Roma del 1527 e proseguita per più anni e con diversi
passaggi di elaborazione. In entrambi i casi era evidente l’interesse del
potere centrale alla giusta realizzazione dell’opera, sia si parlasse dei
lavori stessi che dei debiti che la città accumulava. Per questo, nel
1508 il legato di Orvieto raccomandava il pagamento dei debiti incorsi
nei confronti di mastro Giorgio, definito «Fundatore del ponte Iulio»,
il quale doveva essere pagato per il lavoro svolto in modo che potesse
«disarmarlo» interamente, pena cospicue sanzioni da parte della Ca-
mera Apostolica. Per la «fabrica del ponte Julio», il pontefice aveva
poi accordato per opera misericordiosa un contributo di cento ducati64.
Più tardi, per il «pozo della Roccha», Nicola Monaldeschi, inviato per
questo a Roma nel 1530, parlava della sua costruzione non ancora ul-
timata a causa delle grandi cifre resesi necessarie, oltre al pagamento
di alcune tasse che colpirono la Provincia del Patrimonio e Orvieto.
Circa i suoi compiti, rassicurava di avere ben operato tanto che «No-
stro Signore lassa alla fabrica del pozo scudi 600», con Orvieto che
rimaneva debitrice di soli 950 scudi, e raccomandando di destinare al-
cune somme per la completa realizzazione. Essa era anche ostacolata
da un’epidemia di peste che avrebbe potuto impedire l’arrivo del papa,
ma anche lo svolgersi della fiera, tanto che era necessario sancire il
divieto di ingresso ai forestieri e di uscita ai locali65. Ancora nel 1534

supplica inoltrata alle autorità orvietane da tale Francesco Striscia che richiedeva li-
cenza di poter estrarre fuori dai confini circa duemila pezzi; il materiale doveva essere
condotto verso il suo podere posto in territorio di Città della Pieve (si veda la stessa
serie, 118/15, 121).
63
Ivi, 32/5, 45.
64
Ivi, Lettere originali, 707, 7/2.
65
Riguardo al debito accumulato per la detta costruzione, i citati 950 scudi erano sud-
divisi in due rate simili da saldarsi alla Camera Apostolica entro giugno e agosto; que-
sti sommati ai 600 elargiti dal pontefice portava al momento la cifra a 1550, soldi che

35
il cardinale de Media scriveva a Giovanni Battista Leoncillo, luogote-
nente in Orvieto, circa la «prosecutione della fabrica del bozzo e dena-
ro da impiegarsi per detta Fabrica», manifestando la volontà del pon-
tefice affinché si portasse a compimento l’opera. S’intimava la comu-
nità alla soddisfazione dei suoi debiti nei confronti del depositario del-
la fabbrica, obbligandola a far trasportare: «quella quantita de mattonj
che si è composta, per dicta fabrica senza alcuna dilatione, o replica»,
esigendo, peraltro, il pagamento delle pene pecuniarie di tutte le con-
danne in corso; questo denaro, per volontà pontificia, doveva essere
destinato: «per spendersi in lo edificio et fabrica dicta»66.
Proprio in questi anni, con Orvieto gravata dai debiti (passivi che si
ripercuotevano direttamente sul contado), troviamo la prima indica-
zione sulla produzione di calcina in quel di Castel Viscardo. Nell’anno
1541 Paol Pietro della Cervara (al momento signore del detto castello
oltre che nipote del primo Paol Pietro) prometteva ai Conservatori del-
la Pace di Orvieto di provvedere a soddisfare le tasse arretrate da parte
delle comunità di Castel Viscardo e della vicina Monterubiaglio «in
tanta calcina» sino all’esaurimento del debito67. Sul finire dello stesso
anno, dalla città si deliberava sulla «conduzione» di calce dai vari ca-
stelli, annotando, tra gli altri, anche Castel Viscardo68.
Tale disposizione era preceduta dalla citata lettera del signore del Ca-
stello, sollecitata per il pagamento d’imposte obbligatorie e relative
alle «tasse de Soldatj e per li Salj vecchij», verso le quali le due co-
munità erano inadempienti69. Poco prima, il consiglio di Orvieto (11
febbraio 1541) prendeva in considerazione un bando di Francesco A-
stio da Forlì, cavaliere e al momento governatore di Todi che nel 1538
lo era stato anche di Orvieto, il quale stabiliva come per ordine del pa-
pa «occorse a pagarse la impositione del uno a fuocho». Questo per
cercare di dirimere le difficoltà palesate dai signori proprietari dei ca-
stelli nel territorio di Orvieto e sua giurisdizione che non si mostrava-

raccomandava: «li habbiamo da mettere nl beneficio del pozo della Roccha et de tanto
si è expedito il breve si che le Signorie Vostre vedranno de far ogni provisione che
queste denare se habbiano da trovare perche il Catastro non verra a Tempo per questa
prima summa [...]» (si veda ASO, ASCO, Lettere originali, 714, 6/18).
66
ASO, ASCO, Lettere originali, 714, 7/7.
67
Ivi, 715, 1/10b.
68
Ivi, Bastardelli, 563, c. 117rv.
69
Ivi, Lettere originali, 715, 1/10b.

36
no propensi ai pagamenti stabiliti, ma che, al contrario, manifestavano
come fossero liberi ed esenti, oltre che profondamente lesi e gravati
nella distribuzione dei fuochi, richiedendo il ricalcolo delle quote se-
condo il reale numero dei nuclei familiari70.
Sul finire dell’anno, tra il 2 e il 6 novembre, il consiglio di Orvieto ra-
tificava la commessa di un’importante quantità di calcina proveniente
dalle fornaci di Castel Viscardo, ossia 230 salme, molto di più di
quanto richiesto a Torre Alfina (46), Allerona (46) e Benano (37). Ta-
le materiale era necessario per la costruzione di un palazzo della cui
fabbrica era responsabile Francesco Scalza, al quale si demandavano
le mansioni riguardanti l’approvvigionamento del materiale, stabilen-
done anche la fornitura, oltre che dai citati luoghi, anche da Monteru-
biaglio71.

La lettera di Paol Pietro (a sinistra) e la


conseguente disposizione del consiglio di
Orvieto per la fornitura di calcina da
Castel Viscardo (sopra).

L’importante quantità di materiale richiesto alla comunità di Castel


Viscardo, insieme alla successiva introduzione nei patti della vicina

70
Ivi, Bastardelli, 563, cc. 4v-5r.
71
Ivi, cc. 116r, 117rv. Pochi anni prima si registrava, nelle libro delle uscite della
comunità orvietana, l’acquisto di quattro salme di calce, senza specificare il luogo fi-
sico di provenienza del materiale (si veda ASO, ASCO, Entrate e uscite, 481, c. s.n.,
annotazione del 31 maggio 1538).

37
Monterubiaglio, potrebbe ricondurre alla proposta formulata solo po-
chi mesi prima dal Monaldeschi, signore dei due castelli, il quale, pro-
babilmente sicuro della produzione e della tradizione dei due luoghi,
tali da garantire il pagamento del debito, stabiliva con questo com-
promesso di venire incontro alle continue esigenze costruttive di Or-
vieto e, nel contempo, di porre fine al periodo d’indebitamento dei
vassalli. Tali indicazioni risultano, a oggi, le più antiche rispetto alla
produzione di materiale di fornace nella zona. Inoltre, la quantità ri-
chiesta a Castel Viscardo, molto maggiore rispetto a quello prodotto e
condotto dagli altri, presupponeva diversi ragionamenti dettati anche
dalla grandezza degli stessi borghi. Tali parametri possono essere e-
saminati attraverso un’analisi comparativa della quantità di sale (per il
quale da antica consuetudine si pagava il dazio a Orvieto) richiesta
dalle varie comunità nell’anno 1538, direttamente proporzionale al
fabbisogno dei membri e relativa, quindi, al numero di persone pre-
senti nei vari castelli del contado e nella stessa città. Per capire l’entità
della popolazione basti pensare che, se per Castel Viscardo potevano
essere sufficienti 2,5 rubbie e per Monterubiaglio 1,5, per altri ne era-
no necessarie molte di più, configurando i due borghi tra i più piccoli
dell’intera zona. Se a Orvieto, evidentemente il luogo maggiore e pre-
dominante, ne serviva una grande quantità (150), altre realtà minori
facevano valere la loro all’interno del territorio, come: Civitella
d’Agliano (20), Ficulle (17), Monteleone (14,5), Castiglione in Teve-
rina (13,5), Lubriano (12), Parrano (11,5), Allerona (10), Sugano (10),
Corbara (10), Monte Gabbione (9,5), Torre Alfina (8,5), Porano (8),
Collelungo (6), Benano (5), Rotecastello (4,5), Fabro (3,5), Civitella
manni (3), Sermugnano (3), Torre San Severo (3), San Venanzo (2,5),
Palazzo Bovarino (1), Ripalvella (2 terzi). Ovviamente, si tratta di un
dato non esplicativo su base scientifica, ma rende comunque la realtà
delle comunità presenti sul periodo, oltre a fornire il dato della quanti-
tà di sale necessario. Per questo, l’alta quantità di calce richiesta a Ca-
stel Viscardo nel 1541 potrebbe significare, oltre a un forte importo
del debito prescritto, se le due situazioni fossero in correlazione, anche
una fornitura di materiale da considerarsi in qualche modo migliore,
visto anche il numero minore di abitanti del borgo72. Tale dato trovava
poi la sua completa definizione nello stesso periodo attraverso la tra-

72
Ivi, Entrate e uscite, reg. 481, II registro, cc. s.n.

38
scrizione dal libro definito «Grosso» del 1543, circa i fuochi presenti
nei vari castelli del contado, dalla quale emergeva lo status di Castel
Viscardo nel periodo, realtà tra le più piccole dell’intero contado con i
suoi 38 fuochi (circa 150 persone di media). Venendo da un così esi-
guo numero di abitanti (connaturato probabilmente alla sua tarda fon-
dazione) e di validi artigiani in proporzione, si potrebbero ricercare le
motivazioni per le quali nei secoli tra il Trecento e Cinquecento e per
buona parte del Seicento, non si trovino riferimenti alla produzione di
Castel Viscardo, soprattutto se paragonata con altre che in quel perio-
do erano chiamate in causa per la produzione di laterizi e calcina. Tra
queste: Corbara (con 172 i suoi fuochi), Monteleone (167), Ficulle
(154), Allerona («Lerona», con 144), Sugano («Sucano», con 138),
Torre Alfina (113), Porano (101), Canale (84) e tutti gli altri arrivando
sino a Benano (56), San Venanzo (45), Monterubiaglio (41), Viceno
(«Veceno», con 18)73.
Probabilmente era anche causa della scarsa popolazione presente che
nella costruzione delle grandi opere basso medioevali di Orvieto (su
tutti il tetto e alcuni ammattonati per la cattedrale, ma anche la “mat-
tonatura” di alcune strade o piazze) non si hanno nessi sull’utilizzo
dei laterizi di Castel Viscardo74, le cui prime notizie (per laterizi o
calcina) riconducono solo al 1541. Allo stesso modo, il commercio
verso l’allora zona di confine tra la diocesi orvietana e il ducato di
Castro si collocava nello stesso lasso di tempo; questo, forse, anche in
virtù delle particolari condizioni commerciali di cui godevano gli abi-
tanti di Castel Viscardo nella vicina terra di San Lorenzo, nei pressi
del lago di Bolsena, come risultava dai capitoli di quella comunità ri-
salenti al 1581, soprattutto riguardo la “gabella del passo”. Ancora nel
Cinquecento, ma anche nel secolo successivo, questa imposta creava
non pochi problemi di convivenza con le realtà limitrofe rispetto alla
circolazione del materiale75.

73
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 97/13, 81. Il totale dei fuochi era di 4.372, dei quali
1.447 si contavano nella sola città.
74
Si veda L. Giuliani, Nel mio piccolo loco, cit., pp. 44-50.
75
Archivio di Stato di Roma (d’ora in poi ASRM), Archivio Spada Veralli (d’ora in
poi ASV), 354/60. Su questo tema risultano quanto mai interessanti delle disquisizio-
ni di Orazio Spada nel corso del Seicento; nel 1646, dopo alcune problematiche lega-
te al passaggio di un suo vassallo per quelle terre, il signore scriveva a Francesco
Salvagni richiedendogli copia degli statuti della comunità di San Lorenzo (probabil-

39
A proposito delle zone oltre l’altopiano dell’Alfina e ai problemi con-
naturati ai gabellieri dell’ultimo avamposto orvietano di Torre Alfina,
ma anche della vicina Benano, ritroviamo diverse forniture, special-
mente verso Grotte di Castro e San Lorenzo, nei confronti delle quali
spesso solevano nascere controversie dettate dai vari controlli operati
che comportavano, qualora il carico non fosse stato in regola o debi-
tamente autorizzato, il sequestro della merce e degli animali utilizzati.
Chiaro esempio era quanto occorso nel 1543, con i priori di Grotte di
Castro che si lamentavano con le autorità orvietane per il sequestro
operato a loro danno nei pressi di Torre Alfina, borgo dal quale ave-
vano preso circa trenta some di calcina tutta necessaria per la co-
struenda chiesa di San Giovanni Battista («nostra chiesia catedrale»).
Esponendo i fatti, raccontavano della confisca di due asini ai danni
dei loro “santesi” e, cercando di risolvere la situazione, avevano in-
viato un messo in quel di Torre Alfina, dove, per tutta risposta si era-
no sentiti addurre alla responsabilità del gabelliere che rispondeva di-
rettamente a Orvieto e non a quella comunità. Per questo, richiedeva-
no, anche per la liberalità lasciata solitamente all’estrazione di mate-
riale per la costruzione di chiese, una licenza con la quale potessero
estrarre: «calcina: Mattoni: Tevole: pianelle: canali: o altre cose e-
xpectante et appartenente alla dicta fabrica della nostra chiesia» senza
problemi di sorta o aggravio da parte dei gabellieri posti nei vari ca-
stelli del territorio76.
Tali contrapposizioni richiamavano in causa anche personalità di tutto
rispetto (come nobili o cardinali) che ricercavano la libera estrazione
del materiale, soprattutto da Castel Viscardo il quale, essendo luogo
baronale, aveva determinati privilegi giurisdizionali dettati dalla sua
condizione di “misto impero”. Probabilmente, anche a causa di questa
particolare attribuzione, Orvieto sembrava maggiormente interessata
alla manifattura della cosiddetta “montagna orvietana” (delle comuni-
tà di San Vito, Rotecastello o San Venanzo), della zona di Ficulle, di

mente quella ritrovata e qui citata). Nel 1667 il problema sembrava riproporsi tanto
che da San Lorenzo, in rotta con Orvieto, si intendeva far pagare l’imposta anche gli
abitanti di Castel Viscardo. A tali motivazioni Orazio Spada rispondeva direttamente:
«il Castello non hà che fare con Orvieto, e pertanto il fatto con la Città non poteva
comprendere altri», riuscendo così a ottenere la conferma dell’esenzione (si veda
ASRM, ASV, 286, p. 14).
76
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 100/13, 190.

40
Sermugnano, Porano, Corbara e, come visto alla fine del Quattrocen-
to, anche della vicina Allerona, realtà sulle quali esercitava arbitra-
riamente e in maniera preponderante il suo dominio. Tutto questo no-
nostante la fornitura da alcune di queste zone, rispetto a quella even-
tuale di Castel Viscardo, doveva incontrare nel suo percorso sino alla
città una maggiore problematica dettata anche dalla presenza del fiu-
me Paglia; per oltrepassarlo, nei pressi del ponte dell’Adunata, alla
metà del Cinquecento erano stati ordinati dei ferrei capitoli, che non
riguardavano però i cittadini e la stessa Orvieto, a tutto discapito di
quelli che abitavano nel territorio circostante o dei forestieri, la cui
fornitura o acquisto di materiale subiva un’ulteriore spesa77. Allo stes-
so modo, l’Opera del Duomo, per dei lavori in alcune sue proprietà
(anche prossime a Castel Viscardo come Benano), sembrava utilizza-
re esclusivamente materiale proveniente da Ficulle, Prodo e Porano78.
Sulle località fornitrici alla metà del Cinquecento, si ritrova un inte-
ressante riferimento a una quantità di calcina dalla citata Ficulle per la
quale, a seguito di un mancato adempimento, i difensori della comu-
nità richiamavano alla diretta responsabilità del produttore. Questi,
incurante di una sorta di diritto di prelazione di cui godeva la città
(«ve diciamo noj non esser mancatj de fare l’obedien<tia>»), aveva
venduto liberamente il prodotto del suo lavoro79. La fornitura in og-
getto era probabilmente destinata alle importanti opere realizzate in
quello stesso anno nella città; basti pensare che nel 1549 erano rin-
tracciabili dei pagamenti per diversi mastri quali, per esempio, tali
Domenico «negro» e Antonio, muratori pagati per aver portato a
compimento il «muro della Strada drieto a Sancto Andrea». Tale ma-
nodopera e quella di ben altra consistenza risultavano quanto mai im-
portanti riportando sovente l’indicazione dei vari fornitori di materiale
costruttivo; proprio nel 1549, tra gli artigiani produttori di calce, ne-
cessaria al palazzo detto «Torre del Papa» (l’odierna «Torre del Mo-
ro», ceduta nel 1515 da Leone X al comune di Orvieto), si registrava-
no diversi pagamenti a beneficio di Marsilio di Ficulle, Mariano di
Canale, Menico Guerre e Cecho Pepi, Paulo e Angelo di Sermugnano.
Sul finire dello stesso anno si era anche provveduto, ma senza dare

77
Ivi, 187/22, 2/97.
78
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 49-50.
79
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 183/22, 101.

41
l’indicazione del luogo di provenienza del materiale, ad ammattonare
una parte della strada della cava, la cui spesa era stata stabilita in con-
corso con coloro che vi abitavano. Anche l’anno successivo si conno-
tava come pregno di numerosi interventi di consolidamento, come te-
stimonia il pagamento effettuato a buon conto di un certo mastro An-
tonello «fornaciaro», saldato per della calcina utilizzata per far murare
la «Ripa di Medici» posta «all’incontro» di San Lodovico. Poco dopo,
erano nominati altri fornaciai del territorio, come «Luciastro» e i suoi
soci di Ficulle (che ritenevano una fornace posta in contrada «il palzo
de pippo»), Marco «quondam Paolo Julianj» e «Jacomo di Collelun-
go» (con il secondo che forniva dei canali), «Ciomo di Lippo» e «Ce-
cho petri» da Sermugnano, «Sbrascia fornaciaro» o i non specificati
«Britio Pecorelli» e «Britio de Besamo», il cui materiale era stato uti-
lizzato nei muri di sostegno per la rupe nei pressi di San Lodovico,
restaurare l’orologio della comunità nel campanile di Sant’Andrea, la
fabbrica del muro tra il palazzo della comunità e i beni dei cavalieri di
San Giovanni o per il tetto del palazzo del podestà80. Nello stesso
1550, Orvieto era anche interessata alla cosiddetta «fabbrica del Re-
verendissimo Cardinal Crispo», per la quale Nicolo Monaldesco sal-
dava Cesare Maccarone, originario di Roma; tra le varie annotazioni
inerenti la costruzione, si segnalavano diverse commesse e i paga-
menti a beneficio di «Cecco di Figulle» (per la fornitura di calcina) e
dei mastri Domenico, Antonio, Domenico «piccino» e Domenico «or-
so» muratore (e loro manovali) per le opere del tetto, volte e delle mu-
ra del giardino81.
Nello stesso periodo, troviamo un primo richiamo diretto alla produ-
zione di laterizi a Castel Viscardo, ossia quelli realizzati per la pavi-

80
Ivi, Entrate e uscite, 481, II registro, cc. s.n. Nelle annotazioni si ritrovano anche
diversi riferimenti a muratori (come mastro Domenico che con il suo garzone aveva
mattonato e murato delle pietre nella strada detta della «Cava», il garzone di mastro
Donato che aveva «carreggiato» i mattoni necessari al detto lavoro, mastro Antonio e
il suo garzone pagati per murare le pietre e ammattonare una strada o altri muratori
senza garzone) e vetturali di calce e canali (come Agapito che con tre asini aveva
condotto dei canali per una guardiola sulla rupe, Serafino di Bernardino che aveva
portato allo stesso luogo della calce, Meio e Cappelletto «asinari», Toso acquarolo per
dell’acqua utilizzata per spegnere della calce o Cristofano di Bernardo per 40 vetture
di calcina «hauta dalla sua concia»).
81
AVO, Archivio della Mensa Vescovile di Orvieto (d’ora in avanti AMVO), Parte
antica, Entrate e uscite, 1, cc. 36-47).

42
mentazione della nuova chiesa del vicino borgo di Castel Giorgio.
Giustificando l’uscita, don Francesco Compignano segnalava tra le
spese necessarie l’acquisto di un migliaio di mattoni da mastro Dome-
nico dal «Castello del Signor Pavol Pietro» Monaldeschi (ossia una
delle denominazioni con la quale doveva essere conosciuto all’epoca
Castel Viscardo): «Qui de sotto Jo Francesco [...] detto anotero tucto
quello spendero per la detta chiesia jn prima spesi scude doj et bajo-
che 25 per uno migliajo de mattone per mattonar la chiesia qualj dettj
a mastro domenjco [...] al Castello del signor pauol pietro», aggiun-
gendo, in seguito, quelle per la messa in opera da parte di mastro Jaco
di Benano82.
Continuavano, nel frattempo, le grandi opere orvietane, per le quali
erano richieste forniture di calce da San Vito, necessarie per lavori
nella zona di San Giovanni; curioso notare come, anche in questo ca-
so, siano presenti delle incomprensioni sulla quantità del materiale ef-
fettivamente necessario (ne era stata portata solamente la metà), tanto
che era essenziale una precisazione dalla quale trasparivano, forse,
delle malcelate reazioni agli atti di forza cittadini83. Per questi lavori e
per il trasporto del materiale, lo stesso anno il camerlengo generale
Bernardino Alberici pagava Ascanio de Baldo, «mognaio» da Porano,
per sessanta vetture di calcina «per la nuova refactione del muro sotto
a sancto giovanni», dove si utilizzava anche calce prodotta a Palazzo
(Bovarino), San Venanzo, Collelungo, Ripalvella, San Vito e Prodo84.
Nel contempo, proseguivano i richiami a diversi mastri per
l’ammattonatura di vie e piazze della città, come la «strada della cava
[…] sotto piazza delle erbe» (per la quale era pagato tale Simone da
Sermugnano per dodici vetture di calcina e Vincenzo Sbrascia - «Vin-
cetio Sbrage» - per ottomila mattoni «coptj da luj» e, di seguito, i ma-
stri Pietro Zola e suo figlio per averla ammattonata), «Piazza maggio-

82
APCG, Registri Sacramentali, Battesimi, 1, c. s.n. Si veda anche L. Giuliani, La
pievania di Castel Giorgio: alcune notizie storiche, in «Colligite Fragmenta: Bolletti-
no storico della diocesi di Orvieto-Todi», 4 (2012), pp. 1-34; in particolare p. 9.
83
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 187/22, 2/119.
84
Ivi, Entrate e uscite, 478, cc. s.n., 14r. Per altra calcina necessaria allo stesso lavoro
era pagato a più riprese anche Polimante «asinaro» che l’aveva trasportata per cinque
giorni a San Giovanni; per lo stesso luogo si parlava anche di pagamenti fatti per
«crescere la fossa della calcina» in Surripa o spegnerla, il tutto nei pressi del rifacendo
muro di San Giovanni, dove poi fu trasportata dall’asino di Samele Famaglio.

43
re davanti la bottega dei fabbri» e «porta della Rocca». Per il restauro
di una bottega al palazzo del popolo era pagato Piero da Prodo (il
prezzo della calcina presa alla sua fornace) e per i lavori al palazzo del
podestà o a quello del governatore,, dove per ammattonare due camere,
nel primo caso, e la cucina e l’ingresso o meglio cortile, nel secondo,
più una nuova cantina e l’intonaco per la loggia, erano utilizzati delle
mezzane e quadrucci provenienti dalla fornace di Castel Rubello, di
proprietà del signor Jaco Valenti, e da quella Porano di «Jacomo Vale-
rij» (l’origine si riferisce al paese di cui si dichiarava il suo agente Pie-
tro de Manciotto); a queste doveva essere aggiunta diversa manodope-
ra per il trasporto di calce, acqua, sassi e mattoni, alcuni dei quali fu-
rono portati da casa di «Messer Sensato» (Sensato Sensati) o con
l’aiuto dei soprastanti della Madonna di San Lorenzo in Vigne85.
Le questioni dei fornaciai del territorio entravano a pieno titolo anche
nelle disamine della giustizia, come nel caso del 1566, quando si ri-
scontrano due suppliche che li vedevano protagonisti: ossia quella dei
fornaciai di Porano che si manifestavano poverissimi, tanto da richie-
dere il venir meno di alcune “molestie”; allo stesso modo, Angelo del
fu Alessandro fornaciaio richiedeva di essere liberato dal carcere, nel
quale era ritenuto dal 1565 per motivi probabilmente legati a qualche
frode, in modo che potesse rivedersi il procedimento a suo carico. Al
momento, a Benano era anche attivo Giovanni Antonio «fornaciarij» e
a Porano Matteo «fornaciaro», citato nel 1571 in un registro di giura-
menti, mentre a Sugano si avevano riferimenti a Bartolomeo fornacia-
io, che assegnava il grano posseduto nel 157386.

85
Ivi, cc. s.n., 23v, 24v c. 27v, 45v-46r, 47r, s.n. Per i lavori nei pressi della Cava era
pagato come manovale anche «Jaco da Castello» e due vetturali che avevano portato
duecento mattoni dalla «Fornace di Sbrascia». Inoltre, erano citati Polimante, per il
trasporto di calcina dal ponte di Paglia a porta della Rocca, dove era utilizzata per rea-
lizzare un parapetto a opera di mastro Giovanni muratore; il vetturale Guasparre di
Pietro, per il materiale necessario al palazzo del podestà; Blasio «senese», Ceccho di
Goro e compagni, per il materiale necessario alla cantina nel palazzo del governatore
e, per intonacare la loggia al principio delle scale, Ridolfo Calidonio.
86
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 21/4, 1; 61/9, 121 e 148; 69/10, 51. Giovanni Anto-
nio era citato in un atto notarile, rogato a Orvieto nel marzo 1565, con il quale si costi-
tuiva, parimenti a Giacomo «Ciommj» di Porano e Diomizio «Ciannis» di Benano, in
quanto debitori di una certa quantità di grano nei confronti di mastro «Julianj capole-
onis» di Bergamo e suo figlio Giovanni Antonio (si veda ASO, ANM, I versamento,
1038, cc. 69r-70r).

44
Ancora legate al microcosmo dei fornaciai erano le questioni di tal
«Jaco fornaciaro» di Torre Alfina, per il quale era richiesta la quantità
dei beni, pretesa evasa nel 1567 tramite il notaio Bastiano Pasquini
(responsabile del controllo e certificazione catastale a Orvieto almeno
sino al 1574)87. In questa zona, altri riferimenti riportano al feudo di
Viceno di proprietà della famiglia Simoncelli che all’epoca annovera-
va il cardinale Girolamo, vescovo della diocesi di Orvieto. A suo no-
me, nel 1568, messer Giovanni Antonio Capolione pagava un certo
Durante, di professione «segatore» e abitante in «vjcieno», del conto
del lavoro fatto da questi per il cardinale; lo stesso anno, mastro Anto-
nio Toso acquistava tredici vetture di calcina, per intonacare e ammat-
tonare la camera e scala nel vescovado, e altre cinquantatre per la cap-
pella di San Silvestro (probabilmente di Benano)88.
In tutto questo commercio non mancavano certamente le questioni le-
gate ad alcune lamentele derivanti da mancati pagamenti, come quelli
che nel 1569 richiamavano a un debito in Orvieto inerente la calcina e
i lavori di fornace di Achille Piastelli, al quale spettava un compenso
per dei canali e delle pianelle a nome del governatore89. Per terminare
la panoramica sulla presenza dell’artigianato nel territorio, nel 1571 si
stabiliva una tassa per un ponte che coinvolgeva molte località limitro-
fe quali Ficulle, Montegabbione, Fabro e Allerona; il primo in partico-
lare, oltre a quanto stabilito in denari essendo probabilmente più coin-
volto per questioni di prossimità, doveva mettere a disposizione anche
diecimila mattoni e l’equivalente di dodici scudi in calcina90.

4. Castel Viscardo, i lavori di fornace e il “misto imperio”


In questo periodo, i lavori della città di Orvieto non sembravano coin-
volgere gli artigiani di Castel Viscardo, uno dei pochi centri produttori
non citato, se non nella mera persona del manovale «Jaco da Castel-

87
Ivi, 55/8, 351. Il 29 luglio 1574, per alcune difficoltà insorte nel controllare i libri
del catasto in seguito all’assenza di ser Sebastiano Pasquini «notaio di detto Catasto»,
il consiglio di Orvieto stabiliva l’elezione di un nuovo notaio, da onorarsi a tale offi-
cio con il corrispettivo dato al Pasquini (si veda ASO, ASCO, Riformanze, 263, c.
114v).
88
Ivi, Lettere originali, 717, 4/2, 4/11, 4/22.
89
Ivi, 1/13.
90
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 143/17, 103.

45
lo», la cui origine traspariva dall’apposizione geografica posta a segui-
to del nome91. La situazione era conseguenza, probabilmente, della
differente gestione e scarsa sottomissione di quei territori (tra cui an-
che Monterubiaglio) alla stessa città, come prova la mancata citazione
nel 1561 tra i castelli del contado obbligati, con ordine, all’esecuzione
di un nuovo catasto dell’orvietano92. Castel Viscardo, come luogo ba-
ronale, aveva una propria gestione, dalla quale derivava anche la detta
compilazione, senza ingerenze da parte della città93.
Nel 1564 si annotavano i catasti di vari signori e loro possedimenti in
vari castelli, come i conti di Marsciano e i Monaldeschi della Cervara.
Per questi ultimi, si registrava la somma (7.368,94 scudi) dovuta dagli
«Heredi del Signor Paulpietro Ceravara» per le comunità e uomini di
Castel Viscardo e Monterubiaglio (all’epoca riunite sotto un’unica ge-
stione signorile, almeno dall’acquisto che ne faceva della metà dal
fratello Luca il primo Paol Pietro, e come sarà poi nuovamente dal
1879 con la soppressione del comune di Monterubiaglio e la sua u-
nione a quello di Castel Viscardo)94.
Tale giurisdizione si ripercuoteva anche sulle questioni di carattere
pratico, tra le quali anche lo stesso commercio, e generava nel Cin-
quecento un insieme di provvedimenti pontifici tesi a mantenere ordi-
ne nel complesso feudale e ai quali si contrapponevano le rivendica-
zioni cittadine per il controllo del territorio volte a limitare
l’autonomia dei castelli95.

91
Ivi, Entrate e Uscite, 478, cc. s.n. Lo stesso era annotato anche tra coloro che dove-
vano essere pagati, parimenti a Tone da Montegabbione, per aver «portato la barella»
e condotto dei sassi al muro di Santa Maria Maddalena sempre a Orvieto.
92
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 150/18, 141. Tra l’altro, Castel Viscardo non era
neanche elencato in una altra nota dei vari castelli compilata lo stesso anno (si veda il
documento 142 della stessa unità).
93
Sintomatico, sulla ricerca della difesa della propria autonomia da parte di Paol Pie-
tro, era il rifiuto operato nel 1557 relativamente all’imposizione di un accatastamento
del suo castello da parte delle autorità orvietane. Si veda, M. D’Amelia, Orgoglio ba-
ronale e giustizia…, cit., p. 46 (nota n. 2).
94
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 68/10, 23. Per la riunione dei due comuni
vedi L. Giuliani, I Sindaci di Castel Viscardo: Storia di una amministrazione (1860-
2009), Castel Viscardo 2008, pp. 45-47. Per l’acquisto di Paol Pietro: ASRM, ASV,
379/8, cc. s.n.
95
M. D’Amelia, Orgoglio baronale e giustizia…, cit., p. 7.

46
Le questioni sembravano nascere dopo la morte del secondo Paol Pie-
tro della Cervara (occorsa proprio nell’anno 1564), quando veniva
meno il potere locale, trasferendosi la proprietà del Castello di Viscar-
do alla famiglia romana dei Veralli. L’eredità non era però pacifica
tanto che, morto il Cervara senza eredi di sesso maschile, l’ammontare
dei possedimenti passava, come da disposizione testamentaria, alle fi-
glie Isabella, Caterina, Antonia, Laura e Giulia. A questa ultima e al
marito Matteo Veralli (sposato nel 1552) nella spartizione toccava il
feudo di Castel Viscardo, del quale ereditava anche il “misto imperio”
(ossia l’autonomia e capacità giurisdizionale che si ripercuoteva
sull’amministrazione della legge e mantenimento dell’ordine pubbli-
co, certificata dall’investitura tramite breve pontificio); l’erede si mo-
strava più cauta del padre che aveva sempre manifestato apertamente
la sua intolleranza ai tribunali orvietani, riuscendo a più riprese a con-
servare illesa la sua giurisdizione96.
La stessa Giulia Cervara nel 1574 chiedeva circa la possibilità di defi-
nire le sue reali proprietà «del suo Castello Viscardo altramente detto
di Madonna Antonia», in modo che fosse possibile una cospicua ridu-
zione di imposte, ritrovandosi a detenere dei beni in comune, oltre che
con alcuni della sua stessa casata, anche con le comunità di Castel Vi-
scardo e Monterubiaglio. L’istanza, espressa tramite un memoriale,
era accolta con il precetto che se la signora avesse voluto venire alla
giusta misura, avrebbe dovuto provvedersi entro otto giorni di un peri-
to da affiancarsi a quelli nominati da Orvieto e da due cittadini della
stessa, allo scopo di convenire la giusta determinazione della tenuta di
Castel Viscardo, onde stabilire il legittimo corrispettivo camerale97.

96
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., p. 33 e M. D’Amelia, Orgoglio baronale e
giustizia…, cit., pp. 11, 19-21, 24, 34, 40, 49.
97
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 100/13, 44 e Riformanze, 263, cc. 48r,
49rv, 144rv. Il catasto era effettivamente realizzato, tanto si arrivava alla definizione
della proprietà stimata in 1385 quartenghi; nel suo incipit si leggeva: «Illustre Signora
Giulia Cervara de Veralli, una delle figliole, et heredi dell’Illustre Signore Paol Pietro
de Monaldeschi della Cervara possiede una Tenuta con un’ Castello detto Castel Vi-
scardo, overo di Madonna Antonia […], confinante con la Tenuta di Viceno mediante
il Fosso, li beni del Vescovo di Sovana, cioè di Monsignor Reverendissimo Camagial-
la Simoncello li beni di Messer Pietro Magalotti mediante il Fosso, li beni di Messer
Pietro Antonio Benincasa la Tenuta di Monte Rubiaglio, il Fiume di Paglia, li beni
della Chiesa di Santa Rofena, e le morre dell’Alfina, nella qual mesura sono incluse
tutte le Vigne, Prati; Canapuli, Chiuse, e Canneti, tanto della suddetta Signora Giulia,

47
L’anno successivo, in nome dei signori del Castello, il podestà Giovan
Girolamo Simonio manifestava il dissenso dovuto all’arrivo di un
mandato esecutivo per il mancato pagamento di centocinquanta scudi
di imposte camerali. Mostrandosi dubbioso sul mancato invio di
un’informazione preventiva, prendeva tempo manifestando
l’intenzione di corrispondere nella giusta misura, visto che i proprieta-
ri si trovavano al momento in Roma98. Lo stesso anno, nell’elenco dei
debitori del cero da donarsi nella festività dell’Assunta, si annoverava
anche il sindaco di Castel Viscardo (che non aveva corrisposto quanto
d’obbligo per il peso di cinque libre), parimenti a quello della vicina
Monterubiaglio99.
In quest’ambito, nella continua incertezza del periodo che rifletteva e
sfociava a volte anche in disaccordi, non deve meravigliare come della
produzione di Castel Viscardo si cominciasse a fare menzione solo in-
torno al 1570, quando emergeva tra le comunità che avevano fatto
pervenire dei mattoni per la ristrutturazione del cosiddetto «ponte del-
la nona»; per questi lavori, Paolo Turanj si lamentava con il governa-
tore e i Conservatori della pace per non essere stato saldato del mate-
riale condotto sul luogo di costruzione, mattoni che provenivano da
Allerona, ma anche dalle zone dette «Poraniere», «santagonna», la
«bandita del monte» e dalla «fornacia de ripa rossa» (nel territorio di
Meana)100.
Nonostante questa indicazione, nello stesso 1570, Castel Viscardo non
era tra i castelli che dovevano rendere conto del grano posseduto o,

come di suoi Vassalli de quali ne è stata sgravata detta Signora, qual Tenuta è stata
d’Ordine del Magnifico Consiglio generale rimisurata da Messer Anton’ Maria Rai-
mondi misuratore, con la presenza, et assistenza di Messer Ercole Sensati, uno de de-
putati sopra il Catasto, e ridotta quartenghi mille trecento ottanta cinque»; una sua co-
pia era utilizzata successivamente producendola per essere annoverata nel «Catasto de
Domicelli d’Orvieto» e, da lì, trascritta nel 1708 per una relazione sui possedimenti
Spada Veralli. Si veda L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 52-54 e ASRM,
ASV, 421, da c. 177r.
98
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 185/22, 1/84.
99
Ivi, Riformanze, 263, c. 125r.
100
Ivi, Miscellanea Atti giudiziari, 148/18, 162; Lettere originali, 715, 2/22. Erano
state intimate alla consegna della loro parte di materiale (cinquemila mattoni ciascu-
na) anche le comunità di Torre Alfina, Monterubiaglio e Sugano. Per l’ubicazione del-
la fornace di «Riparossa» si veda C. Urbani, Allerona: Vicende storiche dalle origini
alle soglie del XX secolo, Allerona 2002, p. 191.

48
nel 1574, tra coloro per i quali era necessario provvedere alla nomina
di varie cariche da parte del gonfaloniere e conservatori, come i vari
podestà, notai, giudici, sindaci, mastri di strada soprastanti della fiera,
stimatori e sindaci101; al contrario, tra il 1573 e 1574, lo troviamo in
un elenco contabile delle comunità e loro rappresentanti, con a latere
una somma, per la quale non era specificato se fossero debitori oppure
creditori, in un ordine atto al pagamento dei «residui del quatrino della
carne salata porcina» e in una lista inerente la distribuzione del sale,
annoverando tre rubbie e mezzo (lo stesso quantitativo necessario an-
che nel 1609 e 1610), poco più di quanto servisse a Monterubiaglio102.
Ancora, nel 1573, era chiamato in causa, insieme a Torre Alfina, in
una richiesta di legname («passoni») per dei lavori da realizzarsi nei
pressi del fiume Paglia allo scopo, come da risoluzione consiliare, di
«fare ogni opera possibile, che il fiume di paglia ritorni al luogo suo,
et passi sotto il Ponte Julio»103.
Alle questioni di “misto imperio” e alle diatribe tra la famiglia dei
domicelli di Castel Viscardo e le autorità di Orvieto doveva essere ri-
condotta una serie di documenti di questo periodo, rispetto alla produ-
zione, estrazione e commercializzazione del materiale prodotto. Dal
1573 abbiamo, infatti, una serie di testimonianze in merito, relative
soprattutto alla questione dell’estrazione, ma che si riflettevano sul pi-
ano storico dandoci un quadro di quanto prodotto al momento a Castel
Viscardo. Il gonfaloniere e i conservatori della pace di Orvieto, in
questo stesso anno, sembravano maggiormente intenzionati a servirsi
del materiale prodotto nel territorio di San Venanzo (Ripalvella, Col-
lelungo, Rotecastello, lo stesso San Venanzo, San Vito e Palazzo Bo-
varino), come testimoniava l’ennesimo bando di intimidazione per far

101
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 11/12, 906-1042 e Riformanze, 263, cc.
193r-194r.
102
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 82/11, 77, 109; 143/17, 43-44 e Riformanze, 263, c.
200r. Nel primo documento erano elencati questi castellesi: Mario, Simonetto, donna
Tona di Giulio, Onorio, Niscie, Sabbatino, Menico della Sabbatina, Giovanni Maria e
donna Bonifazia.
103
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 143/17, 51 e 52. Il primo documento si riferisce
allo stesso ordine dato alla comunità di Monterubiaglio. Sui lavori di questo anno a
ponte Giulio, vedi nella stessa unità di conservazione anche un elenco di muratori in-
timati per recarsi a lavorare agli ordini del commissario deputato Monaldo Messino
(doc. 60) e altri bandi diffusi per la raccolta del legname necessario con Castel Vi-
scardo che doveva 150 «passoni» e altrettante «fascine» (docc. 65, 66, 104).

49
arrivare della calcina verso il «Pozzo di Mastro Marco, quale stà sopra
Pruodo all’hosteria di Conti di Corbara», da scaricarsi per servizio del
«Ponte della Nonna»104; allo stesso modo, verso la zona di Grotte di
Castro, forse anche a causa della prossimità territoriale, e certamente
non per via intimidatoria («sotto pena nostro arbitrio»), si facevano
accordi con i fornaciai di Castel Viscardo. Al 12 aprile era datata una
copia di patti stabiliti dai priori di Grotte di Castro, in nome della loro
comunità e rappresentati dal solo Jaco di Pietro (non erano presenti gli
altri due priori Innocentio di Juzzo e Corintio Cordelli), con Cesare di
Christoforo e Mario di Cherubino, rappresentati da Brancatio di Tofa-
no, tutti «dal Castello di Madonna Antonia in quello d’Orvieto». Que-
sti ultimi avevano promesso e si obbligavano alla vendita di centocin-
quanta some di calcina «ben cotta buona, et recipienti», a ragione di
baiocchi otto la soma, ricevendo da subito un acconto di sette scudi,
sul totale dei dodici che il priore dichiarava avrebbe saldato al mo-
mento della consegna del materiale. Essa non era certamente pacifica,
se nel maggio seguente gli stessi priori di Grotte di Castro dovettero
richiedere il benestare delle autorità orvietane («Li fornaciari che ci
devano dar certa quantita de calcina per la quali hanno hauti denari ci
scrivano che non possino darcila senza licentia, et ordine delle Signo-
rie Vostre») per il ritiro della merce già pagata, come dimostrava la
polizza inviata parimenti alla richiesta per tramite di Alessandro Cor-
delli105. Le stesse problematiche erano manifestate sul finire del 1574
anche dai priori di Bagnoregio che richiedevano licenza per estrarre
della calcina da utilizzarsi per le sponde e il selciato del «Ponte di Tu-
fo tagliato». Dallo stesso luogo, anche l’anno successivo, si postulava
il permesso per estrarre dal territorio orvietano («da cotesto loro do-
minio e perche sappiamo che non si può extrahere senza licentia delle
Signorie Vostre») una certa quantità di calcina da utilizzarsi per la re-
staurazione di due chiese e di un campanile che minacciava di cadere
(«che oltra sia per opera pia»)106. Legate ai luoghi religiosi erano an-
che le contemporanee richieste di licenza gratuita inoltrate nel 1575
104
Ivi, 130.
105
Ivi, 57/9, 14 e 143/17, 126. Di un certo «negocio dell’estrattione delle calce» i
priori di Grotte di Castro scrivevano ancora a Orvieto nel settembre del 1575, quando
avevano inviato, parimenti al podestà, due loro ambasciatori: Virgilio Salci e Giugurta
Cordelli (stessa serie e busta, doc. 13).
106
Ivi, 11 e 12.

50
dai priori di San Lorenzo che richiedevano «di posser cavare almeno
cento vetture di calcina» a uso della loro compagnia del Corpus Do-
mini, intesa a costruire una stanza; il tutto, richiamando alla benevo-
lenza della città e all’utilizzo del materiale da prendersi nell’orvietano
perché da loro non prodotto («si degnino concederci licentia di posser
cavare almeno cento vetture di calcina, che oltre che loro ci faranno
cosa graditissima n’havranno anco premio et mercede à presso al Si-
gnore Dio, volendone noi adoprarla per questo luogo Pio»). In seguito,
dalla stessa comunità si pregava affinché si restaurasse quell’antica
benevolenza e protezione che gli uomini di San Lorenzo avevano ri-
cevuto da sempre e che sembrava essere venuta meno per «qualche
offitio fatto sinistramente». Tra i vari casi che potrebbero aver prodot-
to le limitazioni, deve essere citato quello raccontato da tale Priamo
Alberici che, da Benano, inviava presso Orvieto il risultato di un se-
questro operato dal guardiano nel maggio del 1575 («otto bestie cum
otto vitture de calcjna un somaro») ad alcuni vetturali che, avendo li-
cenza di trasportare verso San Lorenzo, interrogati si erano lasciati
sfuggire come la calce servisse, almeno in parte, al podere di un certo
Sebastiano. Nel settembre del 1575 i priori di San Lorenzo, venuta
meno la fiducia riposta in loro, richiedevano fosse nuovamente accor-
data la libera facoltà di: «trarre fuori del loro Territorio ogni sorta di
lavoro di fornace, calcina, legna, et altre cose, si come à gl’anni adie-
tro sempre son stati soliti per bontà delle Signorie Vostre cavarne
quelle quantità che gli pareva senza in corso di pena alcuna», al pari di
altre comunità del territorio. La richiesta era accettata, ma con alcune
limitazioni volte ad approfondirne i reali ravvedimenti dopo che questi
si erano macchiati della colpa di aver estratto liberamente senza ri-
chiedere il lecito permesso o averlo fatto per dei privati in nome dei
luoghi pii, esulando così il pagamento dovuto107.

107
Ivi, 57/9, 15 e 185/22, 1/96, e Lettere originali, 715, 4/9. Poco dopo gli avveni-
menti narrati, un fornaciaio di Castel Viscardo, tale Antonio del Nicchio, otteneva una
importante commessa (siglata con rogito del 29 giugno 1587) da San Lorenzo: duemi-
lacinquecento canali e altrettante pianelle per la restaurazione della chiesa di San Gio-
vanni in Val di Lago (si veda Archivio di stato di Viterbo, Notarile San Lorenzo Nuo-
vo, 33, cc. 154v-155r; F.T. Fagliari Zeni Buchicchio, Dal Duomo di Montefiascone a
San Giovanni in Val di Lago: architetti rinascimentali e chiese a pianta centrale in-
torno al lago di Bolsena, in «Bollettino di Studi e ricerche a cura della Biblioteca co-

51
Le disquisizioni sulla produzione, commercio ed estrazione da Castel
Viscardo del materiale di fornace interessavano, oltre ai priori di varie
comunità limitrofe, anche importanti personaggi dell’epoca, come
Sforza Cervara che da Torre Alfina richiedeva a Orvieto la possibilità
di ottenerne licenza per due suoi amici abitanti alle «grotte»108; ancora
per degli abitanti di quelle zone, lo stesso anno scriveva il cardinale
Farnese, richiedendo spiegazione sui sequestri operati nei confronti di
alcuni suoi vassalli che stavano estraendo liberamente da Castel Vi-
scardo. Nell’argomentare la sua richiesta, il porporato adduceva al fat-
to che: «Gli huomini delle Grotte miei Vassalli hano per loro bisogni
comprato di continuo calce canali, et mattoni in Castel Gui<s>cardo,
et hora mi dicono che li sono state ritenute 20. bestie per nuova
p<roi>bitione fatta forse da cotesta Communita senza saputa loro
[…]», ricercando per il futuro la libera possibilità di portare fuori dal
territorio il materiale, ritenendo doveroso che: «voi vi contenterete
sempre, che i miei vassalli sieno trattati come amorevoli della vostra
Città, essendo certo che essi non daranno causa di fare il contrario».
Per tutta risposta, dopo la risoluzione consiliare del 20 settembre
1575, s’informava il Farnese sulla concessione per: «l’estrattione delli
lavori et Calcina à gl’huomini dello Stato di Sua Signoria Illustrissima
et Reverendissima» senza nessun pregiudizio per i conduttori o tribu-
to, ma avvertendo che la: «gabella non è nuova, ma antichissima, et
che se non hanno pagato qualche volta, è successo per la poca diligen-
za di chi ne’ ha cura, et per essere robbe le quali sonno nel Territorio
et fuori della Città che facilmente se possano portare senza saputa del
Conduttore delle gabelle». L’anno successivo, lo stesso cardinale si
lamentava ancora circa le dette imposte, richiedendone l’esenzione per
gli uomini e la comunità di Grotte di Castro109. A questa realtà e alla
scarsa capacità di poter vendere liberamente il materiale prodotto, so-
prattutto dopo la morte di Paolo Pietro della Cervara, doveva essere
ricondotta una fede pubblica del 14 agosto 1575 sottoscritta dai priori
del Castello, Michelagnelo di Batussino e Simone de Pelliccia, con la
quale dichiaravano: «facemo publica, et indubitata fede per esser cosi

munale di Bolsena», V (1989), pp. 81-97; in particolare p. 87; L. Giuliani, Nel mio
piccolo loco..., cit., p. 55.
108
ASO, ASCO, Lettere originali, 715, 4/13
109
Ivi, 4/20 e 4/23.

52
la verita, come li huominj delle Grottj maj per alcun tempo, et da tanto
tempo in qua che non c’ <è> memoria d’huomo in contrario, anno pa-
gato alcuna <sorta> di Gabella per estractione de Canalj Calcina, Mat-
tonj <et> pianelle, da questo nostro Castello n’in esso, et in suo
<ter>ritorio [...] et de più dicemo per esser la verita, et afferma<mo>
che ogni volta che gli hominj delle grottj hanno <ca>vata calcina, mat-
tonj canalj, et ogni altra sorte di robba l’hanno cavata de Giorno pu-
blicamente»110.
L’apposizione data alla fede che
richiamava all’antica consuetudine
(a «memoria d’huomo»), pone un
ennesimo accento sui mancati rife-
rimenti alla produzione castellese
nei secoli precedenti e per la prima
metà del Cinquecento, tanto che
gli unici due trovati a oggi si rife-
riscono alla detta proposta di Paolo
Pietro della Cervara, atta al saldo
dei debiti della comunità
nell’equivalente in materiale, e
all’annotazione di spesa per la pa-
vimentazione della chiesa di Ca-
stel Giorgio. Quest’ultimo, pros-
simo a Castel Viscardo e sotto
l’egida vescovile (era parte della
La fede sulla libera estrazione del mate-
riale prodotto a Castel Viscardo (1575).
mensa dall’epoca della sua quat-
trocentesca fondazione), era evi-
dentemente lontano dalle questioni che per più anni attanagliarono i
rapporti tra il piccolo Castello di Viscardo e la grande città di Orvieto,
tanto che il primo si poteva considerare nei confronti della seconda,
con una splendida descrizione, una sorta di «microsignoria a ridosso».
Con la morte di Giulia Cervara aumentavano proporzionalmente le
incomprensioni, tanto che la famiglia Veralli, subentrata nel possesso
nella persona di Giovanni Battista, acuiva talmente la questione da
arrivare nel 1579 al tentativo orvietano di rimettere in discussione le
prerogative giurisdizionali del Castello (il documento attestante sarà
110
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 2/1, 85.

53
ritrovato solo dieci anni più tardi); lo stesso Veralli, nel 1602 sarà ad-
dirittura arrestato per un piccolo vizio di forma, avendo esercitato la
sua podestà poco oltre il confine di competenza111.
In questo periodo di scarsa tutela dei diritti, con Giovanni Battista che
all’indomani della morte della madre diventava erede del Castello ma
ancora minore di età, Castel Viscardo e i suoi fornaciai si trovarono al
centro di delicate questioni nelle quali la città giocava la carta della
sua autorità. Nel 1576 gli artigiani di Castel Viscardo («fornaciari di
lavor quadro») erano espressamente convocati dalle autorità orvieta-
ne, insieme con altri delle comunità circostanti, tramite un pubblico
bando a firma del gonfaloniere e dei conservatori della pace. Il decre-
to, non specificando il motivo di tale prescrizione, era comunque pe-
rentorio, tanto che inviava a presentarsi personalmente a Orvieto il
giorno seguente la sua stessa affissione, pena una cospicua ammenda
di cinquanta scudi ciascuno, da applicarsi senza remore. Emanato il 5
giugno, il bando era pubblicato il giorno 8, rivolgendosi a diversi arti-
giani: «Bartholuccio
fornaciaro» di Sugano,
«Cosimo del Cicio For-
naciaro» di Porano,
«Theo fiorentino, et
Biascio di Gostanzo
Fornaciari» di Castel
Rubello, mastro Lione,
mastro Domenico, Gio-
vannino e Antognaccio
«Fornaciari» di Castel
Viscardo e Jaco forna-
ciaio di Torre Alfina.
Da quanto espresso, La lista del fornaciai del territorio dell’Alfina,
convocati a Orvieto nel 1576.
emergeva come Castel
Viscardo potesse contare al momento su un maggior numero di forna-
ciai rispetto agli altri castelli, tanto che un paio di essi erano addirittu-
ra definiti “mastro”, termine che potrebbe riferirsi alla doppia arte e-
sercitata, muratore e fornaciaio, ma anche riferirsi, in una visione più

111
M. D’Amelia, Orgoglio baronale e giustizia…, cit., pp. 17, 35, 49, 70-79. Su Ca-
stel Giorgio vedi L. Giuliani, La pievania di Castel Giorgio, cit., pp. 1-34.

54
poetica, alla funzione di conservatore di una antica tradizione, fatta di
gesti quotidiani, strumenti di lavoro e attività di produzione del lateri-
zio artigianale, attraverso cui si era tramandata l’antica arte dei forna-
ciai di Castel Viscardo. Il 7 giugno 1576 lo stesso bando di convoca-
zione era emanato, con le stesse condizioni e non specificandone le
motivazioni, anche a carico dei fornaciai di Ficulle e di Ripa Rossa112.
A tal proposito, proprio nei citati giorni (il 6 giugno), il consiglio or-
vietano aveva stabilito la necessità di far ammattonare «la strada mae-
stra principiando dal Moro sino alla Fontana secca», ordinando, a co-
loro che possedevano in quella zona, di partecipare alle previste spese
in proporzione all’estensione misurata dalla loro casa, orto o edificio.
Per questi lavori, i deputati incaricati erano autorizzati a richiedere il
materiale «alle Communità di Castelli della nostra giurisditione», tan-
to che era ragionevole pensare come questo “invito” fosse rivolto
proprio alla stipulazione di un accordo con gli artigiani, con il mate-
riale che poteva essere prodotto un poco ciascuno o anche interamente
da chi lo avesse realizzato con una minore spesa113.
Nonostante l’incertezza giurisdizionale non mancavano comunque gli
atti perentori da parte di Orvieto; essa era certamente dovuta al pas-
saggio del feudo dai Monaldeschi, un’importante famiglia nella nobil-
tà feudale romana di antichissima origine, tanto che lo storico Filidio
Marabottini, esaltando la figura di Paol Pietro, lo definiva: «Fù questi
huomo che aggiunse al sovrano pregio militare lo splendore de’ suoi
Natali in modo, che mentr’egli viveva poteva vantare più di quattro-
cent’anni ne’ suoi Ascendenti di feudi posseduti»114, a quella dei Ve-
ralli, originari di Cori, riuscita a consolidare la sua posizione a Roma
grazie a una fitta rete di alleanze familiari e carriere ecclesiastiche115.
Sulle questioni ereditarie e sulle controversie con Orvieto, nel 1576
interveniva a perorare la causa dei due giovani Veralli anche il vesco-
vo di Sora, monsignor Tommaso Gigli, adducendo la mancata restitu-
zione ai due «pupilli» di quanto la loro madre aveva indebitamente
pagato negli anni passati, prima della suddivisione del patrimonio at-
112
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 143/17, 78 e 79.
113
Ivi, 74
114
L Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., p. 32. Si veda, in merito, il documento in
ASRM, ASV, 379/2, ossia: «Memoria relativa ad alcuni esponenti della famiglia Mo-
naldeschi della Cervara» (datato al 1285, ma copia più tarda).
115
M. D’Amelia, Orgoglio baronale e giustizia…, cit., pp. 21-26.

55
traverso la nuova redazione del catasto, tanto da paventare il ricorso
alla giustizia in caso di mancata restituzione116. Tali diatribe si riper-
cuotevano poi anche sulla gestione corrente, come nel caso del seque-
stro di alcuni muli ai danni del castellese messer Pompeo «dj Bastija-
no», del quale si dava informazione con una lettera datata probabil-
mente al 1579 «Dal Castello di Madonna Antonia»117, o, l’anno dopo,
quando il podestà Antonio Francesco Simonio giustificava il compor-
tamento di quelli che definiva: «Illustrj <...> Padroni, et signori» (i
Veralli) che non avevano ancora saldato le imposizioni camerali e che,
al momento in Roma, sarebbero comunque stati avvisati prontamente
delle richieste pervenute al «Castello»118.
La situazione nel territorio di Orvieto, riguardo agli scambi commer-
ciali o anche al mero transito di materiale, restava comunque tutt’altro
che pacifica se nel 1579 anche il cardinale Guastavillani era necessita-
to a richiedere delle lettere di accompagnamento per il passaggio di
alcuni sui mulattieri; allo stesso modo, per poter estrarre da Benano
della calcina, da utilizzare per la costruzione di un loro palazzo e il ri-
adattamento di alcune chiese («quale minacciano riuna»), nel 1580 i
priori di Grotte di Castro erano obbligati ancora all’utilizzo della sup-
plica, tramite la quale ricevevano parere positivo con delibera consi-
liare («gl’intenda concesso tutto quello che detta Communita’ diman-
da»), ma con la condizione che «si anoti à tergo la quantità che si ca-
verà et il giorno»119.
A proposito della calcina, dei lavori di fornace e anche del legname e
della loro estrazione, nel 1585 erano stabiliti dei ferrei capitoli atti a
rinnovare le precedenti disposizioni in uso. Nell’occasione, il governa-
tore e gonfaloniere Ludovico Lambertino, parimenti ai Conservatori
della Pace, intendevano porre delle limitazioni ad alcuni abusi in esse-
re, provvedendo «per benefitio universa<le>» allo loro stretta osserva-
zione da parte degli impiegati in tali attività. La gestione di queste ma-
terie prime era un elemento determinante che andava a incidere sul

116
ASO, ASCO, Lettere originali, 715, 4/29.
117
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 105/13, 122.
118
Ivi, 102/13, 28. Una lettera analoga, sempre a firma del podestà, si ritrova anche
nel 1585, circa la recezione di una comunicazione che sarebbe stata prontamente gira-
ta a Giovanni Battista Veralli, il quale: «al presente se ritrova in Roma per l’Ordinario
di Orvieto» (si veda, nella stessa serie, 78/11, 135).
119
Ivi, 148/18, 45 e Lettere originali, 715, 5/6.

56
costo dei mattoni; in molte realtà, già dal Duecento, ma anche nei se-
coli successivi, varie autorità comunali avevano posto delle regola-
mentazioni, soprattutto per quanto riguarda gli standard di misura, at-
traverso prescrizioni statuarie, avvisi pubblici (come il «Bando de
Fornaciari» emanato il 22 settembre 1610 in quel di Roma120) o
l’esposizione dei cosiddetti “modani” (modelli scolpiti con indicazio-
ne delle varie forme e relative grandezze)121. Queste disposizioni o ac-
corgimenti erano presi per regolamentare la fabbricazione dei laterizi
e la loro conseguente commercializzazione. In particolare, quello delle
dimensioni era uno degli abusi maggiori, derivato dalla vendita per
unità di migliaia: visto il numero fisso, alcuni fornaciai riducevano gli
stampi, in modo da costringere i clienti ad acquistare un maggior nu-
mero di pezzi122.
Per questo, con la disposizione del 1585, poi ripresa in toto e rinnova-
ta anche nel 1607, le autorità della città di Orvieto ribadivano nuova-
mente l’ordine circa la cottura della calce, dei mattoni, delle tegole e
per il taglio del legname, riconfermando apertamente quanto stabilito
dalle norme statuarie della Città, dalle “riformanze” o da altri avvisi
precedenti. Per la calcina si faceva richiamo alla misura con lo staro
corrente (che poteva essere legittimamente richiesta dal compratore),
alla giusta cottura, al suo buon condizionamento e alle autorizzazioni
necessarie per le vetture, da sanzionarsi con pene pecuniarie, seque-
stro del materiale o degli animali da trasporto. Per il legname se ne
proibiva il taglio e la raccolta dal territorio cittadino di qualsiasi quan-
tità, lavorato o no; inoltre, per il carbone se ne vietava l’estrazione
senza la dovuta licenza, sotto pena di dieci scudi e la perdita degli a-
nimali. Per i laterizi, loro fattura e trasporto, si stabiliva invece: «Item
che nessun fornaciaro di lavor quadro ardischi in qualsivogli modo di
fare, ne spianare mattoni, canali, tegole, mezzane, pianelle, quatrucci
ne altra sorte di lavoro di fornace che non siano di longhezza, larghez-
za, grossezza, et mesura giusta conforme allo statuto di questa Magni-
fica Città, cioè secondo la mesura del ferro che stà nella piazza del
mercato al Palazzo del Signor Podestà nella Colonna della pesa facen-

120
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco, cit., pp. 62-63.
121
R. Covino, M. Giansanti, Fornaci in Umbria, cit., p. 13; G. Busti e F. Cocchi, Ter-
recotte e laterizi, (a cura di G.C. Bojani), Perugia 1996, p. 20.
122
L. Rainaldi, Quando il fuoco camminava…, cit., pp. 28-29.

57
doli ben cotti, et conditionati sotto pena d’un giulio per ciascun pezzo
di lavoro, et la perdita di esso d’applicarsi come di sopra, et se fosse
alcuno etiam foristiero che ardisse ó, tentasse di cavare di questo Ter-
ritorio alcuna sorte ó, quantità di detto lavoro di fornace s’intenda in-
corso nella medema pena, oltre la perdita delle bestie se sarà trovato in
fatto d’applicarsi c<o>me di sopra, et sia licito á, ciascuno che trovas-
si simili contrabandi di potere ritenere, et arrestare et guadagni la rata
sua secondo si è, detto di sopra». Per reprimere ogni abuso, era utiliz-
zato, oltre alle severe ammende, lo strumento della collaborazione dei
cittadini: qualsiasi persona (se ritenuto «testimonio degno di fede»)
che avesse segnalato un illecito sarebbe stata gratificata per il servizio
reso alla città, mantenendo comunque l’anonimato; il materiale ricava-
to da tali sequestri sarebbe stato impiegato: «alla restaurazione delle
muragle della Città, et di Pontegiulio»123. In ottemperanza a questa di-
sposizione deve essere intesa la comunicazione, a firma di Francesco
Corbanti da Sermugnano, con la quale informava le autorità orvietane
su un avvenuto prelievo di calcina non autorizzato da Corbara verso
Bagnoregio; il mittente informava sui presunti colpevoli, ai quali il ba-
livo di Sermugnano aveva sequestrato il carico, additandoli del reato
di fronte alla giustizia e chiedendo lumi sul da farsi, ricevendo, nel
contempo, una gratificazione per i suoi servigi, come da disposizione
data dal consiglio ad Ascanio Cartari, depositario delle entrate pubbli-
che e dei denari straordinari. Probabilmente a questa occasione, dove-
vano essere ricondotte le indicazioni richieste da Guglielmo da Vaiano
circa un sequestro operato ai danni del vescovo di Bagnoregio, al qua-
le i gabellieri, non curanti delle autorizzazioni rilasciate dal consiglio
di Orvieto e «sotto pretesto di frodo», avevano ritenuto degli animali e
il loro carico di calcina destinato a una chiesa non precisata124.

123
ASO, ASCO, Miscellanea Atti giudiziari, 144/17, 95. Nel documento del 1607
(stessa serie 3/1, 3), già pubblicato in L. Giuliani, Le fornaci di Castel Viscardo tra la
metà del XVI secolo e l’inizio del XVIII, cit., pp. 184-202; in particolare pp. 197-198,
si aggiungevano delle disposizioni circa il carbone.
124
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 106/14, 2; 173/21, 1/34. Nel 1613 si ri-
badivano le dette proibizioni concentrandole sul divieto di estrazione di grano, biada,
olio, castrati e altri animali da macello dai luoghi della giurisdizione di Orvieto, con
pena di cento scudi, la perdita del materiale trovato e delle bestie utilizzate per la vet-
tura (si veda nelle Lettere originali, 746, 3/23).

58
In tale periodo, erano inasprite le limitazioni inerenti diversi generi,
tanto che si prescriveva l’impossibilità di estrarre dal territorio senza
averne dato cenno all’appaltatore della gabella che doveva autorizzare
il commercio, pena la combinazione d’importanti sanzioni pecuniarie;
allo stesso modo, anche ciò che era importato (soprattutto il vino) do-
veva essere assoggettato al pagamento di un tributo. Riguardo alle
fornaci si stabiliva che ciascun artigiano dovesse: «assegnare al Ap-
paltatore di detta Gabella o a suoi deputati e ministri ogni volta che
haverà cotto ciascheduna fornace di detti lavori o pozzi di calce termi-
ne di tre giorni dopo che haverà cotto, e che non possa in modo alcuno
levare da detta fornace o pozzo di calce alcuna quantita di lavoro o di
calce senza espressa licenza di detto appaltatore o suoi ministri, e con-
trafacendo caschi in pena di scudi dieci per ciascheduno», con la di-
chiarata proibizione all’estrazione, personale o con terzi, e alla vendi-
ta, tanto che il materiale non poteva essere trasportato senza espressa
licenza, pena il pagamento di dieci baiocchi per ogni cento laterizi o
ogni due some di calce (ossia una vettura). Tali imposte erano combi-
nate se il materiale fosse stato trasportato fuori dal territorio di Orvie-
to, al contrario, al suo interno, erano rilasciate delle licenze gratuite,
assicurando però, pena una ammenda di otto scudi, che tale materiale
non sarebbe stato inviato oltre confine in un secondo momento. Alle
disposizioni erano sottoposti tutti gli abitanti «di qualsivoglia stato
grado, e condizione [...] ecclesiastici, mendicanti, privilegiati di qual-
sivoglia sorte etiam per il privilegio de 12 figlioli, regolari, monaci, e
tutte quelle persone che pagano, e sono sottoposte alla Gabella della
macina», tanto che il gabelliere era tutelato nella difesa del suo appal-
to dalla magistratura cittadina e autorizzato (lui o i suoi ministri) a es-
sere armato125.
A queste direttive dovettero seguire da subito diverse istanze atte a ri-
spettare quanto disposto, come quella di Pompeo di Sante di San Ve-
nanzo che richiedeva «licenza di poter vendere la calcina della sua
fornace», liberamente a chi ne avesse fatto richiesta, anche perché vi-

125
Queste disposizioni sono tratte da una minuta di un bando (non datata, ma coeva)
tramite la quale si andava ad interessare anche il legname, la calce, i semi di canapa,
le botti, le tine, i bigonzi, i barili, i barilozzi, le tavole, le limette, i travicelli, i «qua-
trelli», le travi, lavorate o meno, il carbone, il vino, il mosto e l’aceto (si veda nella
Miscellanea atti giudiziari, 41/7, 18).

59
sta la distanza da Orvieto («lontano XV. ò, XVI. miglia il loco dove se
fa dicta calcina») non sarebbe stata utilizzabile dalla città, o quella di
Livio Fideli di Rotecastello, il quale, ancora nel 1585, e adducendo
alle stesse motivazioni (soprattutto la distanza), richiedeva la possibi-
lità di operare una libera vendita (fuori e dentro il territorio orvietano)
di quanto prodotto nella sua fornace di San Venanzo: «altrimenti por-
rebbe succedere non solo havere perso, le fatighe, et spese, già fatte,
ma anco la detta quantita di calcina»126. Di qualche anno più tardi
(1590), erano le due suppliche inoltrate dal guardiano della Trinità di
Orvieto, il quale, costretto da deliberazione del consiglio alla ripara-
zione della strada che portava al convento, vista l’imposizione della
«Tassa alli vicini», richiedeva un sussidio per mettere in atto l’opera;
allo stesso tempo, ricercava la concessione di alcune pietre che al
momento si trovavano nei pressi della vicina chiesa di San Lorenzo
(come era stato accordato alle suore di San Lodovico), da utilizzarsi
per farne della calcina usufruendo della loro legna che sembrava pos-
sedessero in abbondanza, giudicando conveniente una realizzazione in
proprio piuttosto che un acquisto del detto materiale127.
Le nuove disposizioni del consiglio in materia di estrazione erano ge-
neralmente mal recepite da coloro che ne erano incaricati sui confini,
tanto che lo stesso anno della loro emanazione anche nei luoghi non
soggetti direttamente a tali restrizioni (vedi Castel Viscardo e il “misto
imperio” di cui godeva quel feudo), si verificavano delle prevaricazio-
ni oltre il dovuto. Sul finire del 1585 accadeva, a tal proposito, un fat-
to emblematico, ossia il sequestro operato ai danni di due abitanti di
Grotte di Castro e uno di San Lorenzo, i quali tornando da Castel Vi-
scardo, dove avevano acquistato della calcina, era stati fermati
sull’altopiano dell’Alfina dal podestà di Benano. Questi, oltre il lecito
126
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 73/11, 198 e 236. Riguardo la presenza
di una fornace a San Venanzo si hanno testimonianze sino almeno al 1815, quando
Giovanni Biggi esponeva al vicario generale della diocesi l’abuso perpetrato da Ange-
lo Faina, il quale si era fatto lecito di far: «scoprire la Fornace e la Cappanna di detta
Fornace, ed ha fatto portar’via non solamente il lavoro, ma anche le travi da
Pietr’Antonio Mariotto, e Francesco Constanzi detto Ceva», aggiungendo, inoltre: «Se
Vostra Signoria Illustrissima vuol’difendere i suoi diritti farebbe bene esporre querela
e procedere criminalmente, e non civilmente […]» (si veda AVO, Carteggio del vica-
rio generale, San Venanzo, 1815 set. 27, Esposto di Giovanni Biggi contro Angelo
Faina che «ha fatto scoprire la Fornace e la Cappanna di detta Fornace»).
127
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 106/14, 30, 37.

60
della sua giurisdizione, aveva sequestrato ben cinque animali da carico
(portati poi nella città), adducendo ciò alla mancanza di regolarità
nell’estrazione. Conoscendo le prerogative del Veralli sul suo feudo,
la comunità e i priori di Grotte di Castro lo esortavano a intervenire
direttamente contro le intemperanze orvietane, richiamando alla sua
podestà: «intendiamo, che ella ha, et gode tal facultà, et privilegij, che
può far estrarre dal detto suo Castello tale cose senza impedimento al-
cuno». A questa circostanza dovrebbe risalire la supplica inoltrata da
Angelo di Ursino, Antonio di Belardino e Angelo di Piergiovanni di
Grotte di Castro, vassalli della Casa Farnese, che nel 1586 richiedeva-
no lumi sul risarcimento, a loro modo di vedere dovuto, per il prezzo
di alcuni animali che gli erano stati sequestrati. Sulla diatriba, l’anno
seguente, interveniva direttamente Vittoria Farnese, la quale da Gra-
doli richiedeva lumi su una presunta grazia, a nome dei buoni rapporti
da tenersi per conto suo e del fratello cardinale («son per riconoscerlo
in luogo di gratissimo piacere cosi mi offero a rendergliene la pari-
glia»), combinata ai loro vassalli accusati e condannati per contrab-
bando128.
Come prescritto il nuovo disposto del 1585 andava a limitare anche
alcuni privilegi goduti sino al momento da alcuni signori e dalle auto-
rità ecclesiastiche, tanto che, in seguito alle modifiche apportate, alcu-
ne personalità, incuranti delle novità, andarono incontro a sanzioni e
sequestri. Era il caso del cavaliere Bernardino Alberici, il quale, nono-
stante il suo titolo a cui intendeva fortemente rifarsi, aveva subito la
requisizione di un asino che trasportava della calcina da Castel Vi-
scardo e che voleva destinare ai lavori nelle sue proprietà in località
«Pecorone», non lontano da Castel Giorgio; allo stesso modo, i padri
del convento di Sant’Agostino di Bagnoregio (nel 1586) dovettero ri-
correre addirittura a una dupliche richiesta di licenza, da prima per la
calcina e, quindi, per dei lavori di fornace da utilizzare per ammatto-

128
ASRM, ASV, 284, cc. s.n. Si veda anche L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit.,
pp. 57-58. Per la richiesta di risarcimento vedi ASO, ASCO, Miscellanea atti giudi-
ziari, 73/11, 15. Su questa richiesta era già stato deliberato l’8 febbraio 1586, dopo un
sollecito del cardinal Farnese, con la disposizione di individuare coloro che avevano
avuto parte in causa sul ritratto degli animali e della calcina degli uomini di Grotte di
Castro, affinché restituissero i denari ricavati da quella che ritenevano una ingiusta
requisizione (si veda in merito, ASO, ASCO, Bastardello, 594, cc. 31v-32r). La lette-
ra della Farnese si trova nella Miscellanea atti giudiziari, 78/11, 191.

61
nare il chiostro della loro comunità religiosa, ribadendo come il mate-
riale dovesse servire: «a servitio della Chiesa». Lo stesso anno anche
la comunità di San Lorenzo avvertiva le prime conseguenze della
nuova normativa, tanto che richiedeva e otteneva la possibilità di una
libera circolazione senza aggravio di gabella dal territorio di Castel
Viscardo, Monterubiaglio, Castel Giorgio, Viceno e Benano. Richia-
mando agli accordi in vigore, dopo alcuni sequestri operati ai loro vet-
turali («sotto pretesto che fussino da San Lorenzo»), ricordavano co-
me fosse loro lecita l’estrazione dal territorio orvietano di «Calcina,
Canali et altre cose di fornace per servitio delle sue Chiesie et
all’incontro detta Communità di San Lorenzo faceva essente li Citta-
dini e mercanti di detta Magnifica Città da ogni sorte di Gabbella»
(come prescriveva il loro statuto del 1581) e, sebbene non fosse con-
sentita ai privati la libera estrazione, Orvieto l’aveva sempre garantita
per la sua benignità, anche se negli ultimi tempi si erano operate delle
limitazioni, giacché questa comunità era stata ritenuta alquanto reni-
tente; sulla questione il 26 febbraio 1586 il consiglio stabiliva di ac-
cordare quanto promesso, ripristinando alcune libertà129.
Il 1586 era anche l’anno nel quale si riaccendeva prepotente la disputa
sulla giurisdizione di Castel Viscardo, con le autorità del piccolo bor-
go che ponevano un blocco al commercio della loro produzione (calce
o «coctilium») verso Orvieto, con le diatribe che arrivavano sino al
tribunale della Sacra Consulta. Il 2 febbraio il consiglio di Orvieto
metteva all’ordine del giorno (deliberando negativamente il 5 seguen-
te) alcune liti in corso; tra queste era presente: «quella ancora del Ca-
stel Viscardo sopra la giurisditione et del memoriale dato d’ordine del
Signori Giovanni Battista Verallo alla Sagra Consulta sopra la calce,
et lavori di fornace che pretende far cavare fuori del Territorio
d’Orvieto senza altra licenza, et sopra la prohibitione che se dice esse-
re fatta a gl’huomini di detto Castello che non portino cosa alcuna alla
Città». Sul memoriale, presentato dal Veralli alla Consulta e inteso a
garantire la giurisdizione di Castel Viscardo, il 6 febbraio da Orvieto
si disponeva di incaricare il magistrato affinché reperisse in archivio
tutto ciò che potesse dimostrare come il piccolo castello facesse parte
a pieno titolo del «territorio di questa Città, et che la giurisditione sia

129
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 73/11, 17, 129, 294 e Bastardelli, 594, c.
42r. L’estratto dallo statuto di San Lorenzo è stato ritrovato in ASRM, ASV, 354/60.

62
dei Signori Governatori che per i tempi [sonno depennato] sonno stati,
et sonno qui», atti che dovevano poi essere esibiti al sacro Tribunale.
Lo stesso, con l’intervento del consultore, doveva fare redigere a sua
volta un memoriale, da inoltrarsi all’agente in Roma Federico Albani,
circa: «la prohibitione che se dice fatta dal podesta del Castelviscardo
circa il venire le robbe ad Orvieto». Pochi giorni dopo (11 febbraio), si
manifestava ancora, dopo alcune notizie portate in merito da Geroni-
mo Magoni, «utroque jure dottore», e dall’Albani, contro quella che
era considerata la «molestia del Signor Giovanni battista Verallo», fa-
cendo pressioni affinché si dovesse: «mostrare una voce viva a Nostro
Signore per narrare quanto intorno à questo particolare gli sarà dato»
e, allo stesso tempo, si ordinava la compilazione di una lettera al car-
dinale sotto il titolo di San Marcello (ritenuto all’epoca da Giovanni
Battista Castagna, parente dei Veralli per via materna e loro protetto-
re) affinché intercedesse per porre fine alla questione. Nel frattempo,
alla lite insorta con Castel Viscardo, si affiancava anche quella ineren-
te l’estrazione della calce da Corbara verso Bolsena, rispetto al quale
si manifestava la volontà di favorire le richieste di quella città, anche
per assecondare il cardinale Girolamo Rusticucci.
La situazione era lungi dal trovare una soluzione, mancando alle parti
la relativa documentazione per dimostrare i diritti che entrambi crede-
vano di possedere; ancora il 26 febbraio, dopo alcune notizie non posi-
tive arrivate da Roma, il consiglio di Orvieto sollecitava il cancelliere
affinché: «facci ogni suo potere, et usi ogni diligenza di cercare et tro-
vare nell’Archivio le scritture che facciano à proposito alla causa di
Castel Viscardo, poi che s’intende che per buona diligenza si trova-
ranno molte cose che fanno à proposito, et il medemo facci nella Can-
celleria del criminale con buon gratia però del molto Illustre Signor
Governatore et tutto quello che si troverà si metta in buona forma, et
se dij al Signor Ambasciatore»130. Orvieto estendeva materialmente la
sua giurisdizione anche in luoghi nei quali la facoltà baronale poneva
delle limitazioni per disposizione pontificia, sottostando, di converso,
al potere centrale romano dal quale, quando la situazione volgeva al
peggio (vedi la penuria di olio e grano che si registrava in quel dato
anno), era obbligata a rifornire (parimenti alla Provincia del Patrimo-

130
ASO, ASCO, Bastardelli, 594, c. sciolta rilegata tra le cc. 24v e 25r, cc. 25r, 28rv,
33v-34r, 39v, 40v. Sulla questione di Bolsena si vedano le cc. 39v, 41r.

63
nio Teverina e Montefiascone) la Camera dell’abbondanza di Roma
senza nessuna limitazione di monopolio o riguardante il trasporto, an-
che perché: «ogni legge vuole che il padrone sia obligato provedere al
suo Vassallo nelle sue necessità, et bisogni di grani»131.
Sta di fatto che la questione con Castel Viscardo sembrava protrarsi
per diversi anni, se è vero che la documentazione attestante la libera
giurisdizione era ritrovata dopo molte ricerche solo nell’anno 1589,
come testimoniato da una lettera del nuovo procuratore del Castello
che rassicurava il Veralli sul rinvenimento di un breve in suo favore
affermante il suo «mero et misto imperio», tanto che, se Orvieto aves-
se persistito dove: «pensava di guadagniare perderà in grosso»132.
Sempre nel 1589, interveniva anche il cardinal Castagna, chiamato in
causa come tutore dei Veralli già dal 1586, il quale esortava il parente
sul comportamento da ritenere riguardo la provvigione della legna ne-
cessaria alle cotture dei laterizi o della calcina, avvertendolo su una
migliore gestione giurisdizionale del “misto imperio” di cui godeva il
suo feudo, come attestato dalle carte, non andando nel contempo a le-
dere i diritti della vicina Orvieto che si manifestava sempre pronta ad
approfittare di ogni piccola imprecisione133.
Le questioni giurisdizionali si riflettevano anche sulla vita quotidiana,
tanto che, nonostante le manifestate affermazioni che riportavano al
ritrovamento della documentazione che attestava il regime particolare
goduto da Castel Viscardo, nel 1590 sorgevano ancora dei dubbi su
quale fosse realmente la normativa da applicarsi. Tale incertezza era
bene espressa in una supplica inviata dal notaio Sebastiano Pasquino
sulla lite incorsa tra una certa donna Fiore, figlia di Nisce, e gli eredi
di mastro Domenico «fornaciaro» circa il lascito di una comune nipo-
te; in questa istanza esprimeva come non fosse chiara la legge da ap-

131
Ivi, cc. 54r, 58v-59r.
132
M. D’Amelia, Orgoglio baronale e giustizia…, cit., p. 49. Tale lettera è stata rin-
venuta dalla professoressa in ASRM, ASV, 284, c. s.n. A testimoniare la mancata
possibilità di giurisdizione, giova ricordare alcuni disposti emanati dalle autorità or-
vietane nel 1590, decreti che erano imposti a molti signori o comunità, ma nei quali
non si trovano riferimenti a Castel Viscardo, come l’ordine di prestare attenzione alle
porte dei castelli o quello di dare la consistenza delle biade e grano (si veda nella Mi-
scellanea atti giudiziari, 150/18, 171 e 188.)
133
M. D’Amelia, Orgoglio baronale e giustizia…, cit., p. 60. Si veda anche L. Giulia-
ni, Nel mio piccolo loco…, cit., p. 57. La lettera si trova in ASRM, ASV, 466, c. 20r.

64
plicarsi richiedendo delucidazioni in merito. Il problema era ancora il
riconoscimento della giurisdizione, non molto chiara anche a chi ne
doveva conoscere tutti gli estremi, tanto che il notaio si trovava tra
una parte (quella di Fiore) che sottolineava come Castel Viscardo non
dovesse essere sottoposto agli statuti della città: «ma se deve attendere
alla disposizione de la ragion Comune dicendo il Castel Viscardo ha-
ver giurisdizione separata», e l’altra (quella degli eredi del fornaciaio)
che, al contrario, essendo in territorio di Orvieto, spingeva per appli-
carne le disposizioni. Per dirimere la questione richiedeva un parere
circa: «quelle scritture che in tal causa, saranno necessarie, accio che
la giustitia habbia il suo luogo». Il tutto sembrava rifarsi alla certezza
manifestata da parte del consiglio cittadino rispetto alle diatribe giuri-
sdizionali che esistevano all’epoca con i domicelli dei diversi castelli,
alcuni dei quali ricorrevano sovente al giudizio della Camera Aposto-
lica, nonostante da Orvieto si ritenesse ancora una predominanza so-
pra le parti: «Poi che si presuppone per parte nostra esser cosa pur
troppo notoria, et Chiara che questi Castelli che adesso pretendono la
Jurisdizione habbino sempre da immemorabil tempo in qua ricono-
sciuto per superiore et sopraintendente il Molto Illustre et Reverendis-
simo Monsignor Governatore di questa Citta’ pro tempore», tanto che
si intimava: «non si faccia cosa alcuna, se non citato il procuratore
della Communità di Orvieto»134.
La situazione d’incertezza perdurava, quindi, nonostante per il Castel-
lo di Viscardo fosse stata ritrovata la documentazione attestante le li-
bertà, tanto che, secondo la posizione in causa e vista l’indecisione di
chi doveva far amministrare la giustizia, qualsiasi soggetto sembrava
avere il diritto di arrogarsi all’osservanza di una o dell’altra legge.
Senza dubbio la decisione di concedere uno statuto alla comunità nel
1579, proprio nell’anno nel quale ritornava la disputa sulla giurisdi-
zione e visto anche il regime tutoriale di gestione dovuto alla minore
età del Veralli (aveva sedici anni), avrebbe dovuto sancire la capacità
del piccolo Castello di muoversi autonomamente all’interno del terri-

134
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 106/14, 74. Nel verso sembra che la que-
stione sia stata esaminata in consiglio il 21 gennaio 1590 anche se non se ne ritrovata
traccia nel coevo registro, mentre nel corrispettivo «bastardello», nella detta data era
citata la presa visione della supplica che si dichiarava nulla (si veda nelle Riformanze,
274, e Bastardelli, 598, cc. 17r-18v, 25r).

65
torio. Inoltre, tale elargizione (non si sa se nuova emanazione o com-
pilazione ex novo) era intesa ad attirare le simpatie dei vassalli nella
disputa, lasciandogli delle libertà, come quella di commercializzare
liberamente il prodotto del loro lavoro. Sul finire del XVI secolo, la
situazione era ancora lungi dal trovare una soluzione, nonostante la
«dignita del Confalanierato» concessa da Orvieto nel 1598 a Giovanni
Battista. Orvieto attraverso il suo consiglio intese sempre mantenere
ferma la propria autorità sui signorotti del contado, tanto che nel 1609
alcuni di loro firmarono congiuntamente un memoriale con il quale
esprimevano chiaramente la loro contrarietà all’inasprimento del re-
gime fiscale della città135. Per tutta risposta l’anno seguente era impo-
sta la tassa per l’estinzione dei debiti nei confronti dei domicelli, re-
datto l’insieme dei conti dei vari castelli o loro signori ed emanata una
nota dei debiti dei nobili e vari luoghi del territorio; in tale elenco era
enumerato anche Giovanni Battista Veralli (tra i firmatari del memo-
riale) che doveva a Orvieto la somma di 14 scudi e 40,4 baiocchi (de-
bito saldato nel 1611), comunque minore di quanto doveva la comuni-
tà di Castel Viscardo (16 scudi e 66 baiocchi). Questo importo deriva-
va, come per le altre, dai mancati pagamenti di tasse come quella del
«quattrino per la foglietta del vino» imposta ai vari castelli, «eccetto
Monteleone, e Ficulle per haver la lor rata delle Terre delle Chiani», e
contro il cui inasprimento nel 1610 alcuni domicelli e comunità del
contado avevano fatto ricorso a Roma o ancora per il cero dovuto an-
nualmente per la festa dell’Assunta. Infine, nell’elenco dei fuochi e
castelli del territorio orvietano del 1610 (come anche nel 1615), non
era inserito Castel Viscardo, ma i vicini Monterubiaglio (con i suoi 65
fuochi, del quale si diceva essere povero e senza osteria) e Viceno
(che ne contava solamente 20, tanto era solito pagare per numero alla
città, poiché i vassalli non godevano di alcuna cosa in proprio e il do-
vuto era calcolato sulla base delle entrate del Simoncelli, signore del
luogo)136.

135
M. D’Amelia, Orgoglio baronale e giustizia…, cit., pp. 31 (nota n. 46), 35, 45, 53,
59. La notizia della concessione del 1598 a Giovanni Battista Veralli si ricava da una
lettera dello stesso rinvenuta nella Miscellanea atti giudiziari, 90/12, 122.
136
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 41/7, 256, 258, 319; 82/11, 27, 98, 128,
145, 173, 217, 290-291, 349, 394.

66
5. Nuovi commerci verso Orvieto
A partire dal 1592 si avevano anche le prime notizie certe di un com-
mercio, evidentemente ripreso dopo lo sblocco sancito dal podestà, tra
Castel Viscardo e Orvieto. In questo anno, un certo Antonio Vittorio
scriveva a Giovanni Battista Veralli per poter trattare con gli artigiani
del suo feudo sopra una buona quantità di mattoni, da adoperarsi per
la pavimentazione di una strada137. Lo stesso anno, mastro Simone
«dal Castello fornaciaro» rilasciava quietanza per un pagamento di
sette scudi ottenuto dalle autorità cittadine. Nella ricevuta (datata 1°
luglio) si annotavano anche i pagamenti fatti a un certo mastro Flami-
nio, anch’egli fornaciaio, ma di Castel Rubello, saldato per ventotto
scudi in corrispondenza di quattromila mattoni, anche se la commessa
doveva essere ben più cospicua, considerato che si segnalava come
mancassero alla consegna ancora sedicimila pezzi138.
In questo stesso anno, si avevano anche diverse testimonianze inerenti
il commercio, non solo castellese, sia verso Orvieto, intenta a ristruttu-
rare alcune grandi opere, sia verso Roma, Bolsena o Capodimonte.
Nel mese di marzo Angelo Vittorio da Roma indirizzava una richiesta
per avere licenza di poter prendere della calce nel territorio, da utiliz-
zarsi in una sua fabbrica che stava portando a compimento, probabil-
mente a nome del cardinale camerlengo; visto gli alti auspici, gli era
accordata una concessione di duecento vetture per le quali, dopo pochi
giorni e dietro la ricezione della notizia, si affrettava a ringraziare.
Nello stesso periodo anche i priori di Bolsena facevano la stessa ri-
chiesta per cento some di calcina, da utilizzarsi a favore delle compa-
gnie del Corpo di Cristo e della Misericordia, oltre che: «per risarci-
mento delle nostre muraglie». Da questo luogo proveniva anche la co-
eva richiesta a nome dei priori della Madonna del Giglio dell’ordine
degli Zoccolanti, ai quali serviva della calce per il loro convento, da
potersi acquistare nel territorio di Orvieto. Molto interessanti erano le
richieste da Capodimonte dell’agosto e settembre 1592, dettate dalla
necessità di materiale per la costruzione di una chiesa sull’isola Bisen-
tina del lago di Bolsena, voluta dal cardinal Alessandro Farnese (mor-
to solo tre anni prima). Per terminare l’opera, si intendevano acquisire
«mattoni et altri lavori di fornace» da mastro Marcontonio di Sugano,

137
ASRM, ASV, 284, c. s.n.
138
ASO, ASCO, Miscellanea Atti giudiziari, 97/13, 116.

67
il quale, nonostante avesse dovuto consegnare quanto ordinatogli già
da qualche tempo, si ricusava al conferimento adducendo alla proibi-
zione avuta dalle autorità cittadine. Pochi giorni dopo la richiesta era
reiterata, ponendo l’accento sulle volontà del cardinale, la cui iniziati-
va non era stata ancora portata a termine per questioni burocratiche,
conseguenti alle disposizioni orvietane di controllare ogni quantità di
materiale prodotto che dovesse uscire dai suoi limiti territoriali, ordini
seguiti alla lettera, a quanto pare, dal fornaciaio di Sugano139.
I mattoni di Castel Viscardo erano ricercati a Orvieto nel febbraio
1595, per una strada da realizzarsi con il lavoro prodotto da tal «Pa-
scutio Herculani de Spina», in quel momento abitante a Castel Viscar-
do, che per tale incarico aveva ottenuto la commissione di duemila la-
terizi (da realizzarsi e cuocersi bene) da trasportare a Orvieto a sue
spese, per il prezzo di dodici scudi di quattrini a ragione di scudi sei
per ogni migliaio140. Nel maggio successivo, l’artigiano non aveva an-
cora dato termine alla commessa; per questo, Gasparre Butio, incari-
cato dai Conservatori della Pace, scriveva al Veralli lamentandosi del-
la mancata esecuzione dell’accordo da parte del suo vassallo141.
Da quanto risulta dalla documentazione, i lavori alla strada detta
«Camollia» (o «Camorlia») andarono avanti per diversi anni; si tratta-
va, con la commessa data a fornaciaio castellese, solo di uno dei primi
interventi atti alla restaurazione della zona centrale della città, densa-
mente abitata e dove si trovavano diverse botteghe, tra le quali un ma-
cello, un’osteria e un filatoio142. Per questa strada, nei pressi della
chiesa di Sant’Andrea, come indicato nella «Misura della strada di

139
Ivi, 4/1, 65; 159/19, 95/86, 95/87, 95/88, 95/129, 95/130. Sulle richieste di Angelo
Vittorio si veda anche il documento 95/135. Di una fornace a Sugano in «contrada
Tione» abbiamo testimonianze che riportano sino al XIX secolo, quando apparteneva
ancora ai beni della mensa vescovile di Orvieto, alla quale era stata devoluta dopo es-
sere stata goduta per diversi anni dal fornaciaio Paolo Fiamma, tanto che nel 1832 se
ne ricercava un nuovo gestore (si veda AVO, AMVO, Parte Antica, Atti della Mensa
Vescovile (seconda parte), 42, cc. s.n.).
140
ASO, ASCO, Bastardelli, 603, c. 38r, e ASRM, ASV, 284, c. s.n. Ringrazio Chia-
ra Tiracorrendo per avermi gentilmente indicato la delibera.
141
ASRM, ASV, 284, c. s.n.
142
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 174/21, 1/59, 1/95, 1/121, 1/139, 1/143.
Informazioni tratte dalle “assegne” degli abitanti della zona per l’anno 1569 e dalle
misurazioni dei lavori realizzati tra il 1610 e il 1611 (vedi nella stessa serie Miscella-
nea atti giudiziari, 82/11, 274).

68
Camorlia» del 1598-99 («Parte verso Sant’Andrea»), si era prevista al
centro una «riga di pietra» che si estendeva per tutta la lunghezza «si-
no à piedi alla piazza maggiore» e, ai lati, una completa ammattonatu-
ra, della quale dovevano fare parte anche le scale degli edifici che vi si
affacciavano, per un totale di 7.025 mattoni, dei quali 2.979 dalla par-
te di Sant’Andrea e 4.046 nell’altro lato. Tali lavori sulle strade erano
stati messi in cantiere, insieme a molti altri anche fuori della città, per
la visita di papa Clemente VIII a Orvieto, tanto che, oltre la via, era
stato fatto ordine di ammattonare anche le botteghe e, di seguito, gli
avanzi riutilizzati per altri scopi. Proprio per il riuso di materiale non
utilizzato nella sua bottega «su per la Camollia», recuperato per «la
strada della Pesciaria» dalla comunità alla fine del XVI secolo, Basilio
Orienti richiedeva il dovuto pagamento al Comune, non avendo rice-
vuto nessun indennizzo per aver messo a disposizione circa centocin-
quanta mattoni. Nonostante questo, sembra che la Camollia non fosse
stata nell’occasione riadattata del tutto, anche perché si registravano
importanti interventi tra il 1610 e il 1611 per lavori alla «piaza prubi-
cha e la camulia», che annoveravano l’acquisto di calce (proveniente
da Canale e dal Botto) e sabbia, rimozione e carico di mattoni o sassi e
opere di vari muratori o scalpellini, come mastro Francesco de To-
masso detto «il Cortona» che aveva posto in opera la riga della piazza
e la strada della «Camollia sino al bottino della fontana dell’erba». Nel
gennaio del 1611, il governatore Pietro Valerio intimava gli abitanti
della zona alla partecipazione ai lavori, obbligandoli ad aggiustare a
proprie spese la parte dinanzi alle loro case e botteghe, con l’obbligo
di utilizzare «mattoni buoni e recipienti per detto servitio»143.
Alla fine del XVI secolo erano predisposti anche degli straordinari in-
terventi per ponte Giulio, operazioni che più o meno intensamente si
erano prolungate per tutto il Cinquecento, interessando sovente tutte le
comunità del territorio, le quali, per prossimità o solamente per sotto-
missione, erano obbligate alla partecipazione ai lavori anche con i loro
scarsi mezzi, siano stati forza lavoro o materiale quale calce, laterizi e
legname. Se nella delibera consiliare del 7 settembre 1574 si dibatteva
sulla necessità di provvedere alla riparazione di ponte Giulio, ponte
della «nonna» e ponte dell’Adunata (per gli ultimi due si stanziava la
piccola somma di venti scudi, fatto salvo il bilancio delle gabelle e al-

143
Ivi, 4/1, 96; 82/11, 160, 161, 180, 187, 213, 234, 265, 395; 97/13, 84; 187/22, 1/95.

69
tre spese, tanto che si manifestava la volontà di richiedere degli asse-
gnamenti al pontefice, particolarmente per l’ultimo che necessitava di
importanti e repentini interventi soprattutto perché sede di dogana),
nel 1586 si stabiliva, in accordo con il disposto pontificio, di commis-
sionarne il restauro, richiamando al concorso delle spese le città di Pe-
rugia e Todi, con le quali l’architetto Ippolito Scalza era incaricato di
determinare i confini per predisporre la quota di partecipazione; lo
stesso, nel 1599 sarà nominato per la redazione di un preventivo delle
spese di restauro al ponte dell’Adunata, importo da ripartirsi tra le va-
rie comunità, secondo i fuochi e le indicazioni del catasto; nel 1610
redigeva una ennesima stima e l’anno successivo una informazione sui
lavori ancora necessari144.
I lavori per questi ponti, partendo dalla loro mera organizzazione, oc-
cuparono diversi anni, oltre il limite del XVI secolo e per diverso
tempo anche in quello successivo. Dal 1592, con l’ingiunzione posta
alle comunità e ai castelli che non avevano saldato quanto richiesto
per la restaurazione dei ponti dell’Addunata e Giulio (come Civitella
d’Agliano, Lubriano, Porano, Sermugnano, Sugano - poi depennato -),
sino alle continue richieste di legname del 1593 (a Monteleone, Mon-
tegabbione, Ficulle, Allerona, Torre Alfina e Benano). Lo stesso anno,
erano necessari dei lavori di ristrutturazione al ponte della Nona e al
fossato di Romealla, con ingiunzione imposta a tutti gli interessati145.
Nel 1598 si decideva, in occasione della visita del pontefice, di impor-
re un importante intervento di restauro al ponte Giulio, tanto che se ne
dava commissione ancora a Ippolito Scalza (definito «nostro Architet-
to») per calcolarne il computo di spese; di seguito, si ordinava la ri-
cerca nei dintorni del materiale costruttivo (calce, mattoni e legname),
tanto che, se necessario, si richiamava al bisogno di far imporre
l’autorità, facendo anche in modo di produrlo in tempi rapidi per
l’occasione. In tale circostanza, era interpellato anche Giovanni Batti-
sta Veralli al quale, in due diverse missive, era richiesta una certa
quantità di legname da prendersi all’interno dei suoi possedimenti; es-
sa era necessaria, tra l’altro, al vecchio progetto di «rimettere l’acqua

144
Ivi, Riformanze, 263, cc.134v-135r, 183r, 189rv e Bastardelli, 594, c. 34v. Per
quanto riguarda il ponte dell’Adunata si veda nella Miscellanea atti giudiziari, 82/11,
119-120, 159; 97/13, 14.
145
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 78/11, 195; 139/17, 42, 46, 48-49.

70
sotto detto Ponte»146. Tale piano necessitava di una cospicua mole di
denaro, tanto che il consiglio di Orvieto si trovava costretto a formula-
re ingiunzioni di pagamento per il concorso delle comunità circostanti;
in una di queste, tra coloro che erano obbligati a versare la propria
quota, nel 1599 troviamo anche la comunità di Castel Viscardo (per
scudi 3,37), il signor Giovanni Battista Veralli (scudi 5,23, più 8,48
come residuo di ponte Giulio) e monsignor Fabrizio Veralli (scudi
5,23 e 5,24.3 per il rimanente dei lavori)147. A queste spese dovevano
aggiungersi le imposte fisse, come le ingiunzioni camerali, per le quali
nel 1599 la comunità di Castel Viscardo era richiamata al pagamento,
non avendo ottemperato in merito dal 1597148.
Nei lavori operati nei vari ponti nel corso del XVII secolo, soprattutto
dopo l’esondazione registrata nel 1608, erano interessati diversi pro-
duttori di calcina dal Botto o da Canale, ma non da Castel Viscardo149,
con alcune disposizioni che intendevano anche indirizzare la maggior
parte di quanto prodotto verso l’utilizzo per tali scopi. Nel 1610, in

146
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 60-61. Si veda, a tal proposito, ASO,
ASCO, Riformanze, 279, c. 10r, e ASRM, ASV, 284, cc. s.nn. Lo stesso anno si regi-
stravano diversi ordini di pagamento per il restauro del ponte, inoltrati a varie località,
tra cui due per Benano e Castel Giorgio (si veda nella Miscellanea atti giudiziari,
97/13, 61-67). All’inizio del XVII secolo continuavano le richieste, come la proposta
di Vincenzo Buzio, e le continue pretese di manutenzione, per le quali dovevano inte-
ressarsi sia la città che il contado, tanto che alcune comunità, come Porano, ne richie-
devano l’esenzione per problemi economici (si veda ancora nella Miscellanea atti
giudiziari, 118/15, 62, 94, 127).
147
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 97/13, 23-24. Oltre al valore monetario e
all’obbligo fatto di partecipare alle spese per la restaurazione del ponte, in occasione
della visita papale del 1598 le comunità furono anche costrette a offrire alcuni anima-
li; da Castel Viscardo, per esempio, furono inviati dodici capponi, ventiquattro polli
(«pollastri») e due castrati, mentre da Monterubiaglio si donavano otto capponi e di-
ciotto polli (si veda nella Miscellanea atti giudiziari, 97/13, 34).
148
Ivi, 118. Le imposte erano coì gravose che rischiavano di mandare sul lastrico i
poveri paesi del contado, come era testimoniato da una supplica di una comunità non
specificata, composta da soli 44 fuochi, che all’inizio del Seicento richiedeva
l’esenzione dal pagamento della «sonta della foglietta», in quanto già oppresse dalle
imposte sul «quattrino della carne», la «posta Camerale», la «posta del macinato», la
«foglietta», la «terzaria», la «tassa della podestaria», il «cerio alla Reverenda fabrica
alli 15 d Agosto», adducendo al fatto di non potere pagare per la loro scarsa produzio-
ne di vino, così poco che non bastava neanche all’osteria (si veda nelle Lettere origi-
nali, 746, 1/1).
149
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 82/11, 265; 83/11, 380, 403.

71
merito si ordinava a Giulio di Canale di non vendere la calcina
dell’ultima «cotta», «essistente nel Pozzo e fornace al presente», per-
ché necessaria al servizio di ponte Giulio150.
Allo stesso modo, per altri lavori del momento, si vedevano intere
commesse destinate a diversi fornaciai, come «Sabatino de Guane» da
Canale, «Primio de Cano de Canale calcinaro» o mastro «Aorelio Sar-
ffo» per la calcina e suo trasporto, «Ulivere da Porano» o «Cencio de
Paulo», dal medesimo luogo, per delle mezzane, il tutto utilizzato al
palazzo del governatore o al ponte dell’Adunata nel 1611151. Per il
ponte Giulio i lavori sembravano ricominciare nel 1614, con Vincenzo
Butio, il soprastante, che dichiarava come Moscato di Marco «da Le-
rona» (Allerona) avesse condotto due vetture di calcina «del pozzo di
Menicuccio», con veri e proprio obblighi di fornitura imposti, per e-
sempio, a Salverio e Girolamo di Monterubiaglio e a mastro «Ottavio
de mastro Girolimo fornaciaro in Lero<na>», o il precetto di lasciare
scegliere ai priori (con sollecito inviato anche ai curati, podestà e alle
varie comunità) quali uomini tra i quindici e sessanta anni inviare a
lavorarvi per non gravare troppo sui poveri contadini152.
Ancora nel 1614, il soprastante Vincenzo Butio dava informazione dei
diversi lavori necessari nel territorio, quali il riassetto del ponte
dell’Adunata e della Nona o il tetto del palazzo del podestà; del recu-
pero di tremila mattoni, quattrocento canali e altro legname, operato in
seguito alla distruzione della rocca di Ripalvella che minacciava di
cadere; della pulizia necessaria alla porta Vivaria; del restauro della
Rocca; della sistemazione di diverse strade, come quella del Torrone
sino a ponte Giulio, quella che conduceva al ponte della Nona e alla
Madonna della Fonte, quella verso la dogana, quella maestra che dal
«Sasso Tagliato» arrivava sino al confine nuovo, quella da San Pietro
al pozzo della Rocca e quella verso Porano, oltre ad altre vie minori.
Da distinte testimonianze, sappiamo come altri interventi fossero con-
centrati all’acquedotto nei pressi dei cappuccini o alla loggia del pode-
stà153.

150
Ivi, 21/4, 195.
151
Ivi, 82/11, 154-155, 179, 420.
152
Ivi, 21/4, 261, 265-266, 323.
153
Ivi, 297, 325, 336. Il resoconto sulla distruzione della rocca di Ripalvella operata
nel 1614 si trova nella stessa serie in 176/21, 86. Ancora nel 1590, il consiglio di Or-

72
In questo quadro, tutt’altro che idilliaco, si inseriva la richiesta di di-
verse commesse provenienti da tutto il contado, come la «Calcina ve-
nuta dall’Erona di Menicuccio», probabilmente da Sant’Abbondio, da
dove giungeva anche quella attestata da Francesco Scalza nel settem-
bre dello stesso anno, «dal pozzo di Girolimo calcinaro» di Monteru-
biaglio, da Porano (ad opera di Belardino fornaciaio), da Allerona
(prodotta da «mastro Ottavio di mastro Girolamo» o da «Menicuccio
di Giovanni») e da Canale154.
Oltre ai citati, tra il Cinquecento e il Seicento si annoveravano altri in-
teressanti riferimenti rispetto a una pratica ben diffusa, le cui commes-
se erano registrate da diversi luoghi e per interventi atti alla ristruttu-
razione di costruzioni alquanto precarie. Già dal 1574 era stata presen-
tata al vaglio del consiglio di Orvieto la supplica della comunità e uo-
mini di Monteleone, desiderosi di rifare ex novo il ponte della porta
del loro castello, utilizzando dei mattoni in sostituzione delle tavole,
pericolose (soprattutto nel periodo invernale a causa delle gelate) e
precarie (tanto che riferivano come ogni anno necessitasse di una nuo-
va ricostruzione)155. Nel 1606 poi, si emetteva un mandato di paga-
mento a favore di tale Gabrille fornaciaio di Celleno (oggi in provin-
cia di Viterbo) per la fornitura di duemila mezzane e duecento canali,
da utilizzarsi nei lavori di restauro della rocca di Civitella
d’Agliano156. Nel 1612 era la volta di alcune richieste atte a destinare
della calcina già prodotta per la fabbrica della chiesa di San Giacomo
a Castiglione in Teverina; da prima con la supplica del fornaciaio
«Sforza de primio da canale» che richiedeva licenza per potervi desti-
nare parte del suo lavoro andato invenduto, poi con l’istanza degli
stessi responsabili della fabbrica, per la quale richiedevano licenza per
«potterla estrahere et portare à Castiglione» una «certa quantità di

vieto prendeva ancora provvedimenti per la sua locazione facendo chiamare Sisto
Chrispolti affittuario di Giovanni Paolo Baglioni (si veda Bastardelli, 598, c. 13v.).
154
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, b. 176/21, 82-84, 93, 100-102, 119-120.
155
Ivi, Riformanze, 263, c. 9rv. Da questa stessa comunità, nel 1611 si informava, ol-
tre che sulla compilazione della tabella per l’anno precedente, anche sul ricavato della
calce depositato al Pio Monte già dal 1607 e sul dipinto della Madonna realizzato so-
pra le porte (si veda nelle Lettere originali, 746, 2/4).
156
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 83/11, 209.

73
Calcina cotta nel Podere della Signora Caterina Bisenzi à Bisconte per
servitio della fabrica della Chiesa di S. Jacomo»157.
Nel 1607 nella stessa Orvieto, si deve dare conto di quanto pagato ad
«Atilio da Porano», per dieci vetture di calcina da impiegarsi nel ria-
dattamento della fontana detta di «birichella», e del bando inteso a ri-
cercare «persona che voglia attendere al cottimo» in una commessa di
laterizi, da utilizzarsi nella «Ripa cascata presso Porta maggiore» per
la costruzione di un parapetto e un pilastro secondo il progetto di
«Messer Ippolito Scalza Architetto»158. Ancora due anni dopo si se-
gnalavano dei pagamenti per il trasporto di sabbia, sassi e calcina al
palazzo del governatore per il quale nel 1610 doveva essere pagato
anche Girolamo di Sabatino da Canale (aveva fornito calcina) e nel
1615 Cencio di Paolo da Castel Rubello (3.408 mezzane utilizzate per
tappezzare parte della cucina, tinello e dell’entrata dello stesso)159.
La presenza di diversi artigiani del settore era testimoniata anche da
documentazione diversa dai bandi o pagamenti per la realizzazione o
restauro di strutture, come il mandato di comparizione emesso davanti
Paolo Pietro Crescenzio, protonotario apostolico, nei riguardi di Livia
di Marco Antonio e Battista Moretti fornaciaio, cognato della donna,
circa la locazione di una casa in Orvieto a Ascanio Clementis e alla
coniuge Angela o, ancora, nella richiesta operata nel 1613 dai signori
Pietro Aviamontio, Girolamo Pollidori e Alessandro Rocchigiani per
la contribuzione all’ammattonatura di una strada, i cui lavori non fu-
rono eseguiti in toto, tanto che durante l’inverno erano stati lasciati in
sospeso in prossimità delle loro abitazioni. Per porvi termine, i tre af-
finché: «la detta strada sia polita, et praticabile, offeriscono farla sal-
ciare, come quella avanti al Palazzo dei Signori Butij, quando però la
Città voglia far’ fare la guida della riga di mezzo secondo il solito, et
concedere la conduttura delle pietre necessarie; obligandosi nel resto
di far’ lavorare, et mettere in opra le dette pietre secondo il bisogno à
spese loro»160.
Le diatribe sull’argomento non erano solo interne; per esempio, nel
1667, ne abbiamo testimonianza in una lettera proveniente da Perugia

157
Ivi, 4/1, 197, 199.
158
Ivi, 3/1, 8; 83/11, 359.
159
Ivi, 21/4, 218; 82/11, 47; 83/11, 69.
160
Ivi, 4/1, 269; 82/11, 121.

74
per Vincenzo Palazzi, nella quale si confermano gli offici intrapresi
per la restituzione di una certa calcina utilizzata da un convento che,
nonostante le promesse, non era stata ancora stata restituita dopo cin-
que anni dal prestito. A Orvieto, in questo secolo, ma anche in quello
successivo, la corporazione dei calcinai era organizzata al pari delle
altre associazioni di mestiere, tanto da avere la gestione della chiesa
detta dei SS. Crispino e Crispiniano (composta da un unico altare,
senza reddito o oneri)161.

Resti di un forno per la calce nei pressi di


Castel Viscardo: la bocchetta (a sinistra) e
le mura perimetrali viste dall’alto (foto Bi-
blioteca L. Sandri, g.c.)

Manufatto in terracotta di Mauro Paioletti e


rappresentante l’atto di estrazione dei laterizi
dal forno a legna (esposto nella ex sala consi-
liare di Castel Viscardo).

161
Ivi, 182/22, 16/166. Per la detta chiesa si veda AVO, Visite pastorali, Visita Milli-
ni, a. 1687, c. 19v e Visita Marsciano, aa. 1734-1748, p. 75.

75
Capitolo II
Storia e storie delle fornaci di Castel Viscardo

1. I fornaciai di Castel Viscardo nella seconda metà del Cinque-


cento
Notizie certe sulla presenza di fornaciai nel Castello di Viscardo si
hanno solo a partire dal XVI secolo. I primi riferimenti indiretti si
trovano in alcuni documenti parrocchiali, in particolare nel coevo re-
gistro battesimale, nel quale appaiono numerose attinenze alle prati-
che artigianali, utilizzate come attributo per l’identificazione di una
persona rispetto a un omonimo che svolgeva un altro lavoro. Di segui-
to, altre antiche indicazioni riportano ad alcune carte amministrative
della locale compagnia del Corpo di Cristo. Tra le varie annotazioni
di offerte, il 13 marzo 1570 era segnalato: «giuvanne fornaciaro a da-
to per limosina tre giulj», specificando, nella colonna del riporto a la-
tere, la somma in entrata equivalente a 30 baiocchi162.

1570: nota della donazione di «giuvanne fornaciaro» (g.c.).

Successiva di due anni era la prima indicazione ritrovata nel citato re-
gistro battesimale, con un altro fornaciaio di nome Domenico che
nell’aprile del 1572 partecipava alla funzione in veste di padrino163.
Lo stesso artigiano era di seguito annoverato tra i possessori di alcuni
beni esterni alle mura della vecchia rocca (in un inventario del
1575)164 o in altri atti battesimali, sia come padre dei pargoli che ebbe

162
Archivio parrocchiale di Castel Viscardo (d’ora in poi APCV), 209, c. sciolta s.n.
all’interno di un registro seicentesco di amministrazione della compagnia del Rosario.
163
Ivi, 1, c. 2r.
164
ASRM, ASV, 354/49, c. 3r.

76
con la moglie Sandra (o Cassandra), sia ancora come padrino165. Di-
scendenti di Domenico, figlio di Simone «fornaciarij», furono, tra gli
altri, Andrea e Simone che ritroviamo nel 1590 (gli stessi della di-
squisizione che aveva sollevato ancora perplessità sulla non chiara li-
bertà giurisdizionale di Castel Viscardo) come acquirenti, tramite il
loro tutore mastro Fulvio Stuppini, di una vigna nel territorio di San
Lorenzo in Val di Lago166.
Dal 1582 si trova anche un altro Domenico fornaciaio, distinto dal
primo con: «habitante alla torricella», un podere sotto la giurisdizione
dell’attiguo castello di Viceno che al tempo non era ancora sotto la
competenza di Castel Viscardo e non aveva una sua parrocchia167.
Dello stesso periodo erano i primi riferimenti a un altro artigiano lo-
cale, ossia Antonio di (del) Nicchio, che nel 1587 forniva del materia-
le (canali e pianelle) per i restauri della chiesa di San Lorenzo; lo
stesso, già nel giugno del 1572, era registrato come padrino di batte-
simo del nipote168.
Scorrendo i secoli, dopo la mole di indicazioni su alcuni lavori che
confermavano lo strapotere di Orvieto nei confronti dei castelli e co-
munità circostanti, dandoci nel contempo avviso della presenza di una
produzione abbastanza estesa e non esclusiva di un solo luogo, ab-
biamo un notevole patrimonio documentale che riporta una presenza
abbastanza diffusa di fornaci a Castel Viscardo.
In questa ricerca, oltre allo studio dell’archivio di quella che sarà la
famiglia dominante degli Spada Veralli, parlando di atti privati (testi-
monianze commerciali, locazioni, enfiteusi o usufrutti) risultava fon-
damentale lo studio dei documenti notarili. Queste testimonianze era-
no prodotte nei rapporti sanciti dagli ufficiali che godevano della pub-
blica fede e, con questa, fissavano quanto stabilito e quanto si impe-

165
APCV, 1, cc. 3r, 4r, 5v, 12v, 27v, 32r. Lo stesso Domenico si ritrova nel 1587, in
occasione di una quietanza su del grano a suo favore da parte di Cesare del fu Cristo-
foro alias Paternostro (si veda ASO, ANM, I versamento, 1049, cc. 128v-129r).
166
ASO, ANM, I versamento, 1050, cc. 219r-220r. Un pagamento a favore di «Mastro
Simone dal Castello fornaciaro» si trova nella Miscellanea atti giudiziari, 97/13, 116.
167
APCV, 1, c. 18v. In quel periodo, gli abitanti prossimi al confine solevano battez-
zare presso il fonte di Castel Viscardo, invece che in quello della parrocchiale Bena-
no.
168
Ivi, c. 2v.

77
gnavano ad accordare le parti in causa169. Tale documentazione trova
la sua massima applicazione nella realtà di Castel Viscardo, dove sto-
ricamente la gran parte delle terre e abitazioni risultavano essere di
proprietà della famiglia del Castello, tanto più che ad oggi, se si esclu-
de il solo caso di un registro di deliberazioni consiliari (dal 1688 al
1733, conservato nello stesso fondo Spada Veralli), non esistono do-
cumenti della comunità del periodo preunitario170. Questa carenza non
sembra essere un limite quando, in un argomento di così vaste propor-
zioni, si inserisce tutta la diatriba sulla questione giurisdizionale (co-
me fu a cavallo tra Cinque e Seicento), degli scambi commerciali, dei
possedimenti e delle proprietà, anche se una ricostruzione totale risulta
abbastanza proibitiva e comunque parziale, vista la mancanza della
documentazione in loco e le questioni storiche per le quali da Orvieto
in diversi tempi si era evitato l’utilizzo del materiale di Castel Viscar-
do. Da quanto era possibile ricostruire, a Castel Viscardo una delle
famiglie più importanti, per l’acquisto, cessione o detenzione di beni,
risultava essere quella di tale di mastro Leone (Lione) e del figlio Jaco
(Giacomo), della quale non si trovano riferimenti sull’origine “natura-
le” o esterna al paese, anche se alcuni notarili riportavano coeve pro-
prietà orvietane. Il padre, in particolare, era menzionato sin dal 1572,
mentre Jaco era segnalato come fornaciaio dal 1579171. Nello studio
degli atti notarili, molte volte si ritrova la presenza dei fornaciai eredi
di mastro Leone, come confinanti, per l’acquisto di nuove proprietà o,
addirittura, come proprietari delle abitazioni nelle quali erano rogati
gli atti. Nel 1586 erano citati due figli dello scomparso artigiano, Gia-
como e Pietro, con il primo che acquisiva per sé e per il fratello un ter-
reno in zona orvietana, posto nella località detta «il Campo della que-
stione»172.
169
Sull’importanza di queste fonti anche per lo studio delle ceramiche, ma di ogni
altra attività, si veda, tra l’altro, F.T. Fagliari Zeni Buchiccio, Le fonti notarili per la
storia della tradizione ceramica, in «Vascellari : Rivista di storia della tradizione ce-
ramica», 1/1 (2003), pp. 67-81. Sulla normativa e sulla loro possibilità di fruizione,
con digressione legislativa e storia estrinseca, F. Ebner, Gli archivi notarili manda-
mentali, in «Rassegna degli Archivi di Stato», XLV/3 (1985), pp. 443-456.
170
ASRM, ASV, 1123. Il registro riporta questa intitolazione: «Consiliorum Commu-
nitatis Castri Viscardi».
171
APCV, 1, cc. 1v, 9v.
172
In questo atto, rogato a casa sua nel 1586, Giacomo del quondam mastro Leone era
indicato come fornaciaio (si veda in ASO, ANM, I versamento, 1049, cc. 57v-58r).

78
Nel 1590 Giacomo, evidentemente ripagato dalla sua attività di forna-
ciaio, si avventurava nell’acquisto di nuove terre, in località quali «Il
Campo della forma» (due appezzamenti siti sul territorio di Torre Al-
fina) o a «San Bartolomeo», dove comprava anche nel 1592 e sempre
nei pressi dei beni della parrocchia; in tutti gli atti era sottolineata, ol-
tre il patronimico, anche l’indicazione del mestiere esercitato, tanto
che poteva essere considerato quale attributo identificativo che, pro-
babilmente, lo qualificava anche agli occhi del venditore. Negli anni a
seguire, si riscontravano diversi atti che lo vedevano come protagoni-
sta o come parte in causa in alcune compravendite, divisioni di beni
acquisiti dal padre («magister Leo fornaciarius»), retrovendite o per-
mute, sia di terreni che di abitazioni, che aumentavano il suo patrimo-
nio in quel di Castel Viscardo, dove intendeva ingrandire la propria
abitazione, per una parte della quale aveva scambiato anche una pro-
prietà di Orvieto. Tra le tante si annoveravano anche diverse abitazio-
ni, nella stragrande maggioranza site nella zona detta «il Renaio», do-
ve ne possedevano sia Pietro che Giacomo. Nel 1600, Pietro permuta-
va una sua piccola abitazione posta in contrada «panij La Madonna»,
nei pressi dei beni di Ercolano della Spina, con una sua adiacente al
«Renaio»173.
L’attività “imprenditoriale” della famiglia sembrava spaziare in diver-
si ambiti, prova ne sono le numerose testimonianze documentarie la-
sciate in più protocolli notarili, ad esempio con l’acquisto di vigne (a
Castel Viscardo nel 1597 e a Torre Alfina due anni dopo)174; si am-
pliava la possidenza accumulata dal padre con l’attività manifatturie-
ra, attraverso il loro intervento diretto nella vita della comunità, con il
conseguimento di censi e la partecipazione alla redazione notarile nel-

Sulle citate proprietà orvietane, nella stessa serie vedi un notarile del 1594, il n. 1051,
cc. 141r-142r; a Orvieto era anche citato come testimone in un atto riguardante alcuni
suoi compaesani (vedi n. 1049, cc. 254v-255r).
173
ASO, ANM, I versamento, 1050, cc. 227r-228r, 239rv, 236r-264v; 1051, cc. 8r-9r,
11r-13r, 29r-30r, 34r-35r, 39v-40r, 141r-142r; 1052, c. 264rv.
174
Ivi, 1052, cc. 140r-141r, 227r-228r, 233v-234r. L’ultimo atto, del 1599, riguarda-
va la dote di Maria figlia di Giacomo, sposata da Ventura del fu mastro Ambrogio
che gli rilasciava quietanza per aver ricevuto quanto stabilito in precedenza con atto
di Flavio Jacobelli, «olim Potestatis Castrj Viscardj», questi era originario di «Vaco-
ne in Sabina» (si veda lo stesso protocollo, c. 342r).

79
la veste di testimoni o addirittura “offrendo” il luogo stesso ove questi
erano redatti175.
Nei citati documenti, si riscontrava spesso la collocazione geografica
di alcuni fornaciai “castellesi”, ossia se ne rimarcava l’origine esterna
al feudo. Tra gli altri, particolarmente significativa era l’apposizione
che rimandava a Spina (attuale frazione del comune di Marsciano, in
provincia di Perugia), un antico borgo che ha avuto in passato una
importante “industria” del laterizio176. Da queste zone sembrano pro-
venire tre fratelli: Pascuccio, Antonio e Domenico, tutti figli di Erco-
lano, ma anche altri artigiani specializzati nella manifattura dei mat-
toni e delle pignatte. Questi trasferimenti potrebbero aver contribuito
all’introduzione o allo sviluppo stesso della manifattura a Castel Vi-
scardo, con la formazione di siti produttivi stabili. L’origine dello
stesso Pascuccio e della sua famiglia era confermata da diversi docu-
menti notarili o parrocchiali (nel registro battesimale è indicato per la
prima volta nel 1587 sotto l’identificativo di «Pascuccio perugi-
no»177); in essi, se ne ribadiva l’origine extraterritoriale e la nuova re-
sidenza all’interno del paese (lo si identifica anche come: «Pascuccio
d’Ercolano dalla Spina horà fornaciaro nella Tenuta del Castello»)178.
In una polizza del 1596, per l’affidamento di una vigna, si specifica-
va: «Pascuccio del quondam Hercolano della Spina, al presente habbi-
tante nel Castello»179 o, su tutti, in un indicativo atto battesimale, os-
sia quello di: «Cencia figlia d’Antonio d’Herculano dalla Spina al
presente habitante al Castel Viscardo» (del 1601)180.
La famiglia, evidentemente legata all’artigianato, diveniva protagoni-
sta del periodo grazie alla sua presenza e citazione all’interno di di-
spute, acquisizioni, cessioni o permute, venendo citata in svariate oc-
casioni, come all’inizio del 1590 quando Solimanda, consorte di «An-
tonij Herculanj de Spina», vendeva al cognato Domenico una vigna

175
Per alcuni atti rogati a Castel Viscardo, in casa di Giacomo «in loco qui dicitur il
Renaio» o nei suoi pressi, il n. 1051, alle cc. 9r, 10v, 30r, 32r, e il n. 1052, cc.334r-
336r. Per altri riguardanti censi e funzione di testimone, vedi n. 1052, cc. 316v-319v.
176
G. Busti e F. Cocchi, Terrecotte e laterizi, cit., p. 62.
177
APCV, 1, c. 29r. Poco prima, nel 1586, si trova anche l’indicazione di Pietro peru-
gino. Si veda la c. 26v.
178
ASRM, ASV, 284, c. s.n.
179
Ivi, 399/2. Si veda L. Giuliani, Nel mio piccolo loco, cit., pp. 59-60.
180
APCV, 1, c. 75v.

80
posta nella contrada detta «la casa di Simonetto»; lo stesso Domenico,
due anni dopo, era anche citato quale confinante con una sua abita-
zione posta nella zona detta «la Madonella», mentre nel 1600 ne ac-
quistava una in contrada detta «la strada della fontana»181. Il terzo fra-
tello, Pascuccio, si ritrova in altri atti simili, come quando nel 1597
comprava una piccola casupola in rovina, posta nella contrada detta
«le Trobbe iuxta Trobbes», nei pressi della strada per la quale si an-
dava al vicino paese di Monterubiaglio e zona nella quale si trovava il
più antico insediamento delle fornaci a Castel Viscardo, dove ancora
se ne concentravano alcune delle più antiche e dove, nel 1623, ritene-
vano delle proprietà sia gli eredi del fu Ercolano che quelli di mastro
Leone182.
Che vi fosse una reale presenza di perugini nel territorio, lo dimostra-
no numerosi e diversi atti, come del resto quella dei cosiddetti «lom-
bardi». Questi abitanti del Nord, come in altre e innumerevoli zone,
scendevano nelle terre dello Stato Pontificio per adoperare la loro arte
muraria che praticavano per la diffusa povertà e cronica scarsità di ri-
sorse della loro terra183. Al contrario, i perugini sembravano adoperar-

181
ASO, ANM, I versamento, 1050, cc. 224v-225v; n. 1051, cc. 33r-34r; 1052, cc.
262v-263v. Antonio era anche citato quale testimone in un atto del 25 febbraio 1602;
due giorni dopo, Domenico di Ercolano di Spina era tra i presenti alla consegna di una
certa somma consistente la dote di donna Margherita del fu «Piccininj» di Castel Vi-
scardo (si veda, n. 1052, cc. 346v-349v).
182
Ivi, 1052, cc. 137v-138v. Lo stesso anno, Pascuccio era anche citato, insieme a
molti altri, quale testimone di un importante atto riguardante la possidenza di tale
«Bartholomeo dj Gulio dal Castel Viscardo», per il quale si accertava come fosse
«povera persona, et non possede altro che una casetta ne la quale habita, et circa sej
Tappe di Vigna feudo de la corte del detto Castello fondatj o piantatj rispettivamente
ne benj dj detta Corte […]» (si veda lo stesso protocollo, cc. 125r-126r).
L’indicazione delle proprietà in «Contrada delle Trobbe» si trova in I versamento,
1609, c. 215v della I cartulazione.
183
Questo fenomeno, del quale si hanno riferimenti dal XV secolo, era molto diffuso
e si concentrava a Roma in seguito alle calamità che la colpirono nel Cinquecento,
portando all’erezione di diverse confraternite di emigranti nel territorio (aggregate a
quella dell’Urbe, fondata nell’Anno Santo 1500) o di ospedali particolari, la cui istitu-
zione era tesa a favorire l’integrazione e immissione nel mondo lavorativo di coloro
che giungevano, nella maggior parte, dalla diocesi di Como (si veda G. Schena, Ti
racconto di Mello, Comune di Mello 2011, pp. 66-69). Di tale realtà, abbiamo molti
riferimenti anche nella Tuscia e in Umbria. Si veda, per esempio, la presenza a Ca-
scia, nella chiesa collegiata di S. Maria Maddalena, di una «Cappella dei lombardi
mvratori» istituita nell’anno 1579 dalla confraternita dei «Mastri Lombardi». Nel

81
si maggiormente nell’artigianato laterizio e in quello delle pignatte e
stoviglie.
In questo periodo, i riferimenti sono ampi e ben più articolati rispetto
alla presenza di altri soggetti dalle medesime zone. Scorrendo gli atti
battesimali della parrocchia di Castel Viscardo, si nota la considere-
vole presenza di bambini in rapporti con persone la cui origine era
Marsciano o, più genericamente, il «contado perugino». I soggetti e-
rano spesso indicati, oltre che con l’attribuzione geografica di prove-
nienza, anche con la segnalazione relativa al mestiere esercitato. Ab-
biamo, quindi, muratori, calzolai, sarti, tessitori, mulinai, bottai, fab-
bri e i vari fornaciai o pignattai184. Rispetto alle zone indicate, il primo
riferimento risale al gennaio del 1574 con un certo Fabbiano da Mar-
sciano; alla fine dello stesso anno troviamo anche un certo Sabbatino
«pignattaro», attributo dato anche al primo poco dopo185. L’insieme
delle due indicazioni si trovava chiaramente solo più avanti, quando
nel 1588 si segnalava un
certo «Ottavio da Mar-
sciani pignattaio»; lo
stesso, in due atti del
1596, era anche detto:
«Ottavio di Girolimo da
Marsciano contado di
perugia», «Ottavio di
Gerolimo da Marsciano»
o, ancora: «Ottavio Co-
1588: Atto di battesimo che vede come padrino tale
«Ottavio da Marsciani pignattaro» (g.c.).

1619, il sodalizio vi faceva collocare una pala dedicata al conterraneo S. Carlo Bor-
romeo, ora scomparsa. Nella didascalia apposta, a cura di Omero Sabatini, si legge:
«Ancora oggi a Cascia il giorno dell’otto maggio è ricordato come “la festa dei lom-
bardi”». Nello stesso altare era anche istituita la confraternita dei fabbri ferrai che,
nella parte superiore dello stesso, nel Seicento faceva dipingere una tela raffigurante
S. Eligio.
184
Un esempio tipico potrebbero essere le distinzioni usate per indicare i diversi Do-
menico presenti in paese; abbiamo il citato Domenico «fornaciaro», ma anche omo-
nimi definiti «calzolaro», «spoletino» o «muratore». Si veda, in particolare, la c. 3v
nella quale, in rapida sequenza, sono segnalate le quattro diverse persone.
185
APCV, n. 1, cc. 3v-5r, 6v, 10r, 11r.

82
cione da Marsciano del Contado di perugia»186. Da questo luogo pro-
veniva anche il pignattaio mastro Stefano, figlio anch’esso di Girola-
mo, indicato così a partire dal 1585187. Originari delle stesse zone si
registravano anche a Ficulle con la presenza di tal mastro Vincenzo
pignattaio proveniente da Marsciano, il quale nel 1587 riceveva a tito-
lo di donazione un sito posto nei pressi della chiesa dell’Annunziata
«sine la porta del Mercato», ove era autorizzato a edificare una casa
con fornace; lo stesso «Vincenzo pignattario» o «vasaro», nel 1597 e
1598 era indicato come mastro Vincenzo Corradini di Marsciano, ma
abitante a Ficulle, dove acquisiva la possibilità di gestire un terreno di
quella comunità, da affrancarsi nel termine di due anni, da lui o dai
suoi eredi, col patto di raccogliere la canape e il grano; l’anno dopo
riceveva un’altra proprietà proveniente dai beni del convento di San
Francesco di Orvieto188. Ancora da Marsciano provenivano tali The-
seo di Thomasso e Vincenzo di Lucantonio «Pignattari» che nel 1590
richiedevano al Consiglio generale di Or-
vieto di potersi insediare nel territorio con
le loro famiglie («accasarsi in questi paesi,
et di mettere in piede questo nuovo eserci-
tio à benefitio d’ogn’uno»), con qualche
esenzione rispetto al pagamento delle im-
poste, dovuta alla loro povertà. La supplica
era motivata dalla considerazione di: «ha-
ver ritrovato in quel di Porano, una certa
sorte di terra attissima à fabricar pignatti,
et altri vasi di Cucina; et essendosene fin
qui fatto il parragone di gran quantità, s’è
venuto in cognizione, che detta terra riesce
d’assai meglior lega di quella di Marscia-
no, et eguale à la buona di Bassanello». La supplica dei pignattai
(1590).

186
Ivi, cc. 33r, 58v, 59v, 60v. Lo stesso Ottavio da Marsciano funge da padrino anche
a c. 61r (atto del 21 luglio 1596).
187
Ivi, c. 23v.
188
ASO, ANM, I versamento, 1049, cc. 252r-253r; 1052, cc. 200v-201v, e Miscella-
nea atti giudiziari, 146/18, 31.

83
I due ottenevano una dispensa di cinque anni «in quello che puo’ con-
cernere il loro essercitio quando pero’ non venghino rotti i statucelli
di quel Arte»189.
In tali prospettive, esplicitate dalla buona qualità delle materie prime
della zona, si configurava la cospicua presenza di extraterritoriali re-
gistrata nei vari atti battesimali e notarili. Del resto già dal Quattro-
cento, anche nella stessa Orvieto, per quanto riguarda la produzione di
maiolica e alcune derivazioni che ne potrebbero aver portato
l’affinamento della tecnica, risultava quanto mai interessante uno
scambio epistolare tra Braccio di Fortebraccio e i Conservatori della
pace. L’11 maggio (forse da Perugia e probabilmente nel 1417), il
primo richiedeva il pagamento in nome di due suoi conestabili origi-
nari di località con antica tradizione nel campo, ossia «Johanni da De-
ruta» e «Antonio da Castello Durante» (oggi Urbania). Questi risulta-
vano creditori del comune di Orvieto, al quale si richiedeva: «sieno
plenarie sadisfatti de la meta de le lor paghe». Qualche giorno dopo
(20 maggio), la richiesta era ribadita, postulando ancora il pagamento,
se non tutto almeno in parte, per certi loro lavori non specificati190.
Ancora a Orvieto la presenza dei cosiddetti “vascellari” doveva essere
molto cospicua, se potevano essere ritrovati in alcuni atti inerenti dei
pagamenti, anche per materia diversa rispetto al loro artigianato. Era il
caso di tale Felice definito «vascellaro», saldato nel 1558 dal comune
di Orvieto, parimenti a Battista di Prudentio, per circa trenta limette

189
Ivi, Miscellanea Atti giudiziari, 106/14, 59. L’istanza era accolta 2 aprile 1590 (si
veda Bastardelli, 598, cc. 41v, 82v).
190
Ivi, Lettere originali, 698, 6/24, 6/35. Casteldurante (oggi Urbania) è una città del-
le Marche, il cui nome deriverebbe da monsignor Guillaume Durant che la faceva ri-
costruire nel 1284, modificandone la prima denominazione medioevale di Castel delle
Ripe. Nel corso del Cinquecento diveniva famosa in tutta Europa per le sue cerami-
che. Nel Seicento il toponimo era modificato con quello attuale di Urbania. Il periodo
più felice per la ceramica di questa città può essere connotato nel Cinquecento, con la
signoria dei Montefeltro e dei Della Rovere, quando si stimava fossero attivi ben 150
maiolicai (si veda Le città della ceramica : Maioliche e porcellane in Italia, Guida
Touring, Touring Club Italiano, Milano 2001, pp. 76-79). A Deruta la prima testimo-
nianza scritta della produzione di ceramica risaliva al 1290, quando era annotato su un
registro della cattedrale di Perugia il pagamento di un censo annuale della chiesa di S.
Nicolò mediante una «soma di vasi» (stessa fonte, pp. 60-63).

84
per armare la volta del ponticello di porta della Rocca, oltre che per
due some di «scoponi» per la stessa volta191.
Questi artigiani erano protagonisti anche in casi riguardanti delle car-
cerazioni o furti, come tal Mazzolo figlio di «Giovanni del vasario»
che nel 1566 supplicava per essere liberato dalla carcerazione a Or-
vieto, o nella stessa Castel Viscardo, circa un caso di furto nella quale
sembravano essere coinvolti in qualche modo dei «vascellari» origi-
nari di Castellottieri192.
Altro dato significativo, rispetto alle prime notizie sulla manifattura
artigianale che sembrava attirare manovalanza a Castel Viscardo, era
la presenza in paese di lavoratori che provenivano anche da zone mol-
to lontane. Pur senza “specificazioni professionali”, dal 1572 si trova-
no soggetti originari di Villafranca e dal 1580 di Santa Maria del
Monte193. Tra gli altri, un abitante di Villafranca, tale Andrea del fu
mastro Giovanni, nel 1592 vendeva una abitazione a Carluzzo di Pie-
tro sita nella zona detta «la Madonella», altrimenti detta «la Casa che
era del quondam frate Geronimo da Sancta Rufena», anch’egli peral-
tro di origine lombarda194.
Nel 1583 risiedeva in paese anche un certo mastro Domenico di ma-
stro Alberto proveniente dalla «val di Lugano»; informazione ricon-
fermata poi nel 1587 con mastro Giovanni Battista di mastro Pietro

191
ASO, ASCO, Entrate e uscite, 478, c. 30r. Riguardo i perugini a Orvieto, nel 1565
troviamo tale Fabrizio «Costantij» di «Castro Formae», nel contado perugino, che ri-
ceveva da Luca «Strucius», dopo una divisione fatta con i suoi nipoti e secondo gli
atti di Ascanio «Natij», un quartengo di terra posta nel piano di Orvieto in contrada
Camorelle, nei pressi dei beni di «Jacobj Milanj» calzolaio, quelli del monastero di
San Paolo e della chiesa dei Santi Apostoli; sul finire dello stesso anno, Filippo peru-
gino citava per danni alla sua abitazione Gaspare del fu Pietro che aveva fatto tagliare
«un morsone» di tufo al suo molino nella parrocchia di San Giovenale (si veda nel I
versamento, 1038, cc. 175r-176r, 248v-249v.)
192
Ivi, Miscellanea atti giudiziari, 61/9, 154; 165/20, 3/87.
193
APCV, 1, cc. 2r, 10v. In questo periodo, i riferimenti agli originari di Villafranca
sono numerosi, si vedano anche le cc. 3r, 4r, 5r, 7v, 11v, 34v, 58r. Altre indicazioni
possono ritrovarsi in ASO, ANM, I versamento, 1052, cc. 150r-151v, come il testa-
mento di Bartolomeo di Villafranca, rogato il 9 giugno 1597 in una casa in località
detta il «Renaro», dove abitava il testatore, o l’atto in cui lo stesso fungeva da testi-
mone nel gennaio del 1587 (n. 1049, cc. 130v-131v).
194
ASO, ANM, I versamento, 1051, cc. 35r-36v. Sulle origini di frate Geronimo vedi
anche L. Giuliani, Santa Rufina: da chiesa rurale a podere di campagna, in «Bolletti-
no dell’Istituto Storico Artistico Orvietano», LXI-LXIV (2005-2008), pp. 179-194.

85
dalla «val di Lucano di Lombardia» o, l’anno successivo, quando era
citato come «Magister dominicus quondam Simonis de partibus lom-
bardiae habitator Castrj Viscardj». Questo ultimo, nel 1594 era segna-
lato come mastro Domenico lombardo195.

2. Fornaci e fornaciai a Castel Viscardo nel corso della prima me-


tà del Seicento
Nel XVII secolo, dopo i vari riferimenti rinvenuti sui fornaciai del
Cinquecento, la prima indicazione diretta sulla esistenza di una forna-
ce nel territorio risaliva al 1615, quando si stipulava l’accordo, legit-
timando una terza generazione sia maschile che femminile, tra Anto-
nio Simoncelli, allora signore e padrone del feudo di Viceno, e Mercu-
rio e Giacoma di Benedetto del quondam Giovanni Domenico forna-
ciaio di Monterubiaglio; si trattava della regolamentazione dell’affitto
del possedimento detto volgarmente «il Podere della fornace in con-
trada la Turricella cum domo vinea et fornace». Siamo nella zona ove
sorgeva l’antica villa di Selci, località nella quale ancora dopo la metà
del Settecento, negli atti di concessione in enfiteusi di oliveti o terreni
ed elencando i vari confini, si parlava de «il Fosso della Torricella, il
Fosso della Fornace della Pieve», indicazione toponomastica che con-
fermava la tesi secondo la quale questa zona (nella quale passava una
strada romana e prima una etrusca) sia quella dell’insediamento abita-
tivo anteriore allo stesso Castel Viscardo196.

195
APCV, 1, cc. 19r, 28v-29r, 54r e ASO, ANM, I versamento, 1050, c. 43rv. Anche
in Orvieto la presenza di lombardi era molto fiorente già dal secolo precedente e non
doveva essere del tutto pacifica se, per esempio, nel 1483 il cardinale presbitero di
Santa Cecilia Giovanni Battista, legato di Bolsena, richiedeva ai conservatori la libe-
razione di Domenico di «Antonio Cathalucio da Zuchano», il quale, in compagnia di
altri aveva partecipato all’omicidio di un certo «Lombardo»; egli aveva scontato la
pena, nonostante fosse solo presente all’atto, e aveva già stabilito la pace con i parenti
dell’assassinato (si veda nelle Lettere originali, 685, 4/11); nel «Catasto di Serancia»
del 1530 si registravano, tra gli altri, diversi originari di quelle zone come «Joanne
Maria di Bertone Lombardo», «Francesco lombardo», «Mecho di Jaco lombardo» (si
veda nella Miscellanea atti giudiziari, 57/9, 7, cc. 7r, 9v, 18r).
196
ASO, ANM, I versamento, 1053, cc. 472r-473v, e 2932, cc. 194r-197v. Questo
ultimo atto si trova anche nel II versamento, 452, cc. s.n., e si riferisce all’affitto di un
oliveto in contrada «la Chiusa» a Giovanni Antonio Ceccarelli.

86
Precedentemente le notizie sono indirette, con altri riferimenti ai di-
scendenti di mastro Leone, quali, a partire dal 1602, Giacomo del fu
mastro Leone e
«Petrus quon-
dam magistrj
Leonis fornacia-
rij de Castro Vi-
Citazione di Pietro del fu mastro scardi comitatis, et diocesis Civitatis Ur-
Leone fornaciaio. bisveteris», entrambi citati per la vendita
e l’acquisto di un canapule in contrada «la fontana» e di altre terre o
vigne nella non lontana contrada detta la «Torretta»197.
Il 24 novembre 1607, Giacomo si assicurava una enfiteusi sopra una
terra di proprietà di Ventura del fu mastro Ambrogio, posta in località
«Ponano», dove risultava ancora proprietario nel 1624 e confinante
con i beni della chiesa parrocchiale di Castel Viscardo e il sottostante
fossato. Si trattava di una zona prossima a quelle (dette «San Bartolo-
meo» e «Santa Maria», dalle due chiese ivi erette almeno sino al XIV
secolo) in cui si trovava l’antico insediamento di Selci, dove il benefi-
cio ecclesiastico, erede di quelle che furono le sue origini, riteneva per
molti anni delle terre, evidentemente rimaste a suo appannaggio nono-
stante la fondazione del nuovo centro e l’erezione della chiesa di
Sant’Angelo all’interno della mura del Castello di Viscardo. Le indi-
cazioni delle proprietà in questo luogo sono molteplici, tanto che ap-
pare certo, non solo nella denominazione delle chiese successive di
Castel Viscardo (appunto San Bartolomeo e poi Santa Maria e Cateri-
na), come la parrocchia avesse comunque mantenuto delle proprietà
nelle zone ove i suoi edifici religiosi erano anticamente eretti198. Del
resto il vocabolo «Santa Maria» ritornava per alcune proprietà degli
197
Ivi, 1052, cc. 342r-343v, 356rv; 1053, cc. 5v-6v, 25v-26v. Ancora nel 1611 Pietro
di Leone risultava tra i confinanti in un atto di permuta tra una casa posta in Castel
Viscardo e una a Bolsena; nel 1621 e 1622 acquisiva due enfiteusi su terreni nei pressi
di Torre Alfina, in contrada «il piano di Valcelle», cedendone nel contempo una alla
«Torretta» ed era citato in un atto riguardante la figlia Gentilina. Nel 1621 il fratello
Giacomo fungeva da testimone in alcuni notarili riguardanti delle proprietà in Torre
Alfina e come confinante nella contrada «la fontana» a Castel Viscardo, l’anno se-
guente quale parte in causa in una permuta e, nel 1624, come testimone (si veda nel I
versamento, 1609, cc. 8r-10r, 26r-27v, 60r-61v, 67r-70v, 85r, 131r, 246r della I cartu-
lazione e cc. 2r-3r della II).
198
Ivi, I versamento, 1053, cc. 193v-194v; 1609, c. 201v della I cartulazione.

87
eredi di mastro Leone sul finire del 1589, quando lo stesso Giacomo
fornaciaio vi acquisiva, ancora anche a nome del fratello Pietro, due
terreni indicati «in agro urbevetano»; nel secondo caso, si parlava di
una ulteriore specificazione, oltre alla vicinanza ai beni della chiesa
parrocchiale, ossia di come il luogo fosse anche denominato volgar-
mente «il campitello de la fontana», per il quale attendeva alla funzio-
ne di testimone anche il citato muratore mastro Domenico di Simo-
ne199.
Anche nel corso del Seicento i protagonisti già delineati e i loro eredi,
per quanto riguardava l’attività laterizia a Castel Viscardo, risultavano
essere sempre gli stessi, ossia i discendenti di Leone e di Domenico,
entrambi e a più riprese indicati fornaciai, oltre ai perugini originari di
Spina. Diversi atti li connotavano all’interno di una realtà prettamente
agricola, aggiunta a quella artigianale la quale probabilmente, vista la
sua stagionalità, non poteva essere ritenuta sufficiente al mantenimen-
to di famiglie così numerose. Con questa premessa, si spiega la pre-
senza di tutta una serie di documentazione atta al reperimento di terre
per la coltivazione, ma anche di vigne dal cui raccolto produrre del vi-
no e, nel contempo, l’elevazione inerente l’attività di mastri alla quale
andava aggiunta quella di possidenti o enfiteuti. Le loro innumerevoli
citazioni configuravano anche l’acquisizione di piccole casupole poste
nel nuovo borgo che si stava formando al di fuori della antiche mura
del castello, il quale proprio dal Cinquecento, ma soprattutto dal seco-
lo successivo, perdeva la sua naturale finalità di rocca difensiva per
assurgere al ruolo di villa o maniero di campagna della famiglia do-
minante.
Proprio per connaturare la realtà delle citate famiglie, giova ancora ri-
badirne alcune acquisizioni che sembravano elevarle, parimenti ad al-
tri mastri in altri tipologie artigianali, ad un livello che possiamo dire
intermedio all’interno della comunità dei vassalli. Quanto successo nel
XVI secolo vedeva, quindi, il suo naturale svolgimento anche in quel-
lo successivo, con Domenico di Ercolano della Spina che nel 1606 ac-
quisiva un terreno in località «Le Calcinare», zona posta nei pressi
delle già citate «Ponano» (dove nel 1610 Giacomo del quondam Leo-
ne acquisiva, tramite permuta, un terreno lavorativo scambiandolo con
una sua vigna in contrada «la Fontana») e «San Bartolomeo», il cui

199
Ivi, 1050, cc. 216r-218r.

88
toponimo potrebbe rimandare alla presenza in loco di uno o più pozzi
nei quali si cuoceva la calce200; allo stesso modo Pietro del fu Leone
era citato riguardo l’elargizione di alcuni censi (nel 1610) o per la re-
trocessione di una vigna in località «Poggio del pastine» (nel 1616)201.
Queste indicazioni indirettamente raccolte, inerenti l’esistenza dei for-
naciai quali attori principali in questo periodo nella lavorazione arti-
gianale “castellese”, ci forniscono solo dei termini cronologici, mentre
erano purtroppo poche quelle chiaramente legate alla lavorazione stes-
sa. La presenza dell’artigianato risultava così solamente espressa nei
molti attestati e citazioni del mestiere o per qualche commessa prodot-
ta a partire dagli anni settanta del Cinquecento. Rifacendosi alla con-
vocazione del 1576 da parte della autorità orvietane, si presupponeva
esistessero a Castel Viscardo quattro fornaciai distinti, ossia i più volte
citati mastro Leone e mastro Domenico (sui quali molte annotazioni si
trovano nel coevo registro battesimale e per i loro eredi nel notarile),
Giovannino (probabilmente riconducibile a quel «Giuvanne» che nel
1570 era segnalato tra gli oblatori della compagnia del Corpo di Cri-
sto) e Antognaccio (anch’esso probabilmente riconducibile ad Anto-
nio del Nicchio, ritrovato dal 1572 e citato, più tardi, anche per la
commessa alla chiesa di San Lorenzo); il discorso sembrava poi com-
pleto con il coevo arrivo dei vari rappresentanti del contado perugino,
in particolare da Spina per i mattoni e da Marsciano per le pignatte.
Nel caso dei laterizi, con l’arrivo dei figli di Ercolano della Spina,
stanziatisi a Castel Viscardo in un periodo ascrivibile alla metà degli
anni ottanta del Cinquecento, si potrebbe parlare di un fenomeno che
sembrava oltrepassare i soli confini del mero artigianato, tanto che
dalla stessa località era giunto anche un cappellano o rettore, proba-
bilmente al seguito della colonia del suo paese, tale don Mariotto Ma-
200
Ivi, 1053, cc. 91r-92v, 274rv. Come testimoniato dalle fonti successive, questa fa-
miglia detenne delle proprietà in questa zona per svariato tempo, anzi gli eredi ne am-
pliarono l’estensione (si veda L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 52-53 e
ASRM, ASV, 407, che contiene l’atto denominato «Scritture, e notizie diverse con-
cernenti il Terreno posto nel Territorio di Castel Viscardo in luogo detto le calcinare
venduto da Domenico della Spina al Signor Marchese Orazio Spada» del 1650). La
stessa zona, nel 1622, si diceva essere ubicata nei pressi dei beni della famiglia Si-
moncelli e della chiesa di Castel Viscardo, anche se in territorio di Viceno (si veda
ASO, ANM, I versamento, 1609, cc. 140v-141v della I cartulazione; 2231, protocollo
Bernardino Rosinini, c. 62r).
201
ASO, ANM, I versamento, 1053, cc. 284v-286v, 381v-382r.

89
gio della Spina che battezzava nell’allora chiesa parrocchiale di San
Bartolomeo dal febbraio del 1593 sino al 1597202,
I tre fratelli, Pascuccio (sposatosi con Faustina), Antonio (sposato con
Solimanda di Astolfo) e Domenico (detto Menicuzzo o Menico, spo-
satosi da prima con Doralice e poi con Lorenza del Piccino), e i loro
eredi, soprattutto Francesco di Menicuzzi (nato a Castel Viscardo l’8
febbraio 1596203 e unitosi in matrimonio con Eugenia figlia di Giusep-
pe e Domenica di Ficulle), seppero giocare un ruolo da protagonista
nel corso del Seicento, tanto che la loro storia personale si intrecciava
con quella degli altri interpreti del settore (basti dire che la madrina di
battesimo di Francesco era una figlia di Giacomo di mastro Leone),
discendenti a loro volta dei primi fornaciai ritrovati nella seconda me-
tà del secolo precedente.
Oltre a tutti i riferimenti dati, che comunque connotavano una realtà
tutt’altro che immobile che vedeva come protagoniste le citate fami-
glie, nel corso del Seicento le fornaci di Castel Viscardo cominciava-
no a fungere da indicativo toponomastico, assurgendo al ruolo di rife-
rimento delle zone nelle quali si trovavano stanziate; si deduceva così
come, da una semplice locazione, potessero trarsi importanti riferi-
menti sulla presenza dell’artigianato. Era il caso dell’affitto di una vi-
gna, posta nella contrada detta «la fornace di Pascuccio», conferito nel
1614 dalla signora Faustina, vedova del citato Pascuccio, a tal Dome-
nico del fu Cristoforo di Orvieto204.

202
APCV, n. 1, cc. 48v-63r.
203
Ivi, c. 58v. Nel suo atto di battesimo si legge: «Francesco di Menico de Arcolano
dalla Spina figliolo ligitimo e naturale di Donna Doralice sua consorte fu batizato per
me Don Mariotto Magio sua Comare Donna Maria de Jaco de Mastro Lione, suo
Compare Orsino de belardo tuttj dal Castello»
204
ASO, ANM, I versamento, 1607, c. 170rv. Pascuccio, da quanto risulta da alcuni
confronti notarili, era venuto meno dopo l’anno 1611, quando nel mese di marzo ave-
va svolto la funzione di testimone in un atto riguardante un certo Giovanni figlio del
fu Antonio Perugino, abitante di Torre Alfina, circa una abitazione a Bolsena posta
nella contrada denominata «la Piazzetta di Sancta Cristena», mentre i fratelli Antonio
e Domenico era ancora in vita nel 1621 e nel 1623 (si veda nel I versamento, 1609, cc.
11v, 201rv della I cartulazione e cc. 1rv, 17r della II cartulazione). Nel 1612, un altro
della stessa famiglia, Tommaso figlio di Antonio «da la Spina» era pagato per un la-
voro svolto in Orvieto: «ritrovare laqua de la fontana de la birichella» (si veda nella
Miscellanea atti giudiziari, 45/7, 493).

90
Questa fornace, da alcune definizioni riprese da un atto riguardante
dei confinanti, poteva trovarsi nella zona detta «alla Selciata», dove
effettivamente sembrava essere ubicata quella che era definita «la for-
nace di Pascuccio», tanto che nella sua indicazione si proponevano le
due denominazioni come sinonimi. In effetti, proprio in quel dato ter-
ritorio avevano delle proprietà anche Domenico di Giacomo (nipote di
mastro Leone) e Giovanni di Giacomo detto Guerrino, anch’egli un
fornaciaio, oltre ad essere nei pressi di quelle che erano «le Terre delle
Trobbe», vicino e ai due lati delle strade pubbliche che andavano a
Monterubiaglio e Orvieto205.
In questa zona, Pascuccio aveva delle proprietà nei pressi del fosso e
dell’omonima contrada (come detto l’area di più antico insediamento
delle fornaci nel borgo, dove i suoi eredi erano citati come confinanti
anche nel 1623), possedimenti che gli erano stati conferiti nel 1596:
«[...] un pezzo di un quartengo in circa posto nel territorio di Castel
Viscardo in contrada la Caprareccia vicino alla strada che va a Monte
Rubiaglio, e da piede il fosso, e li beni delle Trobbe, ad effetto di
piantarvi vigna con l’annua risposta della quarta» e nel 1597, quando
acquistava una piccola casupola in rovina, nella quale potrebbe aver
impiantato o ripristinato la sua fornace. Questo perché nell’atto non si
parlava della presenza della stessa, ma prettamente di alcune specifi-
cazioni legate alla venditrice, ossia una certa Livia del fu Andrea
«Gratij», che alienava la sua proprietà secondo le nuove norme dello
statuto di Castel Viscardo (che sembrava aver conferito dei privilegi
alle donne anche se nella redazione dell’atto questa era stata assistita
da un parente in linea diretta, in questo caso il cugino Battista di Bri-
zio)206.

205
Ivi, I versamento, 2234, protocollo di Alberto Mussi, c. 36v. In un coevo atto del
1627 erano nominati congiuntamente sia Giovanni del fu Giacomo Guerrini che Do-
menico del fu Giacomo «alias Pericolo» come parenti prossimi, per via materna, di
una certa Bartolomea figlia del fu Ventura e vedova del defunto Domenico del fu Mu-
zio (si veda lo stesso volume, protocollo di Pasqualino Marini, c. 1rv). Giovanni era
indicato con il soprannome di «Guerino» anche del 1644, in un documento riguardan-
te lui e suo figlio per la istituzione di un censo (si veda nel I versamento, 2233, I parte,
c. 7v).
206
ASRM, ASV, 399/2; ASO, ANM, I versamento, 1052, cc. 137v-138v; 1609, c.
215v della I cartulazione.

91
Anche il fratello Domenico sembrava detenere una fornace in solidum
con tale mastro Genio, in una zona non specificata. Nel giugno del
1624, prima di cuocere quanto prodotto e per fissare preventivi accor-
di, i due stabilivano delle condizioni circa «la cotta di fornace che al
presente fa di lavoro di mattoni» e il prescritto pagamento dell’affitto.
Definendosi «compagni», i due stabilivano precise clausole da osser-
vare, onde non venire a dispute in seguito, accordandosi con tanto di
atto scritto dal notaio Giovanni Battista Bernasconi. In questo si san-
civa l’obbligo da parte di Domenico di lasciare «nella fornacia […]
Migliaia dodici di lavoro Crudo» (da prodursi insieme da parte degli
interessati) e di pagare metà dell’affitto (ammontante alla somma di
tre scudi). Per la legna necessaria si prescriveva: «debbiano essere
communi cioè ognuno sia obbligato fare la parte sua come anco Con-
durle, e cotto che sarà il lavoro si debbia partire communemente»; dal
canto suo, mastro Genio si impegnava per la sua parte di fornace, «che
minaccia Ruvina», di risarcirla a proprie spese, senza nessuna costri-
zione nei confronti di Domenico207.
La realtà era difficilmente delineabile, soprattutto se si pensa al fatto
che la maggior parte delle proprietà risultavano essere della famiglia
della Corte la quale le gestiva affidandole ai vassalli (terreni, vigne,
fornaci e abitazioni), richiedendone un canone che molto spesso con-
sisteva nella terza o quarta parte di quanto raccolto o del prodotto. Che
la fornace non sia stata di proprietà di Domenico lo si potrebbe evin-
cere dal suo testamento, rogato il 10 aprile 1639, nel quale non era
chiaramente denominata e dove lo stesso, nonostante i molti anni tra-
scorsi a Castel Viscarco, era ancora indicato come «Dominicus quon-
dam Herculani de Spina Comitatus Perusia». Tramite questo atto,
Domenico, sentendo vicina la fine dei suoi giorni, lasciava disposizio-
ni circa il suo importante patrimonio, da dividersi tra la società del
SS.mo Sacramento, della quale era membro (un terreno lavorativo «in
Territorio dicti Castri loco detto alle Trobbe» col patto che con i frutti
fossero celebrate tre messe annue per la sua anima), suo figlio mag-
giore Francesco, avuto con la prima moglie (una casa posta «intus Ca-
strum», composta di sette stanze su più piani nei pressi del «fosso, ò
muraglia del Castello, avanti la strada publica», da lui acquistata in
passato dai signori Bacci), e i minori, di secondo letto, Andrea (due

207
ASO, ANM, I versamento, 1609, c. 249rv.

92
stanze ancora all’interno del castello, uno «stabulum» e una piccola
vigna, posta in «loco detto alla fontana», con arboreto), Giorgio (una
casa nel suburbio, una vigna sulla via che conduceva a Orvieto, che
doveva rispondere al signor Giovanni Battista Veralli, e quella che era
definita «tutta l’impresa, già cominciata, cioè tutte le maiese nel ter-
mine, che al presente si trovano, e tutto il guadagno, et utile sino ad
hoggi») e Caterina (una terra in «loco detto alla Stradella» e una vigna
alla «fontana», confinante con l’arboreto lasciato ad Andrea, come sua
dote, alla quale raccomandava la cura dei fratelli). In comune, ai tre
figli maschi lasciava anche una terra lavorativa posta nel luogo deno-
minato «alle Calcinare» e il precetto di sovraintendersi tanto che, se
uno di loro avesse mal gestito, i fratelli avrebbero potuto avanzarne
richiesta e i relativi frutti208. Come detto nessuno accenno era fatto alla
fornace ritenuta insieme a mastro Genio, se non a una mera “impresa”
non specificata, il cui lavoro già pronto e i relativi frutti erano donati
al figlio Giorgio.
Poco prima della morte di Domenico della Spina, un riferimento certo
alla presenza di una fornace come luogo sicuro di sua erezione, si a-
veva nel 1631, anno nel quale la generazione sopra di essa era acquisi-
ta da un certo mastro Domenico Brongrossio (Bongiossi o Buongione)
stipulando un accordo con il signore e padrone Giovanni Battista Ve-
ralli. Nei documenti del tempo, dai quali traspare una sua notevole re-
alizzazione di opere costruttive nel borgo, soprattutto al di fuori della
mura, in quello che all’epoca era indicato come “suburbio”, il murato-
re era spesso segnalato come mastro Domenico Bongiossius «faber
murarius», originario della terra di Morbio, paese allora nella diocesi
di Como, oggi addirittura nel Canton Ticino209. Questi, il 16 gennaio

208
Ivi, 2234, protocollo di Alberto Mussi, cc. 63v-66r. Poco dopo la morte del padre,
Andrea «de Menicuccio» del quondam Domenico della Spina acquisiva una abitazio-
ne con cellaio da Claudio del fu Federico «de Malanotti»; nel 1657 era citato quale
testimone in un atto (si veda lo stesso volume, ma ai protocolli dei notai Marsili, cc.
20r-21r, e Salvagni, c. 78r). Nel 1648 Caterina stabiliva un compromesso con i tre
fratelli circa la divisione dei beni familiari (II parte del notarile 2233, c. 54rv), tra i
quali si annoverava anche la proprietà alle «Calcinaie», tre terreni (due di Francesco e
uno di Giorgio), stimati nel 1648 e venduti a Orazio Spada negli anni successivi (si
veda il protocollo Rosanini, 2231, cc. 1r-3v, 11v-12v, 62r-64r, e ASRM, ASV,
407/15).
209
Ivi, 2234, protocollo di Alberto Mussi, c. 29r. Da registrare come dalla stessa loca-
lità provenissero i muratori che eressero la nuova chiesa di S. Maria Nova nella vicina

93
1631, per gli atti del notaio Antonio Jacobo Castellano, aveva acquisi-
to a quarta generazione un pezzo di terra lavorativo e una fornace siti
«in Pleberio Castri Viscardi [...] in Contrada, ut dicitur della Selciata,
ò vero la fornace di Simonino». La generazione era da ritenersi com-
pleta, ossia da principiarsi con Simone, il figlio di mastro Domenico,
con precisi patti per il muratore di edificare una stanza contigua alla
fornace per il servizio della stessa, piantare delle viti e alberi da frutto
(entro due anni), oltre al pagamento annuale di 4 scudi, da saldarsi o-
gni anno nel giorno della Natività di Gesù Cristo210. Nonostante le in-
tenzioni, il figlio non conservava la gestione della detta fornace, anzi
sembrava aver voluto seguirne le ombre nella carriera costruttiva, non
senza alcuni problemi, per i quali nel 1646 il padre dovette sostituirlo
in quel di Orvieto nell’atto di stilare la pace con un altro muratore,
mastro Giulio Piciarelli211.
Dopo pochi anni, la gestione della fornace acquisita da Domenico Bu-
gnossi, altrimenti descritta «in loco detto alle fornaci, sive alla Selcia-
ta», con ingresso dalla via pubblica, passava per cinquanta scudi e con
il consenso del Veralli, a Francesco di Domenico del quondam Erco-
lano della Spina e a sua moglie Eugenia Zecchino, figlia del quondam
Giuseppe e di Domenica, originari di Ficulle. Nell’atto di passaggio
(20 dicembre 1638) si indicavano come realizzate le clausole imposte

Ficulle. I capomastri Jacopo e Battista Catenacci, figli del quondam Baldassarre,


anch’essi originari di Morbio, ricevettero, tramite strumento notarile del 18 agosto
1605, l’incarico di erigerla secondo il progetto e i dettami del famoso architetto orvie-
tano Ippolito Scalza. Si veda, sempre nel primo versamento del notarile, il protocollo
497, da c. 178r; e, ancora, E. Pandolfi e I. Graziani, Una nuova chiesa “in commodum
populi”: Dalla fondazione all’erezione ad insigne Collegiata, in Una Chiesa come
identità e memoria: La Chiesa di Santa Maria Nuova in Ficulle nel quarto centenario
della sua fondazione, a cura del GruppoStoriaFiculle, Ficulle 2012, pp. 49-76; in par-
ticolare p. 58, o, nello stesso testo, A. Miscetti, Santa Maria Nuova, un tempio civico
per una comunità, pp. 183-204; in particolare pp. 186-187. Un Catenacci, mastro Pie-
tro muratore, era presente a Castel Viscardo all’inizio del 1590 (si veda il 1050, c.
225v). Circa cento anni dopo, anche i lavori della nuova chiesa parrocchiale di Castel
Viscardo saranno portati a termine da manovalanza proveniente dal Nord. Nei «Capi-
toli con Muratori per la fabrica al Borgo 1689» si trova, infatti, un accordo con tal
mastro Paolo Beretta bergamasco, che lo sottoscriveva con croce il 24 agosto, incari-
cato di terminare la facciata del nuovo tempio (si veda, ASRM, ASV, 421, da c. 18r,
ma anche L. Giuliani, Nel mio piccolo loco, cit., p. 88).
210
ASO, ANM, I versamento, 2234, protocollo di Alberto Mussi, cc. 31r-32v.
211
Ivi, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 115/14, 189.

94
al momento della stipula del precedente contratto (c’erano state le ri-
chieste piantagioni e la costruzione di una stanza ove poter riporre gli
utensili e le masserizie «ad usum fornacis») e fissato l’onere del pa-
gamento del canone annuale dovuto per la generazione da parte del
nuovo enfiteuta212. I soldi necessari per l’acquisto era stati recepiti dal-
la dote della madre di Eugenia, la quale nel suo testamento del 1644
stabiliva di voler donare definitivamente la somma alla figlia «Ma-
donna Eugenia sua figliola, e moglie di Francesco Menicuzzio habi-
tante al Castel Viscardo» che negli ultimi anni della sua vita l’aveva
accolta nella sua casa; la somma era stata spesa: «nella fornace com-
prata con detti denari della Dote di detta Testatrice da mastro Dome-
nico Brughossio muratore come ne appare instrumento publico come
disse rogato per Messer Alberto Mussi già Podestà di questo Castello,
ne vole, che alcuno la possa molestare ne inquietare sopra detta forna-
ce, ma che sia sua libera, et la possa godere, et di quella dispore a suo
gusto, et volontà, et tutto questo come sopra per gli oblighi, che lei
deve a questa sua figliola». Oltre ad avere reperito i soldi per ottenere
la generazione sulla fornace, la stessa donna godeva, come da inventa-
rio redatto nel 1638, di buon patrimonio personale composto da una
notevole quantità di beni mobili e di arredi, la cui lista era redatta in
atto della loro riconsegna operata da Domenico Spina; tra questi vi era
tutto ciò che riguardava il corredo da notte, per la tavola o la cucina,
asciugami, «forzieri da Donna», una lucerna a olio, pentole, vestiario e
alcuni animali da cortile. Proprio su questo piccolo patrimonio, assicu-
rato allo sposo dopo il matrimonio insieme ad altre garanzie richieste
all’uomo (come stabilito con atto notarile nel 1633) e che ipotecava i
possedimenti del padre Domenico a favore della sposa, la coppia riu-
sciva ad ottenere una abitazione su più piani, posta nel borgo del Ca-
stello in «loco detto la Porcareccia, sive la Strada della Fontana», e
delle terre nella stessa zona della fornace, assicurandosi così una ren-
dita dietro un corrispettivo annuale e la quarta parte di quanto prodot-
to. Tali beni erano ubicati nelle cosiddette «Terre delle Trobbe», spet-
212
Ivi, ANM, I versamento, 2234, protocollo di Alberto Mussi, cc. 27v-32v. Confer-
ma dell’avvenuto patto e dei successivi pagamenti, con tanto di chiamata in causa
Giovanni Battista Veralli, il reale proprietario della terra e fornace, si avevano in due
atti del 19 aprile e 12 ottobre dell’anno successivo. La notizia del passaggio del diritto
enfiteutico del 1638 sulla fornace della «Selciata» è confermata anche in ASRM,
ASV, 379/26.

95
tanti a Domenico (padre di Francesco), nei pressi dei beni di Domeni-
co di Giacomo (con il quale era già arrivato a una divisione) e a quelli
della Corte (posseduti da Cesare di Giomo e dagli eredi di Domenico
di Cesare detto «Meiarello»); inoltre, possedeva un arboreto con terra
lavorativa in «loco detto alla Selciata, o sij la la fornace di Pascuccio»,
nei pressi dei beni di Domenico di Giacomo, le terre «delle Trobbe»,
Giovanni di Giacomo detto Guerrino, le strade che andavano a Orvie-
to e Monterubiaglio e «da piedi il fosso»213.
Nell’analisi degli atti inerenti la descritta zona di insediamento delle
fornaci a Castel Viscardo, troviamo, quindi, oltre all’indicazione dei
vari fornaciai, che confermavano nei loro discendenti gli attributi fa-
miliari, numerose testimonianze date anche dalla sola e mera indica-
zione dei confini. Nella stessa superficie, ossia nei dintorni di quello
che una volta era il fosso detto «Le Trobbe», esistono ancora oggi ben
quattro aziende a testimoniare come la tradizione si sia protratta nel
tempo tanto da consegnarci, oltre alla tecnica manuale, anche lo stes-
so insediamento artigianale quale “reperto storico” dell’artigianato.
Uno dei primi documenti che citava esplicitamente le fornaci presenti
e i loro gestori (entrambe erano, infatti, di proprietà della Corte), ri-
sultava essere il catasto redatto dal podestà Giovanni Battista Marsili
nel 1641 (l’anno della morte di Giovanni Battista Veralli). Tra le varie
annotazioni, erano registrate due fornaci, la prima affidata a France-
sco de Mennicuccio, ossia quel Francesco figlio di Domenico della
Spina e marito di Eugenia che aveva acquisito la generazione da ma-
stro Domenico muratore; l’artigiano pagava annualmente quattro scu-
di di canone. Una seconda fornace era ritenuta da Domenico de Jaco

213
Ivi, 2233, I parte, cc. 11v-14r. Un nuovo atto circa l’affitto di questa fornace, ora
definita anche «di Zecchino Menicuzzio», fu fatto nel 1646. Vedi la II parte di questo
stesso volume alla c. 27r e si veda anche l’indice dello stesso. L’inventario di Eugenia
e l’assegnazione dei diversi beni si trovano nel protocollo Mussi del volume 2234, cc.
22v-24r, 36r-38r. Nel 1644 Francesco di Domenico imponeva un censo sopra una sua
proprietà sita all’Alfina, dove confinava con i beni della chiesa di Santa Caterina di
Castel Viscardo, del fratello Giorgio Menicuzzi e del signor Antonio Simoncelli; inol-
tre, aveva delle proprietà anche nella zona detta «La Grotticella». Lo stesso anno, la
confraternita del Sacramento ne retrovendeva un altro imposto ancora da Domenico
sulla sua proprietà alle «Calcinaie» (si veda ancora nel primo versamento del notarile,
2233, I protocollo, cc. 6r-7v, 19v-20v, 31r, 36r-37v). Sull’eredità di Eugenia e sulla
sua origine di Ficulle, si veda anche un atto del 1649 in ASO, ANM, 2231, protocollo
di Bernardino Rosonini, cc. 64v-65r.

96
(Giacomo) che da par suo corrispondeva un canone di uno scudo e
sessantadue baiocchi e mezzo214. Le due fornaci erano inserite anche
in computo amministrativo della famiglia feudataria, di poco succes-
sivo la metà del secolo XVII, tra le tante proprietà sotto la gestione
dei nuovi marchesi Orazio Spada e Maria Veralli (figlia di Giovanni
Battista); esse rendevano annualmente un canone complessivo, con le
annesse terre, di sette scudi e venticinque215.
Nel territorio alle segnalate deve essere necessariamente aggiunta
quella del podere della «Torricella» (menzionato nel 1682 come il
«Podere della fornace» in un ristretto inerente le vigne della corte date
in enfiteusi o a «soccità»), come detto nella giurisdizione territoriale
di Viceno, castello contiguo acquisito dal marchese Orazio Spada solo
nel 1646216. Inoltre, nonostante nel citato catasto non risultassero altre
fornaci, sovente nella documentazione si ritrovano denominazioni to-
ponomastiche che rimandano a contrade o a zone definite in base alla
presenza o meno di una esse. Queste potevano mutare in corrispon-
denza di coloro che ne assumevano la gestione, come era per quella
acquisita da Francesco e Eugenia che nell’atto del 1631 si definiva «la
fornace di Simonino», che potrebbe riferirsi a Simone (nato nel 1577),
uno dei figli di quel Domenico fornaciaio di cui abbiamo notizia dal
1572 e già morto nel 1590, lasciando gli eredi in età minore, tanto che
per la gestione del loro patrimonio o per connesse acquisizioni dovet-
tero ricorrere a un tutore217. In questo stesso discorso, possono anche
configurarsi i ragionamenti già fatti riguardo «la fornace di Pascuc-
cio», l’artigiano proveniente da Spina insieme ai suoi fratelli e, quin-
di, la cosiddetta «fornace di Guerrino» (così come era soprannomina-
to un certo Giovanni di Giacomo), richiamata in una testimonianza di

214
ASRM, ASV, 392/5, cc. 2v, 7r. Il citato dovrebbe essere quel «Domenico de Jaco
de Mastro Lione figliolo ligitimo e naturale de Donna Antonia sua Consorte dal Ca-
stello» che nasceva a Castel Viscardo e dove era battezzato il 18 febbraio 1596; un
suo fratello omonimo era nato già nel 1587 (si veda, APCV, 1, cc. 30v, 59r).
215
ASRM, ASV, 421, c. 169r. Per una analisi più dettagliata dei due catasti si veda L.
Giuliani, Nel mio piccolo loco, cit., pp. 64-66, 68-71.
216
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., p. 75.
217
Per le date citazioni si veda APCV, 1, cc. 2r, 5v. ASO, ASCO, Miscellanea atti
giudiziari, 106/14, 74, e ANM, I versamento, 1050, cc. 219r-220r.

97
Antonio di Francesco Menicuzzi per indicare il luogo fisico ove aveva
assistito a una violenta lite con tanto di percosse con un bastone218.
Nel catasto del 1641 era anche presente una annotazione circa la lavo-
razione delle pignatte, artigianato che nella seconda metà del Cinque-
cento sembrava essere di completo appannaggio dei mastri originari
di Marsciano, ossia un riferimento agli eredi di un certo «mastro Luca
pignattaro»219 (probabilmente Mancinetti), morto nel 1639. Dopo la
sua scomparsa, a norma di quanto prescritto dallo statuto, i suoi figli
minori (Francesco, Ciriaco, Agostino, Eufemia e Eleonora) facevano
istanza affinché fosse redatto un corretto inventario di tutti i beni
dell’eredità. Questa si componeva di quanto rinvenuto all’interno
dell’abitazione del mastro, ossia diversi beni mobili (lenzuola, tova-
glie, vestiti, salviette, panni, abiti, ma anche «scritture» diverse e al-
cuni anelli e vezzi), animali (pecore e capre prese in «soccità», quindi
non di proprietà, ma affidate per un tempo determinato dietro il pa-
gamento di un corrispettivo) e stabili, ossia un «cellaio» all’interno
del castello e una casa nel «Borgo», con due stanze al primo piano e
altrettante a pianterreno (in una zona che potremmo circoscrivere nei
pressi della ex chiesa delle confraternite dedicata a sant’Agostino). Le
camere erano utilizzate come «bottega di fornace», una per lavorare e
l’altra per cuocere per la quale, con la contigua vigna, pagava «il
quarto» al marchese Giovanni Battista Veralli. Rispetto alla fornace,
si indicava al suo interno la presenza di stracci e diversi altri manufat-
ti (pignatte o brocche) da cuocere o già cotte. Nella stessa bottega si
trovavano due ferri (o coltelli) con i quali si «batteva» la terra, due
torni realizzati in noce, diverse tavole utilizzate per il lavoro o per
cuocere le stesse pignatte, oltre ad altro materiale già realizzato che
ammontava quasi al quantitativo necessario per una «cotta». Circa un
anno dopo, i beni dell’eredità Mancinetti erano consegnati a Giulio
Cesare e al figlio di questo Vincenzo, originari di Marsciano, che
nell’occasione assumevano il ruolo di tutori e curatori dell’eredità220.

218
ASO, ANM, I versamento, 2233, II parte, c. sciolta tra 42v e 43r. Un caso simile
si verificava nel 1610, quando Giovanni Battista Mariotti di Collelungo denunciava
Vincenzo di Sevio di Todi, a suo dire reo di averlo colpito con un mattone (si veda
nella Miscellanea atti giudiziari, 82/11, 15).
219
ASRM, ASV, 392/5, c. 9r.
220
ASO, ANM, I versamento, 2234, protocollo di Alberto Mussi, cc. 59r-61v, e pro-
tocollo di Giovanni Battista Marsili, cc. 5v-6v.

98
La presenza di questo artigianato, in quantità minore rispetto a quello
dei laterizi, se si confronta il mero numero di indicazioni ritrovate nel
corso del Seicento, era testimoniata anche dall’analisi di alcuni inven-
tari di personaggi più o meno facoltosi o degli stessi mastri del borgo.
Su tutti giova ricordarne uno interessantissimo inerente i beni del de-
funto mastro Egidio di mastro Matteo, ritrovati nella sua casa posta al
«Renaro»; in esso, si enumeravano in rapida sequenza molti pezzi di
materiale fittile, tra cui: orci, scodelle, piatti, conche, pignatte, piccole
brocche, barattoli, boccali (con «l’arme»), tegamini e vasi per tenere
l’acqua santa di terra(cotta); boccali, piatti di diversa misura (anche
con «l’arme») e tazze di maiolica; piccole brocche e «truffe» di terra
nera, dandoci uno spaccato, oltre che di una possidenza non comune
(riteneva abitazioni, numerose terre e una bottega con tanto di libri
contabili), di quanto prodotto, probabilmente in loco, nel periodo:
manufatti realizzati in terracotta, maiolicati, alcuni dei quali addirittu-
ra dipinti221.
Nello stesso periodo questo artigianato era presente anche a Ficulle,
paese al quale ancora oggi si riconosce una tradizione ben consolidata
nel campo, tanto che esistono e sono funzionanti diverse aziende im-
piegate nel settore. Tra gli antenati di queste esisteva tale Marco «pi-
gnattaio» che nel 1639 era querelato da Genonimo Fausti per avergli
causato, in atto di cuocere il suo materiale, dei danni al tetto della ca-
sa adiacente alla sua fornace, sita «nel borgo di Ficulle»222.

3. Dispute, contratti e accordi con il signore del Castello: le forna-


ci di Castel Viscardo dalla seconda metà del Seicento al Settecento
Dopo l’analisi dei fornaciai presenti, corredata da catasti, elenchi di
beni e riferimenti notarili, con tanto di definizioni della posizione di
alcuni impianti istaurati nel territorio castellese, nel corso del Seicento
trovavano ampio risalto anche alcune questioni inerenti accordi, con-
venzioni, prezzi e tipologia del materiale che investivano direttamente
gli artigiani e il nuovo signore del Castello. Dopo la morte di Giovan-

221
Ivi, 1609, cc. 218r-235v; il testamento del mastro si trova nello stesso protocollo
alle cc. 123r-129v. Tra i debitori del defunto risultava anche Antonio della Spina per
uno stato di grano del valore di uno scudo e venticinque baiocchi (c. 233r).
222
Ivi, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 19/3, 101.

99
ni Battista Veralli, il possesso passava a Orazio Spada, sposo di Maria
Veralli, personalità forte e risoluta che da subito si adoperò in diversi
lavori nel piccolo borgo. A tal proposito, al 1646 risaliva una piccola
disputa della quale lo stesso Orazio si lamentava con il podestà Fran-
cesco Salvagni, circa alcune incomprensioni insorte con i fornaciai
del luogo. L’oggetto era il prezzo del materiale che gli artigiani vole-
vano fornire a prezzo fermo, mentre il marchese, strumenti notarili
alla mano, come quello della generazione data sulla fornace della
«Torricella» in territorio di Viceno, manifestava aver diritto di acqui-
stare a sconto, sia per la sua fornitura di legna che per il diretto domi-
nio che esercitava sulle fornaci istaurate sulle sue terre223. L’anno
successivo, lo Spada siglava un nuovo accordo (convenzione) con i
fornaciai del Castello, rappresentati da Francesco del quondam Do-
menico, Domenico di Giacomo e Giovanni di Giacomo «alias Gueri-
no», per la vendita di canali o di altro materiale prodotto ad un prezzo
minore di cinque baiocchi rispetto a quanto comunemente convenuto;
gli artigiani si impegnavano, inoltre, a destinare alle sue esigenze una
parte del prodotto a partire dalla prima «cotta» annuale di ogni forna-
ce224. Nel contempo, il marchese li riforniva della legna necessaria al-
la cottura, stabilendo come voce in entrata nella sua gestione quella
inerente l’introito percepito. Ogni fornace di Castel Viscardo pagava
sette scudi per ogni «cotta» realizzata, eccetto quella posta «al Poggio
di Guerrino» che ne pagava uno in più; quelle di Viceno ne pagavano,
invece, cinque. Inoltre, la legna era fornita anche per la cottura dei
pozzi di calce, dai quali si riscuoteva la quarta parte e dieci vetture225.
Come logico aspettarsi, nonostante le regolamentazioni date, la que-
stione non era pacifica, tanto negli anni seguenti erano emanati dei
bandi e ordini intesi a limitare abusi sull’utilizzo della legna, stabilen-
do dovesse essere usata quella morta, quella derivante dallo sfolti-
mento delle piante o dove non vi fosse frutto. Allo stesso modo, nel
1677 Orazio ordinava una rigida vendita della legna, ancora allo sco-
po di limitare le frodi, ossia: «impostare la legna e contarla a passi,
223
ASRM, ASV, 286, p. 88. Nel 1666, secondo le informazioni date dal podestà Be-
nigno Sbaccante al suo signore, i prezzi del materiale per ogni migliaio di pezzi oscil-
lavano dai 5 scudi necessari per i canali, a 4,5 per i mattoni, ai 4 per i quadrucci, sino
ai 3,5 per le pianelle.
224
ASO, ANM, I versamento, 2233, II parte, cc. 31v-32r.
225
ASRM, ASV, 286/3, c. 5r.

100
per il prezzo di otto giuli a passo»: questa disposizione era applicabile
ai soli produttori di mattoni, mentre per quelli di calcina rimanevano
le dieci some di materiale di buona condizione226.
Nel 1708 era aumentato il dovuto per ogni cotta (nove scudi), per il
quale la famiglia del Castello forniva ancora il legname allo scopo di
cuocere le fornaci di mattoni e calce; erano segnalati gli alberi che era
possibile tagliare all’uopo, avvertendo che non ne fosse preso più del
necessario, onde evitarne l’illegale vendita in quel di Orvieto; il dovu-
to poteva essere pagato in denaro e, nei casi nei quali non era possibi-
le, anche «in robba»227.
Le diverse fornaci, oltre che per gli introiti dovuti ai canoni enfiteutici
e per le agevolazioni richieste più o meno velatamente, erano una vo-
ce costante nelle entrate della casa feudataria, soprattutto per il detto
rifornimento del legname necessario per la cottura. A cavallo tra Sei-
cento e Settecento l’introito della legna, in due diversi ristretti setten-
nali, ammontava sempre alla cifra di cinquanta scudi annuali. Esso
faceva parte di un piano ben più ampio di amministrazione che preve-
deva la gestione del feudo come una vera e propria azienda228, dove si
produceva annualmente grano in una ventina di poderi e nei terreni
della tenuta, più quello derivato dall’affitto dei molini, ma anche vino,
olio, fieno, orzo, misture diverse, “regaglie” di polli e capponi229.
Le fornaci sembrano connaturarsi come una realtà diffusa del luogo,
dove la stragrande maggioranza della possidenza, al netto di piccole
proprietà, era di diretto domino della famiglia dei marchesi. Gli abi-
tanti del Castello ritenevano dei beni irrisori se confrontati con
l’ammontare di quelli dei signori, i quali gestivano anche le materie
prime e, non da ultimo, la stessa libertà dei vassalli. Nonostante que-
sto, già dal Seicento, oltre alle due della famiglia feudataria, sembra-
vano esisterne delle altre gestite più o meno liberamente, come la cita-

226
Ivi, p. 19.
227
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., p. 93.
228
Sulla conduzione del feudo di Castel Viscardo come una azienda da parte della
famiglia Spada, soprattutto nella persona illuminata di Orazio, si veda il saggio di F.
Pace, Intraprendenza, onore e virtù. Il successo degli Spada signori di Castel Viscar-
do nei secoli XVII e XVIII, in «Bollettino della Deputazione di Storia Patria per
l’Umbria», Perugia, C/I (2003), pp. 185-209.
229
Collezione privata, Castel Viscardo, e Viceno, e Beni adiacenti, punto tredicesi-
mo: Ristretto di Entrate, et Uscite in molti anni, cc. s.n.

101
ta «fornace di Guerino» (anch’essa nella zona denominata «La Selcia-
ta»), i cui diritti inerenti la gestione erano venduti da Carlo del quon-
dam Giovanni Guerini ad Angelo del fu Ottavio all’inizio del 1662.
Nel documento si parlava della compravendita inerente «Una fornace
da Cuocer mattoni», tra l’altro, nei pressi dei beni di proprietà del
marchese Orazio Spada e la via pubblica230.
Rispetto alla famiglia dei venditori abbiamo diverse testimonianze
che ci riportano, almeno per la seconda metà del XVII secolo, a una
costante presenza nell’artigianato da parte dello stesso Giovanni o dei
suoi discendenti Carlo e Nardo. Nel 1646 quest’ultimo acquisiva una
abitazione su più piani nel suburbio di Castel Viscardo, nei pressi dei
beni di Giorgio Menicuzzi, e un terreno in contrada «le grottazze»; lo
stesso, tra l’altro, nel 1667 era ancora identificato come «fornaciaro
dal Castello» nella deposizione di un certo Pasquale d’Antonio circa
una mucca di colore nero231.
Allo stesso modo, la famiglia di Francesco e Eugenia, parimenti a tutti
i discendenti degli originari di Spina, in questo periodo cominciavano
a smaltire parte di quel patrimonio accumulato negli anni precedenti,
entravano sovente in causa con la loro possidenza non comune. Tra
l’altro, vendevano anche nei pressi della stessa «Selciata», nella pros-
sima de «le Trobbe» o in quella definita «Contrada la fornace», zone
dove possedevano anche gli eredi di «Guerrino» e Bernardino del fu
Lorenzo (arboreti, terreni, ma anche abitazioni in paese o censi), pos-
sessori limitrofi e fornaciai232.
Rispetto a quanto detto, ai possessori di fornaci alla «Selciata», nel
1723, in atto di affidamento di una generazione su un terreno a Dome-
nico Mortaiolo, si indicava come presente «un sito di fornace scarica-
ta»; tale impianto potrebbe ricondurre proprio all’insediamento gestito

230
ASO, ANM, I versamento, 2448, protocollo di Paolo Testa, cc. 40v-41v. In un atto
del 1682 Carlo Guerrini era comunque definito «mastro» (si veda il protocollo 2505,
c. 77r).
231
Ivi, 2233, II protocollo, cc. 10r-11r; 2355, p. 9. Se Giovanni detto Guerrino era
indicato come vivente in un atto del 1644, i suoi discendenti erano citati quali istituto-
ri di censi, confinanti in alcune vendite o come parti intervenute alla stesura degli atti
(si veda nel I protocollo dello stesso volume, da c. 7v, e nel III, cc. 95v-97r; 113r-
114r, 119r-120r, 145rv). Leonardo (Nardo), figlio del detto Giovanni, moriva a Castel
Viscardo nel 1686 (si veda APCV, 30, c. 44v).
232
ASO, ANM, I versamento, 2231, 55v-57r; 2233, III protocollo, cc. 2v-6v.

102
da Francesco Menicuzzi e Eugenia, i quali sembravano aver attraver-
sato alcuni problemi di natura economica tali che avrebbero presuppo-
sto l’abbandono dell’artigianato (anche se intorno al 1672, il loro fi-
glio Vincenzo si era ancora impegnato per la fornitura di lavori di for-
nace ai muratori Belardino Scaramuccia e Pietro Maggi da Giove),
piuttosto che verso l’adiacente gestita dagli eredi di Guerino che la
vendettero nel febbraio del 1662233.
Altra famiglia interessata era quella di Giacomo del fu Domenico Pe-
ricoli (indicato come fornaciaio, parimenti al padre, già dal 1657), ge-
store della fornace detta di «Riparotta», la stessa che nel 1663 era en-
trata nel novero di una dote quando l’uomo l’aveva ipotecata per otte-
nere i quaranta scudi da conferirsi a Raffaele del quondam Lorenzo,
unitosi in matrimonio con Lorenza del fu Domenico (sua sorella);
nell’atto si indicava l’impegno preso presentando come garanzia «una
fornace posta nel territorio di Castel Viscardo Contrada Riparotta»,
alla quale era annesso un terreno contiguo nei pressi dei beni di Orazio
Spada e di Vincenzo di Francesco234.
Tra la seconda metà del Seicento e i primi del secolo successivo, sem-
bravano affacciarsi nuove figure nell’artigianato, famiglie che si inse-
rivano nella tradizione, ottenendo generazioni sugli impianti presenti.
Nel 1688 era affidata per cinque anni «Una fornace à uso di cocer
mattoni» a Palmerino di Carlo del fu Medoro, originario di Allerona, e
Filippo del fu Domenico detto «Trefogliette» (figlio del citato Giaco-
mo Pericoli); si trattava di quella «in Vocabolo detto la Torricella»,
data a canone per la somma di otto scudi per ogni «cotta» da pagarsi

233
Ivi, 1533, cc. 89r, 114rv; 2355, p. s.n. (annotazione n. 17).
234
Ivi, 1528, cc. 274r-275v, 278r-279r. L’atto di morte di Giacomo si trova in APCV,
30, c. 45v. L’indicazione di Domenico del fu Giacomo Pericolo e di suo figlio Gia-
como come fornaciai di Castel Viscardo riguarda un censo da loro istituito sopra un
terreno «in loco dicto alle Trobbe», nei pressi della strada pubblica e di quella detta
«la strada di Riparotta». In questa zona, dove possedevano delle proprietà, Giacomo
intraprese degli atti di vendita, retrovendita o erezioni di censo con Francesco di Me-
nicuzzi, la moglie di questi Eugenia e il loro figlio Vincenzo (si veda il protocollo del
notaio Salvagni, 2234, alle cc. 54v-55v, 72r-73v). L’ipoteca sulla fornace si trova nel-
lo stesso volume, al protocollo del notaio Romano De Santis, cc. 37r-38r. Nel 1652,
Domenico detto «pericolo» del fu Giacomo vendeva a Orazio Spada un terreno posto
in zona dell’Alfina, al vocabolo «Campo pero napputo» (si veda la III parte del proto-
collo 2233, cc. 40r-41v); informazioni sulla compravendita si trovano anche in
ASRM, ASV, 358/387 e 379/95.

103
«volta per volta». Nel contempo, ottenevano una possibilità annuale di
«fare le legna nelle macchie della Torricella», mentre per le altre era-
no autorizzati a rifornirsi nei boschi di Castel Viscardo. I due erano
intimati a non subaffittare la fornace, se non ottenendo una speciale
licenza dal marchese, mantenendola in «buono stato, e lavorabile, e
non deteriorarla»235. Allo scadere della concessione (1692), il solo Fi-
lippo prolungava l’affitto, almeno di un biennio, riconfermando quasi
in toto le clausole prescritte. Lo stesso anno questa fornace era citata
nell’atto di locazione del solo podere, dato a Giovan Battista di Anto-
nio da Viceno, il quale, tra l’altro, era avvertito di non farvi avvicinare
i bovini che allevava; nel 1693 Filippo di «Pericolo», alias «Trefo-
gliette», era menzionato nel testamento di tal Carlo Girella del quale
era debitore di quattro scudi «per altretanti datili per prezzo di lavoro
di fornace» ordinato e, evidentemente, al momento non ancora realiz-
zato. L’ultimo contratto ritrovato rispetto alla fornace della «Torricel-
la» risaliva al 1699, quando era locata per sei anni ai fornaciai Vin-
cenzo del quondam Angelo «alias Mettinello» e a Salvatore di Loren-
zo detto «Buzico», i quali si impegnavano ad adeguarla con tetto, pa-
reti e pozzo e «altro necessario in simili fornaci», in modo da «fabbri-
carvi ivi il lavoro di fornace e quello in essa cocere conforme l’uso
dell’arte»; essi pagavano dieci scudi per la prima «cotta» e per le suc-
cessive nove, ossia il prezzo di utilizzo della legna da reperirsi nelle
macchie della Torricella e, quindi, di Castel Viscardo. Inoltre, se per
qualsiasi ragione non avessero potuto cuocere nell’arco di un anno,
non usufruendo del legname, erano comunque tenuti al pagamento di
due scudi236.
Sul finire di questo secolo (1690), Bartolomeo di Ottavio di Angelo
(detto anche «Mortaiolo») otteneva una concessione a terza genera-
235
ASO, ANM, I versamento, 1528, cc. 368r-369r.
236
Ivi, 1525, cc. 283rv, 294r; 1529, cc. 44rv, 57rv; 1529, cc. 179rv, 192rv; 1530, cc.
263rv, 278r. Nel frutto annuo di Casa Spada, redatto per l’anno 1705, il podere era
annotato solamente per il prodotto dato dalla macchia, dal prato, dalla vigna e dal gra-
no, ma non per quello della fornace (si veda Collezione privata, Castel Viscardo, e
Viceno, e Beni adiacenti, punto settimo: 1705 Frutto annuo di denari, che si riscuote
in Castel Viscardo, Viceno, e Poderi, c. s.n.). Palmerino di Carlo moriva nel 1696 (si
veda APCV, 30, c. 69v) dopo aver redatto il suo testamento; tra suoi vari beni posse-
duti risultavano presenti due «vascellari» di tavole affissi alle pareti contenenti diversi
piatti (si veda ASO, ANM, I versamento, 1530, cc. 83r-88v, nelle quali si trova la tra-
scrizione del suo testamento, del codicillo e dell’inventario dei beni posseduti).

104
zione sopra un terreno «prò usu fornacis» nella zona detta «Valle Mo-
ra»; di seguito (1695 e 1698), in alcuni notarili per la concessione di
appezzamenti nella zona detta «Poggio del Pastine, sopra viam detta
della Selciata», Vincenzo del fu Angelo Mittinelli era indicato come
confinante e ivi possessore di una fornace, che fungeva come indica-
zione di confine o di preciso inquadramento topografico237. Nel 1696
questa stessa fornace era venduta da Vincenzo di Angelo a Giovanni
Camillo Antiquo per dieci scudi e cinquanta baiocchi, al patto che en-
tro tre anni avrebbe potuto riacquistarla allo stesso prezzo, continuan-
do comunque a lavorarci e partecipando alle spese necessarie, otte-
nendo la metà del materiale cotto. Il tutto sembrava essere la diretta
conseguenza di un debito che Mettinello aveva contratto con l’altra
parte, dovuto a un asino vendutogli da Giovanni Camillo nel 1694 per
quattro scudi e mezzo. Nell’atto di vendita Vincenzo Mettinello di-
chiarava come tale fornace fosse di sua esclusiva proprietà, senza nes-
sun peso o onere, tranne il dovuto di otto scudi al marchese per la le-
gna da utilizzarsi per cuocere238.
Un’altra fornace ritenuta liberamente era quella di proprietà della fa-
miglia Sterpa, ossia quella di mastro Francesco che sembrava svolge-
re questo mestiere parimenti a quello di falegname. Questi, oltre ad
aver ricoperto importanti incarichi per la comunità, come «coltore» e
«camerlengo», era considerata persona degna di fiducia, se nel 1693
poteva permettersi di offrire le proprie garanzie per l’affidamento del
macello a Pietro Antonio di Giovanni Battista Uccelletto di Monteru-
biaglio. Lo Sterpa, in atto di redigere il suo testamento nella sua abi-
tazione «nella strada detta del Borgo di Castel Viscardo da fianco alla
Venerabile Chiesa di S. Agostino» (morirà nel 1696), tra le altre di-
sposizioni, stabiliva per i suoi eredi l’obbligo di donare delle somme
ai luoghi pii del paese, denaro ricavabile da una quantità di «lavoro di
fornace, ò di calce» a lui appartenuto; in particolare disponeva che en-
tro due anni dovessero essere donati per carità cinque scudi alla com-
pagnia del SS.mo Sacramento, uno a quella del Rosario, uno all’altare
del protettore San Giorgio (eretto nella chiesa di Santa Caterina e
Santa Maria) e un altro alla chiesa e altare di Sant’Antonio (eretta nel

237
ASO, ANM, I versamento, 1525, c.73rv e indice del protocollo; 1529, cc. 529rv,
560rv; 530v, 549rv; n. 1530, cc. 328rv, 347rv.
238
Ivi, 1530, cc. 134rv, 151r.

105
1650 «alla Selciata per andare à Orvieto»). Da quanto risultava dal
testamento, la fornace degli Sterpa si trovava «alle Trobbe», dove ma-
stro Francesco possedeva anche una vigna «sopra la sua fornace, con-
ticua alla Strada, che và à Monte Rubiaglio»; questa entrava nel nove-
ro del lascito, parimenti a tutti i suoi beni (mobili, immobili e stabili)
al «lavoro di fornace, pozzo di calcina con quella dentro quasi pieno»
e tutte le ragioni e crediti, di cui faceva eredi universali i figli Giusep-
pe e Valentino. A questi spettava anche: a Giuseppe una parte della
casa paterna «verso il bucone», la cantina e la bottega «con tutti li fer-
ri, e stigli d’arte di falegname» che vi si ritrovavano, perché «in detta
arte esercitato» più del fratello Valentino, al quale, toccava la sua par-
te di casa «verso la loggia» e una cantina al «Poggetto»; nel contempo
tutti gli attrezzi di campagna dovevano essere equamente divisi, men-
tre «la fornace di mattoni alle Trobbe, quale esso Testatore ordina, e
vole resti indivisa tra detti suoi figli acciò ogn’uno di loro habbi cam-
po di lavorare comunemente in quella d’accordo con l’altro à suo
tempo». Nel caso uno solo dei due avesse voluto lavorarci, il frutto di
tale impegno era da ritenersi il proprio, senza nessuna richiesta da
parte dell’altro. Le ultime prescrizioni erano per la nuora Eleonora
(nativa di Ficulle e moglie di Giuseppe) da risarcirsi (con denaro o
parte degli immobili) per un prestito accordato con il denaro della sua
dote e per il figlio Valentino il quale, se avesse imparato a lavorare il
legno e voluto mettersi in proprio, doveva ricevere dal fratello una
parte degli attrezzi lasciati239.

239
L’atto di morte del mastro si trova in APCV, 30, c. 69v, mentre il suo testamento
in ASO, ANM, I versamento, 1530, cc. 105r-106v, 125r-126r. La citata casa al «Re-
naio» era stata riacquistata nel 1674 (dopo essere stata venduta due anni prima) da
mastro Domenico del fu Vincenzo Cenciaroni di Allerona (tra l’altro confinava con
una di proprietà di Leonardo del fu «Guerrini») e lo stesso giorno rivenduta; tra
l’altro, su essa gravava un canone di una gallina all’anno da conferirsi nel giorno di
Natale al marchese Spada. Nel 1678 Vincenzo del fu Francesco «Minicucci» vendeva
una vigna, con tutti i miglioramenti apportati, a mastro Sterpa, la quale confinava con
un’altra di sua proprietà sita proprio a «le Trobbe» (si veda protocollo 2504, cc. 97rv,
128r; 98rv, 127r; 759rv, 764r). Per i suoi incarichi a servizio della comunità si veda
quanto riportato nel testamento di Carlo Girella (protocollo 1529, sempre del primo
versamento, c. 192r) e per la sicurtà data sul macello ASRM, ASV, 1123, cc. 23r-24v.
Lo stesso «Uccelletto» aveva, per l’occasione, stabilito il suo domicilio in casa del
mastro, rimanendo poi a Castel Viscardo e assistendo come testimone alla redazione
del testamento dello Sterpa (protocollo 1530, c. 126r).

106
Nel 1699 Valentino rinunciava a una porzione di eredità, lasciando
l’enfiteusi su un terreno con alberi da frutti e viti in precedenza gestito
dal padre Francesco, posto in contrada detta «il Prato»; lo stesso anno,
i due fratelli stilavano l’accordo circa la gestione della fornace di fa-
miglia stabilendo, con atto notarile nel quale si richiamava a termine
lavorativi, impiego e attrezzi necessari all’artigianato identici a quelli
ancora utilizzati dai fornaciai: «Con’ questa Mastro Giuseppe Sterpa,
e Valentino Sterpa fratelli riuniti assieme con l’aiuto del Signore con-
traono compagnia tra di loro nella fornace di mattoni alle Trobbe ad
essi spettante, et à ciascun’ di loro la sua parte come proveniente
dall’heredità del quondam Mastro Francesco Sterpa loro Padre, e con-
vengono nel modo che segue cioè Primariamente per la prima cotta da
farsi essendovi certo lavoro mezzo cotto di detto Giuseppe si dichiara
habbi da essere quando sarà cotto la metà per uno e l’altro lavoro per
compiere la cotta si habbi da fare communemente per dividersi in ul-
timo per metà Et all’incontro per esservi detto lavoro di Giuseppe det-
to Valentino si obliga di mettere un Garzone à sue spese, e di tenere
una bestia alla fornace per potere condurre acqua e rena necessaria per
lavorare, et il carreggio di detta materia, et acqua spetti à detto Giu-
seppe, il quale habbi facoltà di mandare dietro alla bestia il Garzone di
Valentino e non esso Valentino, il quale habbi da stare à lavorare à sue
spese e poneli Canali Et quando si faranno li canali detto Giuseppe
debba fare le spese à detto Garzone Inquanto alle legna detto Valenti-
no debba mettere e caregiare la sua parte e l’altra parte di detto Giu-
seppe debba caregiarle il medemo Valentino a sue spese purchè siano
in loco da poterle caregiare, il che spetti à detto Giuseppe Et in quanto
ad ogn’altra fatica eccetto quanto di sopra, cioè lo infornare, sfornare,
et altro si debba fare communemente et a spese communi Seguita poi
detta sopra cotta per fare nova cotta si debba lavorare, et spendere
communemente et il simile della legna, conforme richiede l’arte et il
lavoro sia la metà per uno E la pulitura della Cappanna spetti à detto
Giuseppe e non a Valentino, et uno e l’altro per osservanza si obligano
[…]»240.
Da quanto detto, a cavallo tra Seicento e Settecento, risultavano pre-
senti sul territorio di Castel Viscardo ben quattro fornaci, lo stesso
numero che risultava già nel 1576 nell’atto di convocazione dei forna-

240
ASO, ANM, I versamento, 1530, cc. 422r-423r.

107
ciai del Castello da parte delle autorità orvietane. Due di queste erano
sulle terre e di proprietà della famiglia feudataria, le altre erano libere.
Dal calcolo annuo del fruttato del 1705 (tra le varie case, stanze, bot-
teghe e terre della proprietà, con le relative entrate), le prime risulta-
vano affidate a Lorenzo di Bernardino, quella nella zona di «Riparot-
ta», che pagava un canone di uno scudo e dodici baiocchi e mezzo; e a
Francesco di Vincenzo, quella nella zona definita: «sotto Vitiano», ge-
stita con un canone di quattro scudi241. Nella successiva assegna gene-
rale dei vassalli (redatta nel 1710), le altre due erano segnalate di pro-
prietà della vedova di Giuseppe Sterpa e di Vincenso di Angelo242.
Queste ultime si configuravano quali proprietà privata, tanto che le
due fornaci, parimenti agli altri beni posseduti, potevano entrare nel
novero di lasciti e doti o come indicazione di confine, informazioni
che riportavano con una certa precisione al loro reale luogo di ubica-
zione.
Quella degli Sterpa, morto Giuseppe, nel 1710 era dichiarata di pos-
sesso della sua vedova; nel 1724, venuto meno anche il fratello Valen-
tino, era introdotta nell’atto di dote della figlia Cristina («Una fornace
in contrada le Trobbe con sette stara di terra lavorative con dieci fila
di anguillacce inarborate»), sposatasi con Giulio di Simone da
Sant’Abbondio, il quale per l’acquisizione fatta era definito «fornacia-
ro» negli atti della comunità. Una fornace «ad uso de Mattoni, e Cana-
li», ubicata nella medesima zona e appartenente ai loro eredi, era an-
cora oggetto di dispute in una divisione del 1771243.
Nel caso di quella di Vincenso Mettinelli, sappiamo con certezza co-
me essa si trovasse nei pressi del podere denominato «Vitiano», una
antica torre di avvistamento che, persa la sua finalità primaria, era sta-
ta ridotta a possedimento con terre coltivabili di proprietà della fami-
glia Spada Veralli. Nell’indicazione datane nel 1708 in un catasto, si
definiva: «Vitiano Podere in Territorio di Castel Viscardo: Confina
con Fibbiano il Campo delle lame, la fornace di Vincenso Nasone etc.

241
Collezione privata, Castel Viscardo, e Viceno, e Beni adiacenti, punto settimo:
1705 Frutto annuo di denari, che si riscuote in Castel Viscardo, Viceno, e Poderi, c.
s.n.
242
Ivi, punto quindicesimo: Assegna di quello che ogn’uno possiede in Castel Vi-
scardo 1710, cc. s.n.
243
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 105-106 e ASO, ANM, II versamento,
435, a. 1771/11.

108
[...]»244. Una fornace entrava in alcune dispute familiari susseguite alla
morte di Vincenzo, tra la sua vedova Domenica del fu Claudio Mala-
notte e i figli Francesco, Cecilia e Teresa. Nel 1708 gli eredi arrivava-
no a una concordia, tramite la quale i discendenti consegnavano alla
madre due terreni nella contrada detta «la Salciata», uno «con fornace
da mattoni» (alberato, con viti, arativo e a sodo) di proprietà della Ca-
sa Spada (confinante con la strada vicinale e pubblica, i beni di Valen-
tino Sterpa e quelli degli stessi Spada) e l’altro più piccolo, nel quale
si trovava una piccola abitazione non terminata. Il valore totale era su-
periore a quello della dote che la donna voleva le fosse riconsegnata,
tanto che Domenica si impegnava vita natural durante a pagarvi il ca-
none annuale di quattro scudi245.
Francesco di Vincenzo si era portato in dote dal padre, oltre al mestie-
re, anche il curioso soprannome di «Nasone», con il quale lo si trova-
va indicato in diversi documenti come l’atto di vendita di un suo censo
istituito nei confronti Bernardino Spada Veralli (1706) o in alcune te-
stimonianze a suo favore raccolte nel 1707 e inerenti la sua condizione
familiare. Sembrava, infatti, fossero sorte delle disquisizioni con la
moglie Caterina, che si pensava avesse abbandonato il tetto coniugale
approfittando dell’allontanamento del marito recatosi in quel di Roma
per lavoro, tanto che era redatta una sorta di breve indagine nella qua-
le Giovanni Camillo «Antiqus» (appaltatore dell’osteria) e Angelo
Maria del fu Domenico «Britij» di Meana (appaltatore del macello)
testimoniavano a suo favore circa le sue possibilità economiche e i
suoi puntuali pagamenti: «il medemo è huomo che corrisponde e con
il suo Industriarsi che fa con la sua arte, e con fare continuamente vit-
ture con le due Bestie che tiene paga li suoi debitucci e puol vivere

244
Collezione privata, «Castel Viscardo, e Viceno, e Beni adiacenti», Punto terzo:
1708 Catastro de terreni in Castel Viscardo, Alfina, e Viceno spettanti al Marchese
Spada, c. s.n. e L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., p. 100. Rispetto al toponimo
di questa località risulta quanto mai interessante il parallelo con la omonima Vitiano
(frazione del comune di Arezzo), la cui origine si deve all’insediamento in loco della
famiglia romana dei Vittidia e dove, in epoca romano-etrusca, si trovava una fornace
di vasellame e ceramiche, probabilmente appartenente a un artigiano di nome di Gu-
bro ed esistente tra il I secolo a.C. e il II d.C. (si veda S. Gallorini e M. Gallorini, Una
figulina a Vitiano, in «Bollettino d’informazione della Brigata Aretina degli Amici dei
Monumenti», 33 (1982), pp. 27-28).
245
ASO, ANM, I versamento, 2690, cc. 737rv, 766rv.

109
con la sua moglie più tosto grassamente che patire […]»246.Nel sopra-
detto atto di consegna della fornace aveva redatto la stima il fornaciaio
Valentino Sterpa, richiamato a tale scopo anche nel 1719 nell’atto di
divisione dei beni degli eredi di Lorenzo Sugaroni, tra i quali si anno-
tava anche una fornace di mattoni in contrada «Riparotta», di proprie-
tà della famiglia Spada, la cui generazione era riconfermata agli eredi
nel 1755247.
Nel 1712 Eugenia di Vincenzo, altrimenti detta «Spinola», riceveva
dal fratello Francesco un terreno a prato con fornace (molto deteriora-
ta, tanto che «minaccia ruina») e una discreta somma ereditaria come
stabilito dal loro padre Vincenzo già dal 1693, con l’obbligo di mi-
gliorare il tutto, anche perché: «là fornace non rende frutto, perche sta
per cadere, et hà bisogno di restaurazione, e che nel Terreno bisogna
rimettervi le viti». La stessa Eugenia, nel 1716 affitterà la fornace da
mattoni «et altri lavori simili» alla «Selciata» a Pietro del fu Domeni-
co da Gradoli. La locazione che prevedeva anche un prato e un terreno
lavorativo, il tutto nei pressi dei beni di Valentino Sterpa e Domenico
di Giovanni, era accordata per sei anni al prezzo di cinque scudi per la
fornace, dei quali quattro al marchese e uno alla stessa Eugenia, men-
tre per le terre si stabiliva il quarto sul raccolto (legumi, grano) al pri-
mo e il terzo sull’uva alla donna248. Questa era poi ritornata in posses-
so della gestione sulla fornace, tanto che nel 1727 richiedeva un pre-
stito di dieci scudi allo scopo di restaurarla: «pro illius reductione ad
Cocturam Canalium, et aliorum iuxta Stilum artis Fornaciariis»249 e la
conduceva sino alla sua morte, occorsa nel gennaio del 1745, a seguito
della quale era stilato l’ammontare dei suoi beni: una casa di una stan-
za, una a uso granaio, un “cellaio” con cella vinaria, tutte in contrada
«la porta», una casa in contrada «la Salciata», un terreno con fornace e
246
Ivi, cc. 504rv, 509r (più una dichiarazione allegata di Bernardino Spada Veralli,
non cartulata, del primo luglio 1706); 712rv, 719rv.
247
Ivi, 1532, cc. 319r-321r (più perizie allegate e non cartulate). L. Giuliani, Nel mio
piccolo loco…, cit., pp. 110-112. Sulla famiglia Sugaroni e loro fornace è in fase di
pubblicazione il saggio a cura di Laura Sugaroni dal titolo Orme di argilla: I Sugaro-
ni, fornaciari a Castel Viscardo, per la collana “Scrivi la tua storia” (n. 4), opera pri-
ma classificata nella sezione “Saggistica” al premio letterario: Donne tra ricordi e
futuro 2013, a cura della Associazione culturale Scrivi la tua Storia del comune di
Pratovecchio (Ar).
248
Ivi, cc. 64v-65r, e 2693, cc. 122r-123v, 138rv.
249
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 106-107.

110
vigna di proprietà Spada, su cui gravava un canone di quattro scudi
annui. La stessa Eugenia era anche citata nel testamento del nipote
Giovanni Domenico di Pietro Mansueti che la nominava sua erede u-
niversale nel febbraio 1738 (al cui possesso era immessa nel giugno
successivo), a patto che istituisse un legato di otto messe all’anno per
la sua anima e quella dei suoi antenati. Del lascito non faceva parte «la
Fornace ove si cuocono i mattoni con lo scioto, dalla quercia della
Caprareccia sino alla forma, che conduce l’Acqua nella pozza di detta
Fornace posta in questo Territorio», in una zona denominata «la Stra-
da nuncupata per andare in Orvieto», nei pressi dei beni del marchese
Clemente Spada e la detta via, destinata al padre del testatore250.
Rispetto alla fornace gestita dalla donna, ancora nel 1779, in un atto
inerente una divisione familiare, per indicare il luogo fisico ove sor-
gevano alcuni beni in discussione, si parlava di una zona denominata
«la fornace dell’Eugenia, o sia Vitiano», configurandola come un sito
nei pressi della descritta torre o, presumibilmente, nel piano sottostan-
te altrimenti detto «la Salciata»251.
Nel corso del Settecento, i fornaciai castellesi, ma anche altri operanti
in diverse località del comprensorio, entravano sovente nel novero di
alcune importanti opere di costruzione o restauro orvietane, come i
necessari lavori eseguiti al campanile della chiesa di Sant’Andrea, i
cui continui interventi di assestamento, resisi necessari dal 1688 per il
sopraggiungere di alcune crepe nei lati dovute alle infiltrazioni
dell’acqua, sembravano aver avuto una concentrazione tra gli anni
1738 e 1749; essi spettavano in solidum al Comune e al Capitolo della
detta collegiata, vista la duplice funzione esercita dalla struttura, come
campanile e torre comunale («il Torrione non fatto, ma ridotto ad uso
di Campanile contiguo, et annesso alla Venerabile Chiesa Collegiata
di S. Andrea, et al Palazzo dell’Illustrissimo Signor Magistrato di que-
sta Città d’Orvieto [...]»), sul quale si trovavano le campane e
l’orologio della città, di una dimensione definita «in tondo perfetto»,
benché sull’esterno la facciata avesse la forma di un «ottangolo». Per

250
Archivio comunale di Castel Viscardo (d’ora in poi ACCV), Registri parrocchiali
espropriati decr. 111/1860, 8, c. 6v; ASO, ANM, I versamento, 2904, cc. 281r-282v,
293rv; 314r-315r, 317r; 754rv, 761rv. Il testamento del nipote di Eugenia si trova an-
che nel protocollo 453 del II versamento, cc. s.n.
251
ASO, ANM, I versamento, 2797, c. 37r.

111
tale operazione fu necessaria una importante quantità di lavori di for-
nace, i cui fornitori, nel conteggio operato nel 1748, erano indicati in
Bonaventura e altri fratelli Fiamma, mentre la calce utilizzata prove-
niva soprattutto dalle zone di Porano, Botto e Sermugnano.
Nell’occasione, era anche sostituita una delle lancette dell’orologio
presente, realizzata da Angiolo Brocchi «a giusa di Leone» e liquidata
dal Comune, mentre i canonici di Sant’Andrea pagarono la nuova cro-
ce, una scala per accedere al campanile e le grappe da utilizzarsi per
fissare le campane252.
Sul finire del secolo, ritroviamo diverse annotazioni simili per conto
dell’Ospedale di Orvieto, nel computo della cosiddetta «Uscita Stra-
ordinaria» o degli «Artieri pagati», che ci configuravano una realtà
piuttosto varia degli artigiani chiamati in causa; oltre ai Fiamma ritro-
vati per i lavori di Sant’Andrea, i cui discendenti, Domenico Fiamma
di Sugano (mezzane, canali, pianelle) o Carlo Fiamma (mezzane e ca-
nali) erano saldati per il loro prodotto, troviamo anche Giovanni Cec-
carelli (calce), Giuseppe Saltichiolo da «Porrano» e Giuseppe Brozzo
(entrambi per la fornitura di calce), «Biaggio Cocciaro da Lubriano»,
Carlo Paoletti di Porano (calce) e Domenico Della Vecchia (calce). A
questi, si aggiungevano gli artigiani di Castel Viscardo: un certo Mar-
co di «Castelfiscardo» (calce), Domenico Sugaroni (canali e pianelle),
Biagio Mancinetti («Cocci» e «Tomboli»), «Basilio Calcinaro del Ca-
stello», Vincenzo Ercolani (calce) e altri «del Castello» non specifica-

252
Ivi, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 60/9, 1-10. Nel doc. n. 4 troviamo il: Conto
de Lavori di fornace dati da Bonaventura, ed altri fratelli Fiamma per il Campanile
di S. Andrea, con annotazioni dal 22 aprile al 3 agosto 1748 che rimandavano a una
commessa piuttosto importante; erano stati forniti, infatti, ben 17.865 «Mattoni Ordi-
narij, e grossi piu’ del solito», 350 «quadroni», 150 «quatrelloni assai longhi», 1.200
«quatrucci», 2.300 «quatrelli fatti a posta» e 400 mattoni, per un totale di 22.265 pez-
zi, ai quali andavano anche aggiunti ventiquattro some di pezzi portate in agosto e
altre cento mezzane il 18 novembre. Tale materiale prevedeva un importante esborso
economico: «Ristretto Li retroscritti mattoni tanto ordinarij, che più grossi, e quadrelli
in numero di venti due mila, e ducento sessanta cinque alla ragione di Scudi cinque, e
mezzo il migliaro fanno la somma di Scudi cento venti due, e baiocchi quaranta sei
scudi 122 : 46 Le venti quattro some di pezzi a ragione di baiocchi dodeci, e mezzo la
soma sono scudi 003 Le cento mezzane sono scudi 0,50 In tutto ascende a scudi 125 :
96». Bonaventura Fiamma, originario di Castel Rubello, gestiva la fornace vescovile
di Sugano almeno dal 1690, quando gli fu concessa in enfiteusi a terza generazione (si
veda, AVO, AMVO, Parte Antica, Istrumenti, 4, cc. 142r-143v).

112
ti; inoltre, vi era del materiale acquistato del quale non si dava
l’indicazione della produzione di origine (some di cocci, piatti e sco-
delle, tra cui una «comprata per le Famiglie», e mezzane prese per
l’infermeria) o anche particolare, come i canali di vetro fatti pervenire
da Piegaro253.

4. Stoviglie, orci, vasi e maiolica: le altre fornaci di Castel Viscar-


do
Oltre alle fornaci di mattoni e canali o altri laterizi in genere, la realtà
di Castel Viscardo si configurava, soprattutto nel corso del Settecento,
per la presenza di un’altra tipologia di produzione legata maggiormen-
te alla realtà domestica, con la realizzazione di oggetti in terracotta di
varie forme e finalità. Di tale produzione abbiamo già ritrovato testi-
monianza dal Cinquecento, in tutti quei riferimenti che portavano alla
presenza nel borgo di un buon numero di mastri artigiani provenienti
dalla zona di Marsciano. A questi artigiani era sovente apposto
l’attributo di mestiere che rimandava alla fabbricazione delle pignatte
ed erano uomini sui quali si trovano informazioni anche in altre locali-
tà del comprensorio orvietano, come a Porano e Ficulle. Nel corso del
Seicento a Castel Viscardo sembrava essere presente una sola fornace
di questa tipologia, rispetto alla quale, nel catasto del 1641, si riman-
dava alla gestione degli eredi di un certo mastro Luca Mancinetti.
Sul finire del secolo, il marchese Bernardino, tramite il suo ministro e
agente Tommaso de Aurelijs, locava per tre anni una fornace di maio-
lica a mastro Antonio Fidei (Fedi) del fu Giovanni, originario «de Ter-
ra Rutae Perusineae Diocesis», definito nell’atto «Vascellario»; parte
dell’accordo era «la fornace à uso di maiolica con palco di sopra, e

253
ASO, Archivio dell’Ospedale di S. Maria della Stella di Orvieto, Amministrazione,
58, pp. 55, 127-128, 130-132, 199-202, 235-236, 262-264, 307-308, 372-374, 377,
435, 496. Da notare altre curiosità rispetto ad altri lavori realizzati per conto dell’ente,
come quelli pagati nel marzo 1795 «per arrotatura di numero 2.100 mezzane a baioc-
chi 12 ½ il cento scudi 2, e baiocchi cinquantasette, e mezzo» (p. 307); il 31 dicembre
erano anche pagati a don Pietro Fiamma 15 scudi per il valore di 2.000 mezzane (p.
313); il 26 gennaio 1796, un certo «Cucchiarone» era pagato per la «arotatura» di
1.900 mezzane servite per la casa del curato (p. 371) e, ancora, riguardo Castel Vi-
scardo, i pagamenti fatti tra il 1796 e l’anno successivo «alli Conciatori Ambrogi»,
Angelo e Giuseppe, «per avere conciato il Grano di questo Spedale» (pp. 375, 436).

113
con due altre botteghe, e due stanze di sopra esistenti dirimpetto alla
detta fornace posta in Castel Viscardo nella strada nova del Borgo vi-
cino la Venerabile Chiesa di S. Agostino da una parte e dall’altra con-
finante con la casa e Bottega di Mastro Giuseppe Sterpa [...]», pari-
menti a «[...] tutti li stigli, e robbe per uso di essa fornace di maiolica,
et in specie due rote per lavorare, e fabricar piatti [...]». La corrisposta
in denaro per tale attribuzione (che era rinnovabile tacitamente ogni
tre anni, se non disdetta almeno tre mesi prima della scadenza fissata)
era una pigione quantificata in dodici scudi l’anno, più altri due e
mezzo per la legna necessaria a ogni cottura del materiale, da farsi au-
tonomamente nelle macchie di Castel Viscardo. All’atto erano allegate
due note, una relativa alla consegna e l’altra al materiale già prodotto
per conto del marchese ed esistente nella fornace. Nella prima, il no-
me del mastro artigiano di Deruta sostituiva quella di colui che, pre-
sumibilmente, aveva ritenuto la gestione precedentemente o, almeno,
l’ultimo che per essa aveva trovato un accordo. Infatti, osservando la
nota di quanto consegnato, il nome di mastro Antonio Fede era appo-
sto sopra a quello depennato di Francesco di Vincenzo «Vascellaro in
Castel Viscardo», il cui ultimo accordo risaliva al giugno del 1699,
poi sostituito nel settembre dello stesso anno. La consegna prevedeva
due botteghe nella zona detta il «Borgo», altrettante stanze, con un let-
to e diversi utensili quali: «Due Ruote con telari attorno per lavorare
ad uso di Vascellaro», due «Tavoloni per battere la Creta», un ferro
lungo da utilizzarsi al medesimo scopo, «Due rastelliere di filagne con
tavole n. 59 per spandere i lavori» e, ancora, «Stanza con Fornace da
cuocere i Lavori, e fornacello da calcinare con suo palco, ò sia solaro,
e con scaletta da salire alla fornace, et altra per il palco, si come altra
scalinata di tre scalini nella stanza delle retroscritte rastelliere», «Altra
Stanza vicina all’Ospitio con due Macinelli di pietra per i colori». In-
fine, dopo aver depennato varie libbre di piombo, stagno e «Colori di
varie sorti» (evidentemente non più presenti), si segnalavano alcuni
utensili di ferro (come uno «che attraversava la bocca della fornace»,
«un Tirabragia» o «un dragano da far lo stagno») e palette o cinque-
cento mattoni e altrettante pianelle, più sedici canali. Il materiale già
presente sul luogo, da pagarsi da parte del nuovo affittuario, e già cot-
to si componeva di: sessantacinque boccali da due fogliette (detti «Bi-
sluscio») e altrettanti da una e da quattro, più sessantotto da cinque o
sei; settecentoquaranta piatti piccoli, duecentoventisette «menze Rea-

114
le» e centosessanta «lotto menze Reale». Per quanto riguarda il lavoro
crudo, si contavano diverse quantità e qualità di piatti («piccoli non
tornite», «sotto menze Reale», «Reale», «menze Reale», «da Costo
[…] Reale» o «menze Reale da Costo»), coline («da lavar le mani» e
«da Barba»), sottocoppe, boccali grandi («Boccaloni») da sei fogliette,
saliere, ma anche: otto «Madonne in stampa grande», «Pile da tener
l’acqua Santa», altri contenitori per il vino e «Concoline», anche di-
pinte e da barba, «Acquesante», «Truffe» da vino, «Buzziche» da olio,
oltre a della «Rena del Lago di Peruggia», «Rena, e feccia accordata»,
terra bianca, «Piombo e stagno abrugiato» e colori macinati, per la
maggior parte bianco.
La lista degli oggetti risultava tanto più importante, allo stesso modo
della descrizione della bottega e degli
utensili al suo interno, in quanto ci
proponeva tutta una serie di materiali
diversi per la cucina, da vino e olio, o
per la cura della persona; tra essi spic-
cavano senza dubbio le indicazioni che
riportavano all’arte di realizzare delle
immagini sacre e le acquasantiere, il
tutto corredato dalla presenza di colori
macinati e ivi prodotti che servivano
per dipingere alcuni manufatti, riman-
dano alla realizzazione della ceramica Madonnella di “casa Stefani” (g.c.).
smaltata254.
Nel 1703, quella che dalla descrizione data sembrava essere la stessa
fornace di maiolica, era affidata a tal Francesco del fu Vincenzo Bar-
toccini; essa si componeva di: «palco di sopra, due Botteghe con due
stanze di sopra esse Botteghe in faccia a detta fornace posta in Castel
Viscardo nella strada nova del Borgo di detto Castello vicino la Vene-
rabile Chiesa di Sant’Agostino dà una parte, e dall’altra parte confi-
nante con la Casa e Bottega di Mastro Giuseppe Sterpa salvi altri con-
fini etc. et un'altra stanza fatta per uso di macinar colori confinante
con il Giardino, et altre case di detto Signor Marchese […]». L’affitto,
che riguardava i descritti locali e tutti «li stigli e robbe per uso di detta

254
Ivi, ANM, I versamento, 1530, cc. 454r-455v, 451rv, più allegato elenco del mate-
riale presente non cartulato.

115
fornace di maiolica con due ruote per lavorare e far piatti, et altro»,
era di durata triennale (rinnovabile tacitamente per lo stesso periodo) e
ammontava a sei scudi. Mastro Francesco si dichiarava disposto a ri-
tenere il bene in maniera consona e non subaffittarlo o eseguire lavori
senza licenza, operando tutti gli aggiustamenti straordinari tanto che:
«dandosi il caso il che Dio non voglia per causa di fuoco si abruggias-
se qualche trave della Bottega dove sta situata detta fornace, o pure
detta fornace cadesse in qualche parte», si impegnava di proprio senza
spese per il padrone; viceversa la manutenzione ordinaria «in ogni ca-
so si rompesse qualche trave naturalmente, e non per colpa o causa ve-
runa» era da addebitarsi al marchese. All’atto era allegato l’inventario
di tutti gli oggetti di servizio al «lavoro di maiolica», consegnati al
Bartoccini e da restituire alla rescissione, ossia nella «Stanza da maci-
nar colori»: una piccola tinozza «con suo carro e Telaro» e nelle bot-
teghe e stanze: «due Ruote con suoi Telari attorno per lavorare ad uso
di Vascellaro», una grande tavola «per battere la Creta», una più pic-
cola per «acconciarla» e un ferro per batterla, due «Rastelliere di fila-
gne per mettere le Tavole», numero cinquantasei assi «per spandere i
Lavori», un mortaio grande di pietra e un «Pirtello di ferro». Invece,
nella stanza dove si trovava la fornace vi erano «un fornacello dà Cal-
cinare lo stagno», una scaletta di legno a tre alzate e una da cinque
«per salire nella fornace», un lungo ferro «per la veduta», un «Tira-
bragia» e una piccola pala dello stesso materiale; infine, le porte delle
botteghe erano chiuse con dei catenacci di ferro e quelle della fornace
e delle altre stanze provviste di serrature e chiave255.
Tale nuova acquisizione da parte di Francesco spiegherebbe come mai
lo stesso fosse definito «vascellaro» in un verbale del consiglio della
comunità del 23 dicembre 1711256. Rispetto poi all’attributo cognome
Bartoccini, che qui si ritrova per la prima volta, segnaliamo anche un
documento che potrebbe rifarsi alle origini perugine della stessa fami-
glia; infatti, proprio in questo periodo (1699) era presente in Orvieto
tal capitano Nicolo Bartoccini da Marsciano, chiamato in causa in un
avviso di rissa e pace tra Nicolo di Carlo (suo soldato) e Lodovico di
Natale (agli ordini del capitano Faccenna)257. Francesco Bartoccini

255
Ivi, 2690, cc. 101r-103v.
256
ASRM, ASV, 1123, cc. s.n.
257
ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 96/13, 205.

116
moriva a Castel Viscardo il 13 gennaio 1744, all’età di circa 50 anni.
Egli era figlio di Vincenzo, come indicato in un atto notarile del 1714
(dove era definito ancora «Mastro […] Vascellaro») con il quale, in-
sieme ai fratelli Pietro, Alessandro e Angelo, prendeva in gestione
l’osteria del paese, anch’essa spettante al marchese258.
Nel 1705 la fornace era annoverata nella lista dei beni da cui la fami-
glia Spada riscuoteva canoni o affitti; essa era collocata nei pressi del-
la chiesa Sant’Agostino e la «Cantonata, che volta verso lo Stradone»
e si componeva di due botteghe con altrettante stanze, corredata da
una «Fornace incontro ad’uso di Vascellaro»; il tutto, al quale si
sommava ancora una stanza, aveva una pigione di sei scudi, anche se
non era specificato chi la riteneva259. La stessa risultava dismessa nel
1761, quando era data in generazione ad Antonio Paglialunga da Ca-
stel Giorgio, da poco trasferitosi nel feudo Spada, con l’impegno di
«ridurre detta Casa abitabile nella parte interiore con demolire la For-
nace in essa esistente», detraendo i soldi necessari dal pagamento del
canone per il primo anno. Nell’atto si parlava di una casa «già ad uso
di Fornace di majolica posta nel Borgo di Castel Viscardo sul Cantone
prima di arrivare alla Chiesa di Sant’Agostino, confinante avanti colla
Strada publica da un lato col Vicolo, che divide detta Chiesa,
dall’altro colli beni di Luca Crudelini, e Giovanni Sterpa di dietro con
il granaro della Signora Caterina Aureli Sanvitani […]», nella quale
era autorizzato a scavare una piccola cantina e a fabbricarvi una scala
nella parte del vicolo verso il deposito di grano, alla sola condizione di
non ristringere la strada tanto da impedire il passaggio di un cavallo
con soma.
Venuta meno questa fornace, rimasta probabilmente senza affittuari
dopo la morte di Francesco Bartoccini e di suo figlio Bartolomeo e per
questo trasformata in abitazione, in paese ne esisteva sicuramente
un’altra. Nel 1759, infatti, il marchese Clemente Spada Veralli aveva

258
ACCV, Registri parrocchiali espropriati decr. 111/1860, 8, c. 4v e ASO, ANM, I
versamento, 2448, protocollo di Giuseppe Maria Arca, cc. 7r-8v. Nel corrispondente
registro dei battezzati, prendendo come spunto l’indicazione dell’età data nell’atto di
morte, non è stato rinvenuto quello di Francesco (si veda ACCV, Registri parrocchia-
li espropriati decr. 111/1860, 1).
259
Collezione privata, Castel Viscardo, e Viceno, e Beni adiacenti, punto settimo:
1705 Frutto annuo di denari, che si riscuote in Castel Viscardo, Viceno, e Poderi, c.
s.n.

117
già concesso a Innocenzo Mancinetti un sito, con grotta annessa e nel-
la zona detta «la Strada della Fontana», allo scopo di «farci la Fornace
di Majolica», con un annuo canone di una gallina da cominciarsi nel
dicembre a venire260.
Il Mancinetti era direttamente legato alla famiglia Bartoccini, in quan-
to suocero del detto Bartolomeo (presupposto che potrebbe spiegare la
duplice origine di Marsciano); questi aveva seguito le orme paterne,
tanto da aver realizzato, con il consenso del marchese Clemente Spada
Veralli, ma senza la redazione di uno strumento notarile che attestasse
tale concessione, un «molinello da macinare colori nell’acquedotto, o
sia forma, ove passa, e corre l’acqua, che và al Bottaccio del Molino
detto Santa Rufina posto nel territorio di Castel Viscardo Contrada
Santa Rufina». Questa costruzione presupponeva un aumento della
produzione, tanto che il piccolo mulino aveva sostituito o integrato i
due piccoli macinini in pietra presenti nella prima fornace e già atte-
stati nel 1699. Nel 1759, l’anno in cui aveva ricevuto la facoltà di rea-
lizzare la fornace e dopo la morte di Bartolomeo Bartoccini, Innocen-
zo Mancinetti riceveva anche la gestione di questo mulino (in enfiteusi
a terza generazione e con un canone di mezza gallina all’anno, da co-
minciare a pagarsi con una intera nel dicembre 1760 e continuare così
ogni due anni), a patto che, una volta che suo nipote Pietro Bartoccini
o il fratello di questi avessero raggiunto la maggiore età e intendessero
imparare «l’arte di fare la majolica», con una loro bottega di fornace,
essi dovevano essere considerati quali primi possessori del mulino e
direttamente indicati come pagatori del canone, trasferendo su di essi
il detto diritto. Tra i patti era anche stabilito che, se per volontà del
marchese fosse stato necessario demolirlo, il lavoro doveva essere e-
seguito a spese dei locatari261.
Qualche giorno prima, una analoga concessione nella medesima zona
era conferita a Raffaele del quondam Andrea, ossia «un Sito nel fosso
sotto l’ultimo molino […] per farci un Molinello per macinare li colori
con legni, e non a muro posto in questo Territorio di Castel Viscardo
Contrada S. Rufina, presso li beni da un lato del sudetto Signor Mar-
chese, e dall’altro dell’eredità del quondam Sebastiano Santini», anco-

260
ASO, ANM, I versamento, 2906, cc. 129rv, 142r; cc. 189r-192r. La due concessio-
ne si ritrovano anche nella serie detta II versamento, protocollo 453, cc. s.n.
261
Ivi, I versamento, 2906, cc. 159rv, 164r.

118
ra con il canone di una gallina da conferirsi ogni due anni nel giorno
di Natale262.
La costruzione di un altro piccolo macinatoio per i colori svelava la
presenza di almeno un’altra bottega nel 1763, quando Andrea del
quondam Paolo da Benano (detto «Paioletto») richiedeva la possibilità
di costruirne uno a beneficio del figlio. Questi era inteso ad «esercitare
l’arte della maiolicha» nella bottega di Pietro Antonio Seccavigne «al
quale mancha il meglio del’arte cioe il macinello da macinare li colori
come anno l’altri di questarte da
questo paese». Per tale ragione,
richiedeva di poterlo realizzare
nei pressi di quello di mastro
Raffaello e dei mulini a Santa
Rufina ed era soddisfatto rice-
vendo in generazione un sito ove
costruirlo, localizzato «appresso
l’altro macinello di Raffaelle
Raffaelli» e da questi realizzato
Alcuni esempi della produzione di nel 1759263.
Castel Viscardo (g.c.).
Nel 1770 Gioacchino Raffaelli,
figlio di quest’ultimo, inoltrava un memoriale nel quale richiedeva la
possibilità di costruirne uno nuovo utilizzando la sorgente del luogo
denominato «le Scrose»; nel testo rappresentava di esercitare «l’arte
della maiolica», per la quale aveva dei problemi derivanti dalla man-
canza di un macinino per la preparazione dei colori, tanto che, senza
questo «non gli si rende possibile di tirare avanti il negozio». Alla ri-
chiesta era risposto in maniera positiva, con la concessione di una en-
fiteusi nel sito detto «Fosso situato nella Macchia delle Scrose», dove
era autorizzato a costruire «un molinello per macinare i colori, con le-
gni, e non a muro», al canone annuale di una gallina264.
Da quanto detto, nella seconda metà del Settecento troviamo a Castel
Viscardo almeno tre fornaci di questa tipologia, quella di Innocenzo
262
Ivi, cc. 131rv, 140r. Copia di questo strumento si trova anche nel II versamento,
unità n. 453, cc. s.n.
263
Ivi, I versamento, 2932, cc. 88r-89v, più l’allegata richiesta datata 17 ottobre 1763
(non cartulata). L’indicazione del soprannome di Andrea del quondam Paolo si trova
nel II versamento, 435, a. 1771/24.
264
Ivi, II versamento, 435, a. 1770/s.n.

119
Mancinetti ed eredi Bartoccini, quella di mastro Pietro Antonio Sec-
cavigne e quella dei Raffaelli, tutti indicati generalmente come eserci-
tanti «l’arte della maiolica». Inoltre, da alcuni atti di divisione succes-
sivi, le botteghe dei Mancinetti e dei Raffaelli, entrambe alla «Fonta-
na», erano confinanti265.
Nel settembre del 1770 mastro Innocente Mancinetti del fu Carlo rila-
sciava le sue disposizioni testamentarie stabilendo la sepoltura nella
chiesa parrocchiale, il funerale secondo il possibile e la celebrazione
entro sei mesi di centocinquanta messe a beneficio della sua anima e a
carico degli eredi. Ai figli Biagio e Luigi lasciava tutto il grano, legu-
mi e uva da raccogliersi nella futura vendemmia, la sua biancheria e
«un Letto rifinito per Ciascheduno», ripagandoli per averlo assistito
per diversi anni, al contrario degli altri figli Carlo, Terenzio e Gabrie-
le, i quali avevano già ricevuto la loro parte. Questi ultimi, inoltre, e-
rano diffidati dal richiedere a Biagio «porzione alcuna di tutti i Piatti,
ed altra Maiolica esistente nella Bottega del medemo, per essere stata
fatta tutta detta Maiolica colli suoi proprij denari, industrie, e fatighe»;
lo stesso Biagio riceveva la «Bottega ad uso di Fornace di Maiolica»,
con la condizione che dovesse essere stimata, e, nel contempo, ogni
figlio (tranne Carlo) otteneva una botte cerchiata; infine, il padre li
pregava di dividersi in accordo e da buoni fratelli tutti i suoi altri beni.
Tre anni dopo, i cinque arrivavano alla agognata divisione amichevole
dei beni paterni e materni, tra i quali si segnalavano tutti gli stigli di
una bottega da fabbro, toccati a Gabriele, e «una Bottega di due stanze
ad uso di Fornace di Majolica in contrada la Fontana», ereditata da
Biagio266.
Nel 1774 era redatta anche quietanza a proposito della divisione tra i
fratelli Alessio, Adamo e Gioacchino Raffaelli, figli di Raffaello, nella
quale era stata stabilita per Alessio l’assegnazione della «Bottega ad
uso di Piattaro», esistente «in contrada la Fontana appresso li beni di
Biagio Mancinetti […]»267.
In questo periodo, emergeva anche come, tra i beni dell’eredità del
quondam Sebastiano Santini, vi fosse anche una fornace di maioliche;
questa, indicata presso la «contrada della Fontana», era tra quelli an-

265
Ivi, 475, aa. 1773-1774, cc. s.n.
266
Ivi, 435, a. 1770/7; 475, a. 1773, cc. s.n.
267
Ivi, 475, cc. s.n.

120
noverati nel beneficio eretto nell’altare di Santa Caterina all’interno
della chiesa parrocchiale, anche se, pur facendone parte nel 1771, al
momento della redazione del testamento del Santini (1735) essa non
era contemplata. Questo fattore potrebbe far presupporre un acquisto
successivo da parte dei gestori dell’eredità e configurare tale bottega
artigianale come una di quelle toccate in eredità a Biagio Mancinetti o
a Alessio Raffaelli che si trovavano nella medesima zona del paese.
Sebastiano Santini era un possidente di Castel Viscardo (uno dei più
ricchi) che ricoprì diversi incarichi nella comunità (priore, camerlen-
go, «grassiere», «montista» o «coltore») o nelle confraternite, occu-
pandosi spesso di esecuzioni testamentarie o svolgendo la funzione di
tutore e curatore. Morirà a Castel Viscardo il 31 ottobre 1736, un an-
no dopo la redazione del suo testamento con il quale stabiliva
l’erezione del beneficio che si concretizzerà più tardi (nel 1772), dopo
il decesso di alcuni suoi discendenti diretti. Nel periodo successivo al-
la sua dipartita, la fornace di maiolica entrava nel novero delle dispo-
nibilità del beneficio, tanto che, in un inventario successivo, si parlava
di una «Bottega ad uso di Piattaro»; tale bene non risultava essere più
presente in una stima del beneficio redatta nel 1917, a proposito del
quale era indicato un fabbricato a «uso stalla e fienile», posto in via
Garibaldi e in pessimo stato di conservazione268.
All’inizio del XIX secolo, una «bottega ad uso di fornace di vasi di
terracotta», ancora alla «Fontana», era menzionata all’interno di una
«Assegna di Patrimonio Sacro». Il documento, redatto il 14 novembre
1809 all’epoca dell’occupazione napoleonica, si riferiva a tal chierico
Giuseppe Pinelli, figlio di Felice di Allerona, il quale, pur essendo de-
stinato alla carriera ecclesiastica, non riusciva a ottenere la congrua
necessaria mediante una prebenda ecclesiastica. Per questo, i suoi fra-

268
Nella serie del notarile inerente Castel Viscardo e i suoi diversi governatori, si tro-
vano molti riferimenti a Sebastiano Santini, tra gli altri citiamo ASO, ANM, I versa-
mento, 2234, protocollo di Giovanni Paolo Fantini, da c. 4r, protocollo Francesco A-
mici, cc. 18r-20v; 2904, cc. 149r-187v; 2934, c. 43rv. L’atto di morte del Santini si
trova in APCV, 30, c. 139r. Una copia del testamento si trova anche in AVO, Iura
Ecclesiastica, aa. 1771-73, [olim GG, VI, 3]; lo stesso archivio conserva anche il cita-
to inventario non datato del beneficio e lo stato redatto nel 1917 (si veda nelle serie
Parrocchie, 26, cc. s.n. e Protocollo generale, a. 1917/3). Per gli incarichi assunti nel
consiglio della comunità vedi ASRM, ASV, 1123, cc. 3v, 10v-11r, 16v, 21v, 27v e cc.
s.n.

121
telli e sorelle destinavano allo scopo l’eredità dello zio Luigi Pinelli, al
momento goduta in usufrutto dalla moglie Caterina Vincenti, origina-
ria di Celle nei pressi di Montepulciano, anch’essa d’accordo nel de-
stinare i beni al nipote intento a raggiungere il «grado di sacerdote».
Tra questi, vi erano una stanza «dentro il Castello vecchio» e altre
proprietà «in contrada la strada della fontana», ossia una casa di due
vani, una stanza, una cantina con cellaio e «Una bottega ad uso di for-
nace di vasi di terra cotta» del valore di quattro scudi, corredata da
un’altra cantina in fondo, più vari terreni e vigne «in contrada le
Trobbe» (confinanti con i beni di Valentino Sterpa) e in territorio di
Benano e, infine, un censo acceso per sessantasette scudi. Tale lascito
risultava fondamentale per la consacrazione del Pinelli, nominato di
seguito cappellano al semplice beneficio eretto nella chiesa rurale del
SS.mo Crocifisso di Castel Viscardo269.
In questa ultima vicenda appare quanto mai interessante l’indicazione
data di una fornace per la manifattura di vasi e ziri, di norma utilizzati
per la conservazione dell’olio o degli agrumi. A tal proposito, di poco
successiva era una testimonianza, documentata in uno scambio episto-
lare tra il parroco don Filippo Ladi e il vescovo di Orvieto circa la ri-
chiesta di delucidazioni su due ziri da olio realizzati a Castel Viscardo.
Il 13 gennaio 1832 Ladi rassicurava il presule dicendo: «Questo Fab-
bricatore da me interpellato mi assicura potervi senza timore collocare
l’olio, ne esser cosa da farne meraviglia; giacché se da essi vi trapela
l’acqua, certamente non vi trapelerà l’Olio. La cosa sembra un poco
stravagante, ed io non la sò intendere; eppure mi si dice, che tanto in-
segna l’esperienza». A tale garanzia, si rispondeva: «Non occorre più
parlare dei ziri da oglio, perché vedendosi scemato il loro sudore, si è
ritenuto, che sarebbe cessato affatto, e sono stati murati colla Calce, e
Coccio pisto, onde non è possibile, che facciano alcun male. Furono
già pagati subito, e quindi l’affare è compito»270.
Rispetto alle indicazioni date, negli anni trenta del XIX secolo, risul-
tava svolgere la professione Sante Bartoccini, figlio di Ottavio, il qua-
le, in alcune testimonianze rese presso la Curia vescovile di Orvieto,

269
ASO, ANM, II versamento, 772, cc. s.n. La sua nomina a cappellano si trova in
AVO, Bollari, 20, cc. 219v-220r.
270
AVO, AMVO, Parte Antica, Atti della Mensa Vescovile (seconda parte), 42, cc.
s.n.

122
in atto di dichiarare la sua professione, si identifica come «cocciajo» o
«di condizione Cocciaro»271, o alcuni esponenti della famiglia Borri,
come Giuseppe del fu Luigi che nel 1824, in un atto per la vendita di
un terreno nei pressi di una sua proprietà e fungendo da testimone, era
già definito «Ziraro»272. Il fratello di questi, Francesco, nativo di Or-
vieto (anche se nel Settecento le origini della famiglia erano indicate
in Bolsena) «di condizione Possidente e di professione Vasajo», nel
1836 acquisiva dal signor Domenico Valentini il diritto di gestire «una
Fornace ad uso di cuocer Materiali posta fuori di Castel Viscardo in
contrada l’Olmata»273. La reale proprietà era ottenuta da Alessandro
271
Si veda il “processetto” matrimoniale di tal Giuseppe Paioletti, per il quale Sante
Bartoccini era ascoltato come persona informata nel 1836 (si veda AVO, Atti matri-
moniali, a. 1836, cc. s.n.). Pochi anni dopo (1840), lo stesso («di condizione Coccia-
ro») era ascoltato dal Tribunale criminale diocesano sulla presunta «vita scandalosa»
di Tobina Valentini, moglie di Vincenzo Lucattelli, sotto la cui casa riteneva la sua
bottega (AVO, Tribunale vescovile, Criminale, 1840/56). Nel 1852, in un atto di do-
nazione ricevuta dallo zio Fulgenzio Tiracorrendo, Ottavio di Sante Bartoccini era
definito, parimenti al congiunto, esercitante il mestiere di falegname (si veda ASO,
ANM, II versamento, 663, a. 1852, cc. s.n.).
272
ASO, ANM, II versamento, 489, cc. s.n.
273
Ivi, 14, cc. 176r-177v. Il 4 ottobre 1844 era data ufficialità alla compravendita, in
primis concretizzata privatamente, depositando l’atto presso il notaio orvietano Giu-
seppe Iermini; l’acquisto era stato concordato alla somma di cinquanta scudi, più
l’assunzione dell’onere nei confronti della casa Spada di «un Pollastro all’Anno». Sul-
la sua professione vedi anche, nel medesimo protocollo, l’atto alla c. 44rv, ossia
l’acquisto di un fienile «in Contrada la Fontana» dai beni di Luigi Amatucci. Pur indi-
cando l’origine orvietana di Francesco, la sua famiglia sembrava essere residente a
Castel Viscardo da diverso tempo, dove possedeva dei beni già dal 1808, come speci-
ficato in un coevo atto di compravendita di una piccola casa di due stanze «per la
strada che conduce alla fontana dalla parte della porta degl’Olmi», acquisita da Luigi
Borri per trasformarla in un fienile (si veda nel II versamento, 772, a. 1808). Per
l’arrivo dei Borri a Castel Viscardo si deve, probabilmente, risalire sino al signor Lui-
gi, figlio di Francesco Borri, che si diceva provenisse «dalla Terra di Bolseno abitante
da più anni in questo Castello»; questi nel 1787 riceveva da Pietro Amatucci, ministro
di casa Spada, un sito nel quale costruire una stanza, posto «dalla parte del Prato, e
contiguo alla Bottegha, che ritiene in generazione ad uso di speziaria»; sulle origini,
da rimarcare ancora come Marianna Borri, in un atto del 1774 sulla sua dote per il ma-
trimonio con Giuseppe Cappelloni di Torre Alfina, fosse segnalata quale figlia di
Francesco del quondam Lorenzo, a sua volta indicato come proveniente da Orvieto (si
veda nel I versamento, 2737, cc. 218v, 221r-223v; II versamento, 475, a. 1774, cc.
s.n.). Nel 1844, Lorenzo Borri del fu Luigi di Castel Viscardo, di professione farmaci-
sta, otteneva una enfiteusi su alcuni beni della mensa vescovile siti nella vicina Castel
Giorgio (si veda, AVO, AMVO, Parte Antica, Instrumenti, 7, pp. 242-246).

123
Luigi, figlio di Francesco, anch’egli indicato «di professione vasaio e
possidente», che nel 1885 concordava una permuta con il principe Fe-
derico Spada Veralli. Il Borri otteneva così un piccolo terreno «in con-
trada Olmata», il «diretto dominio sopra un piccolo fabbricato ad uso
di fornace spettante per l’utile dominio alla famiglia del sudetto Ales-
sandro Luigi Borri ed oggi al medesimo compermutante, gravato
dall’annuo Canone di un pollastro a favore dell’Eccellentissima Casa
Spada» e un conguaglio in denaro; nel contempo, lasciava due appez-
zamenti in «Contrada Montepeccio» e un fabbricato di due piani (uti-
lizzato come mattatoio, stalla e fienile) posto in «contrada la Fonta-
na»274. In questa fornace si produceva una svariata tipologia di mate-
riali, dagli ziri (recentemente ne sono stati rinvenuti diversi riportanti
il timbro: «Fab[b]rica In Castel Viscardo Di Francesco Borri» del
1859 o 1870) alle “madonnelle” (come uno splendido pezzo datato
1891 che riporta la scritta: «Borri Alessandro Fabbricante in Castel
Viscardo»)275.
Alcuni discendenti delle famiglie Bartoccini e Borri si ritrovarono in-
sieme nel 1883, nella redazione di un atto di
quietanza e ratifica di vendita di un terreno
al principe Spada. Nella lunga elencazione
delle parti in causa si citavano, tra gli altri,
i figli di Giuseppe Borri e Anna Maria Er-
colani, ossia Gioacchino, Nazzareno, Vin-
cenzo, Ismene (tutti indicati come «indu-
strianti») e Fausto, oltre ad Alessandro
Bartoccini di Antonio, «di professione va-
saio», che interveniva in rappresentanza
della sua defunta madre Maddalena,
anch’essa figlia di Giuseppe Borri276.
La “madonnella” realizzata nel
1891 da Alessandro Borri (g.c.).

274
ASO, ANM, II versamento, 282, cc. 563r-566v.
275
I citati ziri sono di proprietà della famiglia Gaddi Bucciosanti di Orvieto che si rin-
grazia, così come Nadia Tiezzi per avermi gentilmente segnalato e fatto fotografare la
“madonnella” con bambino opera di Alessandro Borri.
276
ASO, ANM, II versamento, 295, cc. 589r-592r.

124
5. Statistiche e altre curiosità sulle fornaci tra Ottocento e Nove-
cento
La tradizione di una così ampia presenza di realtà artigianali, si tra-
manda ancora oggi nella lavorazione dei laterizi, pur essendo venuta
meno nel corso del Novecento quella delle stoviglie o vasi. Un sunto
statistico, corredato da alcune notizie di commesse, ci riporta alla con-
notazione di alcuni dati fondamentali.
Alla metà dell’Ottocento, la realtà artigianale sembrava abbastanza
proficua, se si pensa alle scarse dimensioni del borgo tanto che nel
1844 se ne contavano addirittura sette (o otto), istaurate «da tempo an-
tico e per particolari Rescritti». A queste andavano sommate le circa
settanta «cotte» di calce eseguite annualmente in quel periodo, per le
quali dal 1824 era stabilita, tra l’altro, una consuetudine con una corri-
sposta in denaro o in generi277. Pochi anni dopo, sui 683 abitanti del
1849, molti erano quelli che si dedicavano alla lavorazione della creta
secondo diverse tipologie: «mattonari», «calcinari», «fornaciari», «va-
sai» e «zirai». I mattonai censiti erano: Giuseppe Calandrelli, Agosti-
no Calandrelli, Biagio Mattioli, Costantino Mancini, Sigismondo Ste-
fani, Giustiniano Sugaroni e Nicola Sugaroni; i produttori di calce:
Stefano Ceccantoni e Vincenzo Ceccantoni; i fornaciai: Paolo Corti-
gnani, Vincenzo Ercolani, Gabriele Ercolani e Giorgio Fedeli; i vasai:
Carlo Alessandrini, Sante Bartoccini e Leone Bartoccini; i produttori
di ziri: Giuseppe Borri e Francesco Borri278.
Tali artigiani riuscivano, inoltre, a estendere il loro campo di azione
arrivando a produrre materiale e a commercializzarlo fuori paese.
Come nel passato per le strade e le vie di Orvieto o per gli edifici, so-
prattutto religiosi, delle zone di San Lorenzo, Grotte di Castro, sino a
Castro, i laterizi prodotti a Castel Viscardo seppero trovare dei propri
spazi rendendosi fornitori di commesse più o meno importanti. Se già
da fine Settecento si ritrovano sovente delle indicazioni inerenti i lavo-
ri per l’Ospedale S. Maria di Orvieto e le sue proprietà, per i quali e-
rano saldati anche dei fornaciai di Castel Viscardo, insieme ad altri di
diversa origine, dall’altro canto sembrava che nella ampia richiesta per

277
Ivi, 340, cc. 78r-79v, 291r-292v.
278
Ivi, Archivio Repubblica Romana 1849, 3/19.1. Nel 1846 risultava presente in pae-
se anche tal Davide Bardini da Montepulciano, esercitante il mestiere di vasaio (si
veda M. Maffei, Castel Viscardo e gli Spada, cit., p. 146).

125
la fornitura di materiale avessero una prevalenza gli artigiani della fa-
miglia Fiamma, operante nella fornace vescovile sita in Sugano alme-
no sino al 1832279. Nello stesso periodo ne esisteva certamente una
nella vicina Monterubiaglio, per la quale il fornaciaio Tommaso Ubal-
di, nativo di Monteleone, nel 1829 si impegnava a «cuocere una For-
nace» per conto del Seminario Vescovile di Orvieto, posta in suo ter-
reno nella «Macchia del Podere Vocabolo S. Giovanni, dove esiste lo
scavo della Fornace». Negli accordi intercorsi prometteva di risarcirla
al fine che «il lavoro che ci si deve cuocere sia, e venga di buona qua-
lità», tanto che si impegnava a depurare la creta dalle abbondanti «lu-
machelle, le quali fanno venire il lavoro tutto bucato, e lo fa rompere
subito». La commessa consisteva nella produzione di dodicimila pezzi
(tra mattoni, quadrelli, pianelle e canali), materiale che doveva essere

279
Rispetto ad alcuni lavori eseguiti tra Settecento e Ottocento, si trovano diversi rife-
rimenti che riportano a commesse della famiglia Fiamma; nel 1781 Giuseppe Fiamma
era saldato per dei canali e «menzani» prodotti e fatti portare a servizio del convento
di S. Paolo di Orvieto a partire dal 1778 (si veda AVO, Iura Civilia, aa. 1781-1783,
[olim T, VII, 3]); nel 1807 Domenico Fiamma, fornaciaio di Sugano, era anche pagato
dal comune di Orvieto per aver fornito dei canali e più di mille pianelle necessari per
la fabbrica del «Fortino sopra porta pertusa», materiale ivi trasportato dal 1799 (si ve-
da ASO, ASCO, Miscellanea atti giudiziari, 32/5, 96). Rispetto alla gestione della
loro fornace appartenente al beneficio della mensa vescovile di Orvieto, nel 1824 Pao-
lo Fiamma era citato dinanzi al Tribunale economico vescovile per aver omesso di
saldarne il canone al collettore della mensa, a norma di quanto era stato stabilito nel
1802 nell’ultimo strumento notarile del cancelliere vescovile, quando era stata confe-
rita a Domenico del fu Carlo Fiamma (si veda AVO, Tribunale Economico, 316, [olim
C, VIII, 8], cc. s.n.; copia del citato atto si trova nel registro 6 della serie Istrumenti
dell’Archivio della mensa vescovile, cc. 231v-234v); allo stesso modo, nel 1831, Pie-
tro Fiamma si difendeva dalle accuse mosse contro di lui circa l’ostruzione che avreb-
be palesato contro un certo Rosati e altri muratori intenti a riassettare la detta fornace.
Questa, secondo un coevo estratto di perizia, necessitava di alcuni lavori di manuten-
zione come lo svuotamento del pozzo e della bocchetta («sono ripieni di macerie»), la
demolizione dei muri del primo e loro ricostruzione («si lavoreranno con Mattoni
grossi detti volgarmente Mattacchioni, quali non dovranno essere cotti, e formeranno
la rinvestitura interna della Fornace, in vece della Calce si mureranno con Creta, ov-
vero Porcino […]») e la costruzione di un tetto con il quale coprirlo, da sostenersi con
sei pilastri di mattoni «grossi e cotti, lavorati, e murati con Calce passata». Nello stes-
so fascicolo si conservano due minute del 1832 inerenti i capitoli da sottoscriversi da
parte del nuovo affittuario e una carta con i relativi obblighi, più altri conti inerenti i
pagamenti e quelli relativi al raccolto della vigna che faceva parte dell’enfiteusi (si
veda AVO, AMVO, Parte Antica, Atti della Mensa Vescovile (seconda parte), 42, cc.
s.n.).

126
«lavorato ad uso d’arte», assumendosi tutte le relative spese (come
quelle per «infornare, quanto di sfornare»), per il prezzo complessivo
di due scudi al migliaio. Nel contempo, il Seminario aveva l’obbligo
di reperire e portare sul luogo la legna necessaria e la rena occorrente
per la lavorazione, oltre a fornirlo di un barile di vino. Il tutto doveva
essere terminato entro il mese di maggio del 1830280.
Alla metà del secolo (nel 1854), una importante commessa era esegui-
ta da un fornaciaio di Castel Viscardo; tal Biagio Mattioli riusciva, in-
fatti, ad assicurarsi un accordo con la Società del nuovo Teatro di Or-
vieto, ottenendo la fornitura di «materiali di fornace, ossia di terra cot-
ta cioè Numero di Diecimila Tegole, Numero Diecimila Canali, e
Numero trentaduemila Pianelle, quali materiali tutti debbono essere
fatti ad uso di arte, cioè di pasta fina, non bozzolosi, ma ben lisci, e
ben cotti [...]»281. Un altro della sua famiglia, Giuseppe, parimenti ad
altri artigiani, portava il suo lavoro verso Latera. Tra il 1855 e 1856 si
trovavano molte forniture da Castel Viscardo, materiale utilizzato per
il restauro dei luoghi pii (quali l’ospedale, la chiesa detta della Cava e
quella del Carmine) e prodotto da: Flavio Paioletti (calce e canali),
Anselmo Cimicchia (calce), Giuseppe Mattioli (calce e mattoni) e
Salvatore Troscioni (calce, sic Frosoni); più le generiche indicazioni
inerenti trecentoventicinque canali «fatti venire da Castello per riattare
il Tetto dello Spedale» o i pagamenti per un «Uomo di Castello spedi-
to col Carro dal Signor Amatucci con numero 515 Mattoni ordinati pel
Piancito dell’Ospedale tutto fracassato»282.
Il mercato sembrava in divenire, trovando spazi diversi nel quale inse-
rirsi, tanto che già al tempo (e lo sarà man mano sempre di più) gli ar-
tigiani di Castel Viscardo seppero trovare diversi canali nei quali e-
sportare il materiale prodotto; testimone di un commercio comunque
sufficiente era ancora il numero degli impianti in funzione nel corso
dell’Ottocento che non andava a diminuire, ma, anzi, si manteneva
stabile. Da alcune testimonianze coeve, inerenti la gestione della tenu-
ta Spada e alcuni paventati abusi perpetrati dalla famiglia Valentini

280
AVO, AMVO, Parte Antica, Atti della Mensa Vescovile (seconda parte), 42, cc.
s.n.
281
ASO, Archivio Teatro Mancinelli, Corrispondenza, 5/9.19.
282
Latera, Archivio parrocchiale, Confraternite e luoghi pii, 42 [olim I], cc. s.nn.

127
che ne era affittuaria e, di conseguenza, da parte degli stessi fornaciai,
sappiamo come ancora nel 1872 se ne contassero ben otto283.
Nel 1876 - dato che si ottiene estrapolando le partite dal «Cessato Ca-
tasto Fabbricati» - se ne annoveravano sette di mattoni e quattro che
producevano vasi e stoviglie, per un totale di ben undici produttori di-
versi, le cui fornaci erano edificate, soprattutto quelle di mattoni, su
terre di proprietà del principe. Diverse erano le famiglie coinvolte,
molte delle quali ancora oggi si trovano negli stabilimenti di Castel
Viscardo: Giustiniano Sugaroni a «Riparotta»; Agostino Calandrelli
alla «Selciata»; Giuseppe Valentini risultava intestatario di quella a
«Le Trobbe»; Gabrielle Ercolani e Sigismondo Stefani di quella sulla
«Strada di Monte Rubiaglio»; Amadio Sterpa a «La Selciata o Casi-
no»; Barbara Tascini, vedova Fedeli, e i suoi figli nei pressi di «Vitia-
no»; luogo dove ne possedevano una anche Ubaldo, Michele e Federi-
co, figli del fu Francesco Sugaroni. I vasi e le stoviglie erano prodotti
da: Sante e Leone Bartoccini, in una bottega sita in via S. Antonio;
Francesco Borri lavorava in via dell’Olmata (oggi via Roma); Anna
Maria Ercolani, vedova Borri, e i suoi figli, ne possedevano una al
«Fossatello» (oggi via Cavour); Pietrantonio Valentini una alla «Sal-
ciatella», della quale curava la gestione, anche se negli accordi presi
dal Seminario per la produzione dei mattoni a Monterubiaglio era egli
stesso citato quale «Fornaciaro»284.
Nella guida economico-turistica realizzata nel 1888 ad opera di Odo-
ardo Comez, si censivano, pressappoco, le stesse fornaci indicate nei
registri catastali, con qualche variazione dovuta al cambiamento degli
intestatari degli affitti o degli usufrutti. I mattoni erano prodotti da:
Eugenio e Giuseppe Calandrelli, Luigi Ceccarelli, Enrico Lucattelli,
Pietro Mattioli, Sigismondo Stefani, Eugenio e Domenico Sugaroni,
Federico Sugaroni e Ubaldo Sugaroni. Le stoviglie da: Antonio Ber-
toccini (sic Bartoccini) e Federico Bertoccini (sic Bartoccini) e fratelli.
I vasi da olio o agrumi da: Alessandro Borri e Gioacchino Borri285.

283
ASO, ANM, II versamento, 340, cc. 78r-79v.
284
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 124-126. La citazione di Pietrantonio
Valentini si trova in AVO, AMVO, Parte Antica, Atti della Mensa Vescovile (seconda
parte), 42, cc. s.n.
285
Busti e Cocchi, Terrecotte e laterizi, cit., pp. 17, 36. Si veda in merito O. Comez,
Guida-dizionario umbro-sabino contenente notizie statistiche, storiche, artistiche,
industriali, prodotti del suolo, comunicazioni, fiere e mercati, alberghi, trattorie, caf-

128
I produttori di mattoni, ma anche quelli di calce, tra il 1886 e 1887
partecipavano attivamente ai restauri della chiesa del SS.mo Crocifis-
so, ordinati in atto di sacra visita dal vescovo Ingami (1886), donando
una parte del materiale necessario ai previsti lavori. Gli artigiani inte-
ressati furono: Giuseppe Calandrelli, Eugenio Calandrelli, Antonio
Ceccarelli, Eugenio Crudelini, Antonio Femminili, Federico Sugaroni,
Eugenio e Domenico Sugaroni, Sigismondo Stefani, Vittorio Soccia-
relli, Ottavio Tiracorrendo e Ubaldo Sugaroni, per quanto riguarda i
mattoni o, meglio, le «terzine» offerte; allo stesso modo: Angelo Tor-
di, Pasquale Ceccantoni, Pietro Crudelini, Mosè Ceccarelli, Anselmo
Cimicchi, Salvatore Frosoni, Pietro Frosoni e Sante Frosoni donavano
diversi bigonci e balle di calce, mentre il legname era offerto da Pie-
trantonio Valentini286.
Rispetto a tutte le indicazioni, che dovrebbero riferirsi ai gestori in
primis delle fornaci, tramite alcuni riscontri documentali emergeva
come da diversi anni fossero direttamente legati al mestiere anche al-
cuni appartenenti alle famiglie Mattioli, Ercolani e Stefani. Per i pri-
mi, oltre ai precedenti riferimenti, aggiungiamo come già dal 1835, in
una testimonianza al Tribunale diocesano, tal Francesco Mattioli si
dichiarava: «poco o niente prattico pel paese, attendendo tutto il gior-
no alla fornace ove cuocionsi li mattoni»; più tardi, nel 1887 Biagio
Mattioli faceva registrare a proprio nome la fornace posta nella zona
di «Vitiano»287. Per gli Ercolani troviamo altri riferimenti, come il te-
stamento del gennaio 1851 di Vincenzo del fu Michele, definito
«Cocciaro»; tra gli eredi risultavano le sorelle Veronica, sposata con
Gaetano Uccelletti, e Anna Maria, coniugata con lo ziraio Giuseppe
Borri, oltre alla moglie Candida Stefani, nominata usufruttuaria di tut-
to il suo non specificato patrimonio sino alla sua morte, quando i beni
si sarebbero dovuti vendere, a cura del parroco e priore comunale pro
tempore, e il ricavato utilizzato «in tanti Officj nella Chiesa Parroc-

fé, ditte commerciali, fabbriche ed opifici di ogni comune della provincia di Perugia,
Todi, 1888.
286
APCV, 167, cc. s.n. Il riscontro dell’indicazione vescovile di restauro si ritrova in
AVO, Visite pastorali, Visita Ingami, a. 1886, pp. 136-137 (si veda anche L. Giuliani,
Il ritratto di Maria Pasqualetti da Castel Viscardo di Romea Ravazzi, in «Canonica :
Rivista di studi pientini», 3 (2013), pp. 32-47; in particolare pp. 45-46).
287
AVO, Tribunale vescovile, Criminale, 1840/56, c. 10r di un allegato procedimento
del 1835 contro Tobina Lucattelli, e L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 127.

129
chiale» a beneficio dell’anima del testatore (che lo stesso aveva indi-
cato come sua erede principale) e di quelle dei suoi genitori e della
moglie. Nel 1884, in un atto inerente alcuni accordi sui debiti da sal-
darsi, tre dei citati Ercolani, ossia Michele, Arcangelo e Giona era in-
dicati come «fornaciari», professione ribadita per il secondo anche nel
1890. Nel corso del Novecento, Martino Ercolani, figlio di Arcangelo,
era insignito di un diploma con medaglia per i suoi «lavori in laterizi»
presso l’Esposizione Internazionale Arte Industria e Lavoro, una mo-
stra campionaria organizzata per la propaganda e incoraggiamento al-
le industrie, tenutasi in quel di Milano nel 1925288.

Il diploma conferito a
Martino Ercolani nel
1925 a Milano (foto
Petronio Stefani, g.c.).

Altra famiglia del mestiere, più volte citata a partire dall’Ottocento,


era quella degli Stefani, sicuramente immessa nell’artigiano nell’anno
1840, quando Sigismondo di Sebastiano Stefani, di anni 22, testimo-
niando presso il Tribunale criminale diocesano, sottoscriveva la depo-
sizione di propria mano, con tanto di firma autografa; nell’occasione,
dichiarava di esercitare il mestiere di «Fornaciaro», per il quale era
costretto spesso, soprattutto nei mesi estivi, a recarsi sul luogo di la-
voro intorno alle tre della mattina289. Lo stesso fornaciaio era annota-
288
ASO, ANM, II versamento, 372, cc. 305r-308r; 392, c. 685r; 663, a. 1851, cc. s.n.
Martino Ercolani nasceva a Castel Viscardo il 28 ottobre 1888 (si veda APCV, 3, p.
84). Si ringrazia Anna Bruna Cimicchi per avermi gentilmente segnalato l’esistenza
dell’attestato ricevuto da suo nonno Martino Ercolani.
289
AVO, Tribunale vescovile, Criminale, 1840/56. Lo Stefani era ascoltato ancora
riguardo il comportamento della citata Tobina Valentini; la sua testimonianza risulta-
va tanto più preziosa perché lo stesso, recandosi nottetempo alla fornace, aveva avuto
modo di notare la donna che in una notte di agosto si intratteneva con due uomini; per

130
to, tra il 1861 e 1889, come fornitore della famiglia Bucciosanti Maz-
zanti nei vari lavori intrapresi da questa nelle sue proprietà di Orvieto
e Castel Giorgio, per cui realizzava mattoni, mattacchioni, mezzane,
pianelle, terzine, canali, ma anche calce, prendendone a sua volta
maiali, grano, formaggio, fagioli e fave (con cui, alcune volte, era di-
rettamente saldato)290.
La fornace Stefani era citata a più riprese anche come una delle forni-
trici di materiale laterizio per i lavori di ricostruzione della copertura
della cattedrale di Orvieto (il cui capitolato risaliva al 1880). Per tale
opera, si prevedeva l’utilizzo del migliore materiale rintracciabile nei
dintorni della città, sia per l’approvigionamento della calcina che dei
laterizi, tranne per le tegole di copertura («conosciute in Commercio
col titolo lombarde o monumentali») e i cimali. Questi, in un primo
momento, dovevano essere prodotti dalla Fornace Hoffmann di Foli-
gno: «colla condizione che sieno tutte di ottima qualità e scelte fra le
più perfette e ben cotte», ma, a causa della cattiva qualità dei campio-
ni inviati (definiti dal direttore dei lavori Paolo Zampi di «qualità di
terra, e difettosa cottura e lavoratura»), nel 1883 era sostituita nella
commessa da una ditta denominata, come da sua stessa intestazione,
«Società Pistoiese per produzione di materiale laterizio fornitrice del-
la Real casa fondata fino dall’anno 1868». Per quanto riguarda il pia-
nellato (da prendersi dalle «migliori fornaci di Orvieto»), tra il 1885 e
il 1886 risultava una consistente fornitura di materiale (corredata da
canali e mezzane) da parte di Sigismondo Stefani di Castel Viscardo
e, dal 1887, dalla fornace di proprietà del cavaliere Giuseppe Bernar-
dini (anticamente denominata la «fornacia de ripa rossa»)291.

identificare il luogo ove si era imbattuto nel “misfatto” usava questa curiosa descri-
zione: «ho veduto fuori del paese e precisamente fuori dell’abitato circa un tiro di sas-
so».
290
ASO, Archivio Bucciosanti Gaddi, Aggiunte 2013, 6, cc. 28v-31r, 77v-78r, più cc.
sciolte.
291
AODO, Restauri, 20 [olim 147] e 21[olim 148]. Su questi lavori, l’ingegnere scri-
veva un dettagliato articolo dal titolo: Notizie sui lavori di restauro eseguiti per la co-
pertura del Duomo di Orvieto, in «L’ingegneria civile e le arti industriali», XV/8
(1889), pp. 113-121, nel quale descriveva le tecniche utilizzate nel pieno rispetto di
quanto costruito nel XIV secolo. Le antiche modalità erano studiate attraverso una
attenta ricerca storica sulla serie dei Camerari dell’Archivio dell’Opera. Tra gli altri,
dava maggiore risalto a una annotazione del 1339 giudicandola: «Questo documento
di una provvista è della massima importanza inquantochè l’indicazione di tegole di

131
Da registrare anche le missive inviate da Clemente Gabrielli (di pro-
fessione muratore e uno dei primi consiglieri del comune di Castel
Viscardo dopo l’Unità) a Francesco Fumi, scritte da Castel Viscardo
tra il 1866 e il 1877. In esse, Gabrielli dava una serie di indicazioni
sulle «cotte» di calce e luoghi direttamente connessi («Romealla» o
«quel posto di Pasqualetto») e persone («il pozzo di Zampi»), ripor-
tando i prezzi o le varie difficoltà per il trasporto verso l’eventuale
zona di utilizzo292.
All’inizio del Novecento, tra le carte amministrative del cavaliere Ma-
rio Gaddi, si ritrovano molti riferimenti al trasporto di materiale da
«Castello», soprattutto calce («carce»), nelle sue proprietà tra cui
quella in località denominata «Fagiolo» (nei pressi di Castel Gior-
gio)293.
Tra i fabbricanti di vasi o ziri devono necessariamente essere menzio-
nati i fratelli Gioacchino e Nazzareno Borri, figli di Giuseppe (già de-
finito «ziraro») e Anna Maria Ercolani, la stessa che, dopo la morte
del marito, assumeva l’usufrutto sopra le proprietà familiari tra le
quali la fornace sita a «Il Fossattello» (l’attuale via Cavour)294.
Gioacchino Borri, nato a Castel Viscardo l’8 dicembre 1848, era un
possidente e artigiano del coccio; fu presidente della Partecipanza A-
graria e sindaco di Castel Viscardo dal 1910 al 1914, in un epoca ab-
bastanza critica per la gestione amministrativa. Ascritto nella schiera
dei consiglieri nel 1895 e impegnatosi in prima persona nell’annosa
vicenda sugli usi civici, portata avanti per più di un ventennio nei con-

dimensioni maggiori fornite di canali anche essi di dimensioni maggiori dimostra che
l’antica copertura del tetto era composta di tegole e canali secondo l’uso romano anti-
co e resta esclusa l’ipotesi che la tegola fosse unita al canale facendo corpo con esso,
perché in tal caso non era necessario prescrivere che pure i canali dovessero essere più
grandi come le tegole». Tra il materiale analizzato era presente anche un disegno dello
stesso Paolo Zampi (scala 1:10) denominato: Materiale laterizio per la copertura del
Tetto, allegato alla perizia suppletiva del 1883, nel quale mostrava le tegole e i coppi e
il loro posizionamento sul prescritto pianellato acquistato dalla fornace degli Stefani.
Per notizie sulla fornace Bernardini, si veda C. Urbani, Allerona: Vicende storiche …,
cit., pp. 191-192.
292
ASO, Archivio Luigi Fumi, 27/II.2.1.
293
ASO, Archivio Bucciosanti Gaddi, Aggiunte 2013, 26, all’interno del fasc. deno-
minato: Foglietti del Guardiano anni 1904-08, cc. s.n., suddivise per anno (si veda
soprattutto il 1907).
294
Ivi, Catasti, Cessato Catasti fabbricati, 628, p. 59.

132
fronti del principe Spada, si mostrava, nel contempo, sempre attento ai
bisogni della popolazione, come quando proponeva un fondo tra i
consiglieri per pagare le spese inerenti l’inaugurazione del ponte sul
fiume Paglia, destinando quanto stabilito in un primo momento ai po-
veri della comunità. La sua amministrazione realizzava o ristrutturava
importanti opere pubbliche (strade, piazze, cimiteri, acquedotti e fu
quella alla quale erano consegnati gli eseguiti lavori del sopraddetto
ponte) e si contraddistingueva per l’accordo raggiunto con il principe
per la costruzione del nuovo edificio municipale e scolastico (1913).
Sopraggiunto il ventennio fascista, il 29 luglio 1927 Gioacchino Borri
si trasferiva in Orvieto, dove moriva poco dopo. Nella sua attività di
artigiano fu molto conosciuto a livello locale, per la sua produzione di
ziri e vasi, ma anche per alcune opere artistiche in terracotta, come i
pezzi che ricoprivano il campanile della chiesa parrocchiale di Castel
Viscardo, oggi sostituiti, la cui forma particolare contribuiva a dare
l’effetto visivo di una pigna, ma anche ritratti, “madonnelle” o altri
utensili295.
Suo fratello Nazzareno Borri, di tre anni più giovane (era nato il 16
luglio 1851), esercitava anch’esso la professione vasaio. I due ebbero
un rapporto turbolento (terminarono il loro connubio lavorativo nel
1911), al limite della soppor-
tazione, sul quale si racconta-
no storie anche divertenti
(come l’apposizione successi-
va nel proprio nome da parte
di Nazzareno in calce al tim-
bro riportante solo quello del
fratello).
Timbro di Gioacchino Borri con “aggiun-
ta” successiva del nome del fratello (ziro
di Vera Bianchini, g.c.).
295
Le informazioni sulla attività politica di Gioacchino Borri sono tratte da L. Giulia-
ni, I Sindaci di Castel Viscardo (1860-2009), cit., pp. 53, 59-65, 89, 94, 96-104. La
data del suo trasferimento a Orvieto è stata rinvenuta nella serie delle schede indivi-
duali dell’Archivio comunale di Orvieto. L’indicazione di Gioacchino Borri quale
autore dei pezzi del campanile si trova in una annotazione di Aldo Cimicchi, presiden-
te della Pro Loco di Castel Viscardo, intento all’inizio degli anni ottanta del XX seco-
lo in una attività di promozione del “cotto castellese” (si veda Castel Viscardo, Archi-
vio Pro Loco di Castel Viscardo (d’ora in avanti APLCV), Carteggio).

133
Nel 1919 Gioacchino querelava il fratello, ma senza prosecuzione in
tribunale, per il furto di quindici tubi (discendenti) di terracotta, portati
via dal suo «laboratorio (fabbrica di laterizie)» sito in «via delle fon-
tane», dove Nazzareno si era introdotto con delle minacce.
Quest’ultimo si difendeva adducendo al fatto che il materiale era ivi
solo in deposito, anche perché prodotto in società con il figlio Giusep-
pe, morto nell’ottobre del 1918 «in zona di guerra», anch’egli eserci-
tante il mestiere (o anche agricoltore) per il quale nel 1914 era pagato
dal comune di Castel Vi-
scardo per aver fornito cin-
quanta tubi occorsi per il
restauro della fontana di
Monterubiaglio. Nonostante
visse per alcuni tratti
all’ombra del fratello mag-
giore, Nazzareno era ritenu-
to anch’egli un valido arti-
giano, dimostrandosi a sua
volta ingegnoso, come
quando nel 1913 confezionò
Il comignolo, firmato con timbro, realizzato
un comignolo da camino in da Nazzareno Borri nel 1913 (g.c.).
296
terra cotta .
Il solo Gioacchino era tra i citati, con gli altri di Castel Viscardo, nel
censimento redatto nel 1913 da Fernando Mancini circa l’economia e
industria umbra. In atto di pubblicare il risultato delle sue ricerche, e-
lencava la presenza in paese di quattro fornaci di mattoni, quelle di
Eugenio Calandrelli, Luigi Ceccarelli, Arcangelo Ercolani e Domeni-

296
Si ringrazia “mastro”Gianfranco Borri, per i preziosi suggerimenti e per avermi
segnalato, tra l’altro, l’esistenza di questo manufatto. Per la disputa tra i fratelli Borri
si veda ASO, Archivio del Tribunale di Orvieto, Cause Penali, 298/19772. Circa la
fornitura per il comune si veda ACCV, Copie delle delibere del Consiglio Comunale e
Giunta Municipale, 2/5. La morte di Giuseppe, occorsa il 1° gennaio 1918 per una
polmonite, fu comunicata proprio nel 1919 (alla notizia si deve probabilmente la rea-
zione del padre), insieme alle specifiche della sepoltura effettuata il 4 gennaio succes-
sivo presso il cimitero di Josefstad (oggi Josefov in Repubblica Ceca) (si veda nello
Stato Civile, Atti di morte, 1916-1920, cc. s.n.).

134
co Sugaroni, e due di vasi, nelle quali lavoravano Alessandro Borri e
Gioacchino Borri297.
In questo stesso anno, stanti ancora le fornaci sotto la proprietà Spada,
gli artigiani della famiglia Calandrelli (Giuseppe, Gregorio, Mario e
Agostino) inviavano richiesta al principe per il riconoscimento dei di-
ritti sulla fornace che dicevano gestita da secoli dai loro avi. Su questa
pagavano le imposte alla esattoria di Orvieto, sia le ordinarie che le
straordinarie, come quella di successione nel 1911 alla morte di Euge-
nio Calandrelli, non avendo mai venduto quanto acquisito, al contrario
di altri artigiani del luogo. Per questo richiedevano, avendo fatto delle
migliorie a loro spese alle «cappanne», un incontro affinché fosse re-
golarizzata la loro posizione con l’acquisto dei diritti da parte dello
Spada. Rispetto a questo, era da notare come il citato Eugenio Calan-
drelli avesse rinnovato l’affitto dell’antica fornace de «La Selciata»,
zona poi rinominata «Sant’Antonio e Poggio del Pastine», il 3 settem-
bre 1909, con una scadenza poco più che annuale, pagando una corri-
sposta «cotta per cotta» per «la cava della creta, piazza e fornace» sta-
bilita in dieci lire «per ogni cotta di materiale che farà il Conduttore
nel pozzo o forno della Fornace», con il precetto di non «ampliare in
qualsiasi modo la fornace e piazze per la lavorazione, sotto pena della
rescissione immediata del contratto, e della rifazione dei danni»298.
Nello stesso periodo rinnovavano i loro contratti di locazione, con
pressappoco le stesse clausole, anche Domenico, Luigi e Torello Su-
garoni, per una fornace «di assoluta proprietà del Signor Principe
Spada posta in Vocabolo Trobbe» (1910), e Francesco Sugaroni per
un’altra «al Vocabolo Vitiano» (1914, patto riconfermato nel 1921).
Nel 1923 i fratelli Aleandro, Adriano e Annibale Ceccarelli di Luigi,
due dei quali indicati fornaciai, mentre Adriano era macellaio, acqui-
sivano una fornace da stoviglie (al momento «diruta») e un terreno a-
diacente, il tutto posto a Castel Viscardo in via Cavour (oggi via Ro-
ma)299.

297
Busti e Cocchi, Terrecotte e laterizi, cit., pp. 17, 30, 36.
298
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 129-131. L’atto di morte di Eugenio si
trova in APCV, 31, p. 176. Si ringrazia Lorenzo Calandrelli e il figlio Claudio per a-
vermi fornito copia del contratto di locazione sulla fornace del loro avo.
299
Si ringrazia Maria Luisa Faraoni Quaranta per avermi segnalato e fornito copia di
questo contratto di acquisto.

135
Più avanti, dalle annotazioni dei registri di dichiarazione della «Ric-
chezza mobile» (1910-1940), risultavano impiegati nel settore ventuno
artigiani, alcuni dei quali abbinavano l’artigianato con altri mestieri
(come la gestione dell’osteria o il trasporto della legna). Risultavano
operanti, più o meno saltuariamente: Anastasio Sugaroni a «Le Trob-
be» (dal 1910 al 1925); Domenico Sugaroni (1911) poi Melchiorre
(dal 1925 al 1939); Luigi Sugaroni (1913-1921); Filippo Cimicchi (dal
1916); Eligio Sugaroni (1924-1925); Marino Sugaroni (1924-1940);
Leonardo Sugaroni (1924-1940); Leandro Ceccarelli a «Vitiano»
(1924-1929); Silvano Cimicchi a «Vitiano» (1924-1928); Martino Er-
colani (1924-1930); Vincenzo Ercolani sulla «strada di Monterubia-
glio» (1924-1928); Antonio Tiezzi a «Vitiano» (1924-1928); Gregorio
e Agostino Calandrelli alla «Salciata» (1924-1934); Arturo Cimicchi a
«Vitiano» (1925-1929); Pasquale Stefani (1925); Simeone Stefani
(1925); Sigismondo Stefani (1923-1940); Sante Stefani (1925); Attilio
Sugaroni a «Vitiano» (1926-1929); Torello Sugaroni a «Riparotta»
(1925-1929); Cesare, Olinto e Umberto Calandrelli (1927-1929). Que-
sti lavoravano, alcuni anche comunemente, in fornaci ancora di esclu-
siva proprietà del principe Spada, tutte insidiate in zone più volte
menzionate a partire dall’inizio del XVII secolo, dove ancora si ritro-
vavano, ossia «Riparotta», «Le Trobbe», «La Salciata» e «Vitiano».
Infine, andava aggiunto una sorta di piccolo indotto che consisteva nel
trasporto di laterizi e calce da parte di Filippo Cimicchi (1932-1938) e
tutti coloro che, a causa del basso reddito, non erano obbligati alla di-
chiarazione o al pagamento e, per questo, non rintracciabili nella pre-
sente lista300.
Una ricca produzione che già dal 1915 era definita come la «principa-
le industria del paese», tanto che il Consiglio comunale aderiva di
buon grado alla proposta del corrispettivo di Acquapendente inteso
alla realizzazione di una strada di collegamento più rapida verso la
stazione di Allerona, attraverso la quale, da Castel Viscardo si inten-
deva: «con maggior facilità smaltire il materiale laterizio» anche verso
la vicina Toscana301. Tale pratica fu anche “esportata” nella vicina

300
ASO, Catasti, Ricchezza mobile, 894-895. La tassa detta “ricchezza mobile” era
una dichiarazione dei redditi da presentare al comune di residenza, nella quale anda-
vano segnalati tutti i redditi non fondiari e gli interessi percepiti sui prestiti elargiti.
301
ACCV, Delibere del Consiglio comunale, 8, c. 56rv.

136
Sferracavallo, nel comune di Orvieto, quando Ottavio Sugaroni (me-
glio conosciuto come Ernestino e figlio di Leonardo), tra gli anni tren-
ta e quaranta impiantava una fornace (con tanto di cava di creta, piaz-
ze, piccolo capannone per riporre il materiale ad asciugare e pozzo per
la cottura) nei pressi di una abitazione di famiglia da lui riscattata e
costruita interamente in mattoni (oggi abbattuta). In questa fornace,
andarono a lavorare molti artigiani che da Castel Viscardo scendevano
a piedi nel piano sottostante la rupe orvietana, in alcuni casi ferman-
dosi anche a dormire, dati gli estenuanti orari di lavoro (dalle 3 del
mattino alle 19 di sera)302.

“Ernestino” Sugaroni a lavoro in compa-


gnia del “Moretto” e l’abitazione (oggi
demolita) nel cui cortile si trovava la for-
nace (foto g.c.)

Dopo la seconda guerra mondiale, portatasi in dote addirittura una


«imposta di consumo sui laterizi», sottoscritta dal sindaco Augusto
Mari nel 1945 «sui generi di larga produzione locale», la situazione di
Castel Viscardo non sembrava migliorare, nonostante l’importante
impiego di manodopera. Negli anni cinquanta arrivavano, finalmente,
i mezzi utilizzati per alleviare le fatiche tutte manuali, ma anche ani-
mali, necessarie per la produzione o spostamento; tra questi i carrelli
trasportatori su binari e su ruote, come quello acquistato da Paris Ste-
fani dalla CESAB (Carrellificio Emiliano) nel 1951. Lo stesso, nel
1973 era anche tra i firmatari, parimenti ai congiunti Pietrantonio, Na-
talina, Bruno e Giuseppe, di un accordo annuale con la Azienda agri-
cola Duca di Montevecchio per il rinnovo dell’affitto di un terreno in
«Vocabolo Casino adibito a cava di creta per lavorazione laterizi».

302
Si ringrazia Franca Sugaroni per avermi raccontato la storia della fornace del padre
a Sferracavallo e fornito, tramite Vera Bianchini, le fotografie. Si veda anche S. Muzi,
Fronte della fame, Viterbo 2005, p. 107.

137
Facevano parte della locazione anche la «Piazza, Cava di creta e perti-
nenze della Fornace stessa (Pozzetti da impasto, Fossa per acqua
ecc…)», mentre appartenevano già agli Stefani: «il forno di cottura e
la capanna di avvicinamento materiale al pozzo […] con colonne in
comune con la vicina confinante Fornace Ercolani»303.
La fornace Stefani negli anni settanta del
Novecento e la fattura del 1951 per
l’acquisto del «Carrello per laterizi» (foto-
grafie di Petronio Stefani, g.c.)

Ancora negli anni cinquanta, si trovano


testimonianze di convenzioni stabilite
(per mezzo di modelli standard) da al-
cuni fornaciai con il duca Cante di Be-
nedetti di Montevecchio (subentrato nel-
la proprietà del Castello), come quelle sottoscritte nel 1953 da Rodol-
fo Tiezzi e Sante Cricchi. Gli accordi, di durata
annuale, prevedevano, tra l’altro, un pagamento
fissato in un certo numero di pezzi per ogni
«cotta», da consegnarsi nei locali della società
SABIUM che ne riteneva la proprietà. In que-
sto decennio l’attività, pur nei gravi problemi
dettati dalle conseguenze della seconda guerra
mondiale, sembrava configurarsi quale fattore
aggregante della comunità, come dimostrava
l’organizzazione del grande pranzo del “Solle-
one” (la festività dei fornaciai di Castel Viscar- Il pranzo del “Solleone”
do) del 21 luglio 1956, al quale partecipavano del 1956 (foto Biblioteca
molti castellesi e, addirittura, il vescovo dioce- L. Sandri, g.c.)

303
Si ringrazia Petronio Stefani per avermi segnalato e fornito copia della fattura di
acquisto del carrello.

138
sano monsignor Francesco Pieri.
Negli anni sessanta, la «modesta» produzione rischiava di essere ab-
bandonata, soccombendo a quella di tipo industriale, con i fornaciai
che cercarono lavoro in altre zone anche limitrofe. Concorse alla con-
servazione dell’antico mestiere la costruzione del Santuario
dell’Amore Misericordioso a Collevalenza (nei pressi di Todi, in pro-
vincia di Perugia), per la quale molti artigiani e per diverso tempo for-
nirono laterizi («mattoni sabbiati, per avere un effetto di lucentezza e
brillantezza») per la detta chiesa, ma anche per il campanile e
l’annesso convento304.
Pur non essendo andata a buon fine, dovrebbe essere stata certamente
importante l’iniziativa intrapresa tra 1981 e 1982 dalla Associazione
Turistica Pro Loco di Castel Viscardo per la valorizzazione del cotto
locale, attraverso una donazione di duemila mattoncini con l’effige di
S. Francesco (numerati in serie e da collezione) alla città di Assisi, in
occasione dell’apertura dello «Anno francescano per la pace nel mon-
do».

Il mattone celebrativo
(foto Petronio Stefani, g.c.)
e un volantino prodotto
per l’occasione.

Oltre allo scambio epistolare tra Aldo Cimicchi, presidente


dell’Associazione, e il sindaco di Assisi, il corrispettivo di Castel Vi-
scardo, il presidente dell’Azienda Turismo di Orvieto e il «Comitato
Fornaciari di Castel Viscardo», nel quale era descritta l’iniziativa, in-
304
L. Giuliani, s.v. Comune di Castel Viscardo, in Gli Over…anta d’Italia hanno
scritto i miei ricordi, Roma 2010, pp. 403-419; in particolare pp. 411-412, e Nel mio
piccolo loco…, cit., p. 135.

139
teressante risultava tutta una serie di appunti redatti per la preparazio-
ne degli articoli da inviare alla stampa.
In questi, tra i quali uno uscito su «La Nazione», si delineava
l’iniziativa con una piccola cronistoria delle fornaci del luogo, delle
loro origini, ma anche dei
vari procedimenti ancora
utilizzati, non mancando
delle lamentele per lo scar-
so interesse che tale artigia-
nato sembrava produrre ne-
gli organi regionali preposti
o la citazione di alcuni im-
portanti lavori eseguiti al
Pantheon, al Colosseo, per
la Piazza del Campo di Sie-
na o per moltissime abitazioni private. Da quan- Appunti del presidente
to risultava nel 1981, erano presenti sul territorio della Pro Loco di Ca-
stel Viscardo.
ben dodici fornaci attive (gestite a carattere fa-
miliare da Isaia Stefani, i fratelli Petronio e Stefano Stefani, Pietranto-
nio Stefani, Bruno Calandrelli, Ernesto Giuliani e dalle famiglie Suga-
roni, Tiezzi, Bernasconi ed Ercolani), nelle quali lavoravano (anche
solo stagionalmente) ben 120 artigiani, con un ritmo che andava dalle
6 del mattino sino alle 19 della sera e una media di cento pezzi prodot-
ti ogni ora. Esulavano da questa cifra alcuni fornaciai storici, come
Marino Sugaroni, il quale, per scommessa, era riuscito in una sola
giornata a produrre ben 4.500 pezzi, «record che, a memoria locale,
non è stato superato», soprattutto se confrontato con la media massima
giornaliera di produzione che si aggirava sui 2.000.
Quanto messo in piedi nel 1981 faceva parte di un ampio piano atto
alla valorizzazione del “cotto” locale che aveva visto l’organizzazione
di diverse iniziative per il tradizionale “Solleone”, come la premiazio-
ne dei “fornaciai” più anziani, poi ripetuta a cura della stessa Pro Loco
nel 1998, e la celebrazione della messa in una fornace.

140
Celebrazione della messa per
il “Solleone” del 1981 (foto
Biblioteca L. Sandri, g.c.)

L’attività si configurava sempre più come fattore caratteristico della


popolazione, nonostante, ancora negli anni ottanta, la maggior parte
delle fornaci fossero di proprietà del duca di Montevecchio «che, per
antico contratto, ha la facoltà di chiedere ai fornaciari, quando doves-
sero servire per la sua abitazione, 300 mattonelle di “cotto” come
compenso per l’affitto». In uno dei citati articoli del 1981, a firma di
Enrico Valentini, i fornaciai richiedevano dei sostegni per la costru-
zione di capannoni che potessero far svolgere il lavoro per tutta la du-
rata dell’anno, oltre alla «istituzione a Castel Viscardo di una scuola
artigianale per la lavorazione del cotto», descritta enfaticamente come
una sorta di «università del cotto», nella quale istruire i giovani che
sembravano disinteressati alla conservazione della tradizionale mani-
fattura castellese305.
Nel corso degli anni ottanta e soprattutto novanta del Novecento, la
produzione di Castel Viscardo era protagonista di un ammodernamen-
to della sua tecnica artigianale, dettata dall’inserimento nel processo di
lavorazione di alcune tecnologie inerenti l’estrazione dell’argilla, la
sua lavorazione e rifinitura, il tutto connaturato all’utilizzo di macchi-
ne per i vari spostamenti, la costruzione di capannoni e l’impiego del
riscaldamento sulle «piazze», ove si stendeva il lavoro, che permisero
la lavorazione in tutti i periodi dell’anno e non per un lasso di tempo
ristretto come in passato.

305
APLCV, Carteggio. Nell’articolo sono presenti alcuni refusi di stampa riguardo ai
cognomi dei fornaciai, si legge infatti «Rabili» al posto di Rotili, «Seguroni» invece di
Sugaroni e «Berasconi» per Bernasconi. Inoltre, era indicato anche Francesco Rotili
quale possessore di una fornace in proprio.

141
Nel 1996, nella redazione del testo Terrecotte e laterizi di Giulio Busti
e Franco Cocchi, erano contate a Castel Viscardo sette fornaci, gestite
da: Bernasconi, Calandrelli, Fedeli, Giuliani, Palmucci, Stefani e Su-
garoni306. Di seguito, nel censimento del 2009, ad opera di chi scrive,
se ne contavano addirittura quattordici; nel frattempo, alle già presenti
si erano aggiunte quelle dei: Biritognolo, Femminelli, Frosoni, Bar-
toccini, il “Vecchio Coppo” (all’epoca gestita da Enzo Serranti e Luca
Brinchi e oggi di diretta competenza solo del primo) e la GM Lateri-
zi307.

Scene di vita (lavoro e riposo) presso le fornaci di Castel Viscardo


(foto Biblioteca L. Sandri di Castel Viscardo, Eligio Sugaroni
e Antonietta Pasqualetti, g.c.)

306
Busti e Cocchi, Terrecotte e laterizi, cit., p. 36.
307
L. Giuliani, Nel mio piccolo loco…, cit., pp. 139-156.

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