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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA


CORSO DI LAUREA IN
STORIA E TUTELA DEI BENI CULTURALI

GIOTTO LETTO DA DANTE

Relatore: Chiar.mo Prof. Giovanna Valenzano

Laureando: Maickol Quarena

Anno Accademico
2009 / 10

1
2
Indice

I. Introduzione ....................................................................................................5
II. La Cappella degli Scrovegni .........................................................................7
2.1 Cenni storici sulla sua costruzione .................................................................7
2.2 Antico e Nuovo Testamento .........................................................................12
2.3 Vizi e Virtù ....................................................................................................17
2.4 Il Giudizio universale ...................................................................................20
III. Affinità tra Giotto e Dante ........................................................................33
3.1 Una lettura personale dell'Inferno ................................................................34
3.2 Un possibile incontro ....................................................................................46
IV. Datazione della Divina Commedia ............................................................59
4.1 Prima circolazione ........................................................................................59
4.2 L'indizio barberiniano ...................................................................................61
4.3 L'indizio ugurgieriano-lanciano ....................................................................63
4.4 L'enigma del battistero .................................................................................64
4.5 La composizione ...........................................................................................67
V. Conclusioni ...................................................................................................75
Immagini ..........................................................................................................80
Bibliografia ........................................................................................................91

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4
I
Introduzione

Questa tesi è nata quasi per caso, da piccoli particolari notati personalmente durante il mio
periodo di stage. Io stesso ho effettuato il tirocinio obbligatorio per un mese presso i Musei
Civici di Padova e trovandomi nella posizione di scegliere il luogo più adatto ai miei interessi,
optai per la Cappella degli Scrovegni. Trovandomi faccia a faccia con l'opera di Giotto, fortu-
natamente non ho potuto far altro che ammirare il suo lavoro anche nei minimi dettagli. Più di
tutto la mia attenzione si è soffermata sul Giudizio universale e su una parte di esso, l'Inferno.
Avevo da poco tempo superato un esame di filologia dantesca ed avevo la convinzione che
l'Inferno di Giotto fosse stato suggerito da Dante. Il mio interesse accrebbe e la curiosità mi
portò ad approfondire la tematica in questione, accostandomi ad una buona mole di materiale
storiografico e critico. Da questi nacque il secondo capitolo della presente tesi, dove traccio
dei lineamenti storici per seguire l'evolversi delle vicende che hanno portato alla costruzione
della cappella e una breve descrizione del ciclo pittorico in essa presente. Quindi, partendo
dall'alto dove iniziano la storia dei genitori della Vergine e dell'infanzia di Maria, scenderò di
registro nella descrizione della vita di Cristo fino all'ultima fascia in basso dedicata alle alle-
gorie delle Virtù e dei Vizi. L'ultima parte del capitolo è riservata alla genesi storica del Giudi-
zio universale e alla sua descrizione. Nel terzo capitolo invece, laddove verte il mio interesse,
ho isolato dal resto del ciclo pittorico l'Inferno, e ho accostato alle immagini dipinte da Giotto
la narrazione della Divina Commedia, offrendo un parallelismo. Ciò che ne deriva è una
straordinaria vicinanza di poetiche tra Dante e Giotto, sottolineando le affinità di alcuni parti-
colari dell'affresco con i rispettivi estratti della Divina Commedia. Il dubbio sorge quando ci si
domanda se Dante abbia potuto influenzare la stesura iconografica del pittore o viceversa. A
questo punto ho allargato il discorso su un possibile punto di incontro tra i due grandi maestri
di questo secolo, tra Padova e Roma. Le fonti storiche offrono una data certa sulla conclu-
sione del lavoro giottesco, il 1305, mentre ancora molti dubbi circondano quella delle prime
cantiche del sommo poeta. Per rispondere a questi quesiti nel quarto capitolo andrò ad inve-
stigare dapprima il periodo in cui la Divina Commedia divenne di pubblico dominio, in se-
guito tenterò di datare il suo componimento, basandomi sull'accurata indagine di alcuni dan-
tisti. Sfortunatamente la mia ricerca termina solo con delle ipotesi, perché prove inconfutabili

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non accorrono in mio aiuto, quindi la mia ricerca non pretende dare spiegazioni assolute né
tanto meno intende forzare i dati in possesso, piuttosto si offre come una possibile chiave di
lettura. Le mie personali conclusioni giungeranno ad affermare che probabilmente Dante fu
condizionato nella stesura della sua opera dalle innovazioni giottesche. Seguirà quindi un
piccolo apparato fotografico e la bibliografia.

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II
La Cappella degli Scrovegni

2.1 Cenni storici sulla sua costruzione

Sebbene la storia della cappella abbia radici lontane, il 26 giugno del 1090, quando l'impe-
ratore Enrico IV donò al vescovo padovano Milone dei terreni, specificando la zona dell'Are-
na romana, in verità la chiesa di Santa Maria della Carità fu costruita sull'antica pianta dell'an-
fiteatro solo ai primi anni del Trecento. È da escludere che vi fosse stata un'eventuale cappella
precedentemente lì ubicata1. La committenza si deve ad Enrico Scrovegni che dimorava nel
palazzo a fianco2. Infatti la chiesa, poi denominata Cappella degli Scrovegni, originariamente
aveva la parete nord addossata direttamente al palazzo familiare che dava la facciata verso
l'interno dell'Arena. Questo fu poi abbattuto dagli eredi, i nobili Gradenigo, nel 1827 3. Simile
sorte spettava alla Cappella, così come agli affreschi, una volta staccati, poiché erano destinati
alla vendita. Fortunatamente la trattativa del passaggio di proprietà al comune di Padova,
dopo una sessantina d'anni di sforzi, si concluse nel 1880 4. Chiesa venduta, monumento sal-
vato per i posteri. Ma non esattamente integra, si dovette quindi operare d'urgenza per salvare
il ciclo di affreschi. Infatti si crearono danni irreparabili alla pellicola pittorica, dovuti all'ab-
battimento del palazzo di famiglia e della loggia in facciata, che lasciarono la chiesa in balìa
delle intemperie e delle infiltrazioni.
La chiesa fu costruita grazie alle ricchezze della famiglia Scrovegni, che però non provengono

1 C. Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto all'Arena di Padova, Padova, Il Poligrafo, 2003, p. 19
2 Ultimamente va intensificandosi l'ipotesi che Enrico fosse stato aiutato dall'Ordine dei Cavalieri gaudenti.
«Se il culto della Vergine Maria e la battaglia contro l'usura sono stati le caratteristiche essenziali di questo
Ordine; ciò che sembra essere stato l'elemento tipologico specifico fu la castità dei Cavalieri gaudenti», ciò
troverebbe conferma nell'Inferno che «sembra brulicare di dannati, spesso religiosi, che hanno compiuto pec-
cati anche contro la castità». G. Lorenzoni, Su alcuni aspetti iconografici dell'Inferno di Giotto nella Cappel-
la Scrovegni di Padova, in «Hortus artium medievalium», 4, 1998, p. 158
3 «Sempre i Gradenigo avevano già lasciato cadere, per non medicata vecchiezza, l'antico portico a tre archi
addossato alla facciata (…) e nel 1829 avevano aggredito la cappella stessa, cominciando con lo scoperchiare
il tetto dell'annessa sacrestia nell'intento di ricavare materiale da costruzione». C. Frugoni, L' affare migliore
di Enrico. Giotto e la Cappella Scrovegni, Torino, Einaudi, 2008, p. 6
4 Dopo lo spettro della vendita degli affreschi all'Arundel Society, il 10 maggio 1880 l'assessore alla cultura
Tolomei spinse il Consiglio all'acquisto del terreno con fabbriche denominato l'Arena dai conti Gradenigo
per 54.921 lire. G. Pisani, I volti segreti di Giotto, Milano, RCS Libri, 2008, p. 25

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da Enrico, bensì dal padre di lui, Rainaldo o Reginaldo5. Il giudice padovano Giovanni da
Nono (1276 ca.-1346), ci narra di un Rainaldo Scrovegni, soprannominato mona di scrofa,
come un giullare intrallazzato con le famiglie più ricche di Padova, che si arricchì con l'usura
accumulando un patrimonio di 500.000 lire. Questi, sposatosi con Cappellina Malacapella 6,
mise al mondo il futuro committente della chiesa, Enrico.
Le fonti dell'epoca però narrano di una diversa posizione sociale di Rainaldo, ora nominato
vir nobilis ora dominus, che cambierebbero il punto di vista giunto fino ad oggi, così come
forse è errato parlare di usura7. Voci invece che probabilmente influirono sulla stesura dell'In-
ferno di Dante, dove compare nel settimo cerchio dei violenti proprio Rainaldo; voci che
condizionarono non solo il sommo poeta, bensì anche Benvenuto da Imola, suo com-
mentatore8.
La Frugoni avanza dei dubbi sulla veridicità del peccato di usura della famiglia. Innanzi tutto
gli usurai non potevano esser sepolti in un luogo consacrato, e Rainaldo ha la tomba nella
cattedrale. Si sposò con Cappellina, figlia di una nobile famiglia di Vicenza, così come fece
unire i figli con altre famiglie abbienti, mentre era cosa sconveniente allacciare rapporti matri-
moniali con un usuraio. Il figlio Enrico si sposò con la figlia di Bonifacio da Carrara, il cui
nome non ci è pervenuto, mentre la nipote sua sposò Marsilio da Carrara, futuro signore di
Padova. Fallito il primo matrimonio9, Enrico prese in moglie Iacobina d'Este, di famiglia an-
cora più importante. Così come tutti i suo parenti si intrecciarono in famiglie potenti, venne a
crearsi una sorta di banca legale dove circolavano immense ricchezze dovute anche a rein-
vestimenti di terreni nel Veneto. Enrico oltre ai beni giuntigli dall'eredità, accrebbe la sua

5 «Reginaldo era stato l'agente finanziario di Giovanni Forzatè, [che fu] nominato vescovo da Innocenzo IV
Fieschi in funzione antiezzeliniana e protagonista della riconquista pontificia di Padova; ma anche in seguito
la posizione della famiglia [Scrovegni] rimase per decenni fortissima nell'area di potere dell'episcopato
padovano». S. Romano, La O di Giotto, Milano, Electa, 2008, p. 149
6 «Il matrimonio con Capellina, figlia di Enrico Malcapelli di Vicenza, gli permise di allargare il suo raggio di
azione e di svolgere una fiorente attività finanziaria col comune vicentino, concedendo a quanti si rivol-
gevano a lui, grossi prestiti. In un momento in cui la bestia dell'usura signoreggiava l'angelo di ogni persona
benestante, nonostante le invettive di Sant'Antonio, Reginaldo seppe talmente volgere a proprio vantaggio i
prestiti del denaro, da essere ritenuto il più grande usuraio del tempo». C. Gizzi, Giotto e Dante, Milano, Ski-
ra, 2001, p. 19
7 Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 14
8 «Uno peraltro di quei signori avea guadagnata fama infame anche presso le plebi, sebbene non fosse scan-
natore di professione. Era costui quel Reginaldo cui Dante dette celebrità imperitura ponendolo nell'Inferno;
e meritò davvero tale poco desiderabile onore, perché tenuto come il più grande usurajo in un tempo nel
quale l'usura era lebbra congenita quasi ad ogni ricco. Se costui non iscorticava il suo simile colla spada, gli
levava la pelle colle usure». P. Selvatico, Visita di Dante a Giotto nell'oratorio degli Scrovegni, in Dante e
Padova, studj storico-critici, Padova, Sacchetto, 1865, p. 107
9 «Lo scioglimento del primo matrimonio di Enrico, non sappiamo se la moglie morì o fu ripudiata per man-
canza di figli maschi, contribuì ad allentare i rapporti con i Carraresi. Enrico contrasse un secondo matri-
monio ancor più ragguardevole perché sposò, certamente prima del 1320, Iacobina d'Este, figlia del marchese
Francesco d'Este e sorella di Azzo IX d'Este». Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 20

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ricchezza prestando denaro ed addirittura finanziando il comune di Padova. Tra le sue fre-
quentazioni si annoverano il pontefice Benedetto XI10, l'imperatore Enrico VII, i marchesi
D'Este e Cangrande della Scala, mecenate dello stesso Dante.
Le attività finanziarie legittime di Enrico a poco a poco superarono i confini patavini, così
come ebbe già fatto il padre, per sfociare nella città di Venezia, dove morì. La sua figura ac-
crebbe sempre più d'importanza in Laguna, tanto è vero che divenne cittadino a tutti gli effetti
della Serenissima.
Enrico costruì nel 1294 nella contrada di San Gregorio la chiesa di Sant'Orsola, per poi in un
secondo momento devolverla ai cistercensi. Sempre a sue spese comprò il terreno dell'Arena e
il palazzo lì ubicato, dal legittimo proprietario in odore di bancarotta Manfredo, figlio di Gue-
cillo dei Dalesmanini, per 4000 denari veneti piccoli. Un affare, poiché il valore dell'Arena
era ormai divenuto irrisorio, infatti i continui spogli per riuso, resero il monumento romano
una vera cava11. La scelta ricadde su questa dimora probabilmente dopo una breve sommossa
popolare12, ed in seguito Enrico chiese il permesso, tra il 6 febbraio 1300 e il 29 aprile 1302,
di costruirvici una chiesa13.
Il peso politico e probabilmente oratorio di Enrico è certificato dalla sua presenza in qualità di
ambasciatore presso Azzo d'Este e di mediatore con Cangrande della Scala. Infatti lo scaligero
nel 1318 con la sua politica aggressiva giunse ad un passo dalla città di Padova. Attraverso
una delegazione composta anche da Enrico, la trattativa terminò il 25 luglio con l'elezione di

10 «Questo papa firmò tre atti che ben mostrano di che tipo di credito godesse in quegli anni Enrico Scrovegni.
Il primo è il documento del 13 dicembre 1303, con cui Benedetto XI concede a Giacomo de Malacapellis
[Enrico è suo consanguineo] di poter accedere a ogni carica e beneficio ecclesiastico nonostante la sua
nascita illegittima (…) il fatto che Benedetto XI fosse straordinariamente indebitato, ad esempio con ban-
chieri fiorentini, ed Enrico un ricco possidente uso a prestar denaro, non doveva forse essere elemento estra-
neo all'affezione». Romano, La O di Giotto, cit., 2008, pp. 159-160
11 Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, p. 20
12 Si tramandò che la notte prima del funerale di Reginaldo, la plebe armata di forconi voleva rimpossessarsi di
ciò che l'usuraio privò loro, solo il tempestivo intervento dell'Arciprete, Giovanni degli Abati, riportò la cal-
ma annunciando che Reginaldo voleva investire i soldi in un'opera pia e minacciando con la scomunica chi
non desisteva dai cattivi propositi. Enrico per questo non si sentiva sicuro della propria dimora, senza torri né
mura da castello che potessero difenderlo da un nuovo tumulto, specialmente se infiammato e pilotato da
qualche suo oppositore. Allora scelse il palazzo dei Dalesmanini quando seppe che Manfredo, attanagliato dai
debiti, voleva venderlo. Selvatico, “Visita di Dante a Giotto”, cit., 1865, pp. 101-192
13 «Enrico chiese al vescovo Ottobono de' Razzi l'autorizzazione ad erigere entro il recinto dell'Arena un
cenobio per l'ordine dei Frati Gaudenti e una chiesa da dedicare alla Santissima Annunziata, la cui festività
avrebbe dovuto celebrarsi, con la massima solennità, il 25 marzo di ogni anno. Secondo l'epigrafe dedicatoria
della cappella, tramandata dallo Scardeone, la prima pietra fu posta solennemente il 25 marzo 1303 e il 25
marzo 1305 fu dedicata a Santa Maria de' Caritate, de Harena (…) Quando l'edificio fu condotto a compi-
mento, giunse Giotto, con alcuni suoi discepoli, e come prima cosa fece allungare la struttura della cappella e
chiudere porte e finestre, per ricavare spazio per i progettati affreschi. Sembra inoltre che abbia voluto la
grande trifora romanico-gotica sulla facciata, quale principale sorgente luminosa per tutti gli affreschi».
Gizzi, Giotto e Dante, cit., 2001, p. 47

9
Jacopo da Carrara «protettore e governatore»14della città. Stratega illuminato, mediatore
persuasivo, finanziere incallito e quasi profeta, intuì istantaneamente la possibilità di una fama
duratura attraverso un'opera magnifica, ma soprattutto un simbolo che specchiasse il proprio
potere politico e sociale, ben oltre quello che potesse dargli il solo stemma di famiglia.
Perché ciò avvenisse chiamò a sé due tra i più importanti e famosi artisti dell'epoca: Giotto
nell'ambito pittorico e Giovanni Pisano, figlio di Nicola, entrambi scultori. In verità sembre-
rebbe che lo scultore non avesse preso parte fisicamente al progetto della cappella, lavorando
nel proprio studio, per poi spedire a Padova le tre statue dell'altare tra il 1305-06.
La sua gloria prendeva forma e non a caso, nell'epigrafe in latino perduta, che doveva trovarsi
davanti al proprio sepolcro, non è posto alcun accenno da parte di Enrico ai peccati di fami-
glia, anzi sottolinea che un luogo pagano fu convertito al cristianesimo; si poteva leggere
infatti che un miles honestum converitì in res honestas un luogo, loca, plena malis. Fortu-
natamente di questo importante documento se ne ha una copia trascritta da Bernardino Scar-
deone nel 156015.
Le indulgenze di un anno e quaranta giorni concesse dal pontefice Benedetto XI per chi si
pentisse e visitasse la Cappella nelle festività mariane come Nascita, Annunciazione, Purifi-
cazione ed Assunzione, inquadrano il progetto ambizioso di Enrico. D'altronde la chiesa fu
dedicata alla Vergine della Carità.
Con la morte del pontefice amico, i vicini frati eremitani prepararono le contromosse16, spinti
dal timore di perdere seguaci, data la continua ascesa di successo della cappella nei cittadini
padovani così devoti alla Vergine e conseguenti ricavi per l'indulgenza plenaria. Così si rivol-
sero per porvi rimedio al vescovo cittadino, Pagano della Torre, specialmente quando i sopru-
si, a detta loro, si esplicavano con la costruzione del campanile.
Eppure i finti coretti dipinti che si trovano sotto la scena dell'Annunciazione, mostrano un
prolungamento della parete in asse con quella interna e una altezza tale da non permettere l'il-

14 Pisani, I volti segreti di Giotto, cit., 2008, p. 15


15 B. Scardeone, De antquitate Urbis Patavii: Hic locus antiquo de nomine dictus harena| nobilis ara deo fit
multo numine plena.| Sic aeterna vices variat divina potestas| ut loca plena malis in res convertat honestas.|
Ecce domus gentis fuerat quae maxima dirae| diruta construitur per multos vendita mire.| Qui luxum vitae per
tempora laeta sequiti| dimissis opibus remanent sine nomine muti.| Sed de Scrovegnis Henricus miles hone-
stum| conservans animum facit hic venerabile festum.| Namque dei matri templum solemne dicari| fecit ut
aeterna possit mercede beari.| Successit vitiis virtus divina prophanis| caelica terrenis quae praestant gaudia
vanis.| Cum locus iste deo solemni more dicatur| annorum domini tempus tunc tale notatur| annis mille tribus
tercentum marcius almae| virginis in festo coniunxerat ordine palmae. Riportata in Bellinati, Nuovi studi
sulla cappella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, p. 34
16 «Sentendosi minacciati, approfittando della morte di Benedetto XI avvenuta il 7 luglio del 1304 e del fatto
che il vescovo Ottobono de' Razzi, che aveva dato ad Enrico il permesso di edificare, fosse stato sostituito [il
29 aprile 1302 verrà eletto patriarca di Aquileia], il 9 gennaio del 1305 si rivolsero con un reclamo assai
energico al [nuovo] vescovo». Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 39

10
lusione di un transetto; questo dimostra che quando Giotto cominciò ad affrescare, l'imposta-
zione muraria era già fissa e conclusa. La scena di Enrico offerente è stata forse l'ultima dipin-
ta, quindi il modellino presenta il progetto realizzato e non quello in fieri17.
Nel modellino non compare il campanile, eppure i frati il 9 gennaio 1305 lo dichiarano già
concluso e lo fecero abbattere, quindi la data dell'indulgenza di Benedetto XI, 1 marzo 1304
potrebbe segnare la fine delle decorazioni. Alle modifiche apportate alla struttura seguì una
nuova consacrazione, il 25 marzo 1305; infatti il 16 marzo 1305 Enrico chiese de pannis san-
cti marci al Gran Consiglio di Venezia, città fortemente finanziata da lui. L'ipotesi più getto-
nata di cosa si trattasse, propone che fossero dei paramenti che servissero per riempire parti di
muro non ancora dipinte. Ma la bolla del pontefice è dell'anno prima. Il motivo per cui do-
mandò a Venezia teli ricamati era forse solo per ribadire il grado di eccezionalità con cui gli fu
permesso costruire la chiesa e ovviamente per sfoggiare conoscenze prestigiose. Così come
non appare casuale l'imitazione dello schema iconografico dei mosaici marciani, nelle fasce
delle Virtù e dei Vizi della Cappella, dove ai veri marmi e ori veneziani ora trovano posto imi-
tazioni illusionistiche.
Un piccolo mistero è la statua di Enrico, di data e autore incerti, che offre varie interpreta-
zioni, specialmente quale fosse il suo posto designato. La sua stazione eretta non è convenien-
te per l'interno di una chiesa, così come la frase scritta ai piedi della statua «propria figura do-
mini enrici scrovegni militis de larena» 18 non si confà ad un ambiente religioso, piuttosto è
ragionevole pensare ad una nicchia esterna in facciata.
Ogni anno, il 25 marzo, veniva teatralizzata l'Annunciazione in un vangelo cantato, che creò
fama e popolarità per Enrico. Questo però durò pochi anni, perché a Padova cominciarono
lotte intestine: nel 1311 perse il controllo su Vicenza, mentre dall'altra parte avanzava un
potente Cangrande. Enrico intuì subito con chi istituire alleanze e si avvicinò ai Carraresi 19, in
continua espansione politica e sociale, nonostante i suoi pronipoti non fossero della medesima
idea. Ma col nuovo tentativo di Cangrande di entrare in Padova nel 1320, e non sapendo chi
poggiare, l'invasore o Giacomo da Carrara, Enrico chiese ospitalità a Venezia.
Dopo che Padova si arrese allo scaligero nel 1328, Enrico tornò proponendosi a Cangrande,
cosa che fece infuriare Marsilio da Carrara e che provocò disaccordi tra i due ex parenti, pro-

17 Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 43


18 Ibid., p. 53
19 «Da tempo del resto lo Scrovegni si era schierato dalla parte dei Carraresi; nell'ambasciata del 1307 si
trovava in compagnia di Ubertino da Carrara, con Giacomo era stato a Milano nel 1311 per l'incoronazione
dell'imperatore. (…) si era schierato con il partito dei Carraresi favorevoli a Baiamonte, dichiarandosi pronto
ad offrire ogni possibile aiuto». Ibid., p. 63

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vocando la nuova fuga a Venezia dello Scrovegni. Qui il suo fiuto per gli affari continuò
incessantemente fino al 1336, anno della sua morte.
Sempre secondo Giovanni da Nono, Enrico avrebbe fatto parte dei Cavalieri gaudenti, devoti
alla Madonna e impegnati nella soppressione dell'usura. Ma documenti che certifichino la sua
appartenenza non ce ne sono. Però nei testamenti redatti in più occasioni, ricorre spesso la
volontà di riposare in eterno nella sua chiesa, così come la volontà che si faccia messa e che i
chierici seguano i dettami di Sant'Agostino. Una prova di questo si trova nel Giudizio univer-
sale. Il fiuto per gli affari si denota anche nell'ultimo testamento 20: dovendo preservare le ric-
chezze future ai figli maschi, lascia alla moglie Iacobina i possedimenti padovani dal reddito
incerto, poiché al momento occupati dal nemico Marsilio. Non mancò di menzionare in esso,
ripagandolo con soldi, un certo Filippo Bellegno, che da consigliere dogale aiutò Enrico nella
città dei canali. Un lascito copioso pari a quello per la casa del clero ancora da costruire, ma
nessuna buona parola per la moglie e le figlie.
Verso la fine del testamento Enrico divide lasciti in miriadi di piccole chiese, conventi e mo-
nasteri in tutto il Veneto, preoccupato più per la vita dell'aldilà sua e dei genitori che per la
moglie; soldi ora per preghiere future e un ottimo lasciapassare per il Paradiso.

2.2 Antico e Nuovo Testamento

Una volta entrati dalla porta laterale, che all'epoca univa il palazzo alla Cappella, ci si trova
avvolti dagli affreschi, «l'impresa pittorica di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova
si configura e va letta non tanto in una dimensione di spettacolo a sviluppo lineare (…) quanto
come traduzione in itinerario visivo di un compiuto viaggio a spirale, che coinvolge tutto lo
spazio architettonico emblema dello spazio esistenziale di tutta l'umanità - dal cielo alla terra
e dalla terra al cielo»21. L'edificio è spoglio all'esterno e appena si è dentro risalta la diffe-
renza, l'interno è «come uno scrigno dalla volta a botte interamente affrescato. Uno spazio
dove l'horror vacui si trasforma nella rappresentazione religiosa dell'intera visione dell'uni-
verso cristiano»22. Lo sguardo è direzionato frontalmente a leggere nel primo registro in alto

20 L'ultimo testamento di Enrico fu scritto il 12 marzo 1336 al monastero di San Mattia su un'isola presso
Murano. Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, p.11
21 G. Segato, Giotto a Padova. Un viaggio giubilare come spirale della salvezza, in Giotto e Dante, cit., 2001,
p. 137
22 M. B. Autizi (2001) Una nuova visione del mondo negli affreschi della Cappella degli Scrovegni, in «Padova
e il suo territorio», XVI, 90, p.13

12
le storie di Gioacchino e Anna, che proseguono sull'altra parete, quella nord, con la vita di
Maria, continuando con moto elicoidale si scende poi di registro, e così via dalla nascita di
Gesù fino alla Pentecoste.
Nella volta azzurra e stellata trovano posto i medaglioni grandi di Maria e Cristo Pantocrator.
Mentre attorno alla Madre vi sono i profeti Malachia, Isaia, Baruch e Daniele, di più difficile
attribuzione sono quelli attorno a Cristo, tranne Giovanni Battista e Mosè, riconoscibili dal
vestito di pelli l'uno e dalle tavole l'altro. Il Gizzi 23 invece alle figure di questi ultimi attribui-
sce il Battista, Michea, Geremia ed Ezechiele.
Le storie di Gioacchino e Anna sono dovute a vangeli apocrifi, divulgati tramite la Legenda
Aurea24; il Vangelo di Pseudo-Matteo assieme al Protovangelo di Giacomo invece sono le
uniche fonti per la storia della Vergine.
Nella parete sud la Cacciata di Gioacchino dal tempio apre il ciclo. Qui il sacerdote Ruben
allontana il vecchio uomo perché un'antica credenza affermava che l'uomo sterile è un pec-
catore. Segue Gioacchino fra i pastori dove soggiornò per mesi, qui l'atmosfera è di puro rac-
coglimento e tristezza. L'annuncio ad Anna alterna paesaggio ad architettura, siamo in un
interno simile ad un luogo deputato medievale 25, dove un angelo porta la tanto attesa notizia
ad Anna che era disperata per il prolungarsi dell'assenza del marito, mentre fuori tesse Giudit-
ta, l'ancella26. L'annuncio dell'angelo a Gioacchino è una scena drammatica e quasi con un
sprezzante distacco verso il sacrificio, Giotto mostra lo scheletro dell'agnello contorto che
brucia verso la mano di Dio. Il penultimo riquadro è Il sogno di Gioacchino, dove nel sonno
gli reca visita l'angelo ordinandogli di tornare dalla moglie in cinta. Chiude le storie dei geni-
tori della Vergine, L'incontro alla porta aurea, dove il bacio concepitore tra i due sposi è
incorniciato dalla Porta, una “traduzione medievalizzata dell'Arco di Augusto a Rimini” 27, e
vigilato da vicino dalla nera vedova, forse un simbolo della cieca Sinagoga.
Continuando sulla parete nord con la Nascita di Maria, inizia la storia della sua vita. Questa

23 Gizzi, Giotto e Dante, cit., 2001, p. 52


24 «La Legenda Aurea di Jacopo da Varagine (Varazze), domenicano e vescovo di Genova dal 1292 alla morte
(1298) è per le vite dei santi ciò che le Meditationes [Vitae Christi] sono per la vita di Cristo, anzi forse
qualcosa di più; raccoglie e ordina, dall'immensa materia provvista dagli agiografi, vite, storie, episodi, mira-
coli fatti e detti. Conosce le immagini, ne trae informazioni e particolari; e li suggerisce a chi debba dipin-
gerne di nuove». S. Settis, Iconografia dell'arte italiana, 1100-1500:una linea, in Storia dell'arte italiana,
vol. I, Materiali e problemi, tomo III, L'esperienza dell'antico, dell'Europa, della religione, Torino, 1979, p.
229
25 Cfr. F. Perrelli, Storia della scenografia. Dall'antichità al Novecento, Urbino, Carocci, 2008, pp. 29-33
26 Questa figura tratta dal Protovangelo di Giacomo, sembra una trasposizione in pittura dello scriba perugino
di Arnolfo di Cambio. La pittura trasforma il corpo in una statua togliendogli quindi il colore. Romano, La O
di Giotto, cit., 2008, p. 179
27 Romano, La O di Giotto, cit., 2008, p. 188

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scena d'interno già vista poc'anzi ora si riempie di personaggi, Anna nel letto che riceve la
figlia bendata e al tempo stesso la figlia accudita dalle nutrici, formula praticata di frequente
all'epoca. Maria presentata al tempio, ripropone il medesimo luogo sacro dove fu scacciato
Gioacchino, ora però i personaggi sono accolti tutti con eleganza. I genitori con questo riqua-
dro spariscono di scena, concepirono la Vergine senza peccato originale perché Dio apprezzò
la loro caritatevole ricchezza, e ora lasciano spazio alla figlia.
La Vergine cresce e deve trovare marito, ci soccorre sempre la Legenda aurea, narrandoci il
modo con cui lo trovò, si avvicendano così La raccolta delle verghe, La preghiera per la fio-
ritura e Lo sposalizio. L'ambiente di questi tre accadimenti è sempre il tempio visto sezionato,
Giuseppe, riconoscibile perché canuto, prima porta la verga assieme a una moltitudine di per-
sone al sacerdote, poi si inchina pregando e nell'ultima il miracolo si avvera, regge la verga
fiorita dove vi si posa sulla sommità la colomba, ovvero la volontà divina. La fascia superiore
si chiude con il Corteo nuziale, dove compare per la prima volta l'arco gotico come per signi-
ficare il passaggio al Nuovo Testamento. Congiunge la storia di Maria alla nascita di Cristo un
arco trionfale o iconostasi dove è rappresentata l'Annunciazione, vero tema cardine della Cap-
pella ad essa dedicata. La scena è costruita in alto con l'Eterno, dipinto a tempera su tavola
mobile di pioppo, che ordina all'Arcangelo in basso a sinistra, di annunciare a Maria inginoc-
chiata, nella parte opposta, la futura nascita28. Per scendere di registro, sotto l'annunciazione
compare la Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta ormai anziana. Questa, rimasta in cinta
miracolosamente, metterà alla luce il futuro Giovanni Battista, mentre il marito Zaccaria riac-
quisterà la parola. Nella parete sud si continua con La nascita di Cristo, ambientata metà e
metà tra grotta e stalla dove, sdraiata secondo l'iconografia bizantina, Maria estenuata abbrac-
cia il figliolo. Entrano a far parte anche il bue, l'asinello e le ostetriche, tutti elementi tratti dai
vangeli apocrifi. Stalla che ambienta anche L'adorazione dei magi, condotti fin lì dalla stella
cometa in alto29. Non è un caso che il magio che bacia i piedi a Gesù releghi l'ostensorio d'oro
all'angelo, Giotto così rimarca la transustanziazione e l'importanza dell'eucarestia. Dopo di
che, la Presentazione al tempio. Gesù è posto tra le braccia del profeta Simeone, le due torto-
relle pronte all'immolazione nelle mani di Giuseppe e nella mani di Anna è citata la fonte da

28 La tavola con cardini è uno sportello che «doveva servire a creare qualche effetto speciale, che successive
modifiche strutturali dell'abside rispetto al progetto iniziale hanno reso impossibile, visto che alle spalle oggi
non c'è uno spazio vuoto, aperto sul celo, ma un solaio che insiste sulla volta del coro». Pisani, I volti segreti
di Giotto, cit., 2008, p. 34
29 Probabilmente ispirata da quella di Halley, visibile dal settembre 1301 al gennaio 1303. S. Romano, La O di
Giotto, cit., 2008, pag. 141. In questa stessa scena, la Romano sempre attenta ai debiti verso la statuaria
romana, propone anche che lo scudiero che tiene la briglia del cavallo derivi dai Dioscuri (Castore e Pollu-
ce), ora nella fontana di Montecavallo in Piazza del Quirinale. Ibid., p. 197

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un cartiglio, lo pseudo-Matteo. É l'ora della Fuga in Egitto, dovuta all'ordine di Erode di ucci-
dere tutti i bambini di Betlemme per paura che uno di questi lo possa detronizzare. Infatti la
scena seguente è La strage degli innocenti, forse quella meglio realizzata nella sua atrocità,
nella sua carica di pathos e nelle sue lacrime. Forse una rivisitazione dei misfatti del crudele
Ezzelino III è l'agghiacciante efferatezza dei carnefici ebrei vestiti con panni medievali e l'in-
differenza dei soldati romani. Bisogna ora tornare sull'altra parte, quella nord, per proseguire
il racconto con Gesù fra i dottori, affresco rovinato, staccato e ricollocato nell'Ottocento. Nel-
le acque del Giordano avvenne il Battesimo di Cristo, sebbene il Battista non abbia tra le mani
la ciotola piena di acqua. Le nozze di Cana aprono la serie dei miracoli, ovvero la tramutazio-
ne dell'acqua in vino che assaggia il maestro della casa, panciuto simile alle giare di pietra.
Segue ora l'ultimo miracolo, che costò la morte del Redentore, la Resurrezione di Lazzaro,
simbolo della futura vita immortale per i credenti e così caro per lo Scrovegni. Il penultimo
riquadro mostra L'entrata di Cristo in Gerusalemme, che viene accolto con mantelli e rami
dove cammina, il tripudio del popolo per il salvatore. Termina questa sequenza La cacciata
dei mercanti dal Tempio. Qui compaiono sulla destra i sacerdoti Caifa e Hannah (che subito
dopo riceveranno i trenta denari da Giuda), i mercanti e le pecore che scappano30, ma dei cam-
biavalute compare solo un tavolo con una stoffa sopra e senza monete. Una probabile censura
voluta da Enrico. È interessante notare anche come in questa fascia i gesti di Cristo vadano
via via crescendo d'intensità così come la sua posizione vada accentrandosi dalle Nozze di
Cana alla Cacciata31. Si prosegue sotto l'Annunciazione nell'arco con Il patto di Giuda. Anche
qui le monete non compaiono, se non attraverso una saccoccia, mentre è curiosa la somiglian-
za tra il demonio e l'Iscariota ritratti con un profilo tipicamente ebraico 32, l'uno nero e l'altro in
vestiti gialli, simbolo di tradimento.
Sull'altra parete si procede con l'Ultima cena ambientata in una stanza teatrale senza due
pareti. La stessa è riproposta nel la Lavanda dei piedi, sebbene cronologicamente posteriore

30 Gli animali che entrano in scena si trovavano già nella Lustratio, così come nel bacio di Giuda le fiaccole
ricordano le lance della traianea Cattura dei Daci. Entrambi i rilievi sono esempi di influenza della statuaria
romana e provengono dall'Arco di Costantino. Romano, La O di Giotto, cit., 2008, p. 209. Invece il tempio
orientaleggiante, la coppia di cavalli, e le colonne col leone sembrano un omaggio a Venezia. Pisani, I volti
segreti di Giotto, cit., 2008, p. 97
31 H. M. Thomas, Note sulla cappella di Giotto a Padova, in «Ateneo veneto», 30, 1992, p. 289
32 I tratti che Serena Romano intravede in Giuda potrebbero provenire dagli studi dell'epoca sulla fisiognomica.
Nel trattato pseudo aristotelico Physiognomika si insiste sulla tipizzazione dei volti e conseguenti caratteri.
Rifacendosi a questo, Pietro d'Abano col Liber compilationis, offre un'interessante fonte da cui attingere.«A
Giuda, ad esempio, vengono affibbiati gli occhi piccoli e infossati del traditore, il naso schiacciato dello stol-
to effeminato, il mento prognato dell'iracondo, i capelli radi dello smidollato: un'antologia del male, che nella
Cattura si pone in lampante contrasto con la fisionomia nobilissima e stereometrica del Cristo, il suo naso
dritto, la sua fronte spaziosa». Romano, La O di Giotto, cit., 2008, p. 136

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rispetto all'Ultima cena, forse per creare un parallelismo con la superiore adorazione. Poi è
l'ora de Il bacio di Giuda, dove Giotto mostra un'intimità e umanità tra il Redentore e il tradi-
tore, due profili antitetici in un colloquio di sguardi. Gesù dinnanzi al sinedrio, il messia non è
riconosciuto e viene processato da Caifa che si straccia le vesti adirato, mentre alle spalle di
Cristo sta un soldato nell'atto dello schiaffeggio, lo stesso che era dietro Giuda nel tradimento.
Gesù schernito e oltraggiato, qui Giotto preferisce non presentare la flagellazione per mano
romana, anzi ripone sulla destra come in secondo piano Ponzio Pilato, così facendo accresce
la gravità delle azioni solo sugli ebrei. La scena è serrata attorno a Cristo più defilato, in mez-
zo grande importanza riveste il bastonatore nero simbolo del male perché discendente da
Chan, come gli Etiopici, popolo peccatore e fautore della torre di Babele33.
Il ciclo della Passione ora muove sulla parete nord con Cristo verso il Calvario, uscito con
folla e soldati dalla stessa porta che lo accolse in entrata a Gerusalemme. La crocifissione pro-
pone nuove soluzioni iconografiche, oltre alla scomparsa delle due croci ai lati di Cristo, qui
la Maddalena non sorregge la Vergine, ma piange ai piedi del Messia asciugandogli coi capelli
i rivoli di sangue. Una contaminazione medievale di Maria Maddalena con Maria di Betania 34.
Sotto la croce s'intravede il cranio di Adamo, che in ebraico appunto si dice Golgota e in gre-
co Calvario. Il compianto su Cristo morto è una delle scene meglio realizzate dal punto di vi-
sta emotivo. Un particolare forse voluto è la diagonale del monte che parte dal corpo morto e
finisce in alto con un albero vizzo. Questo monte è presente in direzione opposta nel seguente
Noli me tangere, dove qui però termina con erba viva che nasce sotto i piedi di Gesù risorto,
come ad enfatizzare la rinascita. La resurrezione è avvenuta tre giorni dopo, come tre ne pas-
sano prima che Il leone soffia la vita ai piccoli, e il quadrilobo fa da tramite tra le due scene.
L'ascensione di Cristo è una scena delle meno riuscite, dai corpi sproporzionati e asettici
(probabilmente compito della bottega fu il ritrarre gli apostoli), contrariamente a Gesù di di-
verso registro pittorico. Per sottolineare l'ascesa il corpo del Messia sta scomparendo fuori dal
rettangolo illustrativo, infatti non se ne vedono le mani. Per un corpo immateriale che sale,
uno Spirito Santo scende. Così Giotto conclude il ciclo cristologico, la Pentecoste parallela-
mente all'Ultima cena ripropone una simile struttura architettonica, mentre tra gli apostoli si
annovera Mattia che sostituisce Giuda.

33 Per l'intera storia del “bastonatore nero” cfr. Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, pp. 221-231
34 Maria di Magdala è descritta nel Vangelo di Luca colei da cui erano usciti sette demoni. È una delle donne
che seguono il Maestro, chiamata anche apostola apostolorum perché sarà la prima testimone della sua resur-
rezione. Fu anche identificata con la sorella di Lazzaro, Maria di Betania, colei che asciugò con i capelli i
piedi di Cristo secondo il Vangelo di Giovanni. Le venne poi associata Maria Egiziaca, la prostituta che visse
nei deserti vestita di soli capelli. Ne conseguì che la Maddalena nel Medioevo divenne il simbolo per eccel-
lenza di virtù riconquistata. Pisani, I volti segreti di Giotto, cit., 2008, pp. 121-122

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2.3 Vizi e virtù

Sotto il ciclo narrativo trovano posto le Virtù e i Vizi35 contrapposti come specchi, a differenza
dei primi, i secondi sono tutti girati verso il Giudizio universale, più specificamente verso l'In-
ferno e hanno misure minori, seppur impercettibilmente, sia in altezza che in larghezza 36. L'al-
ternanza delle allegorie, i finti marmi affrescati, la resa monocroma come bassorilievi antichi
ha spinto la Romano a ricorrere all'esempio della Roma antica. Le province sottomesse dallo
Impero o Nationes, venivano simboleggiate da personificazioni scolpite in bassorilievo e posi-
zionate a coronamento degli edifici della capitale. Nei frequenti viaggi di Giotto è ipotizzabi-
le la visione di queste e del loro reimpiego in pittura nella cappella37.
Inizio con Prudentia la prima Virtù cardinale partendo dall'iconostasi. Essa è dipinta con uno
specchio convesso che rimpicciolisce ciò che si vede guardando lontano, un simbolo di pre-
veggenza, è davanti ad un leggio con un libro aperto, simbolo di memoria storica e meditazio-
ne, e tiene un compasso, simbolo della scienza. Tra i suoi capelli della nuca Giotto disegna il
profilo di un uomo che forse simboleggia Giano, oppure Socrate. Nell'insieme si uniscono
quindi la visione del passato, del presente e del futuro. Stultitia si oppone a Prudentia, la figu-
ra è maschile e tiene in mano una clava, un vestito sfrangiato, piedi nudi e penne con sonagli
in testa. Purtroppo il viso è stato sfregiato e non si è potuto ricostruire con sicurezza la bocca.
Nelle miniature medievali lo stolto è rappresentato pelato con un bastone e una pagnotta mor-
sicata. L'insipiens fu il connotato del popolo ebraico. Le piume lo rendono come un giullare o
anche, secondo un rito dell'epoca, re del gallo, spettacolo popolare il cui vincitore veniva in
questo modo adornato.38
Fortitudo39 seconda virtù cardinale è una donna che ricorda nelle vesti e nelle fattezze un
35 «L'origine letteraria della raffigurazione delle Virtù è da ricercarsi specialmente nella Psycomachia del poeta
latino cristiano Clemente Prudenzio (348- dopo il 405), nativo della Spagna. In età romanica e gotica esse
erano in genere personificate da vergini guerriere che abbattevano i Vizi, sotto forma di demoni, come le
sculture del portale di Notre-Dame di Parigi. (…) Successivamente si preferì rappresentare le Virtù sotto for-
ma di figure femminili sedute o erette con i loro attributi simbolici». Gizzi, Giotto e Dante, cit., 2001, p. 58.
Inoltre i loro volti sembrano riecheggiare ognuno un luogo comune, suggerito dalla Physiognomika. «Sull'a-
varo con l'allusione al viso smangiato ed emaciato, al colorito terreo e fangoso, alle orecchie allungate e
asinine, calza bene all'aspetto dell'Invidia; gli occhi annebbiati del traditore si ritrovano nell'Infidelitas; la
fronte sfuggente e stempiata, il mento prognato dell'iroso, nell'Ira; gli oculi imbeciles e la posizione instabile
che Pietro assegna al carattere fiacco e neghittoso riappaiono, filologicamente corretti, nell'Inconstantia».
Romano, La O di Giotto, cit., 2008, p. 135
36 Per approfondire cfr, Thomas, Note sulla cappellla di Giotto a Padova, cit., 1992, pp. 286-288
37 Romano, La O di Giotto, cit., 2008, p. 226
38 Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 284
39 Nella prima cerimonia della Dedicazione «di buon mattino venivano accese dodici candele nel luogo dov'era-
no dipinte le dodici croci», poi ridipinte nel 1305, «una soltanto delle prime appare tuttora, sopra il capo della

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fante medievale o una rivisitazione dell'Ercole mitico 40, armata di mazza ferrata contempo-
ranea al pittore, attorniata di pelle di leone il cui cranio le fa da elmo e uno scudo gigantesco
sopra cui capeggia ancora un leone in bassorilievo. É ovviamente simbolo di forza non fisica
ma morale, armata contro i vizi e protetta dal male.
Ad essa si contrappone Inconstantia. Questa cerca equilibrio su una ruota poggiata su di un
piedistallo inclinato, allargando le braccia. Direi l'esempio iconografico migliore per suggerire
la mutevolezza degli ideali, l'esatto opposto di una fermezza morale.
Sempre nella parete sud delle virtù, l'allegoria di Tenperantia abbandona l'iconografia tradi-
zionale della donna che mescola vino e acqua con due brocche, in favore di una donna vista
frontalmente, eretta, con un morso che le frena la parola e una spada tra le mani, la cui impu-
gnatura è legata stretta. Questo perché «l'unico rimedio all'arroganza e alla prepotenza dell'ira
è un'assidua opera di prevenzione»41. La spada inoltre è un chiaro riferimento alla truculenta
società dei tempi di Giotto. Sua antitesi al lato opposto è Ira, che ricorda nel suo strapparsi le
vesti la figura di Caifa, nel Gesù innanzi al sinedrio.
Siamo quindi giunti nel mezzo della Cappella, quindi una posizione di rilievo copre la quarta
virtù cardinale, Iusticia, che precede le prossime tre virtù teologali. Questa, seduta su di un
trono gotico, regge tra le mani due piatti, un cliché facilmente riconoscibile come simbolo di
giustizia. Sopra questi a destra un vecchio sta per decapitare una figura acefala, perché dan-
neggiata, e a sinistra un giovane sta incoronando un uomo seduto, forse orefice, vista la pre-
senza di un'incudine, una pinza e alcune pietre. Nella predella trovano posto fanciulle dan-
zanti, un cavaliere e una dama che dialogano e mercanti a cavallo. Questi ultimi come a dimo-
strare la giustizia nel buon uso dei soldi? La giustizia della chiesa dell'Arena assume il signi-
ficato anche di buon governo, specialmente dopo gli anni di terrore di Ezzelino 42, forse biso-
virtù della Fortezza». Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, pp. 37-
38
40 «Giotto si è manifestamente lasciato attrarre dal modello di Nicola Pisano, il quale l'aveva così mimeti-
camente assimilata alla figura di Ercole, che ancora oggi non si è in grado di decidere se la figura del Batt-
istero di Pisa sia una Fortitudo o semplicemente una raffigurazione di Ercole». Romano, La O di Giotto, cit.,
2008, pp. 223-224
41 Pisani, I volti segreti di Giotto, cit., 2008, p. 159
42 Per una trattazione storica esauriente sulla figura di Ezzelino, confrontare E. Crouzet-Pavan (2007) Inferni e
paradisi. L'Italia di Giotto e Dante, Roma, Fazi, pp. 52-59. Dopo la dominazione di Ezzelino III da Romano
(1237-1256), Padova arrivò a decretare giorno sacro, quello della liberazione nel 1257 dall'oppressivo tiran-
no, da perpetrarsi in futuro celebrandolo con giochi e palii. Per questo il comune si proteggeva da futuri
tiranni arginando il più possibile nuove famiglie potenti, infatti nello statuto del 1270 si deplorava il coinvol-
gimento di queste in affari politici, così come verso il clero. «Nel 1293 in un momento di crisi nei rapporti
con gli Estensi, le arti diedero vita ad una nuova forza, con connotazioni militari e poi sempre più politiche,
che riuniva tutte le corporazioni», nacque l'Unione delle Fraglie, ovvero soldati dell'esercito comunale uniti
affinché perseveri lo stato di pace in città, «ma in realtà per costituire un gruppo istituzionalizzato di pres-
sione e difesa degli esponenti minori della comunancia populi Paduani». A. Rigon, Padova nell'età di Dante
e Giotto, in «Padova e il suo territorio», XVI, 90, 2001, p. 8

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gna premiare le ricchezze se ben utilizzate o distribuite?
Chiunque abbia visitato la chiesa, trovandosi di fronte Iusticia, avrà notato in lei uno sguardo
fisso e intenso. Contrariamente, Iniustitia che non mostra i propri occhi voltandosi di lato, a
mio avviso sembra come voler nascondere qualcosa, come chi non è sincero e non regge la
vista altrui. Una figura maschile, in un contesto diroccato, con unghie affilate come arpia e
zanne fuoriuscenti dalle labbra, seduto come un giudice del male. Parallelamente nella pre-
della sono sottolineati dei misfatti, probabilmente una donna violentata da due uomini, un
ladro di cavalli e due soldati che ignorano il tutto. I tratti sembrerebbero ricordare ancora una
volta Ezzelino.
Tornando alle Virtù è l'ora di Fides, una donna che tiene tra le mani una croce astile e un car-
tiglio e sulla cinta ha le chiavi di Pietro. Atteggiamento fiero, avvolta da un mantello con degli
strappi, come a confermare le lotte della chiesa verso l'eresia imperante, come quella catara o
le crociate in Terra Santa, può esser letta come un simbolo della Chiesa militante come la Pa-
dova guelfa dell'epoca o un omaggio al papa Benedetto XI. Fides poggia su una pietra, e dopo
le chiavi, forse un altro accenno alla chiesa in fieri. Le si contrappone Infidelitas, rappresen-
tata da un uomo strabico perché non vede la verità della fede. Attorno al collo un cappio tenu-
to da un idolo, fa voltare le spalle ad un cartiglio, ovvero le sacre scritture, mentre ai suoi pie-
di emergono le fiamme del peccato.
Karitas43 è una fanciulla nimbata, che con una mano offre un piatto pieno di frutta e ortaggi,
con l'altra invece offre il suo cuore a Cristo. Calpesta dei sacchi, ma non sono esplicitamente
disegnati i soldi, dato che il programmatore degli affreschi non voleva rimandare direttamente
ai guadagni del committente. Motivo per cui a Karitas non fa eco Avaritia, ma un'insolita In-
vidia. Questa è una vecchia che brucia nelle fiamme infernali, ma anche nelle fiamme interiori
di insaziabile bramosia. Dalla sua bocca esce un serpente che le si ritorce contro gli occhi 44,
mentre stringe fra le dita unghiate una saccoccia di denaro.
Siamo giunti finalmente all'ultima coppia di opposti, Spes e Desperatio. La prima è una gio-
vine che con le ali vola verso un angelo che le dona una corona, si volge verso i beati della
controfacciata, dove si svolge il Giudizio finale. La seconda invece precede l'Inferno, senza
fede e suicida impiccata come si vedrà in molte scene di lì a poco, con un demonio che la tra a

43 «Il programma pittorico portò a chiudere la porta ov'è effigiata la Carità o almeno due finestre nella parete di
tramontana». Infatti nel testamento di Enrico si menziona una casa canonica, nel terreno contiguo per la co-
munità dei chierici comunicante con la cappella. Bellinati, Nuovi studi sulla cappella di Giotto all'Arena di
Padova, cit., 2003, p.15
44 Gli occhi quasi non si vedono, come se ne fosse priva. La Romano insiste sul gioco di parole in-videre, e nota
come anche Dante poi nel Purgatorio punirà gli invidiosi impossibilitandoli a vedere tramite la cucitura delle
palpebre. Romano, La O di Giotto, cit., 2008, pp. 221-222

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sé. Si arriva così all'ultimo atto, l'ottavo giorno, il dies irae.

2.4 Il Giudizio universale

Il lungo viaggio illustrativo culmina con la controfacciata. Per comprendere il processo che ha
forgiato l'immagine del Giudizio universale è bene fare qualche passo a ritroso, rifacendomi
all'indagine di Baschet, tornando agli albori della civiltà. Secondo i suoi studi45, in verità l'idea
di un soggiorno dei morti nell'aldilà è un tratto comune di numerose religioni antiche, dall'In-
dia fino all'Egitto; a tutti era destinato un luogo eterno e ben differente era il significato della
bilancia, mezzo di una prova dai rituali magici. In Egitto, così come nell'Ade greco, il luogo
dell'oltretomba non assegna distinzione alcuna ai morti, salvo cambiare in epoche seriori,
quando questa visione mutò poi con la suddivisione tra Campi Elisi e Tartaro. Si possono così
suddividere in due tronconi le credenze antiche, le prime interpretano un mondo indifferen-
ziato e ignorano i castighi infernali, le altre sviluppano un immaginario di supplizi non peren-
ni, ma solo dal carattere temporaneo. Fino al V secolo a.C. anche l'Antico Testamento giudeo
non accennava ad una ricompensa o una dannazione, ma un unico luogo lo Sheol almeno fino
al Libro di Giobbe, né tanto meno si fa mai riferimento ad un giudizio, seppure ambigue sono
le Apocalissi di Isaia, di Ezechiele e di Daniele. È nelle Apocalissi non canoniche che l'idea di
Inferno è accresciuta, come in quella di Elia, nei salmi di Salomone e soprattutto nel Libro di
Enoch (composto tra il 170 e 120 a.C.) dove non si trova traccia delle pene, bensì dell'Idea di
un giudizio, di gioia eterna e di maledizione differenziati46. Il Vangelo di Luca (16, 19-31) nel-
la parabola di Lazzaro, tratta dei due luoghi, uno di riposo e l'altro di tormenti, mentre il Van-
gelo di Matteo costituisce la principale idea cristiana di un Giudizio finale, dando una dimen-
sione cosmica di questo avvento
Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle
cadranno dal cielo e le potenze dei cieli saranno sconvolte. Allora comparirà nel cielo il segno del Figlio
dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell'uomo venire
sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli con una grande tromba e

45 J. Baschet, Les justices de l'au-delà. Les représentations de l'Enfer en France et en Italie (XII-XV siècle),
Roma, École française de Rome, 1993, pp. 15-83
46 In questo libro Enoch narra di una grande montagna, dalle quattro cavità, la prima luminosa destinata ai retti,
le altre tre oscure. Di queste la seconda è destinata ai peccatori che finiranno nei castighi eterni nel momento
del giudizio; la terza raggruppa gli spiriti uccisi nel giorno dei peccatori e che accusarono i loro assassini; la
quarta è quella dei peccatori che avendo sofferto nella loro vita non saranno afflitti da un male più grande di
quello vissuto fino al giorno del giudizio. Ibid., p. 18

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raduneranno tutti i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all'altro dei cieli.47

e indicando una vera e propria separazione tra eletti e reprobi.


Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti i suoi angeli con lui, sederà sul trono della sua
gloria. E davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore
separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a
quelli che staranno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno prepa-
rato per voi fin dalla creazione del mondo. Perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho
avuto sete e mi avete dato da bere; ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e
mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore,
quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da
bere? Quando ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti
abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Ed il re dirà loro: In verità vi dico: ogni
volta che lo avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Poi dirà a quelli
che saranno alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e
per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete
dato da bere; ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e
non mi avete visitato. Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato
o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà
loro: In verità vi dico: ogni volta che non lo avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli,
non l'avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna». 48

Matteo parla di un fuoco eterno per il diavolo e i suoi angeli, ma non viene menzionata la
resurrezione dei morti. Nella Lettera agli Ebrei (6,1-2) Paolo cita la resurrezione dei morti e il
Giudizio universale. Con l'Apocalisse canonica di Giovanni, quindi il Nuovo Testamento, si
nota la tendenza a consolidare la tesi dei castighi eterni. Molto interessante l'evoluzione che
con l'Apologia di Giustino di Nablus (100-168 ca.) e poi Tertulliano (155 ca. -230), dopo le
persecuzioni cristiane, vede l'aldilà divenire la rivincita contro i pagani, il luogo di un ribalta-
mento radicale dove i castighi si ripercuotono contro i persecutori, «l'aldilà appare come l'in-
versione di un mondo strutturato nell'opposizione tra cristiani e pagani» 49. Dopo Origene
d'Alessandria (185-254) il tema verte sull'Apocatastasi, ovvero in Occidente si tentò di deter-
minare la linea di demarcazione tra dannati in eterno e quelli che possono sperare nella reden-
zione finale, argomento trattato poi da Ambrogio e Girolamo. Gli adepti di Dio non hanno la
certezza della salvezza, ma almeno avranno l'attesa di accedere al Regno celeste, la dannazio-
ne non è tanto uno strumento morale, ma l'attesa di una giusta rivincita. Mentre nel De civita-

47 Mt 24, 29-31
48 Mt 25, 31-46
49 «L'au-delà apparaît comme l'inversion d'un monde structuré par l'opposition entre chrétiens et païens».
Baschet, Les justices de l'au-delà, cit., 1993, p. 24

21
te Dei , scritto tra 412 e 426 da Agostino, si accentua l'eternità delle pene (XXI, 18-22), seb-
bene l'autore schiva il maggior problema: il fuoco corporale può tormentare il corpo dei dan-
nati? Conclude spiegando che la sola vista del fuoco può tormentare il dannato. Gregorio Ma-
gno (540-604) ammette che le pene possono essere proporzionali ai fatti compiuti; dichiara
che i dannati sono raggruppati in categorie diverse, gli avari con gli avari, i superbi con i su-
perbi e così via i lussuriosi, gli imbroglioni, gli invidiosi e gli infedeli. Non tratta delle dif-
ferenze tra le pene a loro destinate, ma del solo fuoco eterno. Molti teologi dibatterono sullo
spazio di tempo che intercorre tra la morte e il Giudizio universale, giungendo a definire un
giudizio personale ed uno universale. Solo con il secondo Concilio di Lione, nel 1274, nasce
la dottrina di Purgatorio. Secondo Onorio di Ratisbona o d'Autun (1080-1154), l'anima sog-
giorna in un luogo spirituale fatto ad immagine del corpo, le pene non sono che spirituali, il
fuoco brucia i dannati senza consumarli, condizione necessaria per l'eternità della pena. Tom-
maso d'Aquino (1225-1274) indica i vermi (Isaia 66, 24), le lacrime e le tenebre esterne (Mat-
teo 22, 13) come punizione. Il primo è una metafore del tormento dell'anima, ma Hugues de
Saint-Victor parla anche del freddo e del ghiaccio (Giobbe 24,19). Grazie alla pittura la diffe-
renza dei supplizi s'insinua nel discorso dei teologi, questi non cercano di spiegare l'esistenza
reale delle pene né raccontare al dettaglio i castighi, ma alcuni le suddividono, i teologi accet-
tano quindi le novità dipinte e vengono così riammessi elementi geografici provenienti da
poeti antichi come paludi o fiumi (Stige). Ciò nonostante si preferisce comunque a questo sce-
nario un Inferno di fuoco e acqua ghiacciata. La differenziazione dei suplizi infine viene am-
messa di conseguenza alle tesi di Tommaso per il quale il fuoco può voler dire tutti i fenomeni
di sofferenza, ovvero tutte le forme possibili da una parte, ma dall'altra l'uomo si è allontanato
da Dio per amare cose materiali, quindi giustifica che per ogni oggetto desiderato, corrisponda
una varietà di tormento corrispondente. Tornando ad Onorio, nell'Elucidarium, rivedendo la
tradizione precedente giunge ad un vero e proprio manuale codificando fino a nove pene50.
L'Opera poi divulgata e ampiamente condivisa e ribadita da Sicardo di Cremona e papa Inno-
cenzo III, si arricchisce con Matfré Ermengau di una decima pena, la sete e la fame. Infine
Stefano di Borbone (1180 ca. -1256), che fu l'autore di una raccolta di exempla, distingue

50 Nella sua opera vengono descritti i tormenti come il fuoco, il freddo (Mt 24,51, lo stridore dei denti), i vermi
immortali, il fetore, le frustate dei demoni, le tenebre palpabili (Giobbe 10, 22), la vergogna dei dannati, la
vista terribile e le grida di dannati ed aguzzini ed infine i vincoli di fuoco che legano i reprobi (a volte intesi
solo come disperazione dei dannati). Compaiono anche rospi, tartarughe e lucertole. Il fuoco simboleggia la
concupiscenza, il freddo si rifà alla malizia, i vermi all'astio che rode, il fetore alla lussuria, le frustate al ri-
fiuto della disciplina, le tenebre al disprezzo della luce divina, i tormenti alla vista e all'udito al rifiuto di ve-
dere e ascoltare il bene, il legame al colpevole rilassamento. Bachet, Les justices de l'au-delà, cit., 1993, pp.
62-63

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chiaramente la natura del luogo, delle pene corporali e psicologiche, il rapporto con gli aguz-
zini, con Dio e con i beati51.
Tutto ciò confluirà nel Giudizio finale, la cui presenza non era obbligatoria fino a circa il XIII
secolo. É intorno all'anno Mille che si diffonde l'uso in Occidente, ma nell'arte cristiana della
tarda antichità non compare con estrema sicurezza alcun esempio di Giudizio finale, bisogna
aspettare almeno fino al IX secolo prima di incontrarne il soggetto. I primi esempi sono circo-
scritti nel mondo bizantino a cappelle funerarie e le stesse tematiche si sono modificate col
tempo, infatti i sette angeli con le trombe nel Medioevo non sono riferiti agli angeli bucci-
natori che suonano il risveglio dei morti all'apertura del settimo sigillo; bensì sono l'immagine
della predicazione del Vangelo. Non la morte e la fine dei tempi, ma l'inizio di una nuova vita
spirituale, così come il Giudizio universale nel Medioevo non accenna al destino e alla suddi-
visione tra dannati e beati, né tanto meno ai luoghi a loro assegnati. La fine dei tempi è una
rilettura moderna e poi romantica. Verso il XIII secolo si insisterà sempre più sull'idea di res-
urrezione corporale affidata al Cristo Giudice, collocata specialmente nella controfacciata,
sopra il portale52. Il motivo è presto detto, il pellegrino o il semplice concittadino che si recava
nella chiesa, seguiti i rituali liturgici, rimaneva impressionato dalle decorazioni. All'epoca
molti erano analfabeti, quindi la lettura delle Sacre Scritture era riservata ai chierici, e la cono-
scenza poteva essere redistribuita anche tramite le immagini. Chiunque si trovava in una qual-
siasi chiesa era guidato nella lettura dai disegni, dai quadri, dalle statue o dagli affreschi.
Quindi prima di uscire dal luogo sacro, il devoto obbligatoriamente si raffrontava con ciò che
stava sopra il portale. Nessun posto migliore per lasciare negli occhi del povero credente un
messaggio, un monito. Infatti già «Cicerone mostra quanto profonde siano le radici della
persuasione che le immagini possono sulla memoria più delle parole; e perciò aggiunge, ogni
discorso ascoltato con le orecchie più facilmente ci resta nell'animo, se lo raggiunge anche at-
traverso gli occhi»53. Ognuno poteva scegliere se comportarsi in maniera decorosa raggiun-
gendo il paradiso dopo la morte o, viceversa, rischiare per l'eternità le pene infernali. Ed è
proprio questa immagine che rimaneva scolpita negli occhi, Giotto questo lo sapeva bene e
non si lesinò a rappresentare l'Inferno nella maniera più cruda.

51 Tra le pene maggiormente menzionate spiccano la lussuria, l'usura e l'amore per le vane cose. L'usura può ad-
dirittura dar luogo ad una dannazione genealogica. Oltre alla tradizione nascono nuove rappresentazioni, gli
adulteri vengono così immersi in bacinelle di metalli bollenti, il pastore malvagio viene divorato dagli orsi, i
capelli di una dannata si trasformano in serpenti e dalle mani sfuggono le fiamme, probabilmente è una donna
a cui piacevano i gioielli, o l'allievo che davanti al maestro mostra una mantella ardente piena di lettere, colpa
del suo immoderato amore per una scienza vana. Bachet, Les justices de l'au-delà, cit., 1993, p. 78 -79
52 Y. Christe, Il Giudizio universale, nell'arte del Medioevo, Milano, Jaca book, 2000, pp. 7-13
53 S. Settis, Iconografia dell'arte italiana, cit., 1979, p. 183

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Questa ultima fatica abbraccia tutta quanta la controfacciata, su un unico piano liscio, fatta ec-
cezione per una trifora nella sommità. La parete ha purtroppo subito gravi danni, larghe lacu-
ne e parti ridipinte ma il messaggio rimane chiaro tutt'oggi [fig. 1].
Per comprendere la struttura dell'affresco però prima bisogna fare un passo indietro e confron-
tarlo con lo schema bizantino dal quale trae indubbiamente ispirazione.
Lo schema stereotipato bizantino54 si farà largo solo dal XI secolo, ripetendosi senza alcuna
grande innovazione nei secoli a venire e la sua prima apparizione, nella sua forma definitiva,
fu dopo il 1028 nel nartece della chiesa della Panaghia tôn Chalchéôn a Salonicco.
Questi brevemente prevede: in alto il nucleo teofanico, ovvero Cristo barbuto in trono o su un
arcobaleno, che mostra le sue piaghe. Non ha mai né fianco scoperto né tanto meno i segni sul
costato della lancia, invece presenti in Italia. Così come nell'arte egizia, le figure meno impor-
tanti non seguono proporzionalmente il faraone, infatti sebbene seduto, Cristo rimane sostan-
zialmente alla stessa altezza della Vergine e del Battista che stanno ai lati (la Déesis). Gerar-
chicamente seguiranno in scala poi gli Apostoli con i libri aperti, che divisi in due schiere
capeggiate da Pietro e Paolo, poggiano su una predella o suppedaneum. Attorno a tutto questo
viene poi schierata la guardia angelica in più registri, a mezzi busti, come a dare senso di pro-
fondità. Poco sotto quasi obbligatoriamente trova spazio la figura del trono vuoto su cui pog-
gia una croce, figura questa chiamata Etimasia, con attorno alle volte Adamo ed Eva inginoc-
chiati. Dai piedi di Cristo poi solitamente sfocia a destra una lingua di fuoco confluente in un
bacino, dove prima i dannati sono torturati da demoni, poi troneggia Satana. Questi è rappre-
sentato incatenato ai piedi e con l'Anticristo sulle ginocchia. Ovviamente dalla parte opposta
invece si dispiegano gli eletti, i profeti, i martiri e i santi. Come sotto l'Inferno vengono raffi-
gurati in scomparti i dannati e i loro differenti peccati, così anche sotto gli eletti si posizio-
nano Abramo con Lazzaro al petto, la Madonna in trono, il buon ladrone con la croce, la porta
del paradiso e vari eletti. Nel mezzo compare spesso la scena della pesatura delle anime. Fisse
non sono le scene dell'arrotolamento dei cieli e della resurrezione dei morti, mentre alle volte
Mare e Terra hanno personificazioni in animali e pesci, che vomitano i corpi dei resuscitanti .
Le notazioni realistiche nell'arte bizantina come tutti sappiamo sono molto limitate. Questo fu
dovuto all'iconoclastia55, che prevedeva che al pittore spettasse sola ars o tecnica, mentre alla

54 Christe. Il Giudizio universale, cit., 2000, pp. 27-31


55 Fra il principio del VIII e la metà del IX secolo una violenta repressione delle immagini sconvolse l'Impero
Romano d'Oriente perché «l'adorazione prestata alle icone, in quanto oggetti materiali, veniva distratta dal
suo vero e unico fine, che è Dio; moltiplicare le immagini per adorarle era come moltiplicare gli dei». Si vo-
levano delle immagini il più possibile vive, ma dall'altra parte si aveva paura che le stesse acquistassero «re-
spiro, prendendo posto -opera, dunque, del demonio- fra il popolo e Dio, fra il popolo e l'imperatore». Settis,
Iconografia dell'arte italiana, cit., 1979, pp. 176-177

24
Chiesa la structura delle icone, ovvero l'inventio. Al contrario in Occidente, gli artisti daranno
sfogo all'immaginazione con virtuosismi realistici, soprattutto l'ispirazione dilagherà nelle
scene infernali.
Per comprendere lo sviluppo del Giudizio universale nella penisola italiana, ricorro a due
precedenti, l'avorio veneto oggi a Londra, nel Victoria and Albert Museum del XII secolo e
Torcello. Nell'avorio gli apostoli hanno i libri chiusi, invece aperti solitamente nell'arte bizan-
tina, ma soprattutto si rimarca l'innovazione italiana del trono satanico serpentiforme.
Oltre all'esempio dell'avorio è importante menzionare i mosaici di Torcello, che ripercorrono
similmente l'iter innovativo e di mescolanza tra penisola italiana e arte bizantina, influenze
dovute alla tratta mercantile della Serenissima con Costantinopoli. Questi due esempi «fun-
gono così da teste di ponte isolate per la penetrazione del Giudizio universale bizantino in
Occidente tra la fine dell'XI secolo e il corso del XII»56.
A Torcello è ben visibile e leggibile anche la divisione della discesa agli inferi o Anàstasis.
Nel lago di fuoco i demoni che giocano a palla con le teste dei dannati, hanno la pelle blu
come Satana, perché nel Medioevo si pensava così l'avessero gli angeli cacciati dal paradiso.
Poco sotto vi sono le sei grotte infernali, quelle dello stridore dei denti, delle tenebre esterne e
dei vermi insaziabili. «Tre dannati sono vittime del fuoco; il ricco malvagio, di cui il Vangelo
di Luca sottolinea di come il fuoco lo torturi, sembra figurare tra questi. Quattro dannati han-
no postura che indica le loro sofferenze, il morso della mano, le gambe attorcigliate. In assen-
za di un visibile agente di tortura e tenendo conto del fondo nero, si può considerare che siano
le tenebre la causa principale del loro tormento. (…) Due dannati sono ricoperti da fiotti d'ac-
qua, si tratta probabilmente di acqua ghiacciata (Giobbe 24,19). Delle teste di morti evocano
la decomposizione del corpo, i vermi sono presi qui più come un simbolo materiale che spiri-
tuale (di rimorso della coscienza). Numerose teste, che hanno conservato i loro tratti umani
sono nelle fiamme e niente distingue la pena dal primo caso. Teste, mani e piedi tagliati evo-
cano lo smembramento del corpo»57. Le prime quattro zone illustrano le principali pene men-
zionate dai teologi il cui fondamento scritturale è certo mentre le altre due sono di origine

56 Christe. Il Giudizio universale, cit., 2000, p. 46


57 “Trois damnés sont victimes du feu; le mauvais riche, dont l'Evangile de Luc souligne combien le feu le
torture, semble figurer parmi eux. Quatre damnés prennent des postures indiquant leurs souffrances (morsure
de la main, enroulement des jambes). En l'absence de tout agent visible de torture et compte tenu du fond
noir, on peut considerér que les ténèbres sont la cause principale de leur tourment. (…) Deux damnés sont
recouvert par les flots: il s'agit probablement de l'eau glacée (Job 24,19). Des têtes de mort, en proie aux vers,
évoquent la décomposition du corps. Les vers semblent pris ici dans un sens matériel plus que spirituel (le
remords de conscience). De nombreuses têtes, ayant conservées leurs traits humains, sont dans les flammes
(mais rien ne distingue cette peine de celle de la premiére case). Des têtes, des mains et des pieds coupés
évoquent le démembrement corporel”. Baschet, Les justices de l'au-delà, cit., 1993, pp. 193-194

25
dubbia [fig. 2].
Ma Giotto procede in un cammino inverso rispetto ai bizantini, riacquistando l'essenza antica
dell'arte greca e romana. «Giotto rompe e disarticola la dura corazza smagliante della tradi-
zione pittorica bizantina, la scioglie e la ammorbidisce per intacchi di luce, manomette e tra-
sfigura le antiche iconografie grazie alla definizione dello spazio a all'incursione del Vero»58.
Una possibile fonte di ispirazione potrebbe essere stato il Giudizio di Pietro Cavallini di Santa
Cecilia in Trastevere, datato attorno al 1290-95 in un probabile passaggio per Roma, oppure i
pulpiti di Nicola e Giovanni Pisano. Ma tornando all'affresco della cappella, ai lati in alto
vede tornare un tema quasi dimenticato dopo l'esempio di Müstair, datato attorno all'anno
800: due angeli stanno arrotolando il cielo attorno al sole e alla luna, che nella città celeste
non occorrono, come fosse tela, mostrando il colore oro della Gerusalemme celeste tempe-
stata di pietre preziose [fig. 3]. Questo è un chiaro riferimento a ciò che viene narrato da
Giovanni nell'Apocalisse
Quando l'Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come
sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra,
come un albero di fichi, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i frutti non ancora maturi. Il cielo si ritirò
come un rotolo che si avvolge e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto.59

e anche

E vidi un nuovo cielo e una terra nuova, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non
c'era più. Vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una
sposa adorna per il suo sposo. (…) Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come
pietra di diaspro cristallino, la città è cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte
stanno dodici angeli e i nomi scritti, quelli delle dodici tribù dei figli d'Israele. A oriente tre porte, a set-
tentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. (…) Le mura sono costruite con dia-
spro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. I basamenti delle mura della città sono adorne di
ogni specie di pietre preziose. Il primo basamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedò-
nio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l'ottavo di
berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l'undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le
dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla. E la piazza della città è di

oro puro, come cristallo trasparente. Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l'Onnipotente,
e l'Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la
gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello60.

In mezzo, sotto la finestra che illumina l'interno della chiesa, si apre la mandorla luminosa in

58 A. Paolocci, Giotto e Dante, in Giotto e Dante, cit., 2001, p. 104


59 Ap 6,12-14
60 Ap 21,1-23

26
cui Cristo giudice si affretta a decretare il destino dell'umanità, con la mano destra accoglie a
sé i beati e con quella sinistra scaccia i reprobi, mostra le piaghe e un piccolo strappo sulla tu-
nica mostra quella sul costato. È in trono sull'arcobaleno, e sotto di esso i quattro Viventi. I
tetramorfi si suddividono in Giovanni, rappresentato come un'aquila, Luca in forma bovina,
Marco in quella leonina, e Matteo in quella angelica. Su questo particolare si sofferma Pisani:
osservandoli da vicino vi riconosce un centauro, un orso e un pesce alla destra del Redentore,
mentre alla sua sinistra un angelo e un leone61.
I dodici apostoli62, preceduti dai Viventi, si stendono come un ferro di cavallo attorno alla
mandorla di Cristo, seduti ognuno sul proprio scranno, dividono il mondo celeste da quello
terreno. A differenza di altre opere precedenti gli apostoli non hanno attributi caratterizzanti
né tanto meno i libri, ma la radice comune proviene dalla rivelazione di Giovanni:
Subito fui rapito in spirito. Ed ecco, c'era un trono nel cielo, e sul trono uno stava seduto. Colui che sta-
va seduto era simile nell'aspetto a diaspro e cornalina. Un arcobaleno simile a smeraldo avvolgeva il tro-
no. Attorno al trono c'erano ventiquattro seggi e sui seggi stavano seduti ventiquattro anziani avvolti in
candide vesti con corone d'oro sul capo. Dal trono uscivano lampi, voci e tuoni; ardevano davanti al tro-
no sette fiaccole accese, che sono i sette spiriti di Dio. Davanti al trono vi era come un mare trasparente
simile a cristallo. In mezzo al trono e attorno al trono vi erano quattro esseri viventi, pieni d'occhi
davanti e di dietro. Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l'aspetto di un
vitello, il terzo vivente aveva l'aspetto come di uomo, il quarto vivente era simile a un'aquila che vola. 63

Tutt'attorno gli angeli fanno da cornice, i quattro angeli buccinatori suonano le trombe dell'A-
pocalisse e svegliano i morti sottostanti, ma sono stranamente lontani dai resuscitati, così
come stranamente la Guardia angelica non circonda da vicino Cristo e gli apostoli, ma rimane
staccata più sopra. Questa si divide in otto file come una parata militare con tanto di vessil-
lifero davanti, schiere angeliche, come soldati di differenti reggimenti in marcia. Essi si divi-
dono in Cherubini che fanno da corona al Cristo, nascosti quasi dalla trifora, e partendo da
sinistra Virtù, Dominazioni, Troni (è ancora visibile il trono nell'insegna) e Serafini dal piu-
maggio rosso e fiaccole in mano; dopo la vetrata andando verso destra si susseguono Angeli,
61 La spiegazione iconografica del centauro si basa sull'arte romanica di rappresentare i centauri nella doppia
natura umana e divina. Il pesce è invece uno dei più antichi simboli cristiani, il cui nome in greco ichthys è
l'acronimo di Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr, ovvero Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore. Ma il pesce in
questione parrebbe un luccio, in latino lucius, come pesce-luce. L'orso rappresenta la resurrezione, perché ri-
sorge dopo la morte apparente del lungo letargo. La presenza del leone è spiegata poiché era già comparsa
nella cappella in un quadrilobo mentre soffia la vita al cucciolo, quindi altro simbolo di resurrezione. Rima-
nendo sempre nello stesso tema infine l'aquila è accomunata alla fenice, che risorge dalle proprie ceneri. Cfr.
Pisani, I volti segreti di Giotto, cit., 2008, pp. 239-257
62 Bellinati si sofferma anche nell'individuazione degli apostoli. Alla destra di Cristo, Pietro, Giacomo il mag-
giore, Giovanni, Filippo, Simone il Cananeo e Tommaso. Sulla sua sinistra Matteo, Andrea, Bartolomeo, Gia-
como il minore, Giuda Taddeo e Mattia. C. Bellinati, Il Giudizio universale nella cappella di Giotto all'A-
rena, in «Patavium», 1, 1972, p. 34
63 Ap 4, 2-7

27
Arcangeli, Principati, con in capo l'alloro e Potestà armate di elmi, spade e scudi 64. A diffe-
renza di altre rappresentazioni precedenti, gli angeli qui non portano i signa.
Ad un'accurata visione ci si accorge che il nimbo di Cristo ha tre specchietti che dovevano
esser illuminati dalla luce solare; a rimarcarla infatti è affrescata una luce irradiante di colore
oro. Poco sotto, al centro, spadroneggia la croce [fig.4]. Essa non ha altare né martiri Inno-
centi ai suoi piedi, ma come i pulpiti degli scultori Pisano, assume importanza quasi come un
vessillo, gloriosamente presentata e staccata dal fondo. Dietro di essa spuntano le mani e i pie-
di di un personaggio, forse il buon ladrone Disma 65 o un peccatore che all'ultimo implora per-
dono. La Frugoni propone la figura di Cartafilo, probabilmente la stessa che segue e pungola
con un bastone Cristo che porta la croce al Golgota. Infatti ciò spiegherebbe perché questo
personaggio rimane nascosto, impaurito e curioso del proprio destino dinnanzi al Giudizio
finale. Cartafilo, presente nella leggenda dell'ebreo errante, colpito Cristo da tergo, lo affrettò
verso il Calvario66. Per questo mentre gli altri risorti escono dalla terra, questa figura rimane
pavida in attesa del proprio destino.
La nuda croce sorretta da angeli ricorda che il tempo è concluso e ora Cristo è risorto. È inte-
ressante il significato che acquisisce, perché serve anche a dividere i dannati dai beati, come
nella tavola di Guido da Siena67 [fig. 5]; infatti a differenza del modello bizantino non compa-
re la scena della pesatura delle anime, molto ricorrente in ambito tedesco e francese68. Ma an-
che in Italia sono presenti le stesse tematiche, ne sono esempio il portale di Ferrara, dove nel
fregio, San Michele pesa le anime e ne decide il destino. Oppure esiste un'altra variante, come
nell'affresco di Sant'Angelo in Formis69, che è proposta dai cartigli trattenuti dagli angeli su
cui si recitano le parole di Matteo venite benedicti, ite maledicti (sebbene in questo caso il
64 Pisani, I volti segreti di Giotto, cit., 2008, pp. 230-235
65 Segato, Giotto a Padova, cit., 2001, p.140
66 «Cartafilo, quando aveva visto Cristo varcare la soglia, dopo l'interrogatorio di Pilato, lo aveva colpito con un
pugno alla schiena (…) e gli aveva detto beffardo: «Vai, vai, che aspetti?» (…) Cristo, con volto severo, gli
aveva risposto: «Io vado, ma tu mi aspetterai fino al mio ritorno». (...) Una ciclica morte e risurrezione
dell'offensore, che giunto ai cento anni tornava ad averne trenta, l'età in cui aveva schernito Cristo, destinata a
durare fino al Giudizio universale». Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 234
67 Datata all'incirca al 1280, è particolarmente interessante poiché la croce centrale divide la scena, anzi gli
eletti vengono riposti in alto in una ascesa spirituale, e i dannati cadono in basso, «pour la pemière fois peut-
être, dans la peinture italienne, cette symétrie est rompue». Ovvero potrebbe essere che per la prima volta
nella pittura italiana la simmetria venga meno. Baschet, Les justices de l'au-delà, cit., 1993, p. 209
68 Si confrontino gli esempi del Salterio carolingio di Stoccarda, la Croce di Muiredach del 923, in ambito
nordico, oppure gli esempi francesi del Salterio di Margherita di Borgogna, la vetrata e il portale di Saint-
Etienne a Bourges e i magnifici portali di Autun (a firma di Gislebertus) e Notre-Dame di Parigi; lo stesso
tema influì anche la penisola iberica come nel portale di Leon o quello di Burgos. Chrite, Il Giudizio uni-
versale, cit., 2000, pp. 113-278
69 A Sant'Angelo in Formis è interessante notare che però non compaiono né la Deésis, né l'Etimasia, né la Terra
e il Mare che rigurgitano i morti e neppure i fiotti infuocati. Potrebbe trattarsi solo di un adattamento dello
schema bizantino all'arte italiana. Mentre nell'Inferno sono riconosciuti i lussuriosi perché attorcigliati da ser-
penti. Baschet, Les justices de l'au-delà, cit., 1993, pp. 198-200

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testo si diversifichi lievemente)70. Allo stesso modo il Paradiso ferrarese dato dal grembo di
Abramo può corrispondere al Paradiso capuano dato dal giardino con palme.
Non si hanno dubbi sulla paternità da parte di Giotto della croce dipinta, infatti su di essa
appare l'iscrizione Hic est jesus nazarenus rex judeorum, marchio di fabbrica del pittore che
compare anche in quella di legno ora preservata nei musei attigui alla cappella71.
Sotto la croce, in basso a sinistra i morti che stanno riprendendo vita, uscendo dalle proprie
tombe, sono gli eletti, lo si deduce dalle mani giunte in atto di preghiera e perché sono alla
destra di Cristo.
Sopra a questi, camminante nell'aria verso la beatitudine eterna, si ha un lungo corteo capeg-
giato dai martiri. Apre Stefano o Daniele (suggerisce la Frugoni), subito a ruota segue un sol-
dato romano, forse Cornelio peccatore poi pentitosi, centurione della coorte Italica presso
Cesarea, quindi i fondatori degli ordini mendicanti: i santi Domenico (mantello nero e saio
bianco), Francesco che porta nelle mani le stigmate, Benedetto da Norcia e Romualdo 72. An-
che le martiri trovano posto, scortata da diciotto vergini, probabilmente Sant'Orsola, cara allo
Scrovegni, e Santa Giustina, patrona di Padova, ma la mancanza di attributi inconfutabili e
caratteristici, rende vano il loro riconoscimento così come la differenziazione della grande
folla stessa. In coda chiudono il gruppo laici e aristocratici. Sorprendentemente non compare
Sant'Antonio, possibile la sua assenza dovuta alla persecuzione di questi verso gli avari e gli
usurai? Forse anche perché i minori si macchiarono in quest'epoca di vari confische a causa di
improbabili eresie? Il monaco vestito di bianco potrebbe essere un rimando a Giordano For-
zatè già beato nel Duecento, che fondò i benedettini bianchi con sede nel monastero di Por-
ciglia alle porte di Padova, quindi una sorta di omaggio diplomatico con i poteri ecclesiasti
del vicinato. L'ultimo personaggio della fila è riconosciuto come Antonio Pellegrino 73, con un
cappello, un manto di pecora e bastone da viaggio. Una presenza dovuta forse in omaggio al
vicino Monastero, tenendo conto che il giorno del suo decesso divenne giorno di festa
cittadina già nel 1269.
Nella donna in una mandorla dorata, che fa da capofila agli eletti, vestita con la tunica rossa e
mantello bianco, «vi si riconosce, plausibilmente, la Vergine, ma potrebbe anche trattarsi di
Ecclesia, che conduce a Dio il corteo dei fedeli»74.
70 Settis, Iconografia dell'arte italiana, cit., 1979, pp. 195-196
71 Bellinati, Il Giudizio universale nella cappella di Giotto all'Arena, cit., 1972, p. 37
72 S. Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, secondo Bellinati è riconoscibile perché con il libro della Regola in
mano. Ibid., p. 35
73 «L'Antonio Manzoni (1240-66) che era stato in Terrasanta, ritratto nella sua veste di viaggio” segue “ i
supposti ritratti (in terza fila) di Giovanni Pisano, Giotto e Dante». Segato, Giotto a Padova, cit., 2001, p. 140
74 Christe, Il Giudizio universale, cit., 2000, p. 305

29
Gli eletti si suddividono in due gruppi, i santi più importanti portano l'aureola superiormente,
tra cui forse Eva, poi patriarchi e profeti dell'Antico Testamento, inferiormente i santi minori
senza nimbo di difficile riconoscimento, poiché questa parte dell'affresco è particolarmente
rovinata. Pisani comunque riesce a riconoscere tra questi San Paolo e Mosé, rivelato dal par-
ticolare delle corna.
Aprirei una piccola parentesi per quanto riguarda il presunto ritratto di Dante. Riconosciuto da
Pisani75 come l'uomo in prima fila col cappello giallo, abito rosa e collare di pelliccia di vaio.
Io personalmente credo che se tra i beati ci fosse un indizio da seguire, quello potrebbe esser
guidato dallo sguardo del ragazzo, unico tra gli eletti, che gira il capo all'indietro [fig. 6].
In basso, sotto la croce, come protetto dal volere divino, ma dalla parte sinistra, quindi quella
degli eletti, poteva mancare la figura del committente? La sua figura giovane perché risorta, è
facilmente riconoscibile nel Giudizio Finale. Posizione centrale, inchinato, offerente, con pro-
filo dal naso adunco e una piccola cicatrice. Non si hanno dubbi insomma. Da notare le pro-
porzioni fra le figure presenti: piccolissimi i dannati e i risorti, di contro grandezza naturale
per i beati.
Il messaggio centrale è eloquente [fig. 7], Enrico offre il modellino della chiesa nelle mani
della Vergine76, tra Giovanni l'apostolo e probabilmente Sant'Orsola: un investimento per la
vita ultraterrena, l'indulgenza per i suoi cittadini e un elemento autocelebrativo77. Infatti non
sembra un peccatore pentito, «il gesto di devozione si traduce di fatto in autoglorificazione
iconografica: il committente non solo viola il quadro teologico collocando sé stesso nel bel
mezzo di un Giudizio Finale, ma, facendosi dipingere alla destra del Giudice divino, e con-
trapponendosi agli avari puniti dagli orrori infernali, esprime molto più che la speranza della
propria individuale salvezza»78.
Enrico, vestito di viola, colore di penitenza e umiliazione, dona il modellino della chiesa 79,

75 Pisani, I volti segreti di Giotto, cit., 2008, p. 227


76 Serena Romano a questa immagine avvicina quella del 1280 presente nella Sancta Sanctorum come possibile
precedente, anche a Roma infatti domina nell'affresco la figura del papa Niccolò III offerente la cappella.
Romano, La O di Giotto, cit., 2008, p. 132
77 La Frugoni, in L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 81, riconosce nel terzo personaggio Sant'Orsola,
«martire regina, a cui Enrico aveva già dedicato la prima chiesa che aveva costruito». Di parere diverso è
Bellinati e dichiara che «fino dal 1303, la Cappella dell'Arena possiede tre altari: S. Maria della Carità, San
Giovanni Evangelista e Santa Caterina d'Alessandria (i tre personaggi effigiati da Giotto nella scena della De-
dicazione della Cappella)». Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, p.
16; inoltre a p. 37, «i due altari di S. Caterina d' Alessandria e S. Giovanni evangelista erano officiati da al-
trettanti sacerdoti. Ne fa fede la documentazione di archivio nelle carte vescovili».
78 Settis, Iconografia dell'arte italiana, cit., 1979, p. 246
79 Da notare che «è visibile la piccola ed elegante gradinata semicircolare (rinvenuta nei lavori di sterro del
1881, sepolta sotto la stratificazione che sosteneva il portichetto, innalzato prima del 1421), con il timpano.
Del timpano non vi è taccia alcuna. Forse non fu mai edificato. Al suo posto sorse quel protiro archiacuto,
che poi cadde fatiscente nel 1817 e che lasciò per molto tempo, sulla facciata, l'impronta degli archi». Bel-

30
che presenta un transetto mai realizzato, nelle mani della Vergine vestita di rosso, colore sim-
bolo di carità (d'altronde la chiesa prende il nome di Santa Maria della Carità).
La chiesa ricordo esser stata consacrata il 25 marzo del 1305, giorno dell'Annunciazione, e
probabilmente il gruppo dell'offerta, Enrico-Vergine, dev'essere stato affrescato per ultimo. É
impensabile che con calcoli matematici Giotto potesse aver previsto una coincidenza difficile
da realizzare. Infatti ogni 25 di marzo in orario mattutino, quindi di messa, intorno alle 10 un
raggio di sole entrando da un angolo dell'ultima finestra della parete sud, finiva la sua corsa su
una porzione dell'affresco, io stesso ne sono testimone. Non cadeva in un punto qualsiasi, ma
esattamente intersecando le mani di Enrico e quelle della Vergine. É verosimile che quindi
Giotto avesse notato questo fenomeno, il giorno 25 marzo dell'anno prima, avesse segnato una
piccola traccia sulla parete e deciso indi di posizionarci una figura che fosse al tempo stesso
importante e carica di significato80.
Rimanendo su questa scena centrale, si può notare in oltre la prova dell'interesse per i dettami
di Sant'Agostino: il devoto tonsurato sulla destra dirimpetto ad Enrico offerente, porta dietro
al capo la traccia di un cappuccio blu-nero, dimostrando così la sua appartenenza all'Ordine. Il
colore ora è scomparso perché dato a secco, quindi non affrescato, e per questo motivo l'az-
zurrite si è staccata dall'intonaco ed è caduta 81. È inoltre interessante notare che il mantello del
tonsurato tridimensionalmente esce dalla cornice, un accorgimento stilistico innovativo, un
preludio al trompe l'oeil rinascimentale.
Di questo personaggio si è discusso a lungo, Bellinati propone la figura di Altegrado de'
Cattanei82, poiché i paramenti che indossa lo restringono ad un ambiente canonico (la cotta
bianca, il cappuccio o almucia con fodera azzurra all'interno, lo zucchetto) e non da vescovo,
e perché la sua profonda conoscenza delle Sacre Scritture potrebbe essere stata d'ispirazione
linati, Il Giudizio universale nella cappella di Giotto all'Arena, cit., 1972, p. 37
80 Di parere contrario Bellinati, che riconoscendo il tonsurato in Altegrado, data il compimento del Giudizio al
1303, e per quanto riguarda l'incredibile unicità dell'avvenimento, crede sia solo un caso, ricordando che «per
le modifiche del calendario, avvenuta nel 1582 ad opera di papa Gregorio XIII, tutto si è spostato in avanti di
15 giorni». Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, p. 25
81 Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 67
82 Alcuni studiosi credono sia fra' Giovanni degli Eremitani, il probabile architetto della chiesa, ma a suffragare
la tesi di Altegrado, ricorre la sua carica ad arciprete dal 1301 fino a ricoprire la cattedra vescovile di Vicenza
il 9 febbraio 1303, quindi al periodo della dedicazione era ancora arciprete. Altegrado è stato a Roma alla
corte pontificia dal 1299 al 1301, nel bel mezzo del Giubileo, dove forse conobbe Giotto, e forse lo mise a
conoscenza della cappella patavina in atto, consigliandogli il nuovo lavoro. E proprio a Roma nella cappella
della Sancta Sanctorum, Altegrado potrebbe aver visto l'offerta di Nicolò III, importando il modello anche a
Padova. Questi, «nato a Lendinara dalla famiglia dei Cattanei (…) approdò ben presto a Bologna, ove
probabilmente si laureò e divenne docente di diritto canonico. (…) già canonico di Ravenna (1294) e poi del
Capitolo padovano (1296), eletto protonotario apostolico da papa Bonifacio VIII, partì per Roma con lettera
del podestà di Padova, e lì rimase, almeno in parte, fino al 1301. (…) nel 1301, dopo la morte del canonico
Giovanni degli Abati, Altegrado era stato eletto arciprete della cattedrale». Bellinati, Nuovi studi sulla Cap-
pella di Giotto all'Arena di Padova, cit., 2003, pp. 25-31

31
al ciclo pittorico. Di posizione differente è Pisani, poiché Altegrado al momento del ritratto
dovrebbe avere oltre la cinquantina d'anni, mentre il tonsurato ne mostra all'incirca trenta o
massimo quaranta. Riconosce in lui il frate Alberto degli Eremitani83.
Aldilà dei pareri contrastanti, credo che non sia casuale questa centralità della Vergine e di un
devoto agostiniano, infatti Enrico non ha mai nascosto il suo amore verso costoro. Un'ul-
teriore prova oltre alla dedicazione della chiesa alla Vergine, è data dalla preghiera dell'Ave
Maria che può esser letta guarda caso sia nel libro aperto nel quadrilobo di Sant'Agostino, sia
in quello di Luca su di una pergamena.

83 Il sospetto in Pisani sorse nella strana ordinazione delle Virtù, una successione presente nel solo pensiero di
Sant'Agostino (354-430), e di conseguenza la mancanza dei vizi capitali, codificati secoli dopo da Gregorio
Magno (540-604). È probabile che Enrico si fosse rivolto ai vicini Eremitani per chiedere un aiuto dotto che
consigliasse una stesura iconografica agostiniana. Alberto, nato nel 1269, indossò l'abito agostiniano degli
Eremitani il 25 aprile 1285 e prese dottorato in teologia a Parigi, dove insegnava Egidio Romano. La sua
morte oscilla tra il 1323 e il 1328. Alberto afferma che Giovanni spicca tra gli evangelisti e questo si riper-
cuote sulla preferenza di narrazione, infatti alcuni episodi cristologici nella cappella seguono il testo giovan-
neo piuttosto di quelli sinottici. Inoltre dagli scritti di Alberto deriva l'immagine del serpente salvatore, come
nel quadrilobo il serpente di bronzo tra Cristo verso il Calvario e la Crocifissione. Infine Alberto introdusse
l'usanza di recitare l'Ave Maria prima di commentare la sacra scrittura, e di riflesso sopra l'allegoria della
Spes, figura l'immagine di Sant'Agostino con un libro aperto sopra cui è leggibile l'Ave Maria. Pisani, I volti
segreti di Giotto, cit., 2008, pp. 185-208

32
III
Affinità tra Giotto e Dante

3.1 Una lettura personale dell'Inferno

Quello che prima era solo una piccola parte del Giudizio universale, ora con Giotto prende
vita a sé stante. L'ordine delle schiere angeliche, degli eletti che si incamminano verso Cristo
giudice, degli scranni occupati dagli apostoli, in una parola l'ordine divino perfetto, poco ha a
che vedere con il disordine infernale, tutto agitato di movimenti e terrore.
Se il Giudizio universale può definirsi un messaggio didascalico che deve colpire l'osservato-
re, nessun esempio migliore dell'Inferno di Giotto calza, poiché per avvicinarsi alla quotidia-
nità popolare, inserisce nell'affresco la realtà cittadina delle punizioni. Si possono così con-
templare al suo interno bastoni, spade, pertiche uncinate medievali, corazze e scudi. Giotto ha
ritratto le pene infernali a volte crudamente e a volte grottescamente, non ponendosi il minimo
problema, anzi, anche sottolineando le nudità nelle zone genitali 84. «Più generalmente, l'insi-
stenza sulle nudità dei corpi, la cui la sensualità è innegabile, sottolinea l'onnipresenza della
tentazione carnale e assurge il corpo come colpevole fondamentale»85.
Forse una fonte d'ispirazione nello sviluppo dell'Inferno è stato il Battistero di Firenze, la cui
cupola è stata decorata probabilmente da Coppo di Marcovaldo attorno al 1270. È proprio
nell'Inferno bizantineggiante che il pittore duecentesco si sbizzarrì torturando i dannati, ora
impalati e fatti arrostire ora masticati o impiccati in un antro roccioso; emblematica è la testa
di Lucifero cornuta e con due orecchie da capro da cui scaturiscono serpenti aguzzini 86. Anche
nel pannello della Pinacoteca Vaticana proveniente dal convento di Santa Maria in Campo

84 Sebbene la circoncisione di Gesù sia un fatto accertato, questo particolare non è mai comparso, la scelta di
Giotto di ritrarre tutti i dannati circoncisi, rimase isolata. Inoltre il vescovo Giglielmo Durand solo una venti-
na d'anni prima esortava a dipingere, come i Greci, dall'ombelico in su affinché venisse allontanato ogni
pensiero stolto. Giotto se così fosse è duplicemente innovativo, sia stilisticamente che iconograficamente, ma
perché questa insistenza? Secondo Lorenzoni «Giotto con questa scelta iconografica abbia inteso manifestare
una sorta di antisemitismo, che probabilmente non era solo suo ma della società in cui egli viveva ed agiva».
Lorenzoni, Su alcuni aspetti iconografici dell'Inferno di Giotto nella Cappella Scrovegni, cit., 1998, p. 155
85 “Plus généralement, l'insistance sur la nudité des corps, dont la sensualité est indéniable, souligne l'omni-
présence de la tentation charnelle et désigne le corps comme coupable fondamental”. Baschet, Les justices de
l'au-delà, cit., 1993, p. 224
86 Christe. Il Giudizio universale, cit., 2000, p. 319

33
Marzio comparvero, a differenza di Satana, una pseudo caverna, un dannato qui condotto e un
gigantesco serpente che morde la testa di un dannato. Questo pannello romano è stato datato
attorno alla metà del XI secolo87.
La tendenza a descrivere le pene infernali in maniera tale da impressionare il visitatore è uno
stratagemma usato anche da un quasi coetaneo di Giotto, Dante. Per descrivere il viaggio
ultraterreno altrimenti di difficile realizzazione, Dante ricorre spesso a similitudini col mondo
contemporaneo per rendere più palpabile, meno lontano il viaggio soprannaturale. Il lettore
così si ritrova, leggendo luoghi conosciuti o visitati, a immaginare più da vicino il cammino
del poeta. I personaggi che popolano l'immenso mondo avernale sono persone umili, ladri,
impostori, assassini che il popolo fiorentino e non, aveva ben a mente. Accanto a questa schie-
ra di personaggi nota alle cronache del tempo o in racconti tramandatisi di padre in figlio, si
annoverano esempi più colti, esempi provenienti dalla bibbia, dall'Eneide o dalla storia antica.
Dante utilizza un sapiente avvicendamento tra personaggi cosiddetti mitico-storici ad altri di
costume popolano o ambito cortese. Il fine è il medesimo sia in Dante sia in Giotto: spronare
l'animo perduto del peccatore. Dal canto suo il lettore o il visitatore della Cappella doveva
rispecchiarsi nel reprobo, infatti leggere il poema equivale a leggere l'affresco. La via della re-
denzione è cominciata nella Cappella con la lettura del ciclo pittorico, passando per le alle-
gorie dei Vizi e delle Virtù, fino alla scelta del proprio cammino, la propria meta. Salvezza o
dannazione eterna? Nella Divina Commedia accade la stessa cosa, il medesimo iter, Dante
dopo aver visitato l'Inferno, giunge allo stesso modo fino a purificarsi dei peccati nell'acqua
del Letè ed dell'Eunoè, prima di varcare la soglia del Paradiso. Di particolare interesse è an-
che il ruolo che assume la luce nel poema e nella cappella, poiché «l'esperienza del divino ri-
mane per entrambi misteriosa, traducibile solo attraverso il simbolo biblico della luce. Dante
si sforzerà di esprimere l'essenza alla fine del suo viaggio, Giotto tenterà di realizzarla figura-
tivamente fin dall'inizio del suo racconto, sfruttando un'apertura posta sopra l'arcata che sta di
fronte all'ingresso»88. Il viaggio è iniziato non solo sulle pareti della piccola chiesa padovana
né tra i versi in rima, quanto piuttosto nella testa del visitatore-lettore. A quest'ultimo solo
spetterà la scelta, percorrere la via della dannazione o della beatitudine eterna.
Ritornando all'affresco, sotto la croce, alla destra del gruppo di Enrico offerente la chiesa alla
Vergine, si apre un varco da cui si accede all'Inferno. Questo è ambientato in una grotta dove
si apre uno spazio grande tanto da ricoprire quasi un quarto dell'intero affresco [fig. 8].
87 Per la datazione si noti in primo piano, sopra la Gerusalemme celeste, l'apparizione delle donatrici Benedetta
e la badessa Costanza, che ricopriva tale ruolo tra il 1061 e il 1071. Baschet, Les justices de l'au-delà, cit.,
1993, pp. 195-197
88 G. Ronconi, Dante e Giotto agli Scrovegni, in «Padova e il suo territorio», XVII, 97, 2002, p. 34

34
Come già suggerito dall'esempio bizantino, dalla mandorla divina scendono quattro fiotti
infuocati, che confluiranno nello Stagno di fuoco, anche questo è chiara eco biblica.
E vidi poi un grande trono bianco e Colui che vi sedeva. Scomparvero dalla sua presenza la terra e il
cielo senza lasciar traccia di sé. Poi vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. E i libri furo-
no aperti. Fu aperto anche un altro libro, quello della vita. I morti vennero giudicati secondo le loro col-
pe, in base a ciò che era scritto in quei libri. Il mare restituì i morti che esso custodiva, la Morte e gli In-
feri resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la Morte e gli
Inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non ri-
sultò scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco.89

Sebbene minaccioso un angelo tubicino sembra allontanare i dannati, questi non sono spinti
dagli angeli armati verso l'Inferno90, ma rotolano vorticosamente nei flutti dei fiumi infernali.
Così come scompare il modello bizantino di Torcello di suddividere in scompartimenti i dan-
nati, qui ora sono liberi, solo nella composizione, di muoversi in tutto lo spazio dell'Oscuro
regno. Questo luogo non è più un'idea lontana, intangibile e astratta di Inferno, ma è un luogo
comune che si può raggiungere anche a piedi, infatti alcuni reprobi accedono al varco infer-
nale camminando dall'architrave, che diviene così un elemento integrante dell'affresco. L'In-
ferno stesso non è che un ricordo della tradizione, ora il luogo del dolore eterno è reso natura-
le, è l'interno di una grotta. Giotto ha reso l'inesprimibile, il concetto, il mondo delle idee e
delle paure in qualcosa di tangibile, di reale, di verosimile. Questi dannati camminano, il loro
viaggio è terreno, sperduti come in una selva oscura, si apprestano ad entrare nella voragine
infernale, creata dalla caduta sulla terra di Lucifero e degli angeli che si ribellarono al volere
divino. Così anche Dante inizia il suo Inferno, camminando, in una selva selvaggia e aspra e
forte91. Dante non ricorda come qui vi finì, né come arrivò all'ingresso dell'Inferno, ma bene
rammenta le parole dell'iscrizione che sta sulla porta infernale:

'Per me si va ne la città dolente,


per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.92

89 Ap 20, 11-15
90 Solitamente i dannati vengono spinti verso l'Inferno dagli angeli con spade, oppure allontanati dalla pesatura
delle anime dell'Arcangelo Michele o divisi da cartigli; in alcuni casi i reprobi sono addirittura incatenati e
trascinati verso un pentolone, simbolo dell'Inferno come nel portale di Bamberga o in quello Notre-Dame a
Reims. In tutti i casi sono sempre allineati su di un piano lineare e schematico. Invece nulla di tutto questo
appare a Padova, i dannati vengono umanamente strappati dalla scena tridimensionale da esseri immondi o
confluiscono nella grotta dai fiotti infuocati. Cfr. Christe, Il Giudizio universale, cit., 2000, pp. 114-328,
oppure solo per l'ambito francese, Baschet, Les justices de l'au-delà, cit., 1993, pp. 140-190
91 If I, v.5
92 If III, vv. 1-3

35
Il poeta viene rinfrancato dalla guida, Virgilio, e muove i primi passi all'interno della cavità
oscura. Da ora in avanti Dante incontrerà i dannati, colloquierà con loro e visionerà i supplizi
ad essi inflitti, visiterà tutte le zone dell'Oscuro regno sempre rigorosamente immerso nel buoi
eterno, finché non uscirà a riveder le stelle93.
Al centro dello spazio giottesco di questa buia caverna, dalle dimensioni immense e minori
solo a quelle del Cristo, siede Satana. Il suo orribile trono è reso ispirandosi alla tradizione già
inaugurata dall'avorio veneto di Londra94. I serpenti fuoriusciti dalle sue orecchie, sbranano i
malcapitati, li divorano, Satana stesso li mastica e poi li defeca per poterli nuovamente tortu-
rare. Alcuni dannati sono strattonati nelle sue mani, altri due morsi dai serpenti ed un ultimo
fuoriesce dalla sua bocca solo con le gambe [fig. 9]. Il degrado ha quasi cancellato il volto di
uno dei dannati nella fauci del rettile, ma dal poco che rimane si scorgono i tratti di una tiara
papale, forse Giotto pose accanto al re degli inferi proprio un pontefice.
La maestria di Giotto, la sua poetica, il suo credo, è la ricerca del vero. Infatti nell'Inferno i
demoni sono resi «quali esseri, forse, non inizialmente bestiali, ma imbestialiti e quindi parte-
cipi nell'aspetto e nelle azioni d'una umana perversione, giungendo talvolta, nel gusto della
mostruosità, a creare strani esseri compositi che anticipano quelli di Gerolamo Bosch»95.
Ne consegue che la carnalità della Bestia di Giotto è più pungente, credibile e terrificante, lon-
tana anni luce dalla resa di Coppo di Marcovaldo [fig. 10]. Purtroppo questo portò a delle
conseguenze: molti punti dell'affresco sono rovinati, ma specialmente la giustizia popolare,
forse colpita troppo dalla paura e dalla superstizione così frequente nel Medioevo, ha graffiato
via naso e occhi dal volto di Satana.
Questa scena così centrale agli Scrovegni, mantiene una medesima importanza nella chiusura
della prima cantica dantesca. La figura di Satana, lo 'mperador del doloroso regno96 che sbra-
na i corpi, impressionò non poco Dante, giunto nel fondo dell'ultimo cerchio. Esso si erge dai
ghiacci, dalla stazza gigantesca e ha tre volti, uno vermiglio, uno giallastro e l'altro nero.
Ognuno di questi volti ha una bocca che maciulla il corpo del peccatore qui riposto. Ovvia-
mente data la gravità della pena e il luogo di spicco, Dante relega in perenne triturazione tra
93 If XXXIV, v.139
94 «Nell'avorio di Londra gli apostoli tengono in mano dei libri chiusi, particolare che non appare mai in Orien-
te prima del XIV secolo. Il trono di Satana, un seggio pieghevole costituito da un groviglio di mostri serpenti-
formi dalle fauci di drago, è tipico dell'iconografia italiana e sconosciuto in Oriente. Si tratta di un'interpreta-
zione vivente e mostruosa del trono a faldistorio, un seggio di parata». Christe, Il Giudizio universale, cit.,
2000, p. 45. La mostruosità di Satana si sviluppò nel mosaico di Firenze, nella pala di Grosseto e qui a Pado-
va. «Cette image de la dévoration confère à Satan un rôle punitif direct qui n'apparaissait pas dans les images
antérieures», ovvero, prima d'ora non fu mai accostato un ruolo così punitivo a Satana. Baschet, Les justices
de l'au-delà, cit., 1993, p. 220
95 V. Mariani, Dante e Giotto, in Giotto e Dante, cit., 2001, p. 88
96 If XXXIV, v. 28

36
sangue e lacrime tre personaggi carichi di importanza. Giuda Iscariota, il traditore della Chie-
sa, Marco Giunio Bruto e Cassio Longino, i traditori e uccisori di Cesare. Il sommo traditore a
differenza degli altri due è immerso nelle fauci centrali con la parte superiore del corpo, la sua
testa è stritolata, mentre le gambe e la schiena che spuntano subiscono una pena aggiuntiva, i
graffi delle unghie bestiali. La descrizione che Dante offre di Lucifero non è grottesca, ma
straziante e severa.

Con sei occhi piangëa, e per tre menti


gocciava 'l pianto e sanguinosa bava.
Da ogne bocca dirompea co' denti
un peccatore, a guisa di maciulla,
sì che tre ne facea così dolenti.
A quel dinanzi il mordere era nulla
verso 'l graffiar, che talvolta la schiena
rimanea de la pelle tutta brulla.
"Quell'anima là sù c' ha maggior pena",
disse 'l maestro, "è Giuda Scarïotto,
che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.
De li altri due c' hanno il capo di sotto,
quel che pende dal nero ceffo è Bruto:
vedi come si storce, e non fa motto!;
e l'altro è Cassio, che par sì membruto.97

Nell'affresco appena sopra il maestoso corpo di Satana, vi è un parte più chiara che risalta
nella restante oscurità cavernosa dove si stagliano due donne torturate. Questa larga zona
bianca si interpone tra Satana e i fiumi di fuoco, racchiusa dalla parete rocciosa. La spiega-
zione che la Frugoni offre, ricorrendo all'Apocalisse apocrifa di Paolo, giunge ad identificarla
con dei banchi di ghiaccio posti affinché «tengano assiderati coloro che causarono danno a chi
aveva bisogno di carità e affetto: orfani, vedove, poveri. Il freddo è tale che anche i diavoli
paiono cosparsi di neve e brina»98.
Parallelamente l'ultimo cerchio infernale visionato da Dante, è un immenso lago ghiacciato.
La prima zona è Caina, dove gli intirizziti traditori immersi fino al collo piangono, e le loro
lacrime toccando la superficie creano stallatiti di ghiaccio; quelli della penultima zona, Tolo-
mea, invece hanno il capo supino cosicché il pianto ristagni nelle orbite creando una sorte di

97 If XXXIV, vv. 53-67


98 Frugoni, L' affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 344

37
maschera ghiacciata. Questo lago circolare glaciale converge nella Giudecca, la quale circon-
da e cinge il corpo di Satana stesso, le cui ali continuando ad agitarsi mantengono la tempe-
ratura bassissima.

Per ch'io mi volsi, e vidimi davante


e sotto i piedi un lago che per gelo
avea di vetro e non d'acqua sembiante.
(...)
E come a gracidar si sta la rana
col muso fuor de l'acqua, quando sogna
di spigolar sovente la villana,
livide, insin là dove appar vergogna
eran l'ombre dolenti ne la ghiaccia,
mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia;
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
tra lor testimonianza si procaccia.99

La costruzione della scenografia infernale qui si chiude, ma si popola in ogni anfratto di


vivide scene che hanno vita a sé stante. Sono racconti nel racconto, ma importanti come pedi-
ne di una scacchiera. È in questo luogo di dannazione che Giotto si sbizzarrisce, così come
farà poco più tardi Buffalmacco nel Camposanto di Pisa.
Prima di descrivere gli sciagurati peccatori, non posso di certo sorvolare sulla figura di Giuda,
colui che vendette la vita di Cristo per trenta denari [fig. 11]. È facilmente riconoscibile per-
ché è l'unico tra i dannati ad essere vestito di una veste lunga e bianca. La scena dell'Iscariota
che riceve il pagamento dai sacerdoti ebraici è quasi alla stessa altezza nel lato opposto della
cappella100. Come un gioco di specchi, ora nell'Inferno incarna il senso del contrappasso tra
peccato e pena. Infatti ora è impiccato 101, senza forze le braccia inanimate cadono a penzoloni
e il capo chino ora nasconde quel profilo ebraico apprezzato nel riquadro della vendita di Cri-

99 If XXXII, vv. 22-39


100 «Questo Giuda mercator pessimus, che vende il Maestro per avidità di denaro è dunque posto esattamente di
fronte alla scena in cui Giuda s'impicca per il rimorso» e nella stessa maniera, specularmente, sotto Giuda ora
troneggia «il diavolo, che nei cicli delle pareti laterali non c'è mai (mancano anche le Tentazioni di Gesù),
compare solo accanto a Giuda con in mano la borsa di denaro». Settis, Iconografia dell'arte italiana, cit.,
1979, p. 245
101 L'immagine è preceduta dall'ultimo Vizio, Desperatio, e il parallelismo risalta lampante: «chi non alimenta la
speranza cristiana uccide in sé la possibilità della vita eterna», così come «Giuda, tradendo Gesù per denaro
(la cupidigia), uccise in sé la speranza della salvezza». Pisani, I volti segreti di Giotto, cit., 2008, p. 177

38
sto, che tanto richiamava l'usura102. Ma in questo luogo Giuda non solo è impiccato, il suo ad-
dome è vilmente squartato con le budella fuoriuscenti. Il motivo si può ricercare negli Atti
degli apostoli, dove è descritta la morte di Giuda non per impiccagione, ma per esplosione del
ventre. Questo perché il maligno lì vi risiedeva, e liberandosi della propria dimora dopo il de-
cesso del dannato, faceva esplodere le viscere103. Un'immagine crudele e maniacale nella sua
rappresentazione che sicuramente lasciava di stucco l'osservatore. Così come uno spettacolo
disgustoso deve immaginarsi il lettore, quando Dante scendeva nella nona bolgia, quella dei
seminatori di discordie. Tra di essi nota un uomo squarciato dal mento all'ano (dove si trulla),
con la corata (cuore, milza, fegato, polmoni), le minugia (le interiora) e il tristo sacco (lo sto-
maco), che si riversano dal suo corpo. Non c'è la minima umanità riconosciuta a Maometto,
Dante come un osservatore distaccato, si sofferma nel guardare il dramma che si consuma in
lui in eterno. Le interiora gli pendono perché il contrappasso per i seminatori di discordie è il
corpo tagliato come una botte (veggia) le cui doghe (lulla e mezzuol) si rompono. Questo
spetta al fondatore dell'Islamismo poiché scismatico104.

Già veggia, per mezzul perdere o lulla,


com’io vidi un, così non si pertugia,
rotto dal mento infin dove si trulla.
Tra le gambe pendevan le minugia;
la corata pareva e ’l tristo sacco
che merda fa di quel che si trangugia.
Mentre che tutto in lui veder m'attacco,
guardommi e con le man s'aperse il petto,
dicendo: "Or vedi com'io mi dilacco!
vedi come storpiato è Mäometto!105

Giotto non solo al traditore offre tanta importanza, sotto Giuda un frate ancora vestito è tirato
per il cappuccio da un diavolo, mentre poco più sotto un vescovo con la mitria crede di essere

102 Il pregiudizio razziale di usura e simonia verso il popolo ebraico in voga all'epoca si rispecchia negli af-
freschi giotteschi, così come si hanno testimonianze nella Venezia del XIV secolo e nelle maggiori città vene-
te, Verona e Treviso in primis, di mercanti ebrei dediti al prestito di denaro. Frugoni, L'affare migliore di En-
rico, cit, 2008, p. 209
103 Ibid., p. 197
104 «Nel Medioevo si credette che l'azione scismatica di Maometto fosse dovuta alla spinta di un alto prelato (in
alcune fonti l'alto prelato è addirittura Maometto stesso) per il rancore della mancata sua elezione al papato.
(…) Sul fondatore cadde l'odio della cristianità per la costante minaccia degli Arabi musulmani alla civiltà
occidentale a cui avevano sottratto anche una considerevole parte del territorio (Sicilia, Spagna), nonché per
l'invasione della Palestina e la perdita dei Luoghi Santi». Dante, la Divina Commedia, con pagine critiche a
cura di U. Bosco e G. Reggio, Inferno, Firenze, Le Monnier, 1998, p. 416, nota al verso 31.
105 If XXVIII, vv. 22-31

39
seduto su un trono episcopale piuttosto che sulle spalle di un altro diavolo, mentre assolve un
tonsurato e in cambio riceve denaro [fig. 12]. Non è un caso che Giuda sia tra il vescovo cor-
rotto e un francescano: evidente rimando al peccato di simonia, d'altronde l'apostolo è stato il
primo a dare un prezzo alla divinità, così come il vescovo decide il prezzo per la vendita delle
indulgenze.
Ci si domanderebbe del perché di questo accanimento verso i chierici 106, data la folta rappre-
sentanza degli stessi nell'Inferno, ma non si devono scordare le nefandezze di cui si sono mac-
chiati. Infatti per anni il clero, e non solo a Padova, si accaparrò denaro e beni di devoti, ricor-
rendo a qualsiasi mezzo, anche dichiarando eretici i nemici, solo per depredarli delle loro ric-
chezze arrivando ad espropriarne anche i terreni e le proprietà. Ne consegue così che due ec-
clesiastici sprofondano nei fiumi infuocati, uno è sdraiato sul dorso del drago, altri sbucano
dai pozzi sotto Satana. Potrebbe sembrare ardito questo duro attacco alla Chiesa e ai suoi rap-
presentanti. Il vescovo simoniaco a cavalcioni del diavolo che accetta il denaro sporco non
può essere passato inosservato. Così come sotto il devoto che paga il vescovo corrotto, prende
vita un turbinio di braccia, gambe e teste che sbucano da fossi profondi. I dannati si affannano
spasmodicamente cercando pace, assaliti da terrore e angoscia. Tra la folla impaurita che si
dimena si notano ovviamente anche molti tonsurati.
Non a caso Dante lungo il suo cammino di redenzione scende in una valle, nella terza bolgia
dell'ottavo cerchio, dove sono puniti i simoniaci. Parallelamente questi, per contrappasso,
sono conficcati a testa in giù dentro dei fori. Tutto quanto il fondo della bolgia è cosparso di
gambe che si agitano, dal momento che una fiammella brucia la loro pianta dei piedi. Dante,
superato il ponte che collega la seconda bolgia alla terza, dall'alto può ammirare la valle e così
la descrive.

Io vidi per le coste e per lo fondo


piena la pietra livida di fóri,
d'un largo tutti e ciascun era tondo.
(...)
Fuor de la bocca a ciascun soperchiava
d'un peccator li piedi e de le gambe
infino al grosso, e l'altro dentro stava.
Le piante erano a tutti accese intrambe;

106 È testimoniato un duro scontro tra Comune e Chiesa arrivato al culmine nel 1282-83, «quando gli statuti
comunali stabiliscono una pena bassissima per chi uccida un ecclesiastico (un soldo grosso, pari, si noti, a 30
denari) e per questo sul Comune padovano piomba l'interdetto del patriarca». Romano, La O di Giotto, cit.,
2008, p. 152

40
per che sì forte guizzavan le giunte,
che spezzate averien ritorte e strambe.
Qual suole il fiammeggiar de le cose unte
muoversi pur su per la strema buccia,
tal era lì dai calcagni a le punte.107

Giotto va oltre, compaiono altri chierici ancora, torturati nelle zone genitali come un monaco
che viene castrato con un tenaglia, o il religioso addentato al pene da un lucertolone [fig. 13],
forse entrambi esempi di lussuria punita. Un concetto ribadito dalla Frugoni, che avanza an-
che dei dubbi specialmente su due donne bionde, a detta sua forse meretrici. Una di queste è
sospinta nel peccato da un mostro verso un uomo, anch'esso spintonato a forza con un stru-
mento di tortura dalle punte acuminate. La voglia sfrenata che in vita ha unito nel peccato
questi due peccatori, ora si cristallizza per l'eternità nell'Inferno [fig. 14]. Tra le mani dell'uo-
mo risalta una saccoccia di denaro, egli sembra voler pattuire delle prestazioni sessuali. Lo
stesso peccato potrebbe accomunare la donna e il religioso appesi a testa in giù poco più in là,
infatti sono agganciati da artigli sempre nei sessi.
Ovviamente non trova posto all'Inferno solo la parte peccatrice della Chiesa, Giotto voleva
colpire anche i credenti nel suo immaginario, e così da sapiente cameriere imbandisce una ta-
vola con tutti le pietanze possibili. Un diavolo è accovacciato sul viso di una peccatrice insoz-
zandolo, la Frugoni interpreta un peccatore tra le gambe di Satana che si sta mordendo la
mano come forse l'immagine per eccellenza di un iroso108, mentre per Baschet potrebbe essere
solo uno stratagemma per colpire l'osservatore, data la centralità e la stravaganza dell'imma-
gine109. Avviene che non vengano puniti solo i vizi capitali, ma anche quelli terreni per im-
pressionare il cittadino, l'osservatore padovano. Un esempio calzante è il mugnaio col sacco
di farina in spalle a cui un demonio, vestito da giudice con copricapo e mantellina di ermel-
lino, mostra una pergamena. Su di questa forse sono scritti dei conti falsi a discapito dei suoi
concittadini [fig. 15]. Ma non è l'unico, vicino ad esso compare anche un giudice vero con
cappello e manto di vaio, che è legato e sequestrato a forza da un altro demonio come fosse
uno schiavo. Accanto al francescano trascinato dal cappuccio nella spelonca, medesima sorte
spetta ad una donna che, aggrappandosi all'estremità di un masso, tenta inutilmente di
sfuggire al raffio e alle mani dei diavoli. A pochi passi un altro uomo è catturato e spogliato,
la dannazione perenne non risparmia nessuno.

107 If XIX, vv. 13-30


108 Frugoni, L'affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 344
109 Baschet, Les justices de l'au-delà, cit., 1993, pp. 225-226

41
Nella parte alta, come suggeriva l'esempio bizantino, dalla mandorla di Cristo si generano le
lingue di fuoco che qui si dividono in quattro bracci, penetrano tra gli anfratti e portano i
dannati all'interno della grotta. Questi fiumi rosso sangue scorrono in una grande amalgama di
dannati e demoni, un turbine di movimenti scomposti.
Quattro bracci come quattro sono i fiumi infernali danteschi che hanno comune origine nel
Veglio di Creta: Acheronte, Stige, Flegetonte e Cocito. Il colore sanguigno dei fiotti ricorda
molto il Flegetonte. Il Poeta arrivato al settimo cerchio scorge il fiume infernale di sangue
bollente, dove sono immersi i violenti contro il prossimo; fino al ciglio i tiranni, altri a mezza
altezza, fino ad un guado, dove i peccatori minori hanno i soli piedi immersi. Tra i tiranni pre-
senti, guarda caso, Dante non manca di ricordare Ezzelino III da Romano i cui tratti sono rie-
cheggiati nella figura di Iniusticia.

Ma ficca li occhi a valle, ché s'approccia


la riviera del sangue in la qual bolle
qual che per vïolenza in altrui noccia".
(…)
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e 'l gran centauro disse: "E' son tiranni
che dier nel sangue e ne l'aver di piglio. 105
Quivi si piangon li spietati danni;
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
che fé Cicilia aver dolorosi anni. 108
E quella fronte c' ha 'l pel così nero,
è Azzolino; e quell'altro ch'è biondo,
è Opizzo da Esti, il qual per vero 111
fu spento dal figliastro sù nel mondo".110

I quattro fiumi di fuoco arroventano i dannati e ne separano i vizi. Si possono così annoverare
quelli con le borse al collo, che sono gli avari111, quelli tormentati nei loro sessi, che sono i
lussuriosi, poco sotto probabilmente i bugiardi sono appesi per la lingua, i sodomiti impalati,
alcuni altri avari impiccati dalla medesima corda che stringe la saccoccia.
Il cliché della borsa al collo ricorre anche in Dante, anzi le sue parole resero immortale la fi-

110 If, XII, vv. 46-112


111 Questo simbolo era da tutti codificato, già nei primi Giudizi universali, tra i frammenti della Panaghia Ma-
vriotissa a Kastoria datati attorno al 1200, compaiono una donna attorcigliata da serpenti, simbolo di prosti-
tuta, tre uomini appesi ad un patibolo, mentre l'usuraio è riconoscibile dalla borsa al collo. Christe. Il Giu-
dizio universale, cit., 2000, p. 44. Così come il medesimo soggetto compare anche nel portale di Saint-Foy a
Conques del XII secolo, ibid. p. 182

42
gura di Reginaldo. Arrivato sull'orlo del settimo girone dove rimbomba la cascata del Flege-
tonte, a Dante accorre in aiuto il mostro Gerione per valicare il burrato verso l'ottavo cerchio.
Prima della discesa Virgilio invita Dante ad osservare gli usurai seduti lungo l'argine. Questi
sono puniti sotto una pioggia infuocata, perché violenti contro la natura e l'arte; infatti gli usu-
rai si guadagnano da vivere non con il sudore della fronte, ma con i soldi stessi contro volere
divino. L'occhio del poeta si sofferma su un particolare, le borse attaccate al collo. Su una di
queste è impresso lo stemma della famiglia Scrovegni. A parlare sarà lo stesso Reginaldo che
nomina anche il vicino Vitaliano112.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,


ne' quali 'l doloroso foco casca,
non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca
ch'avea certo colore e certo segno,
e quindi par che 'l loro occhio si pasca.
(…)
E un che d'una scrofa azzurra e grossa
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: "Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se' vivo anco,
sappi che 'l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:113

Sotto il fiume di fuoco più alto, il diavolo che suona l'olifante tiene uno stendardo tra le mani
dal drappo rosso, dove forse stava scritto il genere di vizio dei peccatori. Accanto ad esso, in
questa zona dell'affresco vi è una grave lacuna, dovuta alla passata noncuranza e alle continue
infiltrazioni. Sotto questa e anche in parte, si intravedono due scene simili: un reprobo arti-
gliato da un diavolo, è strappato al fuoco per ricevere ulteriori tormenti. La lacuna proibisce
purtroppo di vedere le rispettive facce e le crepe rovinano pure la seconda immagine [fig. 16].
La medesima immediata azione è visualizzata da Dante, giunto oramai in mezzo alle Male-
bolge. Alla stessa maniera vide infatti un barattiere arpionato da un demonio. I barattieri sono
fraudolenti che ricavarono profitto dalla loro carica in vita, vengono qui puniti in un canale di

112 L'altra persona citata è Vitaliano del Dente, podestà di Padova nel 1307, condannato da Dante forse più per
la sua fede politica guelfa che per l'usura. Alcuni studiosi invece credono sia Vitaliano di Iacopo Vitaliani.
Dante, la Divina Commedia, Inferno, cit., 1998, p. 225, nota al verso 68.
113 If XVII, vv. 52-70

43
pece bollente. Su uno di questi (Ciampolo) uscito fuori per alleviare il tormento, subito il
diavolo Graffiacane infierisce con un rampino (li arruncigliò) e lo trascina a riva dove divide
il bottino con gli altri maladetti.

E come a l'orlo de l'acqua d'un fosso


stanno i ranocchi pur col muso fuori,
sì che celano i piedi e l'altro grosso,
sì stavan d'ogne parte i peccatori;
ma come s'appressava Barbariccia,
così si ritraén sotto i bollori.
I' vidi, e anco il cor me n'accapriccia,
uno aspettar così, com'elli 'ncontra
ch'una rana rimane e l'altra spiccia;
e Graffiacan, che li era più di contra,
li arruncigliò le 'mpegolate chiome
e trassel sù, che mi parve una lontra.
I' sapea già di tutti quanti 'l nome,
sì li notai quando fuorono eletti,
e poi ch'e' si chiamaro, attesi come.
"O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!",
gridavan tutti insieme i maladetti.114

Sotto la lacuna e nel mezzo dei quattro rivoli infuocati si apre una zona dominata da un
groviglio di corpi, che usciti dal fuoco stanno cadendo nel baratro infernale. Donne e uomini
mischiati, chi di spalle chi di fronte, alcuni a testa in giù sembrano trascinati in un vorticoso
tornado e finiscono strattonati contro le pareti rocciose che conducono all'interno della vora-
gine infernale [fig. 16 e 17].
Un mulinello che ricorda molto da vicino la schiera di anime dei lussuriosi incontrata da Dan-
te. Questi dannati che in vita non seppero frenare i loro turbolenti istinti carnali, facendosi tra-
volgere dalla furia dei sensi, ora per contrappasso vengono sbattuti da una bufera infernal
contro gli scoscendimenti (ruina) del cerchio, in eterno.

Io venni in loco d'ogne luce muto,


che mugghia come fa mar per tempesta,
se da contrari venti è combattuto.

114 If XXII, vv 23-42

44
La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
Quando giungon davanti a la ruina,
quivi le strida, il compianto, il lamento;
bestemmian quivi la virtù divina.
(...)
E come li stornei ne portan l'ali
nel freddo tempo, a schiera larga e piena,
così quel fiato li spiriti mali
di qua, di là, di giù, di sù li mena;
nulla speranza li conforta mai,
non che di posa, ma di minor pena.115

I fiumi bollenti confluiscono in tre pertugi che comunicano con l'interno della caverna. Subito
sotto, all'interno di questa, si incontra un gruppo di dannati molto interessante. Il primo di
questi come suggerisce la Frugoni116, da interpretare forse come un seminatore di discordia, è
il peccatore segato in due. Con entrambi i piedi e le mani legati a due pali, l'uomo subisce l'or-
renda tortura, squartato da due demoni, che come novelli falegnami, si impegnano facinoro-
samente con la lunga lama dentellata. Questa ormai ha già diviso in due parti la testa del
dannato, fino alla metà del torace. Un'altra immagine atroce che nella sua efferatezza urta lo
sguardo. Similmente crudele è la descrizione di Alì offertaci da Dante. Dopo aver descritto
ferocemente Maometto, non si discosta di molto nel raffigurare Alì, suo cugino e genero.
Quest'ultimo, avendo la testa divisa in due parti, fisicamente continua il taglio (n'accisma) in-
ferto dai diavoli al predecessore Maometto dal mento all'ano. Alì infatti è il continuatore dello
scisma musulmano.

Dinanzi a me sen va piangendo Alì,


fesso nel volto dal mento al ciuffetto.
E tutti li altri che tu vedi qui,
seminator di scandalo e di scisma
fuor vivi, e però son fessi così.
Un diavolo è qua dietro che n’accisma
sì crudelmente, al taglio de la spada
rimettendo ciascun di questa risma,
quand’avem volta la dolente strada;
115 If V, vv. 28-45
116 Frugoni, L' affare migliore di Enrico, cit., 2008, p. 344

45
però che le ferite son richiuse
prima ch’altri dinanzi li rivada.117

Continuando con l'affresco la genialità di Giotto sfocia ora in un uomo ridotto a spiedo, un
elemento che comparve già nella cupola di Firenze, ma qui il realismo giottesco arriva all'a-
pice. Sempre in questa zona, alla destra del dannato segato, un uomo è arroventato come fosse
carne al fuoco da un essere mefistofelico che sadicamente ruota il girarrosto. Con un pizzico
di sarcasmo Giotto dipinge l'uomo legato alle braccia e dalla sua bocca penetra una barra me-
tallica che fuoriesce dall'ano [fig. 18]. Accanto a questa originale coppia, una donna impos-
sibilitata anch'essa a reagire per le mani legate dietro, è obbligata a trangugiare un liquido non
ben decifrabile da un mestolo sorretto da un diavolo. Forse questi due sono esempi di gola
punita come suggerisce Pisani118.
Un gigantesco ballo in maschera di dannati torturati in tutte la maniere, appesi per la lingua,
per il sesso e per i capelli, ad un uomo vien segata la testa, una donna è scuoiata viva, altri
dannati fuoriescono da buche mostrando i glutei in attesa di nuova tortura. Se al lato opposto
gli eletti riprendano le membra dopo il Giudizio, la triste sorte perpetua sembra portare questi
reprobi alla ricerca di un'improbabile fuga.
Nella chiesetta abbiamo superato il fregio dei Vizi e ci siamo tuffati nelle tormente perenni,
ma possiamo ancora dirottare le scelte verso lidi più felici, esattamente come leggendo la
Commedia, esplorato l'averno, ora possiamo scalare il peloso corpo di Satana, uscire a rivere
le stelle e cominciare il cammino della redenzione. A noi la scelta.

3.2 Un possibile incontro

Un dato di fatto è che la poetica di Giotto risultata simile a quella del poeta, specialmente
nell'Inferno. Quello che ha proposto il pittore potrebbe essersi ripercosso nelle parole e nelle
descrizioni di Dante. In più di un'occasione il parallelismo offerto nel paragrafo precedente
mette in risalto chiaramente le affinità che avvicinano i due grandi maestri.
Ma non solo l'Inferno dantesco ha punti in comune con gli affreschi giotteschi, basti pensare
ai canti dei superbi119. Nella cappella padovana la scelta che porterà alla dannazione o alla
117 If XXVIII, vv. 32-42
118 Pisani, I volti segreti di Giotto, cit., 2008, p. 221
119 «Il monito più chiaro affidato a statue finte e finti rilievi, il più 'gemello' delle Virtù e dei Vizi dell'Arena,
non è in realtà in un'opera di pittura, ma è nella Commedia dantesca, nel Purgatorio, dove Dante usa l'im-

46
beatitudine è guidata dalle allegorie di Vizi e Virtù, poste sotto il ciclo cristologico, nello zoc-
colo pseudo marmoreo della parete. La stessa architettura percorre l'intera prima cornice del
Purgatorio. Infatti i superbi che qui espiano i loro peccati, camminando con un macigno sulle
spalle, sono obbligati a guardare uno zoccolo marmoreo che corre lungo tutto il tragitto. Su
questo sono scolpiti in bassorilievo esempi di superbia punita e di umiltà. Dante appena solca
la soglia che immette nella prima cornice, cammina per il ripiano e subito la sua attenzione è
tratta da questi intagli.

Là sù non eran mossi i piè nostri anco,


quand'io conobbi quella ripa intorno
che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo candido e addorno
d'intagli sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno.120

Può essere solo un caso che venga citata da Dante l'Annunciazione, come primo esempio di
carità, e che La Vergine rivesta una tale centralità in entrambe le opere, visto che «è Maria in-
fatti a prestare soccorso per prima al poeta, sollecitando l'intervento delle altre due donne
benedette121, ed è ancora Maria ad essere invocata alla fine del poema perché mediante la sua
intercessione sia concessa a Dante la visione di Dio» 122. Ma tornando all'esempio dei Vizi e
delle Virtù, le personificazioni di Giotto sembrano combaciare anche con un altro estratto del
Purgatorio. L'allegoria di Invidia presente nella cappella ha un serpente che le si ritorce con-
tro, mordendole gli occhi, anzi gli occhi stessi sembrerebbero essere stati cancellati [fig. 19].
Gli invidiosi che Dante incontra nella seconda cornice, «sono coloro che non hanno visto, o
hanno visto male; e quindi sono puniti nella facoltà della visione: videre/in-videre»123. Queste
persone sono paragonate a ciechi mendicanti, perché hanno le palpebre sigillate, cucite con un
filo di ferro come si faceva con gli sparvieri.

E come a li orbi non approda il sole,


così a l'ombre quivi, ond'io parlo ora,

magine della montagna che i peccatori risalgono, e ne mostra il fianco istoriato con esempi di virtù». Roma-
no, La O di Giotto, cit., 2008, p. 245
120 Pg X, vv. 28-33
121 If II, v. 124
122 Ronconi, Dante e Giotto agli Scrovegni, cit., 2002, p. 36. L'importanza della Vergine in realtà fu innalzata da
Bernardo di Chiaravalle (1091-1153), «restauratore del culto mariano, vero mistico di Maria». Dante, Divina
Commedia, Paradiso, cit., 1998, p. 515, nota ai versi 61-63
123 Romano, La O di Giotto, cit., 2008, p. 246

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luce del ciel di sé largir non vole;
ché a tutti un fil di ferro i cigli fóra
e cusce sì, come a sparvier selvaggio
si fa però che queto non dimora.124

Sempre avendo come riferimento le Virtù, Giotto pone le allegorie nella chiesa come guida
all'uomo pellegrino verso il Paradiso, ma anche Dante appena giunto alle pendici del Purga-
torio viene rinfrancato dalla vista di quattro stelle brillanti nel cielo, l'allegoria delle quattro
virtù cardinali.

I' mi volsi a man destra, e puosi mente


a l'altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch'a la prima gente125.

Giotto alle quattro virtù cardinali fa seguire le tre teologali, più vicine fisicamente alla parte
sinistra del Giudizio universale, quello riservato ai beati. Alla stessa maniera Dante continuato
il suo cammino nella difficile ascesa al paradiso terrestre, si ferma nella valletta dei principi
dove scende la sera e prima di assopirsi la sua attenzione è colta da altre tre stelle (facelle) lu-
minose nel cielo, l'allegoria delle tre virtù teologali.

E 'l duca mio: «Figliuol, che là sù guarde?».


E io a lui: «A quelle tre facelle
di che 'l polo di qua tutto quanto arde».
Ond' elli a me: «Le quattro chiare stelle
che vedevi staman, son di là basse,
e queste son salite ov' eran quelle».126

Inoltre Ronconi fece già notare che il riquadro del Sogno di Gioacchino ha parecchi punti in
comune con il passo in cui Dante si addormenta seduto sui gradini di una scala incavata nella
roccia. Il poeta assieme a Virgilio e Stazio sono giunti oramai alla scala che conduce nella fo-
resta dell'Eden. Queste due scene sono simili sia per l'ambientazione dell'alta grotta, per i rife-
rimenti alle capre, al pastore, «sia per quel clima di silenzio e di raccoglimento interiore in cui
è sospesa la scena, preannuncio in entrambi i casi di un'esperienza mistica attraverso il sogno

124 Pg XIII, vv. 67-72


125 Pg I, vv. 22-24
126 Pg VIII, vv. 88-93

48
profetico dei due protagonisti»127.

Quali si stanno ruminando manse


le capre, state rapide e proterve
sovra le cime avante che sien pranse,
tacite a l'ombra, mentre che 'l sol ferve,
guardate dal pastor, che 'n su la verga
poggiato s'è e lor di posa serve;
e quale il mandrïan che fori alberga,
lungo il pecuglio suo queto pernotta,
guardando perché fiera non lo sperga;
tali eravamo tutti e tre allotta,
io come capra, ed ei come pastori,
fasciati quinci e quindi d'alta grotta.128

Quindi è opportuno a questo punto avanzare delle domande. Si può concludere che la pittura
di Giotto abbia potuto influire sull'opera di Dante? Oppure viceversa la poesia ha guidato il
pennello del pittore sulle spoglie pareti della cappella patavina?
Per rispondere a questo quesito è di capitale importanza capire innanzitutto la cronologia dei
due elaborati, da una parte il Giudizio universale e dall'altra la Divina Commedia.
Da quanto si è visto Giotto concluse gli affreschi della Cappella entro il 25 marzo del 1305,
una data importantissima e documentata129. Ora bisogna investigare sul periodo che portò alla
consacrazione del poema, capire da questo se è possibile che invece fosse stato Dante a sug-
gerire l'evolversi dell'affresco. Oppure, prima, trovare un punto in comune, un momento sto-
rico in cui avvenisse un incontro tra i due e di conseguenza un possibile scambio di idee. È
possibile che Dante tra il 1303 e il 1305 abbia potuto vedere l'evolversi del capolavoro giot-
tesco, abbia potuto incontrare il suo autore o semplicemente abbia visitato la Cappella in un
soggiorno più o meno lungo? Per poter rispondere a questa domanda bisogna ripercorre bre-
vemente gli anni che seguirono l'esilio di Dante e i conseguenti suoi spostamenti.
Le continue guerre tra ghibellini e guelfi prima, e tra guelfi Bianchi e Neri poi, causarono un
clima di odio e sospetto a Firenze negli ultimi anni del Duecento130. Questo portò molta gente

127 Ronconi, Dante e Giotto agli Scrovegni, cit., 2002, p. 37


128 Pg XXVII, vv. 76-87
129 In realtà la Gasparetto mette in dubbio questa datazione, spostando la decorazione tra il marzo 1304 e il
marzo 1309, momento in cui fu presentata la chiesa al pubblico, ma io preferisco attenermi alla datazione
ufficiale. C. Gasparotto, Giotto in Dante. Critica della cronologia tradizionale della Cappella Scrovegni, in
«Padova e la sua provincia», 1966, pp. 3-30
130 Per la genesi delle frizioni tra fazioni fiorentine cfr. Crouzet-Pavan, Inferni e paradisi, cit., 2007, pp. 90-94

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ad essere bandita, un esilio che poteva colpire non solo la persona, ma anche tutta quanta la
famiglia e la progenie. Alla congiura politica contro Dante del 1300, consegue l'inizio dell'esi-
lio forzato del poeta da Firenze, tra il 1301 e il 1303, fino ad arrivare in Veneto dove trovò
pace e ospitalità a Verona presso gli Scaligeri tra il maggio 1303 e il marzo 1304. Secondo Pe-
trocchi131, la morte del gran Lombardo, Bartolomeo della Scala, avvenuta il 7 marzo 1304, e
la seguente ascesa di Alboino, provocò a Dante il bisogno di allontanarsi da Verona 132. Ma non
si mosse solo per questo, un altro motivo più sconvolgente per l'esiliato poeta proviene dalla
Chiesa. L'incredibile opportunità di poter rimpatriare si stava concretizzando. Nel frattempo
infatti il papa Benedetto XI spediva nella città natale del poeta un messo, Niccolò da Prato,
che potesse ricostituire la pace perduta, soprattutto col fine nascosto di ricondurre in città i
Bianchi cacciati. Si è portati a credere che questo fatto fece muovere Dante dal Veneto nel
1304 verso la Toscana, investendosi da ambasciatore. Ma i tumulti pilotati da Corso Donati, la
fuga del cardinale pacificatore e la morte del papa (7 luglio 1304), cambiarono lo scenario.
Dante fu accusato poi dagli stessi Bianchi di essere corrotto e di conseguenza per il poeta si
profilarono anni lontani dalle sue terre, una grande occasione sprecata e la consapevolezza di
dover trovare altra ospitalità.
Da qui iniziano i problemi biografici e sono poche le testimonianze dirette tra 1304 e 1306,
ma «da varie fonti risulta più che probabile che il poeta, aiuto e segretario degli Oderlaffi a
Forlì, nel 1303 e ambasciatore a Verona presso gli Scaligeri, si trovasse a Padova tra il 1304 e
il 1305»133.
É anche ipotizzato dal Del Longo un suo soggiorno nella città di Treviso presso Gherardo da
Camino, che morì nel 1306134. Esclusa la tappa nella città di Verona, documentata, il sog-
giorno in Veneto è ipotizzabile. Scorrendo le pagine del poema, gli inserti che narrano storie e
paesaggi veneti non mancano all'interno dell'Inferno, ma anche nel Purgatorio, questo fa pen-
sare che non siano casuali, ma dovuti ad una conoscenza diretta nel suo peregrinare. La prima

131 G. Petrocchi, Itinerari danteschi, Milano, FrancoAngeli, 1994, p. 94


132 «Il primo rifugio e il primo ostello di Dante, tra il 1303 e il principio del 1304, fu presso Bartolomeo della
Scala, succeduto nella Signoria di Verona al padre Alberto, morto il 3 settembre del 1301. Bartolomeo morì l'
8 marzo [o il 7] 1304 e gli successe il fratello Alboino, dal marzo 1304 al novembre 1314, avendo al suo
fianco, dal 1308, il fratello minore Cangrande come legittimo corregente (…) Ma l'immagine sarcastica che
Dante da di Alboino nel Convivio fa supporre che il buon rapporto era giunto al limite (…) il padovano
Vitaliano del Dente aveva sposato Beatrice degli Scrovegni, figlia di Reginaldo e sorella di Enrico. La loro fi-
glia, Agnese, fu l'ultima moglie di Bartolomeo della Scala e da essa Dante avrà avuto notizie della costru-
zione della cappella a Padova e della commissione data a Giotto di decorarla (…) dopo la morte di Barto-
lomeo, [Agnese] si ritirò nella città natale, a vita monastica. Con tutta probabilità Dante si offerse di accom-
pagnarla, desideroso come era di lasciare le rive dell'Adige per quelle del Brenta». Gizzi, Giotto e Dante, cit.,
2001, p. 60
133 V. Mariani, Dante e Giotto, in Giotto e Dante, cit., 2001, p. 88
134 Petrocchi, Itinerari danteschi, cit., 1994, p. 96

50
allusione avviene nel passaggio dal sesto al settimo cerchio infernale; lo scoscendimento è as-
similato ad una frana (ruina) presso la Chiusa di Verona o forse Rovereto.

Qual è quella ruina che nel fianco


di qua da Trento l'Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
ch'alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;135

Un altro esplicito riferimento è rintracciabile nel canto di Brunetto Latini nel settimo cerchio.
I sodomiti qui puniti, devono correre sulla sabbia rovente e sotto una pioggia di fuoco. L'ar-
gine che divide il poeta dai peccatori è descritto simile alla riviera del Brenta. Questa è fatta
per difendere le ville dei Padoan dall'acqua che s'ingrosserebbe dopo lo scioglimento delle
nevi delle Alpi Carniche (Carentana).

e quali Padoan lungo la Brenta,


per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:136

Ma alcuni canti oltre si deduce anche una conoscenza diretta del territorio veneziano. Quando
Dante vide il fondo della bolgia dei barattieri nell'ottavo cerchio, accomuna la ribollente pece
lì presente a quella dell'arsenale veneziano quando si impermeabilizzano le navi.

Quale ne l'arzanà de' Viniziani


bolle l'inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno (...)
tal, non per foco ma per divin'arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che 'nviscava la ripa d'ogne parte.137

Bisogna ricordare inoltre i personaggi padovani presenti nell'Inferno, come Reginaldo ed

135 If XII, vv. 4-10


136 If XV, vv. 7-9
137 If XXI, vv. 7-18

51
Ezzelino, ma anche come Iacopo da Santo Andrea138, punito tra gli scialacquatori nella selva
dei suicidi del canto XIII. Oltre agli esempi tratti dalla Commedia, bisogna menzionare anche
la sua conoscenza diretta della lingua padovana, infatti «nel De vulgari eloquentia, Dante mi-
se in rilievo i difetti del volgare padovano, duro e privo di grazia, che non si prestava a rive-
stire di forma un'opera di alta poesia» 139. Ma lontano dalle deduzioni dal testo, ci si trova in-
nanzi ad un vuoto in cui è difficile orientarsi, si possono solo ipotizzare suoi spostamenti o
soggiorni brevi, prima di essere documentato come ospite dei Malaspina e procuratore di pace
in Lunigiana, presso il vescovo di Luni il 6 ottobre del 1306.
Tra le testimonianze di una sua presenza nel padovano a noi giunte quella di Benvenuto da
Imola, commentatore al pari di Boccaccio della Divina Commedia, è la più interessante e pit-
toresca. Nel famoso Commentario di Benvenuto Rambaldi di Imola (Commentum super Dan-
tem, 1375), tramandatoci e amplificato con molti spunti fantasiosi da Pietro Selvatico, si narra
che mentre Giotto stava dipingendo nella Cappella degli Scrovegni, il sagrestano entrò tra
l'ilarità degli aiutanti per annunciare la visita di un uomo che «deve essere un pezzo grosso,
perché è accompagnato da uno degli anziani della città, e dall'eccellentissimo dottore Pietro
d'Abano»140. Secondo Benvenuto, Dante entrò nella cappella, cominciò a disquisire con Giotto
sulle figure delle Virtù e dei Vizi, perché il resto era già quasi tutto completo e anzi, Giotto
chiese scusa a Dante per non aver reso meglio i canti scritti dall'amico. Si fa cenno anche alla
gioventù in cui i due erano assieme nella bottega di Cimabue, poi argomentarono sul come
insegnare a disegnare ai discepoli ed esercitarli, continuarono con il ricordare Oderigi da Gub-
bio e Franco di Bologna che «era a quattordici anni miniator valentissimo»141 e descrivendo
Enrico «cavalier gaudente, signore di tutto il recinto»142 offerente la chiesa. Benvenuto rac-
conta anche che Giotto lo invitò il giorno dopo, di domenica, nella propria abitazione per far-
gli conoscere i figli, dove il poeta profetizzò le famose parole «Egregio maestro, io molto
meraviglio che avendo voi fama costante per lo mondo di non aver pari nell'arte della pittura,
così belle facciate ad altri le figure ed a voi sì brutte»: al che Giotto sorridendo rispose:
«Quia pingo de die, sed fingo de nocte»143. Si presentarono così Giusto de' Menabuoi, Pietro
Cavallini, Ottaviano da Forlì e Guariento. Benvenuto offre pure un'indicazione temporale ben

138 «Figlio di Oderico da Monselice e di Speronella Dalesmanini, fu con Federico II nel 1237 e morì assassinato
per ordine di Ezzelino da Romano nel 1239. Gli antichi commentatori narrano le sue pazze prodigalità». Dan-
te, Divina Commedia, Inferno, cit., 1998, p. 201-202, nota al verso 119
139 Rigon, Padova nell'età di Giotto e Dante, cit., 2001, p. 6
140 Selvatico, Visita di Dante a Giotto nell'oratorio degli Scrovegni, cit., 1865, p. 140
141 Ibid. p. 163
142 Ibid. p. 165
143 Gizzi, Giotto e Dante, cit., 2001, p. 31

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definita, dice che tre settimane dopo sarà il famigerato 25 marzo, giorno in cui il pittore e il
poeta tornarono alla Cappella per l'apertura dei cancelli al popolo, a cui seguì una sacra rap-
presentazione e giochi popolari. Questo è l'unico documento che indichi una conoscenza
diretta tra i due grandi capiscuola di questo tempo; una testimonianza di sicuro interesse, seb-
bene francamente non convinca la maggior parte dei critici.
Eppure Dante sembrerebbe che abbia dimorato per un tempo non troppo breve a Padova 144, se
si riconoscesse veritiero un documento molto discusso, ma di grande rilevanza al tempo stes-
so. Questo documento è appartenuto alla nobile famiglia dei conti Papafava da Carrara e ap-
porta la data 27 agosto 1306. L'atto «riferisce che Bonifazio da Carrara di q. Jacopino Papafa-
va ebbe a deposito da Filippo di Canto del q. Ugolino de Semajo lire 1075 di grossi venezia-
ni, dando sua fede di restituirle entro tre mesi» segue poi una lunga lista di testimoni fino a
«Dantino q. Alligerii de florentia et nunc stat paduae in contracta sancti laurentii» 145. A que-
sto seguì un rogito alcuni anni dopo in cui il Semajo dichiara il debito assolto.
Il Gloria ha scandagliato a lungo ambo i documenti, giungendo alla conclusione che sono
autentici. Allontanò i dubbi di alcuni critici, che hanno pensato che il nome Dantino fosse da
riferire ad un possibile figlio del Poeta, chiarendo essere normale prassi dell'epoca l'uso del
diminutivo. Continuò anche ragionando sul fatto che avendo Dante preso moglie nel 1293, a
tale data nessun figlio avrebbe potuto fare da testimone, e alludendo a q. Alligerii come il no-
me del padre di Dante, chiarì che era usanza per i notai associare al nome del testimone quello
del padre. Il Gloria, non sazio, adduce come altra possibile prova che, scappato da Bologna,
Dante seguì i docenti del partito dei Bianchi che portarono la cattedra a Padova, e infine la
conoscenza che Dante mostra del Veneto sembrerebbe comprovare non tanto un suo sog-
giorno breve, quanto una sua permanenza duratura. Conclude Gloria che Dante abbia vissuto
a Padova tra il marzo e il settembre 1306146.
La grande gioia per questa scoperta portò a collocare nell'antica contrada di San Lorenzo, in
quella che oggi è piazza Antenore, sul palazzo Romanin Jacur, un'epigrafe celebrativa 147. In
realtà la tesi di Gloria perse di sicurezza quando Gaetano da Re, ricercatore d'archivio, poté
dimostrare che quel Dantino era ancora in vita tra il 1327 e il 1350. «In definitiva il dubbio

144 Sulla permanenza di Dante a Padova concordano i commentatori Boccaccio, Benvenuto da Imola, il vescovo
di Fermo, Giovanni Serravalle oltre al Selvatico. Gizzi, Giotto e Dante, cit., 2001, p. 60
145 A. Gloria, Sulla dimora di Dante in Padova, in Dante e Padova, cit., 1865, pp. 4-5
146 Ibid., p. 20
147 In quegli anni «il patriota conte Carlo Leoni faceva collocare l'epigrafe che ancor oggi campeggia e dice:
Fazioni e vendette/ qui trassero/ Dante/ 1306/ dai Carraresi da Giotto/ ebbe men duro/ esilio». G. Peretti,
Giotto e Dante a Padova, in «Padova e il suo territorio», XVI, 93, 2001, p. 24

53
persisteva, ma non annullava il documento carrarese»148.
Giotto invece, una volta terminato il capolavoro, si allontanò da Padova, quantomeno prima
della fine dell'anno149, quindi se fosse consacrata la tesi del Gloria, Dante non vide dal vivo il
pittore, ma presumibilmente ammirò la sua impronta lasciata imperitura nella Cappella degli
Scrovegni.
Un'ulteriore conferma del passaggio di Dante per Padova, potrebbe provenire da «un altro
ritratto, sempre trecentesco, nell'Oratorio di San Michele in via Tiso da Camposampiero, pres-
so la Specola, ultimo avanzo di una grande chiesa che i Carraresi fecero restaurare nel Trecen-
to e abbattuta nei primi anni del Settecento» 150 assai somigliante a quello ritenuto suo nella
Cappella degli Scrovegni. Ovviamente non si hanno dati sufficienti per perorare una tesi od
osteggiarla, non si può affermare con fermezza che Dante abbia fatto visita a Giotto, come
narra Benvenuto da Imola, come al tempo stesso non lo si può negare. Il racconto del com-
mentatore appare chiaramente fantasioso, inventato di sana pianta oppure creato ad hoc per
immortalare i due a stretto contatto, come in una fotografia, i più radicali rivoluzionari della
cultura italiana della fine del secolo assieme, così come i ritratti presunti di Dante possono
trovare pareri contrastanti o semplicemente essere generati da falsi miti.
Percorrendo un tragitto a ritroso, si potrebbe fissare un'altra tappa comune, come probabile
incontro. Alcuni critici concordano che Dante e Giotto si siano incontrati prima dell'impresa
di Padova. La loro fama li precedeva, come un'ombra all'alba, ovunque fossero stati l'uno
avrebbe saputo dell'altro, ma è a Roma che la possibilità accrescerebbe, nell'anno del Giubi-
leo, il 1300.
Mariani pone l'accento sul fatto che i due si fossero conosciuti a Roma adducendo anche delle
prove. Dante fu a Roma sicuramente: in maggio fu inviato come ambasciatore a San Gimi-
gnano, e nel 1301 fa parte dell'ambasceria a Bonifacio VIII, e vi rimase per più di un anno.
Mariani propone due esempi151: Dante fa iniziare la Divina Commedia nel 1300, e un riflesso
di ciò che ha visto a Roma apparirebbe nell'ottavo cerchio dell'Inferno. Quando infatti giunge
nelle Malebolge, descrive i ruffiani e i seduttori, che sono qui collocati, come due file che
camminano ignudi in senso inverso. Per rendere meglio la descrizione paragona i dannati ai
pellegrini del Giubileo.

148 Peretti, Giotto e Dante a Padova, cit., 2001, p. 25


149 «Gli affreschi furono realizzati da Giotto in due anni: dal 1303 al 1305, probabilmente ante 25 marzo. Giotto
non era più a Padova sicuramente nel novembre del 1305, quando dava in affitto a Bartolo correggiaio una
casa di sua proprietà a Firenze, nel Sestiere di S. Pancrazio». Bellinati, Nuovi studi sulla Cappella di Giotto
all'Arena di Pado-va, cit., 2003, p. 21
150 G. Peretti, Giotto e Dante a Padova, cit., 2001, p. 25
151 V. Mariani, Dante e Giotto, cit., 2001, pp. 82-83

54
come i Roman per l'essercito molto,
l'anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,
che da l'un lato tutti hanno la fronte
verso 'l castello e vanno a Santo Pietro,
da l'altra sponda vanno verso 'l monte.152

Parla del Ponte di Sant'Angelo, dove la grande folla di credenti presente che viene narrata
dalle cronache, fu divisa in due file per facilitare il pellegrinaggio. A tutti gli effetti sembre-
rebbe che Dante abbia potuto ammirare la scena per poi riportarla nei suoi versi. Il secondo
esempio verte sulla possibilità che a Roma Dante abbia potuto visionare la grandiosa pigna
bronzea al centro del quadriportico di San Pietro. Il riferimento è chiaro quando Dante e Vir-
gilio giungono alla fine delle Malebolge e si trovano davanti ad un burrone, il pozzo che di-
vide l'ottavo dal nono cerchio, dove spunta il gigante Nembrot.

La faccia sua mi parea lunga e grossa


come la pina di San Pietro a Roma,
e a sua proporzione eran l’altre ossa;153

Appare perciò inconfutabile la sua presenza a Roma durante la festività e non bisogna scor-
dare che il probabile incontro tra i due fosse favorito da un altro fatto: «a Roma, Giotto dove-
va esser dunque giunto in tempo per assistere alla promulgazione del Giubileo il 22 febbraio
1300 e per prendere appunti dal vero della eccezionale cerimonia che subito tradusse nel gran-
de affresco della loggia delle Benedizioni del Laterano, di cui ci resta soltanto il frammento
centrale, con Bonifacio VIII che legge la promulgazione» 154 [fig. 20]. A Giotto fu attribuito
anche il mosaico della Navicella sovrastante la portineria in San Pietro, sopra la tomba di Ot-
tone II e la pala Stefaneschi, entrambi dalla datazione incerta. Del primo rimangono solo due
piccoli frammenti raffiguranti degli angeli, l'originale fu smontato, ma sono rimaste alcune
copie che danno un'idea di quello che fu155. La convinzione che il pittore avesse sostato a lun-

152 If XVIII, vv. 28-33


153 If XXXI, vv. 58-60
154 V. Mariani, Dante e Giotto, cit., 2001, p. 83
155 Ovvero una concitata scena dove la paura e la tempesta fa da padrone, tratta da Matteo (14, 24-33) dove Dio
soccorre San Pietro e gli apostoli nel Mar di Galilea in tempesta; Kessler pone l'accento su due elementi alle-
gorici, l'albero della vela a forma di croce e il pescatore, simbolo della chiesa, ma al tempo stesso dubita della
sua paternità dell'affresco di Bonifacio. H. L. Kessler, Giotto e Roma, in Giotto e il Trecento.“Il più Sovrano
Maestro stato in dipintura”, Milano, Skira, 2009, pp. 85-99. È curioso notare che la figura del pesce così
come il pescatore, si è già visto essere comparsa anche nel Giudizio universale.

55
go nell'Urbe viene abbracciata oltre che dalla Romano, anche dalla Flores D'Arcais. Questa
ultima oltre a denotare la frequente presenza a Padova di timpani con figure entro clipei e di
colonne dai motivi fitomorfi di ambito romano antico come quella che incornicia il Giudizio
universale, giunge ad attribuirgli i lacerti dell'affresco in Santa Maria Aracoeli, della Cappella
di Baylonne156.
Giotto e Dante potrebbero quindi essersi conosciuti a Roma, accomunati dagli interessi arti-
stici, dalla comune radice natale e da quel rispetto reciproco che sicuramente condividevano.
L'amicizia tra i due è cosa certa secondo Gizzi157, tant'è vero che da una parte ci sono i celebri
versi dedicati al pittore nel Purgatorio, dichiarando che l'allievo supera il maestro Cimabue:

Credette Cimabue ne la pittura


tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.158

così come dall'altra sono altrettanto famosi gli affreschi di Giotto nella Cappella del Podestà a
Firenze, dove dipinse l'Inferno e il Paradiso, con ritratti tra i quali si riconoscono Dante [fig.
21], Corso Donati, Brunetto Latini e Carlo di Valois.
A confermare l'amicizia, abbiamo l'episodio di Ravenna: dopo il Giubileo Giotto è impegnato
a Padova, mentre Dante continua il suo pellegrinaggio; la morte dell'odiato Alboino nel 1311
conduce Dante a Verona, ospitato da Cangrande, fino al 1318 circa, quando accettò l'invito di
Guido Novello da Polenta a Ravenna; è in questa città che Gizzi rafforza la tesi di una ami-
cizia tra i due maestri, dal momento che il tempio polentano di San Francesco fu affidato all'a-
mico Giotto su suggerimento proprio di Dante, così come alcuni freschi di una cappella di San
Giovanni Evangelista159. In verità questa affermazione viene confutata dal Rambaldi, così co-
me prova che molte altre forzature biografiche hanno coinvolto la figura dei due grandi mae-
stri, ora a Lucca, ora a Napoli160.
Purtroppo è impossibile proporre una data certa in cui possa essere nata l'amicizia fra questi
due grandi geni, ma è assodato che loro si conoscessero e rispettassero. È impensabile accer-
tare che Dante abbia fatto visita a Giotto mentre questi dipingeva il ciclo pittorico nella cap-
pella patavina, sebbene sia altamente probabile che Dante abbia risieduto a Padova tra il 1304

156 F. Flores D'Arcais, La Cappella degli Scrovegni, in Giotto e il Trecento, cit., 2009, pp. 101-111
157 Gizzi, Giotto e Dante, cit., 2001, p. 68
158 Pg XI, vv 94-96
159 Gizzi, Giotto e Dante, cit., 2001, p. 66
160 P. L. Rambaldi, Dante e Giotto nella letteratura artistica sino al Vasari, in «Rivista d'arte», 19, 1937, pp.
332-334 e p. 342

56
e il 1306, ed è da escludere che in tale caso non abbia visitato la chiesa dell'Arena. Non è dato
sapere se la ricerca di verità, nei tratti e nelle espressioni giottesche, nell'umanizzazione delle
bestie infernali, nella resa quotidiana delle pene, così impressionanti e vicine, abbiano condi-
zionato la poesia dantesca. Neppure si può architettare che in un fantomatico incontro tra i
due, Dante influenzò con i suoi ideali, i sui versi, il suo pensiero e il suo verismo, i tratti di
Giotto. Entrambi sono a capo di un grande sviluppo, una rivoluzione artistica, tanto nella poe-
sia quanto nella pittura. Si possono fare solo congetture, non accorrono in nostro aiuto docu-
menti esaustivi. L'unica cosa certa è la grande vicinanza di poetica, una condivisione comune
di intenti.
Per risolvere questo rompicapo bisogna attingere da dati e riferimenti cronologici certi. Se da
un lato possediamo il termine temporale dei lavori nella cappella, dall'altro non sappiamo
esattamente quando l'Inferno di Dante prese vita.
Per giungere alla conclusione di chi per primo abbia potuto influenzare l'altro, ammesso che
sia vero, ora bisogna datare la Divina Commedia.

57
58
IV
Datazione della Divina Commedia

4.1 Prima circolazione

Se si ritenesse che la Divina Commedia abbia influito sulla stesura dell'affresco di Giotto, bi-
sogna presumere che al più tardi l'Inferno fosse di pubblica fruizione intorno agli anni 1303-
1305. Solo in questo modo il pittore avrebbe potuto leggere del viaggio negli inferi, e da lì
trarne giovamento ed ispirazione specialmente per le scene raccapriccianti che popolano l'an-
tro oscuro. Ma quando esattamente fu scritto il poema? In prima persona Dante fornisce l'an-
no di partenza del suo viaggio mistico nell'oltretomba già nella prima terzina. Siamo all'incipit
di quella che diverrà l'opera più famosa e più discussa al mondo, forse seconda solo alla Bib-
bia.

Nel mezzo del cammin di nostra vita


mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.161

La parafrasi più banale informa che l'età di Dante personaggio è di trentacinque anni, età che
il poeta stesso menziona nel Convivio come punto più alto dell'uomo prima del declino. La
sua nascita è documentata nel 1265, e a conti fatti il momento dell'immaginario viaggio avver-
rebbe attorno al 1300. La data proposta dal poeta non coincide con quella di stesura per un
semplice motivo: Dante immaginava che, per rendere maggiormente d'impatto le pretese dida-
scaliche dell'opera, potesse giovargli porre dei colpi di scena; per esempio denunciare nei di-
scorsi fatti dai dannati delle profezie che riguardassero personaggi o fatti possibilmente noti al
popolo lettore. Ambientando teoricamente la Divina Commedia al 1300, Dante conosceva be-
nissimo i fatti di attualità degli anni seguenti, come per le morti o i tradimenti; anteponendo il
tutto alcuni anni prima, come un perfetto indovino poteva regalare agli occhi del lettore la
meraviglia, l'idea di prodigiosità, di evento straordinario confermato dalle profezie di eventi

161 If I, vv. 1-3

59
che al 1300 non dovevano essere ancora avvenuti. Dante ricorrerà frequentemente al fenome-
no delle profezie post eventum nelle prime due cantiche, sia per sbalordire il lettore, sia per at-
estare la veridicità del suo viaggio.
Ovviamente quindi la data 1300 non può ritenersi veritiera come indicazione di inizio stesura.
Poco se non pochissimo si sa riguardo alla composizione e alla pubblicazione della Divina
Commedia. Persino il titolo stesso del poema sembra non essere l'originale, dal momento che
l'attributo Divina comparve solo con l'edizione veneziana del Giolito del 1555 162. Dante co-
minciò forse prima dell'esilio come suggerì Boccaccio; il novelliere infatti informava di un ri-
trovamento a Firenze dei primi sette canti dell'Inferno nel 1306, poi inviati a Dante mentre
soggiornava nel frattempo in Lunigiana. Ma questa notizia è da ritenersi inventata, senza il
minimo fondamento. Una possibile data, potrebbe essere dopo la morte di Enrico VII di Lus-
semburgo, l'Arrigo dantesco (1275-1313) sostenuta da vari studiosi, ma anche questa teoria ha
poco convinto. La più plausibile propone una data intorno al 1306. In una lettera inviata verso
la fine del 1319 al grammatico e letterato Giovanni del Virgilio, la Egloga I, Dante, riferen-
dosi alla terza e ultima cantica, «ne parla parla come d'opera non ancora conclusa contrappo-
nendola alle due riguardanti gli infera regna, già pubblicate» 163.
Vi sono differenti posizioni, e molti studiosi sono tuttora in cerca di nuove prove per datare
l'opera. Per primo preferisco rifarmi agli studi di Giuseppe Indizio, poiché sono tra quelli più
recenti e quantomeno rispondono all'interrogativo sul periodo di circolazione dell'Inferno.
Questi tra le varie prove fa riferimento al cosiddetto argomento useppiano 164, ovvero una pro-
va schiacciante e documentata, che non abbisogna di interpretazioni ulteriori e conferma la
circolazione della Divina Commedia almeno in ambito romagnolo. É data da una terzina che
si trova scritta sul verso di un registro della curia podestarile di Bologna, per mano di un
notaio, Tieri degli Useppi agli inizi del 1317. I versi sono tratti da un passo dell'Inferno.

E 'l duca lui: "Caron, non ti crucciare:


vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare".165

162 G. Folena, La tradizione delle opere di Dante Alighieri, in Atti del Congresso internazionale di studi dante-
schi, vol. I, Firenze, Sansoni, 1965, p. 40
163 Ibid., p. 41
164 G. Indizio, Gli argomenti esterni per la pubblicazione dell'Inferno e del Purgatorio, in «Studi danteschi»,
68, 2003, p. 40
165 If III, vv. 94-96

60
4.2 L'indizio barberiniano

La prova della circolazione della Divina Commedia si trova anche in una glossa dei Docu-
menti d'Amore. Secondo gli studi accurati di Indizio, il testo e le sue chiose dei Documenti
d'Amore scritti dal notaio Francesco da Barberino, sarebbero da ritenere di tempi differenti:
prima le une, poi le altre. Una postilla comproverebbe che il testo fu completato nel periodo in
cui Francesco viveva in Francia, ovvero fino alla prima metà del 1313. Ne deriva che com-
pose la sua opera in volgare tra il 1308 e 1310-11 e di seguito, le glosse in latino 166. L'interesse
didascalico dell'autore che si evince dalle chiose, molte volte maggiori rispetto al testo, lo por-
ta spesso ad inserire ragionamenti e riferimenti all'attualità. Questo permette di seguire crono-
logicamente lo sviluppo del lavoro.
In una di queste cita chiaramente Arrigo VII come ancora re 167, quindi la data di riferimento è
sicuramente prima del giugno 1312 quando venne incoronato imperatore. In un'altra chiosa il
Barberino afferma di essere a Bologna168, fatto accertato verso l'estate del 1313. Più avanti
menzionerà anche la presa di Lucca da parte dei Pisani169, portandoci nel secondo semestre del
1314. Si arriva così alla glossa incriminata in cui è esplicito il riferimento a Dante.
Hunc [Virgilium] Dante Arigherii in quodam suo opere quod dicitur Comedia, et de infernalibus inter cetera
multa tractat, commendat protinus ut magistrum; et certe, si quis illud opus bene conspiciat, videre poterit
ipsum Dantem super ipsum Virgilium vel longo tempore studuisse, vel in parvo tempore plurimum profecisse. 170
Che può esser tradotta così: Dante Alighieri in una sua opera intitolata Commedia, che insie-
me a molte altre cose tratta delle realtà infernali, loda Virgilio come maestro: e infatti, se si
guarda con attenzione alla sua opera, si vede come Dante abbia studiato a lungo sopra Virgi-
lio, o abbia saputo giovarsene al massimo in breve tempo.171
Comunque, continuando con il ragionamento di Indizio, se le postille precedenti fossero con-
fermate di cronologia progressiva, sicuramente questa glossa non può essere anteriore alle
altre. L'autore informa anche di essere a Mantova. Sebbene il Barberino è testimoniato più

166 Indizio, Gli argomenti esterni per la pubblicazione dell'Inferno e del Purgatorio, cit., 2003, p. 24
167 Ibid., p. 25, «Dicas cum secum habuerit rationem. Isto vocabulo sepius utitur, secundum quod fertur, Roma-
norum Rex dominus Henricus qui modo est»; Documenti d'Amore, c. 38c
168 Ibid., « istam XLII regulam glosabimus cum novitatibus Bononiensium dominarum, cum simus in earum
civitate ad presens». Documenti d'Amore, c. 43c
169 Ibid., p. 26, « Alia pars regule habet exemplum in Lucanis qui sciverunt male confidere et male custodire
suam civitatem». Documenti d'Amore, c. 50b
170 F. Da Barberino, Documenta Amoris. Glossae, tomo II, a cura di M. Albertazzi, Roma, La Finestra, 2008, p.
371-372
171 E. Fenzi, Ancora a proposito dell’argomento barberiniano (una possibile eco del Purgatorio nei Documenti
d'Amore di Francesco da Barberino), in «Tenzone», 6, 2005, p. 98

61
volte come visitatore occasionale o di passaggio per Mantova, si è ritenuto credibile datare il
momento ad un 1314 inoltrato. Sembrerebbe che tutto quanto quadri, invece compare una
glossa equivoca,
Dum essem in Curia tempore istius domini Clementis in camera camerarii sui, dominus Petrus de Columna
Sancte Romane Ecclesie cardinalis.172
Se si trattasse come probabile di Clemente V regnante, vorrebbe dire che siamo in un periodo
precedente alla sua morte avvenuta il 20 aprile 1314. Questo rende vana l'ipotesi di una suc-
cessione cronologica data dalle chiose, perché quest'ultima sfasata con quelle precedenti. Però
il fatto che il Barberino parli di «al tempo di questo Clemente» 173 spiega che il riferimento è
ad un periodo di tempo passato ma non ben determinato, quindi al momento della stesura il
pontefice forse era vivo o più probabilmente morto.
Le ipotesi sono molteplici. Secondo Egidi alla fine dei Documenti d'Amore si fa chiaro rife-
rimento ad Arrigo VII vivente, quindi ci informa della circolazione dell'Inferno prima del
1313174. Secondo il Vandelli, Francesco da Barberino scrive invece entro il 1314, poiché ritro-
va un citazione di Clemente V regnante, quindi prima della sua morte avvenuta il 20 aprile
1314, credendo che i canti allora circolanti fossero solo i primi, a differenza per esempio del
canto XIX175.
Petrocchi ritiene che Francesco da Barberino dovesse trovarsi ancora in Provenza fino al 29
marzo 1313, quando la bolla papale di Clemente V invitava i vescovi di Padova, Bologna e
Firenze a rilasciare al letterato il titolo dottorale 176. Ritiene quindi che sia inutile per il Barbe-
rino essere rimpatriato prima di tale data. È documentata la vertenza di presentarsi a Venezia il
24 giugno da parte dell'imperatore Arrigo VII. Il Petrocchi perciò sostiene che sia inverosi-
mile che il Barberino abbia potuto soggiornare a Mantova, dove dovrebbe aver scritto circa un
quarto delle glosse in latino. Un documento del 28 aprile del 1315 testimonia la sua presenza
a Firenze177. Ne consegue che le chiose potrebbe averle scritte anche nel 1315 prima di tornare
in Toscana.

172 F. da Barberino. Documenta Amoris, cit., 2008, p. 534


173 Indizio, Gli argomenti esterni per la pubblicazione dell'Inferno e del Purgatorio, cit., 2003, p. 29
174 «Concludendo, siamo ormai in grado di affermare con certezza che il testo dei Documenti fu iniziato prima
del 1309 e compiuto verso il 1310; che verso il 1310 fu anche pensata la forma del libro e furon scritte le
prime copie ed eseguiti i primi disegni (...). Nel 1312 (...) erano state scritte per una quarantina di carte, le
chiose, le quali furon poi continuate in Italia nel 1313 e compiute sul finire di quello stesso anno. Il libro fu
poi, forse nel 1314, ornato di miniature e pubblicato. La chiosa, nella quale è cenno della Commedia, fu scrit-
ta a Mantova nel principio dell’estate del 1313. In quel tempo certamente l'Inferno, ma forse anche il Purga-
torio eran dunque già pubblicati e diffusi». F. Egidi, L'argomento barberiniano per la datazione della Divina
Commedia, in «Studj romanzi», XIX, 1928, p. 155
175 Fenzi, Ancora a proposito dell’argomento barberiniano, cit., 2005, p. 100
176 Petrocchi, Itinerari danteschi, cit., 1994, p. 65
177 Ibid., p. 66

62
Tornando al rifermento di Francesco per la curia avignonese e Clemente, Petrocchi nota che
mai si è nominato prima in tutto i Documenti d'Amore il nome del guasco. «E allora è evi-
dente che l'istius non può significare se non di questo che ora regna, o in altri termini, del pre-
sente, e quindi vivente»178 riferimento quindi al periodo in cui è regnante. Clemente essendo
morto il 14 o 20 aprile 1314, comporta che la menzione precedente a Dante, sia anche antece-
dente. Il Barberino però non fa differenze nell'utillizzo di hic, iste, ille, dimostrando che l'ag-
gettivo o il pronome non ha valenza temporale. Questo comporta che la glossa potrebbe anche
essere del 1315. Petrocchi inoltre avanza l'ipotesi che il Barberino possa conoscere il poema
anche solo “per sentito dire”, quindi senza averne una conoscenza diretta.
La forbice temporale in cui Barberino fa riferimento alle vicende dell'oltretomba, seguendo
tutti i ragionamenti, va quindi dalla metà del 1313 all'inizio del 1315.

4.3 L'indizio ugurgieriano-lanciano

Un altro indizio proviene da Ciampolo degli Ugurgieri e Andra Lancia, che sono due volga-
rizzatori dell'Eneide nel Trecento. La volgarizzazione offerta da Ciampolo del libro VI dell'E-
neide, quando si appresta a descrivere la scena di Cerbero e la veggente, apporta delle varianti
rispetto all'originale.
Cerbero, fiera crudele e diversa, cum tre gole caninamente latra, e tiene questi regni, e orribilmente giace in
una spelonca a rincontra al quale, vedendo la prophetessa avere i colli pieni di serpenti, la terra cum piene le

pugna la gittò dentro alle bramose canne.179

Non solo Ciampolo elimina la scena virgiliana della pagnotta 180, sostituendola con la terra
dantesca, ma tutta quanta la scena è piena di echi danteschi rapportabili al canto V.

Cerbero, fiera crudele e diversa,


con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa.
Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;

178 Petrocchi, Itinerari danteschi, cit., 1994, p. 67


179 Indizio, Gli argomenti esterni per la pubblicazione dell'Inferno e del Purgatorio, cit., 2003, p. 32
180 Questo passaggio virgiliano in origine narra che «Cerbero gigantesco questi regni rintrona con il latrato|
delle tre gole giacendo smisurato di traverso in un antro.| Vedendo già i colli rizzarglisi di serpi, la profetes-
sa| una focaccia drogata di miele e di soporifere erbe| gli getta; dilatando le tre fauci con rabbiosa fame|
quello afferra l'offerta gettata, e affloscia il colossale dorso| prostrato al suolo, e quant'è grosso si estende
per la grotta intera». Virgilio, Eneide, Milano, RadiciBUR, 2006, libro VI, vv. 417-423, p. 181

63
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.
Urlar li fa la pioggia come cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani.
Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo.
E 'l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne.181

A venirci in contro con la datazione, accorre la versione lanciana datata al 1316. Confrontan-
do le due volgarizzazioni si nota la presenza di errori comuni in quella lanciana, tratti da quel-
la ugurgieriana, ma non viceversa, questo comporta che Ciampolo ha corrotto la versione di
Lancia, e quindi deve aver letto il canto dantesco almeno nei primi mesi del 1316182.

4.4 L'enigma del battistero

Si è parlato finora di circolazione, ovvero le prime tracce di una lettura del poema, riportando
gli indizi di una conoscenza diretta della Divina Commedia, ma datare la composizione dell'o-
pera è più arduo. Una fonte utile per definirla è senza dubbio il canto XIX. Qui Dante descri-
vendo la bolgia dei simoniaci come una valle piena di buchi, dovei dannati conficcati a testa
in giù si dimenano, paragona la bolgia alla fonte battesimale del Battistero fiorentino di San
Giovanni.

Non mi parean men ampi né maggiori


che que' che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d'i battezzatori;
l'un de li quali, ancor non è molt'anni,
rupp'io per un che dentro v'annegava:183

Dante ci dice di aver rotto il pozzetto perché vi stava annegando un ragazzo, probabilmente

181 If VI, vv. 13-27


182 Indizio, Gli argomenti esterni per la pubblicazione dell'Inferno e del Purgatorio, cit., 2003, p. 34
183 If XIX, vv. 16-20

64
un infante che stava ricevendo il sacramento. Difficile credere che questo pertugio fosse sca-
vato nel marmo, vista la difficoltà oggettiva nel romperla. É consigliabile pensare ad un'anfo-
ra in terracotta riempita di acqua santa, ma non è questo il problema. Il dubbio sorge nell'in-
ciso ancor non è molt'anni, dal momento che il danno deve averlo creato non dopo l'ottobre
del 1301, anno in cui si allontanò da Firenze senza poter esserci ritornato 184. Il problema è che
di indicazioni temporali sicure non ce ne sono, tanto che il fatto potrebbe essere accaduto ben
prima del 1300, e l'inciso al tempo stesso fa pensare che siano passati pochi anni. Ma in que-
sto stesso canto XIX poco dopo cozza un paradosso. Dante camminando tra i dannati, passa
vicino alla buca del papa Niccolò III. Questi per errore lo crede Bonifacio VIII, giunto a dargli
il cambio in anticipo rispetto alla sua morte, dichiarando che anche Bonifacio aspetterà poco
tempo perché giungerà un pastor sanza legge.

Là giù cascherò io altresì quando


verrà colui ch'i' credea che tu fossi,
allor ch'i' feci 'l sùbito dimando.
Ma più è 'l tempo già che i piè mi cossi
e ch'i' son stato così sottosopra,
ch'el non starà piantato coi piè rossi:
ché dopo lui verrà di più laida opra,
di ver' ponente, un pastor sanza legge,
tal che convien che lui e me ricuopra.
Nuovo Iasón sarà, di cui si legge
ne' Maccabei; e come a quel fu molle
suo re, così fia lui chi Francia regge".185

É difficile credere che la previsione di Dante, per bocca di Niccolò III, sia solo casuale e che
poi si sia effettivamente avverata. Dante non è un oracolo e quindi doveva conoscere la morte
del pastore Clemente V. Ma si potrebbe anche incorrere in errori banali. Vi è la possibilità che
Dante abbia riscritto o semplicemente corretto alcune parti, creando così una profezia post
eventum. Questo porta a far credere al lettore di essere ignaro del fatto, e usufruendo di poteri
ultraterreni (i dannati) per mezzo di colloqui, conoscere il futuro, tenendo ben a mente che ha

184 «La rottura del pozzetto deve essere avvenuta prima del 1301 (partenza del poeta da Firenze, per l'amba-
sceria a Bonifacio VIII e mancato rientro in città per effetto dell'intervento di Carlo di Valois, nel novembre
di quell'anno) (…) questo avvalla le ipotesi che pongono l'inizio della stesura dell'Inferno all'incirca nel 1304
o nel 1306-1307». Dante, la Divina Commedia, Inferno, cit., 1998, p. 282, nota la verso 19
185 If XIX, vv.76-87

65
informato il lettore sulla data dello suo viaggio nella prima terzina186. É uno stratagemma uti-
lizzato dal poeta in molti frangenti.
Giuseppe Indizio su questo canto avanza dei dubbi187. Il primo è dato sul perché Dante con-
danni Clemente V solo per simonia nel canto XIX, mentre più tardi lo calunnierà per aver
spostato la sede papale ad Avignone nel 1309, per aver tradito Enrico VII nel 1312 dopo il
concilio di Vienna, nonché solo nel 1307 per aver avviato la persecuzione dell'ordine Tem-
plare, protrattasi fino agli anni di maggior acredine, 1312-14188. Questo dimostrerebbe l'ante-
riorità del canto rispetto a queste date, nonché un rimaneggiamento. L'incoronazione di Ber-
trand de Gouth a Lione avvenne il giorno 14 novembre del 1305, quindi questa data è un
terminus post quem importante per il canto. Dante non poteva sapere chi sarebbe stato papa
prima di quella data. Viene quindi da domandarsi del perché Dante condanni il papa francese
dicendo verrà di più laida opra, sebbene i più gravi fatti fossero d'ascriversi intorno agli anni
1309-12? È credibile che 7/8 anni dopo Dante torni sulle proprie pagine ritoccando alcune
parti? Sembra più leggibile in questi versi uno sprezzante distacco di Dante dall'operato papa-
le, ma soprattutto un senso di frustrazione. Le parole sono tombali, come se il tradimento nei
confronti dell'imperatore, unica via di salvezza secondo il disegno politico dantesco, «perché
l'essenza stessa del potere imperiale era quella di costruire un ordine di giustizia sulla Ter-
ra»189, fosse già compiuto. Le parole qui espresse non possono riferirsi solamente al peccato di
simonia, che tra l'altro era cosa abbastanza comune e risaputa, quasi intima dell'ambiente pa-
pale. Difficile dedurre una correzione che riguardasse solo poche terzine, dato che la figura
del papa guasco risulta perfettamente inserita nell'economia del canto. Quindi non si tratta di
un ritocco secondo Indizio, spostando la data di esecuzione verso il 1311-12, tenendo poi pre-

186 Dubbi già avanzati dalla nota al verso 81 in Dante, la Divina Commedia, Inferno, cit., 1998, p. 286: «Nicco-
lò III, morto nel 1280, verrà spinto giù da Bonifacio VIII nel 1303; resterà quindi con le gambe fuori dalla
buca e le piante dei piedi succiate dalla fiamma, 23 anni. Bonifacio, invece starà in quella posizione dal 1303
al 1314, anno della morte di Clemente V, che verrà a sostituirlo nella buca (…) È difficile pensare che Dante
possa aver azzardato una previsione, solo basandosi sul fatto della sua esperienza di brevi pontificati e sulla
salute e l'età di Clemente V (…) Si sarebbe costretti ad ammettere dunque, che Dante abbia scritto dopo la
morte di Clemente V (aprile 1314): questo era uno degli argomenti fondamentali per coloro che ritenevano il
poema scritto dopo la morte di Enrico VII (…) Non resta che pensare ad un ritocco di alcune parti dell'Infer-
no probabilmente tra il 1314 e il 1315».
187 G. Indizio, La profezia di Nicolò e i tempi della stesura del canto XIX dell'Inferno, in «Studi danteschi», 67,
2002, pp. 73-97
188 Nell'introduzione al canto XIX in Dante, la Divina Commedia, Inferno, cit., 1998, p. 280: «l'azione di Cle-
mente sul piano politico generale fu per Dante più grave di quella del predecessore: era lui che aveva tenuto
mano, per favorire re Filippo, all'uccisione e spoliazione dei Templari (Pg XX 91-93) [1307-1314]; tra i due,
era di gran lunga il maggior responsabile dell'asservimento del papato a quel re, addirittura trasferendo la se-
de papale ad Avignone [1309]; soprattutto era lui che con la sua politica traditrice aveva contribuito a far fal-
lire la magnanima e salvatrice impresa di Enrico VII [1312]».
189 E. Crouzet-Pavan, Inferni e paradisi, p. 107

66
sente che la circolazione della prima cantica fosse non troppo distante dal 1314190.
Di parere differente è Petrocchi che interviene sulla profezia della morte di Clemente V. Dante
lo punisce solo come simoniaco, naturale prolungamento della figura di Bonifacio VIII. Col-
pevole di aver ingannato il re di Francia e poi la Chiesa. Ma Bonifacio fu molto peggio di un
semplice simoniaco, così come non ci si deve stupire se Clemente è punito solo per il mede-
simo vizio. Se Dante avesse scritto di Clemente, una volta morto, non ne parlerebbe come di
un uomo in piena attività dopo lui verrà di più laida opra soprattutto omettendo colpe ben più
gravi. «Solo scrivendo dopo l'aprile del 1314 Dante poteva avere il senso della vendetta giu-
stiziera che aveva prematuramente colpito il Guasco, a pochi mesi da un'altra morte prema-
tura, quella di Arrigo VII; e le due morti saranno poi riavvicinate nella cupa chiusura del can-
to XXX del Paradiso»191. Conclude quindi datando al 1307 la stesura del canto XIX.

4.5 La composizione

La lotta alla Chiesa corrotta e quindi l'inizio dell'opera del poeta, un lungo cammino spirituale
che possa accompagnare anche il lettore alla redenzione, potrebbe avere un punto di partenza
ben definito: la morte di Arrigo VII, il condottiero che doveva spazzare via la Chiesa depra-
vata e tutte le guerre fratricide che cosparsero di morti la nostra penisola in nome di un ideale,
l'aquila imperiale.
La morte di lui, avvenuta nel 1313, deve aver prodotto in Dante un tale dolore da condurlo ad
una lotta privata, scandita a colpi di penna e rime. Afferma Kraus che, «Viste naufragare le
sue più alte speranze politiche (...) si ritrae dalla vita attiva, si rifugia in se stesso, esplica tutta
la forza del suo genio nella creazione della Commedia»192.
Secondo Barbi invece Dante cominciò ancor prima dell'esilio, e rifacendosi alla testimonianza
di Boccaccio, riteneva veritiero che il poeta potesse aver ricevuto le prime parti dell'Inferno

190 «L'episodio del battezzatoio non dimostra in alcun modo che Dante stia scrivendo entro i primissimi anni del
'300 (…) perché non vi sono prove (…) Il canto XIX non poté essere scritto originariamente nel 1307, poiché
la raffigurazione di Clemente e le colpe attribuitegli presuppongono indiscutibilmente atti (ed omissioni) che
il Guasco compie solo a partire dal 1311-12. (…) l'ipotesi del ritocco è da ammettere con somma cautela e
(…) limitatamente ai tre versi che la riguardano. A far inclinare per questa soluzione, rispetto ad una stesura
integrale nel corso del secondo semestre del 1314, vi è la circostanza che la prima cantica fosse, a quell'altez-
za, di pubblicazione ormai imminente». Indizio, La profezia di Nicolò e i tempi della stesura del canto XIX
dell'Inferno, cit., 2002, p. 97
191 Petrocchi, Itinerari danteschi, cit., 1994, p. 75
192 F. Kraus, Dante, sein Leben, sein Werk, sein Verhältniss zur Kunst und Politik, a cura di V. Cian, in «Bullet-
tino della Società dantesca italiana», N. S., vol. V, fasc. 8-10, 1898, p. 124

67
nel suo soggiorno in Lunigiana, direttamente spedite da Firenze. Un'illazione che daterebbe la
prima cantica conclusa al 1308193, mentre secondo Auerbach la catastrofe dell'esilio del 1302 e
il conseguente distacco dai capi dei guelfi bianchi fiorentini si ripercuotono nelle profezie di
Brunetto Latini e Cacciaguida in tutta la sua sofferenza e nel terzo capitolo del primo trattato
del Convivio, Dante «indica la sua infelice condizione quale importante motivo che lo ha spin-
to alla stesura dell'opera in questa forma», ma soprattutto «vuole combattere la cattiva opinio-
ne che forse gli uomini traggono dalla sua misera situazione»194.
Secondo la ricostruzione di Petrocchi la composizione dell'Inferno risale agli anni 1304-08195.
Per giustificare la sua tesi ricorre alla lingua fiorentina presente in maggioranza nell'Inferno,
diversamente dalle altre cantiche più ricche di linguaggi dal colorito settentrionale. Ciò fareb-
be combaciare gli anni di peregrinazione in terra toscana con la stesura dell'Inferno e con l'esi-
lio tra le corti del nord il resto. Se il canto XIX si riferisse alla profezia di Clemente V, il canto
XXVI alla cacciata dei Neri e quello XXVIII al tradimento di Malatestino, sarebbero rispet-
tivamente del 1314, 1309 e 1312, sono quindi da considerarsi degli aggiornamenti posteriori
col poema non ancora pubblicato. Oltre al XIX, bisogna innanzitutto comprendere tra le righe
ciò che è detto in questi altri due canti. Nel famoso canto di Ulisse, in apertura Dante pone
un'accesa invettiva contro Firenze e qui menziona dei castighi che tutti bramano che possano
capitare alla città gigliata, anche da parte delle piccole città come Prato.

Ma se presso al mattin del ver si sogna,


tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch'altri, t'agogna.196

Alcuni interpretano questa frase come la maledizione del cardinale Niccolò da Prato, ma la
maggioranza concorda invece sulla cacciata dei Guelfi Neri da Prato avvenuta nel 1309197.
Però prima di passare al setaccio il caso di Malatestino, lo stesso canto dell'Inferno è aperto a
discussioni diverse, il XXVIII tra i fraudolenti della nona bolgia. Il Parodi esaminando il poe-
ma propone come una indicazione temporale della stesura, il 1307, anno della cattura di fra'

193 E. G. Parodi, Poesia e storia nella Divina Commedia, Vicenza, Neri Pozza, 1965, pp. 235-236
194 E. Auerbach, Studi su Dante, Varese, Feltrinelli, 1967, p. 68
195 Petrocchi, Itinerari danteschi, cit., 1994, pp, 63-87
196 If XXVI, vv. 7-9
197 «L'allusione è molto vaga ed è difficile dire a che cosa volesse alludere il poeta. C'è chi pensa alle maledi-
zioni scagliate sulla città dal cardinale Niccolò da Prato nel 1304 dopo il fallimento della sua missione da pa-
ciere. Altri alla cacciata dei Neri da Prato nell'aprile 1309; anzi il Parodi fece di questa ultima data un punto
di riferimento specifico per la datazione del canto». Dante, la Divina Commedia, Inferno, cit., 1998, p. 382,
nota al verso 9

68
Dolcino198 appresa dalle parole di Maometto.

"Or dì a fra Dolcin dunque che s’armi,


tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,
sì di vivanda, che stretta di neve
non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve".199

Appena Maometto riprende il cammino, Pier da Medicina si avvicina a Dante e comincia a


parlare. In questo estratto il seminatore di discordie in una profezia denuncia un delitto. Mala-
testino signore di Rimini dal 1312, deve aver tradito e ucciso in mare Guido del Cassero e
Angiolello da Carignano, fatto però non chiaro agli storici.

E fa sapere a’ due miglior da Fano,


a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,
gittati saran fuor di lor vasello
e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.
Tra l’isola di Cipri e di Maiolica
non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.
Quel traditor che vede pur con l’uno,
e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,
farà venirli a parlamento seco;
poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco".200

Nella nota al verso di Bosco e Reggio viene declassata d'importanza questa parentesi, affer-
mando che non è importante ai fini della cronologia, perché anche prima del 1312 Malatestino

198 «Nel 1304 Dolcino si trovava in Val Sesia; per sfuggire a un piccolo esercito che gli dava la caccia, si ritirò
via via in vari luoghi di quella valle e finalmente (1306) sulle montagne del Biellese. Sempre più incalzato
dagli avversari resistette durante l'inverno rigidissimo, ma nel marzo del 1307, stremato dalla fame, fu co-
stretto ad arrendersi. Processato assieme con Margherita, la sua donna, e altri della sua setta, fu condannato al
rogo e arso vivo alcuni mesi dopo.(…) è un sicuro terminus post quem di questo canto». Dante, la Divina
Commedia, Inferno, cit., 1998, pp. 417-418, nota al verso 55
199 If XXVIII, vv. 55-60
200 If XXVIII, vv. 76-90

69
affiancava il padre nel governare i territori201. Il Petrocchi invece propende per un post even-
tum, semplicemente sottolineando che nel canto precedente si menzionano padre e figlio delit-
tuosi assieme ('l mastin vecchio e'l nuovo), mentre successivamente in quest'ultimo Dante par-
la solo del figlio (che vede pur con l'uno, perché guercio) come signore dei territori. Quindi il
fatto non può che datarsi dopo il 1312202, urtando contro alla datazione offerta precedente-
mente da fra' Dolcino.
La tesi di una composizione tra il 1304 e il 1308 di Petrocchi sarebbe avvalorata però da un
altro fatto. Dante deve aver saputo della morte di Corso Donati, avvenuta il 6 ottobre 1308, ad
Inferno ultimato. La notizia così importante quindi non apparirà nell'Inferno, ma verrà messa
in bocca al fratello del nemico, Forese Donati, solo nel Purgatorio. Dante aveva già program-
mato la struttura della Divina Commedia fin dall'inizio e quindi sembra difficile pensare che
lasci al caso o all'improvvisazione la costruzione della stessa. Accrediterebbe la tesi del Pe-
trocchi il motivo per cui non compaia Arrigo VII nella prima cantica, infatti la speranza di
Dante nell'imperatore prese corpo dopo la sua incoronazione, avvenuta il 6 gennaio 1309, e
quindi la sua discesa in Italia. A ben vedere l'immagine dell'imperatore rimane parecchio sbia-
dita anche nel Purgatorio, sebbene il Petrocchi faccia coincidere la stesura della seconda can-
tica con la spedizione di Arrigo. Inoltre ragionando sui canti VI e VII del Purgatorio si ha una
netta differenza: nel primo Dante invita Arrigo a non comportarsi come i predecessori, nel
secondo è sconsolato e denuncia vano ogni tentativo di miglioria della situazione. Cosa può
essere intercorso tra i due canti se non il fallimento dell'impresa? Non si può passare dalla
speranza (1309) della discesa d'Arrigo alla delusione quindi alla sua morte (1313) in un canto,
si pensa quindi forse ad un ritocco posteriore. Poco oltre nel canto XX del Purgatorio la mor-
te di Carlo II d'Angiò detto lo Zoppo, che è avvenuta nel 1309, non è neppure menzionata così
come altri casi simili, questo porterebbe a ritenere che il canto XX sia anteriore a quella data.
Analizzando un passo molto discusso dal Parodi203 e precedentemente dal Rieger, si potrebbe
datare il canto VI del Purgatorio.

O Alberto tedesco ch'abbandoni


costei ch'è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,

201 Dante, la Divina Commedia, Inferno, cit., 1998, p. 420, nota al verso 86-87
202 Petrocchi, Itinerari danteschi, cit., 1994, p. 73
203 Parodi, Poesia e storia nella Divina Commedia, cit., 1965, pp. 240-243

70
tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!204

Il riferimento è volto ad Alberto d'Austria e alla sua stirpe, un'invocazione piena di dissenso,
un'apostrofe scagliata contro l'immobilismo dell'Impero. Si tratterebbe di una profezia della
morte di Alberto, assassinato nel 1308, e quella prematura del figlio Rodolfo nel 1307, l'enne-
simo esempio di profezia post eventum. Ma l'accusa di noncuranza verso l'Impero deve essere
precedente alla discesa di Enrico di Lussemburgo in Italia, quindi il canto è posteriore alla
morte di Alberto e anteriore all'ottobre 1310.
L'incontro con Forese Donati nel canto XXIII del Purgatorio annuncia una sciagura immi-
nente.

Ma se le svergognate fosser certe


di quel che 'l ciel veloce loro ammanna,
già per urlare avrian le bocche aperte;
ché, se l'antiveder qui non m'inganna,
prima fien triste che le guance impeli
colui che mo si consola con nanna.205

Secondo Petrocchi l'avvenimento non può essere l'assedio di Firenze da parte di Arrigo (1312)
perché i termini temporali non collimano, ma la battaglia di Montecatini del 29 agosto 1315,
una strage che fa piangere le donne rimaste prive di amici, mariti, fratelli e figli. La giusta
punizione per la colpevole città e le licenziose donne fiorentine. Si tratterebbe quindi di un
ritocco posteriore.
Dante a che bimbo si riferisce che avrà pubertà e primi peli di barba quindici anni dopo? 206
Ma sottolinea Parodi che, sempre in questo incontro, spicca il più tardo tra i dati del Purga-
torio, l'allusione alla morte di Corso. Costui era capo della fazione Nera e fautore di stragi
della parte Bianca nella Firenze del 1301, accusato poi di tradimento, fu assassinato presso il
convento di San Salvi nel 1308.
204 Pg VI, vv.97-102
205 Pg XXIII, vv. 106-111
206 «Tenendo conto che la visione, e quindi la profezia, è immaginata nel 1300 e l'età della pubertà è intorno ai
15 anni, si deve ritenere che pressappoco Dante pensasse l'avverarsi di questa profezia prima del 1315 o ver-
so quegli anni. (…) C'è chi riferisce l'accenno alla sconfitta di Montecatini nel 1315; ma (…) la data della
battaglia è troppo tarda. (…) C'è poi chi ha pensato alla discesa di Arrigo VII(1310-12), o alla strage (1303)
di Fulcieri da Calboli o l'anno seguente, al crollo del ponte della Carraia con la morte di molti cittadini. (…)
Delle varie proposte l'unica plausibile può essere quella della discesa di Arrigo VII. Infatti è interessante
notare quante somiglianze ci siano, specie nel tono, con l'Epistola agli scelleratissimi fiorentini. (…) Si può
quindi pensare ed azzardare l'ipotesi che, essendo questa parte del Purgatorio scritta in questo torno di tempo
(l'epistola è del 31 marzo 1311), la profezia del canto rispecchi lo stato d'animo che ha dettato l'epistola».
Dante, la Divina Commedia, Purgatorio, cit., 1998, pp. 403-404, nota al verso 110-111

71
"Or va", diss'el; "che quei che più n' ha colpa,
vegg'ïo a coda d'una bestia tratto
inver' la valle ove mai non si scolpa.
La bestia ad ogne passo va più ratto,
crescendo sempre, fin ch'ella il percuote,
e lascia il corpo vilmente disfatto.207

Dante lo descrive con il corpo vilmente disfatto, poiché si narrava all'epoca che il suo corpo
rimasto impigliato alla sella, fosse stato trascinato per un buon tratto dal cavallo 208. Se questo
canto è datato dalla morte del condottiero, ovvero il 1308, e l'allusione nel canto precedente è
della strage di Montecatini del 1315, si avvalorerebbe la tesi di una ripresa in mano dell'opera
prima della pubblicazione.
Alla fine della seconda cantica una profezia di Beatrice annuncia che l'Impero (aguglia) avrà
un nuovo condottiero che punirà la Chiesa ormai corrotta e lontana dai suoi antichi propositi.

Non sarà tutto tempo sanza reda


l'aguglia che lasciò le penne al carro,
per che divenne mostro e poscia preda;
ch'io veggio certamente, e però il narro,
a darne tempo già stelle propinque,
secure d'ogn'intoppo e d'ogne sbarro,
nel quale un cinquecento diece e cinque,
messo di Dio, anciderà la fuia
con quel gigante che con lei delinque.209

Il primo dubbio che sorge è a cosa si riferisca il cinquecento diece e cinque. Le due maggiori
ipotesi portano a leggere il numero in cifre romane, cento (D), dieci (X) e cinque (V), e rime-
scolandole in un anagramma darebbe DVX o DUX, condottiero. Più suggestiva è la lettura del
Davidsohn210 che porterebbe come addendi l'anno 800 della restauratio imperii di Carloma-
gno e il 515. Il risultato da 1315, anno in cui si sperava in una nuova discesa imperiale, dopo
la morte di Arrigo VII, per mano di Ludovico il Bavaro. Un messo che punisca la Chiesa me-
retrice o fuia e il gigante, forse Filippo IV il Bello. Questa aspettativa indurrebbe a datare il

207 Pg XXIV, vv. 82-87


208 Dante, la Divina Commedia, Purgatorio, cit., 1998, p. 415, nota al verso 83-84
209 Pg XXX, vv. 37-45
210 R. Davidsohn, Il Cinquecento diece e cinque del Purgatorio, in «Bullettino della Società Dantesca Italiana»,
vol. IX, fasc. 5-6, 1902, pp. 129-131

72
passo verso il 1314. Ma allora bisogna per forza sottolineare un altro estratto.

Veggio il novo Pilato sì crudele,


che ciò nol sazia, ma sanza decreto
portar nel Tempio le cupide vele.
O Segnor mio, quando sarò io lieto
a veder la vendetta che, nascosa,
fa dolce l'ira tua nel tuo secreto?211

Per bocca di Ugo Capeto, capostipite dei regnanti d'oltralpe, Dante invocherà la vendetta di-
vina verso i discendenti, ovvia quindi l'apostrofe contro Filippo il Bello qui descritto come il
novo Pilato. Esso è colpevole di aver soppresso l'Ordine dei Templari ed essersi imposses-
sato delle sue enormi ricchezze. Dante però non accenna alla sua morte, cosa che sarebbe
avvenuta, se il passo fosse scritto post eventum. Filippo IV infatti morì nell'ottobre del 1314,
perciò questi versi sono indubbiamente anteriori. Secondo Il Parodi quindi è difficile che cin-
quecento diece e cinque possa essere il Bavaro, ma deve riferirsi ancora ad Arrigo, così come
Dante scrisse nell'Epistola ai Fiorentini, portando a datare la fine del Purgatorio al 1313 e non
oltre. Il Parodi nota che in realtà nell'Inferno Dante non proclami quasi mai un imperatore
come epurazione della curia papale, anzi dopo Federico per Dante il posto di imperatore rima-
se vacante, non perché lo fosse realmente, ma perché nessuno aveva merito e virtù da fregiarsi
di tale onorificenza. Così come nell'Inferno l'interesse di Dante è quasi sempre circoscritto al-
la sua Firenze. Piuttosto il poeta ricorre al vaticinio dell'enigmatico Veltro che scaccerà la Lu-
pa, allegoria di cupidigia. Il Veltro, quasi dimenticato nella prima cantica, ritorna poi veemen-
te nella seconda, a più riprese sotto investitura imperiale. L'unica spiegazione è l'impresa di
Arrigo, solo essa può aver cambiato così tanto le sue aspettative e le sue speranze.
Rafforza in parte questa datazione, un altro piccolo ragionamento tratto dal canto XXXIII del
Purgatorio. La profezia di Beatrice dice che la punizione divina ricadrà sulla Chiesa, ma poco
prima ai versi 16-17, Parodi212 incentra l'attenzione su e non credo che fosse lo decimo suo passo
in terra posto. Potrebbe essere la profezia che dieci anni dopo il 1305, la sede papale torni da
Avignone a Roma. Se questa ipotesi fosse confermata, il canto non può esser datato dopo il
1315, altrimenti Dante non l'avrebbe scritta, vedendola non realizzata, perché ciò avverrà solo
nel 1377.
Riassumendo, Petrocchi conclude con la pubblicazione dell'Inferno nel 1314 e il Purgatorio

211 Pg XX, vv. 91-96


212 Parodi, Poesia e storia nella Divina Commedia, cit., 1965, pp. 245-246

73
l'anno dopo, confermando la composizione della prima cantica al 1304-08 e ammettendo ri-
tocchi qua e là come una sorta di aggiornamenti, ma mai andando ad intaccare radicalmente la
forma predefinita del poema.
Discosta di poco il Parodi che conclude dicendo «io, per esempio, credo che l'Inferno (…) sia
stato composto fra il 1307 (certo, non possiamo precisar troppo) e il 1309 o '10; il Purgatorio
fra il 1309-10 e i primi mesi del 1313, e che le due cantiche possano essere state pubblicate
insieme o quasi insieme non molto dopo»213. Una via di mezzo tra le due ipotesi è proposta
dal Ciociola, avviando la composizione dell'Inferno al 1306-1307214.

213 Parodi, Poesia e storia nella Divina Commedia, cit., 1965, p. 268
214 C. Ciociola, Dante, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, vol. X: La tradizione dei testi,
Roma, Salerno, 2001, p. 175

74
V
Conclusioni

Arrivati a questo punto si possono trarre delle conclusioni. Si è già ampiamente visto come
nella poesia di Dante ricorrano frequentemente delle scelte stilistiche vicine a quelle di Giotto,
entrambi sono accomunati dalla spinta verso il realismo, ovvero rendere l'arte un qualcosa di
comprensibile, quasi quotidiano al fruitore, nonché dall'ideale di salvezza da perseguire in un
difficile cammino di redenzione. Ad entrambi sta a cuore la sorte dell'uomo e nessuno dei due
si risparmia nel mostrare come l'eterno tormento dell'Inferno possa attendere chiunque. Giotto
e Dante sono a capo di una grande rivoluzione a cavallo del secolo: d'ora in poi la pittura subi-
rà un'accelerazione che culminerà nel Rinascimento, mentre il poeta getta le basi per una lin-
gua che unifichi le tante già presenti in tutta la Penisola.
Non è assolutamente detto che i due grandi maestri si conoscessero, non abbiamo prove con-
crete che lo certifichino. Entrambi sono i pionieri, i precursori di quella grande rivoluzione
che è l'Umanesimo, la riscoperta dell'uomo al centro del mondo e dell'antichità nascosta nei
secoli bui del Medioevo tanto nella pittura, quanto nella letteratura. Il periodo in cui sono vis-
suti era in febbricitante metamorfosi, «tutto è in movimento, gli uomini, i paesaggi, le strade e
le piazze, ma anche le colture della collina accanto o il regime delle acque della conca vicina.
Tutto cambia, le forme di insediamento, i modi di sposarsi, le istituzioni e con esse anche gli
usi e i rituali della politica»215, non si ha un secondo per rifiatare, tutto evolve, specialmente la
così variabile situazione politica, «non ci furono solo l'impero e il papato a combattersi, così
come più tardi non ci fu solo l'influenza francese a esercitarsi. Le violenze si susseguono e,
nella perenne agitazione di questa storia, l'infernale caos degli eventi svolge un ruolo deter-
minante. Comuni contro comuni, partiti contro partiti, Guelfi contro Ghibellini, Bianchi con-
tro Neri, famiglie contro famiglie, Firenze contro Siena, Venezia contro Genova»216. Il quadro
storico è tutt'altro che stabile, il terreno è fertile per nuove soluzioni, il mutamento è dietro
l'angolo ed è ovvio che in qualche modo questa agitazione finisca per condizionare due artisti
così sensibili verso ciò che li circonda.
Molti studiosi si sono susseguiti nel tentativo di spiegare la genesi di un'opera d'arte, ma cer-

215 E. Crouzet-Pavan, Inferni e paradisi, cit., 2007, p. 5


216 Ibid., p. 6

75
care di comprendere il perché e il come questa prenda vita è quantomeno rischioso, è facile
sopravvalutare le intenzioni artistiche di un pittore o di un poeta, sottolineando aspetti che ma-
gari l'artista stesso non era interessato a marcare. È bene ora avvalersi degli studi approfon-
diti di Panofsky, che fanno emergere un mondo insospettabile e offrono una chiave possibile
di lettura. Non è affatto impossibile che due persone, anche senza una reciproca conoscenza,
quindi una interazione, possano giungere ai medesimi risultati. Le poetiche di Dante e Giotto
sono state indagate e si è mostrato essere molto simili, ma non bisogna dimenticare che secon-
do Panofsky la cultura, la società, gli usi e i costumi entrano nell'opera d'arte ancora nello sta-
to embrionale e fuoriescono inconsciamente attraverso delle forme simboliche 217. Giotto e
l'Alighieri potrebbero essere giunti a simili soluzioni anche solo perché empatici, ovvero en-
trambi esprimono le stesse tematiche poiché mossi dalle mutazioni sociali in cui vissero, per-
ché sensibili al mutare stesso delle condizioni storiche.
Questa è una tra le possibili ipotesi, ma la coincidenza così pronunciata nelle loro soluzioni
suggerisce una diversa lettura.
La grande innovazione portata dal pittore non può essere minimamente circoscritta al solo In-
ferno, ma a ben vedere, tra le numerose novità iconografiche presenti nella Cappella degli
Scrovegni, le opzioni riservate all'Oscuro regno non hanno precedenti, stilisticamente lontane
dalla maniera bizantina, ma anche dalle rappresentazioni coeve. La fama e il successo del pit-
tore erano enormi, specialmente dopo la parentesi di Assisi e la consacrazione pittorica della
Cappella degli Scrovegni, ciò fa conseguire che chiunque avesse soggiornato a Padova in quel
periodo, sicuramente avrebbe fatto visita alla piccola chiesa ad ammirare uno dei maggiori
capolavori dell'arte di quell'epoca. Io stesso interessato e incuriosito ho voluto vedere la Cap-
pella degli Scrovegni, e trovandomi di fronte al Giudizio universale erroneamente avevo pen-
sato che Giotto si fosse basato sull'Inferno di Dante. Ma le date non potevano combaciare.
Abbiamo attestato che la data di fine cantieri nella cappella è il 25 marzo 1305. Entro tale
giorno tutti gli affreschi dovevano essere ultimati per la grande celebrazione in nome di Santa
Maria della Carità. I vari indizi tratti in rassegna nel capitolo precedente confermano che una

217 «Chi conduce vita contemplativa infatti non può fare a meno di influenzare la vita attiva, così come non può
impedire alla vita attiva di agire sul suo pensiero. Teorie filosofiche e psicologiche, dottrine storiche e specu-
lazioni e scoperte di ogni genere hanno mutato, e continuano a mutare, la vita di milioni di persone. Anche
chi semplicemente trasmette sapere o dottrina partecipa a suo modo, modestamente, al processo di foggiare la
realtà». E. Panofsky, Il Significato nelle arti visive, Torino, Einaudi, 1999, pp. 25-26. E poco oltre Panofsky
spiga che «il significato intrinseco o contenuto, lo si apprende individuando quei principi di fondo che rivela-
no l'atteggiamento fondamentale di una nazione di un periodo, una classe, una concezione religiosa o filoso-
fica, qualificato da una personalità e condensato in un'opera. (…) Considerando così le pure forme, i motivi,
le immagini, le storie e le allegorie come manifestazioni di principi di fondo, noi veniamo a dare a tutti questi
elementi il significato di quelli che Ernst Cassirer ha chiamato valori simbolici». pag. 35

76
prima circolazione dell'Inferno è da ascriversi attorno al 1314, e l'anno dopo il Purgatorio, an-
ni che probabilmente coincidono con la pubblicazione delle prime due cantiche. Ora, le affi-
nità che si registrano tra l'Inferno giottesco e quello dantesco suggeriscono che uno dei due
maestri abbia tratto ispirazione dall'altro. Ma se la pubblicazione dell'Inferno è così lontana
dalla realizzazione del ciclo pittorico, di circa dieci anni, le prove allontanano ogni dubbio.
Non si può escludere a priori che Dante abbia salutato l'amico Giotto e discusso con lui l'ico-
nografia della cappella, come suggerisce Benvenuto da Imola, sebbene al tempo stesso non lo
si possa appurare e la testimonianza sembrerebbe del tutto inventata. Allora per chiarire ulte-
riori dubbi si è cercato di datare la Divina Commedia, dato che una circolazione prima della
pubblicazione entro uno stretto gruppo di amici, di alcuni suoi canti, è molto probabile. Nel
mare magum di dati anche contrastanti tra loro, e tra tutte le idee divergenti, l'unica cosa inve-
rosimile è che Dante possa aver vissuto un ventennio di inattività poetica tra la Vita Nova
(1293-94) e la Commedia. Quindi una sorta di idea primordiale, un'opera ancora in gestazione
è probabile che ponga le radici ancora alla fine del Duecento, e subito dopo l'esilio del 1302
abbia avuto una rapida evoluzione. Le tesi confrontate tra i vari dantisti sembrano trovare un
comune accordo: l'Inferno può essere nato intorno al 1300, ma ha iniziato il suo sviluppo
almeno dal 1304-05. Giotto non può aver aspettato tanto per redarre un disegno compiuto che
abbracciasse tutta quanta la superficie muraria, né tanto meno la tecnica dell'affresco permette
tempi di attesa lunghi o continue modifiche. Chi dipinge ad affresco o è sicuro di quello che
sta compiendo oppure abbandona l'impresa. Se anche ammettessimo dunque che Dante avesse
discusso con Giotto sulle figure o sulla composizione delle storie o del Giudizio, all'altezza di
tale data, tra il 1303 e il 1305, Dante sicuramente non aveva né concluso né tanto meno pub-
blicato l'Inferno, ma forse aveva steso solo i primissimi canti. Lasciando a migliori critici e
storici il peso di affermare se tra i due esistesse veramente un'amicizia, quello che a me inte-
ressa e che è oggetto di questa ricerca, sono solo alcuni passi dell'Inferno che assomigliano
troppo a dei particolari dell'affresco della controfacciata. Infatti non credo minimamente né
tanto meno pretendo affermare che l'Inferno di Dante sia nato dal Giudizio universale di Giot-
to, entrambi hanno una storia a se' stante. Quello che ritengo è che alcuni particolari messi qui
in evidenza, nel terzo capitolo in un parallelismo, siano stati assorbiti dall'occhio sempre at-
tento di Dante, siano cresciuti e abbiano trovato il terreno fertile della poesia, sbucando auto-
nomamente nei volti e nei colori del fantastico suo viaggio nell'Oltretomba. Infatti, come si è
già investigato prima, è molto probabile che l'Alighieri abbia risieduto nella città di Padova,
se non per lunghi periodi almeno di passaggio, e se così fosse, una tappa obbligata era la Cap-

77
pella degli Scrovegni.
Se come ritiene la Romano218, Giotto ha avuto una grande maturazione, una svolta, nei fre-
quenti passaggi per Roma, adocchiando dal vero l'arte dell'antichità, sublime e irraggiungi-
bile, questo vuol dire che la poetica di un artista è soggetta a dei cambiamenti anche radicali
quando si rapporta ad un'altra realtà. Quindi è naturale che Dante, ammesso che abbia visitato
la cappella, dopo aver visionato l'opera di Giotto ne abbia tratto giovamento. Il poeta ha sem-
pre mostrato un grande interesse per il mondo che lo circondava e la sua sete di conoscenza e
la sua curiosità quasi morbosa lo portò a raffrontarsi con i grandi maestri sia della letteratura
sia dell'arte in generale. È vastissimo il suo bagaglio culturale, indubbiamente guida e maestro
suo furono Virgilio e l'Eneide, ma anche Boezio, Cicerone, Ovidio, Lucano, Stazio, Persio,
Seneca e tanti altri219. Ognuno di questi portava con sé in dono un apporto significativo all'e-
volversi della Divina Commedia, e questa non è solo poesia, bensì è un'opera dove vi conflui-
sce anche la storia antica e contemporanea, imperiale e comunale, di re e di gente comune,
storia e storielle o leggende, astronomia e medicina, filosofia ed arte; infatti proprio nel Pur-
gatorio, parlando della vana gloria, non solo accenna a Giotto e Cimabue, ma anche ad artisti
minori della miniatura, come Oderisi da Gubbio e Franco Bolognese. Dante è un attento scru-
tatore, sempre vigile non solo alla tradizione, ma anche alle innovazioni, in tutti i campi,
«Dante spazia lungo i secoli trascorsi, Giotto vive nel suo tempo cercando l'avvenire, (…)
Dante unì la scienza e la religione, la mitologia e la storia, la politica e l'arte» 220. «La Com-
media è un'azione libera e comprende in una sola voce le forze sensibili di secoli, le opere
dell'arte figurativa di questo tempo sono ancora lavori da artigiani che eseguono una commis-
sione nell'ambito di una iconografia data. (...) Proprio in quanto uomo relativamente illetterato
egli [Giotto] era più libero di fronte alla realtà sensibile e attuale, e creò qualcosa di equi-
valente al volgare illustre»221.
Ma aldilà dei diversi percorsi formativi a livello culturale, è indubbio che Dante avesse un
particolare occhio di riguardo per tutto ciò che significasse cultura. E cultura per lui, poeta,
non era confinata alla sola letteratura. È stato già dimostrato da Warburg, come immagini dal

218 «Ma Roma dovette rimanere mondo di riferimento e riserva inesauribile di ispirazione. Lì erano certamente
conservate e visibili attorno all'anno 1300, le tappe della messa a punto di questo linguaggio plastico, senza il
quale la sterzata degli Scrovegni resta meno comprensibile; molto più che nel senso della pittura antica, il
contatto con i prototipi è attestato possibile, la loro visibilità è certa, la disponibilità, in certi casi, addirittura
facile». Questo è confermato dal fatto che tra le scene della Cappella degli Scrovegni, ce ne sono alcune il cui
disegno non si giustifica con alcun precedente assisiate. Romano, La O di Giotto, cit., 2008, p. 201
219 Per approfondire cfr. M. Pastore Stocchi, Classica, cultura, in Enciclopedia dantesca, vol. II, Roma, Istituto
della enciclopedia, 1970, pp. 30-36
220 A. Venturi, Dante e Giotto, in «Nuova antologia di lettere, scienze ed arti», 85, fasc. 676, 1900, p. 668
221 E. Auerbach, Studi su Dante, cit., 1967, p. 85

78
rilevante carattere di drammaticità e passionalità presenti nell'antichità siano sopravvissute nel
corso della storia. Infatti l'Einfühlung o empatia, è «un contemperamento armonico fra lo stato
d'animo dell'artista e il mondo esterno, mediante le forme visive, mediatrici simboliche dun-
que fra la soggettività dell'artista e la realtà oggettiva»222. Questa attitudine frequente in sog-
getti empatici, come gli artisti, permette la sopravvivenza di soluzioni particolarmente dram-
matiche, perché queste vanno ad incidersi sulla memoria inconsapevolmente come tracce di
emozioni intense o engrammi223. L'artista involontariamente creando la sua opera farà conflui-
re in essa quelle tracce precedentemente acquisite, generando delle Pathosformeln o formule
di pathos, ovvero soluzioni che racchiudono delle testimonianze dell'antichità. Warburg così
dimostrò che anche senza volerlo un artista può ricorrere ad una soluzione o formula prece-
dentemente visionata.
Si è constatato che la Divina Commedia indubbiamente è seriore rispetto al ciclo giottesco,
quindi Dante non può aver interagito con la stesura degli affreschi, ma ribadisco che lontano
da ogni mia intenzione è dire che l'opera di Dante sia nata da Giotto. Entrambi hanno avuto
un'evoluzione a se' stante ed è piuttosto possibile ritenere che un animo raffinato e dotto, an-
che nei confronti dell'arte, come quello dell'Alighieri, non si sia fatto scappare nuove soluzio-
ni; anzi si può considerare che inconsciamente alcuni dettagli visti possano essere stati appresi
e sviluppati dal poeta, impressi nella sua mente e perennemente nei suoi versi, nella stessa
maniera in cui i raggi solari impressionano una pellicola fotografica. Giotto non è l'artefice
delle fortune della Commedia, poiché l'immenso componimento ha altre radici e ispirazioni,
ma ha contribuito in parte all'ideazione di alcune scene infernali, quindi, volente o nolente, il
capolavoro giottesco si è ripercosso nell'opera dantesca.
Quello che sempre avevo pensato, cioè che Giotto dovesse essersi ispirato alla Divina Com-
media, tutt'a un tratto parrebbe cadere come un castello di carte. Per quanto emerso, il pittore
non può aver letto Dante, mi sembrerebbe più opportuno dedurne che l'opera di Giotto fosse
stata letta da uno scrupoloso osservatore come Dante.

222 C. Cieri Via (2000) Nei dettagli nascosto. Per una storia del pensiero iconologico, Roma, Carocci, p. 28
223 «Gli engrammi dunque, nei quali veniva preservata l'energia mnemonica, si configuravano come simboli che
testimoniavano una sopravvivenza di esperienze emotive del passato». Ibid., p. 38

79
Immagini

fig. 1
Giotto, Giudizio universale, Padova,
Cappella degli Scrovegni

fig. 2
Mosaicisti bizantini, Giudizio
universale, Torcello, Basilica di
Santa Maria Assunta, (part.),
Inferno

80
fig. 3
Giudizio universale, Cappella degli
Scrovegni, (part.), Gerusalemme
celeste

fig. 4
Giudizio universale, Cappella
degli Scrovegni, (part.) La
croce

81
fig. 5
Guido da Siena, Giudizio universale,
Grosseto, Museo Archeologico e d'arte della
Maremma

fig. 6
Giudizio universale, Cappella
degli Scrovegni, (part.), Gli
eletti

82
fig. 7
Giudizio universale, Cappella degli
Scrovegni, (part.), Enrico offerente il
modellino della chiesa

fig. 8
Giudizio universale, Cappella
degli Scrovegni, (part.),
Inferno

83
fig. 9
Giudizio
universale,
Cappella degli
Scrovegni,
(part.), Satana

fig. 10
Coppo di
Marcovaldo,
Giudizio universale
Firenze, cupola del
Battistero di San
Giovanni, (part.),
Satana

84
fig. 11
Giudizio universale, cappella degli
Scrovegni, (part.), Giuda impiccato

fig. 12
Giudizio universale,
Cappella degli
Scrovegni, (part.),
Vescovo simoniaco

85
fig. 13
Giudizio universale,
Cappella degli Scrovegni,
(part.), pene corporali

fig. 14
Giudizio
universale,
Cappella degli
Scrovegni,
(part.), la
lussuria

86
fig. 15
Giudizio universale, Cappella
degli Scrovegni, (part.),
il mugnaio

fig. 16
Giudizio
universale,
Cappella degli
Scrovegni,
(part.), fiumi
infuocati I

87
fig. 17
Giudizio universale,
Cappella degli
Scrovegni, (part.), fiumi
infuocati II

fig. 18
Giudizio universale,
Cappella degli Scrovegni,
(part.), peccatori vari

88
fig. 19
Vizi e Virtù, Cappella degli Scrovegni,
allegoria di Invidia

fig. 20
Giotto, Bonifacio VIII indice il
Giubileo, dipinto murale staccato
dalla Loggia delle Benedizioni ed ora
murato nella navata destra della
basilica, Roma, San Giovanni in
Laterano

89
fig. 21
Attrib. a Giotto, Giudizio universale,
Firenze, Palazzo del Bargello, (part.
Evidenziato), Dante

90
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para mi mamá,
que siempre me permitió estudiar,
para mi novia,
Ross, mi verdadera fuente de vida,
y para Brino,
nadie te olvidará, jamás.

Per chiunque fosse interessato alla tesi o ad una parte di essa, è sufficiente contattarmi
all'indirizzo di posta elettronica mike_raffa7@yahoo.it

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