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"Le impressioni ricevute in un mio recente giro

in Irlanda, mi hanno fatto trovare le sue ipotesi


ancora più convincenti" (Rosa Calzecchi Onesti)

"La saga omerica (...) diventa alla luce


di questi elementi una plausibile epopea scandinava
(...) da leggersi come memoria
di un popolo che, trapiantandosi altrove, trapianta
con sé i propri miti" (Franco Cuomo)

"La quantità di riferimenti omerici che Vinci ha


raccolto intorno al Mar Baltico è ragguardevole
ed emozionante" (Giuseppe Sermonti, Il Tempo del 7/10/1993)

"C'è da rimanere sconcertati e affascinati di fronte


a libri come questo" (Gianfranco de Turris, L'Italia
Settimanale del 23/3/1994)

"In questa apparente follia un metodo c'è, e come"


(Dario Fertilio, Corriere della Sera del
3/1/1995)

"Nella ricostruzione di Vinci tutto torna, tutto è perfetto,


convincente, ubbidisce al rigore dei suoi
ragionamenti" (Furio Sampoli, Minerva di giugno
1996)

"Stupefacente volume per serietà d'impostazione


e per argomento" (Nazareno Taddei, EDAV di
aprile 1998)

"La geografia di Omero è chiara, chiarissima e


niente affatto confusa. Basta soltanto trasferirla
da Sud a Nord, dal Mediterraneo al Baltico, e ogni
tassello del mosaico ritrova il suo giusto posto"
(Alessandro Zaccuri, Avvenire del 3/5/1998)

"L'autore (...) propone una serie di ipotesi molto


ragionevoli e molto razionalmente esposte (...)
inanellando una serie impressionante di indizi (...)
Libro stupefacente e spesso molto godibile" (Claudio
Cerreti, Bollettino della Società Geografica
Italiana, n. 1-2/2000)

"Molto ben scritto, molto serio e molto stimolante.


Un'opera preziosa" (Vittorio Castellani.
Università di Pisa)

"Omero nel Baltico è affascinante e ne è proponibile


l'attendibilità" (Giorgio Galli, Ùniversità di Milano)
"Sintetizzare la miriade di spunti clamorosi
del volume è impossibile (...) E si esce con l'idea
che Felice Vinci sia uno di quegli outsider
che di colpo vedono quello che per millenni
nessuno aveva visto, pur essendo evidente. E
realizzano una rivoluzione copernicana, subendo
lo scetticismo e l'ostilità dei parrucconi"
(Antonio Socci, Il Giornale del 31/3/2001)

"In realtà nel libro (...) c'è quasi tutto. E quasi


tutto ha una spiegazione logica, lineare, incredibilmente
semplice" (Walter Mariotti, Class di aprile 2001)

"Come geografo ed esperto del Nord trovo che


la sua teoria (...) meriti di essere presa molto
seriamente (...) Essa allarga a dismisura gli
orizzonti possibili per l'avventura umana"
(Franco Michieli, Rivista della Montagna di
dicembre 2001)

"Felice Vinci has done what was considered


an almost impossibility. He has opened up a
new front in the battle Hnes of the Homeric
question (...) After reading Vinci's Homer in
the Baltic, one is irresistably tempted to say
"yes" to the origins of the Greek peoples in
Scandinavia" (Victor DeMattei, storico e studioso
delle culture balcaniche)

"Your essay presents a remarkably compelling


thesis which is very well researched and
documented (...) Your thesis is, to say the least,
both fascinating and revolutionary in terms of
accepted lore" (Thomas Wyman, Stanford
University)

"This book poses so many intelligent and


pertinent questions and offers so many brilliant
solutions to various problems contained in the
Homeric epic that it would truly be a pity if it
passed unnoticed" (Leszek Wysocki, McGill
University)

"I find it powerful, methodical, important, and


convincing" (Alfred de Grazia, Princeton)
In copertina:

graffiti dell 'età del bronzo sulle lastre


del sarcofago di Kivik (Svezia meridionale)
Felice Vinci

OMERO NEL BALTICO

Saggio sulla geografia omerica


Terza edizione aggiornata

L'uomo non può ottenere, e Dio non può concedere,


nulla di più prezioso della Verità.
Plutarco, De Iside et Osiride, cap. i

Palombi Editori

Scansione di Pier Giorgio Mela


Edizione aggiornata

© Felice Vinci
e
Palombi Editori
Via Germanico, 107
00192 ROMA

ISBN: 88-7621-251-5
PRESENTAZIONE
di Rosa Calzecchi Onesti

Le edizioni Palombi ristampano il volume dell'Ingegnere Felice


Vinci: Omero nel Baltico, un volume che a suo tempo ha
suscitato più dissensi che
consensi, e addirittura qualche scandalo. Come si permette
questo ingegnere
nucleare di entrare nel campo della critica storico-letteraria?
Faccia il suo mestiere
e lasci il nostro a noi, che diamine! Devo confessare che,
quando a suo
tempo, l'allora sconosciuto - oggi amico carissimo - Ingegnere
Vinci, avuto il
mio indirizzo da Padre Mario Reguzzoni s.j. di Aggiornamenti
Sociali, mi
mandò il suo libro e anche una videocassetta dal titolo
Odysseus Pohjolassa (meno male, tradotto in inglese), rimasi
abbastanza perplessa. Non che mancasse
l'argomentazione o che non avesse punti d'appoggio ragionati,
ma via,
era un po' difficile accettare un simile sconvolgimento del
consueto panorama
omerico. E poi, Schliemann? E le successive stratificazioni,
tra le quali quella
omerica non è certo la più antica?
In realtà né Schliemann, né tutte le successive ricerche, anche
a Micene,
a Tirinto e nel Pilo sabbioso, sono in questione, una volta
accettata l'idea che,
cambiata la situazione climatica nelle terre del Baltico, le
popolazioni che fuggirono
verso il sud in cerca di climi migliori, si portarono
naturalmente dietro,
come la loro lingua, le loro tradizioni e saghe e leggende e le
situarono nella
nuova terra, anche se la conformazione geografica era molto
diversa.
Per chi nutrisse ancora qualche resistenza, segnalo, tra gli
elementi citati
dal Vinci, una singolare notizia di Plutarco, secondo il quale
l'isola Ogigia
- dove la dea Calipso (la "nasconditrice") trattenne a lungo
Odisseo, e lo lasciò partire solo dopo esplicito ordine degli
Dèi, portato dal messaggero Ermete
Argheifonte -- sarebbe "a cinque giorni di navigazione dalla
Britannia". E non è davvero che al tempo di Plutarco non si
sapesse dove è situata la Britannia.
Questa è una cosa che dà da pensare.
E l'amico Vinci ha così motivo di non demordere: anche dopo la
pubblicazione
del libro, infatti, ha continuato a cercare e ha trovato altre
ragioni su
cui appoggiare le sue tesi, tanto che questa ristampa del suo
libro esce arricchita
di nuove "prove", di cui mi ha parlato. E devo dire che le
impressioni ricevute
in un mio recente giro in Irlanda, mi hanno fatto trovare le
sue ipotesi ancora
più convincenti. Perché che si tratti di ipotesi, per quanto
ben fondate, Vinci
non lo nasconde: bisogna scavare e verificare, come del resto
fecero e Schliemann
e altri, per esempio quelli che scoprirono e lessero le
tavolette di alfabeto
lineare B, che hanno fatto cambiare anche loro tante idee.
In campo scientifico, tecnico e tecnologico noi stiamo
assistendo a cambiamenti
che sconvolgono le nostre idee, non solo, ma stanno cambiando
la
nostra vita: e anche nel campo della critica storico-
letteraria, in particolare della
ricostruzione della primissima storia cristiana, i ritrovamenti
di papiri - per
esempio quelli ritrovati nelle grotte di Qumran, che non hanno
ancora finito di
riservarci sorprese - stanno facendoci cambiare molte idee
ricevute sulla datazione
dei primi scritti cristiani, addirittura del Vangelo di Marco.
Non sarà meglio, allora, pur conservando un sano, provveduto e
vigile senso critico, accettare
di vivere la novità del nostro tempo?
PREFAZIONE
di Franco Cuomo

"Rimane un prodigio inspiegabile come tutte le forze e le


tendenze della
grecità si presentino già chiaramente preformate in Omero". A
questa riflessione
formulata da Werner Jaeger nella sua Paideia del 1935,
affascinante tentativo
di filtrare la storia della letteratura greca attraverso il
caleidoscopio dei suoi
miti, si potrebbe rispondere azzardando che quella descritta da
Omero non fosse
ancora la "grecità", forse, ma qualcosa di predisposto a
diventarlo. Cioè un insieme
di caratteri antecedenti alla cultura greca, provenienti da
un'altra civiltà,
in via di ricomposizione nel bacino del Mediterraneo dopo
essere stata sradicata
dal suo contesto originario a seguito di una migrazione di
portata epocale.
Lungi dunque dall'essere inspiegabile, ciò che Jaeger definisce
"prodigio"
potrebbe interpretarsi come testimonianza di un mondo
preesistente alla realtà storica di cui diverrà in seguito
espressione. Se una simile ipotesi è accettabile
o quanto meno meritevole di essere posta in discussione - e gli
elementi
proposti in questo libro da Felice Vinci inducono a ritenere
che lo sia- non è del tutto temerario ritenere che la civiltà
ellenica possa essere sorta in seguito
al convergere di popolazioni provenienti da altri lidi sulle
rive nordorientali del
Mediterraneo. Con il loro patrimonio di miti e leggende, ma
anche di tecnologie,
memorie ancestrali, esperienza vissuta.
Vinci lavora da tempo alla verifica di una teoria fondata su
tali presupposti,
conducendo nel Baltico ricerche che hanno portato alla scoperta
di significativi
riscontri - nella geografia e nella toponomastica dei luoghi,
nel costume
e nelle tradizioni popolari, nella nomenclatura degli eroi e
delle divinità,
nei reperti archeologici e nelle caratteristiche climatiche -
circa l'eventualità che la tradizione omerica possa avere
radici nell'estremo nord dell'Europa.
Mettendo insieme i tasselli del suo sorprendente mosaico,
infatti, Vinci è giunto a conclusioni - condivisibili o meno,
ma degne comunque di attenzione
per i nuovi orizzonti che spalancano alla conoscenza di una
civiltà senza
eguali nel mondo antico - dalle quali dedurre che la guerra di
Troia possa essere
stata combattuta in un remoto passato sulle rive del Baltico.
Sulle onde scure di quel mare increspato di gelide spume, non
sulle tiepide
correnti dell'Ellesponto, avrebbe navigato Ulisse, al comando
di navi dallo
scafo sottile, del tutto simili per le loro peculiarità
tecniche a quelle dei vichinghi.
E i capelli biondi dei civilissimi abitanti di Micene, così
poco mediterranei
d'aspetto, parrebbero avallare l'eventualità che tra i ghiacci
dei fiordi,
non tra le pietre riarse dell'Egeo, abbiano brillato i raggi
della loro alba primordiale.
La
saga omerica, con la grecità "preformata" di cui parla Jaeger,
diventa
alla luce di questi elementi una plausibile epopea scandinava,
imparentata con i canti dell'Edda, da leggersi come memoria di
un popolo che, trapiantandosi
altrove, trapianta con sé i propri miti.
Le si dovrebbe riconoscere quindi una valenza storica prima che
letteraria,
senza nulla togliere con questo al genio poetico dell'autore.
Sembra dare ragione allo stupore dello studioso tedesco, per
quanto concerne
questo aspetto, una considerazione dell'ellenista francese
Paul-Louis
Courier, ad avviso del quale i poemi omerici andrebbero
decifrati in termini storici
nonostante la loro apparenza fantastica: "Omero fu uno storico,
ai tempi in
cui le storie non si solevano né sapevano ancora narrare in
prosa". I suoi versi
corrisponderebbero dunque alla necessità di tramandare una
cronaca di fatti
che all'epoca non potevano essere espressi in altro modo.
Ma se questo è vero, se quanto afferma Courier ha un
fondamento, di
quale storia fu lo storico questo straordinario poeta? Non
certo greca, visto che
all'epoca non esisteva la Grecia in quanto società compiuta ed
unitaria.
Su questo non dovrebbero sussistere dubbi. Non v'è lettura
filosofica della
storia che, ripercorrendo a ritroso il cammino della civiltà
del mondo antico,
possa disconoscere a Omero un ruolo di anticipazione della
società ellenica:
"Come la guerra di Troia è l'inizio della realtà della vita
greca", scrive Hegel
nella sua Lezione sulla filosofia della storia, "così l'opera
di Omero è fondamentale
per l'inizio della sua rappresentazione spirituale". È cioè "il
latte materno
con cui il popolo greco si è nutrito e allevato".
Coincide con il parere di Hegel sulla priorità intellettuale di
Omero rispetto
a ogni altro protagonista della società ellenica - priorità in
ordine di
tempo oltre che di valore - quello di Gian Battista Vico,
filosofo dei ricorsi storici,
che nella sua Scienza nuova lo indica come portatore di una
cultura "venuta
innanzi alle filosofie e alle arti poetiche e critiche".
Omero è dunque il depositario di un patrimonio culturale
complesso, cui
fa da collante il genio poetico, dato che si tratta del "più
sublime di tutti i sublimi
poeti", al fine però di tramandare nozioni pertinenti ad ogni
campo del
sapere antico. I greci ne sono i fruitori, non in quanto
contemporanei ma posteri
del poeta. E se questo è chiaro, del tutto nebulosa appare
invece l'identità dei suoi avi.
E evidente in ogni caso - se la saga omerica coincide con i
vagiti di un popolo
non ancora svezzato - che le imprese cui si riferisce debbano
essere accadute
prima e altrove, in seno a una diversa civiltà.
Di quale civiltà possa trattarsi e attraverso quale diaspora
possano poi essere
deflagrati in "grecità" i suoi caratteri originari è quanto
Vinci cerca di
spiegare, con dovizia di particolari e argomentazioni di
spessore scientifico, in
questo libro.
I motivi che lo ispirano sono molteplici e variegati, e
tutt'altro che in contrasto
con gli orientamenti che traspaiono dal generale giudizio della
letteratura,
della filosofia e della storia sull'enigma - perché tale rimane
tuttora - della
guerra di Troia e del suo cantore. Ed è importante sottolineare
che, nonostante
il distacco del mondo accademico attuale, pregiudizialmente
ostile a qualsiasi
tentativo di spingere la ricerca oltre i lidi sicuri
dell'ufficialità, Vinci non
è affatto solo nei suoi studi, ma confortato da una convergenza
di elementi desumibili
da opinioni e ragionamenti espressi nelle più disparate
circostanze, e
in riferimento alle più diverse materie, da intellettuali e
critici della più varia
estrazione.
Mi è parso utile pertanto, nel presentare questo "saggio sulla
geografia
omerica" in una edizione aggiornata e arricchita di nuovi
contributi, quali gli
studi di Nilsson sulla civiltà micenea e di Tilak su quella
vedica, sottolineare
sia pure attraverso frammentarie citazioni - tutte però
collegate a un comune
interrogativo - in che modo la questione sia emersa finora tra
le righe del pensiero
occidentale moderno. Attraverso affermazioni che, seppure
provenienti da
fonti lontanissime tra loro, conducono a una medesima certezza
sull'attribuzione
ad Omero del merito di avere dato ai greci "quella antichissima
storia nazionale
collettiva che essi in realtà non hanno punto avuta, perché le
loro imprese
nazionali collettive non s'iniziano che con le guerre
persiane". Così si
espresse con ammirevole semplicità Gaetano De Santis,
cattedratico negli anni
'30 dell'università di Roma, dalla quale fu allontanato per il
suo antifascismo,
che era anche e soprattutto anticonformismo culturale,
evidenziando come
in realtà i poemi omerici abbiano rappresentato per il popolo
greco, eterogeneo
e scarsamente unito, il dono di un sentimento del tutto nuovo e
imprevedibile,
se non addirittura estraneo, come lo spirito di unità e
indipendenza.
Ma da parte di quali donatori antecedentemente vissuti?
Lasciamo a Felice
Vinci la risposta.
INTRODUZIONE

Sin dai tempi antichi la geografìa omerica ha dato adito a


problemi e perplessità:
la coincidenza tra le città, le regioni, le isole descritte,
spesso con dovizia
di dettagli, nell'Iliade e nell'Odissea ed i luoghi reali del
mondo mediterraneo,
con cui una tradizione millenaria le ha sempre identificate, è
spesso parziale, approssimativa
e problematica, quando non dà luogo ad evidenti contraddizioni.
Ne
troviamo vari esempi in Strabone (storico e geografo greco, 63
a.C. - 23 d.C), il
quale tra l'altro si domanda perché mai l'isola di Faro,
situata proprio davanti al
porto di Alessandria, da Omero venga invece inspiegabilmente
collocata ad una
giornata di navigazione dall'Egitto. Così l'ubicazione di
Itaca, data dall'Odissea in termini molto puntuali - secondo
Omero è la più occidentale di un arcipelago
che comprende tre isole maggiori: Dulichio, Same e Zacinto -
non trova alcuna
corrispondenza nella realtà geografica dell'omonima isola nello
Ionio, la quale è ubicata a nord di Zacinto, a est di Cefalonia
e a sud di Leucade, e, anche dal punto
di vista topografico, non ha nessuna relazione con l'Itaca
omerica. E che dire
del Peloponneso, descritto come una pianura in entrambi i
poemi?
D'altronde la geografìa omerica, se è stata un problema per gli
antichi, lo è anche per gli studiosi moderni: infatti, allorché
la decifrazione della scrittura
micenea, la cosiddetta "lineare B", graffita sulle tavolette
provenienti da
Cnosso, Pilo e a Micene, ha permesso di confrontare il mondo di
cui esse sono
l'espressione con la realtà descritta nei due poemi, i
risultati sono stati sconcertanti.
Ad esempio, il prof. Moses Finley, grande studioso del mondo
omerico,
sottolinea "la completa mancanza di contatto tra la geografìa
micenea come
ora la conosciamo dalle tavolette e dall'archeologia, da una
parte, ed i racconti
omerici dall'altra"1. A sua volta il prof. Montanari,
nell'introdurre la questione
omerica, rileva che "a proposito delle coincidenze fra la
geografìa omerica
e quella micenea sono state fatte molte marce indietro fino a
sottolineare
piuttosto le divergenze"2.

1 Finley, Il mondo di Odisseo, pag. 147


2 Montanari, Introduzione a Omero, pagg. 71-72

Insomma la geografia omerica fa riferimento ad un contesto del


quale conosciamo
bene la toponomastica, ma che, nel contempo, se confrontato con
la
realtà fisica del mondo greco, presenta incomprensibili
anomalie, rese ancor più evidenti dalla loro stessa coerenza
interna: ad esempio, quello "strano" Peloponneso
appare pianeggiante non saltuariamente, ma sistematicamente, e
Dulichio,
l'isola "Lunga" ("dolichòs" in greco) situata da Omero nei
pressi di Itaca
ma inesistente nel Mediterraneo, viene menzionata più volte,
anche nell'Iliade.
Si configura in tal modo un universo sostanzialmente chiuso e
inaccessibile,
al di là di qualche parziale congruenza e nonostante la
familiarità dei nomi,
la quale rischia di diventare un elemento più fuorviante che
utile alla soluzione
del problema.
A questo punto, una possibile chiave per cercare di penetrare
in questa singolare
realtà geografica ce la dà Plutarco, il quale in una sua opera,
il Defacie
quae in orbe lunae apparet, fa un'affermazione sorprendente:
l'isola Ogigia,
dove la dea Calipso trattenne a lungo Ulisse prima di
consentirgli il ritorno ad
Itaca, è situata nell'Atlantico del nord, "a cinque giorni di
navigazione dalla
Britannia".
Partendo da tale indicazione e seguendo la rotta verso est,
indicata nel V
libro dell' Odissea, percorsa da Ulisse dopo la sua partenza
dall'isola - che a
prima vista sembra identificabile con una delle Fàròer, tra le
quali si riscontra
un nome curiosamente "grecheggiante": Mykines - troviamo una
serie di riscontri
a favore della localizzazione della terra dei Feaci, la
Scheria, lungo la
costa meridionale della Norvegia, in un'area in cui abbondano i
reperti dell'età del bronzo. Notiamo che nell'antica lingua
nordica "skerja" significava "scoglio",
in accordo con la narrazione del poema, e che l'approdo di
Ulisse viene
favorito dall'inversione della corrente del fiume. Quest'ultimo
è un fenomeno
incomprensibile nel Mediterraneo, ma del tutto normale in un
estuario atlantico
durante l'alta marea: esso conferma l'affermazione di Plutarco
ed attesta la
dimensione nordica del mondo omerico.
Dalla Scheria poi i Feaci accompagnarono Ulisse ad Itaca,
situata all'estremità
di un gruppo di isole su cui Omero fornisce molti particolari:
ora, nel
Baltico meridionale vi è un arcipelago danese che vi
corrisponde in ogni dettaglio.
Esso è costituito da tre isole principali: Langeland (l'"Isola
Lunga", corrispondente
alla misteriosa Dulichio), Azm (la Same omerica, anch'essa
collocata
esattamente secondo le indicazioni dell' Odissea) e Tàsinge
(l'antica Zacinto).
L'ultima isola dell'arcipelago verso occidente, "là, verso la
notte", ora chiamata
Lyo, è l'Itaca di Ulisse: a differenza dell'Itaca greca, essa
coincide con le indicazioni
del poeta sia per la posizione, sia per le caratteristiche
topografiche e
morfologiche. E nel gruppo si ritrova persino l'isoletta,
"nello stretto fra Itaca e
Same", dove i pretendenti si appostarono per tendere l'agguato
a Telemaco.
Inoltre, ad oriente di Itaca e davanti a Dulichio giaceva una
delle regioni
del Peloponneso, che a questo punto si potrebbe identificare
con la grande isola
danese di Sjaelland: ecco l"Isola di Pelope" nel significato
letterale del termine.
Il Peloponneso greco invece - la cui posizione nel mar Egeo
corrisponde
a quella di Sjaelland nel Baltico - nonostante la sua
denominazione non è un'isola: questa contraddizione,
inspiegabile se non si ammette una trasposizione
di nomi, è molto significativa. Ma c'è di più: sia i
particolari, riportati dall'Odissea,
del rapido viaggio in cocchio di Telemaco da Pilo a Sparta
lungo una "pianura ferace di grano", sia gli sviluppi della
guerricciola tra Pili ed Epei
raccontata da Nestore nell'XI libro dell'Iliade, da sempre
considerati incongruenti
con la tormentata orografia della Grecia, si inseriscono alla
perfezione
nella realtà della pianeggiante isola danese.
Notiamo che tutto ciò, per quanto possa a prima vista apparire
sorprendente,
trova un preciso riscontro nelle conclusioni che eminenti
studiosi contemporanei,
quali Stuart Piggott, professore di archeologia preistorica
all'Università
di Edimburgo, hanno tratto riguardo ai poemi omerici: "La
nobiltà degli
esametri non dovrebbe trarci in inganno inducendoci a pensare
che l'Iliade
e l'Odissea siano qualcosa di diverso dai poemi di un'Europa in
gran parte
barbarica dell'Età del Bronzo o della prima Età del Ferro: non
c'è sangue minoico
o asiatico nelle vene delle muse greche (...) esse si collocano
lontano dal
mondo cretese-miceneo e a contatto con gli elementi europei di
cultura e di lingua
greche (...) Alle spalle della Grecia micenea si stende
l'Europa"3.

3 Piggott, Europa Antica, pag. 131

Quanto allo stesso Ulisse, di cui Omero ricorda "i biondi


capelli" - d'altronde
anche Pindaro nella IXode Nemea menziona i "biondi Danai" - vi
sono
singolari convergenze tra la sua figura e quella di Ul,
guerriero e arciere della
mitologia nordica. D'altronde, una precisa memoria dell"'Ulisse
nordico" la
ritroviamo anche nella Germania dello storico romano Tacito. E
lungo le coste
e le isole del mar di Norvegia, attraversato dalla Corrente del
Golfo - identificabile
con il mitico "fiume Oceano" --troviamo molti suggestivi
riscontri alle
sue celebri avventure, le quali traggono probabilmente origine
da racconti di
marinai e da elementi del folklore locale, trasfigurati dalla
fantasia del poeta e
resi poi irriconoscibili dalla trasposizione in un contesto
totalmente diverso. In
tal modo le descrizioni di fenomeni che sembrano fantasiosi o
incomprensibili,
quali il canto delle Sirene, il gorgo di Cariddi o le danze
dell'Aurora nell'isola
di Circe, una volta ricondotte alla loro originaria dimensione
atlantico
settentrionale trovano immediatamente una spiegazione. Esse in
definitiva si
rivelano l'estremo ricordo di antiche rotte oceaniche dei
navigatori dell'età del
bronzo: i riferimenti geografici forniti da Omero ci consentono
di ricostruirle
puntualmente. Addio Grecia, addio mare Mediterraneo!
A questo punto cerchiamo la regione di Troia. L'Iliade la situa
lungo l'Ellesponto,
sistematicamente descritto come un mare "largo" o addirittura
"sconfinato";
è pertanto da escludere che possa trattarsi dello Stretto dei
Dardanelli,
dove si trova la città trovata da Schliemann. L'identificazione
di quest'ultima
con la Troia omerica ha sempre suscitato delle perplessità:
pensiamo alla
critica che ne ha fatto il Finley nel suo Il mondo di Odisseo.
Inoltre, in epoca
preistorica la pianura antistante era ricoperta da un vasto
braccio di mare, inconciliabile
con le descrizioni omeriche. Il sito di Hissarlik in realtà
coincide
con quello della Troia greco-romana, riguardo a cui Strabone ha
categoricamente
escluso, con argomenti confermati da indagini recenti, che
fosse identificabile
con la città cantata da Omero: "L'antica Ilio non si trova qui"
(Geografìa 13. 1.27).
Se invece rivolgiamo l'attenzione al mondo nordico, notiamo
anzitutto
che lo storico medioevale danese Saxo Grammaticus nelle sue
Gesta Danorum menziona in più occasioni un singolare popolo di
"Ellespontini", nemici dei
Danesi, e un "Ellesponto" curiosamente situato nell'area del
Baltico orientale:
che si tratti del "largo Ellesponto" omerico? Esso potrebbe
identificarsi con
il Golfo di Finlandia, il corrispondente geografico dei
Dardanelli; poiché d'altra
parte Troia, come indica un passo dell'Iliade, era ubicata a
nord-est del mare
(altro punto a sfavore del sito di Schliemann), per la nostra
ricerca è ragionevole
orientarci verso un'area della Finlandia meridionale, là dove
il Golfo di
Finlandia sbocca nel Baltico. E proprio qui, in una zona
circoscritta ad occidente
di Helsinki, s'incontrano numerosissime località i cui nomi
ricordano in
modo impressionante quelli dell'Iliade, e in particolare gli
alleati dei Troiani:
Askainen (Ascanio), Reso (Reso), Karjaa (Carii), Nasti (Naste,
capo dei Carii),
Lyòkki (Liei), Tenala (Tenedo), Kiila (Cilla), Kiikoinen
(Ciconi) e tanti altri.
Vi è anche una Padva, che richiama la nostra Padova, la quale,
secondo la tradizione,
sarebbe stata fondata dal troiano Antenore; inoltre i toponimi
Tanttala
e Sipilà- sul monte Sipilo fu sepolto il mitico re Tantalo,
signore di una regione
confinante con la Troade - indicano che il discorso non è
circoscritto alla
sola geografia omerica, ma sembra estendersi all'intero mondo
della mitologìa
greca.
E Troia? Proprio al centro della zona così individuata, in una
località, a
mezza strada fra Helsinki e Turku, le cui caratteristiche
corrispondono esattamente
a quelle tramandate da Omero - l'area collinosa che domina la
vallata
con i due fiumi, la pianura che scende verso la costa, le
alture alle spalle - scopriamo
che la città di Priamo è sopravvissuta al saccheggio e
all'incendio da
parte degli Achei e ha conservato il proprio nome quasi
invariato sino ai nostri
giorni: Toija, così si chiama attualmente, è ora un pacifico
villaggio finlandese,
rimasto per millenni ignaro del proprio glorioso e tragico
passato.
Varie visite in loco, a partire dall'11 luglio 1992, hanno
confermato le
straordinarie corrispondenze delle descrizioni dell'Iliade con
il territorio attorno
a Toija, dove per di più si riscontrano eloquenti tracce
dell'età del bronzo;
addirittura, in direzione del mare, il nome della località di
Aijala ricorda la
"spiaggia" ("aigialòs") dove, secondo Omero, gli Achei avevano
tratto in secca
le loro navi. Inoltre, a pochi chilometri da Toija, il nome
dell'Halikonjoki il
"fiume Haliko" - è identico all'antico nome greco del fiume
Platani, "Halikos",
nella Sicilia
sud-occidentale, che sbocca in mare in una zona particolarmente
ricca di testimonianze archeologiche e di ricordi mitologici
dell'antica
Grecia.
Tali corrispondenze si estendono anche alle aree adiacenti:
sulla costa
svedese antistante, 70 chilometri a nord di Stoccolma, si
affaccia la baia di
Norrtàlje, lunga e relativamente stretta, le cui
caratteristiche rimandano alla
Aulide omerica, da dove mosse la flotta achea diretta a Troia;
attualmente dalla
sua estremità partono i traghetti per la Finlandia, ricalcando
la stessa rotta:
essi transitano davanti all'isola Lemland, il cui nome ricorda
l'antica Lemno,
dove gli Achei fecero tappa e abbandonarono l'eroe Filottete; a
sua volta, la vicina
Aland, la maggiore dell'omonimo arcipelago, probabilmente
coincide con
Samotracia, mitica sede dei misteri della metallurgia.
L'attiguo Golfo di Botnia
a questo punto è facilmente identificabile con l'omerico Mar
Tracio; e, riguardo
alla Tracia, che il poeta colloca al di là del mare rispetto a
Troia, in direzione
nord-ovest, essa presumibilmente giaceva lungo la costa della
Svezia
centro-settentrionale e nel suo entroterra. Ciò trova un
riscontro nel fatto che
una saga nordica identifica la Tracia con la sede del dio Thor
(d'altronde, nella
letteratura nordica si trovano anche accenni a contatti, finora
ritenuti inspiegabili,
fra Odino e la stessa Troia). E più a sud, oltre il Golfo di
Finlandia,
la posizione dell'isola Hiiumaa, situata dirimpetto alla costa
dell'Estonia, corrisponde
esattamente a quella dell'omerica Chio, che l'Odissea pone
sulla rotta
del rientro in patria della flotta achea dopo la guerra.
Insomma, oltre alle caratteristiche morfologiche del
territorio, anche la
collocazione geografica di questa Troade finnica calza a
pennello con le indicazioni
della mitologia; e così finalmente si spiega perché sui
combattenti nella
pianura di Troia cali spesso una "fitta nebbia" ed il mare di
Ulisse non sia
mai quello splendente delle isole greche, ma appaia sempre
"livido" e "brumoso":
nel mondo cantato da Omero si avvertono le asprezze tipiche dei
climi
nordici. Dovunque vi si riscontra una meteorologia tutt'altro
che mediterranea,
con nebbia, vento, freddo, pioggia, neve - quest'ultima anche
in pianura
e perfino sul mare - mentre il sole, e soprattutto il caldo,
sono pressoché assenti:
in quello che, secondo la tradizione, dovrebbe essere un
torrido bassopiano
dell'Anatolia, il tempo è quasi sempre perturbato, al punto che
i combattenti,
ricoperti di bronzo, arrivano addirittura a invocare il sereno
durante le
battaglie. D'altronde, a tale contesto è perfettamente adeguato
l'abbigliamento
dei personaggi omerici, tunica e "folto mantello", che non
lasciano mai,
neppure durante i banchetti: esso trova un preciso riscontro
nei resti di abiti ritrovati
nelle antiche tombe danesi.
Inoltre, questa collocazione così settentrionale spiega la
macroscopica
anomalia della grande battaglia che occupa i libri centrali
dell'Iliade, con due
mezzogiorni e una notte interposta, durante la quale i
combattimenti non s'interrompono
per il buio, il che nel mondo mediterraneo appare
incomprensibile:
invece è il chiarore notturno, tipico delle alte latitudini nei
giorni attorno al
solstizio estivo, che permette alle truppe fresche guidate da
Patroclo di continuare
a combattere fino al giorno successivo, senza un attimo di
tregua. Questa
chiave di lettura consente finalmente di ricostruire tutto lo
svolgimento della
battaglia in modo perfettamente logico e coerente, senza le
perplessità e le
forzature delle attuali interpretazioni; inoltre, da un passo
dell'Iliade si riesce
persino a evincere il nome greco, "amphifyke nyx", del fenomeno
della "notte
chiara", peculiare delle regioni situate a ridosso del Circolo
polare (da non
confondere con l'aurora boreale, che ha tutt'altra origine, ed
a cui un passo dell'Iliade sembra pure fare un accenno): è un
vero e proprio "fossile linguistico"
che l'epos omerico ha fatto sopravvivere allo spostamento degli
Achei
nel sud dell'Europa.
Notiamo ancora che, in base alle descrizioni di Omero, le mura
di Troia
appaiono alla stregua di una rustica palizzata di tronchi e
pietre; insomma, più che alle poderose fortificazioni micenee,
esse sembrano corrispondere agli arcaici
recinti in legno degli insediamenti nordici (tali furono ad
esempio le mura
del Cremlino fino al XV secolo).
Prendiamo adesso in esame il cosiddetto Catalogo delle navi del
II libro dell'Iliade, che riporta l'elenco delle 29 flotte
achee partecipanti alla guerra di
Troia con i loro comandanti e le località di provenienza: si
può verificare che
esso si snoda seguendo punto per punto la geografia delle coste
baltiche in
senso antiorario, a partire dalla Svezia centrale fino alla
Finlandia; in tal modo,
utilizzando anche le altre notizie fornite dai due poemi, è
possibile ricostruire
integralmente il mondo degli Achei attorno al mar Baltico,
dove, come
ci attesta l'archeologia, nel secondo millennio a.C. fioriva
una splendida età del
bronzo, favorita da un clima molto più mite di quello attuale.
Nel nuovo contesto geografico l'intero universo di Omero e
della mitologia
greca finalmente ci si rivela in tutta la sua stupefacente
coerenza (Tav. I):
ad esempio, seguendo la scansione del Catalogo localizziamo
subito la Beozia,
corrispondente a quella parte del territorio della Svezia in
cui si trova Stoccolma:
è possibile in tal modo individuare la Tebe di Edipo ed il
mitico monte
Nisa (mai identificato nel mondo greco), dove il piccolo
Dioniso venne allevato
dalle Iadi; l'Eubea omerica coincideva con l'attuale isola di
Òland, parallela
alla costa svedese, in posizione analoga alla sua
corrispondente mediterranea;
l'Atene della mitologia, patria di Teseo, giaceva nel
territorio dell'attuale
Karlskrona, nella Svezia meridionale (ecco perché Platone nel
dialogo Crìzia la colloca in una pianura ondulata ricca di
fiumi, totalmente estranea
all'aspra morfologia della Grecia); nella pianeggiante isola
Sjselland, il "Peloponneso"
omerico, si ritrovano i regni degli Atridi e l'Arcadia, nonché
il fiume
Alfeo e la Pilo del re Nestore, la cui ubicazione nel
Peloponneso veniva
considerata un rompicapo già
dagli antichi Greci: anche in questo caso, la localizzazione
nordica risolve immediatamente problemi millenari (compreso
quello dell'anomalo confine tra l'Argolide e il Pilo, attestato
dall'Iliade ma
impossibile sul suolo greco).
Inoltre, davanti all'omerica Lacedemone, situata nel sud-est di
Sjselland,
l'attuale isola Mon, caratterizzata da alte scogliere, è
identificabile con la mitica
Cranae, l'isola "rocciosa" - è questo il significato del nome
greco - mai
localizzata nel Mediterraneo, che Paride ed Elena scelsero per
il loro primo
incontro amoroso dopo la precipitosa fuga da Sparta. E dopo la
scansione del
Peloponneso, che si conclude con la regione dell'Elide, situata
di fronte a Dulichio,
il Catalogo si raccorda con l'area dell'arcipelago di Itaca,
già identificato
a partire dai dati dell' Odissea: è così possibile verificare
la perfetta congruenza
dei dati forniti dai due poemi, una volta calati nel contesto
baltico.
Subito dopo, gli Etoli omerici ci ricordano l'antico popolo
degli luti, che
ha dato il nome allo Jutland: anche qui, la corrispondenza con
la geografia del
Baltico - che vede lo Jutland contiguo all'area dove abbiamo
identificato Itaca è perfetta. Non solo: fra le città ètole
viene menzionata Pilene ("Pylene"),
forse identificabile con l'attuale Plòn, situata nella Germania
settentrionale,
poco distante dallo Jutland. E non molto lontano, nell'isola di
Heligoland, ritroviamo
anche Elice (Helike), santuario del dio del mare Poseidone.
E la "vasta terra" di Creta, con "cento città", solcata da
fiumi e mai chiamata
isola da Omero? Essa corrisponde all'attuale regione della
Pomerania, nel
Baltico meridionale, estesa fra la costa tedesca e quella
polacca; così si spiega
perché nella ricca produzione pittorica della cosiddetta
civiltà minoica, fiorita
nella Creta egea, non si riscontrino tracce della mitologia
greca ed anche le raffigurazioni
di navi siano scarsissime. Sarebbe altresì suggestivo
ipotizzare una
relazione tra il nome "Polska" e i Pelasgi, mitici abitanti di
Creta. A questo punto è facile identificare anche Naxos, dove
Teseo lasciò Arianna nel suo viaggio
di ritorno da Creta verso Atene: è l'isola Bornholm, situata
tra la Polonia e la
Svezia, dove il toponimo Nekso sembra tuttora ricordare
l'antico nome.
Scopriamo altresì che il "fiume Egitto" dell'Odissea
probabilmente coincideva
con l'attuale Vistola: ecco dunque la vera origine del nome
attribuito dai
Greci alla terra dei Faraoni, chiamata "Kem" nella lingua
locale. D'altronde,
a ricordare l'"Egitto" omerico sta il nome dei Gepidi, una
popolazione barbarica
stanziata attorno alla foce della Vistola fino al III secolo
d.C, nonché di uGepidos (...) un'isola circondata dai guadi
della Vistola", secondo la testimonianza
dello storico tardo-antico Jordanes. Così si spiega subito
l'incongruenza
sulla posizione della Tebe egizia, che l'Odissea colloca nei
pressi del
mare: evidentemente la capitale dell'antico Egitto, situata sul
Nilo a molte centinaia
di chilometri dalla costa e denominata originariamente Wò'se,
fu ribattezzata
dagli Achei discesi nel Mediterraneo con il nome della città
baltica. Invece
la Tebe omerica corrisponde all'attuale Tczew, presso la
foce della Vistola, di fronte a cui, nel centro del Baltico,
l'isola Farò ricorda la Faro dell' Odissea, situata da Omero in
mezzo al mare, ad una giornata di navigazione dall'Egitto"
(mentre la Faro egiziana si trova a meno di un miglio dal porto
di Alessandria):
in tal modo si risolvono immediatamente due antichi problemi
che angustiavano
il povero Strabone. D'altronde, anche le fisionomie di città
achee
come Micene o Calidone, quali emergono dalle descrizioni di
Omero, appaiono
completamente diverse dalle loro omonime sul suolo greco.
Il Catalogo delle navi ora tocca le repubbliche baltiche: in
particolare,
l'Ellade giaceva lungo la costa dell'attuale Estonia (dunque
stava affacciata
sul "largo Ellesponto", il "mare di Helle", ossia l'attuale
Golfo di Finlandia):
qui gli studiosi riscontrano leggende che presentano suggestivi
paralleli con la
mitologia greca. Inoltre, tra le fertili colline dell'Estonia
sud-orientale e lungo
il confine con la Lettonia e la Russia, fino al fiume Velikaja
e al lago di Pskov,
si estendeva la Ftia, patria di Achille, dove vivevano i
Mirmidoni e gli Ftioti,
rispettivamente guidati da Achille e da Protesilao, l'uno il
comandante più forte,
l'altro il primo caduto nella guerra di Troia.
Successivamente, procedendo nella scansione, si arriva alla
costa finlandese
affacciata sul golfo di Botnia, dove troviamo una Jolkka che ci
ricorda Iolco,
la mitica città di Giasone. In questa zona vivevano i Centauri
e i Lapiti. Più a settentrione, è possibile localizzare anche
la regione dell'Olimpo, lo Stige e
la Pieria: la collocazione di quest'ultima, a nord del Circolo
polare, è confermata
da un'apparente anomalia astronomica, legata alle fasi della
Luna, riscontrata nell'Inno omerico a Hermes e che si spiega
soltanto con l'alta latitudine.
Ancora più remota, sulle gelide coste della Carelia russa, era
la zona delle
"Case di Ade", visitate da Ulisse, i cui viaggi rappresentano
l'ultimo vestigio
di antichissime rotte preistoriche, risalenti ad un'epoca
caratterizzata da
un clima molto diverso da quello attuale.
Al riguardo, notiamo che all'epoca in cui sono ambientati i
poemi omerici
doveva essere ormai prossimo a concludersi un periodo
caratterizzato da
un clima eccezionalmente caldo, durato alcuni millenni: è
accertato infatti che
il cosiddetto "optimum climatico post-glaciale", con
temperature che nell'Europa
del nord furono molto superiori a quelle attuali, raggiunse
l'acme verso
il 2500 a.C. e iniziò a declinare attorno al 2000, fino ad
esaurirsi completamente
qualche secolo dopo. Fu questo probabilmente il motivo che ad
un certo
punto indusse gli Achei a trasferirsi nel Mediterraneo, dove
diedero origine
alla civiltà micenea, fiorita in Grecia a partire dal XVI
secolo a.C.
A questo punto gli specialisti potrebbero chiedersi in quale
rapporto la
presente ricerca si collochi rispetto alle acquisizioni della
scienza attuale. Abbiamo
già accennato al fatto che la geografia omerica, dopo aver dato
tanto filo
da torcere agli studiosi dell'antichità, non ha mancato di
creare grossi problemi
anche ai moderni. Infatti, allorché la decifrazione della
scrittura micenea, la cosiddetta "lineare B", graffìta sulle
tavolette provenienti da Cnosso, Pilo e
Micene, ha permesso di confrontare il mondo di cui esse sono
l'espressione con
la realtà descritta nei due poemi, i risultati sono stati
sconcertanti. A parte le già
citate divergenze tra Omero e la geografia micenea, è emerso il
"problematico
rapporto di Omero con il mondo miceneo e con i secoli del Medio
Evo ellenico"4
(con tale espressione si intende il periodo compreso tra il
crollo della
civiltà micenea, avvenuto attorno al XII secolo a.C, e l'inizio
della storia greca
vera e propria, circa quattro secoli dopo).

4 Montanari, Introduzione a Omero, pag. 125

Le perplessità degli studiosi sono sintetizzate dal Finley, il


quale affonda
il coltello nella piaga sottolineando "quanto poco oggi rimanga
di Omero come
testimone per il mondo in cui, secondo l'opinione tradizionale,
la guerra di
Troia sarebbe avvenuta. Sarebbe quasi sufficiente confrontare
la lista lunga e
relativamente ottimistica di parallelismi omerico-micenei che
si trova nel libro
di Helda Lorimer, Homer and the Monumenti', pubblicato nel
1950, con la misera
mezza dozzina, più o meno, che sopravviveva quando apparve il
libro di
Kirk, The songs of Homer, nel 1962. Da allora il palazzo
omerico e il carro da
guerra omerico sono stati gettati in mare, insieme al loro
equipaggiamento. E
infine il colpo più duro di tutti: la resa dell'ultimo
bastione, la 'geografia micenea'
di Chadwick"5 (il riferimento è alla "completa mancanza di
contatto"
con il mondo omerico).

5 Finley, Il mondo di Odisseo, pag. 146


D'altro canto, non mancano le evidenze archeologiche che la
civiltà micenea
abbia avuto un'origine nordica: al riguardo, il prof. Martin P.
Nilsson,
eminente studioso svedese, nel suo Homer andMycenae enumera
vari significativi
indizi, quali la presenza, nelle tombe più antiche, di grandi
quantità di
ambra baltica (che invece scarseggia sia nelle sepolture più
recenti, sia in quelle
minoiche a Creta), l'impronta prettamente nordica della loro
architettura (il
"megaron" miceneo "è identico alla sala degli antichi re
scandinavi"), l'impressionante
somiglianza" di alcune lastre di pietra provenienti da una
tomba
di Dendra "con i menhir conosciuti dall'età del bronzo
dell'Europa centrale",
i crani di tipo nordico trovati nella necropoli di Kalkani e
così via6.

6 Nilsson, Homer and Mycenae, pag. 75.

Non è dunque un caso che archeologi come Geoffrey Bibby, o


filosofi
come Bertrand Russell, ritengano che la civiltà micenea abbia
tratto origine dai
"biondi invasori nordici che portavano con loro la lingua
greca"7.

7 Russell, Storia della filosofia occidentale, pag. 29

Ciò d'altronde
è coerente con il fatto che "il mondo dell'Europa barbarica del
secondo
millennio fu il mondo dell'Iliade e dell' Odissea (...) Gli
eroi dei racconti,
nonostante tutta l'arte del poeta, appartengono sempre ad un
mondo estraneo,
primitivo e barbarico. Forse non si presta sufficiente
attenzione ai caratteri che
il mondo omerico condivide con quello degli eroi irlandesi, di
Beowulf o delle
saghe, e che devono essere stati comuni alla letteratura orale
di tutta l'antica
Europa barbarica"8.

8 Piggott, Europa Antica, pag. 145

A sua volta, il prof. Klavs Randsborg ha sottolineato il fatto


che certi reperti
dell'archeologia scandinava, quali le figure incise sulle
lastre del tumulo
di Kivik, nella Svezia meridionale, presentano singolari
affinità con i modelli
dell'arte egea, al punto da indurre qualche studioso del
passato ad ipotizzare
che quel monumento fosse opera dei Fenici9.

9 Randsborg, Kivik archaeology and iconography, pag. 114

Ed un altro indizio della presenza


degli Achei nel nord dell'Europa, attorno all'inizio del II
millennio a.C, è
costituito da un graffito di tipo miceneo ritrovato nel
complesso megalitico di
Stonehenge, nell'Inghilterra meridionale, insieme con altre
tracce, riscontrate
dagli archeologi sempre nella stessa area ("cultura del
Wessex"), di epoca probabilmente
precedente all'inizio della civiltà micenea in Grecia.
Tutto ciò si può inquadrare nella nuova situazione introdotta
nella cronologia
tradizionale dalla datazione col radiocarbonio corretta con la
dendrocronologia
(la calibrazione con gli anelli annuali degli alberi). Al
riguardo, il prof.
Colin Renfrew afferma che "si verifica tutta una serie di
rovesciamenti allarmanti
nelle relazioni cronologiche. Le tombe megalitiche dell'Europa
occidentale
diventano ora più antiche delle piramidi o delle tombe
circolari di Creta,
ritenute loro antecedenti; (...) in Inghilterra, la struttura
definitiva di Stonehenge,
che si riteneva fosse stata ispirata da maestranze micenee, fu
completata
molto prima dell'inizio della civiltà micenea"10.

10 Renfrew, L'Europa della preistoria, pag. 63

Pertanto gli studi sviluppati sulla civiltà micenea e sulle sue


origini, lungi
dal chiarirne i rapporti con i poemi omerici, hanno fatto
emergere un quadro
complesso, in cui coesistono, senza però trovare un punto di
sintesi, il problematico
rapporto di Omero con il mondo miceneo, la mancanza di contatto
fra la geografìa micenea ed i racconti omerici, le
corrispondenze di questi ultimi
con il mondo dell'Europa barbarica dell'età del bronzo, nonché
una serie
di indizi sull'origine nordica dei Micenei, a cui fanno
riscontro le analogie tra
reperti nordici e mediterranei della stessa epoca.
A fare chiarezza in questo sconcertante mosaico, a questo punto
potrebbe
essere proprio la verifica della coincidenza tra la geografìa
omerica, non
meno problematica per gli studiosi moderni di quanto non lo
fosse per gli antichi,
e quel mondo nordico da cui sarebbero discesi i Micenei
allorché si stabilirono
in Grecia. Si tratta di una prospettiva pienamente compatibile
col quadro
testé delineato, da cui essa discende logicamente -anzi, quasi
di necessità-e che consente di interpretare in modo coerente
tutto l'insieme dei dati finora raccolti dagli studiosi,
collegando con un unico filo logico tutte le recenti
acquisizioni
della scienza. In tal modo i pezzi sparsi del puzzle trovano
subito una
collocazione razionale, in una visione complessiva che diviene
finalmente chiara
e coerente.
A questo punto, dopo aver verificato che l'ipotesi di una
localizzazione nordica
del mondo di Omero è pienamente compatibile con il quadro delle
conoscenze
attuali, anzi è in grado di rispondere alle perplessità della
scienza, dobbiamo
ritenere estremamente improbabile che tutto questo colossale
insieme di
corrispondenze con il contesto baltico-scandinavo possa essere
soltanto un gioco
del caso: partendo dalla segnalazione di Plutarco riguardo alla
localizzazione
settentrionale dell'isola Ogigia è emerso un quadro globale
straordinariamente
congruente con la geografìa omerica e con il mondo mitologico
dell'antica Grecia,
in grado di spiegare tutte le innumerevoli incongruenze della
collocazione
greco-mediterranea, che tanti problemi hanno creato fin
dall'antichità.
E sempre con questa chiave si possono anche spiegare le tracce
che i Micenei
hanno lasciato in Inghilterra prima di insediarsi in Grecia: a
tale proposito,
ricordando che le isole britanniche sono state un importante
centro di produzione
dello stagno sin dall'antichità, potrebbe essere significativo
un accenno dell' Odissea ad un mercato dei metalli ubicato
oltremare, tra "genti straniere",
chiamato "Temesa", dove si scambiava il ferro col bronzo. Così
pure si comprende
il fatto che la civiltà micenea - quale emerge dalle tavolette
giunte fino a
noi, posteriori di qualche secolo al suo insediamento sul suolo
greco - a detta degli
studiosi appare nettamente più progredita rispetto a quella
omerica: evidentemente
a favorirne una rapida evoluzione sono stati i contatti
instaurati con le
raffinate culture egee da quegli intraprendenti navigatori e
commercianti, le cui
stazioni commerciali si stanno ritrovando un po' dovunque per
le coste del Mediterraneo.
Inoltre, si chiarisce anche la ragione per cui fin
dall'antichità si era
persa qualsiasi notizia attendibile sull'autore, o gli autori,
dei due poemi.
Fu, insomma, lungo le coste del mar Baltico e della
Scandinavia- nome
antichissimo, che trova un significativo riscontro nell'Iliade,
dove viene menzionata
la città di Scandia - che si svolsero le vicende narrate da
Omero, presumibilmente
collocabili nella fase declinante dell"'optimum climatico",
verso
l'inizio del II millennio a.C, prima dello spostamento degli
Achei verso il
Mediterraneo e del conseguente sorgere della civiltà micenea in
Grecia.
I migratori (che probabilmente scesero per il fiume Dnepr verso
il mar
Nero, come molti secoli dopo avrebbero fatto i Vichinghi, la
cui cultura presenta
non poche affinità con quella
achea) portarono con sé epopee e geografia:
essi attribuirono alle località in cui si insediarono gli
stessi nomi che avevano lasciato nella patria perduta, di cui
perpetuarono il retaggio nei poemi
omerici e nella mitologia greca. Quest'ultima, se da un lato
presenta diversi
punti di contatto con quella nordica, dall'altro, forse in
seguito al crollo della
civiltà micenea, avvenuto circa quattro secoli dopo il suo
insediamento, ha perso
il ricordo della grande migrazione dal settentrione (tuttavia
lungo tutto l'arco
della letteratura greca si registrano accenni, anche molto
espliciti, alla persistenza
di amichevoli contatti con gli Iperborei, i mitici popoli del
Nord). Gli
Achei inoltre ribattezzarono con i corrispondenti nomi baltici
anche le altre
regioni dell'area mediterranea, quali la Libia, Creta e
l'Egitto, generando in tal
modo un colossale "equivoco geografico" durato fino ai nostri
giorni.
Tali trasposizioni furono agevolate - anzi, forse, suggerite -
da una certa
analogia tra la configurazione geografica del Baltico e quella
dell'Egeo: basti
pensare alla corrispondenza tra Oland ed Eubea, o tra Sjaslland
e Peloponneso
(dove peraltro, come abbiamo visto, dovettero forzare il
concetto di "isola");
il fenomeno venne poi consolidato, nel corso dei secoli, dal
progressivo
affermarsi dei popoli di lingua greca nel bacino del
Mediterraneo, a partire
dalla civiltà micenea fino all'epoca ellenistico-romana.

Dopo aver fornito, per seguirne più agevolmente gli sviluppi,


una visione
globale della tesi che qui si propone, nei prossimi capitoli
esamineremo in
dettaglio i vari punti sopra accennati, partendo
dall'indicazione-chiave di Plutarco
riguardo alla collocazione nordatlantica di Ogigia, onde
pervenire ad una
ricostruzione del mondo omerico il più possibile esauriente.
D'altronde, la congruenza
di ciò che andrà via via emergendo costituirà una prima
verifica della
sua fondatezza, fatti salvi gli approfondimenti che saranno
effettuati dagli
specialisti nei diversi settori interessati dal presente
studio.
Riteniamo infine che qui sia il caso di spendere qualche parola
sulla questione
dell'origine dei toponimi (argomento su cui ritorneremo più
approfonditamente
nel seguito). Al riguardo, pur se non è stato possibile
applicare un
metodo rigoroso, riteniamo che quanto meno i loro
raggruppamenti, allorché confortati da riscontri significativi,
geografici o di altro tipo, possano avere, a
livello di probabilità, un valore indicativo non trascurabile,
soprattutto se vanno
ad inserirsi in un quadro complessivo razionale e coerente. Va
altresì sottolineato
che nella presente ricerca i toponimi hanno soprattutto valore
di traccia
o di indizio, mentre la base fondamentale su cui essa poggia è
costituita dalle
straordinarie concordanze geografiche, morfologiche,
descrittive e climatiche del mondo omerico con quello nordico,
verso cui ci ha indirizzato la segnalazione
iniziale di Plutarco. In realtà, anche se avessimo eliminato
tutte le
considerazioni basate sui toponimi, il resto della trattazione
avrebbe continuato
a tenersi perfettamente: infatti i due poemi forniscono una
tale quantità di
informazioni da non dover
richiedere, a rigore, alcun supporto toponomastico,reso
superfluo da un insieme di prove "pesanti" a favore della
localizzazione
baltico-scandinava, quali ad esempio l'inversione della
corrente del fiume della
Selleria, la battaglia dell'Iliade che prosegue per tutta la
notte, la lunghissima
durata del giorno nel paese dei Lestrigoni (che ha già indotto
alcuni studiosi
a localizzarli nella Norvegia settentrionale)", il clima quasi
sempre perturbato,
il vasellame di legno o di metallo, e così via.
Tuttavia, sebbene i toponimi abbiano, lo ripetiamo, un impatto
molto modesto
ai fini della dimostrazione della nostra tesi, e pertanto, al
fine di accrescere
il suo rigore scientifico e metodologico, ci fosse stato
addirittura suggerito
di eliminarli, abbiamo comunque deciso di mantenerli,
essenzialmente per
due ragioni: la prima è che, pur essendo essi facilmente
soggetti a critiche, errori
e fraintendimenti, riteniamo alquanto improbabile che il loro
complesso sia
tutto riconducibile ad una mera casualità. In ogni caso, anche
se per assurdo
nessun toponimo dovesse reggere al vaglio della critica, ciò
comunque non
implicherebbe affatto il crollo della teoria nel suo insieme,
che si regge su ben
altre basi.
La seconda ragione forse è, almeno apparentemente, più
"leggera", ma a
nostro avviso non meno importante: ci sarebbe sembrato un vero
peccato privare
il lettore non specialista del piacere di condividere in tutti
i suoi aspetti la ricostruzione
di un mondo riapparso sotto i nostri occhi dopo millenni di
oblìo, a
cui i toponimi restituiscono, in certo senso, freschezza e
colore. Noi crediamo
che il nostro lavoro non sia destinato soltanto al mondo
accademico ed alla
ristretta cerchia degli specialisti: infatti l'opera di Omero,
dai contenuti così universali,
sia nello spazio che nel tempo, è assolutamente fondante per la
nostra società
e la nostra civiltà, e, pertanto, una novità importante come la
prospettiva
qui prefigurata è giusto ed opportuno che venga conosciuta
subito da tutti, anche
considerando che potrebbe diventare la base per costruire
un'unità dell'Europa
incentrata su valori culturali comuni. Gettare luce sul passato
consente
di orientarsi per il futuro, e proprio in questo sta
l'importanza della storia, la
quale sul piano collettivo corrisponde esattamente alla memoria
in quello individuale:
l'identità di ciascuno, ossia la base per progettare il proprio
domani,
si costruisce essenzialmente sulla conoscenza di ciò che è
avvenuto.
Per inciso, nei giorni calamitosi che tutti stiamo vivendo non
deve sfuggirci
un aspetto tragicamente attuale della poetica omerica: come
afferma il
prof. Victor DeMattei, storico e studioso della civiltà e
cultura balcanica,
"Homer pointed out the horror and tragedy of war"12 ("Omero ha
messo in
luce l'orrore e la tragedia della guerra").

12 DeMattei, prelazione all'edizione in lingua inglese di Omero


nel Baltico
Nell'ottica, pertanto, di indirizzare questo lavoro ad una
cerchia di persone
la più vasta possìbile, abbiamo ritenuto opportuno, anche a
costo di perdere
qualcosa nel rigore della trattazione, dì non tralasciare i
toponimi, i quali,
oltre ad avere, lo ripetiamo, il valore di traccia o di
indizio, sono come la "ciliegina
sulla torta": la abbelliscono senza cambiarne il sapore e la
sostanza.
Anche se, in un'ipotesi estrema, essi fossero tutti, ma proprio
tutti, il frutto di
un'incredibile serie di fraintendimenti o di casi fortuiti,
comunque la "torta" del
mondo omerico, con i suoi tanti ingredienti nordici - il clima
freddo, la notte
chiara, l'inversione della marea, i capelli biondi degli eroi e
via discorrendo resterebbe
lo stesso pressoché intatta, ed è così che la offriamo alla
degustazione
del lettore.
Prima parte

IL MONDO DI ULISSE
I.

PLUTARCO, L'ISOLA OGIGIA E LA SCHERIA

"Un'isola, Ogigia, giace lontana nel mare...": lo scrittore


greco Plutarco
di Cheronea (55 - 120 d.C), nella sua opera Defacie quae in
orbe lunae apparet, cap. XXVI, cita questo verso di Omero (Od.
VII, 244) aggiungendo che
Ogigia - l'isola della dea Calipso, dove Ulisse approdò dopo
molte peregrinazioni
e da cui poi ripartì per tornare in patria - si trova "a cinque
giorni di navigazione
dalla Britannia, in direzione occidente". Da qui ha preso il
via la ricerca
sull'itinerario che, seguendo la narrazione dell' Odissea, ha
consentito a
Ulisse di ritrovare la sua Itaca.
Il passo di Plutarco individua inequivocabilmente Ogigia nella
realtà geografica
dell'Atlantico settentrionale: subito dopo infatti esso precisa
che più oltre
si trovano altre isole, e successivamente si incontra "il
grande continente che
circonda l'oceano". E vi è un altro particolare significativo a
conferma dell'attendibilità
del passo plutarcheo: in tali "isole esterne", il sole in
estate "su
un arco di trenta giorni scompare alla vista per meno di un'ora
per notte, anche
se con tenebra breve, mentre un crepuscolo balugina ad
occidente".
Da tutti questi dati emerge che Ogigia - "lontana nel mare",
come nell'Odissea ricordano sia Hermes: "Zeus m'ha costretto a
venire quaggiù, controvoglia;/
e chi volentieri traverserebbe tant'acqua marina,/ infinita?
non è neppure vicina qualche città di mortali" (Od. V, 99-101),
sia lo stesso Ulisse:
"Vuoi su una zattera farmi passare un immenso abisso di mare,/
spaventoso, invincibile..."
(V, 174-175)-è un'isola dell'Atlantico del nord, ad una
latitudine
alquanto elevata, presumibilmente una delle Fàròer,
l'arcipelago più settentrionale,
più occidentale e nel contempo più isolato nell'oceano fra
quelli
che circondano la Gran Bretagna (Tav. II). E questa la chiave
che ci consentirà di penetrare nell'enigmatica realtà
geografica dei poemi omerici, finora gelosamente
chiusa in se stessa, dì fatto "sigillata".
Osserviamo subito che una delle isole dell'arcipelago ha un
nome singolarmente
"grecheggiante", Mykines, il che potrebbe far supporre
antichissime
frequentazioni se non l'installazione di una vera e propria
base: d'altronde ciò
è congruente con quanto Plutarco afferma nel seguito dello
stesso passo, cioè che quelle isole erano "abitate da Greci". E
coerente con tale localizzazione è anche il gran numero di
uccelli marini attorno alla grotta di Calipso: "Ghiandaie,
sparvieri, cornacchie che gracchiano a lingua distesa,/ le
cornacchie marine,
a cui piace la vita del mare" (Od. V, 66-67): è noto infatti
che alla maggior
pescosità dei mari nordici fa riscontro un'abbondanza
proporzionalmente
maggiore di uccelli rispetto a mari più caldi, quali il
Mediterraneo: una delle
attività tradizionali delle Fàroer è proprio la raccolta di
uova e di piume degli
uccelli marini. Inoltre, lungo le coste dell'arcipelago si
trovano molte caverne
caratteristiche, che ricordano le "grotte profonde" richiamate
più volte dall'Odissea a proposito di Ogigia.
Per quanto riguarda il clima, all'epoca in cui sono ambientati
i poemi
omerici esso doveva essere alquanto più temperato di quello
attuale: in merito
alla questione climatica, che sarà approfondita in seguito, qui
è sufficiente
anticipare che dal sesto al terzo millennio a.C. il clima medio
europeo si è mantenuto considerevolmente più caldo di quello
odierno ("optimum climatico
post-glaciale", corrispondente alla "fase atlantica"
dell'Olocene), con tutte
le immaginabili conseguenze sulla distribuzione della flora e
della fauna; inoltre
le Faròer sono interessate dall'effetto mitigante della
Corrente del Golfo.
Comunque dalla descrizione che ne fa l'Odissea, anche se
indubbiamente idealizzata,
si può trarre qualche significativo indizio: già il focolare
acceso nella
dimora di Calipso - "gran fuoco nel focolare bruciava" (V, 59)
- in un periodo
dell'anno che certamente corrisponde alla stagione della
navigazione, poco
si addice ad un ambiente mediterraneo; ma anche la varietà di
essenze vegetali
enumerate dal poeta: conifere quali i cedri, le tuie e i
cipressi, alberi tipici
dei corsi d'acqua come gli ontani e i pioppi (V, 60-64) e,
soprattutto, "i
molli prati di viola e di sedano" (V, 72) sembrano rimandare ad
un clima mite,
tendente al fresco e piuttosto umido, alquanto diverso da
quello delle isole
greche. E non a caso l'umidità, dovuta alla Corrente del Golfo,
è tipica delle
Faròer, che hanno un tasso di precipitazioni medie annue molto
elevato (quasi il doppio dell'Italia) e nella stagione
invernale sono spesso avvolte
da fitte nebbie.
Insomma queste isole, che attualmente hanno una scarsa
vegetazione a
causa della forte ventosità, durante l'"optimum climatico",
allorché all'alta
umidità che tuttora le caratterizza si accompagnava un clima
nettamente più tiepido
e meno perturbato, dovevano presentarsi in modo ben diverso
(oltretutto
sono di origine vulcanica), proprio come appaiono nella
descrizione omerica.
A questo punto non ci sorprende la presenza della vite (V, 69):
infatti l'area di
diffusione di questa pianta è strettamente legata alla
situazione climatica; ad
esempio, durante il cosiddetto "periodo caldo dell'età
medioevale" (800-1200
d.C.) - quando la Groenlandia, la "terra verde" dei Vichinghi,
era ricoperta di
prati - i vigneti si estendevano fino alla Gran Bretagna e alla
Norvegia. Ora,
1'"optimum climatico" fiorito millenni prima nell'Europa
settentrionale durò molto più a lungo e fu caratterizzato da
temperature medie ancora più alte.
E Calipso? Forse era una divinità locale: Omero la chiama "dea"
("theà")
e ci dice che era "figlia del terribile Atlante" (Od. I, 52),
il che ben s'accorda
con l'ubicazione atlantica di Ogigia. La radice del suo nome
potrebbe forse ritrovarsi
nella denominazione di un'isola, Kalsoy, che peraltro è situata
in posizione
interna nell'arcipelago; invece la Ogigia dove, secondo il
racconto dell'Odissea, Ulisse riuscì ad approdare provenendo
dal mare aperto e da cui
avrebbe poi puntato sulla Selleria, situata verso est, doveva
essere un'isola affacciata
direttamente sul Mar di Norvegia.
E proprio fra queste ultime ve ne è una, Stòra Dìmun, situata
nella parte meridionale
dell'arcipelago, il cui monte più alto ha un nome
particolarmente significativo:
Hogoyggj. La somiglianza con "Ogigia" (in greco "Ogygìe") è
così rimarchevole
da suggerire l'ipotesi che l'antico nome dell'isola nell'età
del bronzo sia rimasto
ad indicare il monte con cui essa dall'orizzonte si annuncia ai
naviganti (tuttavia,
anche se questa assonanza, così come quella relativa a Mykines
nonché tutte
le altre che incontreremo nel seguito, fosse puramente casuale,
non cambierebbe nulla
ai fini dello scenario geografico, che rimane comunque
univocamente definito).
Dunque questa piccola isola, sperduta nell'Atlantico, forse è
davvero la
mitica Ogigia, che "giace lontana nel mare", separata da un
"immenso abisso"
("méga laìtma") dalla terraferma, e dove Ulisse trascorse sette
anni di dorata
prigionia in compagnia di Calipso; vi ritroviamo anche il
promontorio dove il
nostro eroe, "seduto sopra le rocce e la riva,/ con lacrime,
gemiti e pene straziandosi
il cuore,/ al mare mai stanco guardava" (Od. V, 156-158): ecco
infatti,
all'estremità orientale di Stòra Dìmun, la punta di
Rasttartangi, sottostante
al Klettarnir (l'altro monte dell'isola, un po' più basso
dell'Hogoyggj), rivolta
in direzione del Mar di Norvegia e del continente europeo.

Finalmente Ulisse, dopo essersi costruito una zattera, riesce a


partire da
Ogigia, puntando dritto verso oriente, con gli occhi fissi
sulle costellazioni, in
particolare l'Orsa: "Quella infatti gli aveva ordinato Calipso,
la dea luminosa,/ di tenere a sinistra ("ep'aristerà cheiròs
echònta") nel traversare il mare" (Od.
V, 270-277). Da questi versi si deduce inequivocabilmente che
la rotta del ritorno
è rivolta in direzione est; ma continuiamo a seguire la
zattera: "Per diciassette
giorni navigò traversando l'abisso,/ al diciottesimo apparvero
i monti
ombrosi/ della terra feacia: era già vicinissima,/ sembrava
come uno scudo,
là nel mare nebbioso" (Od. V, 278-281).
Dopo aver notato che questi versi si attagliano molto meglio
all'immensità
dell'Atlantico che alle limitate dimensioni del Mediterraneo,
soffermiamoci
per un attimo sull'aggettivo "nebbioso" ("eeroeidés" in greco):
esso viene
usato in modo sistematico per caratterizzare il mare, sia
nell'Odissea che nell'Iliade; e altrettanto frequente è il
termine "livido" ("oìnops"): ambedue
evocano l'immagine di un mare nordico, non certo quella solare
del Mediterraneo
durante la stagione della navigazione. Così pure l'aggettivo
"ioeidés", anch'esso
usato da Omero con riferimento al mare, significa "violaceo,
cupo, fosco"13:
lo ritroviamo infatti in contesti inequivocabilmente riferibili
a delle bur
rasche (Il. XI, 298; Od. XI, 107), ed anche Esiodo lo usa nello
stesso senso (Teogonia, 844). E altamente significativo il
fatto che tale caratterizzazione
non sia episodica, ma continuamente ricorrente: essa è
perfettamente in linea
con tutto il quadro meteorologico - freddo, umido e
generalmente perturbato
- che, come vedremo meglio in seguito, si riscontra in entrambi
i poemi.

13 Vocabolario Greco-Italiano Rocci, voce "ioeidés

Torniamo al nostro navigatore solitario, ormai giunto quasi al


termine
della sua interminabile traversata: partito dalle Faròer
diretto a oriente, "quei
monti ombrosi" della terra feacia, che appare improvvisamente
"come uno scudo"
nel "mare nebbioso", non possono essere altro che le coste alte
della Norvegia
(Tav. III), all'incirca nella zona dei fiordi attorno a Bergen.
E ciò è confermato
dal fatto che Omero chiama la Feacia sempre "terra" ("gaie"), e
mai
"isola".
"Ma dagli Etiopi tornando il potente Enosìctono,/ di lontano lo
scorse,
dai monti Solimi: di là lo vide/ che navigava pel mare, e
s'infuriò orrendamente..."
(Od. V, 282-284; l'accenno ai monti Solimi sembra congruente
con la geografia della Norvegia, dove verso nord si trova il
monte Sulitjelma, che
con i suoi quasi duemila metri è tra i più alti della
Scandinavia, e più a sud si
incontra la città di Solum, sempre in una zona montagnosa, ad
ovest di Lillehammer).
A questo punto una tempesta scatenata da Poseidone distrugge la
zattera; Ulisse però si mette a cavalcioni di un tronco e
riesce a salvarsi grazie
ai provvidenziali interventi di una divinità marina (Ino
Leucotea, che gli dà un
magico salvagente) e della dea Atena, la sua protettrice: "Ella
degli altri venti
incatenò le vie/ ordinò a tutti di fermarsi e dormire;/ destò
solo il rapido Borea,
e l'onde gli ruppe davanti,/ sicché tra i Feaci amanti del remo
arrivasse"
(Od. V, 383-386).
Dopo due giorni e due notti alla deriva in direzione sud (Borea
è il nome
del vento che soffia dal nord), finalmente il tempo migliora,
ma per il naufrago
prender terra è difficile: "Non v'eran porti rifugio di navi,
non baie,/ eran
punte sporgenti e scogli e roccioni" (V, 404-405). Infine,
seguendo la costa, "alla
foce di un fiume bella corrente/ giunse nuotando, e qui gli
parve il luogo migliore,/
privo di rocce" (V, 441-444).
E qui accade un fatto estremamente significativo: il fiume
"subito fermò
la corrente, trattenne l'ondata,/ gli fece bonaccia davanti e
in salvo l'accolse/
dentro la foce" (V, 451-453). Il fenomeno dell'inversione del
flusso, incomprensibile
nel mondo mediterraneo - dove l'altezza delle maree è assai
limitata
e la corrente dei fiumi si dirige incessantemente verso il mare
- è invece normale
sulle coste atlantiche, dove l'ondata dell'alta marea risale
periodicamente
gli estuari. Questa è la migliore conferma della correttezza
del ragionamento
sin qui seguito, a partire dall'indicazione iniziale di
Plutarco riguardo all'ubicazione
di Ogigia.
È insomma con l'aiuto dell'alta marea che Ulisse riesce
finalmente ad approdare alla Selleria, la terra dei Feaci.
Costoro gli faranno un'accoglienza
estremamente calorosa e poi lo ricondurranno alla sua Itaca.
I versi citati in precedenza ci danno varie indicazioni utili
per localizzare
la Scheria. Innanzi tutto ci dicono che Ulisse, sorpreso dalla
tempesta davanti
alla costa norvegese, viene sospinto da Borea verso sud: la
terra dei Feaci è dunque localizzabile nella parte meridionale
della penisola scandinava, dove,
a partire dalla città di Stavanger, effettivamente la costa si
abbassa, iniziano le
spiagge e si incontra la foce di qualche fiume che sbocca in
mare. Inoltre, proprio
a qualche chilometro a sud di Stavanger, nell'area di Klepp, il
dott. Erik
Dahl di Trondheim ci segnala la presenza di notevoli reperti
della prima età del
bronzo, fra ì più importanti di tutta la Norvegia: si tratta di
una serie di sepolture
a tumulo, alte quattro o cinque metri e con diametri di circa
trenta, contenenti
oggetti e gioielli in bronzo e in oro; né mancano i graffiti
rupestri, sempre
della stessa epoca, che spesso raffigurano delle imbarcazioni.
Qui scorre un fiume, il Figgjo: esso è il primo corso d'acqua
di una certa
entità che s'incontra provenendo da nord, ossia dalla zona dei
fiordi, ed il suo
nome oltretutto ha una certa assonanza con quello dei Feaci (in
greco
"Phaìekes"; così pure una località vicina, Reke, sembra
ricordare Rexenore,
eminente personaggio feacio, fratello del re Alcinoo nonché
padre della regina
Arete). Insomma, non mancano gli indizi per collegare la terra
dei Feaci al
territorio di Klepp.
E altresì molto significativo che il nome della terra feacia,
"Selleria", privo
di significato in greco, trovi invece un preciso riscontro in
un vocabolo dell'antica
lingua norrena: "skerja" infatti significa "scoglio" ("skjær"
nel norvegese
attuale), in accordo da un lato con gli ostacoli incontrati da
Ulisse per approdare
a quella terra, cioè "punte sporgenti, scogli e roccioni" -
altrove si
parla anche di "grandi scogli" (Od. VII, 279) - dall'altro con
l'ambientazione
nordica verso cui ci ha indirizzato il passo di Plutarco e, in
particolare, con la
morfologia della costa dellaNorvegia meridionale, che "sembrava
uno scudo,
là nel mare nebbioso" (Od. V, 281).
E, a proposito della nebbia, l'Odissea - come d'altronde anche
l'Iliade - non
si limita a menzionarla solo in riferimento al mare: infatti
Ulisse, allorché arriva
in città e si sta dirigendo verso la reggia di Alcinoo, vi si
trova completamente avvolto
(Od. VII, 41-42); più in generale, si tratta di un fenomeno
che, come verificheremo
in molte altre occasioni, rappresenta una caratteristica
costante del mondo
omerico - ad Itaca, a Troia, fra i Ciclopi, nel Peloponneso - e
sottolinea la dimensione
tipicamente settentrionale del mondo cantato nei due poemi.
D'altronde il clima della Selleria non è certo dei più
temperati: "Se veglio
qui presso il fiume la notte affannosa,/ temo che insieme la
mala brina e l'umida
guazza/ non mi finiscano il cuore, stremato dalla fatica:/ un
vento freddo
spira dal fiume avanti l'aurora" (Od. V, 466-469); lo conferma
il fatto che
le ancelle di Nausicaa si affrettano a fornire al nostro eroe
"manto, tunica e veste"
(Od. VI, 214) e che la regina dei Feaci "al focolare siede,
nella luce del fuoco"
(VI, 305). Eppure, come avremo modo di rilevare anche in
seguito, tutte
queste vicende sono ambientate nella stagione della
navigazione.
Quanto alla città dei Feaci, Omero ce ne ha lasciato una
splendida "cartolina",
che ritrae l'aspetto di una tipica città marinara dell'età del
bronzo:
"Bello ai lati della città s'apre un porto/ (...) le navi lungo
la strada/ son tratte
in secco: per tutte, a una a una, c'è il posto;/ e hanno la
piazza, intorno a un bel
Posideio,/ pavimentata di blocchi di pietra cavata;/ qui delle
navi nere preparano
l'armi,/ ancore e gómene, e piallano i remi" (Od. VI, 263-269).
Tenuto
conto che essa non doveva essere molto distante dal fiume dove
approdò Ulisse
e che davanti al porto si trovava uno scoglio a forma di nave
(Od. XIII, 161-163),
è possibile che gli archeologi, magari anche avvalendosi di
qualche racconto
o leggenda locale, prima o poi riusciranno ad identificarla.
Notiamo ancora un'affermazione di Nausicaa: "Viviamo in
disparte, nel
mare flutti infiniti,/ lontani, e nessuno viene fra noi degli
altri mortali" (Od. VI,
204-205): essa risulta perfettamente coerente con la
collocazione della Selleria,
sulla costa meridionale della Norvegia, rispetto a quello che
allora era il
mondo degli Achei, affacciati tutt'attorno alle coste del
Baltico, come vedremo
nel seguito del presente studio. Inoltre l''Odissea ci dice che
i Feaci non risiedevano
nella Selleria da molto tempo; provenivano infatti da un'altra
regione,
"la vasta Iperea", (Hypereìe; VI, 4), dove avevano patito le
sopraffazioni
di certi confinanti particolarmente sgradevoli, "uomini
tracotanti" (VI, 5), "ingiusti
e violenti" (IX, 106): si tratta dei Ciclopi, sulla cui pessima
indole anche
Ulisse, come ben sappiamo, avrà di che lamentarsi. Nel capitolo
dedicato alle
sue avventure vedremo che le loro tracce sono riscontrabili
lungo le coste della
Norvegia centro-settentrionale, a cui ben si attaglia il nome
di Iperea, cioè
"alta terra", coerentemente col fatto che essi vivevano "sulle
cime dei monti"
(IX, 113): al riguardo troveremo alcune significative
testimonianze sia nel folklore
norvegese, sia nella letteratura nordica medioevale, ultimi
echi di una tradizione
che evidentemente affonda le sue radici nella prima età del
bronzo.
Ma i Feaci avevano anche altri vicini, anch'essi a dir poco
singolari, come
ricorda il re Alcinoo: "Sempre, infatti, gli dèi ci si mostrali
visibili,/ quando
per loro facciamo elette ecatombi,/ banchettano in mezzo a noi,
sedendo dove
noi siamo;/ e se un viandante, anche solo, li incontra,/ non si
nascondono,
perché siamo prossimi a loro,/ come i Ciclopi e le selvagge
tribù dei Giganti"
(Od. VII, 201-206). Riguardo agli dèi, questa sorprendente
affermazione di
Alcinoo trova conferma anche nelle parole di Nausicaa, la quale
dichiara "Noi
siamo molto cari agli dèi" (Od. VI, 203) e poco dopo definisce
i Feaci "divini"
("antithéoisi"; Od. VI, 241); d'altronde, lo stesso Zeus
ricorda a Hermes che
i Feaci "sono
parenti agli dèi" (V, 35). Quanto ai Giganti, lo stesso Alcinoo
era diretto discendente "del grande Eurimedonte,/ che regnava
sui Giganti superbi"
(Od. VII, 58-59).
Ora, la mitologia nordica da un lato colloca i giganti verso la
parte settentrionale
della penisola scandinava - e tuttora nel folklore norvegese
hanno
un posto di rilievo i "Troll", leggendari esseri, talora
giganteschi, dall'indole
tendenzialmente malevola - dall'altro pone in stretta
relazione, proprio come
quella greca, gli dèi con i giganti, anche dal punto di vista
geografico: in un carme dell'Edda Odino afferma che "Ifing si
chiama il fiume che divide la zona
dei giganti/ da quella degli dèi" (Vafthrudhnismal, str. 16).
Insomma, ciò che
Omero ci dice a proposito dei Feaci e dei loro vicini, una
volta ambientato in
questo contesto geografico non soltanto rivela una solida
coerenza interna, ma
trova significativi riscontri anche nella letteratura nordica.
Più in generale, cominciamo
a intravvedere suggestivi rapporti fra le due mitologie:
torneremo
presto, sempre a proposito della figura di Ulisse, su questo
affascinante argomento.
Riguardo
ancora ai Feaci - che Omero ripetutamente definisce "navigatori
famosi", "nausìklytoi àndres" (Od. VII, 39; VIII, 191; XIII,
166; XVI,
227), peraltro del tutto sconosciuti nel Mediterraneo, come
d'altronde lo è la
Selleria - la loro discesa dalla "vasta Iperea" verso il sud
della Norvegia potrebbe
essere forse ricondotta anche al declinare dell"'optimum
climatico",
con il connesso incrudimento del clima, verificatosi a partire
dall'inizio del
secondo millennio a.C.: infatti tale fenomeno, che alla fine
avrebbe spinto gli
Achei a spostarsi sulle più tiepide rive del Mediterraneo,
all'epoca in cui sono
ambientati i poemi omerici probabilmente era già iniziato, come
vedremo meglio
in seguito.
E adesso, prima di lasciare la Norvegia, idealmente diretti
verso l'isola di
Ulisse a bordo della nave feacia che lo riaccompagna a casa,
ricordiamo che,
millenni dopo le vicende cantate da Omero, i Vichinghi
avrebbero fatto irruzione
nella storia partendo proprio da qui: essi erano depositari di
un'arte orafa
straordinariamente raffinata, presumibilmente riconducibile
alla splendida
età del bronzo fiorita nel nord dell'Europa e nella stessa
Norvegia sin dal II millennio
a.C.; se ne trova un accenno in Omero, allorché il dio fabbro
Efesto dichiara
di aver foggiato "molte artistiche cose,/ fibbie e braccialetti
ricurvi, monili
e collane" (Il. XVIII, 400-401), presso "la corrente d'Oceano"
(identificabile,
come vedremo in seguito, con la Corrente del Golfo, che scorre
davanti
alle coste norvegesi).
A questo punto, ci sembra di poter ipotizzare una diretta
continuità tra i
Vichinghi ed i loro antenati Feaci "dai lunghi remi" (Od. VIII,
191), "sapienti
sugli uomini tutti/a reggere l'agile nave sul mare" (Od. VII,
108-109), ai quali,
come afferma Nausicaa, "nulla importa d'arco e faretra/ ma
d'alberi e remi
di navi e di navi diritte/ e con esse superbi traversano il
mare
schiumoso" (Od. VI, 270-272). In tale contesto d'altronde si
cala bene una frase del Brögger:
"L'età del bronzo in Norvegia è in massima parte collegata col
mare e la navigazione,
molto meno con l'agricoltura"14.

14 Bibby, Le navi dei Vichinghi, pag. 282

E le donne feacie? "A loro Atena donò in grado massimo/ di far


opere belle
e d'aver savia mente" ("phrénas esthlàs", Od. VII, 110-111: è
curiosa la
coincidenza che negli attuali governi norvegesi si riscontri
una percentuale
particolarmente elevata di ministri donne).
A conclusione di questo capitolo, dopo aver notato che una
delle città menzionate
nell'Iliade si chiamava Scandia ("Skàndeia"; X, 268), il che
richiama da
vicino la radice di "Scandinavia" - nome antichissimo, già
attestato in epoca romana,
ad esempio da Plinio il Vecchio {StoriaNaturale, IV, 27)-
rileviamo che
la dimensione nordica di Ulisse, il Navigatore per eccellenza,
s'inquadra a meraviglia
nel grande sviluppo della navigazione, indubbiamente favorito
dall"'optimum
climatico", che si registrò durante l'età del bronzo nordica: i
versi di
Omero dedicati all'abilità marinara dei Feaci ne sono una
precisa testimonianza.
Anche la durata del viaggio in zattera da Ogigia alla Selleria,
diciassette
giorni "traversando l'abisso", non è affatto irragionevole: il
comandante Bligh,
abbandonato in mare su una scialuppa dopo l'ammutinamento del
"Bounty",
riuscì a raggiungere Timor in quaranta giorni, dopo un percorso
di 3.600 miglia
nautiche, pressoché decuplo rispetto a quello di Ulisse dalle
Färöer alla costa
norvegese. Verificheremo in seguito che le avventure
dell'Odissea in questo
scenario nordatlantico trovano molti significativi riscontri:
esse forse costituiscono
l'estremo ricordo dei racconti - spesso gonfiati da
esagerazioni e paradossi,
ma anche arricchiti da spunti leggendari e da suggestive
metafore - dei
marinai dell'età del bronzo e delle loro rotte attraverso il
mar di Norvegia, allorché
il clima era molto più favorevole di quello attuale.
Potremmo ancora chiederci in qual modo i marinai della
preistoria riuscissero
a mantenere la rotta per centinaia di miglia in mare aperto
senza l'aiuto
della bussola. Al riguardo osserviamo che popoli come i
Polinesiani, considerati
relativamente "primitivi", da tempi immemorabili hanno
viaggiato da un
arcipelago all'altro nell'immensità del Pacifico, percorrendo
distanze incredibili:
atal fine essi, come ci ricorda il prof. Romano nel suo saggio
Astronomia
nell'isola di Pasqua15, sfruttavano essenzialmente una
conoscenza accuratissima
delle posizioni delle stelle, acquisita dai giovani dopo molti
anni di addestramento.

15 Rapa Nui, pag. 193 sgg.

Il loro perfetto corrispondente è l'Ulisse che pilota la sua


zattera
da Ogigia alla Selleria, con l'occhio continuamente rivolto
alle principali costellazioni
ed in particolare all'Orsa. Tuttavia
la navigazione con le stelle presuppone che almeno durante la
buona stagione una certa percentuale delle notti
sia abbastanza serena da consentire una sufficiente visibilità:
al riguardo, durante
la prima età del bronzo, fin quando è durato l'"optimum
climatico", anche
gli infidi mari settentrionali erano attraversabili senza
troppi problemi (infatti, è nel corso di un altro periodo
climaticamente favorevole che i Vichinghi,
dopo aver colonizzato l'Islanda e la Groenlandia, attorno
all'anno 1000 della
nostra èra riuscirono a raggiungere le coste americane).
Infine, soffermiamo per un attimo l'attenzione sulla zattera
che Ulisse si
costruisce seguendo le indicazioni di Calipso: "Suvvia, grossi
tronchi tagliando
col bronzo connettili/ in zattera larga; poi largo castello
disponivi,/ alto, che
possa portarti sul mare nebbioso" (Od. V, 162-164). Nei versi
successivi il poeta
si dilunga alquanto sulle varie fasi della sua costruzione (V,
243-262) e, al
riguardo, di notevole interesse ci sembra il fatto che essa
"non ha precedenti nel
mondo mediterraneo, ma è identica a quelle incise sulle rupi
della Svezia"16.
Inoltre, come afferma lo Schuchhardt, "Omero (...) descrive la
zattera a piano
doppio che Ulisse si fabbrica da Calipso in modo tale che
finalmente ci fa capire
come fossero fatte le imbarcazioni delle nostre incisioni
nordiche"17.

16 Romualdi, Gli Indoeuropei, pag. 98


17 Romualdi, Gli Indoeuropei, pag. 98 (citato da
Alteuropa)

Ma ormai è tempo di lasciare la terra dei Feaci: dopo aver


ritrovato Ogigia
e la Selleria, è giunto il momento di cercare Itaca e il suo
arcipelago, su cui
Omero ci dà molte e dettagliatissime indicazioni, tutte
estremamente coerenti
tra loro, ma che sono sempre apparse incongruenti rispetto alla
realtà geografica
e topografica delle Isole Ionie. Esse invece troveranno
straordinarie conferme
in questo contesto nordico, individuato a partire dal Defacie
plutarcheo,
che già ci ha dato tanti significativi riscontri.
II.

DULICHIO, SAME E ZACINTO

"Abito Itaca aprica: un monte c'è in essa,/ il Nerito sussurro


di fronde, bellissimo:
intorno s'affollano/ isole molte, vicine una all'altra,/
Dulichio, Same
e la selvosa Zacinto./ Ma essa è bassa, l'ultima là, in fondo
al mare,/ verso la
notte ("pròs zòphon"): l'altre più avanti, verso l'aurora e il
sole" (Od. IX, 21-26).
Dunque l'Itaca di Omero si trovava all'estremità occidentale di
un arcipelago
dalla fisionomia molto ben definita, con tre isole maggiori -
Dulichio,
Same e Zacinto - ed altre più piccole. Esso doveva essere di
notevole rilievo,
se il Catalogo delle navi del II libro dell''Iliade afferma che
da lì partirono per
Troia due condottieri: Mege "simile ad Ares", che guidava
"quelli di Dulichio
e delle sacre Echinadi" (Il. II, 625), e Ulisse, che "conduceva
i Cefalleni magnanimi,/
quelli che avevan Itaca e il Nerito, sussurro di fronde;/ e
abitavan
Crocilea e l'aspra Egilipa,/ e avevan Zacinto e abitavano
Samo,/ e possedevan
la costa e le rive di faccia abitavano" (Il. II, 631-635).
Notiamo subito che il confronto tra le indicazioni dell'
Odissea e la collocazione
dell'"Itaca" nel mar Ionio - identificata con l'isola di Ulisse
almeno
sin dal V secolo a.C. - già di primo acchito rivela enormi
incongruenze: l'Itaca
greca (Tav. XII) non è affatto l'isola più occidentale del suo
arcipelago;
quanto a Dulichio, non ve ne è alcuna traccia. Però Dulichio,
l'isola "lunga"
("dolichòs", aggettivo di uso corrente nel linguaggio omerico),
in entrambi i
poemi appare come una realtà geografica concreta e tutt'altro
che irrilevante,
citata due volte nell'Iliade e ben dieci nell'Odissea: da essa
e dalle vicine Echinadi
partirono per la spedizione a Troia ben quaranta navi (Il. II,
630), mentre
ad esempio il contingente di Itaca, Same e Zacinto, capitanato
da Ulisse, ne annoverava
appena dodici (Il. II, 637). Doveva trattarsi insomma di
un'isola dalle
proporzioni ragguardevoli, come ci viene confermato da una
precisa indicazione dell'Odissea, secondo cui da Dulichio
arrivarono 52 pretendenti alla
mano di Penelope, contro i 24 di Same, i 20 di Zacinto e i 12
della stessa piccola
Itaca (Od. XVI, 247-251 ): inoltre, Omero la menziona sempre
per prima.
Eppure, nel mondo mediterraneo non si è mai riusciti a
localizzarla.
Neil''identikit dell'arcipelago descritto da Omero vi è insomma
una "nota
caratteristica" inconfondibile: una delle tre isole principali
- anzi, presumibilmente
la maggiore, a giudicare dal numero delle navi e dei
pretendenti presenta
una forma allungata, tipica al punto da riflettersi nel suo
stesso nome.
L'Odissea parla poi di uno "stretto" ("porthmòs"; Od. IV, 671)
che divide Same,
una delle altre due, da Itaca, la più occidentale; inoltre tra
Same ed Itaca
si trova interposta un'isola più piccola, chiamata Asteride
(IV, 845-846), dove
i pretendenti si
appostarono per tendere un agguato a Telemaco. L'insieme di
tutte queste informazioni, perfettamente coerenti tra loro
nell'ambito sia dell'Odissea che dell'Iliade (la quale, pur
ambientata in tutt'altro contesto, ha occasione
di "fotografare" Itaca con le isole adiacenti nel Catalogo
delle navi), individua l'aspetto dell'arcipelago quasi come
un'impronta digitale: però nei
dintorni dell'Itaca greca non esiste nulla di simile, e nemmeno
in tutto il Mediterraneo.
Ciò
premesso, ricordando che avevamo localizzato nella Norvegia
meridionale
quella terra Scheria da dove Ulisse fu riaccompagnato per nave
direttamente
ad Itaca, senza scali intermedi, puntiamo l'attenzione sui
raggruppamenti
di isole situati a non troppa distanza dalla costa norvegese.
Osservando
in particolare quelli della vicina Danimarca, possiamo notare
subito che in tale
area, e precisamente lungo la costa meridionale di Fionia (la
seconda per
grandezza delle isole danesi), si estende l'arcipelago del Sud
Fionia, comprendente
tre isole maggiori (ma di dimensioni molto inferiori a quelle
della
stessa Fionia): Langeland, Ærø e Tåsinge, la prima delle quali
ha una forma
molto allungata. Esse racchiudono una serie di isole più
piccole che si susseguono
allineate a breve distanza Puna dall'altra, in direzione da
sud-est verso
nord-ovest, fino al promontorio di Horneland, che delimita
l'arcipelago verso
occidente. Già fin d'ora possiamo constatare che la struttura
generale del Sud
Fionia coincide esattamente con quella dell'arcipelago di
Itaca; ora vedremo di
confrontare una ad una le omeriche Dulichio, Same e Zacinto con
Langeland, Ærø e Tåsinge (Tav. IV).
Occupiamoci subito di Dulichio, la misteriosa isola "lunga". La
identifichiamo
immediatamente: infatti Langeland in lingua danese significa
proprio
"lunga" ("lange"), nome che evidentemente allude alla sua forma
molto caratteristica,
simile a quello di una clava allungata, col manico rivolto
verso l'alto
(è dunque un caso di toponimo il cui significato risulta di
fatto "tradotto" dal
greco di Omero in una lingua moderna). Inoltre essa è, proprio
come ci aspettavamo,
la più grande del gruppo: si estende in lunghezza per oltre 50
km, con
una larghezza massima di circa 10. Per inciso, in tutto il
Baltico esiste solo
un'altra isola allungata di dimensioni considerevoli: si tratta
di Öland, situata
davanti alla costa svedese, la quale però non fa parte di un
arcipelago; a suo
tempo ne verificheremo l'identità con l'omerica Eubea.
E ora la volta di identificare Same: essa, secondo l'Odissea,
era collocata
vicino ad Itaca, la più occidentale del gruppo; ora, un'altra
delle tre isole
maggiori, Ærø, effettivamente si trova accanto all'ultima isola
verso ovest
(chiamata Lyø). Non solo: davanti al braccio di mare tra le due
- "nello stretto
fra Itaca e Same" (Od. IV, 671 ; XV, 29) - troviamo la piccola
Avemakø, la quale
pertanto coincide con quell'altra isola "non grande" (IV, 846),
Asteride, situata
"in mezzo tra Itaca e Same" ("messegys Ithàkes te Sàmoiò"; IV,
845), dove
si appostarono i pretendenti.
A questo punto, se Dulichio corrisponde a Langeland e Same ad
Ærø,
l'omerica Zacinto non può che essere correlata con Tåsinge, la
terza delle isole
maggiori: non è neanche necessario prendere in considerazione
l'evidente assonanza
tra i due nomi.
Insomma il dettagliato identikit dell'arcipelago di Itaca, che
avevamo
tracciato sulla base delle indicazioni di Omero, ha un
riscontro estremamente
preciso in questo gruppo di isole danesi, non molto distanti da
quella terra
Scheria da dove Ulisse venne riaccompagnato ad Itaca. Avremo
ben presto modo
di verificare che sia la loro posizione nell'ambito del mondo
omerico, sia
le caratteristiche topografiche e morfologiche dell'"Itaca"
danese, risultano
anch'esse in perfetto accordo con quanto descritto nei due
poemi.
Su Dulichio l'Iliade ci fornisce un'altra preziosa
informazione, che, oltre
a confermarci quanto già acclarato, ci dà la chiave per
risolvere un altro dei
grandi "rebus" della geografia omerica: la questione del
Peloponneso. Infatti,
come vedremo più approfonditamente in un successivo capitolo,
entrambi i
poemi ci descrivono un Peloponneso sempre pianeggiante, mentre
quello greco
è spiccatamente montuoso; per di più quest'ultimo, a dispetto
del suo stesso
nome, che letteralmente significa "Isola di Pelope", non è
nemmeno un'isola.
E insomma evidente che esso rappresenta il corrispondente
mediterraneo,
sia pure imperfetto, di un "prototipo" che doveva essere
un'isola molto vasta
- sede di alcuni tra i principali regni achei, quelli di
Agamennone, Menelao
e Nestore, oltre all'Arcadia e all'Elide - situata ad oriente
rispetto ad Itaca: infatti
la nave di Telemaco vi arriva spinta dallo Zefiro, il vento
dell'ovest.
Ora, secondo l'Iliade, Dulichio era situata "di fronte
all'Elide al di là del
mare" (Il. II, 626): l'Elide è una regione del Peloponneso,
davanti a cui dunque
si trovava la "Dulichio" omerica, che abbiamo appena
identificato con
Langeland. Ma quest'ultima giace di fronte alla grande isola di
Sjælland, la
maggiore della Danimarca - anzi, di tutto il mar Baltico -
situata a nord-est della
stessa Langeland e dell'arcipelago del Sud Fionia: ecco dunque
la vera "Isola
di Pelope", pianeggiante come ce la descrivono entrambi i
poemi. E basta
un'occhiata alla carta geografica per verificare che la
posizione del Peloponneso
greco, nella parte sud-occidentale del mar Egeo (Tav. XII),
corrisponde
quasi esattamente a quella di Sjælland nel mar Baltico (Tav.
I): da qui il nome
che gli Achei discesi nel Mediterraneo vollero attribuirgli, a
costo di forzare il
concetto di "isola".
Dunque è nell'isola Sjælland che Telemaco si recò per cercare
notizie del
padre, navigando da Itaca verso est, diretto a Pilo (la città
del vecchio re Nestore,
che aveva partecipato anche lui alla guerra di Troia). La
direzione ce la
indica il vento che spinge la nave, "Zefiro acuto stridente,
urlante sul livido mare"
(Od. II, 421), e quanto a Pilo - la cui posizione sin
dall'antichità ha costituito
uno dei più famosi rompicapo della geografìa omerica - vedremo
che, in base al Catalogo, essa si trovava ubicata sulla costa
occidentale di Sjælland, ad
oriente dell'arcipelago del Sud Fionia: appare dunque del tutto
ragionevole
che proprio Pilo sia stata scelta da Telemaco come prima tappa
del suo viaggio
in questo inedito "Peloponneso". Quanto a quel terribile vento
di Zefiro
"urlante sul livido mare" ("kelàdont'epì oìnopa pònton"), si
tratta di uno degli
innumerevoli esempi della caratterizzazione spiccatamente
nordica della meteorologia
omerica. Non solo: la sua direzione, da ovest verso est,
risulta essere
la più adatta proprio nel contesto danese, mentre in quello
greco una nave a vela
diretta da Itaca a Pilo troverebbe senz'altro più indicato il
vento del nord, come
quello che Atena aveva inviato ad Ulisse per favorire il suo
avvicinamento
alla terra dei Feaci durante la tempesta (Od. V, 385).
Da Pilo Telemaco proseguì verso Sparta per via di terra,
viaggiando rapidamente
con un cocchio attraverso una "pianura "(pedìon") ferace di
grano"
(Od. III, 495), che è sempre stato problematico collocare nella
tormentata orografia
della Grecia; successivamente, dopo essere stato ospite del re
Menelao
-"signore della larga pianura" ("pedìoio euréos"; Od. IV, 602):
ecco un'altra
conferma che siamo ben lontani dalle asprezze del Peloponneso
greco - ritornò
a Pilo, dove nel pomeriggio s'imbarcò per rientrare ad Itaca:
"Costeggiarono
Cruni e Calcide belle correnti,/ tramontò il sole, tutte le vie
si oscuravano./
La nave doppiò Fea, spinta dal vento di Zeus,/ e l'Elide bella
passò, dove
comandan gli Epèi./Quindi fra l'isole aspre la spinse
Telemaco..." (Od. XV,
295-299). Ancora adesso in quel mare ritroviamo il nome
dell'isola Fejø; quanto
a "Calcide", sia per il nome che per la posizione è forse
identificabile con
l'attuale cittadina danese di Halsskov, situata su un
promontorio della costa
occidentale di Sjælland rivolto verso l'estrema punta
settentrionale di Dulichio-Langeland,
da cui dista appena una decina di miglia nautiche: pertanto
Telemaco,
proveniente da Pilo, scendendo con la sua nave lungo la costa
del "Peloponneso"
dovette effettivamente passarvi davanti prima di puntare su
Itaca,
l'ultima isola verso occidente.
Abbiamo così ritrovato, utilizzando soprattutto le indicazioni
dell'Odissea, l'intero sistema di isole comprendente,
procedendo da ovest verso est,
l'arcipelago di Itaca, Dulichio e il Peloponneso; come vedremo
più oltre, questa
stessa sequenza viene ripercorsa, stavolta da est a ovest, nel
Catalogo delle
navi dell' Iliade (il che dimostra che la scansione di
quest'ultimo lungo le coste
baltiche avviene in senso antiorario). Pertanto l'arcipelago di
Itaca può essere
considerato uno snodo cruciale della geografia omerica: esso
infatti rappresenta
un esemplare caso di convergenza tra le indicazioni
dell'Odissea, quelle dell'Iliade e la realtà fisica di
quest'area del Baltico.
A fronte di ciò stanno invece le macroscopiche incongruenze
della collocazione
mediterranea, dove, conviene ancora ricordarlo, Itaca non è
affatto l'isola
più occidentale, Dulichio,
l'"isola lunga", è inesistente, Samo sta datutt'altra parte e
il Peloponneso, oltre ad essere tutt'altro che pianeggiante,
non è nemmeno un'isola. Invece, il perfetto incrocio tra i dati
ricavati dai due poemi,
una volta calati nel giusto contesto geografico, ci consente di
verificare
con altissima probabilità l'esattezza della ricostruzione di
questo puzzle plurimillenario.
In
ogni caso, la corrispondenza tra le descrizioni di Omero e le
isole del
Sud Fionia è così perfetta che, anche se fosse stata
riscontrata per caso invece
che partendo dalla precisa indicazione di Plutarco, avrebbe
comunque costituito
senz'altro un indizio estremamente significativo a favore della
localizzazione
nordica del mondo omerico. Oltretutto non solo nel
Mediterraneo, ma in tutto
l'orbe terracqueo non esiste alcun gruppo di ìsole che
corrisponda alle concordi
indicazioni dei due poemi altrettanto bene quanto questo
arcipelago della
Danimarca.
E adesso, dopo aver verificato tutte le corrispondenze relative
alla struttura
dell'arcipelago e delle sue tre isole maggiori, è tempo che
anche noi, sulle
orme di Telemaco, ci volgiamo ad Itaca, la quale si trova
appunto "ultima là,
in fondo al mare,/ verso la notte: l'altre più avanti, verso
l'aurora e il sole"
(Od. IX, 25-26). Ora, la conformazione del gruppo del Sud
Fionia è tale da non
lasciare adito a dubbi: l'ultima isola verso occidente, al di
là di Ærø-Same e di
Avernakø-Asteride, quasi a ridosso del promontorio che chiude
l'arcipelago, è inequivocabilmente individuata: attualmente
essa si chiama Lyø.
Pertanto ora concentreremo l'attenzione su quest'isola per
verificarne la
congruenza con le indicazioni che Omero ci fornisce su Itaca:
infatti non solo
il gruppo del Sud Fionia combacia in ogni particolare con le
caratteristiche
fornite da Omero, ma anche la posizione di Lyø rispetto alle
isole adiacenti
coincide esattamente con le indicazioni dell'Odissea riguardo
alla patria di
Ulisse; quel che ci resta ancora da verificare è se tale
corrispondenza sussista
anche nella topografìa.
Prima però vediamo come si presenta la situazione dell'Itaca
greca, o
Thiaki, sotto questo profilo: in proposito il prof. Finley è
estremamente esplicito:
"Si può dimostrare che persino i particolari topografici
dell'isola di Itaca (...)
sono un guazzabuglio; in diversi punti essenziali vanno bene
per la vicina isola
di Leucade, ma per Itaca sono affatto impossibili"18. Inoltre
"in quanto alle identificazioni
con le località descritte nei poemi omerici, se lasciano
perplessi quelle
tentate per Thiaki, non sono più convincenti quelle addotte per
Leucade"19.

18 Finley, Il mondo di Odisseo, pag. 17


19 Enciclopedia Italiana Treccani, voce "Itaca"
Insomma alla povera Itaca del mar Ionio, così irrimediabilmente
diversa
dall'originale, rimane soltanto il nome della gloriosa patria
di Ulisse, che evidentemente gli Achei discesi nel Mediterraneo
tennero a "salvare" (forse in
grazia della fama conferitale da una primitiva versione dell'
Odissea!), mentre
quelli di altre ìsole ben più grandi, come Same e Dulichio,
sono andati perduti.
In verità, il nome "Samo" (così viene chiamata nell'Iliade, II,
634, l'isola attigua
ad Itaca, corrispondente alla "Same" dell''Odissea) lo
ritroviamo in un'isola
dell'Egeo, assai distante dall'arcipelago dello Ionio; invece
la denominazione
di "Dulichio" si è persa del tutto: era evidentemente troppo
legata alla
forma particolare dell'"isola lunga" per poter essere trasposta
altrove.
A questo punto non ci rimane che confrontare le caratteristiche
topografiche
e descrittive di Lyø con quelle tramandateci dall' Odissea, che
è ambientata
per una buona parte ad Itaca ed è pertanto ricchissima di
dettagli: questo,
però, converrà farlo direttamente "in loco". E insomma giunto
il momento di
partire per la Danimarca e di recarci a Lyø.
III.

ITACA

All'imbarco di Fåborg, la cittadina di Fionia dove si prende il


ferry-boat
per Lyø, l'attesa non è lunga perché il piccolo traghetto che
compie il tragitto
circolare Fåborg-Lyø-Avernakø-Fåborg parte esattamente ogni due
ore: la traversata,
piacevolissima, dura quaranta minuti e consente di osservare
alcune
delle isole più occidentali dell'arcipelago, le quali via via
sfilano, restando in
vista l'una dell'altra.
Ciò conferma il realismo con cui VOdissea descrive il criminale
piano di
Antinoo per sbarazzarsi di Telemaco, che stava rientrando ad
Itaca dal Peloponneso:
"Datemi una nave veloce e venti compagni/ che vada a tendergli
agguato
e resti a spiarlo/ nello stretto fra Itaca e Same" (Od. IV,
669-671). Essi,
dunque, si appostarono nei pressi di Asteride, dove "tutto il
giorno le spie sedettero
sulle cime ventose/ sempre alternandosi" (Od. XVI, 365-366): in
effetti,
Avernakø ha due modesti rilievi, uno nella parte occidentale e
l'altro sul lato
opposto, dalle cui sommità si può agevolmente controllare il
transito delle navi
sia nello stretto fra Lyø-Itaca ed Ærø-Same, sia nel braccio di
mare rivolto
verso l'adiacente costa di Fionia (di cui Omero non ci dice mai
il nome
"acheo", almeno in apparenza; ma esso, come talora accade,
potrebbe essere
bene in vista e magari celarsi dietro un sottile equivoco). Se
Telemaco non
avesse prudentemente viaggiato di notte - glielo aveva
suggerito la dea Atena:
"Tutta la notte naviga!" (Od. XV, 34) - non avrebbe avuto
scampo: la sua nave
di giorno sarebbe stata inesorabilmente intercettata e, forse,
oggi non avremmo un'Odissea su cui discutere.
Una volta sbarcati a Lyø, se non si ha l'auto al seguito il
modo migliore di
visitarla è quello di noleggiare una bicicletta da Erik, dietro
l'imbarcadero. In
tal modo è possibile raggiungere agevolmente tutti i suoi capi,
tenendo presente
che non vi è una strada che ne segua integralmente il
perimetro: invece l'isola,
che ha una superficie di 6 kmq (un po' più della metà di
Capri), è dotata
di una rete di vie radiali, convergenti verso il centro, là
dove attualmente sorge
il paese, che è un piccolo villaggio tipico danese, molto
grazioso (Tav. V).
Lyø ha belle spiagge e bei panorami; l'interno è ben coltivato,
a grano e
ortaggi; non manca l'allevamento del bestiame e spesso si
incontrano piccoli
stagni che alloggiano nutrite famiglie di papere e segnalano
l'abbondanza di acqua:
a questo proposito l'Odissea accenna alla presenza di "pozzi
perenni"
(XIII, 247) e in particolare cita la fonte Arethusa (XIII,
408).
L'isola è "bassa", proprio come la definisce Omero: "essa è
bassa ("autè de chthamalè"), l'ultima là, in fondo al mare/
verso la notte" (Od. IX, 25-26).
Per inciso, già questi due versi bastano ad escludere l'Itaca
greca, che certamente
non è né bassa - anzi, è molto montuosa - né la più
occidentale. Tuttavia
il suolo di Lyø non è piatto, come ben ci si accorge girando in
bicicletta (per
inciso, è probabile che le bici di Erik risalgano anch'esse
all'età del bronzo.. .)' non a caso Omero, oltre che "bassa",
la definisce anche "aspra" ("trecheìa", Od.
IX, 27; XIII, 242). Già nella parte orientale notiamo un
rilievo, che ci ricorda
"il Nerito sussurro di fronde, bellissimo" (Od. IX, 22); esso,
nonostante l'altezza
modesta, con la sua copertura di alberi non doveva passare
inosservato
nella piatta orografìa delle terre baltiche (a titolo di
riferimento, una delle cime
più alte della Danimarca, ovvero l'Himmelbjerget, il "monte del
cielo",
misura appena 163 metri; il Frøbjerg, con i suoi 131 metri, è
il monte più importante
di Fionia, dove una catena morenica nel sud-ovest genera un
modesto
corrugamento del terreno, alto una quarantina di metri,
pomposamente denominato
"Alpi Fionie").
Lungo la sua costa orientale, Lyø presenta una sorta di
sporgenza con due
punte, vagamente a forma di becco d'uccello, che delimitano una
piccola baia:
questa potrebbe identificarsi con il "porto sacro a Forchis, il
Vecchio del mare,/
nell'isola d'Itaca; due punte s'avanzano/ sporgendo a picco, e
la baia proteggono"
(Od. XIII, 96-98); qui i Feaci approdarono e lasciarono Ulisse
addormentato
sulla spiaggia. E fu da questo punto che Ulisse vide e
riconobbe il
suo "Nerito, vestito di boschi" (XIII, 351).
Ma ora spostiamoci sul lato opposto di Lyø (che è larga
all'incirca quattro
chilometri): verso la sua estremità occidentale sorge un
dolmen, risalente
al primo Neolitico, formato da alcune pietre poste
verticalmente che ne sorreggono una, più grande, in posizione
orizzontale: il suo nome, Klokkesten,
"Pietra della Campana", si riferisce al suono che emette se
viene colpito con
un sasso in un punto particolare (non facile da trovare). Era
già antico al tempo
di Ulisse, nell'età del bronzo: pertanto anche a quell'epoca
doveva rappresentare
un importante punto di riferimento per la toponomastica locale.
Esso rappresenta la prova dell'antichità degli insediamenti
umani nell'isola.
Non solo: appena Ulisse sbarca ad Itaca, subito si dirige verso
la capanna
del suo fido porcaro Eumeo, dietro espresso suggerimento di
Atena: "Lo troverai
tra le scrofe, seduto: pascono quelle/ presso la Pietra del
Corvo" (Od.
XIII, 407-408); ora, sarebbe estremamente suggestivo
identificare tale "Pietra"
con l'antico dolmen di Lyø: anche il suo nome greco "Kòrakos
Pétre" (a cui oltretutto
non manca una vaga assonanza con "Klokkesten") potrebbe
alludere,
sia semanticamente che onomatopeicamente, alla sonorità della
roccia.
Questa collocazione di Eumeo verso l'estremità occidentale di
Lyø è d'altronde
perfettamente congruente con un'altra indicazione dell'
Odissea, che allude
"all'orlo estremo dei campi, dove ha casa il porcaro" (XXIV,
150). Da qui
si può risalire al luogo dell'approdo di Mente, capo dei Tafi,
il quale all'inizio
del poema sbarca ad Itaca "dalla parte dei campi, fuori città,/
nel porto Reitro,
sotto il Neio selvoso" (I, 185-186): infatti da quel lato la
costa verso sud si
incurva a formare una specie di larga insenatura, idonea
all'attracco; in corrispondenza,
verso l'interno sorge una modesta altura, che presumibilmente
si
identifica con l'antico Neio. Nella stessa zona, sempre "fra i
campi" (I, 190),
si doveva trovare il terreno del vecchio Laerte, citato da
Mente subito dopo l'indicazione
del suo approdo.
Si va così delineando l'antica fisionomia di Lyø-Itaca: l'isola
era boscosa
verso est e nella zona centrale (da qui l'accenno alla "selva
d'ogni specie di
piante": XIII, 246), mentre era coltivata - ecco i "campi" -
nella parte rivolta
a occidente. Quest'ultima verso nord termina con una sporgenza,
protesa verso
Fionia: ecco la "prima punta d'Itaca" ("pròte akté Ithàkes",
XV, 36), dove
Telemaco, tornando da Pilo dopo l'avventurosa traversata
notturna, sbarcò da
solo (mentre i suoi compagni proseguirono con la nave verso la
città) per recarsi
alla capanna di Eumeo (XV, 555), situata per l'appunto da quel
lato dell'isola,
nei pressi del dolmen. Invece Ulisse, lasciato dai Feaci presso
la baia
di Forchis, sul lato opposto, "dal porto salì l'aspro sentiero/
verso le selve, di
cima in cima, là dove Atena/ diceva che il buon porcaro curava
i suoi beni"
(Od. XIV, 1-3); insomma per raggiungere l'abitazione di Eumeo
fu costretto a
passare per il bosco e ad attraversare a piedi tutta l'isola,
da est verso ovest: una
passeggiata di alcuni chilometri.
Quanto al porto principale di Itaca, è ragionevole supporre che
esso fosse
situato sulla costa settentrionale, più o meno all'altezza
dell'incavo generato
dal protendersi della "prima punta": è infatti il punto più
riparato e nel contempo
più idoneo per i collegamenti con la prospiciente costa di
Fionia (anche
l'attuale approdo dei traghetti è situato su questo lato);
inoltre, su quel percorso
vi erano anche allora dei "traghettatori" ("porthmèes", Od. XX,
187).
Accanto al porto si stendeva il centro abitato; anzi,
probabilmente città e
porto costituivano un tutt'uno, come si arguisce da svariati
passaggi dell'Odìssea: ad esempio, "era fra i campi Telemaco e
la nave in città/ aveva fatto tornare"
(XVI, 330-331). E dalla casa di Ulisse, situata anch'essa
presso la città,
"Anfinomo, voltatosi al mare,/ vide la nave già dentro il porto
profondo,/ e vide
i compagni imbrogliare le vele e dar mano ai remi" (XVI, 351-
353). Si tratta
della nave di Antinoo, tornata con le pive nel sacco dopo il
mancato agguato
alla nave di Telemaco (la quale, viaggiando di notte, era
riuscita a forzare il
blocco ed a rientrare indenne ad Itaca poco prima dei suoi
nemici).
Anche Eumeo assistette al ritorno della nave di Antinoo, però
da un altro
punto di osservazione: "Già sopra il borgo, dov'è la collina di
Hermes,/ mi trovavo
tornando, e un'agile nave ho visto rientrare/ nel nostro porto"
(XVI, 471-473).
Questa frase, oltre a confermare la coincidenza della città con
il porto, ci
consente di identificare la "collina di Hermes" con un modesto
rialzo situato
alle spalle della costa settentrionale, lungo il sentiero
percorso dal porcaro diretto
verso la sua capanna. Inoltre, poiché Eumeo stava tornando dopo
aver
incontrato Penelope, la posizione di quell'altura ci fa arguire
che la casa di
Ulisse doveva trovarsi nella parte orientale della città, sulla
destra rispetto al
porto, in direzione dell'attuale banchina di attracco dei
traghetti. E, appena un
po' spostato verso l'interno, subito fuori del centro abitato,
si incontrava "il fonte/
murato dalla bella corrente, dove i cittadini attingevano" (Od.
XVII, 205-206):
qui Ulisse ed Eumeo, diretti verso la casa, incontrarono il
capraio Melanzio,
il quale, dopo una vivace discussione, "li oltrepassò, che
andavano piano,/
andò avanti, e molto in fretta giunse al palazzo del re" (XVII,
254-255).
Per l'archeologia sarebbe una grande impresa ritrovare i resti
di quel "fonte murato"
("kréne tykté") della prima età del bronzo.
Ed anche allora, come adesso, il nome del borgo di Itaca
coincideva con
quello dell'isola: infatti, dopo che Telemaco era sbarcato e si
stava dirigendo
verso la capanna del porcaro, il poeta ci dice che "intanto in
Itaca era spinta la
nave" (XVI, 322). Al riguardo, l'Odissea ci fornisce un
particolare curioso:
l'equipaggio percorse l'ultimo tratto del viaggio, dalla "prima
punta" fino al
porto, a marcia indietro: "...E indietro remando ("anòsantes")
navigavano alla
città" (Od. XV, 553). L'utilità di questa manovra in
retromarcia per entrare nel
porto di Itaca, da parte di una nave che in precedenza era
approdata alla "prima
punta", emerge chiaramente dalla ricostruzione della posizione
della città sulla mappa di Lyø (Tav. V).
Inoltre, ciò ci riconduce ad una caratteristica strutturale
tipica delle antiche
navi scandinave, riportata da Tacito: "La foggia delle navi in
ciò differisce dalle
nostre, che entrambe le estremità sono costituite da una prua,
dunque sempre disponibile
all'approdo (...) e, a seconda delle circostanze, il remeggio
si può cambiare
da una parte o dall'altra" ("et mutabile, ut res poscit, hine
vel illinc remigium", Germania, 44, 2). Ce ne dà un riscontro
archeologico la cosiddetta barca
di Alsen, la più antica imbarcazione nordica giunta fino a noi,
databile attorno al
IV secolo a.C.20.

20 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 212

Questo ben si accorda col fatto che spesso le navi vengono da


Omero definite "amphiélissai" (ad esempio, in Il. XVIII, 260 e
Od. VI, 264), cioè "curve da ambo le parti"21. Per inciso, con
questo discorso è coerente il fatto che,
secondo Ylliade, le navi della flotta achea erano state
spiaggiate sul lido davanti
a Troia di poppa (Il. XIV, 32), presumibilmente per agevolarne
una rapida ripartenza
in caso di necessità (proprio come usano fare quegli
automobilisti previdenti
che, dovendo parcheggiare trasversalmente alla strada,
preferiscono effettuare subito
la manovra in retromarcia e lasciano la macchina col muso in
fuori).

21 Voc. Rocci, voce "amphiélissos"


Tornando a Lyø-Itaca, osserviamo ancora che, in accordo con le
sue modeste
dimensioni, molto inferiori a quelle della sua corrispondente
mediterranea, negli episodi ambientati sull'isola l'Odissea non
menziona mai carri o
animali da tiro (invece il tragitto tra la città dei Feaci e la
foce del fiume viene
coperto da Nausicaa su un carro tirato da muli). Tutti gli
spostamenti dei protagonisti
vengono sempre effettuati a piedi: allorché Ulisse scende in
città, domanda
ad Eumeo un bastone "che m'appoggi, perché dicevate che la via
è sdrucciolevole" (XVII, 196). Lyø infatti, pur avendo rilievi
di altezza più che
modesta, come abbiamo visto non è mai pianeggiante.
Ad essa insomma si adatta perfettamente - con l'eccezione
dell'accenno al
vino, indice di un clima più temperato di quello attuale - la
splendida descrizione
che Atena fa ad Ulisse della sua terra, così differente dalle
aride isole greche: "E
aspra, e non adatta ai cavalli;/ non è troppo magra, ma non è
molto vasta./ Pure
c'è grano infinito, c'è vino/ e sempre la pioggia la bagna
(aie! d'òmbros échei") e guazza abbondante./ È buona nutrice di
capre e di bovi: e una selva/
c'è, di ogni specie di piante: pozzi perenni vi sono" (Od.
XIII, 242-247).
Riguardo in particolare al clima, per quanto a quell'epoca
dovesse essere
più temperato di quello attuale della Danimarca, non era certo
di tipo mediterraneo.
Ad esempio, la mattina dell'arrivo di Ulisse l'isola è
completamente
avvolta nella nebbia, al punto che "tutte le cose sembravano
estranee al sire,/
i lunghi sentieri, i comodi porti,/ le rocce inaccessibili e
gli alberi floridi" (Od.
XIII, 194-196), fin quando la dea Atena "disperse la nebbia: e
fu svelata la terra"
(XIII, 352). Abbiamo già incontrato questo fenomeno e lo
ritroveremo ancora
più volte: nel mondo descritto da Omero costituisce un aspetto
continuamente
ricorrente. Inoltre, il giovane che il nostro eroe incontra
subito dopo
l'approdo ha "un doppio mantello intorno alle spalle" (XIII,
224); quella sera
poi "la notte scese cattiva, senza luna: piovve Zeus/ tutta
notte e soffiava sempre
gran Zefiro, apportatore di pioggia" (XIV, 457-458); d'altronde
la piovosità
di Itaca non ci sorprende: la stessa Atena poco fa ci aveva
detto che "sempre
la pioggia la bagna". Non a caso il porcaro Eumeo, allorché
Ulisse si appresta
a dormire, "stese per lui presso al fuoco/ un giaciglio (...)/
Qui Odisseo
si sdraiò e lui gli mise addosso/ un manto soffice e largo"
(XIV, 518-521); e poco
dopo lo stesso Eumeo, prima di uscire all'aperto, si ripara
"con un mantello,
riparo dal vento, ben spesso" (XIV, 529). Lo stesso Ulisse il
mattino dopo
si lamenta: "Pessime sono le vesti che ho: non dovesse
ammazzarmi/ il gelo
dell'alba ("stìbe hypeoìe")!" (XVII, 24-25), concetto ribadito
poco dopo:
"Molto ha già camminato/ il giorno e presto, a sera, sarà
freddo assai" (XVII,
190-191).
In tal modo si comprende meglio la sollecitudine di Penelope
verso colui
che non ha ancora riconosciuto come suo marito, ma che
considera comunque
un ospite di riguardo: rivolta alle ancelle, ordina loro di
"stendere un letto,/
trapunte e panni e coperte vivaci,/ perché ben caldo arrivi
all'aurora" (XIX,
317-319); in effetti, "quando fu steso, Eurinome gli gettò
sopra un
mantello" (XX, 4). D'altronde, anche Telemaco dorme "avvolto in
un vello di pecora" (I,
443): inoltre, allorché egli e un suo ospite vanno a un
banchetto - al chiuso, all'interno
della reggia - "quando le ancelle li ebbero lavati e unti
d'olio,/ indossarono
tuniche sfolti mantelli ("chlaìnas oùlas")/ e usciti dai bagni
sui seggi
sedevano" (XVII, 88-90). Ora, abbiamo già notato che le vicende
connesse
col ritorno di Ulisse si svolgono durante la stagione della
navigazione: se ne deduce
da un lato che il clima dell'Itaca omerica non era
assolutamente quello di
un'isola greca, dall'altro che all'epoca in cui sono ambientati
i poemi omerici l'optimum climatico" doveva essere ormai in
declino.
Al riguardo, va anche sottolineato il fatto che in nessun punto
dei quattordici
libri che l''Odissea ambienta ad Itaca si trova mai il minimo
accenno al
sole o al suo calore.
Pertanto Lyø, oltre alla collocazione geografica univocamente
definita
nei poemi omerici, offre anche un contesto che sotto tutti gli
aspetti - morfologico,
topografico, climatico - è straordinariamente coerente con
l'Itaca descritta nell'Odissea: abbiamo visto quanto qui sia
agevole portare a termine
quel che invece risulta impossibile per l'Itaca dello Ionio,
vale a dire individuare
tutti i punti di riferimento indicati da Omero e ricostruire i
percorsi dei
vari personaggi. Le sue stesse dimensioni da un lato appaiono
sufficienti per
poterla considerare la sede di un condottiero come Ulisse - il
cui nome forse
riecheggia ancora in un toponimo rintracciabile verso
l'estremità meridionale,
"Kong Lauses Høj", cioè il Colle (o il tumulo) dì Re "Lauses":
che indichi il
sepolcro dell'antico re? - dall'altro risultano abbastanza
modeste da giustificare
un'amichevole proposta di Menelao, che avrebbe voluto donare
all'astuto alleato
una delle sue città "qui trasportandolo d'Itaca, con le
ricchezze, col figlio,/
con tutta la gente" (IV, 175-176).
Notiamo anche che, proprio in ragione di tali ristrettezze,
Telemaco non
ritiene opportuno accettare in regalo i cavalli che Menelao
vorrebbe offrirgli:
"In Itaca non strade larghe, non prati:/ capre alleva, e pure è
più cara di terra
che nutra cavalli./ Nessuna isola è buona pei carri o ricca di
prati/ di quante
poggian sul mare: Itaca meno di tutte" (IV, 605-608).
D'altronde la dimensione
agreste di Itaca è ben sottolineata dallo stupore che il
giovane nobile di campagna,
quale in effetti appare il figlio di Ulisse, prova al cospetto
della splendida
reggia dell'Atride, con "il lampeggiare del bronzo nella sala
sonora/ e l'oro
e l'ambra e l'argento e l'avorio./ Così fatta, dentro, sarà la
corte di Zeus,/ tanto
è infinita questa ricchezza: stupore mi prende guardando!" (IV,
72-75: l'ambra
è un tipico prodotto del Baltico; quanto all'avorio, nei paesi
settentrionali
in passato si commerciava quello prodotto dalle zanne di
tricheco).
In effetti, secondo l'Odissea, ad Itaca vi erano allevamenti di
maiali e di
capre, mentre sulla costa antistante Itaca Ulisse possedeva
"dodici mandrie" di
buoi
(XIV, 100), come viene poi confermato dall'arrivo alla reggia
di Itaca di un pastore di Ulisse: "Terzo tra loro venne
Filezio, capo d'uomini,/ sterile vacca
ai pretendenti portando e floride capre./ Traghettatori gli
avevan dato passaggio,
quelli che tutti/ gli uomini traghettano, chi va da loro" (XX,
185-188).
È suggestivo pensare che potrebbe essere stato proprio qualche
diretto antenato
degli attuali traghettatori di Fåborg, più di cento generazioni
fa, a dare un passaggio
al buon Filezio con la sua vacca, quella mattina del fatidico
giorno in
cui Ulisse compì la strage dei pretendenti.
Tornando per un attimo alle mandrie di proprietà del nostro
eroe, apriamo
qui un breve inciso per osservare che, fra le tante
sfaccettature del "multiforme"
personaggio, forse una delle più singolari è quella di essere
stato in
certo senso un precursore della moderna "mentalità
capitalistica": infatti "questo
gli parve più utile in cuore,/ ammucchiare ricchezze, molte
terre girando:/
perché fra gli uomini tutti molti guadagni/ sa fare Odisseo,
nessun altro mortale
può competer con lui" (Od. XIX, 283-286). Questo Paperone ante
litteram
- che, non a caso, nell'Iliade viene da Agamennone
sprezzantemente definito
"avido di guadagni" ("kerdaleòphron", Il. IV, 339) - "aveva
beni infiniti; nessuno
tanti ne aveva/ fra gli altri principi, non quelli della costa
bruna,/ e non
quelli d'Itaca; nemmeno venti principi insieme/ hanno tanta
ricchezza" (Od.
XIV, 96-99).
Dal passo precedente, in cui si accenna alla "costa bruna", e
da quanto detto
prima si deduce altresì la prossimità di Itaca ad una "costa"
(in greco "épeiros":
tra poco avremo modo di occuparci di questo vocabolo
apparentemente
privo d'importanza, dietro cui potrebbe invece nascondersi
qualcosa di molto
interessante). Essa senza dubbio corrisponde a Fionia, che
risulta contigua a
Lyø ed è di gran lunga più estesa rispetto a tutte le isole
circostanti, comprese
le maggiori dell'arcipelago: Tåsinge, Ærø e la stessa
Langeland. D'altronde,
dal Catalogo delle navi risulta che Ulisse guidò un contingente
proveniente anche dalla "costa" antistante le isole (Il. II,
635), cioè da Fionia, oltre che da
Same, Zacinto, Crocilea ed Egilipa. Riguardo a queste ultime
due (Il. II, 633),
identificabili con alcune piccole isole ad est di Lyø, sono
citate dall'Iliade, ma
totalmente ignorate dall'Odissea: è diffìcile dare una
spiegazione a questa singolare
dimenticanza, a meno di non voler supporre che nei lunghi anni
di assenza
di Ulisse esse fossero riuscite a sottrarsi al dominio di Itaca
e che un
eventuale aedo della corte itacese, ovvero colui che per primo
potrebbe aver
cantato le gloriose avventure del suo re, abbia preferito
sorvolare su tale sgradevole
argomento.
Per inciso osserviamo che, tenuto conto della maggiore
grandezza di Same
e Zacinto, tra le dodici navi della flotta di Ulisse forse solo
una proveniva
da Itaca, come suggerito anche dal verso che introduce
l'episodio di Polifemo:
"Voialtri ora aspettatemi, miei cari compagni;/ io con la mia
nave e la mia ciurma/andrò
ad esplorare queste genti..." (Od. IX, 172-174). E
poco dopo, allorché racconta l'avventura nell'isola di Circe,
il nostro eroe ci conferma che tutti
i marinai della sua nave provenivano dall"'aspra Itaca, dove
nacquero e crebbero"
(Od. X, 417).
A questo quadro si può aggiungere un altro particolare, che si
riferisce a
Femio, l'aedo della corte di Itaca, il quale "cantava il
ritorno degli Achei,/ che
penoso a loro inflisse da Troia Pallade Atena" (Od. I, 326-
327): si tratta di un
personaggio di un certo rilievo nell'Odissea, uno dei pochi che
scampano alla
strage; il suo nome si ritrova pressoché intatto in quello
dell'isola di Femø, situata
in prossimità di Lolland, a trenta miglia ad est di Fionia. E
poiché l'ambientazione,
così spiccatamente baltica, dei poemi omerici tende a suggerire
che la loro genesi risalga a cantori della stessa origine,
sarebbe suggestivo congetturare
che il primo aedo delle glorie di Ulisse sia stato proprio
costui, il suo
poeta di corte, che avrebbe così lasciato la propria "firma"
sul poema. In effetti,
il poeta dell' Odissea è tutto rivolto a glorificare la figura
dell'Itacese, a cui attribuisce
anche il merito della caduta di Troia attraverso l'assurdo
espediente
del cavallo di legno, di cui nell'Iliade non vi è traccia
alcuna. Invece il poeta
di quest'ultima, cioè il cantore delle gesta di Achille, sembra
voler attribuire
tutto il merito della caduta della città al suo eroe,
l'uccisore di Ettore, "perché Ettore salvava Ilio lui solo"
(Il. VI, 403); è un concetto che viene ribadito alla
fine del poema, nello straziante lamento di Andromaca sul corpo
senza vita
del suo uomo: "...La città intera/ sarà distrutta, perché tu
sei morto, il suo difensore;/
tu che la proteggevi, le spose salvavi e i piccoli figli" (Il.
XXIV, 728-730).
Riguardo al nome di Lyø, deriva probabilmente da "ly",
"rifugio". La sua
radice, quasi coincidente con quella di "Ulixes" sembra
rimandare ad un curioso
gioco di parole: in danese si ritrova nel sostantivo "ly", che
per l'appunto
significa "rifugio", e nel verbo "lyve", mentire; ma anche
nelle altre lingue
nordiche concetti simili si rendono con "ly" e "lyge" in
norvegese, con "lya"
(tana) e "ljuga" in svedese. In inglese, "to lie", "avere
dimora" o "giacere", è addirittura omofono di "lie",
"menzogna": ne nasce uno stravagante doppio
senso, su cui Shakespeare costruisce il macabro scambio di
battute della scena
iniziale, ambientata nel cimitero, del quinto atto dell'Amleto.
Peraltro in danese
"lys" vuol dire "luce" e, anche se un rapporto diretto con la
radice di Lyø appare filologicamente problematico, questo ci dà
comunque lo spunto per soffermarci
su un aggettivo che nell'Odissea viene spesso associato al nome
di Itaca:
"eudeielos", cioè "aprica", "illuminata", "splendente", "ben
visibile". Ciò a sua volta può aiutarci a ritrovare il senso
del greco "Ithàke", riconducendolo
al verbo "aìthein", cioè "ardere", "bruciare", "risplendere"
(in merito alla
perdita della A iniziale, ne abbiamo un esempio ben documentato
nel vocabolo
"itharòs", derivato direttamente da "aìthein"; quanto
alla desinenza "-ke",
femminile di "-kos", è tipica degli aggettivi). Insomma il nome
"Itaca" potrebbe significare "la Luminosa" e l'espressione
"Ithàken eudeìelon" (Od. II,
167; IX, 21) si potrebbe rendere con "la Luminosa splendente"
(o "ben visibile":
notiamo l'appropriatezza dell'aggettivo che Omero accompagna al
nome
di questa "Ile Lumière" preistorica). Che tale appellativo
abbia tratto origine
dai fuochi accesi di notte, "ben visibili" sia dalla costa
antistante che dalle navi
di passaggio? Infatti, come ci attesta il dolmen di Lyø, essa
era abitata già nell'età della pietra.
In definitiva, dopo aver verificato tutte le concordanze
geografiche, topografiche,
descrittive e meteorologiche, possiamo concludere che i dati
forniti dall'Odissea, che risultano "un guazzabuglio" nel
contesto dell'Itaca greca,
invece si attagliano perfettamente all'isola di Lyø: se Ulisse
impiegò venti
anni per ritrovare la sua Itaca, ai suoi posteri mediterranei
ne sono occorsi più di tremila... Ma adesso la parola tocca
all'archeologia.

E ora, per completare il tema del mondo di Itaca, proveremo ad


esaminare
il quadro in cui esso era inserito: infatti il poeta dell'
Odissea ci informa che gli
Itacesi avevano contatti con vari popoli, quali i Fenici, i
Tesproti e i Tafi, che
esercitavano l'arte della navigazione praticando il commercio o
la pirateria.
Di alcuni di loro si sono perse le tracce; altri, come i
Fenici, sono sopravvissuti
al tracollo del mondo baltico e, dopo il trasferimento nel
contesto mediterraneo,
sono riusciti a non perdere, ma anzi a monopolizzare, i
contatti commerciali
via mare con quella che si sta ormai rivelando la loro
originaria sede
nordica: hanno così consegnato il proprio nome alla storia.
I Tafi, introdotti nella narrazione dell'Odissea sin dal primo
libro attraverso
il personaggio di Mente, che sbarca a Itaca e incontra
Telemaco, vengono
ripetutamente definiti "amanti del remo" ("philéretmoi"; Od. I,
181 ; I, 419);
alla loro vocazione per la pirateria si allude più volte, e
spesso le loro storie si
incrociano con quelle dei Tesproti e dei Fenici. Ad esempio,
Penelope rinfaccia
ad Antinoo, uno dei pretendenti, che il padre "seguendo i
pirati di Tafo/taglieggiava
i Tesproti; ed essi erano legati con noi" (Od. XVI, 426-427):
da
quest'ultimo particolare si può dedurre che le sedi sia degli
uni che degli altri
non dovevano essere molto distanti da Itaca.
Quanto ai Tesproti, la loro vicinanza ad Itaca è attestata da
una precisa affermazione
di Ulisse: "Qui vicino ("anchoù"), nel ricco paese delle genti
tesprote..."(Od.
XIX, 271). Un'ulteriore conferma viene dal viaggio di "una
nave/
dei Tesproti a Dulichio ricca di grano" (Od. XIV, 334-335), la
quale dopo
una giornata di navigazione fa scalo ad Itaca: "A sera d'Itaca
ben visibile giunsero
ai campi" (XIV, 344). Ne possiamo dedurre che il punto di
partenza dei
Tesproti si trovava probabilmente nell'area compresa tra la
costa settentrionale
di Fionia, l'isola di Samsø e lo Jutland: infatti, partendo da
qui, la rotta più plausibile verso Dulichio-Langeland risulta
quella che scende costeggiando ad
ovest di Fionia e passa per Lyø, la quale è collocata circa a
metà percorso e rappresenta
quindi un ideale scalo intermedio. Anche la distanza di tale
area da
Lyø, una quarantina di miglia nautiche, risulta in buon accordo
con la giornata
di navigazione impiegata dal solerte equipaggio dei Tesproti.
E i Fenici? Che in quella remota civilizzazione baltica
avessero ancora
una dimensione prevalentemente locale lo possiamo dedurre dal
fatto che l'Odissea dà loro un rilievo tutto sommato non
superiore a quello attribuito ai Tati;
quanto all'Iliade, li ricorda solo in due circostanze (VI, 290;
XXIII, 743),
menzionando unicamente la città di Sidone. Ora, secondo
l'Odissea, il vento
fece deviare una nave fenicia, diretta da Creta a Sidone, dalla
rotta passante per
l'Elide e Pilo, sospingendola invece verso Itaca (Od. XIII,
260-286): poiché,
come vedremo meglio in seguito, la Creta omerica si estendeva
lungo la costa
baltica della Polonia, mentre i territori di Pilo e dell'Elide
erano situati sul versante
occidentale dell'isola Sjælland, ne possiamo desumere che tale
nave,
provenendo da sud, prevedesse di costeggiare la grande isola
danese da questo
lato, facendo eventualmente una sosta nell'Elide o a Pilo, per
poi raggiungere
Sidone (che pertanto doveva essere ubicata sulla costa
settentrionale); invece
"la violenza dei venti" (XIII, 276) la deviò verso ovest, in
direzione di Lyø (Tav. IX).
Inoltre nel Sjælland, cioè nel Peloponneso omerico, si
trovavano anche i
territori di Menelao; al riguardo, una possibile allusione alla
prossimità di Sidone
rispetto a Lacedemone (la Laconia omerica, che a suo tempo
avremo modo
di localizzare sul versante sudorientale dell'isola) è
contenuta in un passo
dell'Iliade, dove si menzionano i pepli di Ecuba: "Opere tutte
a ricami di donne/
sidonie, che Alessandro simile a un dio/ portò da Sidone, vasto
mare navigando/
nel viaggio in cui condusse Elena" (Il. VI, 289-292;
Alessandro, figlio
di Priamo, re di Troia, e di Ecuba, è un altro nome di Paride).
Effettivamente
sulla costa settentrionale di Sjælland si incontrano una
Sidinge ed un Sidinge
fjord, e ciò può far sospettare che i Fenici omerici avessero
un insediamento in
quella zona. Inoltre, sulla costa nord dell'isola di Lolland,
situata nella parte più meridionale dell'arcipelago danese, si
apre la baia di Tårs, presso la quale è situato
l'omonimo borgo, che sarebbe suggestivo correlare con la mitica
città di
Tartesso. Un'altra Tårs, che forse ha ripreso il nome della
precedente, è situata
sul versante occidentale della stessa isola: il toponimo che si
riferisce alla
baia appare tuttavia più significativo, tenuto conto del fatto
che il vicino borgo
di Tårs porta lo stesso nome pur non trovandosi più
direttamente affacciato
sul mare, il che potrebbe costituire una conferma
dell'antichità dell'insediamento
(peraltro le deduzioni basate su assonanze di toponimi sono
ovviamente
meno affidabili di quelle di carattere geografico o
morfologico).
Ancora, Omero ci racconta che un amico di Telemaco aveva in
programma
di recarsi con la sua nave presso i Cauconi ("Kaùkones", Od.
III, 366): si
trattava dunque di una popolazione costiera, mai identificata
nell'area mediterranea,
che si può presumere fosse stanziata non molto distante da
Itaca; a
questo punto, sembrerebbe ragionevole metterla in relazione con
i Cauci, una
stirpe germanica che al tempo dei Romani viveva lungo le rive
del Mare del
Nord (e sarebbe suggestivo immaginare che il Cauchy, grande
matematico
francese dell'Ottocento, per il tramite dei Cauci, come
sembrerebbe suggerire
il suo cognome, fosse un diretto discendente dei "magnanimi
Cauconi" ricordati
da Omero). Così pure, il nome dei Cetei omerici ("Kéteioi", Od.
XI, 521)
potrebbe forse essere accostato a quello della tribù dei
Chatti, su cui Tacito si
sofferma nella sua Germania (cap. 30).
Infine, a questo punto non possiamo non chiederci quale fosse
il nome
"acheo" di Fionia, la grande isola, contigua ad Itaca ed a
quell'arcipelago così
importante per il poeta dell'Odissea (e per la nostra
ricostruzione geografica),
che ha dato i natali a Christian Andersen. Per inciso, in
alcuni personaggi
delle sue fiabe troviamo spunti che sembrano rimandarci
all'antico poema (che
peraltro egli doveva ben conoscere): basta ricordare, oltre
ovviamente alla celeberrima
Sirenetta, anche la favola del Brutto Anatroccolo che alla fine
si rivela un candido cigno. Viene spontaneo l'accostamento a
quell'altra prodigiosa
figura di affabulatore che fu proprio il suo antico conterraneo
Ulisse, con le
storie incredibili e affascinanti raccontate ad Alcinoo, a
Eumeo, a Telemaco, a
Penelope, addirittura alla stessa dea Atena: insomma le vicende
che Omero ci
ha tramandato.
Riguardo al nome omerico di Fionia, osserviamo anzitutto che
tra i vicini
degli Itacesi vi era un certo re Echeto, "massacratore di tutti
i mortali" (Od.
XVIII, 85; 116): costui doveva essere un vero e proprio
spauracchio, visto che
a questa sua vocazione si accenna in più occasioni. Ma ciò che
qui più ci interessa è il fatto che codesto gentiluomo (la cui
razza, dopo tanti millenni, è tuttora
ben prospera) risiedeva sulla "costa", "épeiros" (Od. XVIII,
84; 115). Questo
termine è accostabile all'anglo-germanico "ofer, over, ufer",
"riva"22: esso
ha nel greco classico il significato di "terraferma",
"continente"; Omero lo utilizza
nel senso di "costa", "spiaggia", "lido", contrapposto a "mare"
(un po'
come l'inglese "land"): ad esempio, allorché il dio Hermes,
dopo aver traversato
il mare, arrivò all'isola Ogigia, balzò "dal livido mare (...)
sull'"épeiros""
(Od. V, 56); così pure, la nave feacia che riaccompagnò Ulisse
ad Itaca nell'approdare
"salì sull'"épeiros" per metà della lunghezza" (Od. XIII, 114).

22 Voc. Rocci, voce "épeiros"

E ritroviamo l'"épeiros", presumibilmente lo stesso del truce


re Echeto,
anche nel ricordo di un'impresa di gioventù del vecchio Laerte,
il padre di
Ulisse: "...Nerico presi, fortezza ben
costruita,/ punta dell'"épeiros", a capo dei Cefalleni" (Od.
XXIV, 377-378; qui è forte la tentazione di collocare l'antica
fortezza nell'area dell'attuale Bjerne Mark e della penisoletta
di Knolden,
verso l'estremità sud-orientale del promontorio di Horneland,
di fronte a Lyø).
Ora rivolgiamoci all'Iliade: è molto singolare il fatto che, in
tutto il Catalogo
delle navi, cioè in un'estesa elencazione di località
rivierasche, venga
menzionato soltanto un "épeiros", proprio quello in
corrispondenza della costa
antistante Itaca: "Odisseo conduceva i Cefalleni magnanimi/
quelli che avevano Itaca e il Nerito (...) e avevano Zacinto e
abitavano Samo/ e avevano l'"épeiros"" (Il. II, 631-635).
Abbiamo messo in corsivo il verbo "avevano"
("échon" in greco) per rimarcare il fatto che nel Catalogo esso
costituisce il primo
termine di una formula ricorrente, con cui viene indicato
sempre il nome
del territorio in cui vive ogni singolo popolo: ad esempio,
"quelli che avevano l'Eubea" (II, 536), "quelli che avevano
l'Arcadia" (II, 603) e così via. Tale formula
"quelli che avevano...", seguita invariabilmente dal nome
proprio di una
località, nel Catalogo ricorre per ben 32 volte: e, a questo
punto, è diffìcile
credere che il termine "épeiros", presente nel Catalogo in
quell'unica occasione
e preceduto per l'appunto da "avevano", possa riferirsi ad un
nome comune; è invece più che ragionevole supporre che, come
tutti gli altri, indichi anch'esso
un nome proprio: era insomma "Épeiros", cioè "la Costa" -
talora anche indicata
come "Costa bruna" (Od. XIV, 97; pensiamo alle attuali Costa
Rica e
Costa d'Avorio) - il nome della terra antistante Itaca.
A questo punto tutto diventa chiaro: l'attuale Fionia - o,
quanto meno,
una parte del suo territorio, quella rivolta in direzione di
Itaca e delle isole contigue
- là dove imperversava il terribile Echeto, dove sorgeva la
fortezza espugnata
da Laerte nei suoi verdi anni e dove Ulisse possedeva le
mandrie a cui
É
abbiamo accennato poco fa, doveva essere chiamata "Épeiros", la
Costa per antonomasia.
Questo
nome, come tanti altri, dagli Achei venne poi trasposto nel
Mediterraneo:
ecco infatti l'"Epeiros" greco - "Epiro" in italiano - che
infatti rappresenta quasi l'"analogo geografico" di Fionia.
Perché "quasi""? In realtà la
trasposizione non poteva essere perfetta, date le differenze
geografiche tra il
contesto baltico e quello del mar Ionio. Nel Baltico tutto
calza alla perfezione:
Lyø infatti è situata tra due grandi entità geografiche,
Fionia, a nord, e lo Jutland
(corrispondente all'antica Etolia), ad ovest; inoltre, come
vedremo meglio
allorché esamineremo in dettaglio la scansione del Catalogo,
quest'ultimo
enumera, secondo una successione "impossibile" in Grecia, ma
perfettamente
naturale in Danimarca, il Peloponneso (Sjælland), Dulichio
(Langeland), l'arcipelago
con Itaca ultima isola verso ovest (Lyø), l'"Epeiros" o Epiro
(Fionia),
l'Etolia (lo Jutland).
Invece, l'arcipelago dell'Itaca greca non è racchiuso fra due
terre sui lati
contrapposti, ma sta semplicemente dirimpetto alla costa ionica
della Grecia,
situata verso est (Tav. XII): da qui esso fronteggia l'Etolia e
l'Acarnania, ma non si trova esattamente davanti all'Epiro, che
risulta spostato un po' più verso
nord. Ciò ha costretto i Greci ad intendere l'Epeiros - il nome
proprio della
regione che era situata davanti all'Itaca baltica degli Achei -
come un qualunque
"épeiros", cioè una generica "terraferma" (altrimenti vi
sarebbe stata
l'assurdità di un'Itaca greca situata proprio davanti
all'Epiro, il che nella geografia
dello Ionio non è vero affatto): ma ciò comporta il dover
introdurre un'anomalia
nella rigorosa struttura formulare del Catalogo, che, come
abbiamo visto,
dopo il verbo "avevano" prevede sempre e senza eccezioni il
nome proprio
della regione di provenienza.
Insomma, qui come in tanti altri casi, la collocazione baltica
elimina totalmente
le contraddizioni che insorgono allorché la geografia omerica
viene
forzata nel contesto mediterraneo: quest'ultimo, nonostante le
apparenze, le è del tutto estraneo, e, fra i tanti indizi, il
caso dell'"Epeiros", l'Epiro, situato dirimpetto
ad Itaca sia nell'Iliade che nell'Odissea, risulta davvero
esemplare.

Abbiamo così terminato la ricostruzione di quel mondo


"quotidiano" di
Ulisse a cui, non dobbiamo dimenticarlo, è dedicata una gran
parte dell'Odissea. Peccato che tale immenso personaggio venga
ricordato quasi soltanto per
le sue fiabesche avventure, che nel poema hanno una parte tutto
sommato limitata.
Forse per questo il cinema, tra improbabili Circi e grotteschi
Polifemi,
non gli ha mai reso veramente giustizia; d'altronde,
all'ambientazione "itacese"
era stata finora legato l'impalpabile senso di estraneità, di
cui adesso siamo
finalmente in grado di capire la ragione, che nasceva dal
contrasto fra l'atmosfera
nordica dell'Itaca omerica ed il tradizionale contesto
mediterraneo.
Attendiamo ora che un'adeguata sceneggiatura cinematografica ed
un vero attore
- sarebbe perfetto il Connery de Il nome della rosa - ci
restituiscano la
reale dimensione umana del grande Itacese, che Omero considera
"per saggezza
simile a Zeus" (Il. II, 636).
E ora dedichiamo la conclusione del capitolo alla stupenda
figura della
macinatrice che dà il presagio favorevole ad Ulisse all'inizio
della giornata
della strage: "E parole parlò dalla casa una donna alla
macina,/ vicino, dov'erano
appunto le macine del pastore d'eserciti;/ vi badavano
attivamente dodici
donne in tutto/ a fare farina d'orzo e di grano, midollo degli
uomini./ Dormivano
l'altre, avendo già macinato la loro parte di grano;/ una
soltanto non
aveva finito: la più debole era" (Od. XX, 105-110). A nostro
avviso, sarebbe
suggestivo interpretare questo passo dall'arcano sapore mitico
come un'allegoria
delle Ore che macinano il Tempo: è proprio all'ultima ora della
notte,
quella più piccola (ancora oggi diciamo "le ore piccole"),
mentre sta già spuntando
l'aurora, che viene dato di profetizzare il giorno fatidico e
la vittoria dell'eroe.
Splendido Omero!
IV.

ULISSE E LA MITOLOGIA NORDICA

"Alcuni credono che anche Ulisse in quel suo lungo e


leggendario peregrinare sia giunto in questo Oceano e sia
approdato alle terre della Germania" ("in hunc Oceanum delatum
adisse Germaniae terras"; Germania, 3, 2): questo
singolare passo di Tacito adesso possiamo rileggerlo in una
prospettiva tutta
nuova. Il grande storico romano (vissuto nella stessa epoca di
Plutarco, fra
il I e il II secolo d.C.) sotto l'etichetta comune di "Germani"
ci descrive i popoli
che abitavano tutta l'Europa settentrionale fino al Baltico,
allora chiamato
"mare Suebicum", ed alla Scandinavia (poco fa abbiamo
menzionato i Cauci
e i Chatti che sembrano rimandare ai Cauconi e ai Cetei
dell'Ossea). Ora,
anche se Tacito appartiene a un'epoca quasi equidistante tra le
vicende narrate
da Omero ed il contesto attuale, questo suo accenno ad un
"Ulisse nordico",
in chiave di antica memoria più che di mera ipotesi letteraria,
ben si colloca accanto
al discorso di Plutarco relativo alla collocazione
nordatlantica dell'isola
Ogigia: si ha insomma la sensazione che entrambi gli storici si
riallaccino ad
un filo comune, ovvero ad una tradizione ininterrotta,
attraverso i secoli, fin
dalla prima età del bronzo.
In questo quadro ben s'inserisce anche il fatto che, secondo
Omero, Ulisse
aveva / capelli biondi ("xanthàs trìchas"; Od. XIII, 399; 431).
E che dire del
caratteristico berretto conico che gli viene attribuito
dall'iconografia tradizionale,
del tutto simile al copricapo a punta tipico del mondo
vichingo?
Per quanto riguarda il suo stesso nome - in greco "Odysseus" (o
"Odyseüs"),
cioè Odisseo, che secondo Omero risalirebbe al verbo
"odyssasthai",
cioè "odiare" (Od. XIX, 407-409) - esso ricorre anche nella
forma "Olysseus",
o in modi affini, a Corinto, ad Atene e in Beozia almeno fin
dal secolo VII o VI a.C. (in latino Ulixes, da cui l'italiano
Ulisse); i filologi ritengono che sia
di origine pregreca23.

23 Treccani, voce "Ulisse"

Per inciso, l'oscillazione tra la D di Odysseus e la L di


Ulixes è un fenomeno
frequente: pensiamo ad esempio al siciliano "addumari", cioè
"illuminare",
probabilmente corrotto dal francese "allumer", o al rapporto
fra il greco
"dàkryon" e il latino "lacrima" o, ancora, tra il greco
"sélinon" e l'italiano
"sedano" (diventato "celery" in inglese, "celeri" in francese e
"sellerò" in dialetto
romano; ma dove questo umile ortaggio si rivela un autentico
Fregoli della
glottologia è nel dialetto siciliano, dove compare come
"accia", che lascerebbe
più che perplessi se non ci venisse in soccorso il latino
"appius").
Premesso ciò, nell'Edda, la raccolta di saghe dei navigatori
nordici - il cui nome viene da taluni ricondotto al termine
"òdhr", canto (forse affine al greco
"aoidé") - incontriamo il personaggio di Ul, figura eroica di
guerriero e tiratore
d'arco, che in tempi remoti dovette avere notevole importanza,
perché in
Svezia, in Norvegia e in Danimarca si trovano numerosi toponimi
con il suo nome;
"per l'anello di Ul" era altresì la formula di un solenne
giuramento. E singolare
la coincidenza che Ul sia figlio di Sif e che, nel contempo,
Ulisse venga
indicato come "figlio di Sisifo" da alcuni autori, tra cui
Euripide nella Ifigenia
in Aulide.
Riguardo sempre a Ul, nella Grimnismal, uno dei carmi più
antichi dell'Edda, la sua dimora viene indicata con un'enfasi
particolare: "Ydalir si chiama
il luogo/ dove Ul si è costruita la casa" (vv. 59-60). Vi
possiamo accostare
una frase dell'Odissea, ripetuta più volte, che indica Ulisse
come "colui che
in Itaca ha casa" (Od. IV, 555; IX, 505; IX, 531): in effetti,
secondo Omero,
Ulisse si era costruito la casa da solo (Od. XXIII, 192-194),
né più né meno
come il nordico Ul.
D'altronde la figura del tiratore d'arco, propria di Ul - che
ritroviamo anche
nella cosiddetta Edda di Snorri (Gylfaginning, 3); Snorri
Sturluson è un islandese del XIII secolo - si attaglia
perfettamente al personaggio di
Ulisse, il quale dimostra la sua valentìa durante la famosa
gara con l'arco e la
successiva strage dei pretendenti; ma già in precedenza, nel
vantare le sue capacità
con i Feaci, aveva messo in rilievo, con significativa
insistenza, proprio
la sua abilità di arciere: "So maneggiare bene l'arco polito/
(...) solo Filottete
mi superava con l'arco/ in terra troiana, quando d'arco
tiravamo noi Achei./ Degli
altri dico che sono molto migliore,/ quanti mortali ora vivono
in terra" (Od.
VIII, 215; 219-222). Ne abbiamo un riscontro anche nel X libro
dell'Iliade, allorché
Ulisse si munisce di "arco e faretra" (Il. X, 260) per
accompagnare Diomede
in un'incursione notturna nel campo troiano.
A proposito di quest'ultimo episodio, ci sembra opportuno
aprire una breve
parentesi, dedicata alla figura di Ulisse nell'Inferno di Dante
Alighieri, dove
il nostro eroe è condannato per l'eternità ad ardere con
Diomede in un "foco
che vien sì diviso/ di sopra che par surger dalla pira/
dov'Eteòcle col fratel
fu miso" (XXVI, 52-54). La critica dantesca ha sempre avuto
delle perplessità sull'interpretazione di questa pena, non
inquadrabile nello schema del contrappasso:
qui proponiamo che essa sia stata ispirata proprio da quel
libro dell'Iliade, e precisamente dal passo in cui Diomede,
invitato da Agamennone a scegliersi un compagno per la sua
incursione, risponde indicando Ulisse e soggiunge:
"In compagnia di costui anche dal fuoco ardente ("ek pyròs
aithomé-noio")/ scamperemmo entrambi, che sa pensare bene" (Il.
X, 246-247). Potrebbero
essere state queste parole di Diomede ad offrire a Dante lo
spunto per
concepire il castigo a cui viene condannata la terribile
coppia; esso sta evidentemente
a significare che non vi è malefatta, per quanto astuta, che
possa
sfuggire alla giustizia divina; così pure nei versi successivi:
"Insieme/ alla vendetta
vanno come all'ira", Dante riprende ancora il motivo
suggeritogli da
Omero e, allo stesso tempo, chiarisce il significato della pena
inflitta ai due,
ammirevole per la sua coerenza logica e poetica.
Tornando ai rapporti fra la mitologia greca e quella nordica,
notiamo che
le Parche (o Moire) greche hanno un equivalente nelle Norne
vichinghe; il volo
di Dedalo si ritrova in quello del fabbro Volund, su cui avremo
modo di tornare
più avanti; la vicenda di Tizio punito per l'oltraggio a Latona
(Od. XI, 580)
appare analoga a quella del nordico Thiazi, ucciso dal dio Loki
per aver offeso
la dea ldhunn; i nomi delle due ragazze, Briseide e Criseide,
che incontriamo nell'Iliade hanno un curioso riscontro, sia
pure limitato all'aspetto lessicale,
con quelli della coppia Brunilde-Crimilde.
E, a questo punto, non possiamo non rilevare l'affinità tra le
Valchirie
nordiche, che trasportano nel Valhalla le anime dei guerrieri
caduti, e le Chere omeriche, che nell'Iliade svolgono una
funzione del tutto analoga: "La Chera
funesta/ (...) afferrava ora un vivo ferito, ora un illeso/ o
un morto tirava per
i piedi in mezzo alla mischia./ Veste vestiva sopra le spalle,
rossa di sangue
umano" (Il. XVIII, 535-538).
Un punto di contatto estremamente interessante, di genere più
propriamente
letterario-stilistico, lo si può poi riscontrare in un verso
dell' Odissea, dove
Penelope definisce le navi con una particolare metafora:
"cavalli del mare"
("halòs hìppoi": IV, 708). Nel verseggiare delle saghe nordiche
si ricorre di
frequente a questo tipo di perifrasi, chiamate "kenning" nella
lingua norrena;
tra queste, una delle più comunemente usate è proprio la
kenning che indica le
navi, definite "vàgmarr", ovvero "destrieri dell'onda" (da
"vàgr", che vale "onda",
e "marr", "destriero"), espressione equivalente ai "cavalli del
mare" dell'Odissea. Nel seguito avremo modo di confrontare
altri notevoli esempi di
kenning nordiche ed espressioni omeriche, le quali, rilette in
questa chiave,
non di rado ci riveleranno significati insospettati.
Prenderemo ora in esame un testo di particolare importanza per
l'approfondimento
dei parallelismi tra la mitologia greca e quella norrena: si
tratta
delle Gesta Danorum, monumentale opera in lingua latina scritta
da Saxo
Grammaticus, coltissimo letterato danese vissuto nella seconda
metà del XII secolo
(è da qui che Shakespeare ha ripreso il personaggio di Amleto).
Nelle Gesta - di cui recentemente è uscita una magnifica
versione italiana
a cui faremo riferimento, a cura di Ludovica Koch e Maria Adele
Cipolla,
intitolata Gesta dei re e degli eroi danesi - Saxo ha voluto
ricostruire la storia
della sua gente, intrecciata con quella degli altri popoli
dell'area nordica, a
partire da un remoto passato, risalente all'incirca alla stessa
epoca della nascita
di Roma: egli naturalmente ha attinto a piene mani a miti ed a
fatti leggendari
(uno dei quali concerne appunto il malinconico principe di
Danimarca, le
cui vicende, secondo la cronologia delle Gesta, sarebbero
addirittura antecedenti
alla nascita di Cristo), che spesso si ritrovano anche nei
carmi norreni.
Ai nostri fini è particolarmente significativo il fatto che,
nonostante i millenni
trascorsi dai tempi delle storie raccontate da Omero, l'opera
di Saxo sia
tutta pervasa di un'atmosfera che ce le richiama molto da
vicino; in essa si intrecciano
tantissimi miti e motivi che ricordano quelli della mitologia
greca e
degli stessi poemi omerici, ma non sempre sono riconducibili a
modelli classici
(peraltro a lui ben noti): invece la loro fonte d'ispirazione
di solito risiede
nella letteratura nordica, in particolare quella islandese. Già
l'epigrafe ammirativa
con cui Saxo suggella la biografìa di Amleto, alla fine del
libro III, richiama
il personaggio di Ulisse (ma anche quello di Telemaco, come
vedremo
meglio tra poco): "O uomo forte, degno di eterna gloria!
Servendosi, con grande accortezza, di una finta insipienza,
occultò, con una mirabile simulazione
della follia, la limitata intelligenza umana (...) Visto che si
difese con ingegno
e che con coraggio vendicò il padre, lascia incerti se valesse
più come modello
di forza o come esempio di accortezza" (III, VI, 25).
Effettivamente nelle Gesta l'astuzia è molto apprezzata e
spesso gioca
un ruolo determinante, anche per risolvere conflitti o assedi,
quali, ad esempio,
quello di Londra, presa d'assalto dal re Frothone di Danimarca:
"La solidità delle sue mura gli negò la possibilità di
espugnarla, così egli ricorse all'astuzia
per trovare nuovi espedienti"; i contatti fra mondo baltico-
scandinavo ed isole britanniche sono stati intensi fin da tempi
remoti). Inoltre, è molto singolare la trovata che, in un
episodio precedente, aveva consentito ai
Danesi di sconfìggere Andvano, re dell'Ellesponto, che si era
trincerato nella
città di Duna dietro imprendibili fortificazioni ed opere
murarie di difesa"
(I, VI, 10): per espugnarla, essi misero micce infuocate sotto
le ali degli uccelli
che nidificavano in città.
Questo accenno - che in Saxo non è l'unico - all'"Ellesponto" e
ad un
corrispondente popolo di "Ellespontini", è estremamente
interessante ai fini
della nostra tesi. Infatti gli Ellespontini, a cui vengono
attribuiti frequenti contatti
(e soprattutto scontri armati, come abbiamo appena visto) con i
Danesi,
nelle Gesta sembrano essere una popolazione baltica orientale e
non certo mediterranea:
la loro stessa città di Duna, in cui ci siamo appena imbattuti,
è l'attuale
Daugavapils, ubicata lungo il corso della Dvina occidentale, in
Lettonia24.
Dal canto suo, Omero ripetutamente afferma che Troia era
situata "sul largo Ellesponto",
identificabile, come vedremo, con il Golfo di Finlandia (non
certo
con l'angusto Stretto dei Dardanelli); insomma, la presenza di
un territorio, denominato
"Ellesponto", nel Baltico orientale, da un lato è congruente
con la
posizione della Troia omerica, dall'altro si può spiegare
soltanto con la persistenza
fino all'età di Saxo dell'antichissimo nome - per di più di
stampo genuinamente
greco: significa il "mare di Helle" o "dell'Ellade" - con cui
gli Achei baltici
dell'età del bronzo denominavano quel mare (essi poi, una volta
discesi nel
sud dell'Europa, avrebbero chiamato allo stesso modo il suo
corrispondente
geografico nel mondo mediterraneo, che però è tutt'altro che
"largo").

24 Sassone Grammatico, Gesta dei re e degli eroi danesi, pag.


517 (voce "Duna")

Inoltre, allorché a suo tempo seguiremo la scansione del


Catalogo delle
navi lungo le coste baltiche, incontreremo l'Ellade omerica -
il cui nome è chiaramente legato a quello dell'Ellesponto - in
corrispondenza dell'attuale
Estonia, cioè proprio sulle rive del Golfo di Finlandia (invece
nel mondo greco
l'Ellade e l'Ellesponto non saranno più due entità geografiche
contigue).
In ogni caso, come talora accade, due diversi problemi
apparentemente insolubili,
come questo strano "Ellesponto nordico" di Saxo e l'altrettanto
singolare
"largo Ellesponto" di Omero, una volta accostati si risolvono
subito entrambi
(un po' come capita alle critiche incrociate su cui scherza
Alessandro
Manzoni nell'introduzione ai Promessi Sposi: "...e, messele,
con loro gran
sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso").
E altresì curioso il fatto che, nel corso di una campagna
successiva, l'espediente
usato dai Danesi per sconfìggere i soliti Ellespontini (ma se
costoro fossero
davvero stati nel Mediterraneo, quando mai avrebbero potuto
avere tante occasioni
di conflitto con una popolazione baltica, per di più in
mancanza di truppe
aviotrasportate?) fu quello di utilizzare "dei cavalli di
bronzo, posti sopra rotelle semoventi"
(IX, IV, 21): anche se l'impiego non fu proprio lo stesso del
celebre cavallo
di legno (secondo le Gesta, tali manufatti furono utilizzati
lanciandoli contro
le truppe nemiche, allo scopo di romperne le file), tuttavia
l'analogia è suggestiva.
Inoltre, sempre nel Baltico orientale Saxo localizza una terra,
chiamata "Curezìa"
(attualmente denominata Curlandia, provincia della Lettonia)
con i suoi abitanti, i
"Cureti" (gli attuali Curlandesi), che a questo punto viene
naturale mettere in relazione
con i misteriosi Cureti dell'Iliade (IX, 529-589) e della
mitologia greca.
D'altronde l'uso di espedienti, anche incredibilmente astuti e
fraudolenti,
per impossessarsi di una città era una caratteristica tipica
dei vichinghi; fra
i tanti esempi, pensiamo al saccheggio di Limi, alla foce del
Magra, dove essi
riuscirono a penetrare (correva l'anno 860) simulando prima la
conversione e,
subito dopo, la morte del loro capo: secondo Dudone di San
Quintino, che ci
ha tramandato l'episodio, questo emulo di Ulisse, trasportato
in chiesa con tutti
gli onori dopo che i suoi compagni avevano chiesto per lui
esequie cristiane,
nel bel mezzo della cerimonia funebre saltò fuori dalla bara
(che giustamente
il Portner chiama "la bara di Troia"25) con le armi in pugno e,
insieme
con i suoi accoliti, iniziò a fare strage di fedeli, indi mise
a ferro e fuoco la città,
dove nel frattempo era entrato il resto del contingente
vichingo inizialmente rimasto
fuori delle mura; infine, fatto un ricco bottino, di corsa
prese il largo
con la sua flotta, che lo stava attendendo sulla spiaggia.

25 Portner. L'epopea dei Vichinghi, pag. 245

Un ulteriore punto di contatto fra il mondo nordico e quello


omerico sta
nell'alta considerazione in cui erano tenute l'arte poetica e
l'eloquenza: le Gesta spesso sottolineano l'apprezzamento per
la poesia ed il fatto che i cantori
fossero particolarmente onorati; riguardo all'Iliade, vi
troviamo la splendida
immagine di Achille che, in un momento di ozio, "con la cetra
sonora si dilettava/
(...) cantava glorie d'eroi" (Il. IX, 186; 189). Per inciso, se
pensiamo al
fatto che dal termine omerico "kithara" deriva il nostro
"chitarra", l'immagine
di questo ragazzo (Achille era molto giovane) intento a suonare
il suo strumento
sulla riva del mare acquista una modernità impressionante.
Sempre riguardo al canto, l'Odissea registra una solenne
dichiarazione di
Ulisse: "Per tutti gli uomini sulla terra i cantori/ son degni
d'onore e rispetto,
perché la Musa/ insegnò loro i canti: ella ama i cantori" (Od.
VIII, 479-481).
Per quanto concerne l'abilità nel tessere discorsi, anch'essa
nell'antico Nord
era tenuta in gran conto, esattamente come nel mondo omerico:
ad esempio, esisteva
una tipologia di racconti ("thàttr") nei quali si narrava
dell'arrivo di uno
straniero alla corte norvegese e delle prove di eloquenza da
questi sostenute. Ricordando
la localizzazione norvegese della Scheda, emerge un singolare
parallelismo
con i brillanti discorsi di Ulisse alla corte di Alcinoo, che
gli sarebbero valsi
la benevolenza del re, doni ricchissimi e l'accompagnamento ad
Itaca. Più in generale,
i grandi personaggi delle Gesta, quali Erico e Starcathero,
eccellono nell'arte
del parlare; essi sono particolarmente versati nei doppi sensi
e nei giochi di
parole, in cui lo stesso Amleto è maestro. Sono tutte
caratteristiche proprie anche
del personaggio di Ulisse, il quale, oltre a beffare il Ciclope
facendosi chiamare
con un nome fasullo ("Nessuno"), dà ripetute prove della sua
eloquenza anche nell'Iliade: le sue parole erano "simili ai
fiocchi di neve d'inverno" (Il. III, 222).
Osserviamo anche che gli studiosi hanno messo in rilievo
suggestivi paralleli
tra la figura di Ulisse e quella del dio Odino, il quale nella
mitologia nordica
appare non soltanto come un grande guerriero, ma anche come un
personaggio
astutissimo e di raffinata eloquenza (ad esempio, le sue doti
vengono
decantate nella Ynglingar saga, cap. 6). Dal canto suo, Saxo ad
un certo punto
introduce la figura di Ollero, corrispondente del norreno Ul,
il quale funge
da "alter ego" di Odino durante un periodo di esilio di
quest'ultimo: anzi, ne
assume addirittura il nome (Gesta III, IV, 10-11). Nel seguito
dell'episodio lo
scrittore accenna anche alle doti di navigatore del
personaggio: Ollero infatti,
mediante un incantesimo, attraversa il mare su di un osso (III,
IV, 12), e ciò va
in certo senso a chiudere il circuito delle corrispondenze fra
Ul ed Ulisse da
un lato, Ulisse e Odino dall'altro.
Notiamo ancora che diversi temi connessi con la figura di
Ulisse si trovano
singolarmente riuniti nel personaggio di Hadingo, un
antichissimo re danese
- pronipote di Dan, il mitico capostipite - le cui imprese
leggendarie occupano
alcuni capitoli del primo libro delle Gesta Danorum. Costui
infatti è un
instancabile guerriero (I, VI, 1), fa ricorso all'astuzia per
conquistare una città (I, VI, 10), viene sedotto, dopo
un'iniziale riluttanza, da una maga capace di
straordinarie trasformazioni (I, VI, 2-6), è riconosciuto da
una donna attraverso
una ferita al polpaccio (I, VIII, 13), uccide un mostro marino
e per questo
viene perseguitato dagli dèi (I, VIII, 11), scende addirittura
a visitare gli inferi
(I, VIII, 14). Ma, soprattutto, è tutto proteso sul mondo delle
navi e della marineria:
la sua grande passione è "sperimentare con i remi i flutti,/
esultare dei
frutti del saccheggio,/ inseguire per sé il denaro d'altri,/
smaniare per guadagni
tolti al mare" (I, VIII, 18). È, inoltre, significativo il
fatto che Odino intervenga
personalmente, quando necessario, per aiutarlo e dargli
consigli (I, VI,
7-9), proprio come Atena fa con Ulisse.
D'altronde, a ben guardare, fra Odino e Atena non mancano certi
tratti in
comune: pensiamo alla saggezza, al rapporto con la guerra, alla
lancia, agli
uccelli-emblema (rispettivamente il corvo e la civetta),
addirittura ai loro stessi
nomi: "Odino" può essere scritto "Othin", molto simile ad
"Athene". Lasciamo
tuttavia agli specialisti gli eventuali approfondimenti su tale
affascinante
questione.
Tornando alle Gesta, sono frequenti i casi di re o di prìncipi
che si travestono
da servi o da vecchi mendicanti per ingannare i loro avversari
e sorprenderli,
spesso nel corso di un banchetto, esattamente come avviene
nell'Odissea; tra i numerosissimi esempi disseminati per tutta
l'opera, ricordiamo
Hiarnone, re fuggiasco, che medita di vendicarsi di un suo
rivale ricorrendo all'astuzia:
si fa accettare alla corte camuffandosi da servo raffinatore di
sale, ma
viene riconosciuto a causa di una cicatrice (VI, III, 3): si
tratta di un tema, non
infrequente in Saxo, che ovviamente ricorda l'Itacese (Od. XIX,
467-468). E
un altro personaggio, Olone - il cui nome richiama Ul e lo
stesso Ulisse - libera
da un usurpatore la reggia del padre, dove era arrivato
"celando il suo vero
aspetto sotto le mentite spoglie di un vecchio decrepito" (VII,
XI, 11); inoltre,
nello stesso episodio, uno dei suoi avversari, colpito a morte,
gli predice la
fine e, "appena pronunciate queste parole, spirò; le ultime
frasi del morente
contenevano l'esatta predizione del fato del suo uccisore":
anche questo è un tema caro ad Omero. Troviamo anche un certo
Grep, che, respinto dalla sua bella,
raduna tutti i pretendenti di lei in un banchetto e li massacra
(V, I, 13); così
pure, il re Haldano partecipa in incognito ad un banchetto di
nozze nel quale
"cancellò ogni segno della dignità regale mascherandosi
orribilmente", indi
uccide il promesso sposo: in tal modo, conclude Saxo,
"trasformò le nozze
in un funerale" (VII, III, 1).
Tutto ciò ricorda - oltre che, naturalmente, la strage dei
pretendenti per
mano di Ulisse al termine del fatale banchetto - anche la
tragica fine di Agamennone
dopo il suo ritorno da Troia: "E subito Egisto pensò arte
d'inganno:/
scelti fra il popolo venti guerrieri fortissimi,/ li collocò in
agguato, e altrove fece
imbandire il banchetto./ Mosse quindi ad invitare Agamennone
pastore di
schiere/ con carro e cavalli, ignobili trame tramando./ Così lo
condusse ignaro
alla morte e l'uccise/ a banchetto, come s'uccide un toro alla
greppia" (Od.
IV, 529-535; in seguito vedremo che la Micene omerica, dove è
ambientato
questo tragico episodio, era probabilmente ubicata nell'area
dell'attuale Copenaghen).
Però
non sempre i banchetti erano legati a vicende così truci; essi
invece
di norma costituivano il momento iniziale dell'ospitalità,
prima di passare a discutere
l'oggetto della visita. Saxo tiene a sottolineare che "nei
tempi antichi
era questo il modo di ricevere gli ospiti" (V, I, 7) e ciò
trova una precisa corrispondenza
nei poemi omerici: pensiamo ad esempio all'accoglienza
riservata
a Telemaco una volta giunto a Pilo: "Ma come la voglia di cibo
e di vino cacciarono,/
prese a parlare Nestore, il cavaliere gerenio:/ Ora è più bello
domandare
e informarsi/ degli ospiti, chi sono, ora che il cibo han
goduto;/ stranieri,
chi siete?" (Od. III,67-71).
Assai meno ispirato al bon ton era invece l'uso, purtroppo non
infrequente,
di schernire un ospite lanciandogli contro i resti del pasto od
altro, come
in un passo dove Saxo narra che "durante il festeggiamento, i
campioni si
scatenarono in eccessi di ogni genere, e presero a tirare ossa
e cartilagini addosso
a un tale" (II, VI, 9). Talvolta la cosa finiva assai male: è
attestata dalla
storia la disavventura capitata all'arcivescovo Elfego, il
quale (correva l'anno
1012) durante un festino alquanto movimentato morì sotto i
colpi dei crani di
bue scagliatigli contro dai vichinghi ubriachi. Ora, tutto ciò
richiama la bravata
di Ctesippo, uno dei pretendenti di Penelope, il quale, durante
l'ultimo pranzo
prima della strage, "scagliò una zampa di bue con la mano
gagliarda,/ prendendola
da un canestro; Odisseo l'evitò/ piegando il capo appena, e nel
cuore
sorrise/ amaro assai..." (Od. XX, 299-302; ma Ctesippo la
pagherà assai cara:
di lì a poco infatti verrà ingloriosamente ucciso dal mandriano
Filezio, il quale,
dopo averlo colpito, non mancherà di rinfacciargli il
riprovevole gesto commesso
poco prima).
La figura di Haldano, già incontrata poco fa, ci introduce in
un'altra tematica
cara sia alle Gesta che alla mitologia greca: quella delle
faide familiari.
Infatti suo padre Haraldo era stato fatto uccidere a tradimento
dal fratello
Frothone, col quale si alternava ogni anno nel governo
marittimo e terrestre; il
perfido zio cercò di eliminare anche i due giovani nipoti, che
si salvarono con
una fuga avventurosa e poi, una volta cresciuti, riuscirono a
vendicare il padre
ed a riconquistare il regno (VII, I, 1-7; la fonte a cui Saxo
si ispira è un antico
carme norreno, la Hrolfssaga Kraka). Il parallelo con le
tragiche vicende degli
Atridi è impressionante, perfino sotto l'aspetto geografico:
infatti la vicenda è ambientata nell'isola danese di Sjælland
che, come abbiamo già visto, si
identifica con il "Peloponneso" della mitologia greca. Inoltre,
l'alternanza annuale
dei due fratelli nel governo del regno ricorda un'altra celebre
vicenda
classica, quella di Eteocle e Polinice; e il tema della loro
uccisione reciproca
in un tragico duello sotto le mura di Tebe ha anch'esso una
singolare corrispondenza
nelle Gesta: "Si sono attentati, i suoi figli sacrileghi, a
battersi con
armi crudeli, morendone; fratelli di splendido sangue
s'avventano l'uno a far
strage dell'altro (...) e gli tocca per troppa voglia del regno
un malanno mortale:
scendono insieme a vedere lo Stige, in un'unica fine" (VII, IX,
14). Non
inganni la citazione "classicista" dello Stige: anche in questo
caso l'episodio
si ispira ad un carme norreno, che essa sia stata
a sua volta ispirata da una qualche tradizione risalente alla
Tebaide, il poema
perduto contemporaneo dell'Iliade, che gli antichi attribuivano
a Omero?
- e, come ci dice la Koch, riecheggia un antichissimo tema
eroico germanico,
ossia il conflitto tra la voce del sangue e il senso
dell'onore, il cui esito è un tragico
scontro tra parenti: si tratta della stessa tematica che ispira
molte vicende
della mitologia greca.
E proprio in questo duello si riscontra un altro dettaglio
molto significativo:
lo scudo di Haldano è "abbellito di rilievi diversi nel fulgido
specchio, e
cerchiato di pannelli a figure mirabili" (VII, IX, 15); inoltre
Saxo dedica un intero
capitolo alla descrizione delle immagini che "un artigiano
esperto aveva
rappresentato con arte raffinatissima sullo scudo da battaglia
di Amleto, imitando
le cose con le figure e descrivendo gli avvenimenti con le
immagini"
(IV, I, 10). Anche qui, egli non si ispira a un modello
classico, bensì "al genere
scaldico forse più antico: la 'descrizione dello scudo'
splendidamente inaugurata
dalla 'Ragnarsdràpa' di Bragi Boddason"26. Tutto ciò
naturalmente trova
un preciso riscontro nel celebre scudo che Efesto fece per
Achille, "ornandolo
dappertutto (...)/ erano cinque gli strati dello scudo, e in
esso/ fece molti
ornamenti coi suoi sapienti pensieri" (Il. XVIII, 479-482). E
non si tratta di un
caso isolato: anche lo scudo di Agamennone era "adorno,
robusto,/ bellissimo;
correvano in giro dieci cerchi di bronzo/ ed in mezzo v'erano
venti borchie di
stagno,/ bianche, nel centro una di smalto scuro;/ faceva
corona allo scudo la
Gorgone, tremenda visione,/ che torvo guarda; intorno a lei
Terrore e Disfatta"
(Il. XI, 32-37; questi ultimi due personaggi nell'Iliade si
trovano spesso insieme,
associati al dio Ares, e in età moderna gli astronomi hanno
attribuito i
loro nomi greci, Phobos e Deimos, ai due satelliti di Marte).

26 Sassone Grammatico, Gesta dei re e degli eroi danesi, pag.


163
Un'altra tematica delle Gesta che ci è ben familiare è quella
del rapimento
consensuale di una regina, con le sue ricchezze, ad opera di un
principe,
e il conseguente scoppio di una guerra; non stiamo parlando di
Elena e Paride,
ma di Snione, figlio del re di Danimarca, il quale con
l'astuzia riesce a rapire
la bella regina di Svezia: "Fece in modo che la regina, uscita
con il pretesto
di andare a fare un bagno, fosse imbarcata su una nave,
portando a bordo
con sé le ricchezze del marito. In seguito Snione e il re di
Svezia combatterono
ripetutamente tra di loro (...) l'uno per riprendersi la
consorte legittimamente
sposata, l'altro per tenersi la donna illegalmente ottenuta"
(VIII, XI, 2).
L'accenno alla nave del rapitore ci ricorda che nelle Gesta,
ambientate
prevalentemente nell'area baltica, ma anche nel Mare del Nord e
nel Mar di
Norvegia, l'elemento marinaro è di primaria importanza, al pari
dei poemi
omerici; in particolare, la descrizione della grande battaglia
navale di Bràvellir,
combattuta tra Danesi e Svedesi nelle acque dell'Oresund (il
braccio di mare
che divide l'isola Sjælland dalla Svezia meridionale), ci offre
uno spunto di
particolare interesse, in quanto è preceduta da un lungo elenco
dei combattenti
delle due armate contrapposte, con l'indicazione delle
rispettive località di
provenienza (VIII, I-III), che è direttamente accostabile al
Catalogo delle navi dell' Iliade. E anche rimarchevole il fatto
che una delle due flotte constava
di ben 2500 navi; più in generale, stupiscono le immense
quantità di imbarcazioni
che, sempre secondo le Gesta, quegli antichi popoli di
navigatori all'occorrenza
riuscivano a radunare: a parte il caso di Bràvellir, vengono
registrate
armate di 900 navi (V, VII, 11), di 1700 (IX, V, 6) e financo
di 3000 (V, XI, 5).
Questi numeri rendono più credibili le cifre forniteci da Omero
nel Catalogo e indirettamente confermano la possibilità, da
parte degli Achei, di mettere in
linea la squadra di quasi 1200 navi che prese parte alla
spedizione contro Troia.
Per parte sua, Tacito ci attesta che i Suioni del suo tempo (o
Svioni, corrispondenti
agli attuali Svedesi) erano "forti, oltre che per i guerrieri e
le armi,
anche per le flotte" ("praeter viros armaque classibus valent";
Germania, 44,
2).
Il mondo marino delle Gesta Danorum ci suggerisce un altro
punto di
convergenza col mondo omerico: ci riferiamo al racconto di una
spedizione
dell'islandese Thorkillo in una spettrale terra dei morti,
peraltro geograficamente
ben individuata. Pur essendo ispirato, al solito, alle saghe
norrene (lo
stesso nome del protagonista ricorda Thor, celebre divinità del
pantheon nordico),
esso presenta rimarchevoli parallelismi con il viaggio alle
"Case dell'Ade"
dell'XI libro dell'Odissea. Vedremo più avanti che, avvalendoci
anche
delle indicazioni di Saxo, riusciremo a localizzare l'Ade
omerico - remotissimo
ricordo di rotte preistoriche - nell'estremo nord-est
dell'Europa, tra le gelide
e desolate coste della Cardia russa. Inoltre, nella stessa zona
dove Saxo
colloca la terra dei morti, un personaggio oltremondano
chiamato Guthmundo
ha un "orto delle delizie" che trova riscontro nelle fonti
norrene, dove si parla
di un regno di Godhmundr chiamato Glæsisvellir (vale a dire
"campi di vetro"
o "pianura splendente") o Odàinsakr ("campo degli immortali"):
anche qui si
può stabilire un parallelo con la "pianura Elisia, ai confini
del mondo" (Od. IV,
563), che a sua volta Omero descrive come una specie di Eden.
D'altronde, riguardo alle divinità nordiche, il Portner ci dice
che "il gran
dio Tyr rimanda ad illustri progenitori, essendo parente del
dio indiano Dyauh,
ed il suo nome sud-germanico Ziu ricorda lo Zeus classico. Thor
ed Ercole potrebbero
essere cugini. E in Odino, il Wotan dei germani meridionali,
pulsa
sangue dionisiaco"27.

27 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 156

Sempre nel campo del pantheon nordico notiamo il personaggio di


Frö,
che secondo Saxo s'identifica con un re svedese il quale
"uccise il sovrano dei
norvegesi Sivardo e rinchiuse le mogli dei suoi parenti in un
postrìbolo dove
le espose allo stupro pubblico" (IX, IV, 1). "Frö è la variante
nordico-orientale
del teonimo norreno Freyr, la principale divinità vanica (...)
Alcuni dei riti
dedicati al dio (che, come garante della fecondità della terra
e dell'uomo, è rappresentato iconograficamente col fallo
eretto) sono descritti da Adamo di
Brema, che racconta di canti talmente osceni che preferisce
tacerne"28. Inoltre,
presso i Germani, la dea dei matrimoni si chiamava Freyja29:
sembrerebbe a
questo punto naturale ipotizzare un collegamento con Afrodite,
la dea greca
dell'amore e degli sposalizi, come con tono dolcemente ironico
le viene ricordato
da Zeus dopo un suo maldestro tentativo di avventurarsi sul
campo di battaglia:
"Creatura mìa, non a te furono date le cose di guerra;/ ma tu
seguita le
amabili opere delle nozze" ("himeròenta èrga gàmoio"; Il. V,
428-429).

28 Sassone Grammatico, Cesta dei re e degli eroi danesi,


pag. 530
29 Fischer-Fabian, / Germani, pag. 144

In effetti, da un lato i nomi di Freyr e Freyja rimandano


direttamente ad una
radice indoeuropea che indica l'amore, dall'altro in Omero il
vocabolo "aphrodìte",
di etimo incerto30, viene usato anche come nome comune, per
indicare
proprio il piacere dell'amore (Od. XXII, 444). Invece
l'etimologia di Afrodite
proposta dagli antichi Greci, "nata dalla schiuma", non ha
alcun riscontro nei
poemi omerici, in cui la dea non viene mai collegata al mare.
Ancora più simile
al nome di Afrodite è quello di un re danese di nome Frodhi,
chiamato anche
Frotho o Frodo, di cui "si è osservata l'identità con Freyr"31.
A questo punto non
ci resta che girare agli specialisti, per le opportune
verifiche, l'ipotesi dell'eventuale
rapporto tra le radici di Afrodite e di Freyr-Freyja-Frodhi.

30 Voc. Rocci, voce ''aphrodìte"


31 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pag. 281
Per inciso, il nome della dea romana corrispondente ad
Afrodite, "Venus"
(Venere), appare molto simile a quello di Eniò (in greco
"Enyò"), citata due
volte nell'Iliade (V, 333; 592): costei da Omero viene
caratterizzata come una
dea bellicosa, legata ad Ares (il quale oltretutto ha per
soprannome Enialio), e
il suo nome si ritrova in quello di Enieo, re di Sciro
sconfitto da Achille (Il. IX,
668). Si potrebbe obiettare che la dimensione guerriera di Eniò
sembra mal
conciliarsi con quella erotica di Venere: va peraltro
considerato che nel mondo
antico non mancano esempi di divinità - pensiamo alla
mesopotamica Isbitar
- in cui si riscontra la compresenza di entrambi gli aspetti
(non si può neppure
escludere che l'intervento di Afrodite sul campo di battaglia,
per quanto
maldestro, possa rappresentare la traccia di una precedente
dimensione anche
guerresca della dea).
Riguardo alla V iniziale di Venus, osserviamo che questa
consonante presente
in certi alfabeti greci arcaici con il nome di "digamma" o
"vau", scritto F- non esiste nella lingua omerica né nel greco
classico; peraltro non mancano
i vocaboli di altre lingue, quali il latino o il sanscrito, in
cui essa si ritrova
aggiunta ai corrispondenti termini omerici: ad esempio, a
termini quali "ìs"
("forza") corrisponde il latino "vis"; a "oinos" ("vino"),
"vinum"; a "iaché"
("grido"), "vox"; a "éstes" ("veste"), "vestis"; a "eldon"
("vedere"), "video";
a "Enetoi", "Veneti"; a "eìkosi" (il numero "venti"),
"vigiliti" nonché il sanscrito
"vincatih"; ad "audé" ("voce" o "parola") il sanscrito "vadati"
e l'inglese
"word", e così via.
Per inciso, vi sono singolari corrispondenze fra vocaboli
omerici ed inglesi.
Ad esempio, "hyle", che in Omero vale sia "bosco" che "legno",
si ritrova
nell'inglese "wood", che mantiene entrambi i significati;
l'aggettivo "hyétios",
derivato dal verbo "hyein" ("piovere"), diventa "wet"
("umido"); "pòron"
("guado"), "ford"; "àchos" ("dolore"), "ache" ("head-ache" è il
"mal di testa");
l'avverbio "éti" ("ancora"), "yet"; addirittura "dàskion hylen"
(Od. V,
470), il "bosco ombroso" dove Ulisse trova riparo dopo essere
sbarcato nella
terra dei Feaci, in inglese suona "dark wood". Questi termini
sono passati alla
lingua inglese dall'antico nordico (i Danesi sono stati tra gli
antenati degli Inglesi).
Notiamo
ora che l'espressione omerica per la "Chera funesta" incontrata
poco fa è "(K)oloè Kér" (Il. XVIII, 535). Che il nome
"Valchiria", di cui abbiamo
segnalato l'identità con la Chera, tragga origine da questa
espressione?
Secondo l'etimologia corrente, questo nome deriverebbe da
"valr" e "kori" e
significherebbe "colei che sceglie i guerrieri uccisi"32, che
comunque si adatta
molto bene al ritratto della Chera riportato in precedenza.

32 Collins English Dictionary, voce "Valkyrie"


Segnaliamo altresì il fatto che una delle principali dee
nordiche, Frigg, ha
un'ancella di nome Fulla, nome che ricorda da vicino un'ancella
di Elena menzionata nell'Odissea: "Filò" ("Phylò"; Od. IV,
125). La corrispondenza non si
limita alla rassomiglianza dei due nomi: infatti, se da un lato
Fulla si occupa
dello scrigno della sua padrona (Gylfaginning, 35) e appare
come un personaggio
in rapporto con l'oro33, dall'altro Filò viene presentata
nell'atto di consegnare
ad Elena "una conocchia d'oro e (...) un cesto a rotelle,/
d'argento,
con gli orli sopra ageminati d'oro" (Od. IV, 131-132).
L'analogia viene vieppiù
rafforzata dal fatto che poco dopo, sempre nello stesso libro,
Omero introduce
il personaggio di Proteo, singolarissima figura di pastore di
foche dotato
di spirito profetico, il quale a sua volta si presta ad un
parallelo assai suggestivo
con un uomo-foca nonché profeta della mitologia nordica, il
"marmendill",
di cui a suo tempo avremo modo di occuparci.

33 Chiesa Isnardi, / miti nordici, pag. 216

Quest'ultima corrispondenza, legata all'ambiente marino, ce ne


suggerisce
ancora un'altra, non meno significativa, tra la mitologia greca
e quella nordica
Ci riferiamo ad un passo del I libro dell'Iliade, che introduce
la figura di
un mitico gigante "dalle cento mani" ("hecatòncheiros", 1,
402), chiamato Bnareo
o Egeone. Si tratta di un personaggio certamente legato al
mare, come ci
indica quel nome, "Egeone" ("Aigaìon"), che ha la stessa radice
d. "Ege", nome
di un santuario del dio Poseidone ("Aigàs", Il. XIII, 21; Od.
V, 381); inoltre ben s'accorda col fatto che a chiamarlo in
causa è la dea marina Teti. E
la sua dimensione marinara, anzi oceanica, viene sottolineata
anche da Plutarco
che infatti, proprio in quel capitolo XXVI del De forte quae in
orbe lunae
apparet da cui è partita la nostra ricerca, colloca "l'antico
Bnareo" nell'area di
Ogigia, dove funge da "guardiano delle isole e del mare
chiamato CroiW
(l'Atlantico settentrionale). Questa indicazione ci rimanda nei
mari nordici:
ora, nella mitologia norrena troviamo un gigante signore del
mare, menzionato
in varie saghe, il quale ha praticamente lo stesso nome
dell'omerico Egeone: Ægir. Come ci dice la prof. Chiesa
Isnardi, egli è lo sposo di Ran, che raccoglie
con una rete gli annegati e li trasporta nella sua dimora; le
loro figlie sono
le onde del mare34.

34 Chiesa Isnardi, / miti nordici, pag. 56

Quanto a Ran, la lugubre moglie dì Ægir (alla quale nella


mitologia greca
potrebbe forse corrispondere Rea, sorella di Briareo-Egeone),
essa ha una
"mano" che rappresenta per i naviganti un pericolo mortale: in
una saga dell'Edda leggiamo che "a gran forza si liberò dalla
mano di Remi la nave del
re " (Helgakvidha Hundingsbana I, vv. 116-117); al
riguardo la Chiesa Isnardi
annota che qui "si allude alla mano di Ran, moglie del gigante-
dio del mare Ægir, che afferra e trascina nel suo regno coloro
che muoiono annegati"35.
L'accostamento Ægir-Egeone ci rivela dunque il funesto
significato, che si era
perduto da millenni, delle "cento mani" del mostruoso Briareo:
esse sono una
trasparente metafora dell'aspetto terribile del mare in
tempesta, che affonda le
navi e ne ghermisce spietatamente gli equipaggi, trascinando
sott'acqua gli
sventurati marinai. E, a questo punto, diventa naturale
accostare il nome "Briareo"
alla radice di "Brimir", altro gigante nordico, "il cui nome è
collegato a brim 'onda', 'mare'"36. Infine, è estremamente
suggestiva la circostanza che Ægir, l'antico signore del mare
nelle saghe norrene, per il tramite di Egeone si
ritrovi ancora adesso nel nome dell'Egeo, il mare della Grecia.

35 Chiesa Isnardi, / miti nordici, pag. 626, nota 103


36 Chiesa Isnardi, / miti nordici, pag. 318

Ora, se l'incrocio con la mitologia nordica ci ha permesso di


ritrovare il
vero significato delle mostruose fattezze di Briareo-Egeone, è
forse possibile
che la poesia di Omero ricambi il favore e consenta a sua volta
di illuminare il
senso di un enigmatico passo contenuto in un carme dell'Edda,
dove viene
menzionato proprio Ægir. Si tratta della 45a strofa della
Grìmnismal: "L'esser
mio ora ho svelato agli dèi della vittoria,/ così
sopraggiungerà l'atteso aiuto;/
e tutti gli Asi verranno a convegno/ sulla panca di Ægir,/ al
convito di Ægir"
(gli Asi sono gli dèi principali del pantheon nordico).
Proviamo ad accostare
questi diffìcili versi - che il Mastrelli in nota definisce
"oscuri"37 - al passo dell'Iliade dove vediamo entrare in scena
il gigante "centìmano": alcuni dèi
dell'Olimpo avevano organizzato una sorta di congiura contro
Zeus e lo stavano
già immobilizzando, allorché in suo aiuto sopraggiunse Egeone,
avvertito
da Teti, il quale gli si sedette accanto e li costrinse a
desistere: "Ma tu venendo,
o dea (Teti), lo liberasti dalle catene,/ chiamando presto in
vetta al grande
Olimpo il Centìmano/ che i numi dicon Briareo, ma gli uomini
tutti/ Egeone,
e per la forza questi è migliore del padre;/ egli sedette
accanto al Cronìde
(Zeus), fiero in gloria:/ n'ebber paura gli dèi beati, non lo
vollero più legare!"
(Il. I, 401-406). Alla luce di tale accostamento quei versi
dell'Edda acquistano
un senso compiuto, anche se, ovviamente, congetturale: essi
potrebbero
rappresentare l'ultima eco di un racconto mitico, che già al
tempo della composizione dell'Iliade doveva essere molto antico
(più avanti cercheremo di
comprenderne l'origine e il significato).

37 L'Edda, carmi norreni, pag. 345, nota 236

Sempre riguardo ad Ægir, costui viene talvolta chiamato


"ölsmidhr", cioè "il fabbro della birra"38: ciò da un lato
trova riscontro nel mondo celtico, dove,
riguardo al dio Beli, il MacCulloch
ci dice che "le onde sono i suoi armenti, l'acqua salata è il
suo liquore39, dall'altro in uno degli aggettivi con cui
più frequentemente Omero designa il mare, "oìnops", in cui è
racchiusa la radice
greca che indica il vino.

38 Chiesa Isnardi, Leggende e miti vichinghi, pag 319


39 MacCulloch, La religione degli antichi Celti, pag. 135, nota
80 70

Insomma dietro il termine "oìnops" - normalmente


tradotto con "livido", "cupo", ma che alla lettera si potrebbe
rendere
con "vinoso" (in inglese si traduce dark-wine) - potrebbe
nascondersi una sorta
di kenning concettualmente analoga alle attribuzioni dì Ægir e
di Beli: esse
con ogni probabilità sono state ispirate dal ribollire della
superfìcie marina durante
le tempeste, proprio come avviene nei tini durante la
fermentazione del
vino nuovo.
Restando sempre nel tema delle kenning, risulta a questo punto
molto
suggestivo l'accostamento tra due singolari passi,
rispettivamente dell'Odissea e delle Gesta, il primo dei quali
fa parte della profezia fatta ad Ulisse dall'indovino
Tiresia: "Parti, prendendo il maneggevole remo (...)/ quando,
incontrandoti,
un altro viandante ti dica/ che sulla nobile spalla tu reggi un
ventilabro,/allora
in terra pianta il maneggevole remo" (Od. XI, 121; 127-129),
mentre
l'altro rinvia nuovamente ad Amleto: "Quando poi, mentre
percorrevano la
spiaggia, trovato il timone di una nave naufragata, i suoi
accompagnatori dissero
di aver scovato un coltello di eccezionale grandezza, 'con
questo - disse
lui - sarebbe bene affettare un enorme prosciutto', certamente
alludendo al mare,
alla cui immensità si adattavano le dimensioni del timone"
(III, VI, 10).
Entrambe queste immagini, apparentemente bizzarre, in realtà
giocano
sullo stesso genere di "equivoco": manufatti di uso
esclusivamente marinaro
- il remo, che rovescia l'onda, e il timone, che fende il mare-
vengono descritti
attraverso metafore di tipo per così dire terrestre: il
ventilabro, cioè la pala per
rimestare il grano, e il coltello, che taglia il prosciutto.
Siamo dunque in presenza
del meccanismo tipico delle kenning; e certo non a caso
l'Odissea, proprio
nel passo appena citato, accenna anche ai "maneggevoli remi che
son ali
alle navi" (XI, 125): si tratta di un'altra kenning omerica-
strettamente connessa
a quella del remo-ventilabro, che la segue nei versi
immediatamente successivi
- nella quale riscontriamo lo stesso schema concettuale che
ispira l'immagine
dei "cavalli del mare", cioè l'espressione con cui Penelope
definisce le
navi. Se poi proviamo a combinare quest'ultima metafora con
quella delle ali
(è un tipo di operazione che i poeti nordici effettuavano
abitualmente), ne risulta
che le navi sono definibili in termini di "cavalli alati":
sorprendentemente
ritroviamo un'immagine cara alla mitologia greca, che potrebbe
costituire lo
spunto per interpretazioni inedite di certi miti classici.
Riguardo ancora a quell'episodio
delle Gesta, vi si ritrova un'altra kenning, sempre
introdotta da Amleto: è quella della "sabbia chiamata farina",
"macinata dalle tempeste del mare
spumeggiante", di cui in questo caso conosciamo l'origine: Saxo
infatti la
riprende dallo scaldo islandese Snæbjorn (X secolo).
Mai come qui, in questi passi dall'arcana dimensione mitica,
Omero e
Saxo ci appaiono tanto vicini, come pure i loro personaggi,
Ulisse e Amleto,
di cui già in precedenza avevamo percepito l'affinità di fondo.
E va sottolineato
che solo il confronto diretto con la mitologia nordica e, in
particolare, il riconoscimento
di un meccanismo del genere "kenning" nella poesia omerica
consentono
di dare un senso compiuto alla bizzarra profezia di Tiresia,
altrimenti
incomprensibile nell'apparente stravaganza dell'equivoco tra
"remo" e "ventilabro".
Ma anche in altri miti greci si incontrano metafore dello
stesso tipo:
pensiamo al racconto di Deucalione e Pirra, che, sopravvissuti
al diluvio, ricostituiscono
il genere umano gettandosi alle spalle delle pietre, chiamate
"le
ossa della Madre (Terra)". Si tratta di un esempio lampante di
kenning, che per
di più si ritrova tal quale in una saga nordica, dove viene
descritta la morte del
re Onundr: costui "nelle ossa della terra fu avvolto"40
(Ynglinga saga, cap.
35). Al riguardo, osserviamo che non si tratta di una creazione
estemporanea
del poeta, ma del riferimento a un avvenimento mitico ben
preciso: infatti, come
annota la Chiesa Isnardi, la kenning "ossa della terra", usata
per indicare
le pietre, fa riferimento al mito (riportato da un carme
dell'Edda, la Grimnismal) del gigante primordiale Ymir,
sacrificato per dare origine al mondo41.

40 Chiesa Isnardi, Leggende e miti vichinghi, pag. 139


41 Chiesa Isnardi, Leggende e miti vichinghi, pag 139,
nota 172
Notiamo altresì che le analogie tra il contesto acheo e quello
vichingo, entrambi
fortemente proiettati sul mare e sulla navigazione, possono
forse contribuire
a far luce su un passo di Esiodo, dal significato oscuro, tutto
immerso
in una dimensione estremamente arcaica: il poeta, nel
raccontare il mito della
creazione in sequenza delle razze umane (ciascuna
contraddistinta da un metallo:
l'oro, l'argento, il bronzo e il ferro), ci dice che la terza,
quella di bronzo,
"possente e terribile" nonché bellicosissima, era "figlia dei
frassini" o comunque
proveniente "dai frassini" ("ek meliàn", Le Opere e i Giorni,
v. 145).
Che senso ha una tale espressione? Una possibile chiave
interpretativa ce la fornisce
Adamo di Brema, storico dell'XI secolo, il quale chiama i
Vichinghi con
il nome di "Ascomanni", cioè "uomini dei frassini" ("Esche"
significa appunto
"frassino") "certo per la ragione", osserva il Portner, "che
prediligevano
questo legno per le loro navi"42. Ora, alla luce di quanto sta
emergendo in queste
pagine, l'analogia degli Ascomanni medioevali con i "figli dei
frassini", i
terribili uomini di
bronzo del mito esiodeo, ci sembra estremamente significativa E
a questo punto, non si può non ricordare che, secondo la
mitologia nordica,
il genere umano discendeva da Ask, un tronco di frassino
trasformato in
uomo (Volospà 17-18; Gylfaginning 9).

42 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 15

Ma le analogie tra questi due mondi non si limitano alla


mitologia e alla
letteratura- anche i sistemi di relazioni sociali, gli
interessi e gli stili di vita appaiono
sorprendentemente simili, ad onta dell'abisso temporale che li
separa.
Pensiamo al ritratto che dei Vichinghi fa il Portner: "Erano di
tutto un po':
contadini, esploratori e colonizzatori; i marinai più audaci e
i guerrieri più temuti
dell'epoca; pirati e commercianti, eroi, mercanti e bricconi;
capaci artigiani
e organizzatori intelligenti, omicidi e artisti di genio,
accesi guerrieri e
freddi calcolatori, individualisti crassi e spregiatori dello
stato ma figli obbedienti
al ceppo familiare"«.43
Sembra quasi che si stia riferendo al mondo omerico
(notiamo in particolare la duplice vocazione per il mare e per
le attività agricole). Inoltre, secondo Edith Ennen, "la
civiltà germanica (...) contiene indubbiamente
una nobiltà guerriera quale elemento dinamico. La classe dei
signori
viveva tuttavia da proprietaria terriera, mantenendo così un
carattere rustico"44

43 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 7


44 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 131 (citato da
Frühgeschichte der europäischen

Insomma,
tra le usanze degli Achei e quelle dei popoli nordici vi sono
affinità
assai significative, su cui avremo modo di ritornare anche in
seguito:
pensiamo all'importanza dell'assemblea pubblica - l'agoré a cui
corrisponde pressoché esattamente il "thing" nel contesto
vichingo - che presso
entrambi i popoli costituiva il momento centrale "politico" ai
fini della gestione
della comunità (ed è questo il primo germe del concetto di
democrazia)
ma potremmo fare molti altri esempi. D'altronde, forme
assembleari del
tutto simili all'agoré" e al "thing" erano in uso presso i
popoli dell'Europa settentrionale
anche al tempo di Tacito, come risulta dal cap. 11 della
Germania. Al riguardo, notiamo anche che nell'Odissea si
riscontra un'espressione
tipica "convocata l'assemblea", che in greco suona "agorèn
thémenos" (Od.
X 188- XII, 319). La forma verbale "thémenos", derivata dal
verbo "tithemi
("'istituire porre"), da un lato sembra costituire con il
vocabolo "agorén" una
sorta di formula giuridica, dall'altro trova riscontro
addirittura in una divinità,
chiamata "Themis", per l'appunto patrona delle assemblee,
riguardo alla quale
Omero esplicitamente ci dice "...per Themis ("Thémistos")/ che
scoglie e
raduna le assemblee ("agoràs")" (Od. II, 68-69). Ora, date
queste corrispondenze
dell"'agoré" omerica con il participio "thémenos" e con la dea
Themis
da un lato con il "thing" vichingo dall'altro, a nostro avviso
gli specialisti
dovrebbero verificare la possibilità che la radice del vocabolo
"thing" sia etimologicamente
riconducibile a quella di "Themis-thémenos".
Un altro punto di contatto significativo è la distinzione,
tipica della società germanica pre-feudale, tra la proprietà
pubblica gestita dal re ed i suoi beni
privati. Ciò appare sia nell'Odissea (I, 392; II, 335) che nel
Beowulf'(vv. 73,
2330, 2608), poema di un anonimo inglese forse risalente al VII
secolo d.C,
il cui protagonista è un eroe scandinavo (per l'esattezza
svedese). Sempre riguardo
al Beowulf, un ulteriore parallelismo con l'Odissea è
costituito dal contrasto
che s'accende tra Unferdh e Beowulf alla corte del re Hrodhgar
(vv. 499-606),
del tutto analogo a quello che insorge tra Eurialo e Ulisse
alla corte di Alcinoo
(Od. VIII, 158-185). Come ci dice Ludovica Koch, si tratta di
"un vero
e proprio genere letterario germanico, attestato soprattutto,
come senna e mannjafnadhr, nella cultura norrena"45. Osserviamo
inoltre che nei due poemi
il contrasto si risolve allo stesso modo: i provocatori,
Unferdh ed Eurialo, si riconciliano
con i rispettivi antagonisti offrendo loro una spada (Beowulf \
ASI; Od. VIII, 403). Con l'occasione, notiamo anche che tra le
analogie del Beowulf con i poemi omerici vi è la comune
ambientazione nel mondo scandinavo, anche
se poi sia l'uno che gli altri si sono conservati altrove.

45 Beowulf, pag. 47, nota 1

Le affinità tra il mondo omerico e quello vichingo sì estendono


dalla realtà degli uomini liberi a quella degli schiavi:
notiamo infatti che la posizione servile del porcaro Eumeo -
schiavo di Ulisse ma a sua volta "proprietario" di
una casa oltre che di uno schiavo proprio, Mesaulio, "che il
porcaro/ comprò di suo mentre era lontano il padrone" (Od. XIV,
449-450) - appare molto simile
a quella degli schiavi dei Germani al tempo di Tacito: "Ognuno
governa la
propria residenza e la propria casa; il padrone impone loro la
consegna di una
certa quantità di frumento o di animali (...) come a un colono,
e fino a questo
punto lo schiavo è tenuto ad obbedire" (Germania, 25, 1). Tale
situazione si ritroverà
tal quale nella Svezia vichinga di sette od otto secoli dopo,
dove gli
schiavi "potevano avere in proprietà una capanna e del
bestiame: anzi, gli si
concedeva di vendere al mercato l'eccedenza delle loro mini-
fattorie"46, ed è del tutto analoga a quella descritta
nell'Odissea, secondo cui "ad un servo un
padrone benevolo può dare/ casa, podere e donna ambita da
molti,/ a chi per
lui molto fatica, e un dio il lavoro gli prospera" (Od. XIV,
63-65).

46 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 105

In una parola, le analogie riscontrabili fra gli Achei omerici


dell'età del
bronzo, i Germani dell'epoca romana ed i Vichinghi medioevali
attestano la sostanziale
continuità culturale del
mondo nordico attraverso i millenni. Al riguardo
può essere significativa un'osservazione che Saxo fa all'inizio
della sua opera, dove afferma che "Dudone, autore di una storia
di Aquitania, è dell'opinione
che i Danesi debbano le loro origini e il loro stesso nome ai
Danai"
(I, I, 1). In effetti, tra gli storici medioevali, il rapporto
fra i Danai omerici e i
Danesi è sostenuto sia da Dudone di San Quintino che da
Guglielmo di Jumièges:
se la finalità di questi accostamenti è finora sembrata
puramente apologetica,
adesso, letta nel quadro di ciò che sta emergendo dalla
presente ricerca,
comincia ad apparire sotto tutt'altra luce.
In conclusione, come abbiamo già avuto modo di sottolineare in
precedenza,
nella lettura dei carmi norreni e delle Gesta Danorum si
percepisce, al di là
delle singole correlazioni, il senso di un'identica atmosfera
che pervade questi
due mondi, i quali sembravano invece divisi da una eccessiva
lontananza sia
temporale che geografica: essa è certamente dovuta ad una
matrice comune, le
cui radici affondano nell'età del bronzo nordica. Ne è un
perfetto paradigma il
personaggio di Erico, a cui abbiamo già accennato, il quale
riguardo a se stesso
afferma: "La mia distinzione è una lingua eloquente (...) Ho
voluto soltanto conoscere,
e ho studiato i diversi costumi viaggiando per molti paesi" (V,
111, 2). Costui,
secondo un'autorevole studiosa dell'opera di Saxo, rappresenta
"l'incarnazione
stessa della mentalità vichinga, insieme diffidente e
temeraria, e saggia di
un tipo odinico di saggezza: concreta, curiosa, multiforme,
pragmatica fino alla
spregiudicatezza, essenzialmente basata su un sovrano controllo
della lingua"47;
ora, tutto ciò si attaglia perfettamente alla figura di Ulisse,
"l'uomo ricco d'astuzie
(...)/ che di molti uomini le città vide e conobbe la mente"
(Od. I, 1-3).
47 Sassone Grammatico, Gesta dei re e degli eroi danesi, pag.
197 74

"Ilvecchio cane di mio fratello, che sfamavo da bambina, da me


ammaestrato
da ragazza, abbaierà lamentoso dietro il mucchio del concime,
dentro
i freddi recinti invernali; senza dubbio riconoscerà in me la
figlia della casa":
stiamo ora citando alcuni versi del Kalevala, l'epos nazionale
della Finlandia,
costruito nell'Ottocento in cinquanta "runi", cioè canti, da
Elias Lònnrot,
che ordinò in un'unica opera la grande massa eterogenea dei
canti tradizionali,
da lui stesso raccolti soprattutto nella regione della Carelia.
Questo
passo - tratto dal nino XXIV, dove si accenna a una donna
sposata che ritorna
dopo molti anni alla casa paterna: da qui lo spunto del
riconoscimento da parte
del suo vecchio cane - naturalmente ci ricorda uno dei più
celebri quadretti
dell' Odissea: "Un cane, là sdraiato, rizzò muso e orecchie,/
Argo, il cane del
costante Odisseo, che un giorno/ lo nutrì di sua mano (...)/ ma
ora giaceva là,
trascurato, partito il padrone,/ sul molto concime di muli e di
buoi (...)/ E allora,
come sentì vicino Odisseo,/ mosse la coda, abbassò le due
orecchie" (Od.
XVII, 291-293; 296-297; 301-302).
Certo, questa analogia, anche se suggestiva, potrebbe essere
casuale: l'Odissea ai cani accenna ripetutamente, in
circostanze diverse - Telemaco va
all'assemblea degli Itacesi e "lo seguivano due cani veloci"
(Od. II, 11 ); vari
cani fanno la guardia presso la capanna di Eumeo (XIV, 29; XVI,
4) - e così
pure il Kalevala (ad esempio, il cane Musti, citato in più
occasioni). Qui
segnaliamo un altro parallelismo, che trae spunto dalla ferita
al ginocchio
(Od. XIX, 450) inferta a Ulisse da un cinghiale durante una
battuta di caccia,
a cui il nostro eroe in gioventù aveva partecipato insieme con
il nonno Autolieo:
"...Subito i figli d'Autolico curavano Odisseo,/ la piaga
(...)/ fasciarono
sapientemente, con il canto magico il sangue nero/ fermarono"
(XIX,
455-458). Ora, il tema del "canto magico" ("epaoidé" in greco,
a cui corrisponde
il concetto di "galdr" nel mondo nordico) per fermare
l'emorragia lo
ritroviamo sviluppato nel Kalevala: "Cessa, sangue, di fluire
(...) Resta fermo,
sangue, come un muro, immobile come una siepe (...) Scorri
almeno
dentro la carne, scivola tra le ossa: è meglio per te, assai
più bello, stare all'interno,
vivere sotto la pelle ribollendo nelle vene, scivolando sopra
le ossa,
anziché spanderti al suolo (...) Rallenta ora, prezioso sangue,
il tuo gocciolìo,
calma, liquido rosso, la tua corsa!" (runo IX). Anche in questo
caso si
tratta di una ferita al ginocchio (runo VIII): ne è vittima il
vecchio Vàinàmòi-nen, uno degli eroi del poema. Si potrebbe
supporre che la "epaoidé" intonata dagli zii del giovane Ulisse
dopo l'incidente si snodasse all'incirca sulla stessa
falsariga.
Per inciso, il poeta dell' Odissea non di rado sembra far
riferimento ad un
repertorio per così dire "magico-sciamanico", dal sapore
estremamente arcaico,
che invece nell'Iliade è di solito meno accentuato: ad esempio,
per rimanere
nel tema delle emorragie, in quest'ultima esse vengono fermate
in modo
più prosaico, applicando localmente un farmaco estratto da una
"radice calmante"
(Il. XI, 846).
Allargando ora i parallelismi a tutta la mitologia greca, la
vicenda di Kullervo,
bimbo regale messo in una botte e gettato in mare dallo zio che
cerca invano
di sbarazzarsene (runo XXXI), ricorda quella di Perseo; la
ragazza, sorella
di Kullervo, scomparsa "per cogliere bacche, cercare fragole ai
piedi del
monte" e ricercata disperatamente dalla madre (runo XXXIV),
richiama a sua
volta Persefone, rapita da Ade mentre raccoglie fiori, la quale
viene anch'essa
cercata da sua madre per ogni dove (Inno omerico a Demetra).
Notiamo un particolare
curioso: da un lato, i protagonisti finnici di queste vicende
sono fratello
e sorella; dall'altro, i loro corrispondenti greci hanno quasi
lo stesso nome
(Perseo e Persefone). Ancora, le "vergini di Mana" ("Mana" è
l'oltretomba) che
maledicono chi non ha rispetto per la madre (runo XXIII)
ricordano le Erinni
greche, entità anch'esse di origine infernale (ma pensiamo
anche ai "Manes",
gli spiriti dei morti dei Romani).
Infine, un altro esempio di convergenza tra la poesia omerica e
quella tradizionale
finnica lo possiamo riscontrare nel tema dell'orfano infelice",
sviluppato
con accenti particolarmente toccanti nel compianto di Andromaca
per
la morte di Ettore, là dove la poveretta sì sofferma sulla
triste sorte che attende
il loro figliolo, il piccolo Astianatte: "Per lui sempre
affanno, sempre strazio
in futuro/ sarà (...)/il giorno che lo fa orfano, priva il
bambino dì amici:/
davanti a tutti abbassa la testa, son lacrimose le guance" (Il.
XXIII, 488-491).
E questo un argomento particolarmente caro alla Kanteletar,
raccolta di liriche
popolari finlandesi, spesso di antica origine, curata nel
secolo scorso dal Lönnrot,
lo stesso studioso a cui dobbiamo il Kalevala.
In ogni caso, percepiamo in entrambe le mitologie gli echi di
una dimensione
culturale estremamente arcaica, in cui non mancano certi tratti
comuni:
vedremo in seguito che nel poema estone Kalevipoeg, anch'esso
dunque di
matrice "finnica", sono state riscontrate singolari analogie
con il mondo mitologico
dell'antica Grecia.
D'altronde, agli studiosi non sono sfuggite le corrispondenze
fra il contesto
omerico e le antiche civiltà barbariche dell'Europa centrale e
settentrionale:
al riguardo, è illuminante il quadro del primitivo mondo
celtico tracciato
dal Piggott, il quale non manca di sottolinearne l'analogia con
quello dì Omero: "Era una società barbara, basata su
un'economia legata all'aratro e alla
pastorizia (...) La struttura sociale stratificata, documentata
nei testi classici
ed in quelli in vernacolo, è riflessa archeologicamente non
solo nell'esistenza
di sepolture principesche con ricche offerte di accompagnamento
per ì morti,
ma in un'arte aristocratica di ornamento dei guerrieri, delle
loro donne, dei loro
cavalli e dei loro cocchi (...) Dalle testimonianze
archeologiche si deduce che
si tratta di un modello di società risalente all'Europa barbara
fino ad almeno la
metà del secondo millennio a.C: si tratta di un'età eroica,
simile per un verso
a quella di Omero e del Rig-Veda e per un altro a Beowulf e
alle Saghe, inquadrata
e sostenuta da un mondo molto vicino a quello delle Opere e i
Giorni di Esiodo"48.

48 Piggott, Druidi, pag. 36

Inoltre, sempre secondo il Piggott, "le favole eroiche sono il


prodotto di
una società primitiva, illetterata, eroica, composta da
un'aristocrazia guerriera"49,
e ritorna ancora sul parallelismo con Omero allorché afferma
che quella
celtica "è una letteratura creata oralmente e trasmessa da una
società barbara,
come le versioni originali dei poemi omerici o il Rig-Veda
sanscrito"50.

49 Piggott, / Druidi, pag. 79


50 Piggott, / Druidi, pag. 78
Al riguardo, ecco un'osservazione del Graves su un passo del
Mabinogion, raccolta di racconti di matrice celtica nell'area
britannica: "Nel Mabinogion, Gwidion (il re Odino o Wotan), si
serve, in circostanze analoghe, dell'astuzia
cui ricorse Odisseo per smascherare Achille: per sottrarre Llew
Gyffes,
un altro eroe solare, alla tutela di sua madre Arianrhod, egli
simula il fragore
di una battaglia all'esterno del castello e spaventa tanto la
regina da indurla a
consegnare lancia e scudo a Llew Llaw. La versione celtica del
mito è probabilmente
la più antica"51. Per inciso, questo parallelismo ben si
inserisce nel
quadro delle analogie tra Odino e Ulisse su cui ci siamo
soffermati poco fa.

51 Graves, I miti greci, 160.5

Notiamo anche che i poeti celtici, chiamati "fili",


intrattenevano i signori
nelle corti, proprio come gli aedi omerici: fra i loro temi
preferiti vi erano
quelli dell'"avventura" ("echtra") oltre i confini dell'umano e
del "girovagare"
("immram") sul lontano oceano di isola in isola52. Sembra quasi
di ascoltare
Ulisse intento a raccontare le sue peregrinazioni nella reggia
di Alcinoo...

52 Antiche storie e fiabe irlandesi, Introduzione, pag. IX

Non solo: una meta tipica dei racconti celtici sono le isole
paradisiache situate
in mezzo all'oceano, nell'estremo occidente, dove vivono donne
divine
che rifocillano ed amano gli eroi colà giunti, e possono anche
conceder loro
l'immortalità e l'eterna giovinezza, come nel caso dell' Immram
curaìg Màele
Dùin (La navigazione della barca di Màel Dùin) o delVImmram
Brain maic
Febail (La navigazione di Bran figlio di Febal)53.

53 Riportate in Antiche storie e fiabe irlandesi


Ecco per esempio, come la
regina di una di queste favolose isole si rivolge all'eroe colà
approdato: "Rimani
qui, e la vecchiaia ti starà lontana. Sarai sempre giovane come
sei e vivrai
sempre"54. Ora, questa tematica la ritroviamo tal quale
nell'isola di Calipso:
la signora di Ogigia promette ad Ulisse "di farlo immortale e
senza vecchiaia ("athànaton kaì agéron") per sempre" (Od. V,
136; VII, 257). Quanto al
nome stesso di Ogigia, sarebbe suggestivo accostarlo a quello
dell'isola celtica
dell'eterna giovinezza, chiamata "Tir-na n'Og".

54Markale, J Celti, pag. 318

Soffermiamoci adesso per un attimo sulle caratteristiche della


festa celtica
di metà estate, denominata "Lugnasad" e dedicata a Lug, dio ed
eroe delle
saghe irlandesi: tra le quattro feste principali del calendario
celtico, una per
stagione, la Lugnasad, che cadeva il 1 agosto, era quella
dedicata al re, al buon
governo, al benessere familiare e sociale, alla sistemazione
delle questioni politiche
e ai matrimoni; il suo stesso nome, che pare significasse
"assemblea di
Lug", è stato anche interpretato come "nozze di Lug". La
collocazione della festa
nel pieno dell'estate ne sottolinea il carattere tipicamente
"solare", proprio
del personaggio di Lug, il cui nome significa "luminoso" (si
ritrova in svariati
toponimi, tra cui Lugdunum, l'attuale Lione) e che da alcuni
studiosi viene
paragonato direttamente ad Apollo: "Ciò che si è trascurato
troppo è il suo carattere
apollineo: il suo nome significa bianchezza, luce; è presentato
nelle
epopee irlandesi come un eroe solare, radioso, che non muore
veramente, risorgente
ogni mattina; il suo animale simbolico è il corvo, come per
Apollo (...)
Egli regna sui Tuatha De Danann, popolo mitico dei poggi e
dell'aldilà in Irlanda"55.
Ora, lo spunto mitologico della Lugnasad è dato dalla disfatta
finale
dei truci Fomori e dei Fir Bolg, nemici dei Celti, e dal
ritorno di Lug che sposa
Erinn ed apporta nel paese la pace e l'abbondanza: si festeggia
la vittoria finale
nel combattimento del sole contro le potenze delle tenebre e
della morte,
allorché il calore e la luce dei raggi solari, dopo aver fugato
il freddo e la pioggia,
fanno rapidamente maturare i raccolti. È suggestivo il
parallelo con il ritorno
di Ulisse, la sconfitta dei pretendenti e la riconquista di
Penelope, con tanto
di "festa di nozze" ("gàmon"), sia pure simulata (Od. XXIII,
135; 149).

55 Markale, I Celti, pag. 105

Tale parallelo viene avvalorato dalla concomitanza,


ripetutamente sottolineata dall'Odissea, fra la data della gara
dell'arco per la conquista della sposa
e la festa dedicata ad "Apollo arciere" (Od. XXI, 267). Quel
giorno "gli
araldi in città la sacra ecatombe agli dèi/ guidavano: si
raccoglievano gli Achei
lunghe chiome/ sotto il bosco ombroso d'Apollo che lungi
saetta" (XX, 276-278).
Tutta la gara è consacrata al dio: "Oggi tra il popolo c'è la
festa solenne/
di Apollo; e chi potrà tendere l'arco?" (XXI, 258-259); così
Penelope afferma
che chi "riesce a tenderlo, gliene dà il vanto Apollo" (XXI,
338); e lo stesso
Ulisse, dopo aver vinto la gara, "parlò ai pretendenti:/
'Questa gara funesta è finita:/ adesso altro bersaglio, a cui
mai tirò uomo,/ saggerò, se lo centro, se mi
dà il vanto Apollo;/disse, e su Antinoo puntò il dardo amaro"
(XXII, 4-8). Ricordiamo
che la più grande impresa attribuita ad Apollo, il dio solare
per eccellenza
(nonché corrispondente di Lug, come abbiamo appena visto), è
l'uccisione
a colpi di frecce del serpente Pitone, il drago delle tenebre.
Per inciso, osserviamo che anche nella gara con l'arco
descritta dall'Iliade, in occasione dei funerali di Patroclo,
vi è un preciso accenno al dio: il cretese
Merione risultò vincitore perché "ad Apollo arciere promise/ di
fargli bella
ecatombe d'agnelli" (Il. XXIII, 872-873). Inoltre tra le due
gare si può riscontrare
un'altra convergenza, la presenza delle scuri (che nell'Iliade
rappresentano
il premio, nell'Odissea il bersaglio: sono di ferro in entrambi
i poemi):
esse sono riconducibili al simbolismo "solare" legato al dio e
alla gara stessa;
e la frequenza con cui le ritroviamo effigiate proprio
nell'area scandinava, in
graffiti caratterizzati da una marcata accentuazione di questo
tipo di simbologia,
depone anch'essa a favore della tesi che qui si propone.
Riguardo in particolare alle scuri-bersaglio dell' Odissea,
notiamo che
esse sono dodici, disposte opportunamente in fila in modo da
poter essere tutte
attraversate da un'unica freccia: su tale numero il poeta
ritorna più volte
(Od. XIX, 574; XIX, 578; XXI, 76), come a volerne sottolineare
l'importanza.
Che siano in relazione con i dodici mesi dell'anno? In tal caso
la gara con
l'arco, in concomitanza con la festa di Apollo, potrebbe avere
un potente valore
simbolico e rientrare in una raffinata metafora di tipo
astronomico-calendariale (in linea con il meccanismo delle
kenning, di cui abbiamo trovato
cospicui esempi nella stessa Odissea): la freccia, scagliata
dall'arciere solare
- con cui il vincitore della gara in certo senso s'identifica -
nell'attraversare
le dodici scuri sembra voler alludere al trascorrere del tempo
annuale, scandito
dal sole, che interseca i dodici mesi. D'altronde il profilo
curvilineo della
lama della scure ben si presta a rappresentare l'aspetto della
luna, signora
del ciclo mensile. E, come vedremo meglio in seguito, proprio
l'archeologia
nordica, attraverso i graffiti incisi su una delle lastre di
pietra ritrovate nella
tomba svedese di Kivik, ci dà la conferma dell'identificazione
della luna con
il simbolo della scure.
Tornando al mito di Lug - il cui nome è forse accostabile a
"Lykegenés",
epiteto attribuito dall'Iliade ad "Apollo arciere" ("Apolloni
klytotòxoi", IV,
101) - notiamo che questo personaggio ha un singolare
soprannome: "samildanach",
che i francesi traducono con "polytéchnicien" e che trova un
suggestivo
parallelo in certi appellativi attribuiti ad Ulisse, quali
"polytropos" (così viene chiamato nel primo verso dell'
Odissea) o "polyméchanos", vale a dire
"ingegnoso", "versatile": infatti il nostro eroe non solo
concepisce lo stratagemma
del cavallo di legno, ma è capace di fabbricarsi con le sue
mani la casa
(Od. XXIII, 192-194) nonché la zattera per tornare in patria
(V, 243-261).
A questo punto non ci sorprende che il nome stesso di Lug, il
dio "luminoso", forse si ritrovi nella radice di "Ulixes".
Considerando tutte queste convergenze e tenendo conto del fatto
che le vicende dell'Odissea sono presumibilmente ambientate nel
momento migliore
per la navigazione, cioè nel mese di luglio -Telemaco è appena
rientrato ad Itaca
da un impegnativo viaggio per mare fino a Pilo, mentre Ulisse
ha da poco
effettuato il suo rischiosissimo viaggio in zattera,
"attraversando l'abisso" da
Ogigia alla Scheria -- sembra ragionevole supporre che la
ricorrenza della festa
di Apollo, con cui cronologicamente si chiude il poema, cadesse
nel pieno
dell'estate, in una data corrispondente a quella della
Lugnasad, cioè all'inizio
di agosto, una quarantina di giorni dopo il solstizio (anche le
romane "Feriae
Augusti", peraltro istituite in un'epoca molto posteriore,
cadevano inizialmente
all'inizio del mese; con l'andar del tempo, andarono
spostandosi verso la metà,
fino a restare fissate alla data del 15, l'attuale Ferragosto,
forse perché nel Mediterraneo
la stagione estiva si protrae più a lungo).
Insomma, sia pure in via di congettura, ci sembra suggestivo
immaginare
che la "festa di Apollo arciere" - durante la quale ebbero
luogo la gara con
l'arco, la strage dei pretendenti e il trionfo di Ulisse, e che
verosimilmente si
festeggiava in tutto il mondo acheo - cadesse proprio nel primo
giorno dell'ultimo
mese estivo, ossia nella data corrispondente al 1 agosto (cioè
alla festa
celtica di Lugnasad) nell'ignoto calendario di quei popoli
dell'età del bronzo.
La stessa Odissea pare confermarcelo nella profezia, fatalmente
destinata
ad avverarsi, riguardante il giorno del vittorioso ritorno di
Ulisse: "Sul finire
del mese od all'inizio ("toù d'histaménoio")/ tornerà a casa e
punirà tutti quelli/
che disonorano la sua sposa" (XIV, 162-164). In effetti, poco
dopo il poeta
ci dice che la notte successiva all'arrivo ad Itaca era "senza
luna" ("skotomé-nios"; XIV, 457).

In conclusione, non sono pochi gli elementi dell'epos omerico


che trovano
suggestivi riscontri nelle mitologie dell'Europa
settentrionale, ed altri ancora
ne incontreremo nel seguito del presente lavoro: essi
costituiscono alcune
tra le tante tessere di un grande mosaico, nella cui
progressiva ricostruzione
già fin d'ora si riesce ad intravvedere un quadro d'insieme
straordinariamente
chiaro e coerente.
V.

LE AVVENTURE DI ULISSE

"Si potranno trovare i luoghi delle peregrinazioni di Ulisse


quando si rintraccerà
il calzolaio che ha cucito l'otre dei venti". Il geografo greco
Eratostene,
a cui dobbiamo questa ironica affermazione riportata da
Strabone (Geografia I, 2, 15), sembra alquanto scettico sulla
possibilità di collocare i viaggi
di Ulisse in un contesto reale. Dobbiamo ora verificare se non
vi sia invece modo
di imbattersi nel fantomatico "calzolaio" andandolo a cercare
non nel Mediterraneo,
ma nei mari nordici (dove soffiano venti che richiedono otri
particolarmente
robusti). D'altronde, è proprio lì che Plutarco ci ha
indirizzato con
la sua provvida segnalazione riguardo alla posizione dell'isola
Ogigia, la quale
rappresenta una svolta cruciale nelle avventure del nostro
eroe: infatti, se da
un lato essa segna l'inizio del viaggio di ritorno verso Itaca,
dall'altro costituisce
anche il punto d'arrivo delle sue peregrinazioni, che andranno
pertanto
ricercate in quello stesso ambito geografico.
Nell'iniziare ora la nostra indagine, osserviamo anzitutto che
le notizie
contenute nell'Odissea possono essere suddivise in due
tipologie. Alla prima
appartengono quelle relative agli avvenimenti narrati
direttamente da Omero:
essi, come abbiamo visto, trovano frequenti riscontri oggettivi
nella realtà fisica
dei luoghi, purché si riesca ad inquadrarli nel giusto
contesto; così è ad
esempio per l'isola Ogigia, per la Selleria e per la stessa
Itaca. L'altra tipologia è quella dei racconti che il poeta
attribuisce ai suoi personaggi: Nestore,
Menelao e naturalmente Ulisse, il quale intrattiene gli
ascoltatori feaci con la
narrazione in prima persona delle celebri avventure, estese su
quattro canti del
poema, di cui era stato protagonista allorché, reduce dalla
guerra di Troia, con
la sua nave cercava la via per tornare ad Itaca.
Anche se in molte di esse prevalgono gli aspetti favolistici,
tuttavia, sottoponendole
a un accurato esame, sarà possibile cogliervi non pochi spunti
di
interesse ai fini della nostra ricostruzione geografica,
tenendo presente la loro
collocazione nordica (anzi, non di rado sarà proprio
quest'ultima a darci la
chiave per ritrovare il reale significato di certe espressioni
o situazioni che,
trasportate al di fuori del loro contesto originario, sono
diventate assurde o incomprensibili:
pensiamo ad esempio al fenomeno dell'inversione della corrente
alla foce del fiume dei Feaci).
La prima avventura raccontata da Ulisse - l'unica che sia
caratterizzata da
un sostanziale realismo, senza toni da favola - descrive
l'assalto della sua flotta
alla città di Ismaro, subito dopo la partenza da Troia, ed il
successivo contrattacco
dei Ciconi, alleati dei Troiani durante la guerra (Il. II,
846): essi sono
l'unico popolo, tra quelli menzionati in queste vicende, ad
essere ricordato
anche nell'Iliade.
Come vedremo meglio nel capitolo dedicato all'area troiana, che
tra poco
localizzeremo in una zona fra Helsinki e Turku, la terra dei
Ciconi si può situare
nella Finlandia meridionale; il loro stesso nome (in greco
"Kìkones") richiama
la città di Kiikoinen, situata nell'entroterra, in direzione di
Tampere: ciò
è in perfetto accordo col racconto di Ulisse, il quale afferma
che, dopo essere
stati aggrediti, "fuggendo i Ciconi raggiunsero i Ciconi/ che
erano loro vicini,
numerosi e guerrieri,/ nell'interno abitanti" (Od. IX, 47-49).
Potrebbe a prima
vista sembrare contraddittorio il fatto che qui ci troviamo a
nord rispetto alla
"Troade" finlandese, in direzione opposta a quella di Itaca; ma
è proprio VOdissea a spiegarci perché le navi erano finite
fuori rotta: "Da Ilio il vento, spingendomi,
ai Ciconi mi avvicinò" (Od. IX, 39).
Dopo essere fortunosamente sfuggita al contrattacco dei Ciconi,
la piccola
flotta si dirige verso Itaca, ma ad un certo punto, in
prossimità del capo Malea
(situato, come vedremo in seguito, all'estremità meridionale
della Svezia, subito
a sud di Malmö) viene sorpresa da una furiosa tempesta: "Per
nove giorni
fui trascinato da venti funesti" (Od. IX, 82). Ciò segna una
svolta nella narrazione,
perché a questo punto Ulisse e i suoi compagni si vengono a
trovare come
catapultati in un contesto del tutto estraneo alla loro
dimensione abituale.
Ma soffermiamoci un attimo su questa ed altre burrasche, assai
poco mediterranee,
che durano giorni e giorni e trascinano gli eroi di Omero a
distanze
incredibili in balìa dei venti: non è detto che si tratti
soltanto di un espediente
letterario per "voltar pagina"; infatti, in un'ambientazione
atlantica, esse trovano
concreti riscontri nella realtà: ad esempio, nel 1431 una
tremenda bufera
trascinò la nave del veneziano Pietro Querini dal canale della
Manica addirittura
fino alle isole Lofoten, situate davanti alle coste della
Norvegia settentrionale;
i resti dello sfortunato equipaggio riuscirono infine a toccar
terra nel
disabitato scoglio di Sandö, dove furono soccorsi dagli
ospitali pescatori dell'isola
Röst, nelle Lofoten meridionali, e messi nelle condizioni di
intraprendere
la via del ritorno56. Ancora più sconvolgente - e ben più
gravida di conseguenze
per la storia dell'umanità - fu l'avventura capitata ad Alonso
Sanchez,
spagnolo originario di Huelva, nel 1484: secondo Garcilaso de
la Vega,
storico peruviano del XVI secolo, costui, mentre veleggiava sul
suo piccolo
mercantile dalle Canarie a Madera, incappò in una violentissima
tempesta che
lo trascinò verso occidente per molti giorni, finché non gli
riuscì di prender terra
su un'isola, forse Santo Domingo; da qui il buon Alonso riuscì
faticosamente
a tornare in Spagna, dove andò subito a raccontare l'accaduto a
"Cristoforo
Colombo genovese (...) grande navigatore e cosmografo", che si
mostrò
estremamente interessato: addirittura, secondo l'autorevole
parere di Gar
cilaso, "fu questo il principio primo e l'origine della
scoperta del Nuovo Mondo"57.
Per inciso, ciò potrebbe spiegare perché Colombo abbia scelto
per il suo
viaggio una rotta molto meridionale, che difatti lo condusse
verso le Bahamas:
evidentemente doveva aver avuto un'indicazione abbastanza
precisa sulla latitudine
della terra dove il Sànchez era sbarcato, ma non sulla
longitudine, che
a quell'epoca era assai difficile da misurare, e pertanto
preferì andare "a colpo
sicuro", attestandosi subito con la sua minuscola flotta sul
parallelo corrispondente
per poi seguirlo fino alla meta.

56 Treccani, voce ''Querini"


57 Garcilaso de la Vega, Commentari Reali degli Incas, I,
3

Torniamo ad Ulisse, il quale viene anch'egli spinto dalla


tempesta al di
fuori del suo mondo, quello del mar Baltico: si ritroverà così
ad errare nell'Atlantico
fino al suo arrivo nell'isola Ogigia, della cui posizione siamo
debitori
al Defacie plutarcheo. In concomitanza con tale trapasso in una
realtà ignota
e potenzialmente minacciosa, nelle peregrinazioni dell'Itacese
tende a prevalere
la dimensione favolistica; peraltro vi troveremo - e questo è
l'aspetto per
noi più significativo - espliciti accenni alle rotte "a tutto
campo" degli intrepidi
marinai della preistoria nelle infide acque del mar di
Norvegia, con riscontri
geografici tuttora verificabili: la genesi di tali avventure
potrebbe dunque
essere ricercata nelle storie e nelle leggende degli antichi
navigatori dell'età
del bronzo, liberamente rielaborate dalla fantasia del poeta.
La radice di
verità che esse conservano, e che qui cercheremo di riportare
alla luce, è stata
poi quasi del tutto oscurata dal passaggio alla localizzazione
mediterranea, che
ha reso irriconoscibili non solo i particolari geografici, ma
anche quelli descrittivi,
quali ad esempio le grandi maree dell'Atlantico o le "albe
rotanti" caratteristiche
dell'estremo Nord. Saranno proprio questi dettagli, una volta
riconosciuti
e restituiti al loro naturale contesto, a confermarci la
localizzazione
nordica delle avventure dell' Odissea, in pieno accordo con
l'indicazionechiave
di Plutarco riguardo alla posizione di Ogigia, l'isola che di
esse rappresenta
per così dire il capolinea.
Può essere altresì interessante rilevare che, in un articolo
apparso sulla rivista Planète nel 1965, il prof. Robert
Philippe ha ipotizzato una localizzazione
oceanica delle peregrinazioni di Ulisse58, a suo parere
ricollegabili alle rotte
commerciali dei navigatori fenici al di fuori del Mediterraneo
(ma ardite
ipotesi "atlantiche", sempre sullo stesso soggetto, erano state
avanzate fin dall'antichità,
ad esempio da Cratete di Mallo, vissuto nel II secolo a.C);
peraltro
lo studioso francese - che arriva perfino ad individuare la
terra dei Feaci nella
Norvegia meridionale - ignora la fondamentale segnalazione di
Plutarco riguardante
Ogigia e, soprattutto, come tutti gli altri studiosi prima di
lui non pone
minimamente in discussione la classica ubicazione greco-
mediterranea sia
dell'intera Iliade, sia del nucleo centrale dell' Odissea,
comprendente le vicende
ambientate ad Itaca ed il viaggio di Telemaco a Pilo e a
Sparta.

58 Ulysse est-il allé en Bretagne?, in Planète n. 22,


Paris 1965

Osserviamo anche che, data la contiguità esistente fra l'Oceano


Atlantico
e l'area del Baltico, le ipotesi di Cratete e del Philippe sono
molto meglio
inquadrabili in una collocazione integralmente nordica dei due
poemi piuttosto
che in quella tradizionale.

Le peregrinazioni "extrabaltiche" del nostro eroe iniziano dopo


che una
tempesta lo trascina "oltre Citera": dunque questa località
doveva essere situata
verso lo Skagerrak, braccio di mare situato fra il Baltico e il
Mare del
Nord. Al riguardo osserviamo che all'estremità meridionale
della Norvegia,
proprio sopra lo sbocco dello Skagerrak, si trova la regione di
"Agder"
("Agdhir" in antico nordico), il cui nome potrebbe forse essere
accostato a
quello degli omerici "Citerei" ("Kytheroi" in greco, Od. IX,
81).
Dopo nove giorni in balìa dei venti, "al decimo arrivammo/ alla
terra dei
Lotofagi" (Od. IX, 84). Essa è l'unica per la quale l'Odissea
non ci fornisce
particolari utili alla sua identificazione, salvo la prossimità
con il mare - comune
anche alle altre avventure, che peraltro risultano molto più
elaborate - ed è la
più breve: ai "mangiatori di loto" il poeta dedica appena una
ventina di versi.
Molti si sono chiesti che cosa fosse il loto ("lotòs" in
Greco), il cibo di cui
si nutriva questa misteriosa popolazione. Al riguardo notiamo
subito che con
il termine "lotòs" il poeta normalmente indica il trifoglio,
ossia una pianta da
pascolo (Il. II, 776; XIV, 348; XXI, 351). Inoltre un passo
dell'Odissea sottolinea
il fatto che il "lotòs" è un'erba ottima per i cavalli (Od. IV,
603). E pertanto
del tutto naturale e conseguente che nell'Iliade l'espressione
"lotòn
ereptòmenoi", cioè "pascendo trifoglio" sia riferita a dei
cavalli, per la precisione
quelli di Achille (Il. II, 776): il verbo greco "eréptomai"
significa "pascolare,
di solito con riferimento agli animali"59. A questo punto, ci
sembra assai
significativo il fatto che nell'Odissea l'identica espressione,
"lotòn ereptòmenoi",
venga riferita ai Lotofagi (IX, 97). Omero aggiunge che costoro
in effetti
si cibavano di "cibi di fiori" ("ànthinon eidar"), cioè
"vegetali" (IX, 84),
dove "ànthinon" deriva da "ànthos", cioè "fiore" o "germoglio",
come deduciamo
da un altro verso dello stesso libro, dove viene menzionato un
ariete
che pascola "ànthea poìes", cioè "i germogli dell'erba" (Od.
IX, 449).

59 Diz. Rocci, voce "eréptomai''

Da tutto ciò ci pare ragionevole dedurre che i Lotofagi fossero


"mangiatori
di trifoglio" (o, più genericamente, di erba, a meno che con
"lotòs" non si
debba intendere l'avena, in inglese
"oats", anch'essa adattissima per i cavalli), cioè uomini
estremamente primitivi ma, nel contempo, gentili, ospitali
nonché
vegetariani (o meglio, erbivori). Però, a nostro avviso, il
vero significato di questo
racconto lo si può cogliere meglio se si riflette sul fatto che
i Ciclopi, protagonisti
dell'avventura successiva, anch'essi del tutto ignari di
tecniche agricole
(Od. IX, 108), vengono invece dipinti come feroci cannibali. In
questo modo
il poeta sembra voler rimarcare la diversità degli uomini
incivili e selvaggi,
sia pure con le due modalità opposte dei Lotofagi (erbivori) e
dei Ciclopi (carnivori),
rispetto al mondo a lui noto, quello civile e rassicurante dove
invece "si
mangia il pane" ("sTton édontes", Od. IX, 89), come non a caso
l'Odissea tiene
a precisare proprio all'inizio dell'episodio che stiamo
esaminando.
In effetti, nei miti di molti popoli l'introduzione del pane
contrassegna il
passaggio alla civiltà, in quanto presuppone la padronanza sia
delle tecniche
agricole che della cottura mediante il fuoco. D'altronde timori
e pregiudizi nei
confronti dell'ignoto e dei "diversi", o presunti tali, da
sempre sono una costante
del genere umano, a tutte le latitudini e, come stiamo appunto
constatando,
in tutte le epoche.
Notiamo anche che alcuni compagni di Ulisse furono tentati dal
ritorno
allo "stato di natura" e provarono a restarsene con i Lotofagi
(ma poi furono
costretti con la forza a riimbarcarsi): ciò potrebbe farci
sospettare che anche a
quell'epoca non tutti accettassero di buon grado i vincoli ed i
condizionamenti
del "vivere civile".
L'avventura successiva è quella con i Ciclopi. Costoro appaiono
non soltanto
nel racconto in prima persona che Ulisse fa ai Feaci, ma anche
nel filone
principale della narrazione, quello narrato direttamente da
Omero. Questi
"uomini tracotanti", secondo l'Odissea erano una popolazione
reale, localizzata,
come abbiamo già visto, accanto agli stessi Feaci "nella vasta
Iperea"
(Od. VI, 4): ciò ci orienta verso l'area norvegese, che, come
vedremo, è il teatro
comune di queste vicende (Tav. III).
Ora, spigolando nella letteratura nordica medioevale, si
ritrovano tracce
dei Ciclopi in un passato che i millenni non sono riusciti a
cancellare: ad esempio,
Adamo di Brema nelle sue Gesta (IV, 40) fa menzione di un'isola
nordatlantica
dove alcuni marinai frisoni avrebbero incontrato dei giganti
monocoli.
E che dire di quel navigatore che, approdato con i suoi uomini
in una terra lontana,
affronta un gigante minaccioso e lo sconfigge accecandolo con
una "lancia
infuocata", dopo averne arroventato la punta sul fuoco? Non si
tratta di
Ulisse ma del re vichingo Hjörleif, personaggio della Hàlfs
saga Hàlfsrekka, e la vicenda è ambientata nella Norvegia
settentrionale: gli studiosi convengono
che "il motivo ricorda il mito di
Polifemo"60. In modo analogo, secondo la Skàldskaparmàl (II
parte dell'Edda di Snorri), il dio Thor neutralizza il gigante
Geirrødh scagliandogli contro un ferro arroventato (e tuttora
nei negozi
di "souvenir" di Bergen non è difficile trovare, tra gli
spiritosi pupazzetti raffiguranti
i mitici Troll, quelli con un solo occhio in mezzo alla
fronte).

60 Chiesa Isnardi, Leggende e miti vichinghi, pag. 197, nota 29

Osserviamo inoltre che Omero pone in particolare rilievo,


soffermandovisi più volte, una caratteristica peculiare dei
Ciclopi, ovvero la loro capacità di spostare facilmente enormi
macigni: "Aggiustò, sollevandolo, un masso
enorme, pesante,/ che chiudeva la porta: io dico che ventidue
carri/ buoni, da
quattro ruote, non l'avrebbero smosso da terra;/ tale immensa
roccia, scoscesa,
mise a chiuder la porta" (Od. IX, 240-243); e il mattino
successivo "dopo
aver mangiato spinse fuori dall'antro le pecore pingui,/ senza
fatica togliendo
l'enorme masso; ma subito/ ve lo rimise, come se alla faretra
rimettesse il coperchio"
(IX, 312-314). Non solo; con la stessa disinvoltura i Ciclopi
erano anche
in grado di lanciarli: "Strappò la cima di un monte enorme e la
scagliò,/ la
fece cadere davanti alla nave prua azzurra,/ di poco, sfiorò
quasi il timone"
(IX, 481-483); "poi strappata una rupe ancora più smisurata,/
la lanciò roteandola,
vi applicò forza immensa,/ e la fece cadere dietro la nave"
(IX, 537-539).
Ora, tutto questo ha un riscontro estremamente significativo
nel folklore
norvegese: infatti, "dei giganti si racconta che essi hanno
lanciato o fatto rotolare
questo o quello dei molti giganteschi massi erratici del
paese"61.

61 Treccani, voce "Norvegia: Etnografia e folklore"


Se da un lato ciò conferma l'ambientazione "norvegese" della
vicenda, dall'altro
ci rivela che il primo cantore dell' Odissea, per costruire le
avventure che
di volta in volta ha cucito addosso al suo eroe, ha attinto al
patrimonio di racconti
folkloristici e leggendari delle contrade dove egli stesso
decideva di collocarle,
rielaborandoli liberamente secondo il proprio estro. Riguardo
al problema di come
egli possa averli acquisiti in luoghi da lui così distanti,
possiamo supporre che
il grande sviluppo della navigazione durante l'età del bronzo
abbia favorito, oltre
ai commerci, anche gli scambi per così dire "culturali" e di
notizie tra aree diverse,
per il tramite di marinai, mercanti, pirati, aedi e così via
(ma si potrebbe
sospettare che certe notizie le avesse apprese proprio dai
Feaci). D'altronde, una
precisa allusione ai giramondo dell'epoca la troviamo nelle
parole che Nestore
rivolge a Telemaco, suo ospite, per "rompere il ghiaccio" ed
avviare la conversazione
dopo il banchetto: "Stranieri, chi siete? e di dove navigate i
sentieri dell'acqua ("hygrà kéleutha": ecco un'altra kenning
omerica)/ Forse per qualche
commercio, o andate errando così, senza meta/ sul mare..." (Od.
III, 71-73).
E che l'avventura dì Polifemo sia calata in un contesto tutto
nordico lo si
avverte proprio all'inizio della narrazione, all'arrivo cioè
della nave di Ulisse
in un porto completamente avvolto
nella nebbia; il racconto, come sempre avviene quando il poeta
è particolarmente ispirato, è uno stupendo mélange di
suggestione e di realismo: "A questo porto arrivammo, e un dio
ci guidava,/ in
una notte scura, non c'era un filo di luce;/ c'era una nebbia
fonda intorno alle
navi, e la luna/ non brillava nel cielo, era coperta di
nuvole./ Nessuno l'isola
poteva vedere con gli occhi,/ nemmeno la lunga risacca
frangentesi al lido/ vedemmo,
prima che le navi vi si appoggiassero" (Od. IX, 142-148).
Una traccia del mondo dei Ciclopi è forse rimasta anche nella
toponomastica:
lungo la costa della Norvegia centro-settentrionale troviamo un
Tosenfjorden,
che potrebbe ricordare il nome della madre di Polifemo: "...Lo
generò Toosa, la
ninfa/ figlia di Forchis, signore del mare instancabile/ nei
cupi anfratti unita con
Poseidone" (Od. I, 71-73). Non lontano, la montagna forata di
Torghatten, il cui
caratteristico "occhio" luminoso è ben visibile dalle navi di
passaggio, potrebbe
anch'essa aver contribuito alla costruzione del mito del
gigante monocolo, che
Omero paragona ad "un picco selvoso d'eccelsi monti" (Od. IX,
191). Davanti al
Tosenfjorden vi sono alcune isole, tra cui sarebbe suggestivo
ricercare l'"isola
piatta" (Od. IX, 116) che il poeta colloca accanto all'approdo
della terra dei Ciclopi:
peraltro un unico toponimo di per sé non può essere considerato
affidabile.
Ben più significativa è invece la coerenza del quadro
mitologico-geografìco delineato
da un lato dall'Odissea, con le sue indicazioni riguardo alla
contiguità tra
Feaci, Ciclopi e Giganti, dall'altro dalle leggende nordiche
medioevali, come abbiamo
rilevato poco fa. D'altra parte il dott. Dahl ha trovato alcune
corrispondenze
tra le indicazioni omeriche sul mondo dei Ciclopi e la
morfologia della penisola
di Inderøya, situata nel fiordo di Trondheim (poco a sud del
Tosenfjorden);
inoltre in tale area si trova un fiume chiamato Figga, il cui
nome richiama quello
del fiume Figgjo, menzionato in precedenza a proposito dei
Feaci.
A questo punto, considerando che l'avventura con Polifemo è
immediatamente
successiva a quella con i Lotofagi, potremmo congetturare che
il poeta
abbia inteso collocare anche la terra di questi ultimi lungo la
costa norvegese.
Un tenue indizio potrebbe essere rappresentato dai toponimi
Lote e Lotsberg,
rintracciabili lungo un fiordo nei pressi di Nordfjordeid
(circa 170 km a nord di
Bergen); ma, purtroppo, la necessaria circospezione nel
considerare toponimi
isolati, allorché non siano supportati da ulteriori elementi,
al momento non ci
consente di pervenire a conclusioni definitive. Dal canto suo,
il dott. Dahl punta
l'attenzione sulla località di Sømna nella Norvegia
settentrionale62. Resta da
sperare che gli studiosi prima o poi individuino nel materiale
folkloristico locale
qualche altra traccia sia dei Ciclopi che dei "mangiatori di
loto".

62 Dahl, Odysseus 'Pilgrimage to the Far North

Concludiamo queste considerazioni provando a rileggere


l'avventura di
Polifemo in un'ottica inedita. Essa infatti potrebbe essere
forse interpretata in
termini di rito oracolare (di cui si trova un altro esempio,
per certi versi analogo,
neli'incontro-scontro di Menelao con Proteo nell'isola di
Faro): la profezia,
purtroppo non del tutto fausta, circa il ritorno a casa
dell'eroe, viene espresso
effettivamente (Od. IX, 532-535) al termine di una "lotta", la
cui dimensione
rituale sembra trasparire da certi indizi, quali
l'ambientazione nella grotta e la
singolarità dei nomi dei protagonisti, da un lato "Polifemo",
che in greco significa
all'incirca "il molto parlante", dall'altro quel "Nessuno", con
cui Ulisse
si presenta. In tale lettura si inserisce molto bene la figura
di Telemo Eurimide,
"indovino nobile e grande/ (...) che vaticinando invecchiò tra
i Ciclopi"
(IX, 508; 510). D'altronde, anche nella vicenda del re vichingo
Hj'örleif, così simile a quella di Ulisse, non manca il motivo
dell'oracolo che il gigante accecato
alla fine proferisce sul futuro destino del re vittorioso.

Dopo la drammatica avventura nella terra dei Ciclopi,


"all'isola Eolia arrivammo;
qui stava/ Eolo Ippotade, caro ai numi immortali" (Od. X, 1-2).
Eolo
è uno dei personaggi più singolari dell'Odissea: "Mi diede un
otre, che fece
scuoiando un bue di nove anni,/ e dentro degli urlanti uragani
costrinse le
strade;/ perché signore dei venti lo fece il Cronìde,/ e può
fermare e destare
quello che vuole./ Nella concava nave l'otre legava con una
catenella d'argento,/
lucente, che non trapelassero fuori per nulla;/ e solo il vento
di Zefiro
mi mandò dietro a soffiare,/ che portasse le navi e noi pure"
(X, 19-26; il
"Cronìde" è Zeus, figlio di Crono).
Sembra ragionevole tentare di localizzare l'isola Eolia
nell'Atlantico, davanti
alla costa norvegese, là dove abbiamo trovato tracce dei
Ciclopi e dove
sarà ambientata anche l'avventura successiva, quella con i
Lestrigoni: puntiamo
dunque l'attenzione sulle isole Shetland, situate di fronte
alla Norvegia e
a nord-est della Scozia, a circa 60° di latitudine. A parte il
loro aspetto dirupato,
che ben s'attaglia alla descrizione omerica: "Nuda s'ergeva la
roccia" ("lisse
d'anadédrome pétre"; Od. X, 4), esse rappresentano una sede
ideale per il
"re dei venti", che in quell'area si scatenano generando
tempeste di straordinaria
violenza, con raffiche che non di rado superano i 200
chilometri orari!
Quanto allo Zefiro, il vento dell'ovest, citato alla fine del
passo che abbiamo
appena letto, è proprio quello che occorre ad Ulisse per
ritornare verso Itaca.
Le Shetland sono state abitate sin dalla preistoria: nel sito
di Jarlshof vi sono
reperti risalenti a tremila anni fa. E nelle vicine Orcadi,
situate 100 chilometri
a sud-ovest, si trovano resti ancora più antichi (quelli di
Skara Brae sono datati
al terzo millennio a.C), testimonianza di insediamenti umani
risalenti al Neolitico.
Situate in posizione quasi baricentrica fra la costa norvegese,
la Scozia e
le isole Färöer, per i navigatori dell'età del bronzo queste
isole dovevano costituire
un riferimento molto importante: esse erano un punto di
transito per i
traffici
marittimi tra la Scandinavia e le isole britanniche, almeno fin
quando prosperò l'"optimum climatico", che rendeva agevole
quella rotta; e forse non è un
caso che i primi coloni vichinghi vi giunsero all'inizio del IX
secolo d.C, in concomitanza
con un'altra congiuntura climaticamente favorevole, il
cosiddetto
"periodo caldo dell'età medioevale" (sebbene le isole dal 1472
non appartengano
più al regno di Norvegia, l'impronta scandinava è tuttora ben
presente).
Ma le tracce di Eolo (il cui nome in greco significa
"cangiante", con trasparente
riferimento all'imprevedibilità del mare) nella mitologia
nordica non
si sono perse del tutto: le sue principali caratteristiche le
ritroviamo infatti nella
figura di Njördhr, il dio che governa il vento e il mare e "che
si deve invocare
per i viaggi per mare"63. Come ci racconta l'Edda di Snorri,
egli vive a
Noatun, la "città delle navi", e il suo rapporto con il mare è
stretto al punto da
mettere in crisi il matrimonio con la moglie, la quale invece
preferisce la montagna {Gylfaginning 23); inoltre possiede
grandi ricchezze. Ma anche Eolo è molto ricco: infatti nella
sua reggia, "piena del fumo dei grassi", "stanno infinite
vivande" (Od. X, 9-10); e, se Njördhr ha avuto due figli da un
matrimonio
incestuoso con la sorella - costume frequente nella stirpe
divina dei "Vani"
a cui appartiene, aborrito invece dai loro avversari "Asi", gli
dèi principali
del pantheon nordico - Eolo non è da meno: infatti ha "sei
figlie e sei figli
nel fiore degli anni;/ e qui le figlie dava ai figli in ispose"
(Od. X, 6-7). Che ciò si possa mettere in rapporto anche col
fatto che Ægir e Ran, i terribili coniugi,
signori del mare, delle saghe norrene, corrispondono nella
mitologia greca ad
Egeone e Rea, fratello e sorella?

63 Chiesa Isnardi, / miti nordici, pag. 277


Per inciso, anche nella famiglia regale di Atlantide - la
mitica isola favolosamente
ricca, situata in mezzo all'oceano, che in tempi remoti avrebbe
dominato
il mare prima d'inabissarsi - vigeva la pratica dei matrimoni
tra parenti: lo deduciamo
dal fatto che, secondo il dialogo Crizia di Platone, dopo che
essi si mescolarono
con donne di stirpe diversa la loro discendenza cominciò a
tralignare.
Tornando ad Eolo-Njördhr, le convergenze tra i due personaggi
entrano
nel novero di quei parallelismi "marinari" tra il mondo omerico
e quello nordico,
dal sapore estremamente arcaico, di cui abbiamo già trovato
degli esempi
quali Egeone-Ægir e Proteo-marmendill. Constatiamo inoltre che
il nome di
Eolo, "Aìolos", risulta molto simile, considerando l'abituale
caduta della V, a
quello del dio dei venti indù, chiamato "Vayu": questa
coincidenza tra Omero
ed il mondo mitologico indiano appare tanto più significativa,
in quanto non resterà
l'unica in cui ci imbatteremo nel corso di questa ricerca (si
comincia altresì
ad avvertire la sensazione che il "brodo primordiale" dei miti
indoeuropei,
sia omerici che nordici o indù, alluda ad un mondo originario
caratterizzato
da una dimensione più marinara che continentale).
Riguardo alle Shetland, in queste isole vi sono miniere di
rame, il che potrebbe
trovare un riscontro nel "muro di bronzo" del palazzo di Eolo:
per inciso,
anche il dettaglio delle mura ricoperte di metallo richiama
l'Atlantide platonica (Crizìa 116b). Riguardo poi allo stesso
Eolo, è singolare il patronimico
"Ippotade" ("Hippotàdes", Od. X, 2, poi ribadito in X, 36)
attribuitogli da
Omero, che significa all'incirca "figlio del Cavaliere". Si può
restare perplessi
davanti a una tale espressione, riferita al re di un'isola
sperduta nell'Atlantico;
tuttavia essa rappresenta un altro suggestivo indizio a favore
di questa localizzazione,
in quanto la sì può mettere in relazione con la presenza di una
famosa
razza di "pony", originari proprio delle Shetland. Si tratta di
cavallini
molto pregiati, allevati sin dall'epoca vichinga (anzi,
potremmo a questo punto
ipotizzare, forse addirittura dall'età del bronzo).
E ora, dopo aver rilevato che l'estrema punta settentrionale
dell'arcipelago
ha un nome curiosamente "grecheggiante", Herma Ness, notiamo
che una
delle isole maggiori si chiama Yell: che fosse proprio qui la
sede del potentissimo
Eolo, dove, forse, i marinai della preistoria avevano un
santuario dedicato
al "signore dei venti"? In ogni caso, abbiamo ormai buoni
motivi per credere
che la bottega del paradossale "calzolaio" di Eratostene si
trovasse proprio da
queste parti.
Osserviamo, infine, che la posizione delle Shetland, situate
davanti alla
Norvegia meridionale, nel contesto mediterraneo corrisponde
all'incirca a quella
delle isole Eolie, dirimpetto alla costa calabrese; al riguardo
va notato che, secondo
un'antica tradizione, molte delle avventure di Ulisse sono
state localizzate
ad occidente della Grecia, nella penisola italiana, e in
particolare nell'area
del mar Tirreno: così la "vasta Iperea" è stata identificata
con la Campania, la
sede di Circe con il Circeo, la Trinachia con la Sicilia,
Scilla e Cariddi con lo
stretto di Messina e così via. Ciò è probabilmente legato al
fatto che, secondo
la memoria storica degli antichi Greci, evidentemente
sopravvissuta allo spostamento
dal Baltico all'Egeo, il teatro di queste vicende doveva essere
una terra
occidentale favolosa e semisconosciuta, una sorta di "Far West"
oceanico ante litteram: e poiché, nella nuova sede,
l'equivalente geografico della costa
atlantica della Norvegia era costituito proprio dalla costa
tirrenica dell'Italia, fu
qui che vennero rilocalizzate le avventure atlantiche descritte
nell'Odissea.
In tal modo è stata vieppiù esaltata la dimensione irreale e
fantastica di fenomeni
quali le Sirene, il micidiale gorgo di Cariddi o le danze
dell'Aurora nell'isola
di Circe, già amplificati dai racconti dei marinai e
trasfigurati dalla fantasia
del poeta: la trasposizione mediterranea non poteva che
renderli del tutto
irriconoscibili.
Dopo la partenza dall'isola Eolia, "sei giornate di seguito
navigammo di
giorno e di notte,/ la settima toccammo l'altissima rocca di
Lamo,/ Telepilo Lestrigonia, dove rientrando il pastore/ chiama
il pastore, e quello, uscendo, risponde;/
qui un uomo senza sonno prenderebbe due paghe,/ una pascendo
bovi,
l'altra pecore bianche menando/ perché son vicini i sentieri
della notte e del
giorno" (Od. X, 80-86). Questi ultimi versi mettono in evidenza
che qui il giorno
ha una durata eccezionalmente lunga (il che è perfettamente
coerente con
quanto fra poco riscontreremo nell'isola di Circe): ci troviamo
pertanto ad una
latitudine alquanto elevata, presumibilmente superiore a quella
delle Shetland,
il che ci indirizza verso le coste settentrionali della
Norvegia.
Alcuni studiosi, ad esempio il Graves, hanno perfettamente
intuito l'ambientazione
norvegese dell'avventura con i Lestrigoni: "Telepilo, che
significa
'la lontana porta (dell'inferno)' giace all'estremo nord
dell'Europa, nella
terra del sole di mezzanotte, dove i pastori che rientrano
danno la voce a quelli
che debbono uscire (...) I Lestrigoni ('di asperrima razza')
erano forse i Norvegesi"64.
E proprio davanti alla costa norvegese, in un'area non molto
distante
dal Tosenfjorden, ci imbattiamo in un'isola chiamata Lamøy,
nome che ricorda
quello dell'omerica Lamo. Come vedremo, tale ambientazione
risulta in
perfetto accordo anche con il contesto delle vicende che
seguono: la fantasia
del poeta dell' Odissea, supportata dalle notizie più o meno
favolose di cui egli
doveva essere giunto in possesso riguardo a queste rotte
estreme, sta spingendo
la nave dell'Itacese - l'unica che riesce a sfuggire alla
distruzione della
flotta da parte dei terribili Lestrigoni - sempre più a
settentrione.
64 Graves, I miti greci, 170.4

Lo possiamo constatare nell'avventura successiva, ambientata


nel magico
mondo di Circe, la "dea tremenda" (Od. X, 136) signora
dell'isola Eea. Infatti,
se già la terra dei Lestrigoni si collocava ad un'alta
latitudine, ora dobbiamo
trovarci ancora più a nord, come si evince da una preoccupata
frase di
Ulisse: "Qua non sappiamo dov'è la tenebra e dove l'aurora,/ o
dove il sole, che
gli uomini illumina, cala sotto la terra,/ o dove risale" (Od.
X, 190-192). Considerando
che la "tenebra" e 1'"aurora" designano rispettivamente l'ovest
e
l'est - come risulta sia dalla stessa Odissea (IX, 26) che
dall'Iliade (XII, 239)
- è chiaro qui il riferimento al fenomeno del sole di
mezzanotte (che infatti si
manifesta durante la stagione della navigazione).
Non solo: questo ci fornisce anche la chiave per interpretare
un enigmatico
passo, sempre relativo all'isola Eea, "dove l'Aurora nata di
luce/ ha la casa
e le danze" ("choroì", XII, 3-4). Cosa avrà mai voluto
intendere il poeta con
queste misteriose "danze dell'Aurora"?
Tale concetto trova un suggestivo parallelo nella mitologia
indiana: nei Veda, gli inni più antichi, l'Alba, ovvero la dea
Ushas, (la greca "Eòs"), appare
tipicamente come una figura
danzante. Il suo significato è stato approfondito dal Tilak,
geniale studioso indiano del secolo scorso, su cui avremo modo
di tornare in seguito. Nel suo La dimora artica nei Veda egli
dimostra che
le "danze di Ushas" sono riconducibili ad un fenomeno
particolare delle altissime
latitudini, oltre il Circolo polare: si tratta delle "albe
rotanti", che si manifestano
nella fase terminale della lunga notte artica e preannunciano
la ricomparsa
del disco solare al di sopra dell'orizzonte. Eccone una
suggestiva
descrizione in una splendida pagina del Warren, uno scrittore
dell'Ottocento citato
dal Tilak:
"Dapprima (sul finire della notte artica) appare all'orizzonte
del cielo notturno
una tenue luminosità, appena percettibile. Inizialmente essa fa
soltanto impallidire
alcune stelle, ma dopo un po' la si vede ingrandire e spostarsi
lateralmente
lungo l'orizzonte ancora buio. Ventiquattro ore più tardi ha
compiuto un
cerchio completo attorno all'osservatore e fa impallidire
qualche stella in più.
Presto la luce si intensifica e comincia a risplendere come una
perla d'Oriente:
continua intanto nel suo movimento circolare fin quando il suo
colore bianco
volge al rosso fiammeggiante bordato di porpora e d'oro. Giorno
dopo giorno,
questo splendido spettacolo continua a ruotare attorno
all'orizzonte e, a seconda
che le nuvole e le condizioni atmosferiche siano più o meno
favorevoli alla riflessione,
passa successivamente per fasi di infuocamento e di
affievolimento, ma
non si affievolisce che per infuocarsi di nuovo con più ardore,
mentre il sole,
sempre nascosto dietro l'orizzonte, si avvicina al punto di
emersione..."65.

65 Tilak, La dimora artica nei Veda, pag. 56


Ecco dunque spiegato il senso delle "danze dell'Aurora" (e
questo, come
avevamo preannunciato poco fa a proposito di Eolo-Vayu, è un
altro punto di
contatto fra le avventure di Ulisse e la mitologia indiana
nell'estremo nord della
Scandinavia). Al riguardo, ricordiamo che nell'antichità greca
(ma pensiamo
anche al sirtaki, la "danza di Zorba") i "cori ciclici" -
maschili, femminili
o misti - nella schematizzazione più semplice si riducevano a
balli a girotondo
e, come abbiamo appena visto, le "albe rotanti" sono un vero e
proprio girotondo
di luci sullo sfondo della notte artica.
Per inciso, sarebbe suggestivo accostare ai "choroì" greci le
"caroles"
francesi medioevali, le quali inizialmente erano danze sacre di
più persone che,
accompagnate dal canto, si tenevano per mano e si muovevano in
cerchio: ad
esse potremmo ricondurre anche i "Christmas carols", i
tradizionali canti natalizi
inglesi (che sono legati al solstizio d'inverno); così pure, le
anime elette
della Commedia dantesca girano in tondo "quelle carole
differentemente
danzando" {Paradiso XXIV, 16-17).
Torniamo all'Odissea: Omero ci dice che nell'isola Eea, oltre
alle danze
dell'Aurora, vi sono le "levate del Sole" ("antolaì", XII, 4).
Alla luce di quanto
emerso finora, pare ragionevole interpretare tale termine,
derivato dal verbo
"anatéllein", come il "restare" ("téllein") dell'astro "al di
sopra" ("anà")
dell'orizzonte: sembra insomma un altro riferimento al sole di
mezzanotte, dopo
la precedente allusione all'impossibilità di servirsene per
orientarsi. Teniamo
a sottolineare l'estrema coerenza delle indicazioni di Omero,
resa ancora
più rimarchevole dalla constatazione che esse sono
assolutamente uniche: in
nessun altro punto dei due poemi si parla mai di "danze
dell'Aurora" o di "levate
del Sole" (né tantomeno i naviganti si trovano
nell'impossibilità di capire
dove il sole sorga o dove tramonti).
D'altronde, Omero chiama Circe "figlia del Sole" (Od. X, 138),
il che
sembra voler evidenziare il suo particolare rapporto con
quest'ultimo. Circe è anche "sorella del terribile Eeta" (X,
137), re della mitica Colchide, e questo
suggerisce la contiguità tra la Colchide e l'Eea. Ciò a sua
volta ha un suggestivo
riscontro in un'espressione di Mimnermo, riportata dal Kerényi:
"Nelle
sale dorate di Eeta i raggi del sole riposavano durante la
notte"66, che contiene
un preciso riferimento al sole di mezzanotte.

66 Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, pag. 243

Ora, seguendo la costa norvegese verso nord, nella direzione


indicata dalle
precedenti tappe di Ulisse, al di là del circolo polare si
incontrano le isole
Lofoten, dove il sole di mezzanotte risplende senza
interruzione dalla fine di
maggio fino a luglio inoltrato. È questa, pertanto, la
probabile collocazione dei
regni incantati di Circe e di Eeta, tenuto conto del fatto che
tale identificazione
trova significativi riscontri negli avvertimenti che Circe dà
ad Ulisse in ordine
alle prove che l'eroe dovrà affrontare dopo la partenza
dall'isola Eea per
tornare a casa: le Sirene, le Rupi Erranti, lo stretto fra
Scilla e Cariddi, l'isola
Trinachia.
Il quadro delineato nell'Odissea rispecchia la situazione
caratteristica delle
Lofoten: un'infinità di isole con lisce pareti granitiche che
precipitano in
mare, migliaia di scogli che appaiono e scompaiono col variare
delle maree, e
soprattutto correnti di marea che corrono nei canali marini
come veri e propri
fiumi, i quali creano in certe condizioni enormi vortici, tra
cui quello celeberrimo
del Maelstrom, noto e descritto da tempi immemorabili.
Insomma, tutti i "pericoli" segnalati da Circe sono
identificabili in quest'area
(nel seguito faremo riferimento alla pubblicazione
dell'Ammiragliato
britannico Norway Pilot, Offshore and coastal waters of Norway
from Risværfjorden to the north part of Vesterålen, ed alla
carta n. 2327, Værøya to Litløya includìng Vestfjorden to
Narvik). La navigazione in queste
acque, specialmente lungo il versante occidentale
dell'arcipelago, è in effetti
estremamente impegnativa, a causa degli scogli e dei bassifondi
che si
estendono per alcune miglia dalla costa verso il largo: "Questa
costa andrebbe evitata"67
(presto vedremo che il "canto delle Sirene" con ogni
probabilità è una
kenning legata a tali bassifondi). Inoltre, gli stretti
passaggi fra le quattro isole
principali - Austvågøya, Vestvågøya, Flakstadøya e Moskenesøya,
che si
trovano allineate, all'incirca come i vagoni di un treno, da
nordest a sudovest
- vengono periodicamente percorsi, come abbiamo detto, da
fortissime correnti.

67 Norway Pilot \ II A, 13.7

In
particolare, il famigerato Maelstrom ("Moskenstraumen" in
lingua norvegese)
si forma all'estremità meridionale di Moskenesøya, davanti al
Capo
Lofotodden. Ora, considerando che il gorgo di Cariddi ha tutto
l'aspetto di un
fenomeno mareale - "Cariddi gloriosa l'acqua livida assorbe:/
tre volte al giorno ("tris ep'émati") la vomita e tre la
riassorbe" (Od. XII, 104-105) - esamineremo
in dettaglio la morfologia dello stretto fra Scilla e Cariddi,
così come
ce la descrive l'Odissea, e la metteremo a paragone con la zona
del Maelstrom.
Innanzi tutto, Omero ci dice che in quest'area vi sono "due
scogli; uno arriva
fino al cielo" ("ouranòn hikànei", Od. XII, 73): è lo scoglio
di Scilla, mentre
l'altro è "più basso" ("chthamalòteron"; XII, 101). Inoltre
essi sono "vicini
uno all'altro, dall'uno potresti colpir l'altro di freccia"
("ken dioì'steùseias",
XII, 102). In effetti, come ci ha segnalato Franco Michieli,
alla base della scoscesa
punta meridionale di Capo Lofotodden (lo scoglio che "arriva al
cielo"),
chiamata Helle, vi è un isolotto, chiamato Rödöya, di forma
allungata, parallelo
alla costa; da essa lo separa un angusto passaggio, il
Reidsundet, una sorta
di corridoio lungo circa 500 metri e largo 50, giusto un tiro
di freccia (tav.
VI).
Circe raccomanda ad Ulisse di passare attraverso lo "stretto"
("steinopòn",
XII, 234) tra i due scogli, "lungo lo scoglio di Scilla
navigando veloce"
("Skylles skopéloi pepleménos öka"; XII, 108) in modo da non
farsi risucchiare
dal gorgo, il cui raggio d'azione si estende al di là
dell'isolotto (XII,
104); ed effettivamente le istruzioni che Ulisse impartirà al
pilota della sua nave
prima di impegnarsi nello stretto saranno coerenti con tale
schema: "Fuori
dal vortice tieni la nave/ e bada allo scoglio ("skopélou
epimaìeo"), che non ti
sfugga/ la nave e vi cozzi e ci mandi in malora" (XII, 219-
221). E evidente la
preoccupazione che il gorgo possa risucchiare la nave o magari
la spinga ad infrangersi
contro l'isolotto, data la difficoltà, in quel mare sconvolto
dalle correnti,
di "centrare" l'imbocco dello stretto corridoio interposto fra
di esso e la
rupe di Scilla.
In una parola, la descrizione omerica ricalca esattamente i
dettagli morfologici
dell'area del Maelstrom. Ed è straordinario il fatto che,
millenni dopo gli
avvertimenti di Circe, a coloro che si avventurano in quelle
acque il portolano
dell'Ammiragliato, nel paragrafo intitolato "Route through
Moskenstraumen",
ripete la raccomandazione che Circe fa ad Ulisse: "E
consigliabile tenersi rasenti
a Lofotodden" ("It is advisable to keep near to Lofotodden").68

68 Norway Pilot II11.73

Circa il nome della rupe di Helle, che fronteggia l'isolotto di


Rödöya, lasciamo
agli specialisti di valutare la possibilità che esso si possa
far risalire a
quello dell'omerica Scilla ("Skylle").
La zona del Maelstrom un tempo era temutissima, e i pericoli a
cui si
esponevano le barche erano addirittura leggendari: si
favoleggiava addirittura
dì navi inghiottite nei suoi vortici, che venivano disegnati
nelle vecchie carte.
Ce ne parla, con un'enfasi che forse oggi appare esagerata ma
che rispecchia
molto bene i timori dei marinai di una volta, uno scrittore
dell'Ottocento, sempre
molto interessato alle questioni geografiche: "Al momento
dell'alta marea,
le acque chiuse tra le isole Färöer e le Lofoten sono come
precipitate con formidabile
violenza e formano un gorgo dal quale nessuna nave è mai
riuscita a
salvarsi. Da tutti i punti dell'orizzonte accorrono onde
mostruose a formare
quel vortice che viene chiamato "ombelico dell'oceano" e la cui
forza di attrazione
arriva ai quindici chilometri: persino le balene vengono
risucchiate
da quelle acque vorticose, persino gli orsi bianchi!" (J.
Verne, Ventimila leghe
sotto i mari).
Al riguardo, è assai significativo che Omero menzioni un
"ombelico del
mare" nell'area di Ogigia, allorché la introduce all'inizio
dell' Odissea: "...l'isola
in mezzo all'onde, dov'è l'ombelico del mare" ("omphalòs
thalàsses",
Od. I, 50). Ricordando che l'arcipelago delle Färöer si trova
al largo della zona
del Maelstrom - infatti Ulisse, una volta scampato a Cariddi,
approderà a
Ogigia - appare chiaro che il poeta ha qui inteso dare un'idea
di massima della
posizione dell'isola, agganciandola ad un riferimento
geografico, quale il
grande gorgo, che già a quel tempo doveva essere noto al punto
da suggerire d'emblée, con una semplice allusione, in quale
parte del mondo allora conosciuto
essa fosse approssimativamente ubicata (invece l'idea di un
"ombelico
del mare" situato nel Mediterraneo non ha nessun senso).
Riguardo a Scilla, dipinta come un terribile mostro che afferra
alcuni compagni
di Ulisse durante l'attraversamento dello stretto, qui con
tutta probabilità
abbiamo a che fare con una leggenda di naviganti,
reinterpretata in chiave
letteraria: chi può dimenticare la scena verniana della piovra
che con i suoi
tentacoli strappa un marinaio dal ponte del Nautilus'?
Per completare il quadro, l'isoletta di Mosken, situata qualche
miglio più
a sud dell'area del Maelstrom, corrisponde alla Trinachia
omerica, l'isola del
dio Sole che risultò fatale ai compagni di Ulisse. A suggello
dell'esattezza di
tale identificazione sta il significato stesso del nome
"Trinachia": esso deriva
dal termine "thrinax", che vuol dire precisamente "dalle tre
punte", o "tridente",
o, addirittura, "forcina tricuspide"69; effettivamente l'isola
di Mosken ha
la forma di un cappello con tre punte. Quando la visibilità è
buona, il suo caratteristico
profilo sullo sfondo dell'area del Maelstrom risulta
inconfondibile
(Tav. VI).

69 Voc. Rocci, voce "Thrinakìe"

Insomma sotto tutti gli aspetti, sia geografici che


descrittivi, lo "scoglio
nebbioso" di Scilla, lo scoglio "più basso" a un tiro di
freccia, la "rovinosa Cariddi"
al di là di quest'ultimo e la vicina isola Trinachia
corrispondono esattamente
alla "nuvolosa" rupe di Helseggen, al sottostante isolotto di
Rödöya, al
gorgo del Maelstrom e all'isola di Mosken.
Quanto alle Rupi Erranti "altissime, a picco: battendole,/
immane strepita
il flutto dell'azzurra Anfìtrite" (Od. XII, 59-60), si
trovavano al di là delle
Sirene (XII, 55), lungo una rotta che, come Circe mette bene in
chiaro, era alternativa
a Cariddi (XII, 56-58). Pertanto questa espressione è
riferibile agli
stretti, orientati in direzione nord-sud, che si aprono fra
l'una e l'altra delle
isole principali e segmentano l'arcipelago (Tav. VI): si tratta
di passaggi insidiosissimi
per le imbarcazioni, infestati dalle correnti e dagli scogli,
che affiorano
o scompaiono a seconda della marea. Per chi proviene dal nord
essi rappresentano
una sorta di scorciatoia che consente di raggiungere
direttamente la
costa norvegese, evitando il Maelstrom (che invece diventa un
passaggio obbligato
per chi preferisce costeggiare il versante nordoccidentale
dell'arcipelago
fino alla sua estremità meridionale, dove s'innesca il temibile
gorgo).
Tra questi stretti il più pericoloso, nonché quello a cui
meglio si attaglia
il racconto omerico, è quello tra Moskenesøya e Flakstadøya:
scendendo verso
sud, le navi che scelgono questa via devono prima passare il
Selfjorden, infestato
da scogli e bassifondi, quindi trovare lo strettissimo imbocco
del Sundstraumen,
con una larghezza navigabile di appena 22 metri70. Esso è
attraversato
da una fortissima corrente di marea, che lo rende estremamente
pericoloso.
Quanto al Selfjorden, "è caratterizzato da particolari
condizioni di ventosità.
E attestato che, con burrasche marine di sud-ovest o di ovest,
i venti soffiano
attraverso le strette valli montane con grande forza. Durante
le tempeste,
la schiuma viene sollevata attraverso il fiordo"71. Ciò
conferma il racconto dell' Odissea, secondo cui persino gli
uccelli rischiano di essere scaraventati contro
le rocce (XII, 62-64). Tutto questo insieme di fattori - i
colpi di vento e le
correnti che rendono ingovernabili le navi in un mare infido e
burrascoso, le pareti
a picco, gli stretti passaggi fra gli scogli che a seconda
della marea affiorano
o si trovano sommersi, le difficoltà a trovare i riferimenti
per orientarsi,
la schiuma che in talune circostanze arriva ad accecare gli
equipaggi - ha certamente
contribuito a creare la leggenda delle terribili "Rupi
Erranti", resa più
terrorizzante dalle esagerazioni dei marinai che in qualche
modo erano riusciti
a scamparvi o ne avevano sentito parlare da altri.

70 Norway Pilot II, 11.118


71 Norway Pilot II, , 13.40

Omero ci dice anche che una nave era riuscita a passare indenne
attraverso
le Rupi: "Quell'Argo che tutti cantano, tornando dal regno
d'Eèta:/ e il flutto
quella pure contro le immani rocce scagliava,/ ma Era la spinse
oltre, perché
le era caro Giasone" (Od. XII, 70-72). Ciò conferma che la
Colchide, ossia il
regno di Eeta, era effettivamente contigua all'isola di sua
sorella Circe.
Riguardo alle avventure di Giasone e dei suoi Argonauti in
cerca del Vello
d'Oro, tramandateci da poeti molto posteriori ad Omero, vedremo
più avanti
che esse sono probabilmente il ricordo di un antichissimo
periplo della Scandinavia,
effettuato in senso antiorario una generazione prima della
guerra di
Troia (l'Iliade infatti menziona il figlio di Giasone, re di
Lemno e buon amico
degli Achei): partendo dal Golfo di Botnia, gli Argonauti
raggiunsero il Mare Artico
per via fluviale, indi navigarono verso le Lofoten, dove si
trovava il regno
del "terribile Eeta", il fratello di Circe. Ora, il fatto che
nella trasposizione mediterranea
l'Eea e la Colchide, in patente contrasto con il dettato
omerico, siano
finite lontanissime l'una dall'altra, anzi in direzioni
diametralmente opposte
rispetto alla Grecia -l'una è stata localizzata nel mar
Tirreno, l'altra nel mar Nero
- potrebbe essere ricondotto al vago ricordo di due itinerari,
rispettivamente
verso occidente (il viaggio di Ulisse) e verso nord-est
(l'impresa degli Argonauti),
che, ove si parta dal mondo baltico, possono effettivamente
ricongiungersi
in corrispondenza delle Lofoten, mentre in quello mediterraneo,
dove la
chiusura è impossibile, rimangono irrimediabilmente distanti.
Notiamo a questo punto che il nome greco dell'isola di Circe,
"Aiaìe", è
formato dal suffisso "aie", variante del più comune "gaie", che
in Omero significa
"terra", e dal prefìsso "ai", che si ritrova nel nome di Eeta,
"Aiétes" in
greco (lasciamo agli specialisti la verifica di un'eventuale
relazione con l'antico
nordico "ey", "isola", dal protonordico "awjo").
Per inciso, "Aja" è il nome di un mitico popolo menzionato nel
Rigveda (VII, 18, 19), il più antico testo della letteratura
indiana: questa sarebbe da considerarsi
una mera combinazione se le avventure di Ulisse non
contenessero diversi
spunti che sembrano rimandare proprio al mondo vedico. Al
riguardo, è significativo
il fatto che, secondo il Tilak, la civiltà che ha prodotto gli
inni del Rigveda proveniva da una terra dell'estremo nord, al
di sopra del circolo polare.
Ma, una volta appurato che l'Eea e la Colchide erano due isole,
probabilmente
contigue,
nell'ambito delle Lofoten, è possibile tentare di individuarle
esattamente? Qui azzardiamo un'ipotesi, la cui verifica o meno
da parte degli
specialisti nulla cambia rispetto a quanto già acquisito. Da un
lato, il nome
"Aiaìe" lo si potrebbe forse accostare a quello di Vågøya (il
vecchio nome di
Austvågøya), la prima delle Lofoten che si incontra provenendo
da nord-est;
dall'altro, sulla costa occidentale dell'attigua Vestvågøya il
sito di Koivika potrebbe
ricordare il nome della Colchide. Come segnalato dal dott.
Dahl, in quest'area
sono presenti tracce di insediamenti umani risalenti al
Neolitico72. Si potrebbe
pertanto congetturare che le isole in cui Omero colloca Circe e
suo fratello
Eeta corrispondessero alle attuali Austvågøya e Vestvågøya.
Questo scenario
potrebbe spiegare perché mai che la nave Argo, salpata in tutta
fretta per
sfuggire al "terribile Eeta", preferì avventurarsi tra le "rupi
erranti" del Sundstraumen,
il pericolosissimo stretto fra Moskenesøya e Flakstadøya,
invece di
imboccare il più vicino Nappstraumen, fra Flakstadøya e
Vestvågøya: infatti il
tratto meridionale di quest'ultimo si trovava proprio davanti
alla Colchide e,
pertanto, era presumibilmente presidiato dalle navi di Eeta.
Insomma Giasone
non aveva altra scelta che tentare la via più rischiosa,
confidando nella buona
sorte e soprattutto nella sua protettrice, la grande dea Era
(invece Omero fa
scegliere al suo Ulisse la rotta in direzione di Cariddi).

72 Dahl, Odysseus' Pilgrimage to the Far North

Sempre riguardo all'isola di Circe, ci sembra suggestivo un


accostamento
del racconto omerico ad una saga nordica: ci riferiamo alla
fase iniziale dell'avventura,
allorché Ulisse, subito dopo lo sbarco nell'Eea, divide i suoi
uomini
in due gruppi, uno destinato ad esplorare l'isola, l'altro a
restare a guardia
della nave (Od. X, 203-209); ora, come ci dice il Portner
citando la Saga
groenlandese - che riporta anch'essa un viaggio di esplorazione
"ai confini
del mondo", in questo caso verso le coste americane -
un'identica strategia
venne attuata dal vichingo Leif Eriksson al suo arrivo nel
Vinland73 (per inciso,
Leif era originario dell'area dì Jæren, nella Norvegia
meridionale, ali'incirca
corrispondente alla terra dei Feaci, i grandi navigatori
dell'Odissea). Si
ha la netta sensazione che, a dispetto dei secoli trascorsi, la
mentalità di quegli
antichi navigatori non sia cambiata affatto...

73 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 67

Ed ora, prima di lasciare l'isola, dedicheremo qualche parola


al nome dell'erba
"möly" (Od. X, 305), l'antidoto con cui Ulisse, su indicazione
del dio
Hermes, riesce a neutralizzare gli incantesimi della maga,
intenzionata a tramutarlo
in un maiale; i "grammatici non hanno potuto stabilire che cosa
fosse"
questa erba misteriosa74.

74 Graves, I miti greci, 170.5

Al riguardo - dopo aver notato che questa lotta fra


magìe contrapposte ne ricorda un'altra, riportata nel runo III
del Kalevala: anche
qui uno stregone minaccia il suo avversario di affatturarlo
trasformandolo
in un porco, ma alla fine, naturalmente, verrà sconfìtto -
osserviamo che in
lingua sanscrita il termine "mula" vuol dire "radice"; in
particolare, come ci segnala
il dott. Giuliano Bruni di Livorno, associata con questo
vocabolo si riscontra
un'espressione tipica, "mula karman", che significa "root-
machina
tion, employment of a root for magical purposes"75, cioè
"operazione con una
radice, impiego di una radice per scopi magici": ritroviamo
insomma la stessa
connotazione "magica" dell'episodio omerico.

75 Monier-Williams, Sanskrit-English Diclionary, voce "mula"

Ma di quale radice potrebbe trattarsi? Al riguardo notiamo che


in una lingua
ormai estinta, quella degli antichi Guanci (i primitivi
abitanti delle isole Canarie
all'epoca dell'arrivo degli Spagnoli), ricostruita dallo
studioso austriaco
D. J. Wölfel nella sua opera Monumenta Linguae Canariae, il
termine "mol"
indicava la pianta dell'assenzio ("Artemisia Absinthium").
Questo è estremamente
significativo, perché l'artemisia ha un ruolo ben preciso nel
folklore europeo:
essa protegge dalle streghe e dai malefìci sia le persone (in
Boemia), sia
gli animali76 (in Prussia e Lituania: ritorna la localizzazione
nordica). E inoltre
singolare il fatto che in un antico racconto cinese il dio
Hiung somministri
a due animali, per trasformarli in esseri umani, un gambo di
artemisia77. Magìa,
streghe e trasformazioni: è il mondo della terribile maga
dell'Odissea (non
molto lontano, per chi ha letto A scuola dallo stregone
dell'antropologo Carlos
Castaneda, da quello di don Juan e delle sue piante
allucinogene).
76 Frazer, Il ramo d'oro, pagg. 967-968
77 Imiti dell'Oriente, pag. 107, "il mito di K'ien"

Notiamo che in una dimensione analoga si muove un personaggio


della mitologia
celtica, caratterizzato da una certa affinità con la Circe
omerica: si tratta
di una sorta di fattucchiera, chiamata Ceridwen o Keridwenn,
che distilla pozioni
magiche e combatte contro un nano una lunga lotta, nel corso
della quale
quest'ultimo si trasforma in vari tipi di animali (Ceridwen
diventerà la madre
di un personaggio eminente, Taliesin, che pertanto potrebbe
corrispondere al
figlio di Circe, Telegono, menzionato dai mitografi greci). In
ogni caso, come
abbiamo avuto già modo di osservare a proposito del canto
magico usato per arrestare
il sangue, in diversi episodi dell'Odissea, tra cui quello di
Circe, trapela
un sottofondo di tipo "sciamanico", presumibilmente molto
arcaico.
Tornando all'assenzio, esso può avere effetti "psichedelici" e,
se assunto
in dosi eccessive, provoca una grave malattia, l'absintismo (di
cui, ad esempio,
soffriva il pittore Van Gogh). Viene usato in particolare (il
suo nome in lingua
tedesca è wermut) per correggere il vino, che in tal modo
assume un caratteristico
sapore amaro: diffìcilmente si sarebbe potuta
immaginare una simile relazione tra il più classico degli
aperitivi e l'infuso con cui Ulisse neutralizzò gli
incantesimi di Circe (chiamata da Omero "polyphàrmakos", "dalle
molte pozioni";
Od. X, 276). Rimane il problema di quel fossile linguistico
presso gli abitanti
delle Canarie: potrebbe darsi, forse, che gli antenati dei
Guanci, biondi e dolicocefali,
facessero parte in tempi remoti di una "koiné" culturale estesa
fino alla
Norvegia; o, più probabilmente, che nel corso di antiche
migrazioni qualche
"scheggia" di una popolazione nordica sia approdata alle
Canarie.
Infine, nel lasciare le Lofoten, osserviamo che il loro nome si
può accostare
ad un vocabolo dell'Odissea: "lòphos" (XI, 596), che significa
"monte"
o "altura". È immediato il riferimento all'aspetto
caratteristico di queste isole,
che appaiono ai naviganti come montagne situate in mezzo al
mare.

Ritorniamo al nostro eroe, il quale - dopo l'intermezzo del


viaggio alle
"Case dell'Ade", su cui ci soffermeremo in seguito-è ripartito
dall'isola Eea,
diretto verso Itaca. Prima però di passare per Scilla e
Cariddi, deve superare
un'altra temibile insidia: "Alle Sirene prima verrai, che gli
uomini/ stregano tutti,
chi le avvicina./ Chi ignaro approda e ascolta la voce/ delle
Sirene, mai più la sposa e i piccoli figli,/ tornato a casa,
festosi l'attorniano,/ ma le Sirene col
canto armonioso lo stregano,/ sedute sul prato: pullula in giro
la riva di scheletri/
umani marcenti" (Od. XII, 39-46).
Anche questo racconto - che nel corso dei secoli ha generato
una miriade
di rielaborazioni, di iconografie e di interpretazioni - ha
tutta l'aria di essere stato
ispirato da una leggenda di marinai, a cui la collocazione
nordica delle avventure
di Ulisse offre ora una spiegazione razionale ed un preciso
riscontro
geografico: infatti, proprio davanti alla costa occidentale
delle Lofoten, prima
di raggiungere l'area del Maelstrom, si incontrano micidiali
secche e bassifondi,
la cui pericolosità viene esaltata dall'imponenza delle maree.
Il rumore prodotto
dalla risacca sugli scogli semisommersi può ingannare i
naviganti, illudendoli
che, dopo una lunga traversata, l'approdo sia finalmente
vicino; chi, lusingato
dal falso richiamo, si lascia fuorviare dalla giusta rotta,
rischia un disastroso
naufragio su quei bassi fondali: ecco il "canto ("aoidé") delle
Sirene".
In una parola, questa espressione è un'altra kenning omerica.
Essa trova
una precisa corrispondenza nella letteratura norrena, e
precisamente in una bellissima
immagine, tratta dalla Ynglinga saga, cap. 32, che ricorda la
sepoltura
in riva al mare del re svedese Yngvarr, caduto in battaglia
contro gli Estoni:
"...Così il mare dell'Est/ canta per diletto/ il canto di
Gymirl al signore degli
Sviar"78. Gymir è il nome di un gigante marino, che qui indica
il mare stesso:
il suo "canto" - del tutto analogo a quello delle Sirene, senza
però la loro
connotazione maligna-è il rumore delle onde che incessantemente
si frangono ai
piedi del tumulo di Yngvarr.

78 Chiesa Isnardi, Leggende e miti vichinghi, pag. 135

Insomma, tornando a Omero, negli antichi racconti dei


navigatori dell'età
del bronzo l'ingannevole suono delle onde contro gli scogli
diventava un
insidioso richiamo pieno di allettamenti, che nelle taverne
dell'epoca doveva
presumibilmente colorirsi di contenuti molto più "materiali" di
quelli che il
poeta, per incantare un personaggio del rango di Ulisse,
attribuisce al canto
delle sue Sirene. Quello che inizialmente doveva essere un
racconto di marinai
viene in certo senso trasfigurato, con un taglio che quasi
sembra alludere
ad un rito iniziatico: il contesto è in qualche modo
riconducibile a quello di Edipo,
con la presenza di minacciosi esseri polimorfi distruttori,
sostanzialmente
analoghi alla Sfinge tebana (su cui ritorneremo nel capitolo
dedicato a Tebe),
che simboleggiano l'inesorabile trascorrere del Tempo,
divoratore di tutte le cose:
"Pullula in giro la riva di scheletri/ umani marcenti;
sull'ossa le carni si disfano..."
(Od. XII, 45-46). E le stesse parole con cui esse allettano
Ulisse: "Sappiamo
tutto ciò che avviene ("ìdmen d'hòssa génetai") sulla terra
nutrice" (XII,
191), da un lato rimandano ad un mito solare: il Sole "conosce"
tutto perché vede
tutto; dall'altro richiamano alla mente la tentazione di Adamo
ad opera del
serpente, altro simbolo analogo a quello delle Sirene e della
stessa Sfinge; Adamo
peraltro non riesce a superare la prova perché, a differenza di
Ulisse, si fa
allettare dal frutto dell'albero della "conoscenza" e in tal
modo determina la sua
rovina.
Le Sirene si ritrovano anche nelle leggende nordiche, dove
hanno il nome
di "margygr". La Chiesa Isnardi riporta l'episodio di una
margygr che venne
uccisa dal re cristiano Olaf: "Si dice che costei cantasse
tanto soavemente
da addormentare gli equipaggi, dopodiché rovesciava le navi.
Talvolta tuttavia
urlava in modo tale che faceva impazzire le persone. Essa viene
descritta con
corpo simile a quello di un serpe e la testa come quella di un
cavallo; verdi gli
occhi, il corpo peloso e di colore grigio come una foca
(Flateyjarbòk II, pag.
25-26). Lo stesso episodio è riferito nella Helgi saga Olàfs
konungs Haraldssonar 14: qui però il mostro marino è descritto
come 'pesce o balena nella parte
inferiore, ma donna dalla vita in su'"79.

79 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pag. 354, nota 15

Inoltre, dopo aver notato che una testa cavallina viene


attribuita anche al
celebre mostro di Loch Ness (che peraltro sembra essere di
carattere assai più riservato), segnaliamo che mostri marini
del tutto simili a quello ucciso dal
nordico Olaf si trovano effigiati in alcune tombe etrusche di
Tarquinia (ad
esempio nella cosiddetta "tomba del Barone" ed in quella "delle
Leonesse").
Osserviamo ancora che il nome delle sirene ("seirenes" in
greco) sembraritrovarsi in quello di un'isola norvegese,
Sjernarøy, e di certi bassifondi davanti
alla costa tra Egersund e Flekkefjord, denominati "Sire-
grunnen", dove
"grunnen" indica le "secche" (che anche il nome delle Sirti
mediterranee, anch'esse
caratterizzate in certi punti dall'insidia dei bassi fondali,
abbia la stessa
origine?). Sarebbe altresì suggestivo accostarlo al vocabolo
omerico "xeròn",
che ritroviamo nel racconto del drammatico approdo di Ulisse,
con il mare in
tempesta, sulla costa della Selleria: "...Urlava l'onda gonfia
contro le secche
del lido ("xeròn epeìroio")/ rombando terribilmente" (Od. V,
402-403).
Infine, spigolando nella narrazione omerica, emerge un
singolare dettaglio.
Per ascoltare il canto delle Sirene, Ulisse viene legato: però
non all'albero
della nave, come sembrerebbe naturale e come l'iconografia
tradizionale
abitualmente ci propone, bensì alla "scarpa dell'albero"
("histopéde", Od. XII,
179), ossia "l'incassatura dove si conficcava l'albero"80. Al
riguardo, vedremo
più avanti che una caratteristica costruttiva tipica delle navi
achee era l'albero
smontabile: esso, quando non era utilizzato, veniva ripiegato e
appoggiato su
un cavalletto (Il. I, 434). Dal racconto pertanto emerge
un'immagine alquanto
bizzarra: quella di un uomo in piedi, al centro della nave, che
sta imbragato al
posto dell'albero (forse suggerita al poeta dalla
rappresentazione di qualche
divinità: pensiamo alle barche solari dei graffiti scandinavi).
Invece è del tutto
realistico il fatto che, per navigare in un mare infestato di
scogli e di bassifondi, non era il caso di avvalersi della vela
- ecco perché l'albero era stato
prudentemente abbassato - ma era necessario andare a remi, come
in effetti
Omero precisa nel verso successivo (XII, 180).
80 Voc. Rocci, voce "histopéde"

Ed ora, prima di ritornare alle peripezie del nostro eroe - il


quale, superata
l'insidia dei bassifondi, si sta ormai accingendo ad affrontare
la prova più tremenda di tutte: l'attraversamento dello stretto
di Scilla e Cariddi - soffermiamoci
per un attimo su quel delizioso quadretto di vita familiare
intravisto nei
versi dedicati alle Sirene: "...La sposa e i piccoli figli,/
tornato a casa, festosi l'attorniano"
(XII, 42-43). E la toccante "fotografia" di un interno
domestico, che
ci arriva direttamente da una lontana preistoria; sono questi
gli spunti della poesia
omerica che forse più di ogni altra cosa ci fanno sentire
vicini, al di là dei
millenni, agli uomini vissuti in quel remoto passato. In
entrambi i poemi vi è una
particolare attenzione per questi temi, che ritroviamo un po'
dappertutto, sempre
trattati con una naturalezza e una delicatezza straordinarie:
pensiamo a quella
madre, la quale "allontana una mosca dal figlio che in dolce
sonno riposa" (Il.
IV, 131), o alla deliziosa immagine della "bimba piccina,/ che
dietro la madre
correndo, la forza a prenderla in braccio,/ le afferra la
veste, la tira mentre cammina,/ la guarda piangendo per essere
presa in braccio" (Il. XVI, 7-10). Insomma,
i poemi omerici non raccontano soltanto storie di eroi, ma
anche l'umile vita
quotidiana di quelle antiche popolazioni, non di rado osservata
attraverso le
lenti di un sottile umorismo: ecco, ad esempio, due uomini che
"si ingiuriano intorno
ai confini,/ con le misure in mano, sul campo comune,/ e su
poco terreno
questionano per il diritto" (Il. XII, 421-423); o quelle
"donne/ che, irate, nel litigio
che divora l'animo,/ si rinfaccian tra loro, andando in mezzo
alla strada,/
molte cose, vere o no, ma l'ira detta anche queste!" (Il. XX,
252-255). Talora
in due o tre versi si racchiude la storia di una vita: "Pedeo,
figlio di Antenore,/
era bastardo, ma lo crebbe con cura Teano divina/ come i
figliuoli suoi, per far
piacere allo sposo" (Il. V, 69-71). Ma forse nulla eguaglia
l'umanità dell'immagine,
quasi "dickensiana", di una "operaia sincera, con la bilancia,/
che avendo
peso di qua e lana di là, lì solleva/ e li pareggia, per
guadagnare ai figli un
magro salario" (Il. XII, 433-435). È un Omero "minore" che
tuttavia ha un valore
inestimabile: la sua è l'unica testimonianza letteraria
pervenuta fino a noi
sulla way of life dell'età del bronzo nordica.
Ma adesso torniamo al nostro Ulisse e teniamoci all'erta,
perché la sua nave
sta arrivando nei pressi di Scilla e Cariddi: "A un tratto/
fumo e onde enormi
vidi e un rombo sentii./Ai compagni atterriti caddero via i
remi di mano..."
(Od. XII, 201-203). Si stanno avvicinando "i due Scogli: uno
arriva fino all'ampio
cielo/ con l'appuntita cima ("oxeìei koryphèi"): e l'avvolge
una nube/
livida ("nephéle kyanée"); e questa mai cede, mai lume sereno/
la sua vetta
circonda, né autunno né estate;/ né potrebbe mortale scalarlo
(...)/ infatti è una
roccia nuda ("pétre lìs"), che par levigata" (Od. XII, 73-79).
Questo è lo scoglio di Scilla; confrontiamone la descrizione
con quella,
tratta dal racconto Una discesa nel Maelstrom di Edgar Allan
Poe, della rupe
situata all'estremità meridionale delle Lofoten e affacciata
sullo stretto, delimitato
dall'isoletta di Mosken, dove la grande marea dell'Atlantico
genera il
Maelstrom: "La rupe di nero granito lucente si ergeva a picco
di un millecinquecento
o milleseicento piedi sopra il mondo caotico delle rocce
sottostanti
(...) La montagna sulla cui vetta ci troviamo si chiama
Helseggen, 'La Nuvolosa (...) Vidi un vasto spazio di mare
dalle acque di un colore d'inchiostro: (...)
a destra e a sinistra (...) si stendevano le linee di una
scogliera altissima, spaventosamente
nera e strapiombante, il cui cupo carattere era accentuato
dalla
risacca che alta le sbatteva contro la sua lugubre cresta
bianca, urlando e muggendo
in eterno...".
La sinistra rupe "nuvolosa" di Helseggen dunque combacia
esattamente
con la descrizione omerica del minaccioso scoglio di Scilla,
altissimo, strapiombante
sul mare e perennemente ricoperto da quella "nube livida".
Ma lasciamo ancora la penna allo scrittore americano, il quale
così descrive
il grande gorgo sottostante alla
rupe, il temutissimo Maelstrom: "Quando sale la marea, la
corrente scorre tra Lofoten e Mosken con rapidità travolgente:
il ruggito del suo riflusso impetuoso supera quello delle
cateratte più alte
e più terribili; il rumore si sente a varie leghe di distanza e
i turbini o vortici
sono così estesi e profondi, che, se una nave entra nel raggio
della loro attrazione,
viene inevitabilmente assorbita e trascinata a fracassarsi
contro le rocce
del fondo". "Viene assorbita": è proprio il corrispondente del
verbo "anarroibdeìn",
ripetutamente usato da Omero per indicare che "Cariddi l'acqua
livida assorbe.! Tre volte al giorno la vomita e tre la
riassorbe! paurosamente. Ah, che
tu non sia là quando assorbe)!" (Od. XII, 104-106). E "quando
ancora ingoiava
l'acqua salsa del mare,/ tutto sembrava rimescolarsi di dentro,
e la roccia/ rombava
terribile; in fondo la terra s'apriva,/ nereggiante di sabbia"
(XII, 240-243).
Da questa descrizione emerge che attorno a Cariddi la
profondità del mare
era molto scarsa, il che quadra perfettamente con i bassi
fondali caratteristici dell'area
del Maelstrom. D'altro canto, la morfologia dello Stretto di
Messina, con
cui una consolidata tradizione identifica Cariddi, è tutta
diversa: a parte il fatto
che il mare è molto più profondo, sia "lo scoglio che arriva
fino al cielo" con
"l'appuntita cima" perennemente avvolta da una "nube livida",
sia l'altro scoglio
distante un tiro di freccia, da quelle parti non si sono mai né
visti né sentiti.
Notiamo ancora che nella Carta Marina di Olaus Magnus,
risalente al
XVI secolo, il Maelstrom viene indicato con il nome di
"horrenda Carybdis"81;
e altrettanto singolare è il fatto che, secondo lo scrittore
norvegese Jonas Ramus
(inizio del Settecento), le omeriche Scilla e Cariddi andavano
senz'altro
collocate nell'area del Maelstrom.
81 de Santiilana-von Dechend, Il mulino di Amleto, fìg. 6

Ma anche in questa circostanza il nostro eroe riesce a


cavarsela: "Ed ecco,
appena sfuggimmo agli scogli, l'orrenda Cariddi/ e Scilla,
subito dopo
("autìk'épeita") all'isola meravigliosa del dio/ giungemmo: qui
c'erano le belle
vacche ampia fronte/ e le infinite floride greggi del Sole"
(Od. XII, 260-263).
Come abbiamo visto poco fa, sulla base di tali versi la mitica
Trinachia,
l'isola delle vacche del Sole, si identifica immediatamente:
infatti l'area dove
la marea innesca il terribile gorgo è delimitata verso sud
dall'isoletta di Mosken,
a forma di cappello a tricorno, la quale pertanto si trova
sulla rotta del ritorno
di Ulisse. Anche la sua posizione rispetto alla zona del
Maelstrom coincide
esattamente con quella della Trinachia omerica: sarà infatti il
vento del
sud, come vedremo tra poco, a sospingere di nuovo verso Cariddi
la nave di
Ulisse (Od. XII, 427-428), poco dopo la sua partenza
dall'isola.
Notiamo ora che tra le isole nei dintorni di Mosken vi sono una
Nesöya,
una Nykan, una Myken (e una Mykines la avevamo trovata nelle
Färöer), che
conservano l'impronta della
lingua greca. In particolare, dal mare sorge una piccola isola
con tre picchi chiamata Trenyken. È molto probabile che anche
tale nome derivi da "thrìnax", ma questa isoletta ci sembra
troppo piccola e
troppo lontana dal Maelstrom (più di 40 km) per identificarla
con la Trinachia
omerica. Nella stessa area troviamo anche un arcipelago
denominato Træna,
con tracce umane risalenti addirittura all'età della pietra (il
che dimostra quanto
l'arte della navigazione si fosse sviluppata in quell'area fin
da tempi antichissimi).
Dunque gli Achei baltici, approfittando dell'optimum
climatico",
dovevano essersi spinti fin lassù; d'altronde l'Odissea ci sta
dando eloquenti
prove di una approfondita conoscenza del mar di Norvegia, a
conferma di quel
passo del De facie in cui Plutarco accennava alle isole
dell'Atlantico "abitate
da Greci". A proposito poi di Nesöya - che ha la stessa radice
del vocabolo
greco "nèsos", cioè "isola" - di isole con questo stesso nome
nell'area norvegese
ve ne sono anche altre, una delle quali è situata nel bel mezzo
del fiordo
di Oslo (era forse uno scalo acheo in una zona che anche
nell'età del bronzo
doveva avere una certa importanza commerciale e strategica?).
Inoltre, al largo di quest'area, verso il centro
dell'Atlantico, ecco l'arcipelago
delle Färöer: questo ci ricorda che il nostro eroe, scampato
fortunosamente
al gorgo per la seconda volta, dopo molti giorni alla deriva in
balìa dei flutti
riesce infine a raggiungere l'isola Ogigia. In definitiva,
anche qui, come in tanti
altri casi dove le discrepanze rispetto al Mediterraneo
risultano più accentuate,
si riscontra uno straordinario insieme di corrispondenze
geografiche e morfologiche
tra il mondo descritto da Omero e la realtà fìsica del contesto
nordico.
Torniamo alla Trinachia, dove "in numero grande/ van pascolando
le vacche
del Sole e le floride greggi,/ sette mandrie di vacche, e tante
greggi belle
di pecore,/ cinquanta capi ciascuna" (Od. XII, 127-130). Ad
esse è legato un
tremendo "tabù", proferito sia dall'indovino Tiresia che dalla
stessa Circe: "Se
intatte le lasci, se pensi al ritorno,/ in Itaca, pur soffrendo
dolori, potrete arrivare:/
ma se le rapisci, allora t'annuncio la fine/ per la nave e i
compagni!" (Od.
XI, 110-113; XII, 137-140).
Queste vacche sono in effetti assai strane, se "parto tra esse
non c'è,/ né mai muoiono" (XII, 130-131). Chiaramente qui il
poeta sta parlando sotto metafora:
quale può essere il significato recondito delle 350 "vacche del
Sole"
(espressione che fa subito pensare a una sorta di kenning)?
Una plausibile chiave interpretativa ce la fornisce il Tilak,
che abbiamo
già menzionato a proposito delle albe rotanti: attraverso
un'analisi estremamente
approfondita degli antichi inni sacri indiani, estesa anche
alla mitologia
greca, egli arriva ad identificare le misteriosissime vacche
con i giorni dell'anno82.
Tale correlazione, che più avanti ritroveremo nell'Inno
omerico a Hermes (dove entrano in campo le "vacche di Apollo"),
traspare anche dalla
struttura chiastica di due versi all'inizio dell'Odissea:
"Mangiarono i bovi del
Sole Iperione/ ed il Sole distrusse il giorno del loro ritorno"
(I, 8-9), nonché dalle parole pronunciate dallo stesso dio
Sole, sdegnato per l'uccisione delle
sue vacche: "Zeus padre, e voi tutti, dèi beati sempre
viventi,/ punite i compagni
del Laerzìade Odisseo,/ che le mie vacche hanno ucciso,
violenti, delle
quali/ prendevo tanto piacere, salendo il cielo stellato,/ e
quando alla terra di
nuovo tornavo dal cielo!" (XII, 377-381).

82 Tilak, La dimora artica nei Veda, pag. 151

Questi versi visualizzano nitidamente il progressivo salire


dell'astro nella
volta celeste, giorno dopo giorno fino al solstizio d'estate, e
il suo successivo
ridiscendere, seguendo un percorso a spirale che forse si
ritrova in certe decorazioni,
per l'appunto spiraliformi, risalenti all'età del Bronzo. Il
fenomeno
viene drammatizzato dall'alta latitudine: Mosken è infatti
situata oltre il Circolo
polare; a questo proposito, i versi successivi, sempre riferiti
al Sole, "...se
non pagheranno il giusto fio per le vacche/ io scenderò
nell'Ade e brillerò per
i morti" (XII, 382-383), forse esprimono l'oscuro timore di
quelle antiche popolazioni
che esso non riapparisse più dopo la sua scomparsa durante la
notte
solstiziale. Si tratta di una preoccupazione che troviamo
espressa anche nella
mitologia indiana: ad esempio, secondo la Taittiriya Samhitd,
citata dal Tilak,
"I sacerdoti, un tempo, avevano il terrore che (...) il sole
non sorgesse più"83.

83 Tilak, La dimora artica nei Veda, pag. 329-106


Quest'ultimo spunto ci dà modo di accennare ad una affascinante
questione,
di particolare interesse per la nostra tesi: il Tilak,
basandosi su svariati
passi dei Veda, dove si riscontrano trasparenti allusioni a
fenomeni, quali le albe
rotanti, tipici delle alte latitudini, avanza l'ipotesi che i
suoi antenati Arii - i
quali parlavano una lingua appartenente alla stessa famiglia
del greco e delle lingue
nordiche - fossero provenuti da una termpolare, di cui peraltro
non è in grado
di indicare l'esatta ubicazione. Ebbene, certi indizi, che
esamineremo meglio
in seguito, sembrano indicare che la primordiale patria artica
dei biondi Arii si
trovasse proprio in queste plaghe della Scandinavia
settentrionale situate al di
sopra del Circolo polare, e in particolare nei suoi
arcipelaghi: d'altronde l'ipotesi
della prossimità tra la loro sede originaria e quella degli
Achei è avvalorata
non solo dall'affinità tra le rispettive lingue, ma anche dal
fatto che essi arrivarono
in India nello stesso periodo in cui i Micenei si installavano
in Grecia,
nella prima metà del II millennio a.C, in corrispondenza al
definitivo tracollo
di quell"'optimum climatico" che per un lunghissimo periodo,
più di tremila anni,
aveva reso abitabile tutto il nord dell'Europa fino al Mare
Artico.
Sarebbe suggestivo a questo punto correlare tale localizzazione
con il
"tabù" della carne di vacca nell'isola Trinachia,
caratteristico del mondo
indiano (anche se, a rigore, non dei primitivi Arii; si
potrebbe peraltro supporre
che l'introduzione del divieto, avvenuta in una fase
relativamente tarda, si sia
innestata su una precedente consuetudine di dedicare al Sole, e
pertanto di ritenere
intoccabili, certi capi selezionati se non intere mandrie, come
avveniva
ad esempio tra gli Incas, in analogia alla consacrazione,
tipica anch'essa dei
culti solari, di vergini considerate "spose" dell'astro).
Invece tale proibizione
appare del tutto anomala nel contesto omerico, dove anzi il
pasto sacrificale dei
bovini costituisce il momento centrale del culto religioso. In
ogni caso, anche
se la questione va considerata con la dovuta cautela, questo
potrebbe essere un
altro punto di contatto, dopo quelli già menzionati in
precedenza, delle avventure
di Ulisse con la mitologia indiana.
Riguardo ancora alla Trinachia, non è senza significato il
fatto che l'isola
"triplice" fosse dedicata al Sole: come vedremo meglio in
seguito, certi culti
solari, in Egitto come in India, erano imperniati su una
"trinità" che probabilmente
esprimeva il triplice aspetto dell'astro, rosso al suo sorgere,
bianco allo
zenit, nero durante le eclissi e, per estensione, di notte.
D'altronde, la valenza
"solare", già esplicita, della Trinachia - che ne conferma
l'alta latitudine, in cui
i fenomeni legati al ciclo annuo del sole risultano esasperati
- viene sottolineata
anche dai nomi delle sue "guardiane", ossia le due ninfe,
figlie del Sole,
chiamate Lampetìe e Faétusa, "Luminosa" e "Splendente" (Od.
XII, 132); notiamo
che esse hanno praticamente lo stesso nome di Lampo e Faetonte,
"i due
cavalli che l'Aurora trasportano" (Od. XXIII, 246).
A loro volta, questi ultimi molto spesso si ritrovano nei
graffiti dell'età del
bronzo scandinava; inoltre, sempre riguardo ad essi, segnaliamo
da un Iato un passo dell'Edda: "Skinfaxi si chiama il cavallo
che reca lo splendente/giorno agli uomini;/(...)
sempre risplende la sua criniera" (Vafthrudhnismal, str. 12) e
dall'altro
un suggestivo parallelo con i nomi di due spade, "Liusingo" e
"Hvitingo", in lingua
nordica "Lysingr" e "Hvitìngr", la Splendente e la Bianca, armi
avite forgiate
da misteriosi fabbri, anch'esse quasi omonime di Lampetìe e
Faétusa: vi accennano
le Gesta Danorum (VII, IX, 11), riprendendole da una saga
norrena. D'altronde,
un passo della Skàldskaparmàl mette esplicitamente in rapporto
la luce con le
spade degli dèi: "A sera, al momento di bere, Odino fece
portare nella sala delle spade:
esse rilucevano con tale splendore che, quando venne offerto da
bere, non ci fu
bisogno di altra luce". Ma sulle correlazioni tra i miti solari
e le attività metallurgiche
- argomento di estremo interesse - avremo in seguito modo di
soffermarci.

Torniamo ora ad Ulisse e ai suoi compagni, che erano approdati


all'isola del
Sole dopo essere fortunosamente scampati a Scilla e Cariddi: da
lì non potevano
ripartire, perché "tutto un mese, senza riposo, Noto soffiò e
nessun altro/ nasceva
mai dei venti, se non Euro e Noto" (Od. XII, 325-326). Al
solito, ciò è perfettamente congruente con la situazione
geografica:
infatti il vento del sud (ilNoto) e quello dell'est (l'Euro)
spingevano in direzione opposta a quella del ritorno.
La situazione si sbloccò solo quando "il Noto finì di soffiare
con raffiche/
e noi sulla nave in fretta salendo, navigavamo per il mare
infinito" (XII, 400-401).
A questo punto scatta inesorabile la punizione divina per il
misfatto perpetrato
nell'isola, dove i compagni di Ulisse, esaurite le provviste di
cibo e tormentati
dalla fame, avevano finito per divorare le intoccabili vacche:
un'improvvisa
tempesta con violente raffiche di vento disalbera la nave, poi
"Zeus tutt'insieme
tuonò e scagliò sulla nave la folgore:/ tutta girò su se stessa
(...)/ e fu piena di fumo
sulfureo;/ caddero fuori i compagni/ e come cornacchie in giro
per la nave nera/
furono preda dell'onde: il dio negò loro il ritorno!" (XII,
415-419).
Ma per il povero Ulisse, rimasto solo sul relitto, i guai non
sono finiti: "A
un tratto Zefiro smise di soffiare con raffiche/ e venne subito
il Noto, portando
angosce al mio cuore/ perché ancora indietro verso la rovinosa
Cariddi tornassi"
(XII, 426-428). Anche in questo caso, il gioco dei venti
descritto dall'Odissea risulta del tutto coerente con la reale
situazione geografica: la nave,
partita finalmente da Mosken con il favore dello Zefiro, il
vento dell'ovest diretto
verso la costa norvegese, viene poi risospinta dal Noto, il
vento del sud,
nella direzione dello stretto tra Mosken e Moskenesoya, cioè
verso il terribile
Maelstrom! E infine è risucchiata dal gorgo: "Questo
rumoreggiando ingoiava
l'acqua salsa del mare;/ ma io verso l'altissimo fico presi lo
slancio/ e là stetti
attaccato (...)/ Così, senza lasciar la presa, mi tenni, finché
vomitò fuori àncora,/ albero e chiglia; li sospiravo, e
finalmente tornarono/ fuori; nell'ora che
per la cena dalla piazza si toglie/ chi dirime le molte liti
dei contendenti,/ ecco
che i legni fuori da Cariddi riapparvero;/ e io staccai mani e
piedi per cadere
lì sopra" (Od. XII, 431-433; 437-442).
Notiamo anzitutto che non manca il tocco del grande artista
nell'immagine,
ricca di un humour quasi anglosassone, di questo singolare
"giudice di pace"
impegnato a dirimere "le liti dei contendenti", che per un
attimo fa capolino
in uno scenario così movimentato e drammatico, quasi a
significare la
flemmatica ma ineluttabile precisione di quel fenomeno naturale
(esso inoltre
rappresenta un altro delizioso quadretto di vita quotidiana che
dalla perduta
età del bronzo nordica arriva direttamente fino a noi).
Riguardo poi a quell'altissimo fico" ("makròn erineòn") a cui
Ulisse si
aggrappa per non essere risucchiato dal gorgo, Giacomo Tripodi,
professore di
botanica dell'Università di Messina, ci ha inviato le seguenti
considerazioni:
"Sebbene la Sicilia abbondi di fichi, la costa di Cariddi è
sabbiosa e la spiaggia è profonda. È impossibile arrivare a un
fico stando in mare. Al contrario,
le rupi che fiancheggiano il Maelstrom, pur assolutamente prive
di fichi, piante
di climi temperato-caldi, sono ricchissime di alghe brune
(phykid) appartenenti
alla specie
Ascophyllum nodosum, grandi fino a mezzo metro, che vegetano
proprio fin dove sono raggiunte dal flusso delle maree, dalle
onde o dagli spruzzi. I versi sembrano più convincenti se
interpretati come la descrizione del
tentativo (riuscito) di Ulisse di aggrapparsi a queste alghe,
che offrono una resistenza
meccanica perfettamente adeguata a sostenere il peso di un
uomo.
L'aggettivo 'altissimo' credo che non faccia tanto riferimento
alle dimensioni
dell'alga, che appare di dimensioni relativamente grandi solo
se considerate
nell'ambito delle alghe, ma al fatto che questi organismi
vegetali, nelle esposizioni
fortemente esposte alle onde (e quello del Maelstrom mi sembra
proprio
il caso) vegetano altissime sul livello del mare. L'ascofìllo
non vive se
non periodicamente emerso, e nell'Atlantico settentrionale si
può trovare anche
a molti metri al di sopra del livello medio del mare, in
funzione dell'altezza
delle maree. Non vi sono tracce di Ascophyllum nel
Mediterraneo, in mari temperato-caldi
e nello Stretto di Messina"84.

84 Comunicazione privata del 22.6.2001

Sempre il prof. Tripodi propone che il termine "erineòn",


tradizionalmente
inteso come "fico", in questo contesto sia invece riconducibile
all'aggettivo
"erìneos", "lanoso", da un vocabolo "érion", "lana", attestato
in Omero
(Il. XII, 434; Od. IV, 124): esso effettivamente si attaglia
molto bene all'aspetto
di un'alga come l'ascofìllo, che ricopre a mo' di vello la
superficie degli
scogli (notiamo anche che col nome di "erinosi", derivato dalla
stessa radice,
s'intende una malattia delle foglie di certe piante, che si
manifesta con una
"produzione sovrabbondante di peli che a guisa di feltro
coprono la faccia inferiore
della foglia"85, ad ulteriore conferma del rapporto esistente
tra quel vocabolo
greco e l'immagine da esso evocata).

85 Vocabolario Treccani, voce "erinosi"

A queste osservazioni del prof. Tripodi, importanti per il tema


specifico,
possiamo altresì attribuire un significato più generale: esse
ci mettono sull'avviso
in ordine ai possibili equivoci connessi ai nomi delle specie
sia vegetali
che animali menzionate in poemi antichissimi quali l'Iliade e
l'Odissea (inoltre dimostrano quanto possa essere determinante
il contributo degli specialisti
in ricerche interdisciplinari quali quella in corso).
In ogni caso, notiamo che dietro la scena precedente, degna di
un film di
James Bond (evidentemente il mito dell'eroe invincibile è
rimasto intatto dalla
prima età del bronzo a quella post-industriale), vi è un altro
aspetto ispirato
direttamente alla realtà: difatti, come ci ricorda il Poe,
quando la corrente si calma
i rottami risalgono alla superficie; ma gli intervalli di
tranquillità si verificano
soltanto tra il flusso e il riflusso della marea e non durano
che pochi minuti,
dopo di che la violenza della corrente riprende.
A questo punto Ulisse, aggrappato al relitto della sua nave,
viene spinto
alla deriva verso il largo, in direzione del centro
dell'Atlantico: "Per nove giorni fui trascinato, alla decima
notte/ i numi m'avvicinarono all'isola Ogigia"
(Od. XII, 447-448). Ritroviamo così, alla fine delle sue
peregrinazioni in lungo
e in largo per il mar di Norvegia, l'isola di Calipso, situata
in mezzo all'oceano
"a cinque giorni di navigazione dalla Britannia", secondo
l'indicazione
di Plutarco, che in tal modo, dopo averci consentito di
ritrovare il mondo omerico,
a sua volta proprio da Omero riceve una splendida conferma.
Ogni tassello
della costruzione si tiene con tutti gli altri, e l'ultimo va a
supportare il primo.

Infine, prima di potertornare ad Itaca, il nostro eroe deve


affrontare un'ultima
durissima prova: ricordiamo infatti l'interminabile traversata
in zattera
da Ogigia alla Scheda, culminata con il suo travagliato arrivo
nella terra feacia.
Al riguardo, avevamo già verificato che le indicazioni
dell'Odissea sono
pienamente congruenti con la realtà geografica delle coste
norvegesi: i "monti
ombrosi" e la costa che s'alza "come uno scudo" nell'area di
Bergen, l'insidia
degli scogli, il litorale scosceso che, scendendo verso sud, a
un certo punto
si abbassa e così via; tutto insomma sembra indicare che il
poeta avesse una
certa familiarità con il mondo dei Feaci (descritto con molta
accuratezza, ma
privo di qualsiasi riscontro nel Mediterraneo) e, in
particolare, che avesse bene
in mente il punto dell'approdo, avvenuto in un territorio ben
preciso, su cui
si sofferma con grande dovizia di dettagli: esso
geograficamente corrisponde
alla foce del Figgjo, il primo fiume che s'incontra a sud
dell'area dei fiordi. Ma
questa è una delle zone più ricche di testimonianze dell'età
del bronzo in tutta
la Norvegia: il luogo dunque merita una ricognizione.
Per raggiungerlo, conviene partire da Stavanger, città portuale
affacciata
sul Mare del Nord, all'estremità meridionale della zona dei
fiordi. Dopo aver
visitato il locale museo archeologico, usciamo in macchina
dalla città, diretti
a sud, in direzione di Klepp, percorrendo la statale 509, che
ben presto sfocia
nella 510. Già qui, nell'area di Sola, facendo qualche
deviazione per le strade
laterali è possibile osservare diversi tumuli dell'età del
bronzo e qualche graffito
rupestre: ad esempio, uno lo si trova, con qualche difficoltà
perché è mal
segnalato, nelle vicinanze di Ølberg. Continuando per la 510,
in pochi minuti
raggiungiamo il territorio di Klepp e poco dopo, in
corrispondenza della deviazione
per Sele, svoltiamo a destra e, percorsi ancora un paio di
chilometri,
troviamo un rustico parcheggio nei pressi del litorale. Dopo
aver lasciato la
macchina, una breve passeggiata a piedi ci conduce a una
spiaggia, tutta affollata
di bagnanti nel tiepido pomeriggio estivo, attraversata da un
fiume: è questo
il punto in cui il Figgjo confonde le sue acque con quelle del
mare.
Si tratta di un piccolo corso d'acqua, largo appena una decina
di metri e
poco profondo, che arriva alla foce facendo una larga ansa;
alle sue spalle, il
terreno si eleva leggermente ed è ricoperto di vegetazione e di
alberi. Anche se
forse la linea di costa dell'età del bronzo non coincideva
esattamente con quel
attuale, comunque è suggestivo immaginare che proprio qui, in
questa spiaggia
dove i bambini giocano a rincorrersi lungo la riva e si
schizzano con l'acqua,
il poeta abbia ambientato uno degli episodi più famosi
dell'Odissea, allorché
ci narra che la dolce Nausicaa, dopo aver lavato i panni nel
fiume e fatto
uno spuntino, si mise a giocare a palla con le ancelle (VI,
100) un attimo prima
dell'incontro con Ulisse, sbucato improvvisamente da un
cespuglio! Questi
infatti, provatissimo per la lunga traversata solitaria e per
la burrasca che lo
aveva colto in vicinanza della costa scompaginandogli la
zattera, il giorno prima
era faticosamente riuscito ad approdare alla foce del fiume;
qui si era guardato
subito attorno, in cerca di un rifugio per distendersi e
riposare, e gli era
parso che il miglior partito fosse quello di salire "verso il
clivo ("es klityn") e
il bosco ombroso" (Od. V, 470; il vocabolo "klitys", "clivo",
viene associato
ai corsi d'acqua anche nell'Iliade: XVI, 390). Pertanto "si
diresse verso il bosco,
lo raggiunse non lontano dall'acqua/ in un punto visibile e
s'infilò sotto un
doppio cespuglio" (Od. V, 475-476), dove potè finalmente
abbandonarsi ad un
lunghissimo sonno ristoratore, finché non venne svegliato dalle
grida delle ragazze.
Ora,
non solo la geografia, ma anche la morfologia del luogo sembra
combaciare
perfettamente con le descrizioni dell' Odissea: pertanto non si
può
escludere che il poeta, nel costruire il suo episodio, avesse
in mente proprio la
foce del Figgjo (non molto lontana dalla città di Nausicaa,
come si evince dal
seguito del racconto). A questo punto, considerata anche la
simpatia che egli
dimostra per il popolo dei Feaci, nonché le sue conoscenze,
forse acquisite anche
per loro tramite, sulla geografia e il folklore del mondo
oceanico in cui vengono
ambientate le peregrinazioni di Ulisse, può sorgere il sospetto
che fosse
particolarmente legato a questi luoghi, così ricchi di
testimonianze preistoriche,
magari per una lunga frequentazione se non addirittura per
nascita (ed è curiosa
la coincidenza che sempre in quest'area, a qualche chilometro
da Stavanger, ci
si imbatta nel toponimo "Hommersåk").
In ogni caso, un'origine feacia dei racconti e delle leggende
che hanno
ispirato le avventure di Ulisse spiegherebbe molto bene
l'estrema accuratezza
di certi dettagli geografici, in particolare quelli dell'area
delle Lofoten (pensiamo
al corridoio tra la rupe di Helle e l'isolotto di Rödöya,
effettivamente distanti
un tiro di freccia l'una dall'altro): solo un popolo di
navigatori, quali erano i Feaci
- che per di più, prima di scendere nella Norvegia meridionale,
avevano vissuto
da quelle parti - poteva essere al corrente di notizie così
precise.
Infine, a conclusione di questo capitolo, non ci resta che
prendere atto
dell'estrema naturalezza con cui tutte le avventure
dell'Odissea si inseriscono
nella realtà geografica dell'Atlantico settentrionale, dove si
è andato nel frattempo
delineando un quadro complessivo di straordinaria coerenza:
esse rappresentano
l'ultima testimonianza delle rotte che, col
favore di un clima più propizio di quello attuale, quattro
millenni or sono venivano percorse dagli intrepidi
navigatori dell'età del bronzo, dalle coste norvegesi alle
isole Shetland,
dalle Lofoten alle Färöer e forse ancora oltre, come proveremo
a verificare alla
fine del presente lavoro.
Ma non possiamo soffermarci ancora sul mondo di Ulisse: dopo
millenni
di oblìo, Troia ci attende.
Seconda parte

IL MONDO DI TROIA
VI.

"L'ANTICA ILIO NON SI TROVA QUI"

"Strabone riferisce che la pianura era un'insenatura marina al


tempo della
guerra di Troia, in seguito riempita dal limo portato giù dal
fiume. Schliemann era
ansioso di smentire questa affermazione perché era uno dei
principali argomenti
contrari alla teoria Troia-Hissarlik. Se il mare a quel tempo
lambiva le mura di
Troia, come potevano i greci e i troiani scorrazzare avanti e
indietro nella pianura
fra la città e il mare stesso, come dice Omero? (...) Grazie ad
una serie di carotaggi
eseguiti nel 1977, ora sappiamo che in epoca preistorica la
pianura era ricoperta
da un vasto braccio di mare, che arrivava fino a Hissarlik nel
periodo Troia IV
e assai più a monte nel periodo Troia II, ma che al tempo di
Strabone si era ridotto
ad una piccolissima baia alla foce del fiume. Strabone aveva
quindi ragione e le
conclusioni di Schliemann, basate su campioni inadeguati, erano
errate"86.

86 Traili, La verità perduta di Troia, pag. 209

Questa affermazione di David Traili, professore di lettere


classiche all'Università
di California, attesta i fortissimi dubbi degli studiosi
riguardo all'identificazione
della Troia omerica con la città a suo tempo riportata alla
luce
da Heinrich Schliemann nel sito anatolico di Hissarlik, situato
davanti allo
Stretto dei Dardanelli.
Per parte sua, Moses Finley ci dice che "il successo di
Schliemann fu un
avvenimento memorabile. Tuttavia, è un fatto incontestabile che
nel materiale
trovato da lui e dai suoi successori, nulla, non un solo
frammento, connette
la distruzione di Troia con la Grecia micenea o con
un'invasione di altra
provenienza. E tra quanto sappiamo dall'archeologia della
Grecia e dell'Asia
Minore, e dalle tavolette in lineare B, nessun dato si accorda
col racconto omerico
di una grande coalizione salpata dalla Grecia contro Troia
(...). Né è nominata
una guerra di Troia (...) Più interessante della scomparsa
della città è la
totale scomparsa degli stessi Troiani...87.

87 Finley, Il mondo di Odisseo, pag. 26

Il professore inglese aggiunge anche


che "a Troia non si è scoperto un solo frammento che si
riferisca ad Agamennone
o a qualsiasi altro re conquistatore, o a una coalizione
micenea o comunque
a una guerra. A favore dì questa recisa asserzione ho
l'autorità massima,
anche se riluttante, quella di Caskey, che ha scritto: Iresti
materiali di
Troia non provano al di là di ogni dubbio che questo luogo sia
stato mai
conquistato (...). Se questa cittadella non fu conquistata - e
se non fu saccheggiata
proprio dai Greci comandati da Agamennone - non abbiamo più una
ragione
tassativa per continuare a chiamarla Troia"88.

88 Finley, Il mondo di Odisseo, pag. 143


Osserviamo che queste non sono posizioni isolate: ad esempio,
secondo
il prof. Franco Codino "non è neppure certo che l'incendio di
Troia VII (lo
strato degli scavi troiani che può essere identificato con la
Troia omerica) fosse
stato causato da avvenimenti militari. Se veramente Troia fu
espugnata e distrutta,
non è ancora detto che i vincitori fossero Achei venuti dalla
penisola
greca"89; e per il prof. Fritz Graf "è vero che Troia VII venne
effettivamente distrutta
con violenza, ma può essere stata anche la violenza di un
terremoto, insieme
all'incendio che ne conseguì: non si può dimostrare un'azione
nemica,
né tantomeno la provenienza di eventuali nemici"90.

89 Codino, Introduzione a Omero, pag. 16


90 Graf, Il mito in Grecia, pag. 5

Tutto insomma sembra confermare l'affermazione di Strabone


secondo
cui, in base alla narrazione di Omero, "l'antica Ilio non si
trova qui" ("d'ouk
entaütha hìdrytai tò palaiòn Ilion"; Geografia, 13, 1, 27).
Un altro problema tuttora aperto è quello della localizzazione
degli alleati
dei Troiani, i quali nelll'Iliade sono sistematicamente
considerati vicini
all'area della città e, in pratica, confinanti col suo
territorio. Ad un certo punto
Ettore li apostrofa con un'espressione inequivocabile: "Stirpi
innumerevoli
dei vicini alleati" ("periktiònon", vale a dire, alla lettera,
"abitanti dei dintorni";
Il. XVII, 220). Però le indicazioni di Omero, come al solito
assai precise
e coerenti tra loro, appaiono in patente contraddizione con la
dislocazione
delle antiche popolazioni anatoliche, quali i Liei e i Cilici,
le cui sedi storiche
sono lontanissime dalla zona dei Dardanelli. Su questo
argomento il prof.
Nilsson ha messo in evidenza "il fatto sorprendente che nessuno
degli alleati
dei Troiani gioca un ruolo così importante come il popolo dei
Liei, che vivevano
nel lontano sud dell'Asia Minore. I passaggi dove sono
menzionati la Licia
ed i Liei sono troppo numerosi per essere enumerati, e io devo
solo sottolineare
la parte rilevante giocata dagli eroi liei Sarpedone, Glauco e
Pandaro in
diversi canti dell'Iliade. Ma nel quarto libro viene detto che
Pandaro veniva
dalla città di Zelea e dal fiume Esepo, che scorre dal monte
Ida al mare, e queste
indicazioni si ritrovano nel Catalogo. Ciò contraddice la
localizzazione licia
di Pandaro (...) La stessa cosa pare essere accaduta nel caso
dei Cilici. Andromaca
è detta essere la figlia di Eezione, sovrano dei Cilici e re
della Tebe
sotto il monte Placo, una città presa da Achille. Evidentemente
questa Tebe
non è lontana da Troia, ma l'esistenza di Cilici al di fuori
dell'Asia Minore sudorientale
è sconosciuta"91.

91 Nilsson, The Mycenaean Origìn ofGreek Mythology, pagg.


57-58

E Wilusa? E stata ipotizzata una relazione tra il nome di


questa città hittita
e l'omerica Ilio, l'altro nome di Troia. In realtà "Wilusa si
trovava probabilmente
nella ricca pianura di Eskisehir"92, distante più di 300
chilometri dall'area
dei Dardanelli.

92 Macqueen, Gli Hittiti: un impero sugli altipiani, pag.


43

In conclusione, la corrispondenza fra la Troia omerica e la


città ritrovata
nella collina di Hissarlik non solo non è affatto provata, ma è
estremamente
dubbia: forse quest'ultima non era altro che una roccaforte del
periodo miceneo,
ben fortificata, coerentemente con la sua posizione strategica
all'imbocco
dei Dardanelli, come risulta da recenti scavi archeologici
(Rose e Korfmann).
A tale proposito notiamo che in quell'area, indagata da oltre
un secolo,
solo da poco tempo sono stati individuati nuovi resti di mura
imponenti: ciò fa riflettere sull'intrinseca difficoltà di
scoprire le tracce, anche se cospicue,
delle civiltà scomparse. Probabilmente ciò che indusse i
Micenei a ribattezzare
con il nome di Troia la città che millenni dopo sarebbe stata
ritrovata da
Schliemann fu la sua posizione, grosso modo corrispondente a
quella del suo
"prototipo" nordico, come d'altronde avvenne in molti altri
casi, quali Atene,
Tebe, Micene, Calidone, la Tebe egizia e tanti altri.
Ed ora, sgomberato il terreno dalla fuorviante presenza della
città di Schliemann
(al quale rimane comunque l'immenso merito di avere scoperto la
civiltà
micenea e di aver riproposto con forza la storicità della
guerra di Troia),
possiamo iniziare la ricerca dei luoghi descritti nell'Iliade,
alla luce di quanto
finora emerso a proposito del mondo di Ulisse, basandoci
ovviamente sui dati
geografici forniti da Omero.
Partiamo dal fatto che, secondo molti passi dell'Iliade, il
territorio di Troia
era adiacente ad un vasto mare, chiamato "Ellesponto". In
particolare, è significativa
una frase rivolta da Achille al re Priamo nel corso del loro
colloquio
nell'ultimo libro del poema: "Quanto paese di sopra limita
Lesbo, la sede di
Macaro,/ e di sotto la Frigia e 1''Ellesponto sconfinato
("Helléspontos apeì-ron"),/ su tutti, raccontano, o vecchio,
per figli e ricchezze splendevi" (Il. XXIV, 544-546). I domìni
della città dunque si estendevano lungo un mare definito
addirittura "sconfinato" (in altre occasioni l'Iliade ricorre
all'aggettivo
"platys", "largo": VII, 86; XVII, 432). Al riguardo, osserviamo
che l'"Ellesponto"
mediterraneo, corrispondente al Mar di Mannara e allo Stretto
dei
Dardanelli, nei cui pressi si trova la collina di Hissarlik, è
tutt'altro che "largo"
o "sconfinato": anzi, in un certo punto "diviene più stretto,
tanto da sembrare
piuttosto un fiume anziché un braccio di mare"93, con buona
pace di Schliemann.

93 Treccani, voce "Dardanelli"

Ora,
lo sconcertante Ellesponto omerico ha un altrettanto singolare
corrispondente
in quel mondo baltico dove già abbiamo ritrovato l'arcipelago
di
Itaca: ci riferiamo all'Ellesponto di Saxo Grammaticus, abitato
da un popolo
nemico dei Danesi: "...Dopo questi avvenimenti Regnerò, che
stava preparando
una spedizione contro gli Ellespontini, convocò l'assemblea dei
Danesi
(...) Quindi con una serie di ripetuti assalti fiaccò e
sottomise l'Ellesponto ed il suo monarca, Dian. Da ultimo lo
uccise, dopo avergli causato una
rovina dietro l'altra" {Gesta Danorum IX, IV, 20). Per di più
questo Ellesponto
nordico, che sembra essere collocato ad oriente rispetto
all'area danese,
ha, come abbiamo già visto, un nome inequivocabilmente greco, a
testimonianza
del fatto che in tempi remoti sulle rive del Baltico si parlava
la
lingua degli Achei.
Esaminiamo dunque il Baltico orientale e fissiamo in
particolare l'attenzione
sul Golfo di Finlandia: esso da un canto è situato in posizione
congruente
con questi "Ellespontini" di Saxo, dall'altro, essendo rivolto
verso il nord-est
dell'area baltica, risulta essere il naturale corrispondente
geografico, però ben
più vasto, dello Stretto dei Dardanelli: appare insomma
ragionevolmente identificabile
con il "largo Ellesponto" di Omero. Ce lo confermerà tra poco
il fatto
che la scansione del Catalogo delle navi ci porterà a
localizzare l'Ellade
omerica sulla costa dell'Estonia, affacciata proprio sul Golfo
di Finlandia: che
quest'ultimo fosse insomma l'"Ellesponto", cioè il "mare
dell'Ellade" appare
dunque del tutto ammissibile. Si tratta insomma di un caso
molto simile a quello
del Peloponneso, l'"Isola di Pelope": mentre quello greco non
quadra affatto
con le indicazioni dei due poemi - anzi, nemmeno col suo stesso
nome - invece
nel contesto baltico abbiamo trovato un'isola, situata in
posizione corrispondente,
che vi si adatta a meraviglia.
Chiediamoci ora se dall'Iliade si possa evincere l'orientamento
del territorio
di Troia rispetto all'Ellesponto. Qui ci viene in soccorso la
dea Era in
persona, con una precisa affermazione: "Di Zefiro e di candido
Noto/ spingerò dal mare ("ex halòthen") una violenta tempesta"
(Il. XXI, 334-335). Tenendo
presente che "Zefiro" è il vento dell'ovest, "Noto" quello del
sud, la loro provenienza
"dal mare" indica che il "largo Ellesponto" era situato a sud-
ovest rispetto
alla città: ciò da un lato mette definitivamente fuori gioco il
sito di Hissarlik,
orientato in tutt'altro modo, dall'altro indirizza la ricerca
della Troia
omerica verso un'area affacciata sul Golfo di Finlandia e, nel
contempo, orientata
a nord-est rispetto ad esso.
Una zona che risponde ad entrambi i requisiti - anzi l'unica, a
parte il territorio
russo ad ovest di San Pietroburgo - è quella situata ad
occidente di Helsinki,
nella Finlandia meridionale, verso l'estremità del Golfo
omonimo, là dove quest'ultimo
confluisce nel Baltico: qui il mare si trova per l'appunto in
direzione sud
ovest. Inoltre, sulla costa svedese di fronte a tale area, nel
punto in cui le due
sponde contrapposte si avvicinano maggiormente, rendendo più
agevole il passaggio
dall'una all'altra, si apre una grande baia, quella di
Norrtälje,
che è orientata nella direzione dell'antistante costa
finlandese e già a prima vista richiama alla
mente l'Aulide omerica, da cui salpò la flotta achea diretta a
Troia.
Osserviamo anche che nel tratto di mare interposto vi è un
arcipelago,
quello delle Åland, che a questo punto viene naturale mettere
in relazione con
l'isola di Lemno, dove gli Achei fecero scalo durante la
traversata, e con le vicine
Imbro e Samotracia (è la rotta attualmente percorsa dalle linee
di traghetti
tra la Svezia e la Finlandia). In particolare, una di tali
isole, che costituiscono
una sorta di ponte naturale tra le due sponde, si chiama
proprio Lemland. E
più a sud, davanti alla costa estone, vi è un'altra isola,
Hiiumaa, la quale potrebbe
coincidere con la Chio davanti a cui transitarono le navi di
Nestore (Od. III, 170) nel viaggio di ritorno da Troia, dopo la
fine della guerra (Tav. VII).
Ma su Aulide, Lemno e le altre isole torneremo in seguito;
adesso - dopo
aver verificato che nell'altra area situata a nord-est del
Golfo, quella verso San
Pietroburgo, non si hanno riscontri di sorta - è il momento di
puntare l'attenzione
sulla zona della Finlandia meridionale che abbiamo appena
individuato
e che già a prima vista appare estremamente promettente.

Ed è proprio qui, tra Helsinki e Turku, che ci imbattiamo in un


vero e
proprio "giacimento di toponimi", ovvero un gran numero di
denominazioni di
località, concentrate in un'area relativamente ristretta, le
quali ricordano i nomi
dei luoghi attorno a Troia e degli stessi alleati dei Troiani,
menzionati nell'Iliade ed in particolare enumerati nella parte
finale del II libro, dopo la rassegna
dell'esercito acheo: ecco Askainen, che ci rimanda all'Ascanìa
(Il. II,
863) e ad Ascanio (che nell'Eneide di Virgilio diventerà il
figlio di Enea);
Karjaa e Lyökki, che rinviano ai Carii e ai Liei (Lykioi),
alleati dei Troiani;
Aijala, la città di Aigialo (II, 855); Raisio o Reso (spesso i
toponimi finlandesi
sono doppi, perché viene indicata anche la variante in lingua
svedese), che
ricorda sia Reso, re alleato dei Troiani, ucciso da Diomede
durante l'incursione
notturna narrata nel X libro dell'Iliade, sia il fiume Reso
nella Troade (XII,
20); Åbo, l'altro nome di Turku (la più antica città della
Finlandia, sorta nel
1157 attorno al castello fortificato di Åbohus), che sarebbe
suggestivo accostare
agli Abii "i più giusti degli uomini" (XIII, 6) e alla città di
Abido (II, 836); Pargas, che ricorda l'omerica città di
Percote, nell'area di Troia (inoltre, come si
evince sempre dal II libro, vv. 835-836, Percote si trovava
nella stessa zona di
Abido, e l'attuale Pargas è effettivamente situata nei pressi
di Turku-Åbo).
Ritroviamo anche Tenedo e "la divina Cilla", invocate insieme
da Crise all'inizio dell'Iliade (I, 38; I, 452): Tenedo, che
Omero non chiama mai esplicitamente
isola, presumibilmente corrisponde all'attuale Tenala o
Tenhola, località
sul mare protesa su un promontorio circondato da isole; quanto
a Cilla, sede
di un santuario di Apollo, il suo nome greco, "Kìlla", è
rimasto quasi immutato
a dispetto dei millenni: Kiila infatti è una località di
quell'area, anch'essa nei pressi della costa (peraltro, data la
graduale emersione della terraferma finlandese
negli ultimi millenni, non si può escludere che questo sito
abbia preso
il suo nome da un altro precedente, che adesso risulterebbe
spostato verso l'interno:
pensiamo ad Ostia Antica, sul litorale romano di duemila anni
fa, che ha
trasmesso il suo nome alla Ostia attuale, situata dove a quel
tempo non vi era che mare). E non molto distante,
nell'entroterra di Turku, si trova una Killala.
Nei dintorni vi sono altri toponimi significativi: ad esempio
Airisto sembra
conservare il ricordo della lingua degli antichi vincitori e
forse potrebbe
identificarsi con "la divina Arisbe" (Il. II, 836 e 838);
Mietoinen, presso Askainen,
ricorda il nome sia di Midone, auriga del re dei Paflagoni
alleati dei Troiani
(Il. V, 580), sia di un altro Midone, caduto per mano di
Achille sulla riva dello
Scamandro (XXI, 209); richiama altresì la città di Metone,
sotto la signoria
di Filottete (II, 716); Ampiala richiama il nome di Amfio (Il.
V, 612), alleato
di Priamo: proveniva da Paiso, ed una Pesola si trova nella
stessa area;
Klaukkala e Sappee sembrano ricordare Glauco e Sarpedone, capi
dei Liei;
Kiikoinen ci rimanda ai Ciconi, alleati dei Troiani, già
incontrati nelle avventure
di Ulisse; Pyhtää ricorda la città di Pitieia (Il. II, 829) e
Pitteo, padre di Etra
ancella di Elena (III, 144); Menonen e Paino ci ricordano i
Meoni e i Peoni "dagli
archi ricurvi" (II, 848), alleati dei Troiani; i nomi della
Cilicia e della Frigia
si ritrovano nei toponimi di Kilkinkylä e di Friggesby; Tammela
rimanda
al "Tmolo nevoso, d'Ide nella pingue contrada" (XX, 385), e in
effetti si trova
all'inizio di una zona montuosa; Pertunmaa ricorda il fiume
Partenio (II,
854); Padasjoki, "Pedaso dirupata" (VI, 35); Rohdainen, nelle
vicinanze di
Rauma, il fiume Rodio (XII, 20); Kaukola, i Cauconi, alleati
dei Troiani (X,
429); Parola, il principe Paride; Alavus, Alibe, "là dove nasce
l'argento" (II,
857).
E che dire della località di Nästi? Essa ricorda Naste, il capo
dei Carii, alleato
dei Troiani (Il. II, 867, 870, 871): costui doveva essere un
personaggio di
un certo riguardo, se Omero lo cita per ben tre volte nel giro
di pochi versi; inoltre,
al rapporto tra Naste ed i suoi Carii fa riscontro la
contiguità, appena 10 km,
tra Nästi e Karjala. Quanto a Tanttala, è un toponimo che
richiama Tantalo, re
di Lidia - regione contigua alla Troade - famoso per il celebre
supplizio. Non
solo: costui fu sepolto sul monte Sipilo, che ritroviamo nel
toponimo Sipilä, una
località collinosa sempre di questa regione.
Ancora, il nome della "pianura Aleia" in Licia, per la quale
Bellerofonte
errava, solo, "consumandosi il cuore, fuggendo orma d'uomini"
(Il. VI, 202:
che sia stato questo verso ad ispirare il celebre sonetto "Solo
e pensoso..." del
Petrarca?), è forse ricollegabile al termine finnico "ala", che
esprime il concetto
di "area" o "campo": dunque più o meno corrisponde alla nostra
espressione
"la Bassa", riferita a certe zone della Padania. L'identico
tema si ritrova nelle Gesta Danorum, a proposito di un mitico
principe svedese il quale,
amareggiato dopo una sconfìtta, "prendeva sentieri mai
praticati e se ne andava in cerca
di luoghi di arduo accesso, attraversando lande vergini" (III,
III, 3). E un altro
spunto comune al Bellerofonte omerico è quello della lettera
contenente
l'ordine di uccidere il suo latore (Il. VI, 169; Gesta III, VI,
16), che Saxo riferisce
alla vicenda di Amleto; esso sarà poi ripreso da Shakespeare.
Osserviamo
poi che il poeta dell'Iliade, nel suo excursus del VI libro sui
fatti salienti
della vita di Bellerofonte, ignora totalmente l'esistenza del
cavallo alato Pègaso,
argomento su cui i mitografi posteriori invece avrebbero
ampiamente
"ricamato": tale lacuna, incomprensibile se Omero fosse vissuto
attorno
all'VIII secolo a.C, invece si spiega facilmente con l'estrema
antichità dei nuclei
originari dei due poemi, di gran lunga antecedenti all'inizio
della letteratura
greca.
Insomma, proprio in questo territorio della Finlandia
meridionale, che
geograficamente corrisponde alla regione dei Dardanelli e che
una serie di motivi
ci induce a collegare al teatro dell'Iliade, abbiamo
individuato un "giacimento
di toponimi" straordinariamente legati alla Troia omerica:
ormai la gloriosa
città di Priamo sembra davvero molto vicina.
Ecco infatti, al centro di quest'area, non lontano da Tenala e
Kiila, un
piccolo villaggio finlandese, situato esattamente nella
posizione indicata da
Omero, in una zona collinosa, poco lontana dal mare, in
prossimità dell'intersezione
di due fiumi, con alle spalle una zona di alture. Esso conserva
quasi intatto
l'antico nome: Toija.
Toija attualmente si trova ad una ventina di chilometri dal
litorale, che particolarmente
in quella zona è tutto sfrangiato su isole e penisole, ma ai
tempi
della sua gloria doveva essere alquanto più vicina:
l'abbassamento del livello
del mare, verificatosi alla fine dell"'optimum climatico",
combinato con un
accentuato movimento di emersione del suolo che interessa tutta
quell'area
della Finlandia, nel corso dei millenni ha sensibilmente
allontanato la linea di
costa. E la posizione dell'antica "spiaggia" dove gli Achei
sbarcarono e si attestarono
con il loro campo fortificato, chiamata da Omero "aigialòs"
(Il. XIV,
34), è tuttora indicata da una località a qualche chilometro da
Toija, in direzione
del mare: Aijala.
Dunque, in perfetto accordo con quanto esplicitamente affermato
nell'Iliade: "Ora la forza d'Enea regnerà sui Troiani,/ e i
figli dei figli e quelli che
dopo verranno" ("toi ken metòpisthe génontai"; XX, 307-308), la
mitica Troia
omerica non venne affatto abbandonata dopo il saccheggio e
l'incendio da parte
degli Achei: invece fu ricostruita, sotto la signoria di Enea,
subentrato a Priamo,
e poi è sopravvissuta per oltre tremila anni fino ai nostri
giorni, immemore
del suo epico passato (fin quando nel 1994 la stampa finlandese
non ha
informato i cittadini dei primi risultati della presente
ricerca).
In effetti, dopo la fine della guerra, i vincitori se ne
tornarono subito a casa, come sottolineano sia l'Iliade (XII,
16) che l'Odissea (III, 130-131), mentre
normalmente per impedire il risorgere di una città occorre
occuparne stabilmente
il territorio, come ad esempio fecero i Romani con Cartagine
(che
peraltro un secolo dopo la sua distruzione fu anch'essa
ricostruita e in seguito
divenne una delle città più prospere dell'impero). Invece il
racconto dell'Eneide di Virgilio sulla fuga di Enea da Troia in
fiamme, molto posteriore e
chiaramente tendenzioso, risulta senz'altro fuorviante riguardo
al vero destino
dell'eroe troiano e della sua città dopo la guerra, che Omero
in quei due versi
delinea senza possibilità di equivoco.
D'altronde, questa versione dei fatti successivi all'epilogo
della guerra
non è ignota al resto della mitologia greca: la ritroviamo ad
esempio nelle parole
che Afrodite, madre di Enea, rivolge ad Anchise in un inno a
lei dedicato:
"Tu avrai un figlio, che regnerà sui Troiani,/ e sempre figli
nasceranno dai suoi
figli./ Il suo nome sarà Enea" (Inno omerico ad Afrodite, 196-
198). Riguardo
a quest'inno, "è stato rilevato come il suo patrimonio
formulare risulti particolarmente
vicino a quello dei poemi"94.

94 Montanari, Introduzione a Omero, pag, 49

Sempre riguardo ad Enea, primo re della dinastia che dopo la


guerra si insediò
sul trono di Troia - un regno che, come abbiamo visto, aveva
una posizione
preminente in una vasta area della Finlandia meridionale -- ci
sembra
estremamente suggestivo ipotizzare una relazione tra il suo
nome (in greco Ai-neìas, in latino Aeneas) e quello
dell'Aeningia, il nome della Finlandia al tempo
dei Romani (Plinio, Storia Naturale, IV, 96).
E ora, prima di verificare in loco le congruenze morfologiche
fra la Troia
omerica e il territorio di Toija, trarremo subito un'importante
conseguenza dallo
spostamento dello scenario del poema dall'Anatolia alla
Finlandia: esso infatti
ci consente di risolvere d'emblée un'apparente anomalia nella
narrazione dell'Iliade, che, oltre ad essere inspiegabile
nell'ambientazione tradizionale,
per di più si ripercuote pesantemente sull'intelligibilità del
testo. Ci riferiamo
allo svolgimento della battaglia più lunga e accanita fra gli
Achei e i Troiani,
articolata su un gran numero di capovolgimenti di fronte e di
episodi singoli,
che si estendono per quasi un terzo dell'intero poema, dall'XI
al XVIII libro:
in estrema sintesi, dapprima i Troiani, approfittando
dell'assenza di Achille (il
quale, dopo un violento alterco con Agamennone, che dà
all'Iliade lo spunto
iniziale, si era chiuso nella sua ira e rifiutava di
combattere), prendono il sopravvento
sugli Achei, assaltano il loro accampamento, ne sfondano il
muro difensivo
ed arrivano a incendiare una nave; qui scende in campo
Patroclo, amico
e
luogotenente di Achille, che alla testa delle truppe di
quest'ultimo contrattacca, scaccia i nemici dal campo e sullo
slancio tenta addirittura di espugnare
le mura di Troia, ma, dopo reiterati assalti, alla fine resta
ucciso.
Ora, nel corso delle varie fasi di questa interminabile
contesa, Omero segnala
per due volte l'ora del mezzogiorno (in XI, 86 e in XVI, 777):
ma ciò presuppone
una notte interposta, la quale infatti viene puntualmente
registrata dal
poeta: "Zeus una notte funesta ("nykt'oloén") stese sulla
mischia violenta/ perché
intorno al suo figlio fosse funesta la lotta" (Il. XVI, 567-
568; l'allusione è a Sarpedone, il re dei Liei, che Patroclo
uccide in duello poco dopo la sua entrata
in scena). L'anomalia sta nel fatto che il sopraggiungere della
notte non
interrompe i combattimenti, i quali invece proseguono senza un
attimo di respiro
fino alla sera successiva.
Nel contesto tradizionale ciò risulta assai strano: infatti,
anche nei giorni
più lunghi dell'anno, attorno al solstizio d'estate, nel mondo
mediterraneo vi
sono non meno di cinque o sei ore di tenebra fitta, che, in
mancanza di bengala
o di visori a infrarossi, rende impossibile la prosecuzione di
una battaglia in
condizioni "normali", quali quelle descritte nell'Ilìade. Per
superare tale difficoltà,
finora è stato giocoforza per i commentatori interpretare
questa "notte funesta"
come un momentaneo oscuramento del sole, magari dovuto ad un
miracoloso
intervento di Zeus: così tutta la battaglia si sarebbe svolta
in un'unica
giornata. Ciò tuttavia comporta un'intollerabile compressione
dei suoi numerosissimi
episodi (i reiterati assalti di Patroclo alle mura di Troia
occupano
da soli "tutto il giorno", XVIII, 453), per di più con
l'assurdità dei due mezzogiorni,
a questo punto attribuibile soltanto ad una clamorosa, quanto
improbabile,
svista del poeta.
Però l'ipotesi di un errore così marchiano è assolutamente da
escludere;
infatti Omero non costruisce a caso le vicende della lunga
battaglia, ma padroneggia
perfettamente la materia: lo dimostrano i passi in cui viene
esplicitata
la volontà di Zeus, che il poeta intercala agli avvenimenti,
anticipandone
via via gli sviluppi, quasi fossero un suo "piano di lavoro". È
insomma il dio
stesso che, parlando in prima persona, esprime il suo volere ed
in tal modo artifizio
narrativo non infrequente nell'Iliade - determina il corso
degli eventi
successivi, che poi si dispiegano in modo rigorosamente
conseguente. Per inciso,
i rimandi tra "passato" e "futuro" dell'azione sono
caratteristici dell'epica,
dove è esclusa qualsiasi sorpresa: il poeta, ispirato dalla
Musa, si colloca in
una dimensione fuori del tempo, come se stesse raccontando un
film già visto, le cui sequenze sono immutabili (a tale ottica
sarebbe suggestivo ricondurre il
concetto omerico di "Moira" o "Fato", che sostanzialmente
potrebbe voler
esprimere, dal punto di vista del narratore, l'impossibilità di
modificare il corso
di eventi "storici" che per lui sono già avvenuti ma che, nel
contempo, appartengono
all'ineluttabile futuro dei suoi personaggi).
Ecco dunque come viene delineato il piano generale della
battaglia:
"(Zeus) voleva dar gloria ad Ettore,/ al figlio di Priamo,
finché alle navi concave
il fuoco terribile/ indomito avesse gettato (...)/Allora un
contrattacco partente
dalle navi/ avrebbe inflitto ai Troiani, dato gloria agli
Argivi" (Il. XV,
596-598; 601-602). La narrazione degli eventi naturalmente si
sviluppa in
conformità a tale schema e, riguardo alla loro collocazione
temporale nell'ambito
della giornata, lo stesso Zeus fa un inequivocabile aggancio ad
un'ora
precisa: "Quando, colpito d'asta o ferito di freccia,
(Agamennone)/ balzerà sui cavalli, allora ad Ettore darò forza/
d'uccidere, finché giunga alle navi/ e il
sole si tuffi, scenda la tenebra" ("knéphas élthei", Il. XI,
191-194).
È chiaro dunque che il contrattacco acheo - che poi si
protrarrà per tutto
il giorno successivo - non può che iniziare la sera e
continuare durante la notte,
come poi puntualmente si verifica. Eppure, nel mondo
mediterraneo, è impossibile
combattere dopo il crepuscolo. D'altronde, per le ragioni
appena viste,
si deve escludere che possa trattarsi di un errore involontario
del poeta.
Trasferiamo ora il teatro della vicenda nella zona di Toija, ad
oltre 60° di
latitudine e appena 6° dal circolo polare: qui, nel mese di
giugno, il sole scende
ben poco dietro l'orizzonte e pertanto le notti sono abbastanza
chiare da lasciare
comunque una certa visibilità. Sono le famose "notti bianche"
di San Pietroburgo,
situata pressappoco alla stessa latitudine (ricordiamo che,
secondo
Plutarco, l'identico fenomeno si verifica nell'area di Ogigia:
in effetti, la latitudine
delle Färöer è all'incirca uguale a quella di San Pietroburgo e
della Finlandia
meridionale).
Ogni contraddizione a questo punto cade e finalmente il disegno
della
grande battaglia, riportato al suo reale contesto, si può
dispiegare davanti ai nostri
occhi in tutta la sua bellezza, senza più equivoci, rivelando
in pieno la potenza
della sua architettura: i combattimenti si estendono, con
diversi capovolgimenti
di fronte, su due giornate consecutive senza alcuna
interruzione, sfruttando il chiarore notturno dovuto alla
latitudine e alla stagione, nel modo
schematizzato qui di seguito:
- Prima giornata: Dopo una fase iniziale "di studio",
sostanzialmente equilibrata,
verso mezzogiorno la bilancia sembra pendere dalla parte degli
Achei,
nonostante l'handicap dell'assenza di Achille; però, dopo il
ferimento di Agamennone,
che si vede costretto a ritirarsi, nel pomeriggio i Troiani
sferrano
un violento attacco, riescono a sfondare il muro difensivo,
dilagano nel campo
nemico e, malgrado la strenua resistenza degli avversari,
arrivano ad appiccare
il fuoco alla nave di Protesilao (XVI, 122); però a questo
punto, come
profetizzato da Zeus, parte il contrattacco di Patroclo, il
quale, intervenendo
alla testa dei Mirmidoni di Achille, freschi e riposati,
ribalta la situazione:
ricaccia via i Troiani dalle navi e dal campo, uccide Sarpedone
- qui
scende la "notte funesta" durante la quale si lotta
accanitamente sul corpo
del caduto - e incalza gli stanchi avversari in ritirata verso
Troia.
- Seconda giornata: Patroclo attacca ripetutamente le mura
della città, che arriva
quasi a capitolare (XVI, 698); ma al quarto assalto - siamo
ormai nel secondo
pomeriggio (XVI, 779) - cade, ucciso da Ettore: segue un altro
rovesciamento
di fronte, finché, finalmente, "il sole s'immerse: smisero gli
Achei
gloriosi/ la lotta selvaggia e la furia crudele" (Il. XVIII,
241-242), dopo due
giorni ininterrotti di lotta senza quartiere.
Una precisa conferma di questa ricostruzione la troviamo in una
inequivocabile
affermazione dell'IIiade, a proposito dell'intervento di
Patroclo, allorché
la dea Teti racconta ad Efesto le vicende della battaglia
appena conclusa:
"Lottarono tutto il giorno ("pan èmar") presso le porte Scee"
(Il. XVIII,
453), con evidente riferimento alla seconda giornata di
combattimenti.
Il tutto si configura come un grandioso affresco che si
arricchisce di contenuti
emotivamente forti, come la visione di uomini accecati
dall'odio e dall'ansia
di sopraffarsi, per i quali, dopo alcuni giorni di scontri
sempre più cruenti,
in una vertiginosa escalation sono saltate tutte le regole,
mentre in precedenza
la tregua notturna era stata rispettata: "Già scende la notte;
è bene obbedire
alla notte" (VII, 282); alla fine di ogni giornata di lotta, i
contendenti dovevano
essere stremati. Omero stesso ci dice che i difensori del muro
acheo ad
un certo punto - era ormai pomeriggio inoltrato - sotto
l'incalzare dei Troiani
erano "sfiniti" ("achnymenoi", XII, 178). Invece in questo caso
la battaglia
può proseguire oltre il tramonto, protraendosi fino al giorno
successivo, proprio
perché - finalmente adesso siamo in condizione di seguire
appieno la ferrea
logica della narrazione - le truppe mirmidoni sono entrate in
campo solo la
sera, dopo aver riposato anche nei giorni precedenti. Non a
caso il saggio Nestore,
allorché, sotto l'incalzare dei Troiani, richiede
pressantemente l'intervento
di Patroclo, tiene a sottolineare proprio questo aspetto:
"Facilmente voi, freschi ("akmètes"), respingereste in città/
uomini affaticati ("kekmeòtas andras"),
via dalle navi e dalle tende" (Il. XI, 802-803); lo stesso
concetto verrà poi ripetuto da Patroclo ad Achille (XVI, 44-
45), per sollecitare il suo assenso
ad entrare in combattimento (Achille, infuriato con Agamennone,
non ha intenzione
di scendere in campo personalmente, però lascerà che il suo
luogotenente
intervenga in sua vece in quel momento estremamente critico per
l'esercito
acheo).
Addirittura questa ricostruzione potrebbe spiegare anche la
strana morte
di Patroclo, il quale ad un certo punto ha una sorta di
mancamento (di cui approfittano
prima il dardano Euforbo per ferirlo, poi Ettore per dargli il
colpo di
grazia): "A Patroclo girarono gli occhi/ e Febo Apollo gli fece
cadere l'elmo
giù dalla testa" (XVI, 792-793); poi "una vertigine gli tolse
la mente ("tòn d'à-te phrénas heile"), le membra belle si
sciolsero,/ si fermò esterrefatto..." (XVI, 805-806).
Poeticamente, l'Iliade attribuisce questi sintomi
all'intervento di
Apollo, il dio che con le sue "frecce" provocava le morti
improvvise degli uomini (Od. XV, 410-411; XVII, 251; chiunque
abbia avuto la ventura di assistere
agli spasimi di un infartuato comprenderà senz'altro il
realismo di questa metafora,
anch'essa del genere kenning), ma, razionalizzando, tutto ora
risulta
chiaro e coerente: dopo quasi venti ore consecutive di lotta
senza un attimo di
tregua (era ormai passato il secondo mezzogiorno), Patroclo era
anch'egli sfinito.
Era infatti dalla sera precedente che combatteva senza un
attimo di tregua,
ebbro di lotta ed esaltato dalla voglia di conquistare Troia da
solo, malgrado
Achille lo avesse saggiamente consigliato di limitarsi a
scacciare i nemici fuori
dall'accampamento e di rientrare subito (XVI, 87-94) - anzi,
più che di un
consiglio si trattava di un vero e proprio ordine (XVI, 95-96)
- ma, trascinato
dall'impeto, non si era più fermato e, come impone la dura
legge della guerra
e della vita, finì per pagare il proprio errore a carissimo
prezzo. In ogni caso,
quel malore che gli costò la vita adesso appare più che
comprensibile.
Ci si potrebbe ancora chiedere come mai il motivo, poeticamente
allettante,
dei suoi ripetuti assalti alle mura della città (che
cronologicamente occupano
quasi tutta la seconda giornata), venga sviluppato assai poco,
appena
per un centinaio di versi, alla fine del libro XVI. Si potrebbe
forse congetturare
che il poeta intendesse riprenderlo, con altro respiro, più
avanti? Magari allorquando,
dopo la morte e il funerale di Ettore - che conclude la
versione delll'Iliade giunta fino a noi - le mura sarebbero
state attaccate da Achille (il quale
in quella circostanza avrebbe anch'egli perso la vita, come
risulta dal presagio
di Ettore morente, XXII, 360); o, forse, allorché gli Achei
avrebbero alfine
preso la città, a conclusione dell'"offensiva continua",
profetizzata da Zeus
(Il. XV, 69; l'iliade non accenna mai all'assurdo espediente
del cavallo di legno,
che è un'invenzione del poeta dell'Odissea).
In ogni caso, è possibile cogliere ed apprezzare appieno tutta
la complessa
architettura di questa battaglia, snodo cruciale collocato al
centro del poema,
solo riconoscendo che la "notte funesta" segna il passaggio tra
due giornate
consecutive di lotta accanita, che non viene interrotta (come
invece sarebbe inevitabilmente
avvenuto se il teatro della guerra fosse stato in Anatolia) a
causa
del chiarore residuo delle alte latitudini: mai come qui la
localizzazione nordica
torna acconcia - anzi, necessaria - per comprendere fino in
fondo le vicende
narrate da Omero e, conseguentemente, per apprezzare l'assoluta
coerenza,
oltre che la bellezza, della sua costruzione poetica. Ed è
quasi superfluo
aggiungere che tutto ciò, letto nel quadro di quanto è già
emerso finora, rappresenta
non un semplice indizio, ma una vera e propria prova a favore
della
tesi esposta nella presente ricerca.
Ma è pensabile che gli Achei del Baltico non avessero una
denominazione
specifica per un fenomeno così caratteristico come quello della
"notte chiara"?
Invero un tale nome forse lo si
riesce ad identificare nel testo stesso delYlliade: esso
infatti ad un tratto spunta nel racconto della scena, mesta e
bellissima, che, durante una tregua dei combattimenti, vede
Achei e Troiani impegnati
a recuperare i propri morti sparsi per il campo di battaglia:
"E mentre
il sole nuovo colpiva le campagne/ (...) essi s'incontrarono./
Era allora difficile
conoscere ogni guerriero,/ ma lavati con acqua i grumi
sanguinosi,/ versando
calde lacrime li alzarono sui carri/ (...) Così gli Achei buoni
schinieri/ accatastavano
i morti sui roghi, afflitti in cuore,/ poi li bruciarono col
fuoco e tornarono
alle navi./ Non era ancora l'aurora, ma notte chiara
("amphilyke nyx")/
quando s'accolse eletta schiera d'Achei attorno alla pira/ e,
portando la terra,
un unico tumulo versarono sopra" (Il. VII, 421 ; 423-426; 430-
435).
Ecco dunque la "notte chiara" (VII, 433): il vocabolo
"amphilyke", non
comune nella lingua greca, letteralmente significa "attorno-
chiara", da
"amphì", "attorno", e da "lyke", accostabile al greco "leukòs",
"bianco", ed anche
al sostantivo latino "lux", "luce"95. Questo termine potrebbe
dunque essere
considerato una sorta di "fossile linguistico", sopravvissuto
al tracollo della
civiltà del bronzo nordica in virtù del fatto che gli Achei lo
hanno "traghettato"
con l'Ilìade nel Mediterraneo, dove peraltro il fenomeno da
esso indicato
non si verifica: ci troviamo insomma davanti ad un caso per
certi versi analogo
a quello delle "danze dell'Aurora" nell'isola di Circe.

95 Voc. Rocci, voce "amphilyke"

Per inciso, secondo un mito riportato dallo scrittore greco


Pausania, in
uno dei luoghi dove avveniva la nascita di Zeus si verificava
un singolare fenomeno:
"Ogni uomo o animale perdeva la sua ombra"96. Il luogo era il
mitico
monte Lykaion, nel cui nome ritroviamo quella medesima radice
"lyke" del
vocabolo "amphilyke": che vi sia adombrato il ricordo di un
antichissimo rito
svolto durante la "notte chiara", allorché effettivamente
ciascuno perde la propria
ombra! E una congettura che riteniamo suggestiva e che lasciamo
alla riflessione
del lettore

96 Kerényi, Miti e misteri, pag. 410

Notiamo ancora che l'Iliade parla anche di ''sera lenta a


calare ("deìelos
opsè dyon") che copre d'ombra la terra" (XXI, 232), con
probabile allusione
agli interminabili crepuscoli estivi delle latitudini
settentrionali, che tanto colpiscono
i viaggiatori provenienti dall'Europa del sud. A tale
proposito, è significativo
che, per indicare in modo generico il mondo umano, il poeta
ricorra
frequentemente ad un'espressione tipica: "Sotto l'aurora e il
sole" (ad esempio,
in Il. V, 267). Addirittura l'Aurora ("Eòs") nel mondo omerico
era considerata
una divinità: ora, l'origine di tutto ciò è difficilmente
comprensibile nel
contesto mediterraneo, dove l'intervallo intercorrente fra
oscurità e luce solare
diretta è sempre limitato; invece questi
particolari si inseriscono a meraviglia
nel quadro nordico qui delineato, dove talvolta la durata del
chiarore crepuscolare giunge a superare quella della luce del
sole. E, curiosamente, nell'attuale
lingua finnica il "crepuscolo" viene indicato con il termine
"hämärä",
che ricorda da vicino il greco "heméra", "giorno" (notiamo
anche che, come
ci dice Pausania, uno dei nomi dell'Aurora era proprio
"Emera"97).

97 Kerényi, Gli dèi della Grecia.

D'altronde questi fenomeni non sono i soli, fra quelli tipici


delle alte latitudini,
ad essere registrati dall'Iliade (con la conseguenza di
diventare inintelligibili
nella collocazione mediterranea); ecco, ad esempio, due versi
particolarmente
suggestivi: "Come arco purpureo ("porphyréen Trin") ai mortali
distende/Zeus dal cielo, perché sia segno di guerra/ o di
gelido inverno..." (Il.
XVII, 547-549). Cosa avrà voluto intendere Omero con questo
"arco purpureo"
che tanto maestosamente appare nel cielo? L'unica risposta
plausibile ci riconduce
ancora ad una localizzazione settentrionale: infatti sembra
proprio la
descrizione di un'aurora boreale, quel fenomeno dell'alta
atmosfera che illumina
le notti dei cieli nordici di magiche iridescenze; la fantasia
di quegli antichi
popoli doveva rimanerne profondamente impressionata, al punto,
come ci
dice il poeta, da ricondurre la sua origine al diretto
intervento di Zeus.
Ed in perfetto accordo con il quadro nordico risulta anche
l'ambientazione
delle battaglie: ad esempio, durante tutta la giornata dei
combattimenti davanti
all'accampamento acheo, il tempo fu fortemente perturbato, e
tale s'era
annunciato sin dalla sera precedente: "Tutta la notte il saggio
Zeus meditò mali
per loro/ tuonando paurosamente" (Il. VII, 478-479); una volta
iniziata la
battaglia, "forte tuonò, e fiammeggiante/ lampo scagliò fra
l'esercito acheo"
(VIII, 75-76); poi "scagliò tuonando folgore abbagliante"
(VIII, 133); indi "tre
volte tuonò dai monti dell'Ida" (VIII, 170) e "lampeggiò" (IX,
237). Sempre
il dio il giorno dopo "mosse dai monti dell'Ida una procella di
vento" (XII,
253) e successivamente, durante la mischia sul corpo di
Patroclo, "l'Ida coperse
di nubi/ e lampeggiando tuonò fragoroso" (XVII, 594-595; nello
Zeus omerico
sono molto accentuati i tratti tipici di un "dio della
tempesta", come vedremo
meglio più avanti).
In un quadro meteorologico così sfavorevole, non ci stupiamo
che, lungo
la pista dove si disputa la corsa dei cocchi in onore di
Patroclo, "in terra vi
era un crepaccio e vi si era raccolta l'acqua piovana" (Il.
XXIII, 420). Per non
parlare della nebbia: "Intorno ad essi/ ed ai loro elmi lucenti
molta nebbia il
Cronide/ versò" (XVII, 268-270); "...E non avresti saputo/ se
esistessero ancora
il sole e la luna:/ eran coperti di nebbia nella battaglia
tutti i più forti" (XVII,
366-368); Febo "venne incontro (a Patroclo) avvolto di molta
nebbia" (XVI,
790). Sempre
la nebbia può essere di ostacolo alla ritirata: "Là essi ora in
fuga
si rovesciavano; ed Era stese/ davanti a loro una nebbia fitta
per trattenerli" (XXI, 6-7), mentre in altri casi consente il
disimpegno ad un combattente
in difficoltà: "Mosse il Pelìde su Agenore pari agli dèi/ (...)
ma Apollo non gli permise di acquistar gloria,/ glielo rapì, lo
ricoprì con molta nebbia,/ lo guidò a ritornare, in salvo, fuor
della lotta" (XXI, 595-598).
E poi particolarmente significativa un'invocazione di Aiace
perché la nebbia
si dissipi ed esca il sole (impensabile per un guerriero
impegnato a combattere,
tutto ricoperto di bronzo, in un torrido bassopiano
dell'Anatolia): "Ma
non posso vedere un uomo adatto fra i Danai,/ di nebbia son
tutti coperti essi
e i cavalli./ Zeus padre, libera tu dalla nebbia i figli degli
Achei,/ sereno fa ' il
cielo ("poiéson d'aìthren"), da' che vediamo con gli occhi!" (
XVII, 643-646).
Tutto ciò ben s'accorda con la circostanza che, come indicano
sia il fenomeno
della "notte chiara", verificatosi all'inizio dell'ultima
battaglia di Patroclo,
sia lo straripamento dello Scamandro e del Simoenta, avvenuto
due
giorni dopo, l'azione nell'Iliade si svolge nel mese di giugno,
allorché la breve
estate nordica non si è ancora stabilizzata. Insomma, come
abbiamo già constatato in tutti gli ambiti in cui il poeta ci
ha condotto finora, dalla Selleria
ad Itaca, anche la caratterizzazione meteorologica di Troia
appare tìpica di una
terra nordica.
Ma è arrivato ormai il momento di verificare la congruenza tra
le descrizioni
dei poemi omerici e le caratteristiche morfologiche dell'area
che abbiamo
appena individuato nella Finlandia meridionale: è ora, insomma,
di prendere
l'aereo per Helsinki e di dirigerci alla volta di Toija.
VII.

TROIA

11 luglio 1992, verso mezzogiorno: l'aereo partito da


Copenaghen inizia
la discesa verso Helsinki, mentre la Finlandia meridionale
sonnecchia in un pacioso
sabato di mezza estate, caldo e assolato. Con una bianca
Mitsubishi "Lancer"
noleggiata in aeroporto, dapprima procediamo sul "Ring III" in
direzione
ovest, per poi imboccare la statale E 18 verso Salo, la città
più vicina a Toija.
Passata Espoo, la strada per un buon tratto rimane quasi
pianeggiante,
con lunghi rettilinei, e quasi deserta di auto, almeno nella
valutazione di chi è abituato ai sovraffollamenti mediterranei.
Proseguendo, mentre i rilievi e le
ondulazioni del terreno tendono ad accentuarsi, ad un certo
punto ci s'imbatte
nella deviazione per il lago Suomusjärvi: anche se l'immagine
dell'omonimo
specchio d'acqua ("järvi" in finnico significa appunto "lago")
dalla strada è particolarmente suggestivo, conviene tirare
dritto ancora per un po', fino all'altezza
di Kitula, a una novantina di chilometri da Helsinki, dove si
incontra
la svolta a sinistra per Toija, distante ormai solo 14
chilometri.
Ed ecco, nel placido pomeriggio estivo, apparire finalmente il
cartello
che segnala Toija: è un tranquillo villaggio finlandese,
amministrativamente dipendente
dalla vicina Kisko, con il distributore di benzina che
s'incontra appena
usciti dalla strada statale, la piazza con l'ufficio postale e
la farmacia, le
case sparse nei dintorni; presso il Centro Commerciale, un
camion in sosta esibisce
sul portellone posteriore una grande scritta maiuscola
"TOIJAN...", che
a questo punto verrebbe naturale tradurre con "troiano";
accanto, un grande
orologio digitale-termometro alterna la segnalazione dell'ora
con quella della
temperatura: 27°C, normale anche in Finlandia per una giornata
di luglio in una
stagione alquanto calda. E i "toijani"? A quest'ora del sabato,
in giro non si vede
quasi nessuno.
Percorrendo una strada sterrata arriviamo ben presto a
un'altura, situata
alle spalle del paese, da cui si domina la vallata che si apre
in direzione del mare:
stando con le spalle al nord, da sinistra scende un fiume, il
Kurkelanjoki
("joki" significa "fiume"), che a un certo punto si allarga
nella pianura formando
un lago lungo e stretto, il Kirkkojärvi, dove un paio di
chilometri più a
valle va a sboccare un altro corso d'acqua, un po' più piccolo,
il Mammalanjoki.
Ancora qualche chilometro oltre, all'altezza di Aijala, il lago
si restringe,
rientra nell'alveo e, con il nome di Kiskonjoki, si avvia
tranquillamente
verso la foce (Tav. VIII).
Lo scenario è quello descrittoci da Omero: ecco lo Scamandro,
il Simoenta,
la pianura dove quasi quattro millenni fa Achei e Troiani si
affrontavano
nelle mischie furibonde narrate dal
poema! Rispetto all'Ilìade l'unico
elemento differente è il parziale allagamento della vallata da
parte del fiume, che peraltro anche a quel tempo non doveva
essere inusuale: lo stesso poema
lo introduce - ed in termini assolutamente espliciti: "la piana
era tutta allagata ("pan plèth'hydatos enchyménoio"; XXI, 300)
- in un episodio della battaglia
avvenuta due giorni dopo la "notte funesta", allorché Achille,
appena
tornato a combattere per vendicare la morte del suo amico
Patroclo, mette in
rotta l'esercito troiano, ma rischia di annegare a causa dello
straripamento dello
Scamandro. Il fiume, divinizzato dalla fantasìa del poeta, esce
dagli argini
e provoca un'inondazione, chiamando in aiuto anche il
"collega": "Gonfiò il
flutto della corrente/ sollevandolo in alto, e gridò al
Simoenta:/ Caro fratello
(...)/ corri presto in aiuto, riempi il tuo corso/ d'acqua
dalle sorgenti, spingi i
torrenti tutti,/ alza un 'ondata immensa ("hìste de méga
kyma")" (Il. XXI, 306308;
311-313). Abbiamo già notato che la tracimazione dei due fiumi
è temporalmente
coerente con il fenomeno della "notte chiara", che si era
verificato,
secondo l'lliade, nel corso della battaglia terminata la sera
precedente: infatti è proprio in primavera e nella prima estate
che nelle regioni nordiche si verificano
i maggiori fenomeni di piena, provocati dal disgelo, e ciò va a
confermare
che quelle vicende ebbero luogo in un periodo dell'anno
corrispondente
al nostro mese di giugno.
D'altronde anche le leggende, non omeriche, riguardanti la
Troia di Laomedonte,
padre e predecessore del re Priamo, contengono allusioni al
problema
delle inondazioni; la stessa Iliade vi fa un accenno (XX, 145-
148). Il passaggio
da evento episodico a realtà stabile è stato probabilmente
legato alle
profonde modificazioni del clima (e, forse, anche alle
variazioni di livello del
terreno) che hanno interessato questa regione negli ultimi
millenni: la stessa
violentissima alluvione a cui accenna l'Iliade all'inizio del
libro XII, su cui in
seguito avremo modo di ritornare, può esserne un indizio.
In ogni caso, la coerenza di tutto il quadro che si va man mano
ricostruendo
induce a ritenere che il poeta si sia ispirato a fatti
realmente accaduti:
suscita un'intensa emozione pensare che da una di queste alture
i Troiani assistettero
ai duelli tra gli eroi di Omero, Elena indicò al re Priamo i
principi
achei e Andromaca, udendo le grida di Priamo e di Ecuba per
l'uccisione di Ettore,
"si precipitò fuori di casa come una pazza,/ col cuore in
sussulto: le ancelle
le tennero dietro./ Ma quando giunse al bastione in mezzo alla
folla,/ si
fermò sulle mura, guardando febbrile, e lo vide/ trascinato
davanti alla rocca:
i cavalli veloci/ lo tiravano senza pietà verso le navi degli
Achei" (Il. XXII,
460-465).
Per osservare la pianura sottostante la città, conviene seguire
la strada attorno
al lago (anche se non lo costeggia proprio da vicino, ma rimane
sempre
a una certa distanza); percorrendola in senso antiorario a
partire da Toija, cioè scendendo lungo la riva occidentale del
Kirkkojärvi, poco dopo l'inizio già si
può godere di una serie di belle vedute panoramiche
di quello che dovette essere il teatro delle battaglie fra
Achei e Troiani, "là dove molti scudi e cimieri/
caddero nella polvere" (XII, 22-23).
Procedendo per alcuni chilometri, alla fine si incontra un
bivio, dove conviene
svoltare a sinistra verso Aijala. Si tratta di un nome citato
più volte nelYIliade: vi era infatti unaAigialo alleata dei
Troiani (II, 855), e un'altra Aigialo
in Acaia (II, 575): ciò conferma i legami fra il mondo troiano
e quello acheo.
E poi particolarmente significativo il fatto che il vocabolo
greco "aigialòs" (Il.
II, 210) significa "spiaggia" o "riva" (bassa, in
contrapposizione ad "akté" che
invece indica una costa alta sul mare: in effetti il profilo
costiero in questa zona
si presenta alquanto basso). Insomma il toponimo "Aijala"
sembra attestare
che, all'epoca in cui qui si parlava la lingua greca, la linea
del litorale passava
per quel punto (dall'Iliade risulta chiaramente che i Troiani
parlavano la
stessa lingua degli Achei, come d'altronde appare anche dai
loro nomi). Anzi,
Omero chiama "aigialòs" proprio la spiaggia dove gli Achei
erano sbarcati (Il.
XIV, 34). Successivamente il processo di emersione del suolo
finlandese, iniziato
alla fine dell'era glaciale e tuttora in corso, avrebbe
ricacciato il mare
sempre più indietro.
Passando oltre Aijala, si attraversa il ponte sul Kiskonjoki,
nel tratto immediatamente
a valle del punto in cui il fiume, dopo avere allagato la
pianura,
rientra nel suo alveo: e qui, ricordando il verso del Carducci,
è d'obbligo una
sosta "in riva di Scamandro". Forse proprio qui davanti,
quattromila anni fa, in
una drammatica sera di giugno, allorché le notti bianche delle
alte latitudini
effondono un suggestivo chiarore crepuscolare, "sulle scarpate
dello Scamandro,
moltissime/teste cadevano d'uomini, saliva inestinguibile
l'urlo/ intorno
al grande Nestore e al forte Idomeneo./ Fra quelli era Ettore,
cose tremende facendo/
con l'asta e il carro" (Il. XI, 499-503).
Dopo il ponte di Aijala si imbocca la strada in terra battuta
che risale lungo
la riva opposta del lago: il terreno da questo lato si alza e
le ondulazioni si
fanno più marcate, ma il percorso rimane piacevolissimo fino a
Kisko, il paese
più vicino a Toija (un paio di chilometri), da dove si può
riprendere la strada
di Salo, che in pochi minuti riconduce al punto di partenza.
Notiamo che la
morfologia del versante orientale del Kirkkojärvi, attorno a
Kisko, sembra l'ideale
per un sito dove collocare una città: siamo infatti in
prossimità di un corso
d'acqua di proporzioni ragguardevoli e, nel contempo, in
posizione dominante
rispetto alla vallata.
A questo punto, in attesa di un responso definitivo da parte
dell'archeologia,
è possibile formulare un'ipotesi attendibile sul punto esatto
dove sorgeva
l'antica Troia? Atal fine esamineremo anzitutto cosa ci dice
Omero riguardo
all'ubicazione della città; poi passeremo a confrontare le sue
indicazioni
con la realtà fisica dei luoghi attorno a Toija. Ciò costituirà
anche una ulteriore
verifica della loro identificazione con lo scenario del poema.
Troia era ubicata nei pressi della confluenza di due fiumi,
"dove l'acque
confondono Simoenta e Scamandro" (Il. V, 774); tra i due, molta
maggiore importanza
sembra rivestire quest'ultimo, citato nell'Iliade per ben 24
volte, talvolta
con l'altro nome di "Xanto", contro le 7 del Simoenta.
D'altro canto, il sito su cui sorgeva la Troia omerica, davanti
alla "piana
Scamandria" ("pedìon Skamàndrìon", Il. II, 465) e al fiume,
aveva caratteristiche
marcatamente collinose: l'Iliade menziona una località
denominata "Bella
Collina" ("Kallikolòne"; XX, 53; 151 ) e una collina detta
"Batiea" (II, 813),
situate nei dintorni, ma particolarmente eloquente è
l'espressione "Ilio ricca di
poggi" ("ophryòessa", cioè "corrugata"; XXII, 411) con cui
Omero "fotografa"
il territorio della città. Da qui, passando per le porte Scee,
si usciva nella
pianura (III, 263; VI, 393), verso il fiume (XXI, 1-3).
Quanto alle Scee, le mitiche porte di Troia - magistralmente
"fotografate"
da Omero: "Le porte alte e in quelle i portoni ben fatti,/
grandi, lisci, serrati"
(Il. XVIII, 275-276) - erano orientate direttamente verso la
pianura, cioè la zona dei combattimenti. Ciò si evince da
svariati passi del poema, ad esempio
quello in cui "Priamo montò e tirava indietro le briglie;/
vicino a lui Antenore
salì sul cocchio bellissimo;/ e i due, passate le Scee,
reggevano i cavalli
rapidi verso la piana" (III, 261-263); ma pensiamo anche
all'umanissimo quadretto,
dal taglio quasi cinematografico, in cui appare il capo
dell'esercito troiano
di ritorno dalla battaglia: "Com'Ettore giunse alle porte Scee
e alla quercia,/
corsero subito intorno a lui le spose e le figlie dei Teucri,/
a domandare dei figli,
dei fratelli, dei compagni/ e degli sposi loro; egli esortò che
pregassero i numi,/
tutte, ad una ad una; che a molte toccava sciagura" (Il. VI,
237-241 ). E, poco
oltre, dopo essere passato dalla propria casa, l'eroe ritorna
nello stesso punto:
"Attraversata la gran città, giunse alle porte/ Scee, da cui
doveva uscir nella
piana" ("diexìmenai pedìonde"; VI, 392-393).
Particolarmente interessante è poi la circostanza che nella
lingua greca il
nome delle porte Scee abbia un significato ben preciso: infatti
il vocabolo
"Skaiaì" altro non è che il femminile plurale dell'aggettivo
"skaiòs", vale a dire
"occidentale" (ritroviamo la stessa radice nel latino
"scaevus", cioè "sinistro",
"mancino"). Insomma le Scee erano, alla lettera, le "Porte
Occidentali"
della città, rivolte in direzione della pianura e del fiume.
Da questo quadro emerge che la Troia omerica sorgeva in una
zona collinare,
relativamente elevata, non lontana dalla riva orientale dello
Scamandro
(sarebbe a questo punto suggestivo mettere in relazione il nome
di Ilio, che indicava
la rocca più elevata della città, con l'avverbio finnico "yli",
locativo
che significa "sopra"). Tale collocazione appare senz'altro
logica: gli antichi
tendevano ad edificare le loro città in posizioni
"strategiche", nei pressi dei
fiumi (ovviamente, per avere disponibilità di acqua, ma anche
per ragioni commerciali
e di
facilità di traffici, prediligendo i punti di più agevole
passaggio alla sponda opposta) e, nel contempo, cercavano di
collocarle preferibilmente
in luoghi elevati per motivi di sicurezza, nella prospettiva
sia di eventuali inondazioni,
sia di attacchi dei nemici: in questo senso è esemplare
l'ubicazione di
Roma in un'area di colline attigua al Tevere e affacciata
sull'isola Tiberina, la
quale facilita il transito sull'altra riva. Per inciso, forse
il fatto che città come
Troia o Roma fossero situate ad est di un fiume non è casuale;
si tratta infatti
del versante sul lato del sole che sorge e quindi della vita,
mentre il lato occidentale,
quello del tramonto, allude al mondo dell'aldilà: pensiamo alle
città egizie, edificate sulla sponda destra del Nilo, mentre
sulla riva opposta si trovano
le necropoli.
In particolare, più volte Omero accenna al "guado dello
Scamandro", che
s'incontrava ad un certo punto del percorso tra la città e
l'accampamento acheo
(quest'ultimo era situato lungo il litorale, a quell'epoca
molto più vicino al sito
di Troia di quanto non sia adesso): ad esempio, allorché Ettore
venne ferito
da Aiace presso le navi, "lo portarono verso la rocca, che
grave gemeva;/ ma
quando giunsero al guado del fiume bella corrente,/ del
vorticoso Xanto..." (Il.
XIV, 432-434); e sempre da qui passarono sia il re Priamo, di
ritorno dal campo
acheo dopo aver riscattato il corpo di Ettore (XXIV, 692), sia,
in un episodio
precedente, i soldati troiani in rotta, incalzati da Achille,
che proprio all'altezza
del guado si divisero: alcuni cercarono di attraversare il
fiume, altri
continuarono a fuggire verso la città (Il. XXI, 1-9). Insomma
il guado si trovava
in un punto intermedio fra il campo acheo, che sorgeva lungo la
costa, e
la città.
Andiamo adesso a confrontare questa disposizione con la
morfologia del
territorio attorno a Toija. Subito ad est del paese, appena
oltre il lago, inizia
un'area di alture, su cui giace l'abitato di Kisko: esse poi
proseguono verso sud,
interessando più o meno tutta la sponda orientale del
Kirkkojärvi. Si tratta di
una zona alquanto più elevata del territorio circostante, come
abbiamo constatato
nel corso della nostra ricognizione, e che nel contempo risulta
contigua al
Kirkkojärvi, originatosi dall'allagamento della pianura da
parte dell'antico corso
d'acqua e del suo affluente, vale a dire lo Scamandro e il
Simoenta. La corrispondenza
con il quadro topografico della Troia omerica è perfetta
(invece la
situazione della città anatolica scavata da Schliemann è
completamente differente,
come ben sapevano Strabone ed i suoi contemporanei: di qui
anche le
perplessità dei moderni, dal Finley al Traili).
In sintesi, con ogni probabilità l'antica Troia sorgeva su una
delle alture
affacciate sulla sponda orientale del lago Kirkkojärvi. In tale
ambito, sulla base
dei sopralluoghi effettuati, il sito più probabile sembra
essere quello costituito
da un'area collinosa adiacente a Kisko, circa un chilometro ad
est dell'attuale
Toija, all'altezza del punto dove il fiume si allarga e inizia
il
lago (Tav.
VIII): da qui essa dominava la pianura, situata a un livello
alquanto più basso, che adesso è allagata dal Kirkkojärvi e
dove a quel tempo confluivano i due
fiumi e vi era il guado dello Scamandro. Per inciso, alla luce
di ciò appare curiosa
l'assonanza del nome di Kisko con quello greco delle porte
Scee,
"Skaiaì".
La morfologia di quest'area, localizzata subito a oriente del
versante nord
del lago, si trova descritta anche in un episodio dell'Odissea,
dove Ulisse ricorda
l'incursione di un drappello acheo, che si era spinto in
ricognizione fin
sotto le mura della città: "Presso la rocca, tra fitti
cespugli,/ tra la palude e le
canne, sotto gli scudi appiattati/ stavamo..." (Od. XIV, 473-
475). Effettivamente,
all'altezza del punto in cui il fiume si allarga ed inizia
l'allagamento,
tutt'attorno si estende una zona acquitrinosa ("la palude") con
molti giunchi
("le canne"), davanti a cui s'innalza una sorta di pianoro
sopraelevato, dalle pareti
relativamente scoscese, attualmente ricoperto da un fìtto
bosco, in posizione
dominante rispetto alla vallata: esso, oltre a combaciare
perfettamente
con le indicazioni di Omero, sembrerebbe essere proprio il sito
ideale per
un'antica città fortificata.
A questo punto risulta immediata anche l'identificazione della
collina Batiea,
che sorgeva "isolata nella pianura" ("en pedìoi apàneuthe"; Il.
II,812) davanti
a Troia: doveva trattarsi del promontorio, ora chiamato
Vähäniemi (cioè "capo Vähä"), che si protende sulla sponda
settentrionale del lago, proprio di
fronte alle alture attorno a Kisko (Tav. VIII).
Riguardo a questa collina l'Iliade ci dice che gli uomini la
chiamavano
"Batiea" mentre gli dèi le attribuivano un altro nome, che in
greco suona "sèma
polyskàrthmoio Myrìnes" (Il. II, 814). Tale espressione viene
normalmente
tradotta "tomba della balzante Mirina", senza che ciò aiuti
minimamente a comprenderne
il significato: chi era Mirina (mai citata altrove da Omero)? E
perché mai "balzava" (anzi, "balzava qua e là", stando a quel
prefìsso "poly" che ha il
senso estensivo di "molto" e tuttora si ritrova in tante parole
delle lingue moderne)?
Si trattava forse di una danzatrice, di un'acrobata? O magari
della Regina
delle Amazzoni, stando a certe elucubrazioni dei mitografi
greci? Ancora,
quale relazione può intercorrere fra i nomi dati dagli uomini e
quelli usati dagli
dèi? Per cercare di far luce sulla questione, osserviamo
anzitutto che vi è un
carme dell'Edda, l'Alvissmal, incentrato proprio sul tema dei
diversi nomi che
uomini, dèi, giganti eccetera attribuiscono a uno stesso
soggetto: ad esempio,
nella 18a strofa leggiamo che le nuvole sono chiamate "nubi tra
gli uomini, annunciatrici
di tempesta tra gli dèi, i Vani le chiamano navi del vento,/ i
Giganti speranza di pioggia, gli Alfì forza dei temporali"; e
nella 24a troviamo che "mare si chiama tra gli uomini, eterna
profondità, tra gli dèi, ondoso oceano lo
chiamano i Vani, patria delle anguille i Giganti...". Insomma
il poeta nordico
si sbizzarrisce a giocare con le kenning, tra cui
particolarmente ardite appaiono
quelle sulle nuvole, dette "navi del vento", e sul mare,
"patria delle anguille".
Tornando ora alla nostra collina, a questo punto non ci sembra
affatto irragionevole
supporre che anche qui possa esistere un rapporto semantico tra
i
suoi due nomi: al riguardo, osserviamo subito che il primo,
"Batiea", deriva dal
sostantivo "bàtos", cioè "rovo" o "spina" (attestato anche in
Omero: Od. XXIV,
230): dunque quell'altura era la "Collina dei Rovi"; d'altra
parte, è immediato
il collegamento di "myrine" alla radice di "myron", profumo,
essenza (da cui
"myrtos", mirto, che infatti è una pianta profumata, e
"myrrìne", la bacca del
mirto; la stessa radice la ritroviamo, sempre legata a piante e
profumi, anche
nella lingua sanscrita). Ricordando adesso che i frutti dei
rovi, cioè le more,
hanno un nome che potrebbe essere anch'esso riconducibile alla
radice "myr"
(inoltre fanno parte della famiglia delle Rosacee, arbusti
spinosi i quali, nel
caso delle rose, producono fiori dal profumo intenso) e che il
vocabolo "sèma"
oltre che "tomba" significa "segno" (anche in Omero: Il. XXIII,
326; Od. XI,
126), il significato dell'altro nome della Collina dei Rovi,
ovvero delle Spine,
ormai appare ben chiaro: esso, a nostro avviso, indicava non
una tomba, ma il
"segno", cioè il punto ("sèma") dove apparivano i ciuffi
spinosi delle more
("myrìnes") - o, forse, di una Rosacea profumata - che
s'arrampicavano dappertutto
("polyskàrthmoio").
Insomma, è venuta alla luce un'altra kenning omerica! Altro che
la Regina
delle Amazzoni... Oltretutto si tratta di una bellissima
immagine, dal gusto
quasi impressionista, in cui si riesce perfettamente a cogliere
l'effetto visivo
prodotto da quei cespugli sparsi per le balze della collina
davanti a Troia durante
la stagione della fioritura.
Ed ora torniamo al racconto della ricognizione sotto le mura di
Troia (che
presumibilmente si riferisce ad un episodio avvenuto poco dopo
lo sbarco degli
Achei): "...La notte era scesa cattiva, che Borea soffiava/ e
gelata. Poi sopraggiunse
la neve, come una brina spessa,/ gelida: intorno agli scudi
s'incrostava
il ghiaccio" ("sakéessi peritrépheto krystallos"; Od. XIV, 475-
477). La
"gelida" atmosfera di questo brano, assai poco consona ad un
sito costiero mediterraneo,
invece si collega molto bene alla nebbia e al maltempo,
continuamente
ricorrenti nelle scene di battaglia descritte dall'Iliade.
Anche sotto il
profilo meteorologico il mondo di Troia - che l'Iliade spesso
definisce "ventosa"
("enemòessa") - presenta caratteristiche spiccatamente
settentrionali, come
avevamo già avuto modo di verificare a proposito di tutti gli
altri ambiti
geografici, dalla Selleria ad Itaca, in cui il poeta ci ha
condotti.

E adesso è giunto il momento di cercare uno degli altri


elementi essenziali
della dimensione geografica in cui Omero colloca Troia, insieme
con la rocca,
la pianura, i due fiumi e la costa prospiciente il "largo
Ellesponto": ci riferiamo
all'Ida, l'area montuosa situata alle spalle della città.
l'Iliade la caratterizza
in modo ben preciso, menzionando di frequente le "gole
dell'Ida" (ad esempio, in XI, 105), i suoi "monti" (VIII, 170)
e le sue "cime" (XI, 183), ricorrendo
spesso anche all'espressione "l'Ida dalle molte sorgenti"
("polypldax", XIV,
307), poetica e descrittiva insieme. Ora, dall'insieme delle
citazioni emerge
chiaramente che l'Ida non era affatto una montagna singola
(l'espressione "il
monte Ida", a cui siamo avvezzi, in Omero non s'incontra mai),
bensì un territorio
aspro e selvaggio, ricco di acque e di alture. Ciò è in pieno
accordo con
la morfologia della zona alle spalle di Toija, dove, verso
nord-est rispetto a Kisko,
inizia una zona accidentata, con rilievi dall'altezza
relativamente cospicua
e con un gran numero di specchi d'acqua di tutte le dimensioni:
essa si estende
in direzione di Suomusjärvi, distante da Toija una quindicina
di chilometri,
e anche oltre. Ecco dunque l'Ida dell'Iliade: è un ampio
territorio, relativamente
impervio e ricco di laghi e laghetti, situato in direzione
diametralmente
opposta a quella del mare; da Toija-Troia vi si arriva
risalendo la vallata in cui
scorre il Kurkelanjoki, l'antico Scamandro.
Quest'ultimo punto è particolarmente significativo, in quanto
risulta in
perfetto accordo con una precisa indicazione geografica che
Omero ci fornisce
allorché ci narra il duello tra Achille e Agenore, verso la
fine del poema: l'eroe
acheo, tornato a combattere per vendicare la morte di Patroclo,
dopo aver
fatto strage di Troiani nella pianura e sulla riva del fiume
insegue i fuggiaschi
in rotta e si avvicina minacciosamente alle porte della città;
a questo punto
Agenore, uno dei tanti figli di Antenore, si chiede se sia il
caso di affrontarlo
a viso aperto o se invece non sia meglio darsela a gambe: "Se
lasciassi costoro
incalzati così/ da Achille Pelide, e lontano dal muro,
all'opposto/ fuggissi a
piedi verso la piana Iliea, fino a raggiungere/ le gole
dell'Ida e m'infilassi latra
i cespugli:/ e poi la sera, lavato nel fiume,/ rinfrescato il
sudore, me ne tornassi
ad Ilio?" (Il. XXI, 556-561). Alla fine il coraggioso giovane
si decide ad affrontare
Achille e arriva fìnanco a colpirne l'armatura con la lancia,
senza però riuscire a ferirlo; riuscirà poi a sottrarsi
all'assalto dell'avversario grazie al dio
Apollo, il quale dapprima "lo ricoprì con molta nebbia" ("eéri
pollèi", XXI,
597: è la solita meteorologia del mondo omerico) e
successivamente, per sviare
il nemico e consentire ai soldati troiani di rifugiarsi in
città, si farà inseguire
da Achille lungo lo stesso percorso a cui poco prima aveva
pensato Agenore:
"Si fermò in piedi davanti a lui, e Achille cominciò ad
inseguirlo a piedi;/ lo inseguì a lungo per la pianura datrice
di grano,/ volgendosi lungo il fiume
Scamandro dai gorghi profondi" (XXI, 601-603); alla fine
Achille, quando si
accorgerà di essere stato giocato, ritornerà indietro e punterà
direttamente su
Troia, dove, davanti alle porte Scee, troverà ad attenderlo
Ettore per il duello
decisivo (XXII, 5-21).
Abbiamo così la conferma che, risalendo lungo lo Scamandro e la
"piana
Iliea", si giungeva alle "gole dell'Ida" (è impensabile che
l'inseguimento
possa essere avvenuto lungo il corso
discendente del fiume, controllato dalle truppe achee che dalla
costa, sulla scia di Achille, stavano avanzando verso
Troia): la corrispondenza con la vallata del Kurkelanjoki e la
zona di alture a
monte di Toija è perfetta, al punto da farci supporre che il
poeta abbia personalmente
fatto una approfondita ricognizione di quei luoghi. Apprendiamo
inoltre che la valle dello Scamandro nel tratto a monte della
città veniva chiamata
"Iliea", mentre più in basso prendeva il nome di "Scamandria";
ma anche
questo corrisponde alla morfologia della zona di Toija: infatti
la valle del
Kurkelanjoki fino all'altezza del capo Vähäniemi appare
piuttosto angusta perciò non a caso Agenore pensò di fuggire "a
piedi" ("posìn"), dal momento
che il terreno accidentato alle spalle di Troia rendeva
difficile l'uso del carro
- mentre successivamente si allarga, cambiando nettamente
aspetto, a partire
dal punto in cui il fiume allaga la pianura. Si spiega così il
fatto che nell'Iliade i due distinti tratti siano indicati con
nomi differenti.
In sostanza, il territorio dell'Ida iniziava subito alle spalle
di Troia (situata
in posizione dominante rispetto al fiume, sulle alture accanto
all'attuale Kisko,
di fronte alla "collina Batiea", ossia il capo Vähäniemi, nel
punto dove la pianura
si allarga ed inizia l'attuale lago): questa zona accidentata
si estendeva
verso l'entroterra per un ampio tratto - il poeta ad esempio ci
dice che la città di Zelea era "lontana, ai piedi dell'Ida"
(II, 824) - e ciò trova conferma nella
morfologia dell'area alle spalle di Kisko e Toija.
Ora, secondo Omero, la regione dell'Ida era stata presa di mira
dagli
Achei in una fase preliminare della guerra, prima dell'inizio
delle vicende narrate
nel poema; lo ricorda Enea, l'eroe troiano originario proprio
di quell'area:
"(Achille) mi fece fuggire con l'asta/ dall'Ida, quando assalì
i nostri bovi,/ distrusse
Lirnesso e Pedaso..." (Il. XX, 90-92). In tale circostanza
Achille aveva
catturato Briseide, la ragazza che poi sarebbe stata
all'origine del suo dissidio
con Agamennone: eccolo infatti che "tra le navi sedeva,/ irato
per la giovane
Briseide dai bei capelli/ che s'era presa a Lirnesso, dopo aver
tanto sudato/
nell'abbatter Lirnesso e le mura di Tebe" (Il. II, 688-691).
Per inciso, da quest'ultimo
verso si evince che anche Tebe Cilicia, la città di Andromaca,
si trovava
nella zona di Troia (invece, come poco fa ricordava il Nilsson,
la Cilicia
asiatica è lontanissima dall'Ellesponto "mediterraneo").
Nell'Ida sorgeva l'antica Dardania, la città di Dardano, mitico
capostipite
della stirpe reale di Troia: "Dardano per primo fu generato da
Zeus adunatore
di nembi,/ e Dardania fondò, che non ancora Ilio sacra/
s'ergeva nella pianura,
città di mortali,/ ma le falde abitavano dell'Ida ricca di
vene" (Il. XX,
215-218). Questo territorio ha ispirato alcuni tra i più
suggestivi racconti della
mitologia greca: è qui che il piccolo Paride fu abbandonato e
crebbe nella casa
di un pastore, ignaro della sua origine regale, fin quando, in
occasione del
primo "concorso
di bellezza" della storia, diede incautamente la mela d'oro
alla
dea Afrodite, senza sapere che da quel momento scattava il
fatale countdown della distruzione di Troia (ma chi mai avrebbe
potuto decidere altrimenti,
di fronte alla promessa di avere la bellissima Elena?).
E adesso il racconto del principe allevato tra i pastori ci dà
un altro spunto:
infatti, durante il suo soggiorno giovanile nell'Ida, prima di
andare a cercar
guai con le mogli degli altri, Paride si era fidanzato con la
bella Enone, "figlia
del fiume Eneo e ninfa delle fonti" (Graves, I miti greci,
159). Ora, se
da un lato questa "ninfa delle fonti" si sposa a meraviglia con
la dimensione
lacustre del nostro "Ida" finnico, dall'altro gli stessi nomi
di "Enone" e del fiume
"Eneo" hanno un suggestivo riscontro in uno dei laghi più
importanti della
zona: 1'Enäjärvi - ossia il "lago End" - è situato proprio al
centro di quest'area,
a meno di venti chilometri da Toija. Per raggiungerlo, conviene
tornare
verso il bivio di Kitula, dove si riprende la statale per
Helsinki e, tre chilometri
dopo, si svolta a destra: a partire da qui una strada stretta e
tortuosa,
tutta curve e controcurve, si addentra fra le "gole dell'Ida" e
in pochi minuti
conduce nelle vicinanze dell'Enäjärvi. Ad un tratto riusciamo a
intravvederlo,
una macchia d'azzurro dietro le cime degli alberi; lasciata la
macchina,
scendiamo per un viottolo fino alla riva dove, nel silenzioso
pomeriggio estivo,
la superfìcie scura e immobile di questo tranquillo specchio
d'acqua finlandese
appare come avvolta da un'impalpabile dimensione fuori del
tempo,
che sembra trasmettere arcane suggestioni: sulle sponde del
lago di Enone si
sente quasi aleggiare lo spirito di un mito antichissimo, che
si perde nei millenni...
Il
nome dell'Enäjärvi sembrerebbe richiamare anche quello dello
stesso
Enea, che "la divina Afrodite partorì ad Anchise,/ in mezzo
alle gole dell'Ida,
dea unita di letto a un mortale" (Il. II, 820-821). La
frequenza con cui Afrodite
viene messa in rapporto con la regione dell'Ida è rimarchevole:
ne potremmo
dedurre che tra queste alture la dea avesse un suo culto
particolare, anche
se Omero non ne parla mai esplicitamente. Il poeta menziona
invece un culto
di Zeus: "(Ettore) innumerevoli cosce di buoi m'ha bruciato/
sulle vette dell'Ida
ricco di gole" (Il. XXII, 170-171), ed è ancor più esplicito in
un altro passo:
"(Zeus) aggiogò al carro i cavalli piedi di bronzo/ (...) e
frustò per andare; quelli
volarono ardenti/ a mezzo fra la terra e il cielo stellato./ E
venne all'Ida, ricca
di fonti, madre di fiere/ alla cima del Gargaro, dov'è il suo
sacro recìnto e
l'altare odoroso./ Qui fermò i cavalli il padre dei numi e
degli uomini,/ e li
sciolse dal carro, versò molta nebbia intorno" (Il. VIII, 41;
45-50; notiamo,
anche qui, l'immancabile nebbia).
L'Iliade così ci indica il nome di una delle vette dell'Ida,
presumibilmente
la più importante, data la presenza di quel santuario di Zeus;
ma la "cima del
Gargaro" è anche lo scenario dell'inganno amoroso perpetrato
dalla dea Era ai
danni del marito, al fine di stornarlo per qualche momento
dall'aiutare i Troiani,
dando così un certo respiro agli Achei in difficoltà
(siamo nel pomeriggio precedente alla "notte funesta", mentre
infuria la battaglia davanti al campo
acheo). A tale scopo si fece imprestare da Afrodite
un'irresistibile fascia "ricamata/a
vivi colori, dove stan tutti gli incanti:/ lì v'è l'amore e il
desiderio e
l'incontro,/ la seduzione, che ruba il senno anche ai saggi..."
(Il. XIV, 214-217);
per inciso, sotto la forma del mito, qui troviamo una notazione
psicologica
finissima: ogni innamorato effettivamente "vede" la propria
bella come avvolta
in quel magico indumento; nell'ultimo verso poi ci sembra di
percepire
una sfumatura sottilmente autoironica. L'effetto fu
travolgente, se alla fine
Zeus su quel monte "tranquillo dormì,/ vinto dall'amore e dal
sonno, e stringeva
la sposa" (Il. XIV, 352-353). Invece adesso su quelle stesse
alture, alle
spalle di Toija, i finlandesi trascorrono i loro tranquilli
week-end invernali sulla
neve, ignari di calpestare con gli scarponi da sci i luoghi
dove sorgevano il
"sacro recinto" e ('"altare odoroso" del re degli dèi, e dove
Paride assegnò la
mela d'oro alla divina Afrodite.

E ora, dopo questa full immersion nel cuore della mitologia


greca, torniamo
all'età attuale per segnalare una circostanza estremamente
significativa.
Ci riferiamo al fatto che, proprio nell'area di Toija e Kisko,
durante i lavori dei
campi gli agricoltori spesso trovano oggetti sia dell'età della
pietra che del
bronzo: essi attestano la presenza umana in quel territorio sin
da tempi antichissimi.
Non solo: nella zona di Salo, città ad appena venti chilometri
da Toija,
gli archeologi hanno rinvenuto alcuni splendidi esemplari di
spade e di punte
di lancia dell'età del bronzo, attualmente esposte nel Museo
Nazionale di Helsinki.
Esse provengono da sepolture risalenti a quell'epoca: si tratta
di tumuli,
costituiti da grandi mucchi di pietre, in cima a certe alture
che adesso si elevano
sulla pianura, ma che tre o quattromila anni fa, allorché la
linea di costa era alquanto
arretrata rispetto alla posizione attuale, erano affacciate
direttamente sul
mare.
Ciò trova un significativo riscontro in un passo dell'Ilìade,
allorché Ettore
sfida a duello un eroe acheo, impegnandosi, in caso di
vittoria, a restituire
il corpo dell'avversario, "perché lo seppelliscano gli Achei
dai lunghi capelli,/
gli versino il tumulo sopra, vicino al largo Ellesponto ("epì
piate? Ellespòntoi")/
e dica un giorno qualcuno tra gli uomini futuri/ navigando con
nave ricca di remi
il livido mare:/ "Ecco tomba di eroe che morì anticamente"..."
(Il. VII, 85-89;
la descrizione della tomba di Achille, nell'ultimo canto
dell'Odissea, è pressoché identica): la congruenza tra il
"tumulo in riva al largo Ellesponto" e
quelle sepolture dell'età del bronzo - per di più così prossime
al sito di Toija è senza dubbio impressionante.
Oltretutto, le caratteristiche "nordiche" delle tombe
illustrate nei poemi
omerici non sono una novità per gli studiosi: secondo lo
Schuchhardt, "Omero
(...) descrive la tomba di Patroclo e quella di Ettore come una
tomba a tumulo della nostra cultura della Turingia"98. E nel
Beowulf 'la tomba del protagonista
è "un chiaro tumulo/ sul promontorio a mare: per ricordarmi al
mio popolo/
dovrà svettare alto sul Capo della Balena;/ perché i navigatori
l'intitolino,
poi,/ il Tumulo di Beowulf, quando sospìngeranno/ da lontano le
navi di là delle nebbie del mare" {Beowulf 2803-2808).

98 Romualdi, Gli Indoeuropei, pag. 98 (citato da Alteuropa)

D'altronde, poco fa avevamo


incontrato il tumulo del re vichingo Yngvarr sulla riva del
mare, là dove le onde,
frangendosi, fanno risuonare senza posa il "canto di Gymir"...
Tutto ciò conferisce ulteriore risalto alle straordinarie
corrispondenze, sia
geografiche che morfologiche, riscontrate tra l'area di Toija e
la Troia dell'Iliade: esse, unitamente a quelle tra l'isola di
Lyø e l'Itaca dell' Odissea, altrettanto
rimarchevoli e forse ancor più agevolmente verificabili, sono
senza dubbio tra gli argomenti più importanti a favore della
presente tesi, date anche le
irrimediabili contraddizioni che invece emergono allorché le
vicende narrate
nei poemi omerici vengono calate - o, per meglio dire,
"forzate" - nel tradizionale
contesto greco-mediterraneo. Va da sé che tali corrispondenze,
verificate
sul posto e avvalorate dai reperti di cui sopra, rendono ancora
più pressante
l'esigenza di avviare ricerche archeologiche approfondite su
questi siti così promettenti.
Nel frattempo, il quadro complessivo è stato ulteriormente
arricchito da
una ricognizione aerea effettuata sull'area di Toija e del
Kirkkojärvi. In una bella
mattina estiva decolliamo dall'aeroporto di Turku con un
piccolo monomotore
e, rinchiusi con il pilota nello strettissimo, nonché
rumorosissimo, abitacolo,
dopo quasi mezz'ora di volo finalmente arriviamo a sorvolare il
territorio
di Toija, già preannunciato in lontananza dall'inconfondibile
sagoma della
pianura allagata, teatro delle furibonde battaglie descritte
nel poema: "Divampava
la lotta di qua e di là per la piana/ mentre l'aste di bronzo
scagliavano gli
uni sugli altri/ fra le correnti di Simoenta e di Xanto" (Il.
VI, 2-4). E, là sotto,
tutto corrisponde esattamente alle descrizioni dell'Iliade:
ecco le alture attorno
all'abitato di Kisko, dove sorgeva la rocca della città di
Priamo; di fronte,
in posizione prominente sulla sponda nord del lago, spicca la
macchia scura del
capo Vähäniemi, ricoperto di alberi, ovvero l'antica collina
Batiea, "scoscesa
davanti alla città/ isolata nella pianura, accessibile da ogni
parte" (II, 811-812),
dove prima della battaglia "si ordinarono i Troiani e gli
alleati" (II, 815). La panoramica
dall'aereo mostra che quel rilievo si trovava effettivamente in
posizione
strategica ideale per difendere la zona di Troia, collocata
sulle colline antistanti,
da un attacco proveniente dal mare: non a caso dunque
l'esercito troiano
scelse proprio quel punto, situato in mezzo alla pianura
davanti alle Scee,
cioè le
Porte Occidentali della città, per schierarsi in ordine di
battaglia ed attendere gli Achei, i quali a loro volta stavano
avanzando dalla costa e "molto
in fretta passavano per la pianura" (II, 785).
Ma ecco che laggiù, mentre sorvoliamo la sponda del lago
seguendone i
contorni, ad un tratto vediamo luccicare al sole il fiume
Kurkelanjoki, cioè lo
Scamandro: dall'alto pare una sottile serpe d'argento disegnata
sul paesaggio,
che si snoda flessuosamente tra gli alberi, finché l'ultimo dei
suoi meandri va
ad impaludarsi in un acquitrino che poi sfocia nel lago,
accanto al Vähäniemi.
Pieghiamo ora verso sud: sotto di noi vediamo via via sfilare
le insenature della
sponda orientale, e poco dopo passiamo sopra un'isola non
lontana dallo
sbocco del Mammalanjoki, il Simoenta omerico: che sia la "Bella
Collina",
menzionata due volte nel ventesimo libro del poema? Nella
visione dall'alto
ogni particolare sembra collimare a meraviglia con le
descrizioni di Omero, che
mai come in questa occasione appaiono straordinariamente
precise e aderenti
alla realtà! Più a valle, verso Aijala, all'altezza del punto
dove ora il lago rientra
nell'alveo dell'antico fiume e inizia il Kiskonjoki, a quel
tempo doveva trovarsi
il lido con le navi, tratte in secca sulla spiaggia e disposte
in varie file parallele
alla riva (XIV, 35); accanto vi era il campo fortificato degli
Achei, che
di là partivano per i loro assalti contro la città:
"Innumerevoli schiere dalle navi
e dalle tende/ si riversavano nella pianura Scamandria; la
terra/ rombava
spaventosamente sotto i piedi loro e dei cavalli" (II, 464-
466).
Dopo un'ampia virata l'aereo, prima d'intraprendere la via del
ritorno,
sorvola nuovamente la valle allagata: proprio qui, al centro
della pianura, sorgeva
la tomba d'Ilo (XI, 166-167), "l'antico Dardanide" avo di
Priamo; essa,
a quanto ci dice Omero, era contrassegnata dalla stele (XI,
371) dietro alla quale,
nella battaglia del pomeriggio precedente alla "notte funesta",
si era appostato
il troiano Paride, mirando con l'arco, per colpire il terribile
Diomede, che
stava imperversando contro l'esercito troiano (non riuscì ad
ucciderlo, però lo
ferì a un piede e lo costrinse a ritirarsi). Gli eventuali
resti di quella arcaica sepoltura
potrebbero trovarsi, gelosamente custoditi da millenni, sul
fondo del lago,
che però si va ormai allontanando alle nostre spalle: abbiamo
ancora pochi
attimi per scattare le ultime foto, sporgendoci il più
possibile dall'angusto finestrino,
e poi ci resta un'altra mezz'ora di volo prima che il pilota,
con manovra
impeccabile, tocchi nuovamente terra sulla pista di Turku.
VIII.

DONNE CONTESE E MURA DI LEGNO

Prima di estendere la verifica delle corrispondenze ad un'area


allargata,
comprendente un vasto territorio della Finlandia meridionale
con le isole adiacenti,
faremo ora una breve sosta nelle nostre ricognizioni
geografiche.
Conviene anzitutto soffermarsi un attimo su un'ovvia
implicazione del
discorso che si è andato via via delineando: lo spostamento del
teatro della
guerra di Troia dall'Asia Minore alla Finlandia riapre il
problema delle sue
reali motivazioni, finora individuate nello scontro fra le mire
espansionistiche
degli Achei in direzione del mar Nero e la posizione strategica
della città all'imbocco dei Dardanelli. A prima vista
sembrerebbe infatti difficile ammettere
che la causa tramandataci dalla mitologia, ossia il rapimento
di Elena
da parte di Paride, possa essere stata sufficiente a provocare
una guerra
delle proporzioni di quella descritta dall'Iliade. Su tale
questione, legata alla
presente tesi dal fatto che lo spostamento di scenario fa
cadere la motivazione
della "posizione strategica" della sventurata città, proveremo
ora a fare
alcune riflessioni. E da queste ultime scaturirà - tenendo
naturalmente presente
l'inedito contesto geografico in cui le vicende narrate da
Omero risultano
adesso ambientate - una rilettura in chiave inedita, la quale
forse potrà accrescere la verisimiglianza e, quindi, il fascino
dei due poemi. Ciò vale
anche per le considerazioni che faremo subito dopo in merito
alla durata della
guerra, le quali d'altro canto, soprattutto nella parte in cui
prenderemo in
esame la questione della reale consistenza delle mura di Troia,
ci porteranno
a delineare uno scenario così congruente con la localizzazione
nordica della
città, da costituire un ulteriore argomento a favore della tesi
che stiamo sviluppando
in queste pagine.
Cerchiamo allora il senso recondito del ratto di Elena (e dei
suoi beni), che
Omero indica invariabilmente come esclusiva ragione del
conflitto (ad esempio,
in Il. XXII, 116): a tal fine riflettiamo anzitutto sul fatto
che, secondo la
mitologia greca, il giovane Menelao, figlio orfano di Atreo,
aveva potuto accedere
al trono di Sparta in virtù del suo matrimonio con la figlia
del re Tindaro,
per l'appunto Elena. Quest'ultima si fregiava del singolare
titolo di "figlia
di Zeus" (Od. IV, 219; IV, 227; XXIII, 218), che comportava
particolari privilegi
anche per il marito: "Nella pianura Elisia, ai confini del
mondo/ ti condurranno
gli Eterni (...)/ e là bellissima per i mortali è la vita/
(...) e questo perché
hai Elena e per i numi sei genero a Zeus" (Od. IV, 563-565;
569).
A questo punto, c'è da chiedersi se il ratto di Elena - e il
suo successivo matrimonio
con Paride, che nell'Iliade appare a tutti gli effetti come il
secondo
marito e per di più è uno straniero - si potesse esaurire
nell'ambito di una dimensione
sentimentale, familiare o comunque privata, o invece, a parte
gli
ovvi riflessi negativi sull'"immagine pubblica" di Menelao, non
ne compromettesse
il titolo ad essere re di Sparta, da lui acquisito proprio in
virtù del matrimonio,
con il rischio di aprire nel suo regno quella che oggi si
definirebbe una
"gravissima crisi istituzionale", dagli sviluppi imprevedibili
(proviamo ad immaginare
cosa sarebbe successo nell'Europa di qualche secolo fa se una
regina
d'Inghilterra fosse fuggita col figlio dello zar). Da qui
insomma potrebbe esser
nata la determinazione degli altri sovrani achei - e in
particolare del fratello
maggiore, nonché confinante, Agamennone, anch'egli diventato re
in seguito ad
un "buon matrimonio" (con Clitennestra, l'altra figlia di
Tindaro) - di riprendersi
ad ogni costo la bella regina (non perché bella, ma in quanto
regina), unico modo
per risolvere la situazione creatasi con il ratto, ed anche per
impedire che si
instaurasse un pericoloso precedente (insomma la grande
coalizione andò a
compiere quella che oggi verrebbe definita "un'operazione di
polizia internazionale":
né mancò, prima di passare all'intervento armato, un tentativo,
naturalmente
fallito, di risolvere la questione per via diplomatica).
Una conferma a tali considerazioni ci viene dall' Odissea, dove
pure lo
spunto principale dell'azione è la contesa per una donna: in
questo caso si tratta
di Penelope, disputata fra i pretendenti ed il marito. Anche
qui viene spontaneo
chiedersi quale fosse la reale motivazione che spingeva i
giovani rampolli
di Itaca e delle isole vicine - sistematicamente chiamati
"giovani" ("néoi") o
"ragazzi" (koùroi"), in pratica coetanei di Telemaco - a fare
una corte serrata
ad una donna ormai matura.
La risposta ce la dà, e molto esplicita, lo stesso Telemaco,
riferendosi ad Eurimaco,
il quale "è il più nobile principe, e più di tutti desidera/
sposare mia madre
e avere la dignità di Ulisse" (Od. XV, 521-522): la posta in
gioco è dunque
la "dignità" ("géras") regale, conseguibile proprio attraverso
le nozze con Penelope.
Lo comprova al di là di ogni dubbio il fatto che Ulisse, non
appena nell'Ade
incontra l'ombra della madre defunta, le chiede se il géras gli
appartiene ancora
o se "(Penelope) già l'ha sposata il primo dei nobili Achei"
(Od. XI, 179). Per
inciso, probabilmente il riferimento è proprio ad Eurimaco, che
in un sogno di
Telemaco, riportato all'inizio del libro XV, viene considerato
come il vero promesso
sposo, ormai ad un passo dalle nozze. Ma la madre lo rassicura:
"Lei rimane
con cuore costante/ nella tua casa, e tristissimi sempre/ i
giorni e le notti le
si consumano a piangere:/ nessuno ha il tuo bel géras" (Od. XI,
181-184). Ora,
questo vocabolo ha il significato specifico di "esercizio di
sovranità"99: lo ritroviamo
anche nell'Iliade, dove infatti viene chiamato géras il potere
che Priamo detiene e che ovviamente intende trasmettere ai suoi
discendenti (Il. XX, 182).
A questo punto si può fare un suggestivo parallelo con le
GestaDanorum, dove
Saxo ci parla di un personaggio
femminile, di nobilissima origine, che "era in grado di far
divenire re chiunque avesse voluto degnare concedendoglisi in
matrimonio,
con i suoi amplessi poteva attribuire la regalità" (IV, I, 16).

99 Voc. Rocci, voce " geras

D'altronde, non mancano gli indizi che anche Ulisse avesse


ottenuto la regalità
di Itaca per la stessa via: Penelope era figlia di un
"padrepotentissimo" ("méga dynaménoio", Od. I, 276), Icario,
"glorioso" (XIX, 546) e "magnanimo"
(IV, 797), e sorella di Iftime, a sua volta moglie di Eumelo
(IV, 798), re
di Fere, che il Catalogo delle navi menziona con particolare
riguardo: "Guidava
il caro figlio d'Admeto undici navi,/ Eumelo, che generò da
Admeto una donna
divina,/Alcesti" (Il. II, 713-715). Invece il padre di Ulisse,
l'anziano Laerte, nell'Odissea viene presentato come un povero
vecchio, relegato nei campi
in condizioni miserevoli: "Non viene in città,/ ma lontano, fra
i campi, soffre
dolori,/ con una vecchia serva, che bere e mangiare/ gli porta,
quando stanchezza
le membra gli opprime/ a strascinarsi pel dosso del suo colle a
vigneti"
(Od. I, 189-193); e forse ancora più deprimente è il ritratto
che il poeta ne
fa alla fine dell' Odissea: "Vestiva una tunica sporca,/
rappezzata, indecente
(...)/ sopra la testa/ aveva un berretto di pelle di capra, a
crescer la pena" (XXIV,
227-228; 230-231); insomma non parrebbe proprio che questa
patetica figura
abbia potuto costituire il tramite attraverso cui Ulisse aveva
conseguito la sua
"dignità" regale (si potrebbe invece congetturare che fossero
state le ricchezze
accumulate prima della guerra, su cui, come abbiamo visto,
l'Odissea si
sofferma in più di un'occasione, ad aprire al nostro
avvedutissimo eroe la strada
di un matrimonio aristocratico).
Notiamo anche che tale "dignità" era forse trasmissibile ai
discendenti:
Telemaco è infatti di "stirpe regale" ("génos basilé'ion", Od.
XVI, 401), e glielo
ricordano sia l'indovino Teoclimeno: "Altro sangue non v'è più
regio del vostro/
tra il popolo d'Itaca: e voi avrete per sempre potenza" (Od.
XV, 533-534),
sia, non senza sarcasmo, lo stesso Antinoo (che di lì a poco
tenterà di eliminarlo
a tradimento): "Che in Itaca cinta dal mare re non ti faccia il
Cronìde/ come sarebbe
per nascita tua diritto d'erede" (Od. I, 386-387).
Torniamo ora a Menelao e alla portata dell'onta inflittagli da
Paride; a tale
proposito, sempre nelle Gesta troviamo un episodio chiave:
Odino, tradito
dalla moglie, "prese la via dell'esilio, sperando di cancellare
il grave disonore
in cui era incorso" (I, VII, 1). Ciò mette in luce la vera
dimensione, non solo
privata ma anche e soprattutto "politica", di questo tipo di
offesa: insomma il
ratto di Elena - la quale era anche prima cugina di Penelope,
in quanto suo padre
Tindaro, re di Micene e di Sparta, era fratello del
"potentissimo Icario" doveva
essere effettivamente considerato un oltraggio tale da
configurare un
vero e proprio casus belli, come Omero sostiene; d'altronde,
proprio nelle Gesta abbiamo già riscontrato che il rapimento di
una regina comporta la guerra:
ne va anche dell'onore del re, quindi della sua personale
credibilità agli occhi
del popolo.
Ecco, dunque, perché in favore della causa di Menelao si
schierano in
campo, e con estremo accanimento, le due dee più importanti
dell'Olimpo,
Atena ed Era - la divinità "nazionale" degli Achei e la custode
dell'ordine familiare
e sociale - coalizzate contro Afrodite: le ragioni del cuore
non possono
prevalere contro la "ragion di Stato". E la posta in gioco nel
conflitto è talmente
alta, molto al di là dei casi personali dello stesso Menelao -
il quale infatti
nel poema ha un ruolo limitato - che Era ad un certo punto
dichiarerà solennemente
a Zeus: "Vi sono tre città a me carissime:/Argo, Sparta e la
spaziosa
Micene;/distruggile, il giorno che tu le odiassi in cuore" (Il.
IV, 51-53),
naturalmente a condizione che la contesa si risolva in favore
dei suoi protetti
e l'aborrita città di Troia venga distrutta. Riguardo poi al
scarso peso specifico
del personaggio di Menelao, il quale ad un certo punto viene
addirittura definito
"combattente mediocre" ("malthakòs aichmetés", Il. XVII, 588),
osserviamo
che, se il poeta avesse voluto raccontare una storia di
fantasia, alla figura
del "marito vendicatore" avrebbe certamente dato un ben diverso
risalto.
In definitiva, una siffatta chiave di lettura consente di
sganciare questa tematica
dal luogo comune della "posizione strategica", che ha in certo
senso finora
legato la guerra di Troia all'area dei Dardanelli, ma che è
totalmente estraneo all'Iliade (oltretutto una tale motivazione
avrebbe dovuto comportare la
permanenza sul sito di un presidio acheo anche dopo la fine
delle ostilità, mentre
in Omero e nella mitologia greca non ve ne è traccia alcuna).
Essa nel contempo
consente di estendere anche alle cause, apparentemente frivole,
del conflitto
la dimensione "tragica" dell'epos omerico - ben presente, ad
esempio, nei
destini incrociati di Achille e di Ettore - riuscendo in tal
modo a rendercelo ancora
più grande e più vero.
Ormai infatti possiamo ben dire che le reali ragioni del
contendere sotto le
mura di Troia, pur identificandosi con il ratto di Elena, si
pongono ben al di là dell'onore
di un marito tradito o dell'amore per la bella fedifraga; così
pure, la vera
posta in palio nella drammatica partita fra Ulisse e i
pretendenti è il géras, la dignità
regale connessa al matrimonio con Penelope. Insomma, sia
nell'uno che
nell'altro dei due poemi quel che è in gioco in realtà è il
Potere, che da sempre su
questo pianeta muove, e sovente volge in dramma, le alterne
vicende degli uomini.

E adesso è giunto il momento di fare qualche riflessione sulla


durata della
guerra, che, secondo la tradizione, si sarebbe protratta per un
tempo straordinariamente
lungo a causa delle mura inespugnabili della città, capitolata
infine,
dopo oltre nove anni di assedio, solo in seguito allo
stratagemma del cavallo
di legno, ideato da Ulisse: questa almeno è la "versione dei
fatti" fornita dall'Odissea, volta naturalmente ad esaltare la
parte avuta dal suo eroe in quella
vicenda (e, forse, anche a giustificare i venti anni,
un'enormità, trascorsi fra
la sua partenza ed il ritorno ad Itaca).
Riguardo dunque alle mitiche mura di Troia, osserviamo subito
che il
poeta dell'Iliade non si sofferma mai a descrìverle in
dettaglio; già questo può apparire sorprendente, dato il
fondamentale ruolo strategico che, secondo tutta
la tradizione, esse avrebbero avuto nel sostenere un
interminabile assedio decennale. L'Iliade invece si dilunga
maggiormente sul muro eretto dagli Achei
a difesa del loro accampamento: "Alzarono un muro a ridosso,/
torri alte, riparo
per le navi e per loro;/ fecero in esso porte bene aggiustate,/
che vi passasse una
strada da carri" (VII, 436-439). Per inciso, notiamo la
stranezza di una costruzione
che, seguendo la cronologia tradizionale (secondo cui gli
episodi narrati
nel poema si riferirebbero al decimo anno di guerra), sarebbe
stata realizzata
ben nove anni dopo l'inizio del conflitto.
Su questo muro acheo, attorno al quale, nel pomeriggio
precedente alla
"notte funesta", viene combattuta una parte della battaglia più
importante del
poema, il poeta ci fornisce diversi particolari: esso è dotato
di torri e di parapetti
(Il. XII, 373; 375), ha fondazioni di tronchi e pietre (XII,
29) ed è costituito
di tronchi (XII, 36), oltre che di pietre (XII, 178); ciò è
confermato dal fatto
che, durante l'assalto troiano, ";' tronchi del muro ("doùrata
pyrgon"), colpiti,/
cigolavano" (Il. XII, 36-37). In pratica, era qualcosa di
simile ad una robusta
palizzata: e in un'ambientazione nordica, cioè in un mondo dove
il legname
era, ed è tuttora, abbondantissimo, la cosa appare del tutto
naturale. A
questo punto, non ci sorprende affatto che un simile "muro"
abbia ben presto
ceduto sotto l'assalto dei Troiani: "Apollo/ (...) abbatté il
muro degli Achei/ senza
fatica" (XV, 360-362); inoltre, secondo l'Iliade, a cancellarne
definitivamente
le tracce fu sufficiente una sola alluvione, sia pure di
eccezionale intensità,
quella descritta all'inizio del libro XII.
Ma tutto ciò, se in certo senso ci permette di visualizzarlo,
sia pure grossolanamente,
ci consente altresì - ed è questo l'aspetto più importante - di
farci
un'idea anche delle mura di Troia: infatti Omero, pur senza
descriverle, le
mette direttamente a paragone con il muro acheo attraverso una
significativa
affermazione di Poseidone: "La gloria di questo (il muro acheo)
sarà vasta,
quanto si stende l'Aurora,/ e scorderanno l'altro (quello della
città), che Febo
Apollo ed io/ per l'eroe Laomedonte sudammo a costruire" (Il.
VII, 451-453).
Insomma, secondo l'Iliade, le mura di Troia sono da
considerarsi inferiori rispetto al "gran muro degli Achei"
(XII, 12), il quale però era tutt'altro
che invulnerabile, essendo in sostanza costituito, come abbiamo
visto, di pietre
e tronchi d'albero, destinati a cedere al primo assalto.
A questo punto, di fronte ad un così macroscopico ribaltamento
del concetto
tradizionale, potrebbe addirittura sorgere il dubbio che questo
paragone
tra i due muri sia errato, o spurio, o male inteso; ma non è
così. Infatti vi sono
altri passi nel poema da cui risulta che le opere difensive di
Troia erano tutt'altro
che
inespugnabili; anzi, almeno in un punto dovevano essere
particolarmente vulnerabili, come Andromaca rammenta ad Ettore
nel corso del loro famoso
colloquio (di cui in genere si ricorda solo la parte per così
dire "sentimentale"):
"Ferma l'esercito presso il caprifico, là dove è molto/ facile
assalir
la città, più accessibile il muro ("epìdromon épleto
teìchos");/ per tre volte venendo
in questo luogo l'hanno tentato i migliori/ compagni dei due
Aiaci (...)/
o l'abbia detto loro chi ben conosce i responsi,/ oppure ve li
spinga l'animo
stesso e li guidi" (Il. VI, 433-436; 438-439). Per inciso, può
darsi che gli Achei
avessero individuato i punti deboli del muro proprio in quella
missione esplorativa
notturna sotto la neve, raccontata da Ulisse, a cui accennavamo
poco fa; ma, a parte ciò, non sembra che il comandante in capo
dell'esercito troiano
abbia tenuto in gran conto questa lezione di strategia militare
da parte della moglie,
saggiamente basata sul "primo non prenderle", che avrebbe
potuto evitargli
un sacco di guai.
Dopo aver notato, en passant, che anche queste parole di
Andromaca, così
come il momento della realizzazione del muro acheo, sembrano
riferirsi ad
una guerra appena iniziata piuttosto che a un conflitto in
corso da molti anni,
osserviamo che la precedente diagnosi sull'intrinseca debolezza
delle mura
della città trova una precisa conferma nel fatto che al primo
vero assalto frontale,
condotto dai Mirmidoni guidati da Patroclo sullo slancio del
contrattacco
sferrato nella "notte funesta", esse rischiarono subito di
capitolare: "E allora
Troia alte porte prendevano i figli degli Achei/ sotto le mani
di Patroclo; orrendo
infuriava con l'asta" (XVI, 698-699). Questi addirittura "tre
volte tentò di salire l'aggetto dell'alto muro" (XVI, 702) e
per poco non riusciva a centrare
il suo scopo: "Lottarono tutto il giorno presso le porte Scee/
e certo quel giorno
distruggevano la rocca ("autèmar pòlin éprathon") se Apollo/
non uccideva
il forte figlio di Menezio/ che molti mali faceva" (Il. XVIII,
453-456).
E, caduto Patroclo, nella battaglia del giorno successivo sarà
lo stesso
Achille, tornato a combattere per vendicare l'amico, ad
arrivare a sua volta ad
un passo dall'obiettivo (Il. XXI, 544). Altro che mura
invulnerabili ed in grado
di resistere a un assedio decennale! Esse, dopo la morte di
Achille, cadranno
in seguito ad un altro attacco frontale: a dircelo è Zeus in
persona, in uno
dei suoi soliti discorsi profetici: "Achille glorioso ucciderà
Ettore;/ da quel
momento in poi un 'offensiva continua ("palìoxin diamperés")/
senza arresto farò partire dalle navi, finché gli Achei/
prendano Ilio rocciosa coi consigli
d'Atena" (Il. XV, 68-71). Ecco dunque perché il poeta
dell'Iliade, come abbiamo
notato all'inizio, non dedica loro alcuna attenzione
particolare (anzi,
come abbiamo visto, si sofferma maggiormente sul muro eretto
dagli Achei).
Le mura di Troia dunque non dovevano essere molto diverse da
quelle
della città dei Feaci, menzionate nell'Odissea, "munite di
palizzata" ("skolò-pessin areròta"; Od. VII, 45), le quali,
se a noi possono sembrare alquanto primitive,
invece al poeta appaiono particolarmente degne di ammirazione,
al punto da indurlo, nello stesso verso, ad esclamare con
enfasi: "...Meraviglia a vedersi!".
Insomma quel primordiale mondo nordico, più arcaico della sua
"filiazione"
micenea - che, una volta discesa in Grecia, si sarebbe poi
evoluta rapidamente,
a contatto con le ben più raffinate civiltà mediterranee e
mediorientali
- doveva utilizzare pietre e, soprattutto, tronchi d'albero
come materiali da costruzione
(non a caso, nei poemi omerici è frequentissima, in particolare
nelle
similitudini, l'immagine dell'albero abbattuto dai boscaioli).
E anche su questo
punto è significativa la testimonianza dello Schuchhardt, già
menzionato in precedenza
a proposito delle caratteristiche "nordiche" della zattera di
Ulisse e delle
tombe di Patroclo e di Ettore: "Omero parla della muraglia di
legno che attornia
la reggia dei Feaci e il campo delle navi achee, come se si
trattasse di una Volksburg germanica"100.

100 Romualdi, Gli Indoeuropei, pag. 98

A sua volta, il Piggott ci ricorda che "le fortificazioni


più antiche nell'Europa barbarica sembra che per la maggior
parte fossero delle
semplici palizzate, o terrapieni e fossati, posti intorno ai
villaggi"101.

101 piggott, Europa Antica, pag. 210

Da tutto ciò scaturisce una conseguenza molto importante: la


città descritta nell'Iliade ha ben poco a che vedere con le
poderose fortezze, munite di
difese ciclopiche, che caratterizzano gli insediamenti micenei;
dal poema invece
sembra emergere piuttosto la fisionomia delle antiche città
settentrionali,
situate in località ricche di legname (ad esempio, la fortezza
del Cremlino,
situata nel cuore di Mosca su una collina 40 metri al di sopra
del livello della
Moscova, nel XV secolo era ancora tutta in legno, circondata da
una palizzata;
solo nel 1485 venne iniziata la costruzione di mura vere e
proprie). D'altronde,
ciò è in linea con il concetto, propugnato dal Finley e ormai
condiviso
da moltissimi studiosi, che il mondo di Omero fosse più
primitivo di quello miceneo.
Pertanto
le mura di queste città arcaiche non erano molto diverse da
grosse
palizzate con parapetti e torri d'avvistamento, come quella in
corrispondenza
alle porte Scee (Il. III, 153), un po' sul genere di quelle dei
vecchi forti
americani cari ai film western, anch'essi situati in territori
dove il legname era
molto abbondante, e dovevano svolgere soprattutto una funzione
di difesa ausiliaria
per la popolazione civile, alle spalle dei combattenti: ecco
dunque la ragione
per cui, all'arrivo dell'esercito acheo, i Troiani ed i loro
alleati non si asserragliano
all'interno della rocca ma vi si schierano davanti: "S'aprirono
tutte
le porte, si lanciò fuori l'esercito,/ fanti e cavalli..." (Il,
809-810). Ciò ovviamente
non esclude che, in caso dì necessità, esse potessero servire
di riparo
anche per i soldati, come avviene allorché, verso la fine del
poema, l'esercito
troiano allo sbando, inseguito da Achille, corre a rifugiarsi
in città:
"...Tenete aperte le porte, perché gli armati/ in fuga possano
entrare in città: Achille/è
vicino e incalza!" (XXI, 531-533).
Ne consegue da un lato che proprio i resti delle grandi mura
recentemente
scoperte nell'area di Hissarlik ci confermano ulteriormente
l'estraneità del
sito scavato da Schliemann rispetto alla Troia omerica,
dall'altro che non fu necessario
alcun particolare stratagemma per espugnare la città: la
capitolazione
finale di Troia non fu affatto dovuta all'assurdo espediente
del cavallo - di cui nell'Iliade, malgrado sia prodiga di
anticipazioni sugli eventi successivi, non
vi è traccia alcuna - ma ad una serie di assalti ininterrotti,
come Zeus ci ha detto
poco fa nel profetizzare l'offensiva continua" che gli Achei
avrebbero scatenato
dopo la morte di Ettore. Ciò d'altronde è perfettamente
coerente con il
quadro globale che siamo andati via via ricostruendo.
E, per concludere, osserviamo che Omero visualizza la fine di
questa Fort
Alamo preistorica con un'immagine dall'espressività quasi
cinematografica:
"Troia in un fuoco violento tutta arderà! incendiata ("maleròi
pyrì påså dàetai
kaioméne"), la incendieranno i figli guerrieri degli Achei"
(Il. XXI, 375-376);
se ne può ragionevolmente dedurre che le sue case fossero in
larga parte di legno,
proprio come quelle della Mosca di cinque o seicento anni fa.

E adesso, caduto il mito delle invulnerabili mura che avrebbero


consentito
di protrarre la difesa della città per tanti anni, ritorniamo a
quei passi del
poema, riguardanti la costruzione del muro acheo ed i timori di
Andromaca, a
proposito dei quali abbiamo osservato che sembrano riferirsi
più ad un conflitto
iniziato da poco che a una guerra in corso da quasi un
decennio.
In effetti, una cospicua serie di argomenti, tutti strettamente
interni all'Iliade, parrebbe indicare che gli Achei fossero
arrivati nella Troade solo poco
tempo prima dell'inizio delle vicende raccontate nel poema. Ad
esempio, fra i
tanti eroi che vengono enumerati nel Catalogo delle navi, molti
dei quali soccomberanno
o resteranno feriti nel corso della narrazione, l'unico che
all'inizio
risulta già caduto è Protesilao, ucciso proprio durante lo
sbarco, "mentre
dalla nave balzava, primissimo fra gli Achei" (Il. II, 702):
sembra inverosimile
che siano poi passati nove anni di guerra senza nessuna altra
vittima. Inoltre,
il Catalogo ci dice che Filottete, a causa del morso di un
serpente, era stato
lasciato a Lemno, dove gli Achei diretti a Troia avevano fatto
scalo: "Egli
giaceva laggiù soffrendo, ma presto dovevano ricordarsi/ gli
Argivi presso le
navi, del sire Filottete" (Il. II, 724-725); costui infatti
avrebbe poi preso parte
alla fase finale della guerra (che l'Iliade non ci racconta:
certo, questa anticipazione
appare curiosa, se il poeta non aveva davvero intenzione di
continuare
la sua narrazione fino alla presa della città); in ogni caso, è
poco verosimile
che lo sfortunato eroe sia rimasto infermo a Lemno per nove
anni. D'altronde,
quell'avverbio "presto" ("tàcha") nel penultimo verso
citato sembra esplicitamente alludere al suo sollecito ritorno
nel vivo dell'azione. Per inciso,
alla fine della narrazione dell'Iliade molti eroi risultano
morti o feriti; pertanto
il ritorno di Filottete - che, secondo Omero, era un comandante
molto stimato
(Il. II, 726) - potè effettivamente rivelarsi decisivo.
A questo punto si potrebbe obiettare che alla creazione poetica
non si può chiedere di attenersi ad una rigorosa
verosimiglianza (anche se il poeta dell'Iliade è abitualmente
molto preciso e talvolta quasi "cronachistico"), se non vi
fossero, oltre alla questione della vulnerabilità intrinseca di
quelle mura, anche
numerosissimi altri indizi, sempre nello stesso senso: anche i
capi dei contingenti
alleati dei Troiani (presentati subito dopo il Catalogo), oltre
ad essere
ancora tutti illesi allorché inizia l'azione dell'Iliade,
sembrano arrivati sul teatro
della guerra soltanto da pochi giorni, come ad esempio
Asteropeo, il quale
prima del suo duello con Achille afferma: "Questa è
l'undicesima aurora da che
sono in Ilio" (Il. XXI, 155); od Otrioneo, "giunto da Cabeso/ e
venuto da poco"
(XIII, 363-364); o Ifidamante, che "sposo appena, partì dal
talamo verso
il rumore degli Achei" (XI, 227); o i Traci, che con il loro re
Reso erano "nuovi
arrivati" ("neélydes"; X, 434); o gli Aseani, giunti
addirittura "il mattino
avanti" ("eoi tèi protérei"; XIII, 794), e così via.
È altresì significativo che un altro condottiero alleato dei
Troiani, Pandaro,
si penta di non aver condotto con sé a Troia i suoi cavalli
"che non mi mancasser
di cibo,/ tra uomini assediati, essi, usi a mangiar largamente"
(Il. V, 202-203):
questo ripensamento fa supporre che il cibo in città fosse
abbondante, il
che è confermato da un altro episodio, il sacrificio ad Atena
di "dodici vacche"
(VI, 274); d'altronde, se gli assediati avessero veramente
sofferto la fame, come
sarebbe stato lecito aspettarsi dopo tanti anni di assedio, il
poeta non avrebbe
certo perso l'occasione per "ricamare" attorno ad un soggetto
così letterariamente
allettante; invece Omero non accenna mai a tale argomento, se
non
nella frase attribuita a Pandaro che abbiamo appena citata, la
quale anzi ci conferma
che in città non vi era affatto penuria di vettovaglie.
Inoltre, tutta la scena dell'assalto iniziale degli Achei, nel
II libro, viene
presentata come se costituisse l'esordio della guerra: una
sentinella troiana sta
di vedetta in un avamposto, "aspettando il momento che dalle
navi gli Achei
si movessero" (II, 794); allorché li vede avanzare nella
pianura, corre ad avvertire
re Priamo, il quale sta tranquillamente parlando
nell'assemblea, e lo interrompe
bruscamente: "O vecchio, a te piaccion sempre discorsi
interminabili,/
come una volta, in pace: ma è sorta ("òroren") una guerra
orrenda./ Già molte volte io fui nelle battaglie degli uomini,/
ma non ho mai visto ("all'où pò
òpopa") un esercito simile, così grande!" (II, 796-799). A
questo punto, come
abbiamo già osservato, l'esercito troiano non se ne resta
asserragliato dentro le
mura, come sarebbe nella logica dell'assedio (ma poi, quale
assedio? le milizie
degli Achei non circondavano stabilmente la città e il loro
accampamento era lontano, dalla parte del mare): invece esce
subito dalle porte Scee e va a
prendere posizione nella pianura antistante, davanti alla
collina Batiea.
E, di lì a poco, ha luogo il duello tra Paride e Menelao, la
cui posta è naturalmente
Elena; dal canto suo, costei dall'alto delle mura indica i
principali
capi achei al re Priamo, il quale ha l'aria di non averli mai
visti in precedenza:
"Dimmi il nome di quel guerriero mirabile:/ chi è colui,
quell'eroe acheo fiero
e grande?" (III, 166-167). Sono tutti episodi, duello compreso,
che si inquadrano
perfettamente nelle battute iniziali della guerra, mentre non
paiono
certo riferibili alla sua fine. Così pure l'assemblea
successiva dei troiani, dopo
il primo giorno di combattimenti, non si svolge nell'atmosfera
sin troppo rilassata
della precedente: invece è "terribilmente agitata" ("deiné
tetrechuia",
VII, 346); addirittura Antenore, il quale nella battaglia della
mattinata aveva già visto cadere un figlio (V, 69) - è il primo
di una lunga serie: in seguito, lungo
l'arco del racconto dell'Iliade, ne perderà altri cinque - e si
era reso ben conto
della gravità della situazione, prova invano a proporre la
restituzione di Elena;
a sua volta, Paride si dichiara disponibile a restituire tutti
i beni sottratti a
Menelao (però non la moglie) "e a dare altro del mio" (VII,
364). Insomma, tutto
sembra confermare l'impressione che le ostilità fossero
iniziate allora, non
certo nove anni prima.
Sarebbe quasi pedante continuare con questa enumerazione di
circostanze,
tra cui il fatto che Diomede non avesse mai incontrato Glauco
(Il. VI, 124),
uno dei più eminenti condottieri dell'esercito troiano, o
l'accenno di Agamennone
ai suoi "dodici cavalli gagliardi,/ nati a vincere e che han
già vinto premi"
(Il. IX, 123-124): se questi premi, come sembra ovvio, si
riferivano a gare
precedenti all'inizio del conflitto, dopo tanti anni i "cavalli
gagliardi" sarebbero
stati ormai quasi decrepiti.
In definitiva, tutta una serie di elementi congruenti e
convergenti -tra cui
quello forse più significativo è che le mura di Troia erano
assolutamente inadeguate
a sostenere un lungo assedio - porta a ritenere che le vicende
narrate nell'Iliade siano quelle iniziali del conflitto,
precedute solo da azioni preliminari, come
la presa di Tebe Ciucia, Sciro, Pedaso e Lirnesso, di cui era
stato protagonista
Achille, poi sfociate nella fatale contesa con Agamennone per
la spartizione
del "bottino" (Agamennone gli sottrae Briseide, la prigioniera
di guerra di cui
Achille si era innamorato) e nella sua temporanea astensione
dai combattimenti,
che dà il primo spunto alla narrazione. In seguito la guerra si
sarebbe risolta
in tempi brevi, dopo il ritorno del Pelìde per vendicare
l'amico Patroclo, la morte
di Ettore e il suo funerale (l'episodio con cui si chiude il
poema).
D'altronde, ciò è coerente con quelle che è ragionevole
supporre fossero
le ordinarie azioni di razzìa, in stile "mordi e fuggi" - quale
ad esempio la scaramuccia
tra Pili ed Epei raccontata da Nestore nell'XI libro
dell'Iliade - di
quegli antichi predatori e avventurieri dell'età del bronzo, in
ciò favoriti dalla
rudimentalità delle difese dei centri urbani, ben più scarse
rispetto alle massicce
fortificazioni del mondo mediterraneo. Di azioni dello stesso
tipo l'età vichinga,
anche se molto posteriore, ci dà un'ampia casistica: di solito
si trattava di
attacchi improvvisi da parte di piccole flotte, che ci
ricordano da vicino sia la
"guerra lampo" di Eracle contro i troiani, avvenuta al tempo
del re Laomedonte,
padre di Priamo (Il. V, 640-642), sia le incursioni, invero
meno fortunate,
della flotta di Ulisse sul territorio dei Ciconi (Od. IX, 40-
42) e sul fiume Egitto
(Od. XIV, 258-265).
Riguardo poi allo stratagemma del cavallo, su cui l'Odissea, a
gloria di
Ulisse, si sofferma più volte, l'Iliade lo ignora del tutto: a
parte l'assurdità intrinseca
di un espediente di tal fatta, abbiamo visto che con quelle
mura non ve
ne sarebbe stato proprio bisogno. Invece vi è un singolare
passo del II libro della
stessa Iliade, in cui, in patente contraddizione con quanto
emerge dal resto
del poema, si accenna insistentemente alla lunga durata della
guerra: esso torna
sull'argomento addirittura per tre volte consecutive, ai vv.
134, 295 e 329.
Abbiamo appena definito questo passo "singolare", però sarebbe
più appropriato
classificarlo come "anomalo" per varie ragioni, ma soprattutto
perché racconta un episodio che appare completamente assurdo,
sia per le sue caratteristiche,
sia per il contesto in cui viene calato: infatti, dopo che
Agamennone,
ispirato da un sogno, aveva deciso di marciare all'assalto di
Troia (per inciso,
anche ciò depone a favore di un recente arrivo degli Achei),
egli stesso,
interrompendo a metà un discorso di Nestore, che stava
argomentando sulla
preparazione dell'imminente attacco, all'improvviso, e senza
alcun motivo ragionevole,
ordina ai soldati di tornare a casa (Il. II, 139-140). Nella
bagarre che
a questo punto si scatena tra le file dell'esercito, solo
Ulisse non perde la testa,
ma anzi prende risolutamente in pugno la situazione ed alla
fine riesce a ristabilire
l'ordine. Subito dopo, il discorso di Nestore riprende (II,
362) esattamente
dal punto in cui era stato interrotto (II, 83); ed anche nel
seguito non rimarrà
alcuna traccia di tale strana digressione, totalmente avulsa
dal contesto.
Tutto l'episodio sembra essere un'aggiunta arbitraria al testo
base dell'Iliade: infatti, se lo si espunge, i versi precedenti
e successivi tornano a raccordarsi
tra loro senza soluzione di continuità, trattandosi di un unico
discorso di
Nestore perfettamente coerente con il resto della narrazione,
che invece l'intercalazione
spezza in due tronconi, ben evidenti malgrado i tentativi di
"cucitura"
all'inizio e alla fine. Inoltre esso, a parte le allusioni ai
dieci anni di
guerra, contiene almeno due passaggi "sospetti", cioè
l'attribuzione a Hermes
del ruolo di messaggero degli dèi (II, 103) nell'Iliade la
messaggera di regola è Iris, mentre questa funzione di Hermes è
caratteristica dell'Odissea -- e l'immagine
del drago rosso che divora una nidiata di nove passeri e poi
resta pietrificato
(II, 308-319): una tale dimensione "magica" è normalmente
estranea
all' Iliade, mentre non di rado la ritroviamo proprio
nell'Odissea (per
inciso, il fatto che Iris sia menzionata una quarantina di
volte nell'Iliade e mai nell'Odissea ci sembra un notevole,
anzi notevolissimo, indizio del fatto che i due poemi
non sono opera della stessa "mano").
In forma diversa - ma il concetto è identico - il simbolismo
del drago che
divora gli uccellini, interpretato dal poeta come metafora dei
nove anni consumati
sotto le mura di Troia (II, 326-329), si ritrova in un sogno
profetico, raccontato
da Penelope nell'Odissea: "Venti oche qui in casa mi beccano il
grano/
(...) Piombando dal monte una grande aquila dal becco adunco/ a
tutte
spezzò il collo e le uccise" (Od. XIX, 536-539): nelle venti
oche uccise è trasparente
il riferimento ai venti anni passati in attesa del ritorno del
marito.
Ora, tutti questi rimandi al poema di Ulisse potrebbero non
essere casuali:
infatti l'episodio della fuga dell'esercito, inserito come un
corpo estraneo nel
contesto del racconto ed in patente contraddizione con ciò che
lo precede, in
realtà è volto a far risaltare la figura e l'azione dell'astuto
Itacese in terra troiana,
e a questo punto si spiegherebbe come esso insista, proprio
come fa sistematicamente l'Odissea, sull'interminabile durata
della guerra, allo scopo di
esaltare il ruolo del suo eroe nella conquista della città,
giustificandone nel
contempo i venti anni di assenza da Itaca. Insomma, tali
"coincidenze" fanno
sorgere il dubbio - che giriamo ai filologi per i necessari
approfondimenti che
l'episodio in questione, così contraddittorio rispetto non solo
alla situazione
in cui si trova inserito, ma anche a tutto il contesto
generale, possa essere
stato aggiunto arbitrariamente: in tal caso perderebbero di
valore anche gli
accenni in esso contenuti ad una durata decennale della guerra,
assolutamente
incongruenti con quanto si deduce dal resto del poema.
D'altronde, sempre nell'Iliade troviamo un episodio che viene
considerato
spurio sin dall'antichità e che, guarda caso, tende anch'esso a
glorificare
il personaggio di Ulisse: si tratta della sua incursione
notturna, in compagnia
di Diomede, nel campo troiano, che occupa l'intero libro X. Va
notato che essa
ha in comune con quell'episodio "sospetto" del II libro una
singolare sequenza
di "passaggi di mano", inusitati nel resto dell'Iliade,
relativi rispettivamente
alle vicende dell'elmo di Ulisse (X, 266-271) e dello scettro
di Agamennone
(II, 102-107). Che entrambe le interpolazioni siano opera della
stessa
persona? Anche questa è materia per i filologi.
Notiamo altresì che, analogamente a quanto avevamo già rilevato
per l'episodio
del II libro, il libro X ha in comune con l'Odissea certi
particolari che
non si ritrovano in nessun altro punto dell'Iliade, quali ad
esempio i versi: "Entrati
nelle lucide vasche, fecero il bagno" (Il. X, 576; Od. IV, 48;
lo stesso concetto
si ritrova in Od. VIII, 456) e "Mentre parlava ancora, la testa
rotolò nella
polvere" (Il. X, 457; Od. XXII, 329), nonché un attacco di
verso: "Non aveva
ancora finito di parlare che..." (Il. X, 540; Od. XVI, 11 ; Od.
XVI, 351).
Ma ancora più interessanti sono tre versi, anch'essi comuni
soltanto al libro X dell'Iliade e all'Odissea, contenenti la
descrizione della dedica alla dea
Atena di una giovenca sacrificale con le corna adornate d'oro:
"A te offrirò una giovenca dalla larga fronte, d'un anno,/ non
doma, che uomo mai sotto il
giogo abbia spinto:/te ne farò sacrificio, rivestite d'oro le
corna" ("chrysòn keräsin
pericheùas"; Il. X, 292-294; Od. III, 382-384). Sul punto delle
corna dorate l'Odissea ritorna con insistenza anche nei versi
successivi (III, 426; 432-438),
dal che si potrebbe arguire che sia stata quest'ultima la fonte
del libro X
dell' Iliade e non viceversa. Notiamo poi che questo passo è
importante non soltanto
per la sua singolarità nell'ambito dei due poemi, ma anche
perché trova
un preciso riscontro nella letteratura norrena, e precisamente
in un carme dell'Edda: "Quieti qui vagano per i campi, con
corna d'oro,! i buoi dal pelo nero,
delizia del gigante" {Thrymskvidha, 89-90); su tali versi, il
Mastrelli annota
che "anche in altre fonti nordiche si legge di vacche e buoi
dalle corna dorate
('gull-bryndhar')"102.

102 L'Edda, carmi norreni, pag. 372, nota 89 154

Siamo insomma di fronte all'ennesimo caso di convergenza


- e per di più su un dettaglio assai particolare, come la
doratura delle
corna dei bovini -tra il mondo omerico e la mitologia nordica.
Tornando al libro X, che dà al personaggio di Ulisse un risalto
tutto particolare
- e che, a differenza dal resto dell'Iliade, lo caratterizza
come un arciere
(Il. X, 260), esattamente come fa l'Odissea - le considerazioni
fin qui
svolte sembrano a questo punto accreditare il sospetto che la
versione dell'Iliade giunta fino a noi possa essere stata
interpolata in tempi remoti (forse dallo
stesso poeta dell'Odissea!) con l'aggiunta di episodi volti ad
esaltare la figura
dell'Itacese. Pensiamo ad esempio ad una "stranezza" rilevata
nel libro IX dell'Iliade, e precisamente nell'episodio
dell'ambasceria inviata da Agamennone
ad Achille per convincerlo a tornare a combattere, composta da
tre eroi,
Ulisse, Aiace e Fenice (quest'ultimo era il vecchio precettore
di Achille), accompagnati
da due araldi, Odio ed Euribate: nel descrivere la loro
passeggiata
in riva al mare fino alla tenda di Achille e l'accoglienza da
parte di quest'ultimo,
il poeta non usa la normale forma plurale, bensì il "duale"
(una modalità,
inesistente in italiano, che nella lingua greca serve ad
indicare due persone
o cose): "Mossero i due ("tò bàten") lungo la riva del mare
urlante..." (Il.
IX, 182). Tale forma - che ritroviamo identica in un episodio
dell' Odissea (XVII, 200), dove "i due" sono Ulisse e il
porcaro Eumeo, diretti dall'abitazione
di quest'ultimo verso la reggia - viene ripetuta più volte
anche nei versi
immediatamente successivi; eppure, in questo caso si riferisce
non a due, ma
a ben cinque persone.
Sarebbe pertanto ragionevole supporre che in una precedente
versione
del poema i membri dell'ambasceria fossero effettivamente due,
e forse
non è difficile individuarli: dovevano essere Fenice, amico
personale di Achille, e
un araldo, incaricato di conferire un crisma di ufficialità
alla missione; successivamente,
un altro poeta avrebbe aggiunto il solito Ulisse (a cui infatti
nel
colloquio con Achille viene fatto svolgere un ruolo importante)
insieme con
Aiace, il quale, anche se nell'occasione gioca una parte
secondaria, con la sua
reputazione eleva il tono dell'ambasceria ai massimi livelli
(mentre Fenice è un
personaggio di secondo piano). E l'altro araldo? Non a caso è
Euribate, un itacese
sodale di Ulisse (Il. II, 184; Od. XIX, 247). Insomma, in
questa operazione
di "abbellimento" del personaggio, il nostro Ulisse, re di una
piccola isola e comandante
di appena dodici navi, viene sempre messo in evidenza con gli
eroi
più importanti: Achille, Agamennone, Diomede, Aiace...
A sostegno delle considerazioni precedenti sta anche il fatto
che nel l' Odissea il nome di Ulisse viene di frequente
accompagnato da un particolare
aggettivo, "distruttore di città" ("ptolìporthos"; Od. VIII, 3;
IX, 504; XIV, 447;
XVI, 442 ecc.), che evidentemente allude al ruolo attribuitogli
in quel poema
in ordine alla distruzione di Troia: invece l'Iliade - che
normalmente dà tale
epiteto a personaggi come Achille (Il. XV, 77; XXIV, 108), il
quale effettivamente
aveva espugnato alcuni borghi di alleati dei Troiani, o Enio
(Il. V, 333),
dea guerriera di cui è evidente la funzione di "distruttrice di
città" - non lo riferisce
mai ad Ulisse, tranne che, guarda caso, proprio in quel passo
"sospetto"
del secondo libro (Il. II, 278) nonché nel solito libro X (v.
363).
Per inciso, premesso che in Omero l'uso di accompagnare i nomi
dei personaggi
principali con epiteti tipici di ciascuno è frequentissimo - ad
esempio,
Menelao viene sistematicamente chiamato "biondo" ("xanthòs"),
"potente nel
grido" ("boèn agathòs"), "caro ad Ares" ("areìphilos"),
"battagliero" ("aréi'os"),
"figlio di Zeus" ("diotrephés") e così via - segnaliamo che uno
studio sistematico
delle frequenze con cui tali aggettivi compaiono nei vari passi
potrebbe
in taluni casi rivelarsi di rilevante interesse, in particolare
ai fini di una miglior
comprensione della genesi dei due poemi. Restando al caso di
Menelao,
il termine "areìphilos" viene usato continuamente nell'episodio
del suo duello
con Paride (dove ne accompagna il nome in ben 12 occasioni,
cioè quasi nel
50% dei casi in cui esso è menzionato) mentre in tutto il resto
del poema appare
soltanto 6 volte (appena il 5%): sembrerebbe insomma lecito
sospettare
che a tale episodio possa aver lavorato una "mano" diversa. E
nell'Odissea? Qui il nome di Menelao compare più di 50 volte,
ma vi è una sola occasione
in cui è accompagnato da "areìphilos" (Od. XV, 169); invece si
ritrova più volte
un intero verso carico di epiteti: "Menelao Atride, figlio di
Zeus, capo di
schiere" (Od. IV, 156; 291; 316; XV, 64; 87), che nell'Iliade
non ha alcun riscontro.
Notiamo ancora che, mentre nei due poemi i nomi dei personaggi
principali
sono accompagnati da uno o più epiteti mediamente nell'80% dei
casi,
nel
XXIV libro dell''Iliade tale frequenza scende in modo sospetto,
attestandosiattorno al 50%: ciò sembra confermare i dubbi degli
antichi sulla sua autenticità.
Ma adesso è opportuno lasciare questo argomento agli
specialisti - che potranno
allargarlo ad altri personaggi o ad altri episodi, per poi
trarne le eventuali
conclusioni - perché ci sta portando troppo al di fuori
dall'ambito della nostra
ricerca.
Tornando ancora alla durata della guerra di Troia, è proprio
l'Odissea a
fornirci un ulteriore indizio a sostegno dell'ipotesi che essa
dovette svolgersi
in un tempo limitato: vi si racconta infatti che Egisto, dopo
aver sedotto Clitennestra
approfittando dell'assenza di Agamennone, fece appostare una
spìa
che lo avvertisse tempestivamente del ritorno del rivale:
"Quello vigilò per un
anno,! che non gli sfuggisse venendo (...)/ (e, vistolo
arrivare,) mosse dunque
al palazzo, per dirlo al pastore di schiere" (Od. IV, 526-528).
Un anno: ecco la
conferma dell'effettiva durata del conflitto, quale si evince
dalla miriade di indizi
che abbiamo esaminato.
E adesso, alla luce del quadro geografico che si è andato via
via delineando,
possiamo tentare di effettuare una ricostruzione coerente di
quelle vicende,
sulla base di quanto ci hanno tramandato i poemi omerici
(soprattutto l'Ilìade, che forse più dell'altro dà l'idea di
essere basata su fatti realmente accaduti): dopo
il ratto di Elena ad opera di Paride, certamente avvenuto
durante la stagione
della navigazione, Agamennone e Menelao si adoperarono per
cercare alleati tra
le popolazioni achee e diedero loro appuntamento ad Aulide, il
punto di raduno
più naturale per salpare alla volta di Troia; dopo la partenza,
presumibilmente
avvenuta all'inizio della stagione successiva, fecero uno scalo
intermedio
a Lemno, situata lungo la rotta, indi raggiunsero la Troade -
dove nel frattempo
stavano affluendo gli alleati dei troiani - e, in attesa
dell'arrivo di tutti i
contingenti previsti, saccheggiarono inizialmente alcune
roccheforti nella zona
dell'Ida, alle spalle della città. Successivamente (e qui
inizia il racconto dell'Iliade), malgrado l'insorgere di
conflitti interni dovuti all'eterogeneità della coalizione
- ma anche tra i loro avversari dovevano sussistere problemi
analoghi,
come risulta da svariati accenni del poema - decisero di
attaccare direttamente
Troia e in breve tempo, dopo una serie di sanguinosissime
battaglie campali (di
cui le prime, quelle narrate nell'Iliade, ebbero luogo nel mese
di giugno, allorché
il fenomeno delle notti bianche consente la prosecuzione
notturna dei combattimenti
e il disgelo provoca l'esondazione dei corsi d'acqua) e di
ripetuti assalti
frontali alle mura della città riuscirono, sia pure a prezzo di
gravi perdite,
ad espugnarla e distruggerla (riguardo alle allusioni del poeta
alla litigiosità interna
dei due pletorici schieramenti, esse non fanno che accrescere
il senso di
veridicità di tutta la vicenda e, nel contempo, indirettamente
costituiscono un altro
argomento a favore della breve durata della guerra).
A questo punto, già forse incombeva la stagione autunnale e a
quelle latitudini,
con l'"optimum climatico" in declino, il tempo doveva essere
ormai
inclemente e sempre più rischioso per la navigazione: però
l'ansia di tornare a
casa spingeva i vincitori a prendere comunque il mare e così,
come racconta in
dettaglio Nestore nel III libro dell'Odissea, pur tra molte
comprensibili esitazioni
e tentennamenti ripartirono subito, diretti in patria; ecco
dunque la ragione
delle difficoltà di molti ritorni, caratterizzati da avversità
di vario genere, su cui
il poema si sofferma particolarmente in quel libro e nel
successivo: mare cattivo,
deviazioni di rotta causate da improvvisi colpi di vento (come
quelle capitate
a Ulisse, Menelao e Agamennone) e, in certi casi, anche
naufragi (Aiace
Oileo, parte della flotta di Menelao), tutti appunto spiegabili
con la stagione
ormai troppo avanzata per la navigazione nel Baltico.
Questa ricostruzione - beninteso, puramente congetturale -
rende altresì conto dell'anno di attesa della spia di Egisto:
infatti costui, dopo la partenza di
Agamennone, presumibilmente non avrà dovuto impiegare più di
tanto, date le
note inclinazioni delle figlie di Tindaro, a far capitolare la
non troppo riluttante
Clitennestra (la quale oltretutto, a quel che ci racconta la
mitologia, doveva
avere più di un buon motivo per odiare il marito).
Un tentativo di razionalizzazione spregiudicata, ovviamente
sempre a livello
di congettura, a questo punto si può tentare anche per
l'Odissea, malgrado sia
fortemente intrisa di elementi mitici e romanzeschi, e ciò
naturalmente partendo dal presupposto che anch'essa possa aver
tratto spunto da qualche evento realmente
accaduto (e che la guerra di Troia si sia consumata in tempi
brevi). Il giovane
Telemaco, alla vigilia delle seconde nozze della madre - che
potrebbero costargli
regno e ricchezze: il géras paterno resterà suo soltanto a
condizione che Penelope
non si risposi (Od. XI, 174-175; 184-186)-decide di andare in
cerca di aiuto
presso i vecchi amici del padre, il quale, partito per la
guerra venti anni prima,
non è più tornato ad Itaca; a questa sua comprensibile
intenzione di farsi "dare una
mano" vi è nell'Odissea un esplicito riferimento, nelle
preoccupate parole dei
pretendenti: "Ahi, ahi! Telemaco vuol macchinarci la morte./
Certo si porterà difensori
dal Pilo sabbioso/ oppure da Sparta" (Od. II, 325-327).
D'altronde poco
prima lui stesso li aveva pesantemente minacciati: "Volesse
Zeus che vi tocchi il
ricambio:/ allora senza vendetta voi nella sala morrete!" (II,
144-145). Telemaco
torna dal viaggio con "qualcuno" che può dargli man forte (la
contemporaneità del
ritorno ad Itaca del figlio e del "padre", fulcro della
sequenza degli avvenimenti
del poema, in questo senso è fortemente sospetta) e insieme
stabiliscono la loro
base operativa nella capanna del fido porcaro Eumeo,
opportunamente situata
fuori mano rispetto al centro abitato; riescono così ad
organizzare la strage e a
sventare in extremis il matrimonio di Penelope. A cose fatte,
chi aveva dato aiuto
allo spregiudicato giovane, cioè il "falso Ulisse" - che in
effetti appare irriconoscibile
a tutti - naturalmente va via: così si spiegherebbe anche la
stranezza, anzi
l'assurdità, della repentina partenza dell'eroe, dopo vent'anni
di assenza, in cerca
di un fantomatico popolo ignaro del mare e della navigazione.
Successivamente Telemaco, o un suo discendente, potrebbe aver
commissionato
a un aedo della sua corte (pensiamo alla precisione dei
dettagli
morfologici di Lyø) un poema che, oltre a glorificare
l'illustre antenato, fornisse
una versione "addomesticata" dei fatti di Itaca: il poeta
avrebbe così attribuito
al suo personaggio il merito della caduta di Troia e
dell'uccisione dei
pretendenti - solo Ulisse, non certo il figlio, poteva essere
l'unico ad avere
moralmente qualche titolo a compiere un massacro di tanti
uomini disarmati,
che oltretutto penalizzava gli interessi di Penelope (la quale
infatti fu tenuta all'oscuro
di tutto fino all'ultimo) - giustificandone nel contempo sia la
bizzarra
sparizione dopo la strage, sia i venti anni di assenza,
equamente distribuiti
fra l'interminabile, nonché improbabile, assedio e le ancor più
improbabili peripezie
del ritorno: queste a loro volta hanno richiesto la costruzione
di una serie
di mirabolanti avventure, in bilico tra leggende di marinai e
rotte reali dell'epoca,
accuratamente scelte fra quelle più lontane dal mondo di Itaca
(e forse
riprese da qualche composizione precedente, magari di origine
feacia). Né possiamo escludere che il poeta possa essersi
ispirato anche a qualcuna di quelle
credenze popolari, tanto dure a morire, sul mito del Grande
Capo scomparso
che non può esser morto ma prima o poi ritornerà: pensiamo ad
Artù o al
Barbarossa, ma si potrebbero portare esempi di "leggende
metropolitane" apparse
in epoche assai più recenti. Quanto poi alla povera Penelope,
che avrebbe
visto la festa del suo secondo matrimonio trasformata dal
figlio in un'orrenda
carneficina, le sarebbe rimasta la magra consolazione di
passare alla storia
come il prototipo della moglie perfetta...
E Telemaco? Da questa ricostruzione, sia pure congetturale,
emerge una
personalità fortemente caratterizzata in senso "amletico": il
giovane principe
orfano, intorno a cui in certo senso aleggia il fantasma di un
padre importante,
la difficile situazione familiare, l'ospite che gli ricorda
"non devi fare il bambino,
che non hai tale età" (Od. I, 297), il viaggio lontano da casa,
il rischio di essere
ucciso per motivi dinastici, ma soprattutto il disegno di
vendetta e di morte
così tenacemente perseguito, tutto insomma sembra ricordare
l'Amleto di
Saxo, a cui oltretutto viene attribuito (Gesta Danorum III, VI,
24) uno spietato
massacro al termine di un banchetto nella reggia. Il reale
tratto distintivo di entrambi
questi personaggi più che l'incertezza è l'ambiguità, unita
alla fortissima
determinazione di raggiungere l'obiettivo ad ogni costo. Al
riguardo, segnaliamo
ancora una singolare circostanza: la forma adottata da
Shakespeare per
il nome di Amleto, "Hamlet" (differente da quella riportata da
Saxo, "Amlethus",
vicina al norreno "Amlòdhi") corrisponde quasi esattamente alla
radice
di "Telemaco" letta a rovescio (è d'altronde ben nota
l'inclinazione del grande
drammaturgo inglese per le allusioni dotte, i sottintesi e i
giochi di parole).
Riguardo poi al "vero" Ulisse, quello che partecipò alla
guerra, vi sono degli
indizi che sembrano alludere ad una sua morte in combattimento
sotto le
mura di Troia, successiva alle vicende cantate nell'Iliade;
ecco, ad esempio,
una sua affermazione che sa quasi di "epitaffio": "A noi (...)
Zeus donò/ che di
giovinezza a vecchiaia dipanassimo il filo/ d'aspre guerre,
finché a uno a uno
moriamo]" ("òphra phthiòmestha hékastos"; Il. XIV, 85-87). Vi
fa riscontro
una dichiarazione, alquanto "sospetta", che gli viene
attribuita dal poeta dell'Odissea: "Così anch'io fossi morto,
avessi seguito il destino ("pòtmon epispeìn")/
il giorno che in folla le lance di bronzo/ mi scagliavano i
Teucri intorno
al morto Pelide;/ avrei avuto sepoltura e la mia gloria gli
Achei vanterebbero"
(Od. V, 308-311); quest'ultimo verso a sua volta sembra far
riferimento ad
un'altra affermazione che l'Iliade gli attribuisce: "Quand'io
muoia, mi seppelliranno
i gloriosi Achei" ("kterioùsi dìoi Achaioì"; Il. XI, 455), la
quale ha
tutta l'aria di essere uno di quei presagi, non infrequenti
nell'epica omerica, che
normalmente anticipano l'ineluttabile destino degli eroi.
Tornando adesso all'Iliade, e restando sempre nel campo delle
congetture,
osserviamo che fin dall'antichità l'ultimo libro, il XXIV, è
stato considerato
spurio: pertanto nella sua versione primitiva il poema forse
aveva un finale
diverso da quello giunto fino a noi (che termina con i funerali
di Ettore, lasciando
in sospeso la sorte di Achille, anche se preannunciata più
volte, e la
conclusione della guerra).
In particolare, l'Iliade mette bene in chiaro che la morte di
Achille è strettamente
legata, anche temporalmente, a quella di Ettore: "Subito dopo
Ettore ("autìka épeita meth'Héktora") il tuo destino è segnato"
(Il. XVIII, 96); invece
il testo a noi pervenuto comincia a divergere da tale schema a
partire dal momento
in cui, una volta ucciso Ettore, Achille, dopo aver giustamente
pensato
di effettuare una ricognizione attorno alle mura di Troia per
saggiare le intenzioni
dei nemici dopo la morte del loro capo, cambia improvvisamente
idea (Il.
XXII, 385) e decide di tornare alle navi per rendere gli onori
funebri a Patroclo
(che occupano tutto il libro XXIII). Da questo punto in poi, la
guerra rimane
sullo sfondo, anzi viene quasi del tutto dimenticata, il ritmo
dell'azione, fino
allora molto serrato, improvvisamente rallenta e il lettore
comincia a percepire
un'atmosfera completamente diversa (a nostra sensazione, più
vicina a quella dell'Odissea che al resto dell'Iliade);
inoltre, ripetiamo, la critica ha sempre
avuto forti dubbi sull'autenticità del libro XXIV. Insomma la
conclusione dell'attuale Iliade praticamente lascia tutto
incompiuto: essa in realtà appare funzionale all'Odissea,
perché consente a quest'ultima di attribuire ad Ulisse e
alla sua trovata del cavallo di legno l'esclusivo merito della
caduta di Troia.
In attesa che qualche fortunata scoperta - peraltro assai
improbabile - di tavolette
micenee in futuro possa darci qualche lume al riguardo,
possiamo intanto
legittimamente supporre che, almeno nelle intenzioni del poeta,
tutte le anticipazioni
e le profezie sparse per gli altri libri alla fine dovessero
trovare il loro logico
compimento: pertanto subito dopo la morte di Ettore
sarebbe caduto anche Achille, per mano di Paride (Il. XXII,
359-360), forse nel corso di un attacco frontale
successivo alla ricognizione attorno alle mura; sul suo corpo
si sarebbe scatenata
una violentissima battaglia (in cui forse morì lo stesso
Ulisse, come abbiamo
appena visto) e, successivamente, una volta recuperato il
cadavere gli Achei
gli avrebbero apprestato un sontuoso funerale (sono avvenimenti
narrati nell'ultimo
libro dell'Odissea); indi sarebbe iniziata Inoffensiva
continua", profetizzata
da Zeus (Il. XV, 69), contro la città: infatti i Troiani, una
volta perduto il loro
uomo più rappresentativo, avranno certamente rinunciato a fare
delle sortite e si
saranno asserragliati, per un'estrema disperata difesa, dentro
quelle mura pur così
poco affidabili (e magari anche gli alleati, vista la mala
parata, avranno cominciato
ad abbandonarli); nel frattempo sarebbe arrivato da Lemno
l'eroe Filottete,
finalmente guarito (II, 724-725); infine, dopo un ultimo
assalto, Troia sarebbe
stata espugnata (XV, 70-71 ), saccheggiata e incendiata (XXI,
375-376), gli uomini
passati a fil di spada e le donne prese prigioniere, trascinate
alle navi e fatte schiave
(VI, 452-455). Invece coloro che in qualche modo riuscirono a
trovare scampo
con la fuga, magari rifugiandosi tra le impervie balze
dell'Ida, dopo la partenza
degli Achei tornarono e ricostruirono la città, che poi rifiorì
sotto la signorìa di
Enea e, successivamente, dei suoi discendenti (XX, 307-308).
Possiamo anche supporre che, dopo la morte di Ettore, a
subentrargli al
comando sia stato suo fratello Paride: lo deduciamo dalla
gerarchia dell'esercito
troiano e dei suoi alleati, riportata in dettaglio in un passo
dell'Iliade (XII,
87-102): esso era articolato in cinque squadre, di cui la prima
era guidata da Ettore
e la seconda da Paride. Un'altra possibilità è che a succedere
ad Ettore sia
stato Polidamante, il suo vice nella prima squadra, uomo che si
distingueva
per equilibrio e doti strategiche (molto superiori a quelle del
suo capo, come
Omero più volte impietosamente sottolinea): la riteniamo
tuttavia meno probabile,
non essendo costui figlio di Priamo.
Con l'occasione segnaliamo anche un possibile indizio del fatto
che una
primitiva versione dell'Iliade forse continuava oltre il punto
dove si arresta
quella attuale. Ci riferiamo a due profezie parallele,
rispettivamente su Achille
e Filottete, allorché il poeta li presenta nella rassegna del
Catalogo delle navi:
- riguardo ad Achille, che si rifiutava di combattere
dopo che Agamennone gli
aveva sottratto Briseide, Omero dice che "per lei egli giaceva
soffrendo, ma
presto doveva levarsi" ("tès ho gè keìt'achéon, tàcha d'
anstésesthai émellen";
Il. II, 694);
- riguardo a Filottete, lasciato a Lemno dopo che era
stato morso da un serpente,
"là egli giaceva soffrendo, ma presto dovevano ricordarsi" (di
lui gli
Achei...) ("énth'hó gè keìt'achéon, tàcha de mnésesthai
émellon", Il. II, 724;
qui per dare un senso compiuto alla seconda parte della frase
abbiamo aggiunto
fra parentesi il soggetto, cioè "gli Achei", che nel testo
greco si trova
nel verso successivo).
Osserviamo che la struttura di questi due versi è
sostanzialmente identica:
cambiano solo "tès" ("per lei") in "énth"' ("là") e
"anstésesthai" ("levarsi")
in "mnésesfhai" ("ricordarsi"), oltre ovviamente a "émellen"
("doveva") diventato
"émellon" ("dovevano"). Si tratta di due anticipazioni di
eventi paralleli,
entrambi destinati a compiersi successivamente, ossia il
ritorno dei due eroi
sul campo di battaglia dopo le angustie, causate da motivi
diversi, che al momento
li stavano affliggendo. Ora, poiché il primo di tali eventi,
cioè il ritorno
di Achille, in effetti viene narrato nel prosieguo dell'Iliade,
ne possiamo ragionevolmente
inferire che in una versione originaria del poema vi fosse
spazio
anche per il secondo, ossia il ritorno di Filottete, di cui nel
testo attuale
non vi è più alcuna traccia - ad eccezione, ovviamente, di
questa profezia - ma
che, secondo gli antichi mitografi, sarebbe avvenuto dopo la
morte dello stesso
Achille e, anzi, avrebbe propiziato la caduta di Troia.
Naturalmente, queste sono soltanto congetture, oltretutto non
direttamente
legate allatesi proposta nel presente studio (anche se le
considerazioni ad esse
connesse comunque evidenziano la distanza fra la cultura che ha
prodotto i
due poemi ed il mondo, molto posteriore, degli antichi Greci).
Ci resta ancora
da dire che, a parte la bellezza intrinseca della poesia di
Omero (è chiaro che
con tale espressione, qui come altrove, vogliamo semplicemente
intendere l'insieme
dei due poemi, prescindendo dalle personalità, molto ben
distinte, dei loro
autori) forse è stato anche l'alone di leggenda, legato agli
aspetti più "romanzeschi"
della narrazione, quali i dieci anni di assedio e lo
stratagemma del
cavallo, a conferire nei secoli una particolare attrattiva alla
guerra di Troia,
magari anche accresciuta dalla difficoltà di rintracciare i
luoghi dove erano
state ambientate quelle antiche vicende; lo stesso vale anche
per il mito dell'invulnerabilità
di Achille, che invece, secondo il poeta dell'Iliade (assai
meno
incline ai voli di fantasia rispetto al suo "collega"), è
soltanto una forma di
vanità: "D'esser tutto di bronzo si gloria" (Il. XX, 102);
infatti il prode Asteropeo,
in un duello sulla riva dello Scamandro, riuscirà a ferirlo,
sia pure leggermente:
"Sfiorò il gomito e sgraffiò il braccio destro,/ il sangue nero
spicciò"
(XXI, 166-167).
Invece, le considerazioni sin qui svolte potranno indurre i
lettori dei poemi
omerici a scoprirne una dimensione inedita, legata al fascino
sottile, e forse
ancor più prelibato e intrigante, che nasce dalla percezione
della loro aderenza
alla realtà di un mondo scomparso da millenni, da sempre
relegato nelle
nebbie del mito e di cui non esistono altre testimonianze
letterarie.
Quanto alla leggendaria inespugnabilità delle mura di Troia, si
potrebbe
forse supporre che a una tale credenza possa aver contribuito,
in epoca micenea,
anche l'imponenza delle fortificazioni della città che,
millenni dopo, sarebbe
stata ritrovata da Schliemann sullo Stretto dei Dardanelli:
essa infatti
rappresenta l'"analogo geografico" nel Mediterraneo della città
cantata da Omero, ed è probabile che proprio i Micenei, dopo
averla ribattezzata con quel
nome, a un certo punto, sfumata con il passare dei secoli la
memoria storica dello
spostamento dei loro avi dal Baltico, abbiano finito per
identificarla con il
suo "prototipo" nordico, esattamente come si sarebbe poi
verificato per le altre
località (pensiamo a Micene, Tirinto, Atene, Tebe, Creta...) da
essi chiamate
con gli stessi nomi della patria originaria. Successivamente,
con il tracollo
del mondo miceneo ad opera dei Dori, verificatosi attorno al
XII secolo a.C,
il ricordo della migrazione dal nord (che era avvenuta quasi
500 anni prima, più o meno la stessa distanza temporale che ci
separa dalla scoperta dell'America)
finì per perdersi definitivamente; invece le schegge degli
antichi racconti, risalenti
al remoto passato scandinavo e sopravvissute ai secoli bui del
"medioevo
ellenico" susseguente all'invasione dorica, sono rimaste
cristallizzate
nella dimensione del mito, al di fuori dello spazio e del
tempo.
Per quanto riguarda specificamente la nostra ricerca, dalle
considerazioni
precedenti consegue che gli archeologi non dovranno aspettarsi
di trovare sul
sito di Toija-Kisko i resti di mura ciclopiche, bensì qualcosa
di molto più "leggero",
adeguato a una dimensione, qual è quella che emerge dai due
poemi, più semplice ed arcaica di quella della civiltà micenea,
in accordo con gli attuali
orientamenti degli studiosi.

Potremmo infine tentare di fare qualche considerazione sulla


sorte di
Troia dopo la guerra. Abbiamo già visto che, secondo l'Iliade,
Enea sopravvisse
al conflitto (XX, 337-339), successe a Priamo sul trono di
Troia (XX,
307) e poi i suoi discendenti continuarono la dinastia (XX,
308). Sugli eventi
ancora successivi, Omero ovviamente tace, ma la mitologia
nordica sembra in
grado di dirci qualcosa. Vi troviamo infatti svariati accenni
al fatto che Odino,
il dio nordico capo degli "Asi", era un re venuto dall'Asia103;
in particolare, un
passo dell'Edda di Snorri afferma che la sede degli dèi nordici
"è chiamata
Asgardh, ma noi la chiamiamo Troia ; è qui che si parla
dell'origine
dell'umanità da un frassino, tema che si ritrova in Esiodo).
Inoltre, fra
poco vedremo che l'Edda dì Snorri identifica la sede del dio
nordico Thor, conosciuta
come "Thrudhheimr", con la Tracia, e che d'altro canto la
Tracia omerica,
seguendo le indicazioni geografiche dell'Iliade, si estendeva
lungo il versante
svedese del Golfo di Botnia. D'altronde un'eventuale continuità
fra il
mondo omerico e quello nordico, a dispetto dell'abisso
temporale che li separa,
alla luce della presente teoria non dovrebbe essere affatto
sorprendente.

103
Chiesa Isnardi, Imiti nordici, pag. 197 e pag. 248.

Esaminiamo anzitutto quel nome "Asia" che all'inizio indicava


una regione
della Lidia, in Anatolia, e successivamente si è esteso
all'intero continente.
Esso viene menzionato da Omero: "Nelprato d'Asia ("Asìoi en
leimoni"),
sulle correnti del Caistro" (Il. II, 461). In tempi storici il
Caistro era un
fiume dell'Asia Minore, che ha presumibilmente preso il nome
dal prototipo
nordico menzionato in questo verso. Analogamente, possiamo
supporre che
anche il nome "Asia" sia stato trasposto con lo stesso
meccanismo. Osserviamo
anche che la Lidia anatolica era contigua alla Troade e,
d'altra parte, singolari
tracce del mitico Tantalo, re di Lidia, si ritrovano nella
toponomastica
della Finlandia meridionale, non lontano dall'area di Toija.
D'altronde la località
finlandese di "Luvia", a 100 km da Turku, ricorda i "Luvi",
un'antica popolazione
dell'Asia Minore.
In una parola, è ragionevole supporre che, nella prima età del
bronzo, col
nome di Asia le popolazioni nordiche designassero una zona ben
precisa della
Finlandia meridionale, estesa attorno al fiume Caistro e non
lontana dalla
Troia omerica, che poi venne identificata con un'area
dell'Anatolia dopo la
migrazione degli Achei. Ciò è coerente col fatto che
nell'Iliade vengono menzionati
due personaggi dal nome "Asio", entrambi legati a Troia: uno
era a capo
di un contingente di alleati dei Troiani (Il. II, 838), l'altro
era addirittura "lo
zio materno di Ettore,/ fratello di Ecuba" (XVI, 718-719).
Ora - premesso che nell'Iliade non mancano gli accenni a un
dissidio, per
ragioni di sovranità, fra Enea e Priamo (XX, 180-183),
discendenti da due diversi
rami di una nobilissima famiglia, comprendente tutti i re di
Troia, il cui
capostipite era lo stesso Zeus (XX, 215-240) - si potrebbe
ipotizzare che, alcune
generazioni dopo la guerra, che aveva segnato il passaggio del
potere regale
dalla linea di Priamo a quella di Enea (XX, 306-308), sia
scoppiato un conflitto
dinastico al termine del quale gli "Asi" di Odino, discendenti
di Ecuba
(sorella di Asio) avrebbero detronizzato i discendenti di Enea
(i "Vani", nemici
degli Asi, il cui nome potrebbe richiamare Enea, con la
consueta perdita della V iniziale), e ristabilito la loro
sovranità sull'Aeningia. Notiamo che tra i
"Vani" un personaggio di spicco era Freyja, la dea dell'amore,
la quale sia per
la funzione che per il nome si potrebbe accostare ad Afrodite,
la madre di Enea.
Pertanto Odino potrebbe essere stato un re troiano, la cui
figura sarebbe
stata successivamente deificata, vissuto qualche generazione
dopo la guerra
con gli Achei. È invece da escludere che fosse di epoca
precedente, in quanto
il passo menzionato poco fa (Il. XX, 215-240) enumera tutti i
re di Troia a partire
dalla sua fondazione, avvenuta sei generazioni prima della
guerra stessa.
Per inciso, su questa base si potrebbe anche tentare di
spiegare l'origine della
strana anomalia che contraddistingueva il suo mitico cavallo
Sleipnir, dotato di
otto zampe: considerando che durante l'età del bronzo i
guerrieri non andavano a
cavallo ma si servivano del cocchio, essa potrebbe forse
derivare da qualche antica
rappresentazione di Odino sul suo carro, tirato da due cavalli
visti di profilo.
Potrebbe essere altresì significativo il fatto che nella
Volospà, il primo carme dell'Edda, la sede degli Asi è chiamata
"Idhavoll": "Gli Asi convennero
in Idhavoll,/ e costruirono alti templi e sacrari" (Volospà,
27-28). "Idhavoll"
significa "il campo di Idha", che ci rimanda all'Ida, la
regione di Troia (che oltretutto
era particolarmente legata alla dea Afrodite): ciò potrebbe
confermare
gli accenni degli scaldi norreni all'origine troiana di Odino.
Non meno interessante è il fatto che Odino e i suoi Asi
tornarono in quel luogo dopo il Ragnarok,
il terribile "crepuscolo degli dèi" della mitologia nordica:
"Si ritrovano
gli Asi in Idhavoll e parlano del potente serpe del mondo"
(Volospà, 239240).
Pertanto il Ragnarok, ossia un repentino tracollo della
temperatura accompagnato
da terrificanti fenomeni atmosferici, avrebbe avuto luogo
durante
il regno di Odino, alcune generazioni dopo la guerra di Troia;
potrebbe essere
stato proprio questo l'evento che spinse gli Achei ad
abbandonare la Scandinavia
e a migrare verso il Mediterraneo, dove si stanziarono attorno
all'inizio
del XVI secolo a.C.
Ora, proprio in quell'epoca si è effettivamente verificato un
evento catastrofico:
ci riferiamo all'esplosione del vulcano di Thera (Santorino),
avvenuta
verso il 1630 a.C, che forse fu all'origine del collasso della
civiltà minoica
cretese e probabilmente ebbe gravi ripercussioni climatiche in
tutto il
mondo (ne riportano le tracce anche gli anelli di accrescimento
annuali di antichi
alberi americani). L'immensa quantità di materiali che si
sparse nell'atmosfera
dovette da un lato innescare spettacolari fenomeni atmosferici,
che
terrorizzarono i popoli di allora e rimasero impressi nella
loro memoria collettiva,
dall'altro intercettò per un certo periodo parte delle
radiazioni solari,
provocando un brusco raffreddamento del clima. Considerando che
l'"optimum
climatico" aveva cominciato a declinare qualche secolo prima,
allorché la tiepida fase atlantica dell'Olocene aveva ceduto il
passo al più rigido periodo
subboreale, l'esplosione di Thera probabilmente innescò, o
accelerò, il
tracollo finale del clima: pertanto l'abbassamento dì
temperatura che seguì all'eruzione dovette spingere vari
popoli, tra cui gli Achei, ad abbandonare la
loro patria ed a cercare terre più ospitali, dove continuarono
il culto delle divinità
tradizionali. Invece coloro che rimasero nell'area scandinava
pian piano
sostituirono i loro antichi dèi (già in declino nella stessa
Iliade, che li mette
letteralmente in ridicolo nella grottesca battaglia narrata nel
libro XXI) con
nuove figure, forse importate dai popoli che successivamente si
stanziarono
in quei luoghi.
Col tempo Odino, un re eminente all'epoca della catastrofe, fu
deificato
e successivamente quegli avvenimenti ormai lontani vennero
avvolti in un alone
di leggenda e forse furono mescolati con miti risalenti alla
primitiva eredità indoeuropea ed al retaggio della cultura
achea: pensiamo ai suoi rapporti con
le figure di Ulisse e della stessa Atena (non va dimenticato
che la letteratura
nordica, come è stata tramandata fino a noi, risale ad
almeno 2500 anni dopo il disastro di Thera). D'altronde le otto
zampe di Sleipnir, ultimo vestigio dell'epoca
in cui i guerrieri combattevano su un cocchio tirato da due
cavalli, attestano
l'antichità di questo personaggio.
In definitiva, la guerra di Troia potrebbe aver avuto luogo
verso il XVIII
secolo a.C, qualche generazione prima di Thera, mentre la
fondazione della
città- che, come abbiamo visto, era avvenuta sei generazioni
prima della guerra
potrebbe risalire, molto approssimativamente, al 2000 a.C. E
peraltro evidente
che tutta questa materia resterà estremamente congetturale,
almeno fin
quando l'archeologia non ci dirà qualcosa di più preciso
(eventualmente attraverso
una datazione al radiocarbonio di reperti provenienti dall'area
di Toija e
Kisko).
Ma ora è tempo di tornare verso il territorio dell'antica
città, da dove ci
dirigeremo verso la costa troiana.
IX.

L'ACCAMPAMENTO ACHEO, LE NAVI,


LE ASCE DI PIETRA

Il viaggiatore che in una placida sera estiva scende in auto da


Toija verso
il mare, in direzione di Tenala, si trova nella condizione
ideale per godere
appieno la magica suggestione dell'interminabile crepuscolo
nordico: dal cielo
chiaro si spande ovunque una tenue luce soffusa, che va
scemando impercettibilmente
d'intensità, mentre i lunghi rettilinei della strada deserta
corrono
tra scure macchie di alberi e vastissimi prati, distesi a
perdita d'occhio sulle ondulazioni
del suolo.
Una volta giunto sul litorale del Baltico, resterà colpito
dalle sagome degli
abeti, che si protendono fin sulla riva, sospesi in un irreale
silenzio: sul mare,
d'un colore sempre più indefinibile man mano che calano le
ombre della sera,
paiono galleggiare, in un'atmosfera quasi sognante, tante isole
e isolette, dai
contorni sfumati verso l'orizzonte, dietro cui sembra quasi che
ancora scivolino,
e magari come d'incanto possano apparire, le nere navi degli
Achei...
Riguardo a queste ultime, viene naturale chiedersi se, sulla
base di quanto
riportato nei poemi omerici, sia possibile farsi un'idea della
loro grandezza
e del loro aspetto. Diciamo subito che, almeno in taluni casi,
doveva trattarsi
di veri e propri vascelli, dalle dimensioni più che
rispettabili: infatti Omero ci
dice che quelle provenienti dalla Beozia imbarcavano ben
centoventi uomini
(Il. II, 510); per avere un termine di paragone, Saxo nelle
Gesta Danorum parla
di "navi con a bordo cento uomini scelti" (VIII, XIV, 2). Come
abbiamo visto
in precedenza, le navi achee avevano una doppia prua, il che
conferiva loro
una grande manovrabilità, come attesta il termine
"amphiélissai" che il poeta
spesso usa a loro riguardo (questo aggettivo probabilmente
allude alla loro
duplice curvatura, sia a prua che a poppa).
Inoltre, da un passo dell'Odissea, quello in cui si narra
l'arrivo di Ulisse
ad Itaca, si evince che la nave con cui i Feaci lo
accompagnarono doveva avere
una chiglia piatta ed un pescaggio minimo: infatti era tale
l'impeto dei rematori
(e forse la loro fretta di tornarsene a casa) che essa "corse
sopra la spiaggia
per metà della lunghezza" ("hòson t'epì hèmisy pàses", Od.
XIII, 114).
Ora, è significativo il fatto che queste caratteristiche
costruttive sono tipiche
delle navi vichinghe, anche se esse sarebbero comparse alla
ribalta della
storia, terrorizzando le popolazioni rivierasche di mezza
Europa, solo molti
secoli dopo: ma già Tacito, lo ricordiamo, aveva segnalato la
doppia prua,
che conferiva alle navi svedesi del suo tempo la maneggevolezza
necessaria
per manovrare negli stretti spazi dei fiordi costieri. Insomma,
i tanto temuti
"drakkar" vichinghi avevano alle spalle un know-how
plurisecolare! I loro
scafi venivano periodicamente incatramati, al fine di renderli
impermeabili104, ed è da presumere che anche le "nere navi"
("mélainai nèes"; Il. II, 524)
degli Achei fossero sottoposte allo stesso trattamento;
inoltre, dopo l'incatramatura,
le fiancate venivano dipinte a colori vivaci (di solito si
trattava di strisce
alternate bianche e rosse) e ciò ha un riscontro nel color
rosso delle navi
di Ulisse (Il. II,637).

104 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 223

Un'altra caratteristica costruttiva, molto particolare e


sofisticata, delle navi
achee era l'albero smontabile: infatti sia l'Iliade (ad esempio
in I, 434; I,
480) che l'Odissea (II, 424; IV, 781 ; VIII, 52; XV, 496) ci
attestano che le operazioni
di montaggio e smontaggio dell'albero rappresentavano per gli
equipaggi
achei una normale routine all'inizio e alla fine di ogni
missione. Omero
ci dà anche i dettagli della manovra di sollevamento:
"L'albero, un tronco d'abete,
nel foro del trave mediano/ piantarono sollevandolo, poi gli
stragli legarono,/
issarono le vele bianche con forti ritorte di cuoio" (Od. II,
424-426).
Quando invece l'albero veniva smontato, i marinai lo
appoggiavano su un "cavalletto"
("histodòke"; Il. I, 434).
Ora, è estremamente significativo il fatto che, come ci segnala
l'ing. Alceste Rilli di Roma, l'albero smontabile era tipico
delle navi vichinghe105: esso
veniva abbassato in caso di formazione di ghiaccio, che,
alterando la distribuzione
dei pesi, rischiava di compromettere la stabilità della nave e
di provocarne
il rovesciamento.

105 Paul H. Chapman, The Morse Discovery of America

Notiamo che l'albero smontabile è indice di una tecnologia


costruttiva
evoluta, in quanto deve garantire la perfetta stabilità della
vela, anche a fronte
di sollecitazioni particolarmente gravose, assicurando nel
contempo la massima
semplicità e celerità nelle operazioni di montaggio e
smontaggio: non a
caso, l'Odissea sottolinea che, al ritorno ad Itaca, i compagni
di Telemaco lo
smontarono "rapidamente" ("karpalìmos", XV, 497). Esso pertanto
rappresenta
un sicuro indizio del fatto che gli Achei omerici avevano un
background di
tutto rilievo nel campo delle costruzioni navali, certamente
acquisito attraverso
un'esperienza marinara di gran lunga antecedente all'epoca di
Omero: tale
esperienza, della quale i suoi poemi sono una chiara
testimonianza, sarebbe
poi stata ampiamente utilizzata dai loro discendenti micenei
nel mondo mediterraneo.
Ma
è possibile a questo punto farsi un'idea delle dimensioni delle
navi
achee, ad esempio quella di Ulisse? Al riguardo, un particolare
dell'avventura
nell'isola di Circe ci dà il modo di calcolare la consistenza
del suo equipaggio:
quarantasei uomini, comandante compreso (Od. X, 203-208). E un
dato che
sembra abbastanza realistico, perché in entrambi i poemi
vengono menzionate navi della stessa classe, cioè, per così
dire, "da cinquanta rematori": tali erano
quelle che componevano la flotta di Achille (Il. XVI, 170) e la
nave feacia
che accompagnò Ulisse, la quale per l'esattezza ne aveva
cinquantadue (Od.
VIII, 35). Forse non ci allontaniamo troppo dalla realtà se,
per cercare di visualizzarne,
almeno in via approssimativa, l'aspetto e la grandezza,
proviamo
a prendere come riferimento le navi di epoca vichinga giunte
fino a noi.
Ora, tra quelle ritrovate, qualche decina di anni fa, nel
fiordo di Roskilde
(non lontano da Copenaghen), due da guerra e tre da carico,
effettivamente ve
ne era una che "poteva portare dai cinquanta ai sessanta
guerrieri, aveva albero
e vela, e faceva indubbiamente parte di quelle temute navi
lunghe vichinghe
impiegate dai re danesi nei loro attacchi all'Inghilterra"106:
essa è lunga 28 metri
e larga 4,50 e, pertanto, sulla base delle considerazioni fatte
in precedenza,
possiamo ritenere che le navi omeriche dotate più o meno dello
stesso equipaggio
dovessero avere dimensioni all'incirca simili. Tra le navi di
Roskilde ve
ne è poi un'altra, pure da guerra, però più piccola, che
imbarcava ventiquattro
uomini: essa è lunga 18 metri e larga 2,60, e potrebbe essere
presa a riferimento
per le navi achee della classe "da venti rematori", quali
quella con cui,
all'inizio dell'Iliade, sotto il comando di Ulisse la giovane
Criseide fu ricondotta
a suo padre (Il. I, 309), quella utilizzata da Telemaco per
recarsi a Pilo
(Od. II, 212), nonché l'altra su cui s'imbarcò Antinoo per
cercare d'intercettarlo
(Od. IV, 669; IV, 778), sul cui inglorioso ritorno ad Itaca
abbiamo sentito le testimonianze
di Anfinomo e di Eumeo.

106 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 220


Torniamo alla costa troiana. Cosa accadde in realtà al momento
dello
sbarco? Sulla base di un accenno dell' Iliade, dobbiamo dedurre
che l'esercito
acheo sia stato subito attaccato: infatti in quell'occasione
cadde uno dei comandanti,
Protesilao: "L'uccise un eroe dardano,/ mentre dalla nave
balzava,
primissimo fra gli Achei" (Il. II, 701-702).
Quanto alle navi, vennero tirate a terra e, dato il loro
numero, furono disposte
in più file sulla spiaggia. Riguardo a quest'ultima, Omero ci
dice che era
delimitata da due sporgenze: "Molto lontano dalla battaglia
erano in secco le
navi/ sopra la ghiaia del mare; fino alla piana le prime/
avevano tratto, e alzato
il muro davanti alle poppe:/ che, pur essendo larga, non tutte
poteva/ la
spiaggia ("aigialòs") tenere le navi, erano fitti i soldati./
Perciò le avevano tratte
in file folte e tutta quanta era piena/ la gran bocca del lido,
che i promontori
chiudevano ("syneérgathon akraì")" (Il. XIV, 30-36). Per
inciso, questa attenzione
per i dettagli, che sembra denotare una conoscenza diretta di
quei luoghi
da parte del poeta, potrebbe contribuire a localizzare
esattamente l'area del
campo acheo nella zona di Aijala.
Un tale ingombro di imbarcazioni sulla spiaggia ovviamente
impediva la
loro messa in mare contemporanea, il che avrebbe potuto
rappresentare un gravissimo
inconveniente qualora si fosse reso necessario un rapido
disimpegno
sotto l'incalzare del nemico: di qui la comprensibile
preoccupazione di Agamennone,
allorché i Troiani, nel pomeriggio precedente alla "notte
funesta", attaccarono
il campo acheo e le sorti della guerra sembrarono precipitare
(Il.
XIV, 75-79; notiamo, al solito, la ferrea coerenza del racconto
dell'Iliade). E
poco dopo, all'inizio del contrattacco di Patroclo, che fece
subito indietreggiare
gli avversari già provati da una giornata di duri
combattimenti, Omero ci
fornisce un altro particolare interessante, cioè che
l'accampamento era situato
in prossimità di un fiume: "In mezzo/tra le navi, il fiume e
l'alto muro/ li massacrava
inseguendoli" (Il. XVI, 396-398). Questo fiume non può che
essere lo
Scamandro, il quale evidentemente sboccava nel mare in quei
pressi: ce lo conferma
la descrizione dell'adunata dell'esercito acheo in preparazione
del primo
attacco diretto contro Troia: "Innumerevoli schiere dalle navi
e dalle tende/
si riversavano nella pianura Scamandrid" ("es pedìon
Skamàndrion"; Il. II,
464-465).
Costoro poi, dopo essersi raccolti, marciarono verso il nemico
risalendo
la vallata: "Sotto ai loro piedi la terra rumoreggiava/ mentre
avanzavano" (II,
784-785). Ora, poiché Omero non dice mai che l'esercito acheo
attraversò il
guado dello Scamandro, ne consegue che, rispetto al fiume,
l'accampamento
si trovava sullo stesso lato della città, cioè ad est del fiume
stesso. Ciò spiega
anche perché non dovettero guadare nemmeno il Simoenta-
Mammalanjoki:
esso confluisce nello Scamandro-Kurkelanjoki provenendo da
nord-ovest, pertanto
non interferisce con il transito lungo la sponda orientale di
quest'ultimo.
Al solito, la disposizione del territorio attorno a Toija
risulta sempre straordinariamente
coerente con le indicazioni dell'Iliade (Tav. VIII).
La distanza tra il mare e la città non era affatto
trascurabile, come risulta
da svariate allusioni del poema: ad esempio, durante la mischia
sul corpo di Patroclo,
i contendenti "molto lontano ("pollòn apàneuthe") dalle rapide
navi lottavano,/
sotto le mura dei Teucri" (XVII, 403-404); per lo stesso
motivo, il
troiano Polidamante a un certo punto suggerì ad Ettore "di
tornare in città, senza
attendere l'aurora luminosa/ qui nella piana presso le navi:
siamo troppo
lontani dalle (nostre) mura" (Il. XVIII, 255-256). D'altronde,
che il campo
acheo non fosse visibile dalle mura di Troia ce lo conferma il
fatto che un soldato, "vedetta dei Troiani ("Tròon skopòs"),
stava appostato, fidando nei piedi
veloci,/ in cima alla tomba dell'anziano Esiete,/ aspettando il
momento che
dalle navi gli Achei si muovessero" (Il. II, 792-794).
Riguardo alla posizione reciproca dei due schieramenti, Omero
ci dice
che, all'inizio della battaglia durata due giorni,
dall'esercito acheo schierato davanti
al muro dell'accampamento "si
alzò un inestinguibile grido verso l'aurora" ("eöthi prò"; Il.
XI, 50): "aurora" qui sta per "oriente", la direzione dove
evidentemente si trovava il nemico (per l'esattezza, nel mese
di giugno il sole
sorge a nord-est, il che corrisponde esattamente
all'orientamento di Toija rispetto
al mare). Qui emerge un'altra incongruenza rispetto alla
tradizionale
collocazione anatolica: infatti in questo caso il campo acheo,
situato a una certa
distanza verso occidente, si sarebbe venuto a trovare non più
sulla riva dei
Dardanelli, ma affacciato direttamente sul mar Egeo, in
contrasto con le indicazioni
del poeta, il quale menziona insieme "il largo Ellesponto e le
navi" (Il.
XVII, 432) e dichiara in più occasioni che gli Achei "giunsero
alle navi e all'Ellesponto"
(Il. XV, 233; XVIII, 150; XXIII, 2).
In ogni caso, tutte le indicazioni dell'Iliade - che, come
abbiamo appena
visto, ci danno sempre nuovi elementi a favore
dell'identificazione con il territorio
attorno a Toija- convergono sul fatto che l'accampamento acheo
era situato
lungo la riva del mare, nei pressi dell'antica foce dello
Scamandro, a una
certa distanza dalla città. Ciò ben si accorda con l'ipotesi
che il sito corrispondesse
a quello dell'attuale località di Aijala, situata circa 7 km a
valle di
Toija, nei pressi del punto in cui il fiume, dopo aver allagato
la pianura, ritorna
nel suo alveo.
Attualmente Aijala dista diversi chilometri dal mare, che nel
corso dei millenni
si è considerevolmente allontanato. E un fenomeno che si
verifica un po'
dovunque: ad esempio, la linea di costa prospiciente Roma in
meno di duemila
anni si è spostata in misura considerevole, in seguito
all'azione del Tevere
(l'antico porto di Ostia, che letteralmente significa "sbocco",
ovviamente del Tevere,
adesso si trova interrato a qualche chilometro dal litorale).
Però, nel caso
della Finlandia, l'allontanamento è dovuto soprattutto alla
graduale emersione
di tutto il territorio, che è ancora in corso ed è destinata a
protrarsi fin quando
il suolo, fortemente compresso dai ghiacci quaternari, non avrà
raggiunto il livello
originario; nel frattempo, si calcola che nell'area del golfo
di Finlandia il
livello del terreno si innalzi in media di quasi mezzo metro al
secolo (e, lungo
la riva settentrionale del golfo di Botnia, addirittura di un
metro): ciò significa
che dai tempi omerici l'area della "Troade" deve essersi
sollevata di parecchi
metri, ricacciando indietro il mare per un tratto
considerevole.
Da ciò consegue anche che i siti delle attuali città costiere
finlandesi quattromila
anni fa erano ancora sommersi: pertanto gli archeologi dovranno
ricercare
i resti degli insediamenti achei a vari chilometri
nell'interno, là dove
correva l'antica linea di costa. Vedremo in seguito, seguendo
la scansione del Catalogo delle navi, che Iolco, la mitica
città da cui partì la spedizione degli
Argonauti, corrisponde all'attuale Jolkka, situata sul versante
orientale del
golfo di Botnia, aventi chilometri dal mare: in quella zona,
come abbiamo appena
detto, il sollevamento del suolo è tuttora particolarmente
accentuato.
Riguardo alla costa antistante Troia, anche se il sito dove
sorgeva l'accampamento acheo adesso non si trova più accanto al
mare, certamente negli
ultimi millenni non sono mutate le caratteristiche morfologiche
del litorale,
che si presenta basso ed estremamente frastagliato, si potrebbe
quasi dire sminuzzato,
su tanti promontori di forma irregolare, circondati da
innumerevoli
isole, piccole e piccolissime, che formano una naturale
barriera di protezione
dalle mareggiate. In particolare, il territorio di Tenala si
estende su un'area
piuttosto vasta, costituita da una penisola circondata da
isole: il sollevamento
del suolo, a cui abbiamo già accennato, nel corso dei millenni
può aver certamente
fatto diventare terraferma quella che, secondo la tradizione,
era l'isoletta
dietro cui si sarebbero nascoste le navi achee prima
dell'assalto finale a Troia
(peraltro in nessuno dei due poemi, allorché menzionano Tenedo,
viene mai
specificato se si tratti di un'isola). Qui le spiagge,
alternate coi promontori, sono
ovunque abbastanza basse da consentire facilmente l'ormeggio e
la messa
in secca: insomma la morfologia della zona corrisponde alle
indicazioni dell'Iliade.
E un ulteriore tocco alla caratterizzazione "finnica" dell'area
del campo
acheo ce lo fornisce un dettaglio inequivocabilmente riferibile
ad un ambiente
acquitrinoso e umido: Omero ci dice infatti che i cavalli
dell'armata mirmidone,
rimasti in ozio nel periodo in cui Achille si era astenuto dal
combattere,
passavano il tempo "ciascuno vicino al suo carro/ pascendo
trifoglio e sedano
di palude" ("eleòthrepton sélinon"; Il. II, 775-776).
D'altronde, ciò è congruente
con "la palude e le canne" nei pressi delle mura di Troia, dove
poco fa
abbiamo trovato Ulisse appostato con gli altri rangers
dell'esercito acheo, intirizziti
nel gelo della nevicata notturna e con gli scudi incrostati di
ghiaccio.
In sintesi, il campo acheo si trovava nell'area dell'attuale
Aijala, su una
spiaggia delimitata da due promontori presso l'antica foce
dello Scamandro.
Leggermente nell'entroterra, su una collinetta a circa un
chilometro ad est dell'attuale
Toija, sorgeva la Troia omerica, nella zona di alture attorno a
Kisko. Sia il campo acheo che la città stavano ad est del
fiume, alle due estremità della
"pianura Scamandria", che si estendeva dal mare fino al capo
Vähäniemi l'omerica
collina Batiea antistante Troia - situato davanti all'attuale
Kisko,
ossia in corrispondenza dell'estremità settentrionale del lago
Kirkkojärvi. Le
battaglie dell'Iliade furono combattute su questa striscia
pianeggiante lungo la
sponda orientale del fiume, estesa per circa 7 km fra Aijala e
il Vähäniemi (e
che ora è allagata dal Kirkkojärvi).
Tutto ciò combacia con un'altra indicazione che ci dà il poeta:
"...Sulla
sinistra della battaglia/ presso le rive del fiume Scamandro"
(Il. II, 498-499).
Ora, poiché un passo dell'Iliade mette bene in chiaro che la
"destra" per Omero
corrisponde all'est e la "sinistra" all'ovest (XII, 239-240),
se ne deduce che
il fiume non scorreva esattamente al centro della vallata, ma
era spostato leggermente
verso ovest. Un'ulteriore conferma la troviamo nell'episodio in
cui
i soldati troiani in fuga risalgono la valle, incalzati da
Achille, il quale, allorché
"giunsero al guado del fiume (...)/ li tagliò in due e gli uni
cacciò per la piana/
verso la città (...)/ (mentre) l'altra metà s'affollava sul
fiume" sperando ovviamente
di attraversarlo e di sottrarsi così all'inseguimento (Il. XXI,
1-8). In
altre parole, poiché il corso dello Scamandro era spostato
verso il lato occidentale
della pianura, una parte dei Troiani, risalendo lungo la sponda
orientale,
all'altezza del guado continuò a fuggire lungo la piana in
direzione nord-est,
verso la città - ossia verso le colline adiacenti a Kisko (Tav.
VIII) - mentre gli
altri cercarono di attraversarlo e di guadagnare l'altra riva.
Per inciso, fu proprio contro questi ultimi che si sarebbe
accanito Achille,
che, fuorviato dal suo temperamento impulsivo e dalla sete di
vendetta, potè fare una grande strage di nemici sulla riva del
fiume ma perse l'occasione per
attaccare la città nel momento della massima confusione,
allorché la restante
parte dell'esercito troiano allo sbando, cioè coloro che
avevano preferito tirare
dritto, si accalcavano disordinatamente davanti alle porte
Scee, lasciate aperte
per farli rientrare (Il. XXI, 531-533). Quando - dopo aver
invano inseguito
Agenore, che lo aveva depistato fuggendo verso l'Ida -
finalmente se ne rese
conto, decise di puntare su Troia, ma ormai i suoi avversari
avevano avuto il
tempo di asserragliarsi dentro le mura. Ne era rimasto fuori il
solo Ettore, il
quale si sentiva responsabile per la débàcle subita dal suo
esercito (dovuta alla
sua ostinazione nel voler sfidare le truppe di Achille in campo
aperto, ad
onta degli inviti alla prudenza da parte di Polidamante) e
voleva riscattarsi,
anche a costo della vita, affrontando a viso aperto il suo
formidabile avversario
(Il. XXII, 99-110).
In merito alla dislocazione delle navi achee lungo il litorale,
Omero ci dà diversi ragguagli: quelle di Ulisse stavano al
centro, mentre Achille e Aiace Telamonio
avevano sistemato le proprie alle due estremità (Il. VIII, 222-
225);
quanto a Nestore, si trovava fra Aiace e Ulisse (difatti
Patroclo, tornando da
Achille dopo aver parlato con Nestore, passò davanti alla
flotta di Ulisse; XI,
806). E fu dal lato di Aiace e Protesilao (XIII, 681),
attaccato direttamente da
Ettore, là dove il muro acheo era "molto basso" (XIII, 683),
che i Troiani riuscirono
a sfondare e diedero fuoco a una nave, mentre sul fronte
opposto, "a
sinistra" (XIII, 675), tenuto dai Cretesi di Idomeneo e dai
Lapiti di Polipete
(XII, 117-130), subirono gravi perdite (e ciò spiega il ritardo
con cui intervennero
i Mirmidoni di Achille, che si trovavano su questo stesso lato,
il meglio
difeso, dell'accampamento acheo e pertanto ignoravano cosa
stesse accadendo
dalla parte opposta, finché non arrivò Patroclo,
allarmatissimo, riferendo che
gli Achei sul fronte destro avevano ceduto).
A questo punto, poiché, come abbiamo notato poco fa, per Omero
la sinistra
corrisponde all'ovest, possiamo collocare le navi di Achille
verso l'estremità
occidentale della spiaggia, dove
presumibilmente si trovava anche il fiume: la sua foce di
allora doveva corrispondere ad un punto del suo corso attuale
subito a valle del lago, all'altezza di Aijala. Invece quelle
di Aiace - davanti
a cui la battaglia divampò a lungo, violentissima, prima del
contrattacco
di Patroclo - erano state sistemate dalla parte opposta,
accanto alle navi di Protesilao, la cui ammiraglia,
strenuamente difesa dallo stesso Aiace, venne
infine data alle fiamme dai Troiani (dal che scaturì la
decisione di Achille
di far intervenire il suo luogotenente: stava per calare la
"notte funesta"). Sempre
sul lato destro, sul fronte tenuto da Aiace, erano schierati
anche Beoti e Focesi
(II, 525-526) nonché Locresi, Epei (XIII, 685-686) e Ateniesi
(XIII, 689).
Per inciso, il fatto che le navi di questi ultimi fossero
sistemate accanto a quelle
del Telamonio risulta anche dal Catalogo (II, 558), a conferma
della congruenza
interna tra le varie parti del poema.
Possiamo altresì congetturare che Troia avesse una sorta di
scalo navale
alla foce dello Scamandro: ad una vocazione marittima della
città sembra infatti
alludere la vicenda del ratto di Elena e, per parte sua, Omero
esplicitamente
accenna a un'attività di "cantieristica navale" - in quella
zona il legname
di certo non mancava - legata al nome di un troiano, padre di
un caduto in
combattimento, "Tettone/ Armon ide, il quale sapeva tutte
l'opere belle/ fabbricare
(...)/ egli fece per Paride le navi ben fatte,/ principio dei
mali, che furon
malanno per tutti i Troiani" (Il. V, 59-63). Questo passo ci
dice anche che
la crociera amorosa del rapitore di Elena ebbe luogo con più di
una nave: infatti,
come apprendiamo dalla mitologia greca, il re Priamo aveva
affidato al
figlio una delicata missione diplomatica, senza immaginare che
lo sciagurato
sarebbe rientrato portandosi appresso la moglie di un re
potente, "nuora di uomini
bellicosi!" (Il. III, 49), come ad un certo punto gli
rinfaccerà il fratello Ettore.
Ora, l'arrivo degli Achei dovette rendere inagibile per i
Troiani ed i loro
alleati l'approdo alla foce del fiume: di ciò abbiamo
nell'Iliade un'indiretta
conferma, che ci viene dalla storia di Ifìdamante, figlio di
Antenore, il quale
"sposo appena, partì dal talamo verso il rumore degli Achei/
con dodici navi ricurve
che lo seguivano;/ lasciò quindi a Percote le navi perfette/ e
marciando
a piedi ("pezòs eòn") era venuto ad Ilio" (Il. XI, 227-230).
Percote, che potrebbe corrispondere all'attuale Pargas, nella
lista degli
alleati dei Troiani è menzionata accanto ad Abido e ad Arisbe
(Il. II, 835-836),
forse identificabili con Turku-Åbo, a occidente di Toija, e con
Airisto, entrambe
vicine a Pargas. Per raggiungere Troia, dopo l'occupazione
della costa adiacente
da parte degli Achei, essa doveva evidentemente rappresentare
uno "scalo
alternativo", sia pure alquanto distante: di qui la
precisazione del poeta dell'Iliade, come al solito puntuale
nelle sue osservazioni fin quasi a rasentare il
"cronachistico", circa l'itinerario di Ifìdamante.
Riguardo alla distanza tra le "basi operative" dei due eserciti
contrapposti,
Troia e l'accampamento degli Achei, essa, come abbiamo visto,
non era
certo trascurabile: ciò comportava che gli eroi omerici per gli
spostamenti sul
campo di battaglia dovessero usare il cocchio; peraltro durante
i duelli, che di
solito avvenivano a piedi, esso veniva lasciato in disparte (ma
pronto ad intervenire
in caso di necessità), evidentemente per salvaguardare i
preziosi cavalli
e non esporli quale facile bersaglio alle armi da lancio dei
nemici: ad esempio,
il troiano Asio combatteva "a piedi davanti ai cavalli, che
dietro le spalle,
sbuffanti,/ glieli teneva sempre l'auriga scudiero" (Il. XIII,
385-386). D'altronde
l'Iliade, con il consueto realismo, non manca di sottolineare
quali impicci,
anche molto seri, comportasse per l'auriga il ferimento di un
cavallo: allorché,
nel duello con Patroclo, Sarpedone "ferì il cavallo Pedaso/
d'asta alla
spalla destra (...)/ gli altri due fecero un salto, scricchiolò
il giogo, le redini/
s'imbrogliarono, perché nella polvere il cavallo giaceva" (Il.
XVI, 466-467;
470-471); e il vecchio Nestore corse un rischio ancor maggiore,
allorché uno
dei suoi cavalli venne colpito da Paride con una freccia:
"S'inalberò dal dolore,
nel cervello entrò il dardo,/ e sconvolse i cavalli, intorno
all'arma torcendosi;/
e mentre il vecchio tagliava la testiera del cavallo,/ balzato
giù col pugnale,
ecco rapidi i cavalli d'Ettore/ giungevano (...)/ e certo il
vecchio perdeva
a quel punto la vita,/ se non l'avesse scorto Diomede" (Il.
VIII, 85-91).
Notiamo che l'uso del cocchio, in quella società arcaica meno
evoluta di
quella micenea, era appannaggio esclusivo dei nobili, che
potevano permettersi
anche l'auriga (nonché le armi di bronzo); ancora non
esistevano, o perlomeno
non dovevano essere di uso comune, quelle falangi di carri che
avrebbero

È
potuto consentirne l'impiego in combattimento. È vero peraltro
che in taluni
passi si accenna a tattiche e schieramenti: ad esempio,
l'ateniese Menesteo si
distingueva "per ordinare cavalli e uomini armati di scudi"
(Il. II, 554), arte in
cui naturalmente era maestro il vecchio espertissimo Nestore
(II, 555), il quale,
all'inizio di un combattimento, "davanti ì cavalieri con i
cavalli e i carri,/
dietro dispose i fanti (...)/ nel mezzo spinse i pavidi,/ che
combattesse per forza
anche chi non voleva" (Il. IV, 297-300); così pure, all'inizio
della "notte funesta",
i Mirmidoni guidati da Patroclo scesero in campo con uno
schieramento
a falange, molto compatto ed estremamente efficace: "Scudo a
scudo si
strinse, elmo a elmo, uomo a uomo" (Il. XVI, 215).
Per inciso, ciò potrebbe forse spiegare il peso determinante
che il poeta
attribuisce ad Achille, nella sua qualità di capo dei Mirmidoni
(che dunque
erano, in certo senso, le "truppe corazzate" dell'esercito
acheo), in ordine alle
sorti della guerra: al riguardo osserviamo che, secondo Tacito,
per gli antichi
Germani "l'impegno più solenne è attribuire anche le proprie
prodezze alla
gloria (del comandante)" ("sua quoque fortia facta gloriae eius
assignare praecipuum
sacramentum est", Germania, 14, 1); e forse in questa stessa
chiave si
può intendere una smargiassata di Nestore, il quale si vantava
di aver preso, in
una battaglia combattuta in gioventù, addirittura "cinquanta
carri, e intorno a
ciascuno due eroi/ strinsero coi denti la terra, vinti dalla
mia lancia!" (Il. XI,
748-749).
Con l'occasione osserviamo anche che a questi combattenti,
interamente
ricoperti di bronzo, veniva richiesto un impegno fisico enorme,
forse in qualche
misura paragonabile alle prestazioni atletiche degli attuali
giocatori di football
americano (che però sono equipaggiati in modo senz'altro più
leggero): il
corpo a corpo, il gioco di gambe, la corsa, i lanci, le
schivate, gli scatti fanno
tutti parte di un repertorio ben noto al poeta dell'Iliade
(certo più che al suo collega
dell''Odissea, probabilmente più aduso alla vita di corte che
ai campi di
battaglia), il quale vi si sofferma spesso, indicandoci i
campioni più abili nelle
varie specialità: ad esempio, Aiace Oileo "con l'asta vinceva
tutti gli Elleni
e gli Achei" (II, 530) ed era particolarmente rapido
nell'inseguimento (XIV,
521), mentre l'altro Aiace, il Telamonio, uomo dalla
corporatura gigantesca
(III, 226-229), era fortissimo nel corpo a corpo (XIII, 325);
quanto ad Achille
"pie veloce" ("pòdas okys") eccelleva in tutto, ma in
particolare nello scatto e
nel gioco di gambe (XIII, 325). Quest'ultima dote era tra le
più importanti, come
ben sanno pugili e schermidori: non per nulla Omero riguardo ai
duelli parla
del "danzare di Ares" ("mélpesthai AreT", VII, 241); così,
allorché il cretese
Merione riesce a schivare l'asta scagliatagli contro da Enea,
viene sarcasticamente
tacciato di essere un "ballerino" ("orchestén", XVI, 617).
Tutto ciò naturalmente richiedeva uomini giovani - Ettore aveva
un figlio
nato da poco - fisicamente prestanti e atleticamente ben
preparati: invece l'anziano
re di Creta Idomeneo, ormai "brizzolato" ("mesaipòlios", XIII,
361), non
aveva più "salde le gambe nel muoversi,/ né a balzare seguendo
il dardo, né a
evitarne:/ così nel corpo a corpo il giorno fatale sapeva
sfuggire,/ ma fuor della
lotta, a fuggire, i piedi non lo portavano più" (Il. XIII, 512-
515; sembra quasi
il ritratto di qualche ex calciatore, di quelli che talvolta
appaiono in certe nostalgiche
partite riservate alle "vecchie glorie", dove però, a
differenza di Idomeneo,
non devono affrontare avversari più giovani e, soprattutto, non
rischiano
la pelle).
Non è dunque un caso che, secondo l'lìiade, l'unica coppia
padre-figlio
presente nell'esercito acheo era quella costituita dal vecchio
Nestore e da Antiloco:
dobbiamo perciò ritenere poco realistici, se non spuri, certi
accenni dell'Odissea ad un figlio di Achille che avrebbe preso
parte alla fase finale della
guerra (oltretutto Achille appare sempre come uno degli eroi
più giovani tra
quelli che parteciparono al grande conflitto).
Concludiamo queste considerazioni con la splendida immagine del
campo
apprestato dai Troiani davanti alle navi achee, illuminato dai
fuochi che ardono
nella notte: "Essi, pieni di gloria, sul campo della lotta/
stettero tutta notte,
accesero molti fuochi./ Come le stelle in cielo, intorno alla
luna lucente/
brillano ardendo, se l'aria è
priva di venti;/ si scoprono tutte le cime e gli alti
promontori/ e le valli; nel cielo s'è rotto l'etere immenso,/
si vedono tutte le
stelle; gioisce in cuore il pastore;/ tanti così, fra le navi e
lo Xanto scorrente/
lucevano i fuochi accesi dai Teucri davanti ad Ilio;/ mille
fuochi ardevano nella
pianura, e intorno a ciascuno/ cinquanta eran seduti, alla
vampa del fuoco
fiammante;/ i cavalli, mangiando l'orzo bianco e la spelta,/
ritti accanto ai carri,
l'Aurora bel trono aspettavano." (Il. VIII, 553-565). A questo
stupendo scenario
ora si può finalmente attribuire la giusta collocazione.
D'altronde, la natura rappresenta uno degli aspetti
fondamentali dell'universo
omerico, in cui ritroviamo il mare, il cielo, i fiumi,
l'aurora, il tramonto,
i boschi, gli uccelli, la caccia... tutti elementi di un
arcaico mondo primordiale,
certamente più rude del nostro ma anche più libero dalle
sovrastrutture
che continuamente minacciano di soffocare la vita degli uomini
di oggi.

Lasciando ora il litorale della Troade e spostandoci nei pressi


di Tammela
- che ci ricorda il nome del monte Tmolo (Il. II, 866) e del
mitico re Tmolo,
padre di Tantalo - ecco Tanttala: secondo la mitologia greca,
che si va sempre
più rivelando l'ultima eco dell'età del bronzo nordica,
Tantalo, re di Lidia (regione
confinante con la Frigia, dunque non lontana da Troia) aveva la
propria
tomba sul monte Sipilo; troviamo infatti, dirigendoci verso
nord, in una zona
di alture, una località chiamata Sipilä: che in quei dintorni
sia celato il suo sepolcro?
Notiamo altresì che l'acqua la quale, secondo il mito, lo
circondava e
poi si ritraeva, potrebbe forse alludere ad inondazioni e
allagamenti, del tutto
congruenti con lo scenario "finlandese" in cui abbiamo
ritrovato il nome dell'antico
re: potrebbero essere stati proprio fenomeni di questo tipo,
forse accentuati
dall'incremento delle precipitazioni verificatosi nella fase
finale
del'optimum climatico", ad aver dato origine al racconto del
suo stranissimo
supplizio, poi arricchito, per via analogica, con il
particolare relativo ai pomi,
perennemente sfuggenti dalle mani dello sventurato. D'altronde,
lo stesso passo dell'Iliade che accenna al monte Tmolo, omonimo
del padre di Tantalo, non
a caso menziona anche una palude: "Sui Meoni (alleati dei
Troiani) imperavano
Mestle e Antifo,/ i due figli di Talemene, che la palude Gigea
partorì;/ essi
guidavano i Meoni, nati sotto lo Tmolo" (Il. II, 864-866).
Doveva trattarsi di
un territorio ricco di acque, se più tardi l'lliade ricorda
ancora lo "Tmolo nevoso"
(XX, 385) insieme con la "palude/ Gigea (...)/ presso l'Ilio
pescoso e
l'Ermo ricco di vortici" (XX, 390-392): tutto ciò va a
delineare un quadro idrografico
certamente più "finnico" che "anatolico".
In ogni caso, resta il fatto che la terna di nomi mitici greci
Tantalo-Tmo
lo-Sipilo trova riscontro, proprio in quest'area già
"indiziata" per tante altre
ragioni, nei tre toponimi Tanttala-Tammela-Sipilä: che possa
trattarsi di un
puro caso sembra una sfida alle leggi della probabilità, oltre
che al comune
buon senso.
Non molto distante da Sipilä troviamo poi una Nivala, che
potrebbe ricordare
la sventurata Niobe, figlia di Tantalo, il cui mito è anch'esso
legato al
Sipilo, secondo una struggente immagine dell' Iliade: dopo la
morte dei suoi dodici
figli, essa "là fra le rocce, sui monti solinghi,/ nel Sipilo,
ove sono, raccontano,
i letti delle divine/ ninfe, che danzano intorno all'Acheloo/
là, fatta
pietra dai numi, cova il suo strazio" (Il. XXIV, 614-617;
riguardo all'Acheloo,
"Ahola" è un toponimo che s'incontra nella Finlandia centrale).
Scendendo verso Helsinki, incontriamo Espoo (o Esbo), che
sarebbe suggestivo
collegare all'antica Lesbo: peraltro questo termine, secondo
gli specialisti,
ha un'etimologia nota. In ogni caso, ciò ci fa rammentare che,
secondo
Omero, Lesbo segnava il confine della Troade, come risulta da
un passaggio
del colloquio tra Achille ed il re Priamo, che abbiamo già
citato in precedenza:
"Quanto paese di sopra limita Lesbo, la sede di Macaro,/ e di
sotto la
Frigia e lo sconfinato Ellesponto..." (Il. XXIV, 544-545).
Pertanto questa Lesbo
potrebbe non essere un'isola: invero non è mai indicata come
tale né nell'Iliade (dove viene menzionata quattro volte), né
nell'Odissea (tre volte).
Sembrerebbe altresì naturale ipotizzare che il nome dell'antico
Ellesponto "il
mare dell'Ellade" - risuoni ancora nella radice del nome di
Helsinki, affacciata
proprio su quel mare e situata sulla sponda prospiciente
l'Estonia, ovvero
l'"Ellade" omerica.
Non si può lasciare la costa della Troade finnica senza
rilevare la singolarità
di alcuni toponimi: il primo è Tvärminne, nei pressi di Hanko,
che naturalmente
ricorda la siciliana Taormina, fondata da coloni greci.
Estremamente
significativo è poi il nome di un fiume che scorre a 20 km da
Toija, nella zona
di Salo, dove si trovano quei tumuli così simili a quelli
descritti dall'Iliade: si
tratta dell'Halikonjoki, il "fiume Haliko", che è identico ad
"Halikos", l'antico
nome greco del fiume Platani, nella Sicilia sud-occidentale,
alla cui foce si
trovano i resti di Eraclea Minoa, una colonia greca legata a
miti antichissimi.
Se si trattasse di un caso isolato, potrebbe comunque indurre
legittimi sospetti:
ma l'aver ritrovato questo nome genuinamente greco a pochi
chilometri da
Toija, nel mezzo di un ricchissimo "giacimento di toponimi"
anch'essi grecheggianti,
unitamente alle altre considerazioni sin qui svolte rende
davvero
minuscole le probabilità che tutto l'insieme sia riconducibile
ad una mera casualità.
Notiamo
infine il nome di una località non lontana da Tenala: Padva.
Questa
omonimia con la città veneta (per l'esattezza, il termine
latino "Padua" indicava
un ramo della foce del Po con il territorio circostante) è
tanto più intrigante
in quanto, secondo una tradizione attestata da Tito Livio (I,
1), Padova
sarebbe stata fondata dal principe Antenore, fuggito da Troia
con i suoi Eneti,
o Veneti, dopo la distruzione della città. In effetti, gli
Eneti nell'Iliade risultano
alleati dei Troiani (II, 852; la radice del loro nome pare
richiamare da un lato
Enea ed Enone, dall'altro l'Enäjärvi); a sua volta Tacito
sembra attribuire ai
Veneti - popolazione di stirpe indoeuropea, proveniente dal
nord - una collocazione
alquanto settentrionale, accanto ai Finni (Germania, 46, 1-2).
Vi è d'altronde un'altra città veneta che per tradizione è
legata ad Antenore
e a Troia: sì tratta di Abano 107, il cui nome richiama gli
omerici Abii (Il.
XIII, 6) e la città di Abido, strettamente legata alla casa di
Priamo (Il. II, 836;
IV, 500; XVII; 584). Il suo corrispondente finlandese potrebbe
essere l'attuale
Turku-Åbo. E che dire dell'omonimia tra Salo, città finlandese
situata nella
stessa zona di Toija e Padva, e Salò, sul lago di Garda, non
distante dal Veneto?
Sempre nella stessa direzione sembra poi orientarci una
leggenda svedese
riferita dalla romanziera Selma Lagerlöf nella sua opera Nils
Holgersson108: "C'era una volta qui, sulla riva dell'acqua, una
città chiamata Vineta. Era tanto
opulenta e felice che mai vi fu città più magnifica;
disgraziatamente, i suoi
abitanti si abbandonarono al lusso e all'arroganza. Come
punizione la città di
Vineta sarebbe stata sommersa da una violenta marea e
inghiottita dal mare".
Sarebbe a questo punto suggestivo legare la collocazione di
Venezia in mezzo
alla laguna, con le sue gondole ricurve da ambo i lati, non
solo alle vicissitudini
della sua storia, ma anche all'ancestrale ricordo di una remota
patria originaria,
immersa tra le acque e le paludi dell'estremo nord
dell'Europa...

107 Braccesi. La leggenda di Antenore, pag. 27


108 Citata dal Markale ne ICelti, pag. 43

Abbiamo dunque verificato che il mondo di Troia trova


numerosissimi riscontri
in un ampio territorio della Finlandia: in particolare, la
tipologia della zona
attorno a Toija appare congruente con quello che è un po' il
leit-motiv della
guerra, cioè il continuo oscillare del punto focale dei
combattimenti tra due poli
opposti: da un lato, la città fortificata, a una certa distanza
dal mare, con una zona
di alture (le "cime dell'Ida") alle spalle; dall'altro, il
campo acheo, anch'esso
protetto da un muro, situato lungo la costa; in mezzo, la
pianura con i due fiumi
(o meglio, la striscia pianeggiante che si estendeva lungo la
riva orientale del corso
inferiore dello Scamandro, a partire dal punto in cui il fiume
passava davanti
alla città, all'altezza della collina Batiea, fino alla foce).
Omero inoltre ci parla di
un'idrografìa complessa, in pieno accordo con la dimensione
tipicamente "finnica"
che si è andata delineando. Più in generale, considerando anche
il territorio circostante,
emerge un quadro estremamente coerente con le indicazioni
omeriche,
sia nell'insieme che nei dettagli, come d'altronde avevamo già
constatato per il
mondo di Itaca, una volta confrontato con Lyø e con le isole
vicine.

Ci dirigiamo adesso a nord-ovest della Troade, in una zona ad


essa contigua
che, seguendo la tradizione, potrebbe identificarsi con
l'antica Frigia, là
fin dove si estendevano i confini del regno di Priamo. I
territori in direzione di
Turku, Raisio-Reso, Askainen sono esattamente come ci si può
immaginare la
Frigia: immense distese pianeggianti a perdita d'occhio, con
coltivazioni a grano,
ortaggi, pascoli, prati fioriti, grandi boschi. Procedendo
ancora, Kiikoinen
ci ricorda i Ciconi, alleati dei Troiani, mentre il nome di
Mente, il loro comandante
(Il. XVII, 73), forse si ritrova nel toponimo Montala. Al di là
di Tarnpere,
centro importante di quest'area della Finlandia, si incontra il
villaggio di
Kapee, che ricorda Capi, figlio di Assaraco e padre di Anchise
(Il. XX, 239),
secondo la prestigiosa genealogia, risalente addirittura a
Zeus, che Enea orgogliosamente
snocciola ad Achille nei preliminari del duello ingaggiato dai
due
in occasione dell'ultima battaglia dell'Iliade.
Per inciso, sempre riguardo alla "Frigia" - che, secondo una
consolidata
tradizione degli antichi Romani, era la loro terra di origine -
proprio in questo
territorio si ritrovano numerosi toponimi che presentano
singolari assonanze
con i nomi dei personaggi dell'Eneide di Virgilio. Primo fra
tutti, ecco Askainen,
già citato per il riferimento all'Ascanio dell'Iliade, alleato
dei Troiani:
"Guidavano i Frigi Forci e Ascanio simile a un dio,/ da
lontano, da Ascania"
(Il. II, 862-863); quanto a Forci, il suo nome potrebbe
ricordare i "Peucini", un
popolo che, secondo Tacito, viveva nella stessa zona dei Veneti
e dei Finni (Germania, 46, 2). Ecco poi Laitila, che ricorda il
re Latino e lo stesso Lazio;
Lavia, che richiama Lavinia; Laurila, Laurento; Eura, Eurialo;
Evajärvi, Evandro;
Turajärvi, Turno; Lauttijärvi, Lauso; Kattelus, Catillo; Kaaro,
Cora; Kiikala,
Cècolo. A loro volta, Kullaa e Kaanaa ci rammentano Collatia e
Caenina,
antiche città laziali; Marttila, Juva e Palus sembrano
ricordare rispettivamente
i nomi di Marte, di Giove e di Pale (primitiva divinità agreste
a cui era dedicata
la festa delle Palilie, che cadeva il 21 aprile: secondo la
leggenda, Roma
fu fondata in occasione di tale ricorrenza); Kurisjärvi,
depurato dal suffisso, è pressoché identico al nome della città
sabina di Cures.
Riguardo ai Kuri, sono un'antica popolazione di stirpe finnica,
forse ricollegabili
ai mitici Cureti della mitologia greca (a Roma vi era il
collegio sacerdotale
dei Salii, ad essi corrispondenti) e, al riguardo, vedremo più
avanti
che altre singolari convergenze, non solo toponomastiche, si
ritrovano anche
in un'altra area del Baltico orientale, ossìa in Lituania, dove
giace la Curlandia,
"la terra dei Kuri". Più verso est, all'inizio di una zona di
rilievi, il toponimo
Kauvatsa ricorda il nome del Monte Cavo, venti chilometri a
sud-est di
Roma, sede dell'antica Lega Latina e dello Juppiter Latiaris
(lo stesso nome
della vicina città di Rauma, legato a una radice che significa
"corrente", ha
una singolare assonanza con quello di Roma: va tuttavia
ricordato che le considerazioni
sui toponimi debbono essere supportate da riscontri anche di
altro
tipo per risultare ragionevolmente attendibili).
In ogni caso, tutti questi nomi di località risultano
concentrati in una zona relativamente ristretta della Finlandia
meridionale: essa, come abbiamo visto,
potrebbe coincidere con quella "Frigia" - regione attigua alla
Lidia del mitico
Tantalo - di cui i Romani sostenevano di essere originari
(invero il rigido apartheid che i patrizi riuscirono ad imporre
per secoli ai plebei potrebbe essere
riconducibile alla circostanza che un nucleo dominante, venuto
dall'esterno,
si sia inizialmente imposto su una popolazione preesistente).
Che siano, insomma,
individuabili nel Baltico orientale, tra la Lituania e la
Finlandia, le sedi
primitive delle popolazioni di ceppo indoeuropeo che si
sarebbero poi stanziate
nell'antico Lazio? Nella loro memoria storica potrebbero
essersi conservati
quei nomi che Virgilio ha ritrovato e ci ha tramandato nel suo
poema.
Più avanti riprenderemo la questione della patria originaria
indoeuropea,
alla luce di quanto sta emergendo riguardo alla provenienza
baltica degli Achei,
che a sua volta si raccorda mirabilmente, anche sotto l'aspetto
cronologico, alla
documentatissima tesi del Tilak sull'origine artica dei loro
"cugini" Arii.
Qui aggiungiamo solo che nella Finlandia meridionale si trovano
due toponimi,
Savonlinna e Levanto, i quali rimandano alle liguri Savona e
Levanto; ma
nel distretto finnico di Savo si incontra anche un "monte
Pisa", menzionato anche
nel runo III del Kalevala, ed a sua volta la nostra Pisa, città
d'origine antichissima,
venne fondata in un territorio che fu ligure prima che etrusco
(Pisa
si ritrova anche nella mitologia greca: era una città achea, di
cui fu re un altro
"Tantalo", primo marito di Clitennestra, che sarebbe stato
sbrigativamente
eliminato da Agamennone). Che anche il popolo dei Liguri, la
cui origine è tuttora
sconosciuta (ma in ciò che è rimasto del loro linguaggio sembra
vi siano
influssi indoeuropei) fosse di provenienza nordica? Tre
toponimi così simili
nella stessa area - Savona, Levanto e Pisa - sono un po' troppi
per attribuirli tout
court ad una mera casualità. In questo novero potrebbe forse
rientrare anche il
nome del villaggio di Cenaia, a 20 chilometri da Pisa: esso
ricorda Kajaani, una
città della Finlandia settentrionale (dove oltretutto, non
lontano da Rovaniemi,
esiste una località chiamata proprio Pisa).
E sempre in Finlandia, sulla costa sud-occidentale, il toponimo
"Luvia"
richiama il nome dei Luvi, un'antica popolazione, anch'essa di
ceppo indoeuropeo,
stanziata nell'Asia Minore.
Torniamo ora alla leggenda di Enea: pur se essa, così come ci è
stata raccontata
dal poeta latino, non si accorda con la versione tramandataci
da Omero
(che, come abbiamo visto, fa dell'eroe troiano il successore di
Priamo dopo
la fine della guerra), tuttavia la radicata convinzione dei
Romani che i loro
antenati provenissero dalla "Frigia" potrebbe aver trovato un
concreto riscontro
nei toponimi dell'"Aeningia". Da ciò si potrebbe forse dedurre
che la lingua
latina, appartenente allo stesso ceppo indoeuropeo di quella
greca, sia stata
importata nel Lazio da migratori provenienti dall'area baltica
orientale (e il
latino è attualmente in particolare auge proprio in Finlandia,
dove un'emittente
radiofonica trasmette addirittura un notiziario in questa
lingua: si tratta di una
coincidenza che a Jung non sarebbe dispiaciuta).
Attualmente in quell'area si parla la lingua finnica,
appartenente al ceppo
delle ugrofìnniche; peraltro sembra che essa vi sia stata
importata in epoca
relativamente recente: "La migrazione dei Finni verso la
Finlandia deve essere
cominciata nel secolo I dell'era volgare, al più tardi nel
IV"109.
Insomma, in
Finlandia si parla una lingua "ugrofìnnica" da un tempo che
forse non è nemmeno
la metà di quello che ci separa dalle vicende dell'Iliade.
Sarebbe pertanto
auspicabile che gli specialisti non trascurassero la ricerca di
un eventuale substrato
greco (d'altronde già ipotizzato nel XVIII secolo dallo
Juslenius) nel
finnico, e così pure nel lappone, appartenente allo stesso
ceppo.
Inoltre, a proposito dei Lapponi, la sequenza del Catalogo
delle navi ci
porterà fra poco a localizzare nella Finlandia centrale i
Lapiti, mitico popolo
di stirpe achea che partecipò alla guerra di Troia: sarebbe
pertanto suggestivo
identificarli con gli antenati dei Lapponi attuali. Nella
stessa area troviamo il
fiume Kyrönjoki, che sembra rimandare al nome del centauro
Chirone (i Centauri,
secondo la mitologia greca e lo stesso Omero, erano vicini, e
naturalmente
nemici, dei Lapiti). Riguardo in particolare alla lingua
lappone, risulta
che "antropologicamente i Lapponi sono un popolo a sé e
completamente isolato.
Bisogna dunque ammettere che i Lapponi abbiano parlato
originariamente
un'altra lingua e che abbiano mutuato la loro lingua attuale da
un popolo ugrofinnico"110.

109 Treccani, voce "Ugrofìnniche, lingue"


110 Treccani, voce "Ugrofìnniche, lingue"
Per quanto concerne le lingue parlate dagli alleati dei
Troiani, l'Iliade ci
dà un'indicazione precisa: "Gli alleati son molti nella gran
rocca di Priamo,/ ma
chi ha una lingua, chi un'altra fra uomini varii di stirpe"
(Il. II, 803-804), concetto
ribadito più avanti: "Non era uguale la voce di tutti, né uno
il linguaggio,/ ma mischiata la lingua; eran genti diverse"
(Il. IV, 437-438). Se ne potrebbe arguire
una rimarchevole mobilità di quelle popolazioni (abbiamo già
visto il
caso della migrazione dei Feaci, ricordata dall' Odissea),
forse attribuibile anche
all'incipiente decadere dell'"optimum climatico"; in ogni caso,
i futuri studi
non potranno non tenerne conto.
Possiamo a questo punto domandarci come mai all'abbondanza dei
toponimi
grecheggianti nel mondo nordico non facciano riscontro altre
vestigia
della lingua, per così dire "protogreca", che, in base a quanto
sta emergendo
dalla presente ricerca, vi si doveva parlare durante la prima
età del bronzo. In
attesa di eventuali riscontri sulla presenza di un substrato
greco nella
lingua finnica,
osserviamo che, ad esempio, nell'Italia centro-settentrionale
la lingua degli Etruschi, così come la loro letteratura, si è
totalmente estinta già da due
millenni, soppiantata dal latino; a ricordarla sono però
rimasti i tanti nomi di
origine etrusca tuttora esistenti nella toponomastica: è comune
infatti il fenomeno
della sopravvivenza dei toponimi all'estinzione della lingua
originaria.
La stessa sorte è toccata alla lingua greca, che per un lungo
periodo di tempo è stata diffusa nell'Italia del sud (dove in
certe zone viene ancora parlata): fra
le tante località che ricordano l'antica orìgine, pensiamo ad
esempio al bellissimo
"Melicuccà", in provincia di Reggio Calabria, che letteralmente
significa
"canto del cigno". Allo stesso modo, il greco arcaico parlato
nell'area baltica
durante l'età del bronzo è stato soppiantato da popolazioni che
parlavano
lingue germaniche e ugrofìnniche; di esso è sopravvissuta la
"filiazione" mediterranea,
trapiantata nel sud dell'Europa dagli Achei che vi
trasmigrarono
3600 anni fa, allorché diedero inìzio alla civiltà micenea.
Notiamo ancora che i popoli achei, secondo molti studiosi, non
erano autoctoni
della Grecia: sia i Micenei, sia, successivamente, i Dori
arrivarono da
un "altrove", finora rimasto ignoto, pur se nella mitologia e
nella letteratura
greca non è rimasta alcuna traccia della migrazione
(d'altronde, non si può certo escludere che, fra tremila anni,
ciò che sarà rimasto dell'attuale letteratura
americana non conservi più alcun ricordo della provenienza
dall'Inghilterra,
dell'epopea dei Padri Pellegrini e del Mayflower). Ma essi
dovevano già parlare greco nella loro terra di origine,
dovunque essa fosse, in cui la loro lingua
attualmente non esiste più e che, basandoci sulla geografìa
omerica, stiamo
ora identificando con l'area baltico-scandinava. Ed è qui che
tuttora sopravvive
una lingua la quale presenta singolari affinità sia con il
greco che con
il latino: ci riferiamo al lituano, che ha conservato fino ad
oggi alcune caratteristiche
estremamente arcaiche: "Le lingue baltiche, specie la lituana,
serbano
un aspetto così arcaico che permette di raffrontarle con le più
antiche forme linguistiche
della famiglia indoeuropea (...) Il vocalismo originario è più
fedelmente
conservato che in tutte le altre lingue viventi
indoeuropee"111".
Gli studiosi hanno inoltre riscontrato "la figura di un dio
supremo (lituano
Dievas, lettone Dievs) che nel folklore alterna curiosamente i
tratti del Dio
cristiano e dello Zeus ellenico"112; ma ricordiamoci anche di
quegli "Ellespontini",
dal nome così genuinamente greco, che le Gesta Danorum sembrano
collocare nel Baltico orientale, cioè dove si trovavano il
"largo Ellesponto"
e la stessa Ellade di Omero.

111 Treccani, voce "Baltiche, lingue"


112 Prampolini, La mitologia nella vita dei popoli, tomo
II, pag. 460

Segnaliamo infine un singolare rito agrario lituano, relativo


alla mietitura
del frumento, riportato dal Frazer: "Vicino a Ragnit in
Lituania si lascia in
piedi l'ultimo ciuffo di grano dicendo: 'Ci sta a sedere la
vecchia (Boba)'. Poi
un giovane falciatore arrota la falce e con un gran colpo
abbatte il ciuffo. Si dice
allora che ha tagliato la testa alla Boba"113. È straordinario
il fatto che qui
vediamo letteralmente tornare alla luce un pezzo di mitologia
greca: infatti
nella vecchia Boba lituana ritroviamo Baubo, divinità
dell'orfismo ellenico legata
al mito di Demetra, dea delle messi.

113 Frazer, Il ramo d'oro, pag. 677

La stessa Baubo era la madre di Trittolemo, "colui che,


gratificato del
frumento, era partito per il mondo, per diffondere tra gli
uomini il dono della
dea [Demetra] riconoscente. (...) In dipinti vascolari (...)
troneggiava con le
spighe in mano"114. Insomma, nelle campagne della Lituania si
conserva tuttora
ben vivo il ricordo della "madre del grano" della mitologia
greca.

114 Kerecnyi, Gli dèi della Grecia, pag. 202

Circa l'origine e il significato di molti toponimi finlandesi


menzionati nel
presente lavoro, è stato consultato il Centro di ricerca
finnico per le lingue nazionali
("Kotimaisten Kielten Tutkimuskeskus"): esso, dopo aver fatto
presente
che non esistono notizie sull'origine della maggior parte di
essi, ha gentilmente
fornito i dati disponibili, riguardanti Helsinki, Oulu, Esbo e
Rauma:
di seguito si riporta una sintesi delle informazioni ricevute.
"HELSINKI' deriva dal vecchio nome svedese Helsinge, che indica
la
zona, e dal nome del fiume, che nel 1351 fu trascritto nella
forma "Helsingaa";
si suppone che il nome "Helsinge" sia stato importato dalla
Svezia; l'attuale
città è stata fondata nel 1550.
"OULU" si trova nei documenti già molto prima della fondazione
della
città, che risale al 1605 e probabilmente ha preso il nome dal
fiume omonimo,
emissario del lago Oulu: già nel 1307 appare come Vlu. Il
termine risale al vocabolo
"oulu", che significa "l'acqua dell'inondazione, l'acqua che
sale sul
ghiaccio a primavera, la neve sciolta"; non è più usato nella
lingua moderna e
si presume che tragga origine dalla lingua lappone.
"ESBO" si trova nominato per la prima volta nel 1431, quale
nome della
parrocchia Espa: esso si fa risalire all'antico nome del fiume
"Äspeå", formato
dai vocaboli "aspe", "luogo dei tremuli" ("Populus tremula"),
ed "å", "fiume".
Esbo ora è il nome svedese della città di Espoo, di fondazione
recente (1972).
"RAUMA" è una città fondata nel 1442; peraltro nello stesso
luogo già in
precedenza esisteva un villaggio con questo nome. Il vocabolo
"rauma", non
più in uso nella lingua moderna, si ritrova in diversi toponimi
della Finlandia
sud-occidentale: esso indica una "corrente marina", ed è
considerato un prestito
dallo scandinavo primitivo.
Su questi toponimi possiamo fare alcune considerazioni: ad
esempio, la
radice "aspe" si ritrova anche in "Aspö" che, come vedremo, è
un'isoletta situata
davanti alla città svedese di Karlskrona, l'"Atene" baltica;
sarebbe suggestivo
ricollegarla all'Asopo, fiume dell'Atene classica ma anche
della Tebe
omerica (Il. IV, 383). Appare altresì interessante il
significato del termine "rauma",
che trova una singolare corrispondenza nella lingua greca, dove
il verbo
"rein" significa "scorrere"; ma anche "oulu", la "neve
sciolta", ha una certa affinità
col verbo greco "lyo", "sciogliere" (ben noto agli studenti del
ginnasio).
Sempre a proposito di "lyo", non può non sorprendere il fatto
che in finnico il
verbo "sciogliere" si dica "liuottaa".
Per quanto riguarda il toponimo più significativo, Toija, di
cui si ignora
l'origine, osserviamo che il passaggio dal vecchio nome omerico
di Troia a
quello attuale si può giustificare facilmente. Infatti nella
lingua finnica, di tipo
agglutinante, i vocaboli che iniziano con il gruppo
consonantico TR sono
molto rari (e di solito tradiscono un'origine straniera): ne
possiamo desumere
che la popolazione di ceppo ugrofinnico a suo tempo giunta in
Finlandia dovette
storpiare la pronuncia dei toponimi preesistenti secondo la sua
peculiare
"sensibilità fonetica", che non contemplava il suono?-
operazione agevolata
anche dall'assenza di una lingua scritta-e, a questo punto, il
passaggio dal
preesistente "Troia" all'attuale "Toija" trova subito una
spiegazione (fenomeni
analoghi sono talvolta riscontrabili pure nelle lingue moderne,
anche se l'uso
della scrittura ovviamente favorisce la conservazione della
radice originaria:
pensiamo ad esempio alla parola inglese "psychology", di
origine greca: essa
viene pronunciata all'incirca "saikelezi", senza la P iniziale,
perché gli anglosassoni
al suono "ps" sono, per così dire, poco avvezzi).
Più in generale, possiamo notare che tali toponimi (purtroppo
su molti
altri non esiste documentazione) sono di origine non recente,
anche se è diffìcile
precisarne il livello di antichità: tutti i documenti scritti
finlandesi e scandinavi,
anche i più antichi, risalgono ad epoche troppo vicine a noi
rispetto a
quella che ci interessa. Tra di essi, tutti abbondantemente
posteriori all'anno
1000 della nostra èra, ed i remoti fatti su cui stiamo
indagando si spalanca un
immenso baratro temporale di quasi tre millenni, nel corso dei
quali, contrariamente
a quanto si è verificato nel mondo mediterraneo, non vi è stata
alcuna
testimonianza scritta che possa soccorrerci nello studio
dell'evoluzione dei
singoli nomi.
Pertanto la significatività dei toponimi presi in
considerazione è legata in
generale o al loro presentarsi in raggruppamenti coerenti, il
che rende più difficile
la possibilità di un mero gioco del caso - pensiamo al
"giacimento" attorno
a Toija - o, eventualmente, a verifiche di congruenza di
carattere geografico,
territoriale, mitologico ecc.; è questo ad esempio il caso del
monte
Høgoyggj, la cui corrispondenza con Ogigia si basa
sull'indicazione di Plutarco relativa alla posizione di
quest'ultima, o della città di Neksø (nell'isola di
Bornholm, tra la Polonia e la Svezia), la cui relazione con
l'antica Naxos, come
vedremo in seguito, viene attestata dal confronto tra il mito
di Teseo e
Arianna e l'individuazione, totalmente indipendente, di "Creta"
e di "Atene"
rispettivamente sulla costa polacca e su quella svedese; ma
pensiamo anche a
Lemland-Lemno, situata fraNorrtälje-Aulide e la costa
"troiana", a HiiumaaChio
sulla rotta di ritorno della flotta achea, a Tàsinge-Zacinto e
così via.
In sostanza, come già accennato nell'introduzione, pur se non è
stato possibile
applicare un rigoroso metodo filologico ai toponimi presi
singolarmente
(anzi, non è improbabile che su alcuni di essi vi siano stati
errori o fraintendimenti),
riteniamo che quanto meno i loro raggruppamenti, allorché
confortati
da riscontri significativi, geografici o di altro tipo, possano
avere, a livello
di probabilità, un valore indicativo non trascurabile,
soprattutto se vanno ad
inserirsi in un quadro complessivo razionale e coerente. Si
tratta di un approccio
per così dire "probabilistico", non inusuale nelle scienze
fisiche (ad esempio
nella termodinamica), che può dare utili indicazioni - pensiamo
alla terna
Tanttala-Tammela-Sipilä nella "Frigia" finlandese - se
opportunamente supportato
da altri elementi.
Abbiamo d'altronde già rilevato che nel presente studio i
toponimi hanno
soprattutto valore di traccia o di indizio, mentre la base
fondamentale su cui
esso poggia è costituita dalle straordinarie concordanze
geografiche, morfologiche,
descrittive e climatiche del mondo omerico con quello baltico,
verso
cui ci ha indirizzato la segnalazione iniziale di Plutarco.
Sarà comunque compito
specifico degli specialisti "scremare" quelli la cui origine è
stata equivocata
o fraintesa. Al riguardo, facciamo tuttavia presente che, per
poter effettuare
un lavoro metodologicamente corretto, non si potrà in futuro
prescindere dal
fatto che la presente tesi, anche senza i toponimi, rimane
ugualmente valida e
pertanto avrà un inevitabile impatto sugli studi concernenti la
loro stessa origine
ed interpretazione.
Infine, la prospettiva qui individuata potrà dischiudere agli
studiosi un
nuovo, affascinante campo di lavoro, cioè lo studio comparativo
fra i termini
omerici ed i corrispondenti toponimi sparsi in tutta l'area del
Baltico e del mar
di Norvegia: per esempio, sarà diffìcile escludere "a priori"
una relazione tra i
nomi dell'attuale Tåsinge e dell'omerica Zàkynthos, anche se
ciò potrà forse
comportare l'aggiornamento di qualche regola glottologica. In
ogni caso, una
volta riconosciuta la validità della presente teoria, si
avranno a disposizione attestazioni
letterarie su toponimi e nomi di persona scandinavi più vecchi
di
millenni rispetto alle più antiche testimonianze storiche.
A questo punto facciamo un'altra piccola digressione per
sottolineare che,
nel quadro della presente tesi, non debbono sorprendere certi
fenomeni di variazione del significato di alcuni vocaboli usati
da Omero, i quali, traslati nella
dimensione greco-mediterranea da un precedente contesto
totalmente diverso,
talvolta possono aver subito un processo di "viraggio
semantico", favorito
anche dai tanti secoli trascorsi: a parte il caso della
"mirina" che spuntava
sulla collina davanti a Troia, abbiamo già incontrato i casi
delle "antolaì",
le "levate" del sole nell'isola di Circe, e dell'"amphilyke
nyx", il "chiarore
notturno" solstiziale. Così pure, l'aggettivo "hieròs", che nel
greco classico ha
il significato prevalente di "sacro", nella lingua omerica
sembra piuttosto esprimere
il concetto di "eminente", cioè grande, importante, notevole,
senza uno
specifico valore religioso: in tal modo certe locuzioni
dell'Iliade che nella traduzione
appaiono piuttosto curiose, come le "sacre mura" (IV, 378), le
"sacre
aie" (V, 499), la "sacra Ilio" (VI, 277), il "sacro drappello"
(X, 56), il "sacro
Alfeo" (XI, 726), la "sacra Citera" (XV, 432), il "sacro pesce"
(XVI, 407), il
"sacro carro" (XVII, 464), il "sacro cerchio" (XVIII, 504)
eccetera, riacquistano
un senso (nelle citazioni tuttavia continueremo a seguire la
versione tradizionale).
E altresì vero che talvolta si riscontra anche un "hierà" (ad
esempio
in Od. IV, 473) usato non più come aggettivo bensì come
sostantivo al neutro
plurale, che in questo caso ha il significato di "sacrifìci": è
un indizio del
fatto che il senso del vocabolo aveva cominciato a "virare".
Ma cosa significano certe singolari espressioni, come quella
che l'Iliade attribuisce ad Achille, "sciogliamo gli eminenti
veli di Troia" ("Troìes hierà krédemna lyomen", Il. XVI, 100)?
Per cominciare ad orientarci, osserviamo innanzi
tutto che un'espressione molto simile, e chiaramente dal
significato identico, l'Odissea la mette in bocca a Ulisse,
allorché questi si vanta di aver sciolto
"/ morbidi veli di Troia" (Od. XIII, 388). Ora, gli stessi
"morbidi veli" ("li
parà krédemna") li ritroviamo anche all'inizio dell' Odissea:
stavolta però sono
quelli che adornano il volto di Penelope, quando scende fra i
pretendenti riuniti
a banchetto. Questo ci fa comprendere che "sciogliere i veli di
una città"
stava per "conquistarla": oltre a ben inserirsi nella logica
delle kenning, era insomma
una di quelle perifrasi, a carattere più o meno scopertamente
sessuale,
a cui il linguaggio dei militari ha sempre volentieri attinto
(invece la perdita del
significato originario avrebbe in seguito fatto intendere quei
"veli", "krédemna",
addirittura come mura o bastioni115). Insomma, la città da
conquistare veniva
concupita da quei baldi guerrieri alla stregua di una tenera
fanciulla...

115 Voc. Rocci, voce "krédemnon"

Talvolta il tempo e il cambiamento di teatro hanno invece agito


in modo
diverso: ci siamo ad esempio accorti che l'"Epeiros", ovvero
l'"Epiro" omerico,
nel contesto greco è diventato un "épeiros", una "costa"
generica; così pure,
l'aggettivo "amphiélissos", riferibile alla doppia curvatura
delle navi achee,
in seguito ha assunto il senso, più astratto, di "incerto",
"oscillante". È poi particolarissimo
il caso del "corno di bue" che, secondo entrambi i poemi (Il.
XXIV, 81; Od. XII, 253), viene usato per pescare: qui potremmo
supporre che
si tratti di un antico equivoco tra i vocaboli "kéras"
("corno") e "kréas" ("carne"),
quest'ultimo facilmente riferibile all'esca attaccata all'amo
(e sarebbe
molto intrigante ricondurre un tale equivoco alla circostanza
che nella scrittura
micenea, non alfabetica ma sillabica, queste due parole
dovevano risultare
scritte pressoché allo stesso modo).
Un discorso particolare merita il vocabolo "ecatombe": sin
dall'antichità si è ritenuto che, almeno all'inizio, esso
indicasse un sacrifìcio di "cento ("hékaton")
buoi". Esaminiamo però un passo dell'Iliade: "L'Atride spinse
in mare una
rapida nave,/ scelse venti rematori, l'ecatombe ("hekatomben")/
fece imbarcare
pel dio, e Criseide dalle belle guance/ fece salire: come
comandante andò l'accorto Odisseo" (Il. I, 308-311);
successivamente, allorché la nave arrivò a
destinazione, l'ecatombe" venne sacrificata, arrostita e
consumata in un banchetto (1, 458-468). Ora, il fatto di
caricare su una nave da venti rematori ben
cento buoi, sbarcarli, ucciderli tutti e poi mangiarseli,
sembra una faccenda piuttosto
complicata e assai poco attendibile; d'altro canto, nei poemi
omerici sono
riportati anche altrove sacrifìci analoghi, effettuati con
modalità del tutto
identiche, però espressamente riferiti ad una singola vacca
(Od. III, 454-463) o
ad un toro (Il. II, 421-431; VII, 316-320). Insomma, da tutto
il contesto si evince
chiaramente che l'ecatombe" imbarcata sulla nave di Ulisse in
realtà era un 'unica vacca. Oltretutto, che questo termine non
possa essere messo in relazione
con un valore numerico così alto ce lo conferma il fatto che
Omero lo usa
anche al plurale: "teleéssas hekatòrnbas", cioè "perfette
ecatombi" (Il. II, 306).
Ma non è soltanto questione di numeri: infatti il poeta spesso
accenna ad
ecatombi di altri animali, come capre (Il. I, 315) o agnelli
(Il. IV, 120). D'altronde,
nei vocaboli che si riferiscono specificamente ai bovini, quali
"hekatòmboion" ("cento buoi", corrispondente ad un valore
commerciale, Il.
XXI, 79) o "heptabòeion" ("sette buoi", riferito al numero di
pelli su uno scudo,
Il. VII, 222), il suffisso che qualifica quello specifico tipo
di animale non è il "-be" di "hekatombe", ma "-boion" o "-
boeion". Insomma, l'ecatombe
omerica non si può mettere in relazione diretta né con i
"buoi", né con il numero
"cento" (se non, forse, per il fatto che potrebbe aver tratto
origine da
qualche antica pratica, peraltro ipotetica, quale il sacrificio
di un agnello ogni
cento nuovi nati o qualcosa del genere).
Segnaliamo invece l'affinità di "hekatombe" con il latino
"victima" (come
al solito, nel termine greco manca il digamma iniziale, reso in
latino con V), che ci illumina sul suo reale significato, ossia
"offerta sacrificale", del tutto
congruente con l'uso che ne fa Omero, ma che con i fantomatici
"cento buoi"
ha ben poco a che vedere.
Ora, il fatto che i Greci classici abbiano preso cantonate come
questa- ad
esempio, ci è stato tramandato che un'ecatombe di cento buoi
venne effettivamente
offerta agli dèi dall'ateniese Conone nel 394 a.C, dopo la
vittoria nella
battaglia di Cnido - a nostro avviso rappresenta una notevole
conferma dell'irrimediabile
estraneità fra la loro cultura e quella, lontana nello spazio e
soprattutto
nel tempo, che aveva prodotto i poemi omerici.
Che dire poi della singolare locuzione "nymphe neìs", in cui
talvolta ci
s'imbatte nell'Iliade (VI, 22; XIV, 444; XX, 384),
tradizionalmente interpretata
come "ninfa Naiade"? Se andiamo a esaminare i contesti in cui
essa appare
- il poeta la riferisce sempre a donne normalissime, madri di
soldati caduti in
combattimento - questa traduzione "classica" lascia molto
perplessi. Vale dunque
la pena di analizzare più a fondo la questione, prendendo
anzitutto in esame
una delle frasi, tutte più o meno simili, contenenti tale
espressione: ad esempio,
nell'infuriare della battaglia sotto il muro acheo, "Aiace
Oileo/ balzando
con l'asta appuntita colpì Satnio/ Enopide, che una bella
nymphe neis partorì/
al bovaro Enope in riva al (fiume) Satnoiento" (Il. XIV, 442-
445). Ora, la chiave
del problema sta nel fatto che nei poemi omerici il vocabolo
"nymphe"
spesso non significa "ninfa", bensì "sposa", "signora":
nell'Odissea Penelope
viene chiamata così (Od. IV, 743) e anche nell'Iliade "nymphe"
ha normalmente
questo significato (Il. III, 130; IX, 560; XVIII, 492) -
mantenuto anche
nel greco moderno - apparendo talvolta anche al maschile:
"nymphios", cioè "lo sposo" (Il. XXIII, 223; Od. VII, 65).
D'altronde, alla stessa radice si può ricondurre anche il verbo
latino "nubere", "sposare".
Tale significato di "nymphe" già a prima vista appare molto più
consono alla
madre di Satnio di quanto non lo fosse quello tradizionale di
"ninfa"; però ci
rimane ancora da capire il senso di quel "neìs" che accompagna
la "sposa". Anche
qui è Omero a venirci in aiuto: infatti il vocabolo "nèis", che
significa "novellino",
"inesperto" (Il. VII, 198; Od. VIII, 179), ben si adatta al
caso in questione
(rispetto all'altro "neìs" cambia solo l'accento, che in
metrica riveste scarsa
importanza). Ma ciò che, come si suol dire, taglia la testa al
toro è l'espressione
"nymphen néen", "giovane sposa", riferita a Penelope con il suo
Telemaco appena
nato. Giova riportarla per intero: "Giovane sposa ("nymphen
néen") noi la
lasciammo,/ partendo per la guerra, con al petto un bimbo/
balbettante, che adesso
siede certo tra gli uomini" (Od. XI, 447-449). Dunque Penelope
si trova nell'identica
situazione in cui l'Iliade ricorda la madre di Satnio e le
altre "nymphe
neìs": a questo punto, riteniamo assolutamente ragionevole
considerarle tutte alla
stregua di "novelle spose" - nonché madri primipare di soldati
caduti in battaglia,
come il povero Satnio - le quali, purtroppo per loro, con
quelle fantomatiche
"Naiadi" non dovevano aver proprio nulla a che vedere.
Invece il fatto che quei ragazzi fossero primogeniti aggiunge
alla loro
morte prematura un ulteriore tocco di tragicità: era questo in
realtà il messaggio
che Omero intendeva comunicare attraverso il concetto di
"nymphe neis",
ma per migliaia di anni esso è stato frainteso, trasferendo
l'immediatezza del
dramma umano nell'asettica indifferenza del mito (che poi non
di rado è finito
per diventare il comodo contenitore di elucubrazioni vacue e
insensate, su
cui magari si è continuato a ricamare per secoli senza alcun
costrutto).
E adesso, entrando ancora in un altro ambito, potremmo tentare
d'interpretare
in modo non convenzionale anche un famoso passo dell'Odissea,
che descrive
l'enigmatico "antro delle ninfe" - una grotta di Itaca, situata
accanto alla
baia dove i Feaci approdano e lasciano Ulisse - di cui qui di
seguito riportiamo una
traduzione "classica": "...Un antro ("àntron") amabile, oscuro/
sacro ("hiròn") alle ninfe ("nymphàon") che si chiamano Naiadi
("Neiàdes")./ Dentro anfore stanno
e crateri/ di pietra, e lì fanno il miele le api./ Telai di
pietra vi sono, altissimi,
dove le ninfe/ tessono manti di porpora, meraviglia a vederli"
(Od. XIII, 103-108).
Sin dall'antichità gli studiosi si sono affannati a capire il
significato di questi
versi: addirittura Porfirio, filosofo neoplatonico del III
secolo d.C, ha scritto
un'intera opera, L'antro delle Ninfe, in cui si sforza di
interpretarli in chiave esoterica
(l'antro rappresenterebbe il cosmo, ninfe ed api le anime, i
manti purpurei
il formarsi dei corpi attorno alle ossa). Ricordando le
elucubrazioni dei mitogra-fì sulla Mirina omerica- la potente
Regina delle Amazzoni, seppellita nella collina
davanti a Troia, che alla fine si è rivelata essere un più
modesto, ma forse più gradevole, cespuglio di more - proviamo a
cercare un'altra strada: anzitutto, come
abbiamo appena visto, i vocaboli "nymphe" e "hieròs" (o
"hiròs") in Omero
significano rispettivamente "sposa" ed "eminente" (ovvero
"grande", "importante").
Inoltre, quel "nymphàon" (al caso genitivo) letteralmente vale
"delle spose"
(e non "alle spose") e pertanto va preferibilmente riferito non
all'aggettivo "hiròn"
(che Omero di norma non usa per reggere un sostantivo, in linea
con la funzione
puramente aggettivale che il termine ha nei due poemi), ma
direttamente alfàntron":
insomma l'inizio del brano andrebbe in realtà inteso come
"l'antro amabile,
oscuro,/ eminente, delle spose ("nymphàon") che vengono
chiamate Neiàdes".
E le "Neiàdes"? Potrebbe forse sembrare troppo semplicistico,
ma nemmeno
l'escludiamo a priori, considerare questo termine equivalente
al "neìs"
di poco fa, anch'esso riferito ad una "nymphe": oltretutto
nell'Iliade troviamo
un "néì'da" (al caso accusativo) sempre nel senso di
"novellino" (Il. VII, 198);
in alternativa, potremmo correlarle ad un'altura chiamata
"Neio", vocabolo
che a sua volta contiene la radice di "neùs", ossia "nave",
situata proprio ad Itaca
(Od. I, 186; III, 81): insomma le nostre misteriose "ninfe
Naiadi" (o meglio,
"Neiadi"), o sono di nuovo le "giovani spose" o, in
alternativa, le "donne del
Neio, cioè di Itaca" (o, forse, "le mogli dei naviganti"), le
quali nel "grande antro",
ovvero il loro atelier vicino alla baia, attendono l'arrivo dei
loro uomini
tessendo mantelli di porpora, come quelli che indossano sia
Ulisse (Od. VIII,
84; XIX, 225), sia Telemaco (XXI, 118).
Teniamo a sottolineare che una tale interpretazione certamente
non fa torto
allo stile del poeta dell' Odissea, che proprio nelle parti
ambientate ad Itaca
si rivela particolarmente attento ai dettagli e alle piccole
cose della vita quotidiana.
In altri punti del poema, invece, le "ninfe Naiadi" appaiono
effettivamente
divinizzate: potrebbe però trattarsi dell'intervento di poeti
posteriori, i
quali avrebbero frainteso il senso originario da attribuire a
quell'immagine così
realistica - e, se vogliamo, anche un po' romantica - delle
donne itacesi che
nella grotta tessono alacremente sui loro telai di pietra,
aspettando il ritorno dei
propri mariti.
Infine, notiamo i "telai di pietra" ("histoì lìtheoi"): essi ci
attestano l'estrema
arcaicità non soltanto di questo passo ma anche,
indirettamente, del nucleo
primigenio dei poemi omerici, così antico che il reale
significato di certe
espressioni, tra cui quelle che qui abbiamo cercato di
ricostruire nel loro senso
originario, già in epoca classica era andato perduto.
Sottoponiamo infine all'attenzione degli specialisti quello che
a nostro
avviso è un altro probabile caso di fraintendimento, dalla cui
discussione, come
vedremo, emergerà un aspetto che potrebbe rivelarsi di
specifico interesse
per l'archeologia. Ci riferiamo ad un particolare "oggetto",
che gli eroi omerici
talora impiegano come arma durante le battaglie e che è in
grado di produrre
ferite devastanti, soprattutto da taglio: esso in greco viene
denominato
"chermàdion", vocabolo che viene normalmente tradotto come
"pietra" o "macigno".
Tuttavia
i "chermadi" (d'ora in poi, per comodità, talvolta
"italianizzeremo"
il termine greco) forse non sono pietre qualsiasi: infatti
Omero per indicare
queste ultime utilizza sempre altri termini, quali "pétre",
"låas" o "lìthos";
lo vediamo, ad esempio, in un caso in cui Patroclo usa come
arma proprio un
grosso sasso: "Balzò a terra dal cocchio,/nella sinistra
tenendo l'asta; con l'altra
mano afferrò una pietra ("pétron")/ lucente, aspra, che la sua
mano tutta avvolgeva,/
e la lanciò con forza (...)/ colpì l'auriga d'Ettore,/ Cebrione
(...)/ in
fronte col sasso ("lai'") puntuto:/ sfondò i due sopraccigli il
selcio ("lìthos")"
(Il. XVI, 733-740: è ben chiaro perché Patroclo non tiri la
lancia: se la tiene ben
in serbo per difendersi da Ettore, che sta sopraggiungendo a
sua volta, e intanto
approfitta di quella pietra a portata di mano per mettere fuori
combattimento
l'auriga avversario). Qui nel giro di pochi versi Omero
ricorre, per indicare il
sasso "che la mano avvolgeva", a tutti e tre i sinonimi appena
menzionati: non
vi è alcun accenno al "chermàdion".
Ora, qualunque cosa fosse un tale "oggetto", esso era
certamente in grado
di produrre ferite gravissime: infatti, mentre il mirmìdone
Epigeo cercava di
impadronirsi del corpo di Sarpedone, appena ucciso da Patroclo,
"lo colpì Ettore/
al capo con un chermadio; il capo si spaccò in due/ nell'elmo
robusto; prono
sul cadavere/ cadde" (Il. XVI, 577-580). Così pure
Diomede, attaccato da Enea mentre era privo della sua lancia,
che aveva appena scagliato su Pandaro,
"prese un chermadio/ (...) che non porterebbero in due,/ quali
sono ora i mortali;
egli senza fatica lo roteava da solo;/ colse con esso Enea
sull'anca (...)/ gli fracassò
il cotila e gli spezzò due tendini,/ la pietra scheggiata
("trechys lìthos")
stracciò la pelle: e l'eroe/ cadde, e rimase in ginocchio,
puntando la mano forte/
contro la terra; un'ombra buia gli coprì gli occhi" (Il. V,
302-310).
L'accenno alla "pietra scheggiata" - che evidentemente si
riferisce all'estremità
contundente dell'arma - è molto significativo; infatti, i
chermadi normalmente
producono ferite da taglio, come notiamo anche in altri casi:
ad
esempio, Patroclo "colpì Stenelao, caro figlio di Itemene,/ al
collo con un chermadio,
e gli spezzò i tendini" ("rèxen ténontas"; Il. XVI, 586-587);
l'epeo "Dio
re Amarincide/ fu colto presso il tallone da un chermadio
(...)/ entrambi i tendini
e l'ossa la pietra senza pietà/ gli fracassò di colpo" (Il. IV,
517-518; 521-522);
Ettore "un chermadio afferrò con la mano,/ mosse dritto su
Teucro: il
cuore lo spingeva a colpire./ Tolse l'altro dalla faretra un
dardo amaro/ e lo incoccò
sul nervo. Ma Ettore elmo lucente,/ mentre il nervo tirava,
alla spalla,
dov'è la clavicola/ a dividere il collo dal petto, punto molto
opportuno,/ qui con
la pietra scabra lo colpì nel suo slancio/ e spezzò il nervo
("rèxe neurén"). S'intormentì
il braccio al polso,/ egli piombò in ginocchio..." (Il. VIII,
321-329).
Dunque non si tratta di semplici massi, che di certo non
procurano ferite
da taglio, ma di armi vere e proprie (anche se gli eroi omerici
le usano solo saltuariamente,
e tra poco ne capiremo il perché): ne troviamo la conferma in
un
verso dell'Iliade dove, a proposito di Aiace, si afferma che
costui non avrebbe
ceduto davanti a nessun uomo "piagabile con il bronzo e con i
grandi chermadi"
(Il. XIII, 323); ciò risulta ancora più chiaramente da un altro
passo, in
cui vediamo Agamennone che "tentava file d'altri guerrieri,/
con asta e spada
e grandi chermadi" (Il. XI, 264-265).
Quest'arma, atta sia ad esser lanciata, sia al corpo a corpo, e
con una parte
in pietra tagliente, a questo punto ci sembra ragionevole
identificarla con uno
strumento diffusissimo presso tutte le culture arcaiche:
l'ascia dì pietra. Non
a caso, infatti, nell'Odissea ritroviamo i chermadi nelle mani
dei Lestrigoni,
che li scagliano contro gli uomini di Ulisse "dall'alto dei
picchi" (Od. X, 121):
vi è un curioso effetto "western" in questa scena, che in
qualche modo evoca
i pellerossa appostati con i loro tomahawk sull'orlo del
canyon; d'altronde,
nella descrizione omerica i Lestrigoni appaiono primitivi e
selvaggi, un po'
come i "cattivissimi indiani" di John Ford, e l'ascia di pietra
ben si attaglia ad
un siffatto cliché.
Anche le altre circostanze in cui tale arma viene menzionata
sembrano
confermarci tale interpretazione: ad esempio Enea, rimasto
senza lancia, sotto
l'incalzare di Achille che lo stava attaccando con la spada,
per difendersi "afferrò
in mano un chermadio" (Il. XX, 285). Enea qui ha bisogno di
un'arma per
una difesa rapida, d'emergenza: ed il gesto d'impugnare
un'ascia, forse perduta
da qualcuno sul campo di battaglia, è perfettamente congruo con
lo svolgimento
dell'azione. D'altronde ci siamo resi ben conto, in particolare
nell'esempio
di Patroclo che abbatte Cebrione, del realismo con cui Omero
suole raccontare
le fasi salienti dei duelli fra i suoi campioni.
E a questo punto riusciamo anche a visualizzare perfettamente
il gesto
atletico di Aiace, che "mentre si ritirava/ (...) un chermadio
- che molti, ritegni
delle rapide navi,/ rotolavano fra i piedi dei combattenti -
uno alzandone,/ colpi
Ettore al petto, sopra l'orlo dello scudo, presso la gola;/ lo
roteò come trottola,
lo scagliò e quello corse" (Il. XIV, 409-413). L'effetto è
devastante: "Piombò a terra di colpo Ettore nella polvere/
(...) tutti intorno tesero sopra di lui gli
scudi rotondi; i compagni/ alto sopra le braccia lo trassero
dalla mischia (...)/
Ma quando giunsero al guado del fiume (...)/ qui dal carro lo
posero a terra, acqua
gli spruzzarono addosso; e lui rifiatò, si guardò attorno;/
stando sulle ginocchia
vomitò sangue nero;/ poi di nuovo supino scivolò in terra; e
gli occhi/
nera notte coperse" (XIV, 418; 427-429; 433; 435-439).
Notiamo che, all'inizio di questo episodio, Omero ci dice che i
chermadi
erano utilizzati come "ritegni ("echinata") delle rapide navi"
(Il. XIV, 410): il
particolare è illuminante, se lo accostiamo a quanto l'Odissea
ci dice a proposito
delle scuri di Ulisse, bersaglio della gara con l'arco: "Le
scuri, che lui nel
suo palazzo piantava/ in fila, come sostegni di chiglie
("dryòchous"), dodici in
tutto" (Od. XIX, 573-574). Ciò conferma che il "chermàdion" era
una primitiva
ascia di pietra: infatti le scuri sono definite "sostegni di
chiglie" e ciò le pone
in diretta relazione sia con i chermadi "ritegni delle navi",
sia, soprattutto,
con i graffiti rupestri della Scandinavia, dove il binomio
navi-asce è frequentissimo.
D'altronde anche la menzione delle scuri da parte dell'Iliade,
sempre
in relazione ad una gara con l'arco, ha un aggancio diretto con
la navigazione:
si tratta dell'albero della nave a cui viene assicurata la
cordicella che trattiene
la colomba-bersaglio (Il. XXIII, 852).
Per inciso, la relazione tra navi ed asce potrebbe aver avuto
un'origine
estremamente concreta e pratica: gli antichi navigatori
all'occorrenza dovevano
sapersi immediatamente trasformare in boscaioli e carpentieri,
sia per effettuare
interventi d'emergenza sulle imbarcazioni eventualmente
danneggiate,
sia, al limite, per costruirsi una zattera, come fa Ulisse
nell'isola Ogigia per
poter tornare a casa: insomma le asce dovevano essere gli
attrezzi più importanti
in dotazione ai marinai della preistoria per fronteggiare certe
situazioni,
un po' come oggi avviene per i vigili del fuoco (nel medioevo
sulle navi più grandi era espressamente richiesta la presenza
di un "maestro d'ascia").
In ogni caso, l'ipotesi di identificare gli omerici chermadi
con asce di pietra
si inserisce perfettamente nel contesto baltico anche per
un'altra ragione:
nell'archeologia scandinava questi
manufatti hanno un posto di primo piano data la frequenza con
cui s'incontrano in sepolture databili proprio all'epoca
precedente all'arrivo degli Achei nel Mediterraneo. Addirittura
gli archeologi
parlano di un "popolo delle asce da combattimento": esse sono
in pietra, spesso
di foggia significativamente simile a quelle, in bronzo,
dell'età micenea in
Grecia. Ora, tutto ciò s'inquadra a meraviglia nella maggiore
arcaicità del mondo
omerico rispetto a quello miceneo, ormai acclarata dagli
studiosi.
E ancora adesso le antiche asce di pietra vengono comunemente
denominate
"pietre", sia pure con un determinativo: ad esempio, "pietre
del fulmine"
o "pietre del tuono" (in inglese "thunderstones"; i contadini
danesi, che le
trovano di frequente nei campi, le chiamano talvolta "pietre di
Zebedeo", o
con nomi similari116). Si potrebbe così spiegare perché, in
tempi postomerici,
al termine "chermàdion" sia rimasto agganciato il significato
di "pietra" (curiosamente,
nell'attuale lingua finnica il vocabolo che significa "pietra",
"kivi",
appare molto simile a quello che indica fascia", "kirves").
Sempre riguardo
al "chermàdion" e ad un altro vocabolo ad esso affine, "chérma"
(che,
secondo i vocabolari, sono praticamente sinonimi), sarebbe
suggestivo correlarli
entrambi con il greco "cheìr", "mano", con riferimento al
"manico" dell'ascia:
successivamente essi, nel corso dei secoli, potrebbero avere,
per così dire, "virato" sul significato dell'altro componente
dell'oggetto, cioè la pietra
tagliente all'estremità dell'ascia stessa (d'altronde anche in
italiano il termine
"mannaia", che indica la scure del boia, è riconducibile al
latino "manus", "mano"117).

116 de Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto, pag.


274
117 Vocabolario Treccani, voce "mannaia"

Ci sembra poi naturale accostare "chérma" nonché, ovviamente,


"chermàdion" al norreno "hamar", che in effetti vale "ascia" o
"martello" (in
inglese "hammer").
In definitiva, mentre i maggiorenti dei due eserciti schierati
davanti a
Troia usavano il carro da guerra e le armi di bronzo, di gran
valore, e ricorrevano
ai chermadi solo saltuariamente od in casi di emergenza,
possiamo supporre
che la massa dei soldati semplici - a cui il poeta néll'Iliade
accenna ben
di rado: è l'anonima "folla" che "non dirò, non chiamerò per
nome" (II, 488)
- combattesse a piedi, armata alla leggera, spesso con quelle
rudimentali asce
di pietra, non di rado fatte imitando (ahi la vanità umana) le
ben più pregiate
scuri metalliche (peraltro vi erano alcuni contingenti che
dovevano essere certamente
meglio equipaggiati, ad esempio i Mirmidoni, il cui micidiale
schieramento
a falange presuppone un'armatura completa). D'altronde, anche
in
Grecia e nella Roma antica, molti secoli dopo, la tipologia
delle armi dei singoli
cittadini sarebbe spesso dipesa dal censo. Tornando al mondo
omerico,
mentre le preziose, e costose, armi di bronzo (quelle indossate
da Diomede valevano "nove buoi", Il. VI, 236) normalmente dai
padri passavano ai figli - ad
esempio, quelle che Achille diede a Patroclo per il
contrattacco notturno gli erano
state trasmesse dal padre, il quale "al figlio le diede/ da
vecchio" (Il. XVII,
196-197) - è del tutto ragionevole ammettere che i meno
abbienti fossero sepolti
con le loro povere asce, retaggio di un'epoca precedente
(nonché indizio
dell'arcaicità del mondo omerico, proprio come lo sono i "telai
di pietra" che
poco fa abbiamo trovato nelfantro delle ninfe" di Itaca).
D'altronde, i fenomeni di arcaismo non sono inconsueti
nell'archeologia
scandinava e, nel caso in questione, sono stati indubbiamente
favoriti dalle oggettive
difficoltà di approvvigionamento dei metalli: come ci dice la
Laviosa Zambotti, nel nord dell'Europa "l'amore per gli
strumenti ben levigati di pietra
dura risale ai più lontani tempi del neolitico, mentre la
deficienza del metallo
contribuì ulteriormente ad accrescere l'industria imitativa
svolta su preziosi
strumenti metallici"118.

118 Laviosa Zambotti, Le più antiche civiltà nordiche, pag. 226

Insomma, a questo punto non si può escludere che quell'ignoto


popolo
delle asce da combattimento - che, secondo gli studiosi, era
quasi sicuramente
indoeuropeo119 - parlasse una lingua greca arcaica e che tra le
sue gesta,
perdute nei millenni, vi siano state anche quelle immortalate
nella poesia di
Omero.
E sul fondo limaccioso del Kirkkojàrvi, il lago antistante a
Toija, che ricopre
quella "piana" dove caddero tanti eroi, forse giacciono ancora
gli antichi
chermadi con cui i fanti dei due eserciti, dimenticati dal
poeta, si davano
battaglia nelle furibonde mischie "fra le correnti di Simoenta
e di Xanto": dopo
quattromila anni, essi attendono che l'archeologia li riporti
alla luce.

119 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pag. 26

Ci resta ora, per concludere l'esame del contesto troiano, di


analizzare le
sue corrispondenze con le isole adiacenti a quest'area della
Finlandia meridionale:
Omero ne menziona diverse non lontane dalla Troade, tra cui due
in
particolare, Lemno e Chio, collocate rispettivamente sui
percorsi di andata e di
ritorno della flotta achea. Sarà questo l'argomento del
prossimo capitolo.
X.

LEMNO, SAMOTRACIA, CHIO E CIPRO

"Vennero navi da Lemno, cariche di vino;/ numerose, che Euneo


Giasonide
aveva mandato;/ Euneo, che Issìpile concepì da Giasone pastore
di forti./
A parte agli Atridi, Agamennone e Menelao,/ vino offriva il
Giasonide, mille
misure./ Gli altri Achei lunghi capelli acquistarono il vino,/
chi col bronzo e chi
con acciaio lucente,/ chi con pelli e chi con vacche vive,/ e
chi con schiavi; e
fecero ricco festino" (Il. VII, 467-475). Da questo vivacissimo
passo deduciamo
subito che la Lemno omerica non doveva essere molto distante
dalla Troade,
se il re Euneo, figlio del mitico Giasone, poteva tenere
contatti tanto stretti
con i capi dell'esercito acheo impegnati nella guerra. Ma tale
isola era anche
il luogo in cui gli Achei avevano sostato durante il viaggio di
avvicinamento a
Troia e dove, allorché ripartirono, furono costretti a lasciare
Filottete, "che
spasimava per piaga maligna di serpente funesto" (Il. II, 723):
si tratta di un episodio
che, prescindendo dai ricami dei mitografì posteriori,
probabilmente si
riferisce a un fatto reale: anche adesso, malgrado il clima sia
più rigido di allora,
nelle isole baltiche le vipere non mancano, E un altro accenno
a quella sosta
lo ritroviamo in un duro rimprovero di Agamennone ai suoi, i
quali, in un
momento critico della battaglia in difesa delle navi, stavano
perdendo terreno
sotto l'incalzare dei Troiani: "Vergogna, Argivi, infami
vigliacchi, valorosi solo
di aspetto,/ dove sono quei vanti, che d'essere eroi dicevamo?/
Che invano
un tempo a Lemno andavate cianciando/ molte carni di buoi
mangiando/ e bevendo
le tazze coronate di vino?" (Il. VIII, 228-232). Insomma il
figlio di Giasone
onorava alla grande l'amicizia con i potenti capi achei;
notiamo, al solito,
la ferrea coerenza interna dell'Iliade, che non si smentisce
neppure nei dettagli
più minuti.
Notiamo che le vanterie dei guerrieri ubriachi le ritroviamo
nel Beowulf (vv. 480-483), in una scena del tutto analoga a
quella così vividamente rievocata
dall'agitatissimo Agamennone (nel cui atteggiamento ci sembra
di rivedere
i tratti tipici di certi allenatori che si agitano sulla
panchina mentre la loro squadra
sta subendo la pressione degli avversari).
Osserviamo ora che l'Iliade menziona insieme Lemno e Imbro
(XIV,
281), Samo e Imbro (XXIV, 78) e anche Samo, Imbro e Lemno
(XXIV, 753),
le quali pertanto sembrano tutte far parte della medesima area:
vedremo tra
poco che la "circolarità", per così dire, con cui Omero ci
parla delle tre isole,
trova effettivamente riscontro nelle loro posizioni reciproche.
In particolare, ecco
un significativo passaggio del lamento funebre di Ecuba sul
corpo di Ettore:
"Altri figlioli miei il piede rapido Achille/ vendette, come li
prese, di là dal
mare mai stanco,/ a Samo, a Imbro, a Lemno fumante" (Il. XXIV,
751-753). Ritorna
qui il tema del traffico degli schiavi prigionieri di guerra,
già intravisto
in precedenza; e, a questo punto, saremmo quasi indotti a
sospettare che tra le
ragioni della liberalità dell'astuto Euneo nei riguardi degli
amici Achei, e degli
Atridi in particolare, vi fosse anche la prospettiva dei
lucrosi affari connessi
con il vicino conflitto. Ce lo conferma la stessa Iliade,
allorché ci racconta
la vicenda di Licaone, figlio di Priamo, che Achille fece
prigioniero, poi "lo
portò a Lemno ben costruita/ per nave, e lo vendette, lo comprò
il figlio di Giasone:/
là un ospite lo liberò e pagò molto" (Il. XXI, 40-42). En
passant, latratta
degli schiavi era un fenomeno diffusissimo anche nel mondo
vichingo: i
mercanti nordici si distinguevano particolarmente proprio in
questo "settore
merceologico", che garantiva lauti profitti120.

120 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 323

Esaminiamo ora la carta geografica: sulla costa della Svezia


prospiciente
la "Troade" finlandese, proprio nel punto dove la distanza fra
le due sponde
si fa più esigua, si apre la baia di Norrtälje, che viene
naturale identificare
con la Aulide da cui salpò la flotta achea (anche se la linea
del litorale anticamente
era forse più arretrata, in realtà nulla cambia ai fini del
ragionamento:
sicuramente la morfologia della costa doveva essere altrettanto
frastagliata anche
allora). Qui il passaggio alla riva opposta è ulteriormente
facilitato dalla
presenza dell'interposto arcipelago delle Åland, tra cui
un'isola, Lemland, nel
suo nome conserva ben evidente il ricordo della Lemno omerica.
Non a caso,
molti dei traghetti che dalla costa svedese si dirigono alla
volta di Turku, in Finlandia
(qui non siamo lontani dalla zona dove, in una notte di
settembre del
1994, si consumò la tragedia dell'"Estonia", affondato con
quasi mille passeggeri),
partono da Kapellskär, vicino Norrtälje, e fanno uno scalo
intermedio
a Mariehamn, nelle Åland: in tal modo ripercorrono praticamente
la stessa rotta
della flotta achea da Aulide a Troia, con il piacevole
intermezzo di Lemno.
Notiamo anche che nel territorio di Lemland esiste una località
chiamata Flaka,
la quale ricorda il nome dell'attuale città di Plaka, nella
Lemno mediterranea.
Prima di passare all'individuazione, sempre nell'ambito delle
Åland, delle
isole contigue alla Lemno omerica, ci soffermeremo ancora su
quest'ultima,
che all'epoca doveva rivestire una notevole importanza, se il
suo re era il figlio
del grande Giasone: non a caso, essa viene citata in ben sette
libri dell' Iliade. Tra l'altro vi è ambientato il mito di
Efesto scaraventato da Zeus giù dall'Olimpo:
"(Zeus) presomi per un piede mi gettò dalla soglia sacra;/ e
tutto un
giorno piombai; ma al tramonto del sole/ caddi in Lemno: e poco
avevo ancor
di respiro./ Là mi raccolsero subito i Sinti, appena caduto"
(Il. I, 591-594).
Questo racconto, se da un lato sembra riferirsi all'origine
meteorica del ferro,
dall'altro, considerando che i miti non di rado
sembrano racchiudere diversi significati
non alternativi ma complementari, forse si può anche leggere in
chiave "solare": il dio che attraversa il cielo per "tutto un
giorno" e tocca terra "al
tramonto del sole" è il sole stesso, che è in effetti
ricollegabile con le operazioni
metallurgiche (il fabbro nel suo crogiolo produce una colata di
metallo incandescente,
ossia una sorta di "piccolo sole").
Anche l'Odissea accenna ai rapporti tra il dio fabbro e Lemno,
la quale
"gli è carissima sopra tutte le terre" (Od. VIII, 284):
quest'ultimo verso è tratto
dal passo in cui Efesto tende il celebre (e classico) tranello
alla moglie Afrodite
e al suo innamorato Ares: fìnge di partire, l'altro abbocca,
corre a raggiungere
la sua bella e le annuncia: "Non è più Efesto fra noi, ma forse
a quest'ora/ è già a Lemno, fra i Sinti dal rozzo linguaggio"
(Od. VIII, 293-294). Per
inciso, questa è l'unica citazione di Lemno da parte del poeta
nell'Odissea, per di più riferita ad un contesto esclusivamente
mitologico e non reale: il mondo
di Itaca è assai distante dall'area troiana. Nel seguito
dell'episodio, i due
amanti sul più bello resteranno avviluppati in una rete
"sottile come fili di ragno"
(VIII, 280), apprestata dall'ingegnoso marito, che
improvvisamente scatta
imprigionandoli al letto: a proposito di questa rete, secondo
il Graves, "pare
che le sacerdotesse di Afrodite la indossassero durante le
feste di primavera:
così pure facevano le sacerdotesse della dea scandinava Holle o
Gode, a calendimaggio"121.

121 Graves, / miti greci, 18.1

Riguardo al significato di questo racconto, qui suggeriamo


che esso sia riconducibile all'attività degli antichi
metallurgi operanti nell'isola: ci sembra infatti un'elaborata
metafora del processo della fusione dei metalli
e, in particolare, del momento in cui sul fondo del crogiolo il
fabbro, rappresentato
da Efesto, ritrovava "intrappolati" insieme il rame, cioè
Afrodite, ed il
ferro, simboleggiato da Ares.
Osserviamo altresì che entrambi i poemi in connessione con
Efesto e
Lemno menzionano i misteriosi Sinti, mitici abitanti di quei
luoghi (Il. I, 594;
Od. VIII, 294): costoro dovevano essere legati ai misteri della
metallurgia, ed
invero dovrebbe far riflettere il fatto che questo stesso nome
di "Sinti" designi
attualmente una particolare tribù di zingari, i quali
tradizionalmente sono calderai
e metallurgi.
Inoltre Omero definisce Lemno "fumante" ("amichthalòessan"; Il.
XXIV,
753), probabilmente in relazione all'attività dei fabbri; così
la Lemno greca
viene da Polibio chiamata "Aithàle", che esprime lo stesso
concetto: il fatto che
però non vi si trovi alcun minerale tale da giustificare
un'attività estrattiva è un
ulteriore indizio che l'isola dell'Egeo sia non l'"originale",
bensì la trasposizione
mediterranea della Lemno baltica.
Per inciso, anche l'isola d'Elba, dove gli Etruschi avevano
installato un
rilevante numero di forni fusori del ferro, veniva chiamata
anticamente con lo stesso nome: "Aithàleia" o "Aithalìa", cioè
"la Fumante" (o "l'Ardente", dal
verbo "aìthein"); in Omero è attestata la forma "aithalòe" (Il.
II, 415). A questo
punto, ci sembra ragionevole avanzare l'ipotesi che la stessa
etimologia
del nome "ITALIA" sia riconducibile, piuttosto che ad
improbabili vitelli, ad un
termine uguale o similare, con trasparente riferimento
all'attività dei vulcani attivi
nella parte meridionale della penisola, cioè proprio là dove è
sorto questo
nome - che in Grecia non esistevano. Insomma, per i nostri
antichi vicini
l'Italia sarebbe stata, giustamente, "la terra che fuma".

E adesso è legittimo chiedersi se l'omerica Samotracia, vicina


a Lemno,
non sia eventualmente identificabile con l'isola Åland, la
maggiore dell'arcipelago,
contigua a Lemland. Un indizio è il toponimo Sàlis, che ricorda
il nome
dell'antica città di Sale nella Samotracia greca, mitica sede
dei misteri della
metallurgia e del culto dei Kabiri (per i quali nel seguito
faremo riferimento
agli studi del Kerényi122 e del Pettazzoni123). Ma nei toponimi
di Åland si trovano
anche altri indizi di questi riti misterici: ecco infatti
Hammarland e Hammarudda
("hammare" in lingua svedese significa "martello", trasparente
allusione
alle attività metallurgiche); Kasberg, che ricorda il "koes",
appellativo del
sacerdote samotracio dei culti kabirici; Emkarby e Ödkarby
("by", che in lingua
svedese significa "villaggio", è un suffisso comune nei
toponimi locali) la
cui radice "kar" è forse riconducibile al termine greco
"kàeira", variante di
"kabeira".
122 Kerényi, / misteri dei Kabiri (contenuto in Miti e
misteri)
123 Pettazzoni, Le origini dei Kabiri nelle isole del Mar
Tracio

Appare inoltre significativo il fatto che alcuni toponimi


affini a quelli di
Åland si riscontrano anche nei dintorni della "Tebe" baltica -
che, come vedremo,
forse si identifica con Täby, cittadina nei pressi di Stoccolma
- in linea
con la tradizione kabirica dell'antica Tebe beotica, presso cui
fioriva un
santuario misterico dedicato a queste divinità: ecco infatti
Karby; ecco Hammarby,
"paese dei martelli"; ecco Lovön, piccola isola nell'area di
Stoccolma,
che potrebbe ricordare Lebadeia (l'attuale Livadhià greca),
centro kabirico
nei pressi di Tebe; ecco Axala, 50 km a sud-ovest della
capitale svedese, che
ha qualche assonanza col nome kabirico "Axieros"; ecco persino
una "Kairo",
la cui somiglianza con "kàeira" appare notevole. Va notato
inoltre che, in questa
localizzazione, fra Samotracia-Åland e Tebe-Täby esiste una
contiguità geografica che rende conto della comune tradizione
kabirica; invece le località
greche corrispondenti risultano tra loro molto distanti. Al
solito, la mitologia
greca si accorda molto meglio con la geografìa baltica che con
quella
mediterranea.
Ma non si tratta soltanto di una questione di toponimi (la cui
attendibilità va sempre considerata con le dovute riserve);
esaminiamo infatti alcuni passi,
estratti dall'acutissimo saggio del Kerényi sull'argomento, in
cui si avvertono
gli echi di un'arcaica dimensione nordica, con paesaggi
palustri ed uccelli acquatici
di origine artica: "In Eleusi (...) lo scenario primordiale di
tutta la vicenda
misterica, coi suoi uccelli palustri, è andato sommerso. Ne
rimaneva un
ricordo nella Beozia, riferito a Persefone stessa: si
raccontava come essa giocasse
con un'oca in una grotta presso Lebadeia, dove - come in tanti
altri luoghi
- sarebbe avvenuto il ratto. Ed a questa forma del mitologema
corrisponde
il fatto che su un vaso rinvenuto nel vicino Kabirion - il
santuario dei Kabiri
presso Tebe - alle dee che cercano la rapita, Demeter e l'alata
Hekate Angelos,
viene dato per attributo a ciascuna un uccello acquatico". Il
Kerényi,
che in precedenza aveva effettuato suggestivi accostamenti tra
i cigni ed il culto
di Eleusi, prosegue soffermandosi sui ritrovamenti fatti nel
santuario dei
Kabiri presso Tebe, fra cui soprattutto "vasi con
raffigurazioni caratteristiche
(...) Il gruppo più caratteristico risale almeno alla seconda
metà del V secolo
a.C; i motivi delle raffigurazioni sono certamente più antichi:
gli uccelli palustri
- dalle gambe lunghe e corte - che ne fanno parte, continuano
una tradizione
arcaica". Ed ancora: "Il culto segreto, per coloro che lo
conoscevano,
era opera di una femminilità primordiale incarnata nella dea
'Cicogna'"124. Da
tutto ciò emerge nitidamente la sensazione della tenace
persistenza di un'antichissima
tradizione di origine settentrionale, che i lunghi secoli di
permanenza
nella calda e arida dimensione mediterranea non sono riusciti a
scalzare.
D'altronde lo stesso Kerényi, nel soffermarsi su un altro mito
in cui affiorano
temi analoghi, quello della nascita di Elena da un uovo di
uccelli di palude, non
esita a tracciare un esplicito parallelo con le leggende dei
"popoli fìnno-ugri
della Russia".

124 Kerényi, Miti e misteri, pagg. 175-181


125 Kerényi, Miti e misteri, pag. 36

Tornando a Samotracia, Virgilio riporta una tradizione secondo


cui Dardano,
antenato di Enea, avrebbe sostato colà (Eneide VII, 208);
inoltre, sulla
base di quanto abbiamo già visto nel capitolo dedicato alla
Frigia, tenuto anche
conto di quel toponimo "Salis" di Åland, isola affacciata
davanti alla "Frigia"
baltica, forse andrebbe presa in attenta considerazione la
tradizione romana
che vuole il collegio dei Salii (sacerdoti danzatori in armi,
anch'essi presumibilmente
riconducibili ai misteri metallurgici) fondato da un certo
Salio,
di origine Samotracia, compagno di Enea.
Ma ora è giunto il momento di esaminare il più importante dei
passi che l'Iliade dedica a quest'isola (invece il poeta
dell'Odissea non ha mai occasione di menzionarla, forse anche
perché è molto lontana dal suo mondo, come
d'altronde lo era Lemno): siamo all'inizio del libro XIII,
allorché i Troiani dilagano
nel campo acheo, dopo aver sfondato il muro (è il pomeriggio
precedente
alla "notte funesta": Patroclo non è ancora entrato in azione).
Qui troviamo
il dio Poseidone preoccupatissimo per l'evolversi della
battaglia, in
grande apprensione per la sorte dei suoi Achei incalzati fin
sotto le navi: "Egli
sedeva attento alla guerra e alla lotta,/ in alto, sulla più
eccelsa cima della selvosa
Samo/tracia" (XIII, 11-13).
L'accenno alla "più eccelsa cima di Samotracia" è perfettamente
in linea
con l'orografìa dell'arcipelago, nell'ambito del quale gli
unici rilievi di qualche
entità si trovano proprio ad Åland; tra questi il più
importante è l'Orrdalsklint
(129 m, altezza che, come abbiamo già notato, nel mondo baltico
non è trascurabile), situato sul versante orientale, in
direzione della Finlandia: esso è pertanto identificabile con
la "tribuna" dalla quale il dio del mare seguiva la
drammatica "partita" in corso fra Achei e Troiani. Zeus invece,
come abbiamo
già visto, osservava la battaglia dal lato opposto, cioè dalla
cima del Gargaro,
nell'Ida, "dov'è il suo sacro recinto" (Il. VIII, 48).
Proprio nell'area circostante l'Orrdalsklint sono state
rinvenute tracce antichissime
della presenza umana, databili addirittura al 6000 a.C. (e
accuratamente
ricostruite sul posto): ecco la conferma che l'arcipelago è
stato abitato
fin da tempi remoti. E, da quanto ci dice l'Iliade, è
ragionevole supporre che,
nella prima età del bronzo, sulla cima sorgesse un santuario
dedicato al dio del
mare: d'altronde, la posizione del luogo si presta
magnificamente a tale scopo.
Un'amena passeggiata per un piacevole sentiero, facilitata da
una scala in ferro
nel punto più erto, conduce fino alla vetta. Da qui si gode un
panorama
straordinario: da un lato, lo sguardo abbraccia tutta la
superficie dell'isola; dall'altro,
verso oriente, può spaziare sulle miriadi di isole e isolette
disseminate
nel tratto di mare - il "largo Ellesponto" - che si estende
nella direzione della
costa finlandese. Un brivido di emozione corre al pensiero che,
migliaia di anni
fa, lo stesso poeta dell'Iliade dovette arrampicarsi fin
quassù, sulla "più eccelsa
cima di Samotracia", per ammirare questo magnifico paesaggio, e
ne restò
colpito al punto da volerne lasciare una traccia nel suo
poema... Forse meno
suggestiva, ma altrettanto importante, è la constatazione che
nel territorio
di Åland si riscontrano tracce specifiche dell'epoca che ci
interessa: in particolare,
in un'altura nel nord dell'isola è stato individuato un sito
fortificato
("Fornborgen"), risalente all'età del bronzo, su un lato del
quale sono tuttora
visibili i resti di antiche mura formate da grosse pietre
sovrapposte.
L'identificazione dell'isola Åland con Samotracia a questo
punto rende
per così dire automatica quella del Golfo di Botnia - che per
l'appunto ha inizio
all'altezza delle Åland - con il Mar Tracio omerico, il cui
corrispondente
mediterraneo risulta effettivamente situato verso l'estremità
settentrionale
dell'Egeo (d'altronde, è il logico pendant della corrispondenza
tra il Golfo di Finlandia
e l'Ellesponto). Ce lo conferma un passo dell'Iliade in cui
viene espressamente
menzionato il Mar Tracio, attraversato da Borea e Zefiro, cioè
il vento
del nord e quello dell'ovest, che scendono nella Troade per
attizzare le fiamme
del rogo di Patroclo (Il. XXIII, 208-230): si tratta dunque di
un mare situato
a nord-ovest di Troia, il che coincide esattamente con
l'orientamento del Golfo
di Botnia rispetto all'area di Toija.
Diventa altresì agevole identificare anche la posizione della
Tracia "dalle
fertili zolle", da cui proviene un contingente di alleati dei
Troiani (Il. II, 844):
poiché da un lato l'eroe Ifidamante, partito da lì e diretto a
Troia, deve viaggiare
per mare (Il. XI, 221-230), dall'altro Omero accenna al "vino,
che le navi dei
Danai/ ogni giorno dalla Tracia sul largo mare ("ep'euréa
pònton") trasportano"
(Il. IX, 71-72) per rifornire l'accampamento acheo, se ne
deduce che la Tracia
omerica si trovava sul lato occidentale del Golfo di Botnia,
lungo l'attuale costa
della Svezia centro-settentrionale. Tale regione doveva
estendersi per un
certo tratto anche verso l'interno, perché l'Iliade menziona
anche "i monti nevosi
dei cavalieri traci" (XIV, 227): in effetti, mentre il versante
finlandese del
Golfo di Botnia è generalmente quasi pianeggiante, quello
opposto è marcatamente
più montuoso. E nel nome del villaggio svedese di Trekilen,
situato nell'entroterra
del Golfo, 40 chilometri a nord di Östersund, sarebbe
suggestivo
supporre che si conservi ancora il ricordo dei bellicosi Traci
omerici.
In tale quadro, acquista un significato ben preciso la
circostanza che nell'Edda
di Snorri (Prologo, cap. 3) la dimora del dio nordico Thor,
chiamata
"Thrùdhheimr", ossia "il Paese della forza", venga identificata
con la regione
della Tracia ("Trakja").
Non è pertanto un caso che Omero ponga spesso la Tracia
direttamente in
relazione con Ares, il dio della guerra: ecco che "entra in
battaglia Ares flagello
degli uomini,/ cui il Terrore, suo caro figlio, forte ed
impavido,/ tien dietro
(...)/ e marciano in armi dalla Tracia verso gli Efìri" (Il.
XIII, 298-301); in un
altro episodio, nel corso della prima battaglia dell'Iliade,
"Ares funesto venne
a spinger le file troiane/ e sembrava Acamante, il capo veloce
dei Traci" (Il. V,
461-462). Insomma il bellicosissimo Ares dell'Iliade è
strettamente legato alla
Tracia, da dove forse proveniva e dove certamente doveva avere
un culto particolare;
non a caso dunque un certo Areitoo (Il. XX, 487), nel cui nome
ritroviamo
quello del temibile dio, era di origine tracia. A questo punto
non ci sorprende
il fatto che, nell'unico passo dell' Odissea in cui viene
ricordata questa
regione, essa sia associata proprio ad Ares: costui infatti,
appena liberato dal
letto-trappola a cui il marchingegno di Efesto l'aveva
incatenato con la bella
Afrodite, "d'un balzo se n'andò subito in Tracia" (Od. VIII,
361).
Sempre riguardo ad Ares, nemico giurato degli Achei - non a
caso, tra gli
alleati dei Troiani non manca un contingente tracio, guidato da
Ifidamante (Il.
XI, 221-222) - il poeta dell'Iliade non manca di fargli fare
qualche "brutta figura",
come quando, nel V libro, lo fa ignominiosamente mettere K.O.
da Diomede
con l'aiuto di Atena. Costei invero sembra personificare l'arte
nobile
della guerra e della strategia militare, illuminata
dall'intelligenza, mentre lui,
che secondo l'Odissea "impazza alla cieca" (XI, 537),
rappresenta sostanzialmente
la brutale confusione e il disordine che infuria nelle
battaglie: Omero
presumibilmente qui intende anche mettere in evidenza, forse
con una sottile
vena polemica antitroiana, i differenti stili di combattimento
dei due eserciti
contrapposti, come ci conferma un passo che si riferisce
all'inizio della prima
battaglia dell'Iliade: "I Troiani avanzavano con grida e
richiami (...)/ Invece
gli altri avanzavano in silenzio, gli Achei che spirano furia,/
bramosi in cuore
di aiutarsi Pun l'altro" (Il. III, 2; 8-9).
Notiamo ora che, in un paio di occasioni, l'Iliade taccia Ares
di incostanza
(V, 831-834; XXI, 413-414), perché inizialmente si era
impegnato a
parteggiare per gli Achei, ma poi si era schierato a favore dei
Troiani. A prima
vista, sembrerebbe ovvio leggere questa accusa in termini di
metafora della
variabilità delle sorti delle battaglie, sempre soggette a
variazioni imprevedibili;
più sottile, ma a nostro avviso più convincente, è invece
l'ipotesi che qui
il poeta parta dall'identificazione di Ares con il pianeta
Marte - come d'altronde è attestato nell'Inno omerico a Ares
(vv. 6-8) - la cui orbita è caratterizzata
da un'ellitticità molto accentuata (la sua distanza dal Sole
varia da 206
a 249 milioni di chilometri). Ne consegue un fenomeno peculiare
di tale pianeta:
poiché, in virtù di tale ellitticità, la sua distanza minima
dalla Terra risulta
assai variabile, all'incirca da 57 a 100 milioni di chilometri,
anche la sua luminosità,
a parità di altre condizioni, varia in modo altrettanto
rimarchevole.
Ecco dunque la probabile ragione per cui Omero chiama Ares
"allopròsallon",
"volubile" (V, 831), e, partendo da qui, si diverte a ricamare
sulla sua figura,
costruendo l'episodio della sua infedeltà verso gli Achei.
Aggiungiamo che potrebbe essere stata proprio questa
caratteristica, unita
al tipico colore rossastro, ad ispirare il collegamento tra il
pianeta Marte e
la guerra, che forse è l'attività umana più aleatoria e
imprevedibile, anche ai fini
delle sìngole sorti individuali (ciò è ben espresso dal noto
responso della Sibilla
a quel consultante che le aveva chiesto se sarebbe ritornato
vivo da una
battaglia: "ibis-redibis-morieris-non", cioè "andrai-tornerai-
morirai-non",
dove l'ordine con cui disporre le parole, e soprattutto il
"non", era lasciato al
preoccupato cliente della profetessa).
Osserviamo ancora che il nome di Ares sembra rimandare agli
Arii, dei
quali a suo tempo troveremo significative tracce proprio nel
nord della Scandinavia;
d'altronde uno degli appellativi di Kartikeya, il dio della
guerra indù, è Trakajit, "l'uccisore di Takara". Che in tale
nome vi sia un'allusione alla Tracia
(ovviamente, quella nordica di Snorri)? Più avanti avremo modo
di riprendere questo affascinante argomento: la zona di
Trekilen potrebbe avere ancora
in serbo qualche sorpresa.
In ogni caso, le correlazioni, apparentemente stravaganti,
della mitologia
nordica fra Thor e la Tracia, nonché fra Odino e Troia, oltre
ad essere congruenti
fra loro e a sostenersi a vicenda, acquistano un senso - anzi,
diventano perfettamente
naturali - in questa ambientazione nordica dei poemi omerici.
Ma torniamo al dio Poseidone, che avevamo lasciato assai
inquieto per lo
sfavorevole evolversi della battaglia e che non ha nessuna
intenzione di restare
ad assistere passivamente alla disfatta dei suoi protetti;
nonostante il divieto
di Zeus, ad un certo punto decide di agire: "Ed ecco venne giù
dal monte dirupato,/
movendo rapido i passi: tremava il gran monte e la selva/ sotto
i piedi
immortali di Poseidone che va;/ e andando balzò tre volte
("tris oréxato"),
alla quarta raggiunse la meta,/ Ege, dove una casa bellissima
negli abissi del
mare/ gli sorge, d'oro, scintillante, per sempre
indistruttibile" (Il. XIII, 17-22).
Questa Ege ("Aigà"), "dove vi è il suo nobile tempio" (Od. V,
381) e dove
i Danai gli "portano doni/ molti e bellissimi" (Il. VIII, 203-
204), sembrerebbe
ragionevole correlarla con l'attuale località di Angö, situata
su un'isoletta
poco ad est di Åland, accessibile da quest'ultima attraversando
alcuni stretti
bracci di mare tra le isole dell'arcipelago: in tal modo
diviene decifrabile - anzi
assume il senso di un'indicazione ben precisa- anche
l'espressione "andando
balzò tre volte", riferibile ai vari "balzi" del dio da
un'isola all'altra. La
congruenza tra la geografìa omerica e la realtà fisica dei
luoghi si rivela, al solito,
perfetta: a questo punto, avendo individuato i luoghi dove
quelle vicende
sono state effettivamente ambientate, non possiamo non restare
ammirati dall'arte
del poeta, che sa trasfigurare la realtà mantenendovisi, nel
contempo,
sempre rigorosamente fedele.
Ma c'è di più: la potente immagine di Poseidone che scende
dalla montagna
è a nostro avviso accostabile ad uno degli inni del Rigveda
(recentemente
pubblicati con la bella traduzione del prof. Sani126), in cui
Visnu appare
come "il toro dall'ampio cammino che risiede sulla montagna,
che, essendo
uno, ha misurato con tre passi questa sede lungamente estesa"
(I, 154, 3).

126 Rigveda, le strofe della sapienza

L'analogia viene rafforzata dal fatto che la mitologia indiana


lega strettamente
Visnu all'acqua e al mare: questo antico dio ha per soprannome
"Narayana",
cioè "quello che muove le acque", ed è il pesce che soccorre
Manu (il Noè
indù) in occasione del Diluvio. Insomma, questo parallelo con
il dio del mare
omerico ci sembra che diffìcilmente possa essere considerato un
caso fortuito:
Omero probabilmente ha estratto i "tre balzi" di Poseidone
dalla comune eredità
indoeuropea. E anche qui, così come in altri casi menzionati in
do
precedenza, constatiamo che il riferimento è ad un ambiente
originario di tipo marino.
Poseidone dunque arriva a Ege, ma il suo viaggio non si ferma
qui; prosegue
invece con una superba descrizione, che oltre al piacere
estetico ci darà
un'altra indicazione preziosa, relativa all'isola di Imbro, che
resta ancora da
identificare: "Qui giunto (a Ege) aggiogò al carro i cavalli
piedi di bronzo,/ rapido
volo, che hanno criniere d'oro,/ oro vestì lui stesso e prese
la frusta/ d'oro,
bella, e salì sul suo carro/ e si lanciò sui flutti; guizzavano
i mostri sotto di
lui/ da ogni parte fuori degli antri, non ignorarono il sire;/
lieto s'apriva il mare,
i cavalli volavano/ rapidissimi, né si bagnava, neanche sotto,
l'asse di bronzo;/
così i cavalli balzanti portavano il dio alle navi achee./ C'è
un antro vasto
sotto gli abissi del mare/ profondo, in mezzo fra Tenedo e
Imbro petrosa;/ qui
Poseidone che scuote la terra fermò i cavalli,/ e li sciolse
dal carro (...)/ Egli
andò al campo acheo" (XIII, 23-35; 38). Questo splendido passo
è il perfetto pendant, ovviamente in ambiente marino anziché
celeste, di quello del libro
VIII in cui viene raccontato il viaggio di Zeus dall'Olimpo
alla cima del Gargara,
a testimonianza della profonda unità strutturale dell'Iliade.
Il viaggio di Poseidone dal monte di Samotracia
all'accampamento acheo
comporta dunque due tappe intermedie: una ad Ege, e in effetti
Angö si trova
ad oriente di Åland, l'altra in un luogo non identificabile fra
Imbro e Tenedo,
che probabilmente allude a un altro santuario del dio, situato
su una delle innumerevoli
isole che fanno da ponte tra l'arcipelago delle Åland e la
costa finlandese.
Ciò indica che Imbro, nell'ambito del gruppo di cui fanno parte
anche
Lemno e Samotracia, era rivolta in direzione della costa
troiana: possiamo tentare
di identificarla con Lumparland, isola di dimensioni adeguate,
situata ad
est di Lemland e di Åland ma contigua ad esse (e alla stessa
Angö): così trova
una spiegazione soddisfacente la tendenza di Omero, già notata
in precedenza,
a menzionare insieme le tre isole.
Notiamo inoltre che, mentre il suffisso "land" è comune alle
isole maggiori
dell'arcipelago, la radice "Lumpar" conserva ancora una qualche
assonanza
con l'antico nome dell'isola, un cui toponimo, Krokstad, si
potrebbe
forse ricollegare al nome attuale della Imbro mediterranea,
Gökceada (che ne
indica anche il capoluogo), in linea con un fenomeno che
abbiamo già riscontrato
in altri casi. E, a conferma delle argomentazioni sin qui
svolte, rileviamo
che le corrispondenti mediterranee di Lemland, Åland e
Lumparland ne conservano
le posizioni relative: Lemno è la più meridionale, Samotracia
risulta
più a nord mentre la turca Gökceada è rivolta ad est, verso
l'Asia Minore.
Osserviamo ancora che, oltre alle tre isole omeriche, nelle
Åland abbiamo
anche localizzato Ege, l'importante "residenza" e santuario di
Poseidone; pertanto
non sorprende che l'lliade collochi nella stessa area, "in
mezzo fra Samo
e Imbro rocciosa" (Il. XXIV, 78), anche la grotta, immersa
negli abissi, dove Te
ti risiedeva con le altre dee marine, le Nereidi (XVIII,
38), figlie del "Vecchio del mare". Insomma questo arcipelago,
situato in posizione strategica nell'area
centro-settentrionale del Baltico - dove costituisce un ponte
naturale, anzi, una
sorta di passaggio obbligato per quanti, oggi come allora,
navigano tra le opposte
sponde, che in quel punto, all'altezza dell'imbocco del Golfo
di Botnia,
tendono sensibilmente ad avvicinarsi - era sede di culti e di
santuari dedicati alle
divinità marine: su di esse doveva certo essere ben edotto il
poeta che fu il primo
cantore delle gesta di Achille, l'eroe figlio di Teti,
proveniente, come vedremo,
da una regione non molto distante da questa zona.
Invece il poeta dell' Odissea, il quale esalta un personaggio
originario del
Baltico meridionale, coerentemente colloca il Vecchio del mare
- non più Nereo,
ma Proteo - in un'isola situata sempre nel centro del Baltico,
ma più a sud:
Faro, l'attuale Faro (e ancora ad un altro "Vecchio del mare",
Forchis, è dedicato
un porto di Itaca). A questo punto si potrebbe forse
considerare non privo
di significato il fatto che il più "nordico" Poseidone, amico
degli Achei nell'Iliade, sia il grande nemico del
(relativamente) più meridionale Ulisse nell'Odissea...
A questo punto osserviamo che anche alcune delle piccole isole,
che formano
una sorta di cintura estesa fra le Åland e la costa finlandese,
hanno nomi
significativi: ecco le Kihti, il cui nome potrebbe richiamare
le Cìcladi; ecco Appio,
cioè Apollo, non a caso dio protettore dei vicini Troiani; e
proprio fra le Kihti
e le Åland troviamo, in un braccio di mare con alcune minuscole
isole, il nome
di Delet (o Teili), che ricorda Delo, l'isoletta delle Cìcladi
dove nacque Apollo.
Il grande dio da lì poi si diresse, su un cocchio trainato da
candidi cigni, verso
il lontano paese degli "Iperborei": si tratta di un racconto
che, come tanti altri
della mitologia greca, si cala molto più naturalmente in una
dimensione nordica
- dove si colora di arcane suggestioni - piuttosto che in
quella mediterranea.
Delo nei poemi omerici viene citata una volta sola, nel passo
dell'Odissea in cui Ulisse supplica Nausicaa di aiutarlo (VI,
162). Invero l'area di Delet
si trova subito ad est di Lemland, in direzione della
Finlandia: appare dunque
plausibile che, durante il viaggio di avvicinamento a Troia, la
flotta achea,
dopo aver fatto tappa a Lemno, si sia fermata a visitare anche
il santuario del
potentissimo dio locale, situato lungo quella "via in cui m'era
destino aver tristi
pene" (Od. VI, 165).
Ancora, Korppoo ricorda Corfù (e alla località di Karby a
Korppoo fa riscontro
una Kavos nella Corfù del Mediterraneo): anche qui si può
sospettare
qualche traccia di culti kabirici: a tale riguardo ci siamo già
imbattuti nel toponimo
"Karby", mentre "Kavos" richiama il "koes", sacerdote di quei
culti,
il cui nome, in lingua lidia, diventa "kaves"127.

127 Kerényi, Miti e misteri, pagg. 161-162


Di un certo interesse è altresì il nome di un arcipelago che
costituisce un parco nazionale di fronte alla costa
"troiana": in lingua finnica "Saaristomeren", in svedese
"Skärgaardshavets". Si
nota infatti che al finnico "saari", che significa "isola",
corrisponde il termine
svedese "skär": quest'ultimo richiama il nome delle Sporadi,
nel centro dell'Egeo
(l'oscillazione tra P e K è frequente nei dialetti greci), così
come le
Kihti ricordano le Cicladi. Inoltre "skär" si avvicina al nome
di Sciro, l'isola
dove Achille, secondo una leggenda non omerica, venne
"imboscato", travestito
da donna, per evitargli di partecipare alla guerra di Troia, e
dove l'eroe
trovò il tempo per sposare Deidamia ed avere un figlio.
Notiamo che di questo episodio si potrebbe forse trovare un
parallelo in
un passo del Kalevala: il runo XXIX racconta che Lemminkäinen,
uno dei personaggi
principali della saga, per evitare di essere coinvolto in una
guerra si ritirò
per un certo tempo in un'isola lontana, dove il soggiorno gli
venne allietato
dalla compagnia delle ragazze del luogo. Restando su questo
argomento,
anche più significativa potrebbe essere l'analogia tra un
episodio del runo XII,
in cui Lemminkäinen riesce a neutralizzare l'assalto di un cane
feroce (ecco un
altro cane del Kalevala) perché "un tempo mia madre mi lavò, mi
tuffò nell'acqua
quando ero bambino...", e il mito, anch'esso non omerico, della
dea Te
ti che rende Achille invulnerabile tuffando il neonato
nell'acqua di Stige. Se ne
potrebbe forse congetturare che questi racconti su eroi quali
Achille - la cui
provenienza, seguendo il Catalogo delle navi dell'Iliade, verrà
tra poco individuata
nell'area estone, dirimpetto alla Finlandia - risalgano
anch'essi ad
un'epoca antecedente allo spostamento degli Achei nel
Mediterraneo.
Tornando all'isola dove hanno luogo le prodezze amatorie di
Lemminkäinen,
essa viene chiamata Saari, nome che per l'appunto indica
genericamente
un'"isola"; peraltro l'affinità con "Sciro" - che a sua volta
richiama
"skär" - dove il predecessore acheo del giovane scavezzacollo
finnico scrisse
il capitolo forse più piacevole della sua breve esistenza,
rende più suggestivo
il parallelismo fra i due episodi.

Dopo aver verificato la congruenza tra la geografìa del Baltico


e la rotta di
avvicinamento della flotta achea alla Troade, con partenza da
Aulide-Norrtälje
e scalo intermedio a Lemno-Lemland, esamineremo ora il percorso
del ritorno,
dopo la conclusione della guerra. A tale proposito sentiamo la
testimonianza
del vecchio Nestore nell'Odissea: "Il biondo Menelao/ ci
raggiunse in Lesbo,
che il lungo viaggio meditavamo,/ se navigare sopra Chio
rocciosa,/ verso l'isola
Psiria, avendola a sinistra,/ o sotto Chio, doppiando il
Mimante ventoso./
Chiedevamo che il dio ci mostrasse un prodigio:/ e ce lo
mostrò, ci spinse a
fendere il mare nel mezzo,/ verso l'Eubea" (Od. III, 168-175).
Questo racconto si inserisce mirabilmente nella geografìa
baltica: infatti
Chio ("Chìos", con la consonante aspirata greca X iniziale,
corrispondente al
la spagnola di "Mexico" o alla C toscana) è identificabile, sia
per la posizione
che per il nome, con l'attuale Hiiumaa (o Chiuma; il suffisso
"maa" significa
"terra"), situata di fronte all'Estonia; pertanto gli Achei,
provenendo dal Golfo
di Finlandia, passarono al largo di Hiiumaa (Tav. VII) e
puntarono diritti sull'isola Öland, parallela alla costa
svedese - la sequenza del Catalogo delle navi a suo tempo ce ne
confermerà l'identificazione con l'Eubea omerica - indi
proseguirono verso la Svezia meridionale e la Danimarca.
Quanto all'"isola Psiria", menzionata da Omero unicamente in
questo
passo dell'Odissea, potrebbe essere l'attuale Gotland, situata
nel centro del
Baltico. Accanto ad essa si trova l'isola di Faro, che più
avanti identificheremo
con la Faro dove Menelao fece tappa nel suo viaggio di ritorno
da Troia.
Riguardo a Chio, VOdissea la nomina soltanto per segnalare che
essa si
trovava, come abbiamo appena visto, sulla rotta del ritorno di
Nestore. Questi
si chiede se sia meglio oltrepassarla da una parte o
dall'altra, ma non pensa affatto
a fermarvisi: pur in mancanza di altri elementi, ne potremmo
forse dedurre
che fosse abitata da una popolazione non achea (infatti non
partecipò alla guerra
di Troia), magari anche non molto amichevole.
È altresì curioso il confronto tra i nomi di alcune città di
Hiiumaa e dell'attuale
Chio, che manifestano singolari affinità, quali Kärdia (la cui
radice ricorda
la lingua greca) e Kardamyla, o Männamaa e Marmaron. Insomma la
Chio mediterranea sembrerebbe essere quasi una "replicante"
della baltica
Hiiumaa, nella quale inoltre ritroviamo la città di Kalana, il
cui nome ricorda
quello delle "isole Kalidne" (Il. II, 677), menzionate nel
Catalogo delle navi.
Non distante da Hiiumaa si trova un'altra isola di dimensioni
ragguardevoli:
Saaremaa. Tra le grandi isole del Baltico, è quella situata
maggiormente
verso sud-est: ciò ci fa sospettare che sia identificabile con
l'omerica Cipro, nome
che poi gli Achei discesi nel Mediterraneo avrebbero attribuito
ad un'isola
dalle caratteristiche più o meno analoghe. Effettivamente anche
la forma di
Saaremaa sembra ricordare quella di Cipro, con un corpo
principale vagamente
oblungo, da cui fuoriesce una sporgenza, ossia una sorta di
manico proteso lateralmente.
D'altronde, che la Cipro omerica avesse una dislocazione
"orientale"
lo comprova il culto di Afrodite, divinità alleata dei Troiani,
la quale, secondo VOdissea, "a Pafo (località cipriota) ha un
tempio ed un altare odoroso"
(VIII, 363).
Anche i Ciprioti non parteciparono alla guerra di Troia;
peraltro l'Iliade ha occasione di menzionare Cinira, il loro
re, allorché ci descrive le armi di
Agamennone, il quale "intorno al petto indossò la corazza,/
quella che Cinira
un giorno gli diede per dono ospitale;/ gran nuova a Cipro
aveva saputo: gli
Achei/ stavano per navigare sopra le navi a Troia;/ e allora
gliela offerse per ingraziarsi
il re" (Il. XI, 19-23). Che questo dono sia servito all'astuto
Cinira per
sottrarsi elegantemente all'incombenza di partecipare alla
guerra? Per la
stessa ragione, un certo Echepolo di Sicione aveva donato ad
Agamennone una cavalla
di pregio, "per non doverlo seguire sotto Ilio ventosa,/ ma per
spassarsela
a casa" (Il. XXIII, 297-298). Sempre riguardo alla corazza,
doveva trattarsi
di un oggetto di gran valore, degno del comandante supremo
della spedizione,
secondo la dettagliata descrizione che ce ne ha lasciato Omero:
"V'erano dieci
strisce di smalto nerastro,/ e dodici d'oro e venti di stagno;/
su verso il collo
balzavano draghi di smalto,/ tre da ogni parte..." (XI, 24-27).
Per inciso, lo stagno era considerato un metallo prezioso per
la sua lucentezza
ma forse anche per la sua rarità, unitamente alla valenza
"strategica"
(è infatti indispensabile, in lega col rame, per produrre il
bronzo): non a caso
lo ritroviamo abbinato con l'oro, a scopo ornamentale, anche in
altre occasioni,
ad esempio nelle decorazioni del carro di Diomede (Il. XXIII,
503) e dello
scudo fabbricato da Efesto (Il. XVIII, 574). D'altronde, anche
il Kalevala accenna
spesso alla "fibbia di stagno" che adornava il petto delle
ragazze. La sua
principale fonte di approvvigionamento doveva essere nelle
isole britanniche,
dove infatti gli archeologi hanno riscontrato tracce "micenee"
che appaiono
antecedenti all'inizio di questa civiltà in Grecia.
Torniamo a Cipro: come già visto per Hiiumaa e Chio, sarebbe
suggestivo
trovare un'eventuale correlazione tra i nomi delle città di
Kuressaare e di
Kyrenia, situate rispettivamente a Saaremaa e nella Cipro
mediterranea. Questi
singolari fenomeni di "incrocio" paiono indicarci che nelle sue
più ancestrali
radici, sia culturali che etniche, tutta l'Europa, dalla
Finlandia alla Sicilia, sia
unita da un substrato comune, risalente all'età del bronzo, più
profondo di
quanto non si potesse finora immaginare: e forse già sin d'ora
non è troppo azzardato
prefigurare futuri gemellaggi tra "luoghi corrispondenti" delle
due aree
geografiche - per i quali proponiamo un neologismo,
naturalmente di origine
greca: "OMÒTOPI" - quali Lyø e Itaca, Lemland e Lemno, Hiiumaa
e Chio,
Bornholm e Naxos, Öland ed Eubea, Sjælland e Peloponneso,
Karlskrona e
Atene... D'altronde, è estremamente significativo che il primo
segno di questa
unità si riscontri proprio nel più antico e venerando
riferimento della cultura europea,
la poesia di Omero, che ora stiamo riscoprendo nella
insospettata, ma fascinosa,
veste di "ponte" ideale lanciato tra il Baltico e il
Mediterraneo, tra
l'Europa del Nord e quella del Sud.

In conclusione, con una sorta di processo a cerchi concentrici


via via più
ampi, abbiamo verificato dapprima la congruenza tra la
descrizione della Troia
omerica e la topografìa dell'area di Toija; siamo passati poi
al confronto fra la
Troade e una vasta area della Finlandia meridionale e, infine,
abbiamo allargato
il quadro alle isole adiacenti, ottenendo in ognuno di questi
passaggi una serie
di riscontri stupefacenti: tutto il mondo di Troia, quale
emerge dalla lettura
dell'Iliade, si cala perfettamente nella dimensione geografica
del Baltico
orientale, come d'altronde avevamo constatato in precedenza nel
verificare le straordinarie
corrispondenze fra il mondo di Itaca, con il suo arcipelago, e
quello delle
isole danesi. E tutto ciò sta a fronte delle innumerevoli
assurdità che invece
comporta l'ambientazione mediterranea.
È chiaro poi che le rispettive congruenze di "Troia" e di
"Itaca" si illuminano
e si confermano a vicenda: e, come vedremo tra poco, entrambi
questi
contesti - sui quali abbiamo a disposizione una quantità di
informazioni
estremamente rilevante, dal momento che essi costituiscono gli
scenari principali
dei due rispettivi poemi - si inseriscono a meraviglia nel
quadro complessivo
del mondo di Omero nel Baltico, a sua volta integralmente
ricostruibile
a partire dal Catalogo delle navi e dalle altre indicazioni che
ci dà la mitologia
greca (invece sul mondo "extrabaltico" di quelle remote
popolazioni,
esteso nell'immensità dell'Atlantico settentrionale fino al
Mare Artico, è stato
il poeta dell'Odissea a fornirci preziose notizie, attraverso
quello straordinario reportage, fantasioso ma spesso aderente
alla realtà geografica dei luoghi,
sulle peregrinazioni di Ulisse).
Pertanto adesso ci dedicheremo alla ricostruzione del primitivo
mondo degli
Achei: prima però di esaminare il Catalogo affronteremo la
questione del
clima, di importanza fondamentale ai fini della nostra ricerca,
nonché quella,
strettamente connessa alla precedente, dell'origine della
civiltà micenea, la cui
provenienza nordica è attestata dalle evidenze archeologiche
già da tempo
emerse sul suolo della Grecia.
Terza parte

IL MONDO DEGLI ACHEI


XI. CLIMA E CRONOLOGIA: L'ORIGINE NORDICA
DEI MICENEI

Abbiamo già verificato in precedenza che nelle aree di Troia e


di Itaca,
oltre che nei luoghi delle avventure di Ulisse, il clima
risulta sistematicamente
freddo e perturbato, insomma ben diverso da come siamo usi a
raffigurarcelo
nella tradizionale collocazione mediterranea; ma in realtà è
tutta la meteorologia
omerica, che adesso ci accingiamo ad esaminare, a presentare
sempre
e dovunque caratteristiche tipicamente nordiche, in pieno
accordo con quel
contesto geografico settentrionale verso cui inizialmente
Plutarco ci ha indirizzato.
In
questo capitolo, dopo gli aspetti meteorologici, a cui entrambi
i poemi
fanno frequenti ed espliciti riferimenti, prenderemo in esame
l'evoluzione
del clima nell'Europa settentrionale dalla fine dell'ultima era
glaciale fino
al II millennio a.C, soffermandoci in particolare sul
cosiddetto "optimum climatico
post-glaciale" e sulle sue conseguenze; successivamente, il
confronto
con le notizie relative alla civiltà micenea, fiorita in Grecia
a partire dal XVI
secolo a.C, alle sue origini e alle sue relazioni con il mondo
omerico ci consentirà
di ricostruire un quadro complessivo pienamente coerente sia
dal punto
di vista logico che da quello cronologico.

Il primo tratto significativo del clima nel mondo di Omero è la


presenza,
frequentissima, della nebbia, presente un po' dappertutto:
oltre che sul
mare, perennemente "fosco" e "brumoso", la abbiamo già
incontrata nella
Selleria, ad Itaca, nel porto dei Ciclopi e nella zona di
Troia; la ritroveremo
anche nel Peloponneso.
La nebbia talvolta si presenta insieme con il vento: "Come su
vette di
monti il Noto versa la nebbia/ non cara ai pastori, migliore
della notte pel ladro,/di
tanto uno spinge lo sguardo, di quanto tira una pietra" (Il.
III, 10-12). In questo caso si tratta del fenomeno, noto in
meteorologia, della "nebbia da
avvezione", che si verifica allorché i venti provenienti dai
quadranti meridionali
scorrono sulla terraferma, più fredda, e il vapor acqueo
condensa sempre
più.
E proprio il vento è un altro elemento assai importante del
clima nel
mondo omerico: abbiamo già visto che Troia è frequentemente
chiamata "ventosa"
(il che dovette contribuire non poco ad alimentare l'incendio
che gli
Achei appiccarono alla città); spesso, inoltre, nelle
similitudini compaiono
violente burrasche, che ai fini della caratterizzazione
meteorologica risultano
assai significative: ecco, ad esempio, che "dalla vedetta un
capraio vede nube/
venir per il mare, sotto l'urlo di Zefiro;/ a lui, lontano,
nerissima come la
pece/ appare, venendo pel mare, porta grande tempesta" (Il. IV,
275-278); ecco
che "Zefiro s'urta contro le nubi/ del biancheggiante Noto, con
raffica fonda
colpendole,/ e s'arrovescia continuo il flutto gonfio, alto la
schiuma/ spruzza,
sotto la sferza del vento errabondo" (Il. XI, 305-308); ecco,
ancora, una
"bufera di terribili venti,/ che sotto il tuono di Zeus
s'abbatte sulla piana:/ con
frastuono indicibile si scaglia sul mare ed allora son molte/
le onde che bollono
sul mare urlante,/ s'incurvano bianche di schiuma, una di
seguito all'altra"
(Il. XIII, 795-799). E ad un contesto così perturbato
s'attaglia perfettamente
l'immagine delle "capriate, che famoso architetto ha
incastrato,/ di
un'alta casa, temendo la forza del vento" ("bìas anémon"; Il.
XXIII, 712-713),
o il vivido quadretto dell'uomo che "con pietre fitte rinsalda
il muro/di un'alta
casa", anche lui "temendo la forza del vento" (Il. XVI, 212-
213): il problema
dunque era reale e molto sentito.
In tale quadro, assai significativo è un dettaglio riportato
dall'Odissea riguardo
al clima della Creta omerica (che il Catalogo delle navi ci
consentirà fra poco di localizzare nel Baltico meridionale,
lungo la costa polacca): "Qui per dodici giorni restarono i
luminosi Achei (in attesa di salpare alla volta di
Troia):/ imperversava gran vento di Borea e non lasciava star
ritti/ nemmeno
a terra (...)/ al tredicesimo il vento cadde ed essi partirono"
(Od. XIX, 199-202).
Evidentemente, siamo molto lontani dalla tiepida Creta che ben
conosciamo.
Ora,
mentre nel contesto egeo nebbia e vento, pur ovviamente
presenti,
non sono certo gli elementi che caratterizzano la meteorologia,
soprattutto
durante la stagione della navigazione, invece il clima delle
regioni circumbaltiche
è tendenzialmente freddo e umido, con fitte nebbie, e le coste
sono
spesso battute da forti correnti aeree che lasciano, nel
modellamento morfologico
e negli aspetti del paesaggio, durevoli impronte della loro
azione. Ma,
oltre alla nebbia e al vento, nei paesaggi omerici è spesso
presente la neve; e
può essere tantissima, anche a bassa quota, come in questa
stupenda descrizione dell'Iliade: "Le falde di neve cadono
fitte/ in un giorno d'inverno, che
il saggio Zeus si leva/ a nevicare (...)/ i venti addormenta, e
versa e versa, fino
che copre/ le cime dei monti alti ed i picchi elevati/ e le
pianure erbose ed
i grassi arati degli uomini;/ persin sulla riva del mare canuto
cadon le falde,
sui golfi e le punte,/ e l'onda dove lambisce le ferma; ma
tutto il resto/ è coperto
e nascosto, quando scende la tormenta di Zeus" (Il. XII, 278-
286). E un
quadretto quasi "natalizio", che non sembra certo la cronaca di
un episodio eccezionale
(per di più si tratta di una similitudine): lascia invece la
precisa sensazione
che quella fitta nevicata sulla pianura e sul mare, la
"tormenta di
Zeus", sia un evento assolutamente familiare - où sont les
neìges d'antan... per
il poeta a cui dobbiamo questo purissimo gioiello, da cui certo
traspare
un'atmosfera molto più nordica che mediterranea.
Essa d'altronde è percepibile anche in molte altre similitudini
dell'Iliade: ecco che "cadono i fiocchi di neve/ che un vento
gagliardo, scuotendo la
nuvola,/ fitti riversa sopra la terra" (Il. XII, 156-158); "giù
dalle nubi vola
grandine o neve/ gelida" (Il. XV, 170-171); "le falde della
neve di Zeus volteggiano
fitte,/ gelide, sotto il soffio di Borea figlio dell'Etere"
(Il. XIX, 357-358);
"a volte scaglia la folgore lo sposo di Era,/ preparando un
violento interminabile
acquazzone o grandine o neve,/ quando la neve copre le piane"
(Il.
X, 6-8; anche qui torna l'immagine della neve a bassa quota). A
questo punto
non possiamo non ricordare nuovamente quella bellissima
espressione riferita
al fluente eloquio di Ulisse, le cui parole scendevano come "i
fiocchi di
neve d'inverno". Tutto ciò d'altronde è coerente con l'immagine
"di un gelido
inverno ("cheimònos dysthalpéos") che le fatiche/ fa smettere
agli uomini
in terra, tormenta le bestie" (Il. XVII, 549-550). E, a
proposito delle stagioni,
va registrato un altro parallelismo tra il mondo di Omero, che
sì limita
a menzionarne tre, e quello dei Germani, cioè i popoli
dell'Europa settentrionale
descritti da Tacito: per costoro infatti "inverno, primavera ed
estate
hanno significato e nome, dell'autunno invece ignorano il nome
e i prodotti" {Germania, 26, 4).
A parte la neve, spesso l'Ilìade accenna anche a violente
piogge e a disastrose
alluvioni: ecco "un fiume in piena,/ ingrossato dalle piogge,
il quale
correndo in furia travolge le dighe;/ non lo trattengono le
dighe alzate a far argine/
o le siepi intorno agli orti fioriti,/ se dilaga improvviso,
quando scroscia
la pioggia di Zeus" (Il. V, 87-91); ecco che "scende alla piana
un fiume gonfio,/
un torrente dai monti, le piogge di Zeus lo accompagnano,/ e
molte aride
querce e molti pini/ trascina, e getta molto fango nel mare"
(Il. XI, 492-495);
ecco ancora, in una splendida immagine, "una pietra che rotola
da una
roccia,/ l'ha spinta gonfio torrente giù dalla cima, spezzando/
per piogge infinite
l'ostacolo della roccia inflessibile,/ piomba a salti
dall'alto, sotto rimbomba
la selva" (Il. XIII, 137-140). E l'immagine di un'altra
disastrosa alluvione
ci mostra che in quella remota età del bronzo, così lontana da
noi, oltre
alle catastrofi naturali si verificavano anche fenomeni di
genere tutto diverso:
"Dalla tempesta tutta la terra nera è gravata/ in un giorno
d'autunno, in cui
pioggia violenta rovescia/ Zeus, se adirato con gli umani
imperversa/ perché con prepotenza contorte sentenze
sentenziano/ e scacciano la giustizia, non curano
l'occhio dei numi;/ ed ecco i fiumi si riempiono tutti,
scorrendo,/ e molte
pendici i torrenti dilavano,/ gemono forte, correndo verso il
livido mare/ a
capofitto dai monti" (Il. XVI, 384-392). Qui Omero sembra
adombrare il concetto,
comune a molte culture antiche, di un diluvio mandato dal dio
supremo
per punire gli uomini delle loro malefatte.
Sempre l'Iliade - oltre ai reiterati accenni alla "tempestosa"
Dodona
("dyscheìmeron"; II, 750; XVI, 234): non a caso dal Catalogo
delle navi
se ne deduce un'ubicazione molto settentrionale - ricorda con
grande enfasi e vivido
realismo una violentissima alluvione che, dopo la fine della
guerra, provocò
lo straripamento di tutti i fiumi dell'area troiana e spazzò
via quel che
restava dell'accampamento acheo e del suo muro difensivo:
"Pensarono allora
Poseidone e Apollo/ a distruggere il muro, gettandogli contro
la furia dei
fiumi,/ quanti dai monti dell'Ida corrono al mare;/ il Reso e
l'Eptaporo e il Careso
e il Rodio/ e il Granico e l'Esepo e il glorioso Scamandro,/ e
il Simoenta,
là dove molti scudi e cimieri/ caddero nella polvere e stirpe
d'eroi semidei;/
di tutti insieme le bocche deviò Febo Apollo,/ per nove giorni
l'acqua ne scagliò
contro il muro; e Zeus pioveva/ continuamente, perché il muro
più presto
fosse preda del mare;/ Ennosigeo, brandendo di sua mano il
tridente,/ lo
guidava e nell'onde le fondazioni tutte gettò/ di tronchi e
pietre, che con fatica
avevano fatto gli Achei;/ tutto spianò, lungo la riva
dell'Ellesponto flutto
violento,/ e poi l'ampia riva coperse ancora di sabbia,/
cancellando il muro;
e ricondusse i fiumi/ nel loro letto, là dove prima lanciavano
l'acque bella
corrente" (Il. XII, 17-33).
Soffermiamoci per un attimo su questi versi, da cui emerge una
idrografia
della Troade, con ben otto fiumi che insistono sulla stessa
area, molto più congruente con la Finlandia che con l'Anatolia:
essi ci inducono tra l'altro a
supporre che, tra i fattori che hanno contribuito a cancellare
le tracce dell'antica
civilizzazione baltica, quel che può aver giocato un ruolo
preponderante
- oltre all'uso prevalente del legno come materiale da
costruzione e all'alternarsi
annuale delle fasi di gelo e disgelo - sia stata proprio la
frequenza,
in quel mondo nordico soggetto a violente perturbazioni
climatiche e dall'idrografia
complessa, di alluvioni disastrose come quella così vividamente
descritta,
Inoltre ci fa sospettare che l'aedo a cui dobbiamo dettagli
così precisi su
un episodio avvenuto dopo la fine della guerra e la partenza
degli Achei, potesse
essere originario di quell'area (o almeno la abbia visitata):
ricordando
l'antica tradizione degli "Omeridi" di Chio, che, come abbiamo
visto, risulta
essere quasi una replica dell'isola estone di Hiiumaa, si
potrebbe forse azzardare
l'ipotesi che l'eventuale primo cantore delle gesta di Achille
fosse legato,
per nascita o per residenza, proprio a quest'ultima, situata ad
appena cinquanta
miglia dalla Troade finlandese e dirimpetto alla costa
dell'Estonia, nel
cui entroterra si trovava quell'Ellade da cui proviene il
protagonista del suo
poema (il poeta dell'Iliade viene espressamente indicato come
l'"uomo di
Chio" da Semonide di Amorgo, poeta giambico greco del VII
secolo a.C). Oltretutto
alla guerra di Troia non parteciparono contingenti chioti, e
ciò potrebbe
spiegare la sua sostanziale imparzialità nei confronti dei due
schieramenti.
E il sole? Il fatto che in tutta l'Iliade non si accenni quasi
mai al calore
dei suoi raggi può destare sorpresa, ma è perfettamente in
linea con quanto
emerso finora (avevamo verificato la stessa cosa anche per
l'Itaca dell'Odissea); addirittura, nel culmine della battaglia
sul corpo di Patroclo, Aiace, come
abbiamo già visto, arriva ad invocare Zeus: "Sereno fa' il
cielo!" (Il. XVII,
646), perché dissipi la nebbia. Vi è dunque un assoluto
contrasto con la tradizionale
localizzazione della guerra di Troia in Asia Minore e con
l'immagine
dei guerrieri ricoperti di bronzo su cui picchia il sole
implacabile del Mediterraneo;
l'insieme è invece del tutto congruente con la fisionomia
nordica
del mondo omerico, quale si va man mano delineando sempre più
chiaramente,
e nel contempo costituisce un forte indizio del fatto che la
primitiva
versione dei due poemi non sia stata eccessivamente alterata
dai secoli di permanenza
nel tiepido ambiente egeo. Insomma, oltre alla geografia, anche
il
quadro meteorologico è sostanzialmente rimasto quello
"originale", caratterizzato
da nebbia, neve, burrasche, piogge e vento, spesso con
manifestazioni
di singolare intensità e persistenza.
Per completare la nostra ricognizione sulla meteorologia
omerica, chiediamoci
ora se gli eroi dell'Iliade, per l'appunto coperti di bronzo,
sudino
mai durante i
combattimenti ed, eventualmente, in quali circostanze ciò si
verifichi:
ne potremo forse ricavare qualche altra indicazione sulle
temperature.
Ecco ad esempio Aiace, che, rimasto da solo a difendere la nave
di Protesilao,
suda copiosamente; la causa però non è il caldo, bensì lo
stress della sua
disperata lotta sotto il furioso incalzare dei Troiani:
"Tremendo intorno alle
tempie l'elmo raggiante/ sonava colpito (...)/ Era in preda ad
un affanno terribile,
continuo il sudore/ colava abbondante da ogni parte del corpo,
non gli
riusciva/di prender fiato" (Il. XVI, 104-105; 109-111). In
altre circostanze, il
sudore è legato alla fatica o all'affanno di una fuga
precipitosa, come capita
a Licaone, figlio di Priamo, terrorizzato davanti alla furia di
Achille, "senz'elmo
e scudo, e neppur l'asta aveva,/ ma tutto in terra aveva
gettato: lo sfiniva
il sudore/ fuggendo dal fiume, e la stanchezza spossava i
ginocchi" (Il. XXI,
50-52). Così pure, Nestore e Macaone, fuggiti dalla battaglia
sotto l'incalzare
dei troiani, "rinfrescarono il sudore delle tuniche/ ritti nel
vento lungo la
spiaggia del mare" (Il. XI, 621-622).
Ma la causa più frequente di sudore è lo shock da ferita: così
vediamo
Diomede mentre "rinfrescava la piaga che Pandaro gli inflisse
di freccia;/ lo
spossava il sudore (...)/ tergeva il sangue" (V, 795-798);
oppure Euripilo, "ferito
a una coscia di freccia,/ che tornava zoppicante dalla
battaglia; scorreva
sudore abbondante/ dalle spalle e dalla testa;/ dalla piaga
tremenda sgorgava
il sangue" (XI, 810-813); o lo stesso Ettore, che,
riprendendosi lentamente
dopo essere stato tramortito da un terribile colpo di Aiace,
"aveva raccolto
nuovo respiro,/ intorno a sé conoscendo i compagni; affanno e
sudore/ eran
cessati" (XV, 240-242). Insomma, i personaggi di Omero non di
rado sudano,
e per le ragioni più varie, magari anche perché
impegnati in incontri di lotta (Il. XXIII, 715) o di pugilato
(XXIII, 688), però mai direttamente a causa del
caldo. Ciò appare ancora più significativo se si considera
l'estremo realismo
di tutte queste descrizioni, le quali tra l'altro ci dicono che
il poeta dell'Iliade doveva aver frequentato a lungo i campi di
battaglia; anzi, a volte l'accuratezza
con cui descrive le ferite fa nascere il sospetto che fosse un
medico militare.
D'altronde
il fatto che, in accordo con questo quadro, la temperatura
fosse
alquanto rigida, lo avevamo già rilevato nel capitolo dedicato
ad Itaca; ce
lo conferma la circostanza che Telemaco e Pisistrato, ospiti di
Menelao a Sparta
(nel "Peloponneso" omerico, ovvero l'isola Sjælland) dopo aver
fatto il bagno,
nell'apprestarsi a pranzare, "indossarono tuniche e folti
mantelli/ e su troni
sedettero" (Od. IV, 50-51 ), restando all'interno della reggia.
Ciò viene detto
anche a proposito di Ulisse, ospite nella reggia di Alcinoo: "
(Le ancelle) gli
misero addosso un bel manto di lana e una tunica,/ e uscito dal
bagno, tra i
principi già uniti a bere/ andava" (Od. VIII, 455-457), e in
vari altri casi; eppure
non si trattava del periodo invernale, ma correva la stagione
della navigazione.
Quanto al mantello di Nestore, esso era "doppio, grande;
disopra lana
folta s'addensa" ("oùle d'epenénothe ladine", Il. X, 134). E
che dire di
Achille, a cui, in occasione della partenza per la guerra, la
madre aveva premurosamente
preparato un baule "pieno di tuniche,/ di mantelli per
ripararsi
dal vento e di morbide coperte" (Il. XVI, 223-224)?
Questi accenni alle vesti degli eroi omerici trovano un
significativo riscontro
nei reperti trovati nelle tombe della Danimarca, che ci hanno
conservato
l'abbigliamento tipico di un uomo dell'età del bronzo: "La
tunica di lana
scende fino alle ginocchia ed è fissata a vita da una cintura;
sopra porta un
mantello agganciato sulla spalla con una spilla di bronzo"128.
L'analogia con
"le tuniche e i folti mantelli" è rimarchevole; quanto alla
spilla, essa ha un suggestivo pen dant nella "spilla d'oro"
("peróne chrysoio") che adornava il mantello
di Ulisse (Od. XIX, 225-226). Non solo: vi è una perfetta
corrispondenza
anche con un passo della Germania a proposito
dell'abbigliamento dei
Germani: "Tutti hanno un mantello fermato con una fibbia"
("sagum fibula
consertum"; 17, 1). Ma non meno interessante è ciò che Tacito
ci dice subito
dopo: "I più ricchi si distinguono per una veste non
ondeggiante, come i Sarmati
e i Parti, ma stretta e aderente alle singole membra" ("sed
stricta et singulos
artus exprimente"), che è accostabile ad un passo dell' Odissea
in cui
Ulisse indossa "una tunica lucente attorno al corpo/ come la
buccia di una cipolla
secca" (Od. XIX, 232-233). Notiamo che una tunica dello stesso
genere
(però senza maniche) si ritrova nella statua del giovane di
Mozia,
rinvenuta nel 1979, di squisita fattura greca.

128 Bibby, Quattromila anni fa, pag. 245

Basandoci sui resti di abiti femminili trovati nelle tombe


danesi, possiamo
farci anche un'idea del vestiario delle donne omeriche:
Penelope doveva
indossare "una blusa a mezze maniche con una gonna traforata
fin sopra il ginocchio,
una rete per capelli fatta a maglia e una cintura, fissata
davanti con
una piastra ornamentale rotonda, in bronzo, di circa venti
centimetri"129. E si
è trovato anche qualche esemplare di minigonna a piegoline!

129 Bibby, Quattromila anni fa, pag. 245

Più in generale, l'archeologia ci attesta la grande fioritura


dell'età del
bronzo nel nord dell'Europa, in particolare in Scandinavia e in
Danimarca; ma
pensiamo anche alle splendide spade ritrovate nell'area di
Salo, non lontano
da Toija, ora esposte nel Museo Nazionale di Helsinki (le cui
affinità con i modelli
egei trovano uno sbalorditivo riscontro nel nome genuinamente
greco
del fiume Haliko, che scorre proprio in quei pressi). In tale
periodo questa civiltà,
"aiutata dall'accrescersi del commercio, si sviluppò fino ad
un'altezza
mirabile, la quale supera indiscutibilmente per i suoi
prodotti, per la nobiltà
della forma e il gusto dell'ornamentazione degli oggetti
bronzei, la corrispondente
civiltà del bronzo della Germania meridionale e occidentale, e
attesta
l'alto tenore di vita dei suoi rappresentanti. Si costituisce
un'industria stabile
e altamente progredita della fusione del bronzo"130. In
particolare, è da
sottolineare il fatto che "l'arte della fusione (...) raggiunse
una perfezione tale
che solo le più squisite opere della civiltà egeo-micenea
possono reggere al
confronto"131.

130 Treccani, voce "Nordiche, civiltà"


131 Treccani, voce "Bronzo"

E con questo materiale i popoli di allora riuscivano a fare


cose straordinarie:
"La ricchezza delle forme degli oggetti di bronzo germanici era
stupefacente:
c'erano spade preziose, ornamenti pregiati, dischi cultuali
incrostati
d'oro, fermagli, fibule, elmi, scudi, collari, e persino
completi nécessaires con rasoi e attrezzi per la cura di unghie
e orecchie (...) Già millecinquecento
anni prima dell'arrivo dei Romani, nelle terre del nord vi
erano condizioni
di vita e di civiltà (...) tali da poter essere paragonate
soltanto alla civiltà
greca dello stesso periodo"132. Chiunque abbia visitato le sale
del Museo Nazionale
di Copenaghen dedicate all'età del bronzo non potrà che
condividere
tale affermazione.

132 Fischer-Fabian, I Germani, pagg. 90-91

Tutto ciò d'altronde ha un preciso riscontro nel mondo omerico,


in cui
sono continuamente menzionati vasi di metallo: nella reggia di
Ulisse ad Itaca
"venne l'ancella a versare un lavacro
da una bella/ brocca d'oro ("prochòoi chryseìei") su un bacile
d'argento ("argyréoio lébetos")/ (...) e coppe
d'oro ("chryseia kypella") pose loro davanti" (Od. I, 136-137;
142). Così pure,
d'oro sono le lucerne (Od. XIX, 34), le ampolle (Od. VI, 79),
addirittura
le urne funerarie, come quella in cui vengono conservate le
ossa di Patroclo
("chrysée phiàle", Il. XXIII, 253). Il vino viene
sistematicamente servito "in
calici d'oro" ("enl chryséois depàessin", Od. III, 472) e anche
i recipienti per
mescerlo sono di metallo: infatti, allorché uno di essi cade a
terra, invece di
rompersi "rimbomba" ("bòmbese", Od. XVIII, 397). Insomma, i
poemi omerici
da un lato non fanno alcuna menzione specifica di quel
vasellame in ceramica
che invece contrassegna l'archeologia mediterranea, dall'altro
appaiono
in linea con la realtà del mondo nordico, dove si riscontra
"un'industria
stabile e altamente progredita della fusione del bronzo, in
confronto della
quale l'industria della ceramica rimane assai modesta"133.

133 Treccani, voce "Nordiche, civiltà"

Ci sì potrebbe però chiedere di quale materiale fossero le


stoviglie usate
dai poveri. A tal fine, se ci affacciamo per un attimo nella
capanna di Eumeo,
scopriamo che il buon porcaro mesceva il vino ai suoi ospiti
"in un boccale
di legno" ("en kissybìoi", Od. XVI, 52), simile a quello con
cui Ulisse offrì
il suo micidiale liquore al ciclope Polifemo (Od, IX, 346). Era
d'altronde
prevedibile che, in un ambiente ricchissimo di legno come
quello nordico,
fosse questa la soluzione più naturale ed economica: non a
caso, in Estonia e
Lettonia si mantiene tuttora un'antica tradizione dei boccali
di birra fatti con
questo materiale.
In definitiva, il mondo di Omero è caratterizzato dalla
presenza di vasellame
in metallo pregiato per i ricchi, in legno per i poveri, mentre
la ceramica
risulta pressoché assente: tutto ciò costituisce un ulteriore
significativo
indizio dell'origine nordica dei due poemi e, nel contempo,
della sostanziale
integrità della loro matrice originaria, ad onta delle
vicissitudini che ne hanno
presumibilmente accompagnato la trasmissione nel corso dei
secoli.
Tornando adesso al clima del mondo omerico, dalle
caratteristiche così marcatamente settentrionali, ad esso si
lega non solo il vestiario, ma anche l'abitudine,
ricorrente in entrambi i poemi, di consumare un pasto
abbondante di
primo mattino (spesso preceduto da un buon bagno, come abbiamo
visto poco
fa): "Nella capanna, Odisseo e il buon porcaro/ all'alba
("eoi") preparavano
il pasto, acceso il fuoco" (Od. XVI, 1-2); anche Menelao,
appena svegliato,
"subito alla sposa e alle ancelle ordinò/ di preparare il
pranzo in sala"
(Od. XV, 93-94); analogamente, Telemaco dice ai suoi compagni:
"All'alba ("eòthen"), compenso del viaggio, vi voglio
imbandire/ un buon banchetto di
carni e di vino dolce da
bere" (Od. XV, 506-507): sembrano qui prefigurarsi i
ricchi breakfast delle attuali popolazioni nordiche,
indubbiamente legati ad abitudini di antica origine. Ce lo
conferma un'annotazione del solito Tacito a
proposito dei Germani: "Appena levati dal sonno (...) si lavano
per lo più con
acqua calda (...) dopo l'abluzione mangiano" {Germania, 22, 1).
Inoltre, subito
dopo Tacito ci informa che "ognuno ha il suo sedile separato e
la sua
mensa": ma anche questa "mensa" - cioè una sorta di tavolino,
chiamato in
greco "tràpeza" (Od. I, 138; IV, 54) - apparecchiata
singolarmente per ciascun
commensale, è tipica del mondo omerico.
Quanto all'altro pasto giornaliero, anche allora, come oggi,
aveva luogo
al tramonto: "Al cadere del sole/ imbandiremo un gran pranzo"
("dòrpon", Il.
XIX, 207-208); si tratta del pasto serale, mentre quello
mattutino era chiamato
"deTpnon" (è una distinzione che fra poco ci tornerà molto
utile).
E i banchetti funerari? Nel mondo omerico non sembrano avere un
rilievo
particolare. Vi si fanno degli accenni negli ultimi due libri
dell'Iliade;
peraltro, a detta degli studiosi, il libro XXIV è probabilmente
spurio, mentre,
per quanto riguarda il XXIII, abbiamo in precedenza espresso
qualche perplessità.
Invece nel resto dell'Iliade ed in tutta l'Odissea, nei passi
in cui si descrivono
cerimonie funebri, di banchetti ad esse connessi normalmente
non si
parla: pensiamo ad esempio a Il. VII, 430-436 e Od. XII, 12-15.
Quest'ultimo
caso ci sembra particolarmente significativo, in quanto, subito
dopo il funerale
di un compagno di Ulisse, che si era rotto l'osso del collo
cadendo dal
tetto della casa di Circe, in effetti si svolge un festino, che
però ha tutta l'aria
di non essere affatto correlato alla cerimonia precedente (Od.
XII, 18-30).
Riguardo poi a quel vino "dolce da bere" menzionato poco fa da
Telemaco,
osserviamo che l'uso omerico di correggerlo col miele è
perfettamente
giustificato dalle caratteristiche dei vini nordici, i quali,
senza l'aggiunta di
un dolcificante, risulterebbero aspri e sgradevoli, anzi quasi
imbevibili, a causa
del basso tenore zuccherino delle uve con cui vengono prodotti
(pensiamo
alle sofisticate lavorazioni a cui viene sottoposto lo
Champagne per conferirgli
la sua particolare gradevolezza). A tale proposito, l'Odissea
ci dà la ricetta
di una specialità della maga Circe: "Del cacio, della farina
d'orzo e del
miele/ nel vino di Pramno mischiò" (Od. X, 234-235); a sua
volta, l'Iliade ci
informa (XI, 639) che il "Pramno cocktail" andava di moda anche
tra gli eroi
che combattevano a Troia: Nestore lo beve da "un bellissimo
calice/ cosparso
di borchie d'oro" (dunque era anch'esso di metallo; Il. XI,
632-633).
Per inciso, non è questo l'unico caso in cui si rivela la
propensione degli
Achei al bere: pensiamo al regalo di "mille misure" di vino,
certamente apprezzato
da quell'Agamennone che in una certa circostanza sarebbe stato
gratificato
da Achille del poco diplomatico epiteto di "ubriacone"
("oinobarés",
Il. I, 225). Vi possiamo accostare un'altra frase di Tacito,
nel suo
personalissimo
stile concettoso, sulle abitudini alimentari dei popoli
nordici: "Cibi semplici (...) ma non uguale temperanza contro
la sete. Se li assecondi nel desiderio
di ubriacarsi, fornendo loro quanto desiderano, saranno vinti
più facilmente
dal vizio che dalle armi" {Germania, 23, 1).
In linea con la semplicità dei cibi che Tacito attribuisce ai
Germani, il vitto
degli eroi di Omero era basato, oltre che sul pane, soprattutto
sulla carne
arrostita (normalmente di bue, di maiale, di capra o di
cacciagione). Circa le
"specialità" della cucina achea, l'Odissea accenna a certi
ventrigli arrostiti di
capra, farciti di sangue e chiamati "gastéres" (XVIII, 44), i
quali ricordano i
tradizionali "musta makkara" finlandesi. In ogni caso, in
entrambi i poemi
emerge che almeno tra le classi nobili vigeva una dieta
fortemente squilibrata,
tutta incentrata sul consumo di carne: questo ci riporta ancora
ai vichinghi,
i quali, oltre ad essere grandi bevitori, "consumavano grandi
quantità di carne;
anzi, pare che il gusto della carne appartenesse per loro alle
delizie dell'esistenza"134.
E proprio a questo tipo di alimentazione si potrebbe forse
ricondurre
la frequenza delle morti improvvise, espresse attraverso la
kenning
delle "frecce degli dèi": "Apollo arco d'argento, venendo con
Artemide/ con
le sue frecce li raggiunge e li uccide" (Od. XV, 410-411).
Anche allora, se
non più di adesso, il colesterolo mieteva le sue vittime!

134 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 207

Con l'occasione rileviamo anche che tra gli animali domestici


menzionati
da Omero i bovini hanno un ruolo particolarmente importante.
Questo ci
sembra un ulteriore indizio del fatto che non ci troviamo in un
ambiente greco,
dove invece ci si dovrebbe aspettare una maggior diffusione
delle capre rispetto
ai buoi.
E la frutta? A parte qualche descrizione di frutteti
nell'Odissea, gli eroi
omerici nelle loro abitudini alimentari sembrano ignorarla,
così come accade
per le verdure, i legumi e, in particolare, le olive: ecco
un'altra differenza rispetto
al mondo greco. Ciò conferma l'impronta nordica della loro
dieta, molto
distante dalle consuetudini mediterranee (sembra che i Germani
non conoscessero
l'uso della frutta fin quando non vennero in contatto con i
Romani).
In definitiva, tutte le considerazioni sin qui svolte
confermano che l'ambientazione
dei poemi omerici è tipicamente nordica, non certo
mediterranea;
riguardo in particolare al clima, traspaiono certi indizi che
esso fosse meno rigido
di quello attuale (pensiamo ad esempio alla presenza della
vite), e ciò è in pieno accordo con le evidenze scientifiche in
merito all'evoluzione del clima
europeo dal VI al II millennio a.C, che ora prenderemo in esame
avvalendoci
dell'autorevole testo di Climatologia del Pinna, ausilio
preziosissimo
per la presente ricerca.
Dopo la fine dell'ultima era glaciale, nell'Europa
settentrionale si sono
susseguite diverse fasi climatiche, sommariamente riportate qui
nel seguito nei
loro principali tratti distintivi, con particolare riguardo
alla vegetazione135: -Preboreale recente (8000-7000 a.C): il
clima è freddo, continentale. Sì diffondono l'abete rosso,
l'ontano e il nocciolo.
- Boreale (7000-5500 a.C): l'estate è calda, l'inverno
relativamente mite. -Atlantica (5500-2000 a.C): è più calda
rispetto alla fase boreale, l'estate è
càlda, l'inverno mite e umido. Si diffondono i boschi di
querce.
- Subboreale (2000-500 a.C): il clima si fa più
continentale e si raffredda. Si
diffondono l'abete e il faggio.

135 Treccani,, "Olocenico, periodo"

Per quanto riguarda il nostro studio, qui ci interessano la


fase "Atlantica"
- corrispondente all'"optimum climatico post-glaciale", che
raggiunse
l'acme attorno al 2500 a.C. e durò fin verso il 2000 - e il
successivo periodo,
più freddo. Come ci dice la prof. Laviosa Zambotti, l'"optimum
climatico" fu
"l'epoca climatologicamente migliore che i paesi scandinavi
abbiano mai conosciuto
e che giustifica il quadro di elevata cultura allora raggiunto
dalla
Scandinavia; siamo attorno al 2500 a.C. (...) È nell'ambito di
questo lungo e
favorevolissimo periodo climatico che si sviluppa l'ascesa
della cultura nordica
con l'affermazione in linea progressiva delle civiltà di
Maglemose, di
Ertebölle, dei dolmen, delle tombe a corridoio e infine le
ricche manifestazioni
culturali dell'età del bronzo"136.

136 Laviosa Zambotti, Le più antiche civiltà nordiche,


pagg. 19-20
La realtà di questo "optimum climatico", che è rilevata da
numerose prove
naturalistiche e in particolare dallo studio dei pollini dì
tutte le aree del globo, non
si presta ad alcuna contestazione. Risulta anzi con certezza,
dalle numerose ricerche
fin qui condotte dai naturalisti, che i ghiacciai continentali,
dopo la massima
espansione wurmiana, si erano ridotti a un'estensione minore di
quella attuale;
contemporaneamente il livello marino si era innalzato fino a
superare di 23
metri quello attuale, per cui le zone costiere più esterne e
più basse vennero invase
dal mare. Lo scioglimento dei ghiacci ed il conseguente
innalzamento del
livello marino determinarono l'estendersi dei bacini interni,
tra i quali il Mare Artico,
che allora era libero dai ghiacci, il Baltico e il
Mediterraneo.
In particolare, nelle alte latitudini la temperatura si era
innalzata dì circa
4°C rispetto a quella attuale, per cui si ebbe un allargamento
verso i poli
delle due zone dei climi caldi e dei climi temperati, con la
conseguente contrazione
dell'area dei climi freddi: in tutta l'Eurasia le fasce di
vegetazione
(delle latifoglie, delle conifere, ecc.) si erano spostate
ampiamente verso il
polo, tanto che la quercia e il nocciolo penetrarono nella
Scandinavia e il passaggio dalle aride steppe alle foreste di
latifoglie avveniva, nell'Europa orientale,
alla latitudine di Leningrado e dell'alto Volga, mentre le
tundre erano
completamente scomparse dal territorio europeo. In complesso la
vegetazione
forestale trovò le condizioni ideali per estendersi nell'Europa
centro-settentrionale,
tanto più che sul finire del periodo, mentre la temperatura
media
era ancora elevata, si intensificarono notevolmente le
precipitazioni (quest'ultimo
punto è particolarmente importante: esso infatti trova un
significativo
riscontro nel quadro meteorologico delineato nei due poemi,
consentendo
in tal modo di collocare a ridosso della fine dell'"optimum",
almeno in prima
approssimazione, le vicende da essi narrate).
Allo spostamento nel senso della latitudine delle fasce di
vegetazione
corrispose un analogo spostamento in senso altimetrico, tanto
che nei sistemi
montuosi euroasiatici il limite superiore del bosco era salito
di almeno trecento
metri al di sopra di quello attuale. Le altre fasce di
vegetazione dovettero spostarsi
in proporzione, dato che le piante delle zone più basse nella
loro risalita
sostituirono gradualmente quelle delle parti più elevate,
portando ad una
profonda trasformazione del paesaggio naturale; e con i limiti
altimetrici della
vegetazione andò spostandosi verso l'alto anche quello delle
nevi permanenti.
Per
inciso, tali differenze rispetto alla situazione odierna
potrebbero forse
contribuire a spiegare le difficoltà incontrate dagli studiosi
nel ricercare, basandosi
sulla distribuzione geografica di piante e animali i cui nomi
appaiono
simili nelle lingue dei popoli indoeuropei, la sede primordiale
di questi ultimi:
infatti, come abbiamo appena visto, cinque o seimila anni fa
tale distribuzione
era molto differente da quella odierna (sembra, ad esempio, che
in
molte lingue indoeuropee siano simili i nomi del "faggio" e del
"salmone", il
che potrebbe indicare che la sede originaria fosse
caratterizzata da un clima
temperato-fresco; tuttavia, non ha senso basarsi sulla
diffusione attuale di
queste due specie, ma bisogna prendere in considerazione quella
corrispondente
all'epoca dell'"optimum", spostata alquanto più a nord).
Al fine di poter meglio valutare gli effetti di un clima così
mite, esaminiamo
ora quanto accadde nel "periodo caldo dell'età medioevale",
durato all'incirca
dall'800 al 1200 della nostra èra: è infatti accertato che dopo
il IX secolo
d.C la banchisa polare si era notevolmente ridotta all'interno
del Mare
Artico e che i ghiacci galleggianti si erano fatti rarissimi
intorno all'Islanda,
la quale divenne allora una terra fiorente, e dinanzi alla
Groenlandia, In questi
paesi nordici, all'aumento della temperatura, che fu anche
superiore a quello
calcolato per l'intero continente (circa 1,5°-2°C), si
accompagnò una diminuzione
dei venti forti e delle burrasche a causa di un sensibile
rallentamento
della circolazione
atmosferica. Date queste profonde trasformazioni
subite dall'ambiente naturale nel mondo nordico, è logico
ritenere che le favorevoli condizioni del mare e l'assenza dei
ghiacci nell'Atlantico settentrionale
abbiano favorito non poco le navigazioni dei vichinghi tra la
Norvegia,
l'Islanda e la Groenlandia, nonché il loro insediamento in
quelle isole
così lontane dal continente europeo; la mitezza del clima e la
maggiore pescosità
del mare furono probabilmente i fattori determinanti che
consentirono
alle genti scandinave di colonizzare quelle terre artiche in
cui esse vissero
e prosperarono per alcuni secoli: il nome di Groenlandia,
"terra verde", fu
dato a quell'isola dai Norvegesi proprio per la grande
estensione di prati che
essi vi trovarono al loro arrivo.
In particolare, come sottolinea il prof. Franco Ortolani, "le
paleotemperature
evidenziano un marcato incremento della temperatura media, che
ha
consentito la coltivazione dei vigneti in Norvegia"137; ma la
vite a quell'epoca
cresceva anche in Inghilterra, mentre sulla costa occidentale
della Groenlandia,
rivolta verso il Labrador, attorno al XII secolo fioriva una
diocesi cattolica
con un vescovo vichingo. Ora, effetti così rilevanti nel
"periodo caldo
medioevale" furono provocati da un incremento medio della
temperatura del
nostro continente che pure non superò i 2°C rispetto ai valori
attuali, restando
ben al di sotto rispetto a quello, di ben 4°C, che si era
registrato durante l'optimum climatico". Se teniamo anche conto
della differenza di estensione
temporale tra i due periodi (quello medioevale durò appena tre
o quattro secoli,
l'"optimum" oltre tre millenni), possiamo farci un'idea dei
macroscopici
effetti di quest'ultimo nell'area che qui ci interessa.
137 Integralismo ambientale e informazione scientifica, pag.
109

Per inciso, un incremento della temperatura dell'ordine di 2°C


non si discosta
molto da certe previsioni sulle future conseguenze a lungo
termine del
cosiddetto "effetto serra": su questo pianeta le temperature
sono sempre andate
oscillando, per cause ancora non ben chiare ma presumibilmente
legate
a fenomeni di portata di gran lunga superiore a quelle che sono
le dimensioni
reali, se rapportate ad una scala cosmica, dell'attività umana.
Possiamo altresì
notare che durante l"'optimum climatico" il Sahara era una
savana irrigata
da fiumi. In quel periodo non c'erano né il torrido deserto
tropicale né il
gelato deserto artico, probabilmente perché il riscaldamento
dell'atmosfera
comportava un maggior tasso di evaporazione e di circolazione
dell'umidità,
con conseguenti precipitazioni anche in zone che poi sono
diventate molto
aride. Ci sembra insomma molto probabile che l'estensione delle
terre emerse abitabili raggiunga il massimo proprio nei periodi
in cui non vi sono calotte
polari permanenti, in quanto la sommersione delle zone costiere
causata dall'innalzamento
del livello del mare dovrebbe essere più che compensata dal
ritorno della vita animale e vegetale nei deserti tropicali e
nelle tundre artiche.
A questo punto potremmo addirittura azzardarci a ritenere che
la presenza
delle calotte polari, con la conseguente riduzione del benefico
ciclo dell'acqua,
sia un fenomeno per così dire "patologico", ossia di crisi, per
il nostro
pianeta ed il suo ecosistema. Pertanto l'idea che in un
prossimo futuro
possa verificarsi un nuovo "optimum climatico" nell'Europa
settentrionale,
con tutte le connesse implicazioni di ordine ambientale,
economico, sociale
e politico, forse non dovrebbe preoccuparci più di tanto,
almeno se ci poniamo
in un'ottica di benessere globale del pianeta e non dei pur
comprensibili
interessi di singole aree. In ogni caso, si può ben dire che
nihil sub sole novi: non vi è nulla di nuovo sotto il sole.
Torniamo al Medioevo: dopo il 1200 si ebbe un rapido
raffreddamento
del clima, cui fece seguito una forte avanzata dei ghiacci,
protrattasi fino al
1300-1350. Questo periodo di raffreddamento è ben documentato
da prove naturalistiche
nella Scandinavia, in Islanda e in Groenlandia, dove la
diminuzione
della temperatura fu ben più sensibile che nell'Europa
centrale; in
Groenlandia segnò la fine della colonizzazione dei Vichinghi.
In modo analogo ma forse più traumatico, dopo un lunghissimo
periodo
temperato, attorno al 2000 a.C. era cominciato il declino
dell'"optimum climatico":
"Quasi improvvisamente, la temperatura precipita: entriamo
nella fase
subatlantica con clima umido e freddo; il faggio, nel quadro
vegetativo generale,
prende il sopravvento, la flora frondosa trasmigra dalla Svezia
settentrionale
in zone più a sud (...) Entriamo nel clima freddo del
postglaciale, il quale,
coincidendo nella fase massima con l'età del ferro, arginerà e
condannerà all'abbandono
tutte le più promettenti energie della cultura nordica. Il
FimbulWinter
della leggenda spande allora col gelo la miseria e la morte,
consigliando
e imponendo le migrazioni"138. Insomma, nella prima metà del
secondo millennio
a.C. - ossia proprio in coincidenza con l'epoca della diaspora
indoeuropea
il nostro emisfero subì un radicale mutamento del clima,
caratterizzato da
un sensibile e generale abbassamento della temperatura
dell'aria, con conseguente
avanzata dei ghiacci nelle regioni dell'Europa centro-
settentrionale e nei
grandi sistemi montuosi e con aumento della piovosità nelle
regioni mediterranee
e del Vicino Oriente: l'acme di tale processo fu raggiunta
attorno alla metà
del millennio e si protrasse per un paio di secoli

138 Laviosa Zambotti, Le più antiche civiltà nordiche, pag. 20

(successivamente, attorno al
1300 a.C, la tendenza si invertì e la temperatura media
ricominciò a salire).
Ritornando ora ad Omero, avevamo già posto l'accento
sull'intensità delle
precipitazioni descritte nei due poemi - nell'Iliade vi sono
espliciti accenni
alla "pioggia infinita" ("athésphaton òmbron", III, 4) -
correlandola con quanto
avvenne durante la fase declinante dell'optimum". Ed un altro
indizio che,
al tempo di quelle vicende, tale fase fosse ormai iniziata è
costituito dalle violente
perturbazioni che resero così difficili i ritorni in patria dei
reduci della
guerra troiana: in particolare, nel drammatico racconto di
Nestore a Telemaco
si avvertono tutte le perplessità sulla rotta da seguire e i
presagi di sciagure incombenti:
"Io con tutte le navi che m'avevan seguito,/ fuggivo, perché
compresi
che un dio preparava sciagure;/ fuggiva il figlio guerriero di
Tideo..."
(Od. III, 165-167). E a questo contesto così travagliato si
possono forse imputare
anche le difficoltà a salpare da Aulide che la flotta achea
aveva incontrato
all'inizio della guerra. E dunque probabile che, non molto
tempo dopo gli
avvenimenti narrati nei due poemi, le avvisaglie del tracollo
delle condizioni
climatiche nell'area baltica avrebbero fatto maturare in quelle
popolazioni l'esigenza
di scendere verso il sud, alla ricerca del clima più temperato
che il bacino
del Mediterraneo poteva offrire.
Che, d'altronde, le vicende cantate da Omero vadano collocate a
ridosso
dell'optimum climatico" ce lo indica il fatto che in quel mondo
sono ancora
presenti piante come la vite, o animali quali i grandi felini
(leoni e leopardi);
peraltro, a proposito di questi ultimi, notiamo che essi
vengono menzionati solo
nelle similitudini o in relazione alle loro pelli, mentre non
appaiono mai in
connessione con quei paesaggi di tipo tropicale in cui siamo
avvezzi a raffigurarceli:
ad esempio, nell'Odissea troviamo la singolare immagine di un
"leone
nutrito sui monti, sicuro della sua forza,/ che va tra la
pioggia e il vento" ("hyòmenos kaì aémenos"; Od. VI, 130-131):
più che a un abitante della savana,
questa immagine farebbe piuttosto pensare ad un orso.
D'altronde, già in
occasione della sorprendente identificazione del "fico" sullo
scoglio davanti a
Cariddi con un'alga che ricopre gli scogli dei mari nordici,
avevamo richiamato
l'attenzione sui possibili equivoci connessi con il
riconoscimento delle specie,
sia vegetali che animali, menzionate nei poemi omerici (al
riguardo, notiamo
che gli Spagnoli, allorché si insediarono in Sudamerica, spesso
diedero ad animali
e piante locali i nomi di specie più o meno simili presenti nel
Vecchio
Mondo). In ogni caso, è tutto nordico il delizioso quadretto
dell'Iliade in cui
vediamo "d'uccelli alati/ un branco, che beccano in riva al
fiume,/ oche o gru
o cigni dal candido collo" (Il. XV, 690-692). Al riguardo,
notiamo che sui graffiti
rupestri di Alta (Norvegia settentrionale), risalenti al IV
millennio a.C, sono
raffigurati proprio gru e cigni.
Inoltre, immagini quali quella del "pioppo/ cresciuto
nell'umido prato di
una grande palude" (Il. IV, 482-483) certamente evocano più un
paesaggio di
tipo finlandese che l'arido e scabro suolo della Grecia.
Tornando al tracollo del clima, in tale contesto si inseriscono
perfettamente
anche certe recenti tendenze a correlare i peggioramenti
climatici - riferiti
in particolare ai secoli, tra il XIII
ed il XVIII della nostra èra, successivi
al "periodo caldo medioevale", che hanno fatto registrare
diminuzioni della temperatura media tali da far parlare
addirittura di una "piccola glaciazione" con
l'insorgere di carestie e di epidemie (pensiamo alla peste che
flagellò l'Europa
nel XIV secolo, poco dopo l'inizio di questo processo di
raffreddamento,
o alla diffusione del cosiddetto "ballo di San Vito",
all'incirca nello stesso periodo).
Soprattutto le carestie, innescate dal freddo, potrebbero aver
rappresentato
una motivazione fondamentale per la ricerca di siti più
accoglienti da
parte degli antichi popoli baltici; ad esempio, secondo Saxo
Grammaticus, i
Longobardi migrarono dal Baltico al Mediterraneo perché "a
causa dell'estrema
inclemenza del clima, il raccolto dei campi andò in rovina e si
verificò una
grave penuria dei viveri" (Gesta Danorum VIII, XII, 1); ma
pensiamo anche
al "gelido inverno" (Il. XVII, 549) menzionato in precedenza.
In generale, si
ha quasi l'impressione che gli storici antichi fossero più
attenti di quanto non
lo siano i moderni a correlare le vicende storiche con le
oscillazioni del clima
(magari anche perché erano personalmente più esposti alle
avversità meteorologiche
e alle loro conseguenze).
Riguardo in particolare alle epidemie, basti ricordare il
morbo, provocato
dalle "frecce di Apollo", che infuria nel campo acheo
all'inizio dell'Iliade (1,
10): ad esso fa riscontro la morte dei dodici figli di Niobe
(XXIV, 603), sempre
ad opera delle "frecce" degli dèi. Questa situazione traspare
anche dalla suggestiva
descrizione di una stella che spunta in autunno e annuncia
l'arrivo della cattiva
stagione, con il suo triste fardello di sofferenze e di
malattie: "Si leva l'astro
autunnale e chiari i suoi raggi/ appaiono fra innumerevoli
stelle nel cuor della
notte;/ esso è chiamato il Cane d'Orione,/ ed è il più lucente,
ma dà presagio
sinistro/ e molta febbre porta ai mortali infelici" (Il. XXII,
27-31 ). Tutto ciò, unitamente
a quanto già detto in precedenza, va a delineare un quadro
complessivo,
di degrado climatico e di compromissione delle condizioni di
vita, che nel
suo insieme risulta perfettamente coerente e attendibile. Non
solo: esso fornisce
una più che ragionevole motivazione alle grandi migrazioni
verificatesi nella
prima parte del II millennio a.C, subito dopo il tracollo
dell'optimum": ci
riferiamo alla diaspora delle popolazioni indoeuropee, di cui
la discesa degli
Achei dal nord al sud dell'Europa non fu che un episodio.
Insomma, nel mondo omerico gli effetti del degrado del clima si
avvertivano
chiaramente: si stava avvicinando il momento di emigrare verso
le tiepide
rive del Mediterraneo.

Alla luce di quanto detto finora, non è forse senza significato


il fatto che
Esiodo ponga "coloro che caddero a Tebe e sotto Troia" in un
periodo particolare,
intermedio fra l'età del bronzo e quella del ferro (Le Opere e
i Giorni, 157-165), quasi avesse un'oscura consapevolezza della
cesura netta esistente
tra quell'epoca e la successiva; ciò è in pieno accordo con
quanto va emergendo
dal presente studio, vale a dire la soluzione di continuità
segnata dal trasferimento degli Achei, successivamente alla
guerra di Troia, dal mondo
baltico a quello egeo.
Tale evento è collocabile attorno all'inizio del XVI secolo
a.C: "Verso il
1600-1580 a.C. una profonda trasformazione si delinea nella
civiltà greca. Nella
terminologia degli archeologi, essa viene definita: passaggio
dall'Elladico
medio all'Elladico recente. Quest'ultimo periodo, che dura fino
al 1100 circa, è detto anche periodo miceneo dal nome della
località più importante dell'Argolide"139.
Esso corrisponde all'arrivo degli Achei sul suolo greco e al
concomitante
affiorare, sia pure per breve durata, di tendenze "nordiche",
quali la
predilezione per l'ambra, materia preziosa proveniente dalle
coste del Baltico,
e per gli elmi decorati con denti di cinghiale, del tipo di
quello indossato da
Ulisse (Il. X, 261-265) durante l'incursione nel campo troiano;
queste due "mode"
compaiono proprio all'inizio dell'Elladico recente e spariscono
abbastanza
presto.

139 Leveque, La civiltà greca, pag. 40

L'apparizione dell'ambra in concomitanza con l'arrivo degli


Achei sul
suolo greco è estremamente significativa, e così pure la sua
rapida scomparsa:
al riguardo, il prof. Martin Nilsson afferma che "l'ambra si
trova frequentemente
ed in grandi quantità in molte tombe micenee della terraferma,
per esempio nelle prime tombe a fossa di Micene (...) Il fatto
curioso è che
essa si trova particolarmente nelle prime tombe micenee, mentre
è scarsa o
del tutto assente in tombe posteriori. L'estrema scarsezza
d'ambra a Creta è in stridente contrasto con gli abbondanti
ritrovamenti sulla terraferma (...) Vi è una sola spiegazione
di questa differenza, cioè che un popolo immigrato dal
nord ha portato con sé il gusto e l'uso dell'ambra"140.
Inoltre, "l'analisi ha
mostrato che quest'ambra è di origine nordica, probabilmente
baltica (...) La
distribuzione dell'ambra comprova che i Micenei erano di
origine nordica"141
. E poi assai significativo il fatto che "l'ambra del Baltico
appaia per la
prima volta nell'Egeo all'incirca all'epoca delle prime tombe a
pozzo di Micene"142.
Quanto
ai denti di cinghiale che decoravano l'elmo di Ulisse, il
Canali ci
dice che "Scandinavi e Germani portavano sull'elmo riproduzioni
di cinghiale,
come simbolo di impeto guerriero"143. E Tacito ci informa che i
guerrieri
nordici "portano amuleti a forma di cinghiale ("formas aprorum
gestant") a tutela
da tutti i pericoli" (Germania, 45, 2).

140 'Nilsson, Homer and Mycenae, pagg. 76-77


141 Nilsson, The Minoan-Mycenaean Religion and ils Survival
in Greek Religion, pag. 19
142 Renfrew, L'Europa della preistoria, pag. 219
143 Tacito, La Germania, nota a pag. 108
L'archeologia micenea ci fornisce molte altre testimonianze che
vanno
nella stessa direzione; ad esempio, "una scoperta molto
importante è stata fatta
in una tomba a camera a Dendra (...) Sono state trovate due
lastre di pietra
(...) rettangolari con una proiezione della stessa forma su un
lato corto e ricoperte
con piccole cavità poco profonde. La loro somiglianza con i
menhir, conosciuti
dall'età del bronzo dell'Europa centrale, è impressionante, e
sembra
molto difficile negare la loro identità con queste pietre
sacre. Se è così, è una
conferma assai impressionante ("very striking") dell'origine
nordica dei Micenei"144.

144 Nilsson, Homer and Mycenae, pagg. 80-81

Tale
origine traspare anche da svariate particolarità della loro
architettura:
"A causa di parecchie di queste caratteristiche (tetto a doppia
falda, dimora
chiusa, focolare fisso) il palazzo miceneo evoca i paesi
nordici, freddi e umidi,
da cui senza dubbio proviene (...) Esso si oppone in modo
radicale alla concezione
architettonica, specificatamente mediterranea, del palazzo
cretese"145.
E che dire della struttura del "megaron", il salone principale
dei palazzi micenei?
Esso "era molto appropriato per un capo attorniato da vassalli
e compagni
di tavola, ed è identico alla sala degli antichi re scandinavi"
("is identical
with the hall of the ancient Scandinavian kings")146.

145 Leveque, La civiltà greca, pag. 47


146 Nilsson, Homer and Mycenae, pag. 75

A questo punto saremmo tentati di aggiungere che, forse, il


classico tetto
a doppio spiovente dei templi greci potrebbe tradire
quell'antica orìgine; le
loro stesse colonne sembrano richiamare la forma di grossi
tronchi d'albero,
che nel mondo nordico costituiscono tuttora una risorsa
pressoché inesauribile
e largamente utilizzata come materiale da costruzione. In ogni
caso, un popolo
di marinai con quel tipo di architettura, tipica dei paesi
freddi, non può che
provenire dal nord: se infatti i Micenei avessero avuto
un'origine più meridionale,
ad esempio anatolica, sarebbero necessariamente stati dei
montanari
e non certo quegli straordinari navigatori che, non appena
arrivati nel Peloponneso,
cominciarono ad installare le loro basi commerciali per tutto
il
Mediterraneo e, poco dopo, attraversarono il mare per andare a
conquistare
Creta.
Un'ulteriore conferma ci viene dalle loro caratteristiche
fisiche: "Gli Indoeuropei
che vennero a popolare la Grecia dovettero essere biondi e di
alta statura,
come biondi sono gli eroi di Omero e di aspetto imponente"147.
I loro resti
ossei, ritrovati nelle tombe a fossa di Micene, mostrano un
"fisico da campione"148;
d'altra parte, per quanto certe impressioni possano
esser ingannevoli, dagli stessi lineamenti della cosiddetta
"maschera d'oro di Agamennone",
uno dei reperti più noti della civiltà micenea, parrebbe
trapelare un'origine settentrionale
(l'effigie della "maschera" presenta altresì, a nostro avviso,
una
marcata rassomiglianza con certi reperti nordici, quali ad
esempio una figura
incisa su una pietra proveniente da una fornace di Snaptun,
nello Jutland, probabilmente
di età vichinga, o una maschera svedese del VI secolo rinvenuta
a
Valsgärde, nello Uppland)149.

147 Giannelli, Trattato di storia greca, pag. 52


148 Storia del mondo antico della Cambridge University,
vol. II
149 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pagg. 94 e 615

Ciò d'altronde è quanto sembra emergere dagli studi


antropometrici effettuati
sui resti umani rinvenuti nella necropoli di Kalkani: "Sarebbe
possibile
attribuire i crani delle donne al tipo mediterraneo, ma quelli
degli uomini
hanno una capacità maggiore rispetto alla norma, e non si può
fare alcuna obiezione
se essi vengono considerati appartenenti a uomini del tipo
nordico. La
stessa differenza si manifesta tra il re e la regina
provenienti da Dendra (...)
Conseguentemente l'antropologia non contrasta ma sembra
avvalorare l'opinione
che i Micenei fossero immigrati dal nord. Essi possono aver
preso mogli
indigene, come spesso fanno gli emigranti"150.

150 Nilsson, Homer and Mycenae, 85

In tutto questo quadro ben s'inserisce il fatto, già ricordato


in precedenza,
che Pindaro, il grande poeta lirico greco, in una sua ode
definisce "biondi"
i Danai.
Ora, se da un lato l'archeologia micenea ha messo in luce tutti
questi indizi
della loro provenienza dal settentrione, dall'altro quella
nordica ha da
tempo rilevato singolarissime correlazioni tra le
manifestazioni dell'età del
bronzo in Scandinavia e le coeve civiltà mediterranee. Ci
riferiamo in particolare
ad uno straordinario monumento funerario ritrovato nei pressi
di Kivik
(Svezia meridionale): si tratta di un imponente tumulo di
pietre di forma
circolare, del diametro di ben 75 metri, denominato "Bredarör",
contenente
un sarcofago, lungo circa 4 metri, costituito di lastre di
pietra squadrate su cui
sono incise figure sia umane, sia di animali ed oggetti
stilizzati, come asce e
ruote: il tutto si presta a suggestivi accostamenti con
analoghi reperti dell'area
sia egea che del Vicino Oriente. Sull'argomento fa testo un
recente studio
del prof. Klavs Randsborg, Kivik archaeology and iconography:
esso inizia
con la storia del ritrovamento, a partire dal XVIII secolo, e
la descrizione
dei reperti (capp. 1 - 5); seguono i parallelismi nel contesto
nordico-scandinavo
(capp. 6 - 9) e, infine, si analizzano in dettaglio le figure
graffite sulle
lastre della tomba (cap. 10), accostandole tra l'altro alle
immagini del sarcofago
cretese di Hagia Triada (cap. 11) e alle stele delle tombe di
Micene (Appendice).
Emergono insomma tra questo grande tumulo svedese e le opere
dell'età del
bronzo egea analogie sconcertanti, che già in passato avevano
colpito gli studiosi,
al punto da indurre uno studioso dell'Ottocento ad attribuire
la costruzione della
tomba addirittura ai Fenici151. Va notato che il Randsborg
procede in questi accostamenti
con grande cautela, dopo aver avvertito che "other allusions
are leftto
the reader"152 ("altre allusioni vengono lasciate al lettore").
Ciò è ben comprensibile:
le affinità tra un fenomeno macroscopico come la tomba di Kivik
e le coeve
civiltà mediterranee appaiono affatto inspiegabili, a meno di
ammettere un radicale
cambiamento di prospettiva - quello prefigurato dal Nilsson -
cioè la discesa
dei Micenei dal settentrione (seguendo probabilmente il corso
da nord a sud dei
grandi fiumi russi, mentre un ipotetico itinerario nel senso
opposto avrebbe comportato
un percorso via mare eccessivamente impegnativo: basti pensare
all'esiguità
delle tracce lasciate dai Romani nel territorio della Svezia,
troppo distante anche
per le flotte dell'impero più potente che abbia mai dominato
nel Mediterraneo).

151 Randsborg, Kivik archaeology and iconography, pag. 114


152 Randsborg, Kivik archaeology and iconography, pag. 2

Notiamo anche che graffiti rupestri, sul genere di quelli


incisi sulle lastre
della tomba di Kivik, sono tipici di tutta l'età del bronzo
nordica. Essi sono incentrati
su "tre principali soggetti di interesse: navi e navigli,
agricoltura e bestiame,
armi e combattimenti singoli"153: anche qui riscontriamo una
perfetta
aderenza al mondo omerico. In precedenza avevamo già
sottolineato le corrispondenze
riscontrate dagli studiosi tra le zattere incise sulle rupi
svedesi e
quella che Ulisse si fabbricò nell'isola Ogigia.
153 Bibby, Le navi dei Vichinghi, pag. 279

D'altronde, come afferma il prof. Giannelli, "gode ora la


preferenza di alcuni
glottologi questa prudente definizione dell'area originale
indoeuropea:
'zona centrale del continente eurasiatico, provvista di
notevoli caratteri di settentrionalità',
con la tendenza ad allargare la 'settentrionalità' addirittura
fino
al mar Baltico"154. E, a questo punto, molto significativo
appare un accenno del
filosofo Bertrand Russell alla questione dell'origine dei
Micenei: nel primo
capitolo della sua monumentale Storia dellafilosofia
occidentale l'illustre studioso
afferma che "vi sono tracce che fanno ritenere probabile che
essi fossero
dei conquistatori che parlavano greco, e che almeno
l'aristocrazia fosse formata
dai biondi invasori nordici che portavano con loro la lingua
greca"155. Ed
anche un archeologo come Geoffrey Bibby tiene a sottolineare
"l'origine comune"
dei prìncipi achei della Grecia e dell'Asia minore del XV
secolo a.C.
"con i coloni adoratori del sole della Scandinavia"156.

154 Giannelli, Trattato di storia greca, pag. 50


155 Russell, Storia della filosofìa occidentale, pag. 29
156 Bibby, Quattromila anni dopo, pag. 190
A questo punto ci sembra ragionevole supporre che, quando le
migrazioni
hanno interessato gruppi soprattutto maschili (come poi sarebbe
solitamente
avvenuto nel mondo vichingo, ad esempio in Normandia157), nelle
nuove
sedi si sia costituita una classe aristocratica, formata dagli
invasori e dai loro
discendenti: poco fa abbiamo visto che, secondo il Nilsson, i
crani maschili rinvenuti
nelle prime tombe micenee sembrano appartenere al tipo nordico,
mentre
quelli femminili sarebbero mediterranei. Invece, allorché a
spostarsi furono
interi gruppi familiari, comprendenti sia uomini che donne,
essi dovettero
presumibilmente istituire un sistema di caste rigidamente
chiuse, instaurando
forme di autentico apartheid nei confronti delle popolazioni
preesistenti, escluse
sia dai diritti politici che dalla possibilità di contrarre
matrimoni misti (pensiamo
agli Spartiati in Grecia, ai Romani nel Lazio, agli Arii in
India e, in tempi
più recenti, ai Boeri nel Sud Africa). Un'indiretta conferma
potremmo trovarla
nel fatto che tra i biondi Spartiati persistette a lungo la
consuetudine di
esporre i neonati deboli o deformi, che non a caso ritroviamo
tale e quale proprio
nel mondo vichingo158: ora, soltanto una migrazione di gruppi
misti, in cui
la presenza delle donne assicurava la continuità degli antichi
costumi all'interno
di un rigido sistema di discriminazione sociale, poteva
consentire che si
perpetuasse attraverso i secoli una pratica tanto cruda e
aberrante (invece i matrimoni
con donne locali con tutta probabilità la avrebbero fatta
cadere in disuso
al massimo dopo una o due generazioni).

157 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 39


158 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 89
Riguardo al prof. Martin Nilsson - studioso dalla fama
indiscussa, la cui
produzione, come attesta Giorgio Pasquali, si caratterizza per
"ricchezza e direi
quasi completezza nella conoscenza delle fonti, assenza di ogni
tendenziosità,
ripugnanza a ipotesi troppo ardite"159 - lascia perplessi il
fatto che le sue
documentatissime ricerche sull'origine nordica dei Micenei,
sostenute da prove
archeologiche irrefutabili, non abbiano tuttora la diffusione
che meritano.
Per di più esse si sposano magnificamente con le tracce di tipo
"miceneo" rilevate
dagli archeologi in certe culture della prima età del bronzo,
localizzate
nell'Europa centro-settentrionale, le quali, come è emerso
recentemente attraverso
la datazione al radiocarbonio, fiorirono diversi secoli prima
dell'inizio
della civiltà micenea in Grecia.

159 Nilsson, Le religioni degli antichi e i moderni,


Introduzione, pag. XX

Ci riferiamo in particolare alla cultura del Wessex,


localizzata nell'Inghilterra
sud-occidentale: "Numerose tombe sono state rinvenute nel
Wiltshire
e nel Dorset, corrispondenti all'antico Wessex, al di sotto di
tumuli sepolcrali
circolari, con corredi funerari ricchissimi. La maggior parte
di queste tombe
conteneva spade di bronzo, le cui else erano talvolta decorate
con chiodini d'oro.
Anche altri oggetti d'oro sono stati rinvenuti e a Rillaton in
Cornovaglia è stata portata alla luce una sepoltura con una
bellissima coppetta d'oro, spesso
paragonata ad esemplari micenei"160. In particolare, "nella
pianura di Salisbury
la tomba di un capo conteneva uno scettro intarsiato
'paragonabile soltanto
(...) ad uno rinvenuto in una delle antiche tombe a fossa di
Micene. Il complesso
monumentale di Stonehenge (...) con la sua sapienza e
raffinatezza architettoniche
può essere spiegato accettando l'ipotesi di una adozione
temporanea di
tecniche costruttive superiori, prese a prestito da un'area di
cultura più evoluta,
la quale, nel caso specifico, difficilmente è altra dalla
micenea"161.

160 Renfrew, L'Europa della preistoria, pag. 96


161 Burn, Storia dell'antica Grecia, pag. 33

Così pure, un graffito, che rappresenta "il pugnale di tipo


corrente nella
Grecia micenea, verso il 1500 a.C."162, è stato scoperto nel
1953 su uno dei monoliti
di Stonehenge, tra altre incisioni analoghe a quelle dell'età
del bronzo
scandinava.
Oltre alla cultura del Wessex, anche la principale cultura del
Bronzo Antico
in Cecoslovacchia e Germania, quella di Unetice, presenta
rimarchevoli
punti di contatto con quella micenea. Al riguardo, in un
capitolo dall'eloquente
titolo "Il crollo della cornice tradizionale", il prof. Colin
Renfrew ci dice che
le relative datazioni al radiocarbonio "si pongono tra il 2400
e il 1900 a.C. e
sembra probabile che la cultura di Unetice sia iniziata molto
prima del 2000
a.C. (...) Esse comunque suggeriscono che anche la cultura del
Wessex, che ha
molti evidenti legami con la tarda cultura di Unetice, sia
molto più antica di
quanto si ritenesse. Nel 1968 ho scritto un articolo in cui
proponevo che la cultura
del Wessex si estendesse tra il 2100 ed il 1700 a.C, come
sarebbe anche
confermato dalle datazioni al radiocarbonio per Stonehenge, ove
la struttura a
triliti sarebbe stata costruita prima del 1800 a.C. e forse
anche prima del 2000
a.C.".

162 Bibby, Le navi dei Vichinghi, pag. 334


163 Renfrew, L'Europa della preistoria, pagg. 97-98

Più in generale, la datazione col radiocarbonio, corretta con


la dendrocronologia
(cioè la calibrazione con gli anelli annuali degli alberi), ha
recentemente
messo in discussione il vecchio concetto dell'origine orientale
della civiltà
europea. Le conseguenze sulla cronologia tradizionale sono
molto rilevanti:
"Le date al radiocarbonio devono essere "calibrate", cioè
corrette (...) e
vengono retrocesse di diversi secoli; intorno al 3000 a.C. la
mutazione richiesta è addirittura di 800 anni (...) Le tombe
megalitiche dell'Europa occidentale
diventano ora più
antiche delle piramidi o delle tombe circolari di Creta,
ritenute loro antecedenti; le culture arcaiche che già
utilizzavano il metallo nei
Balcani precedono Troia e l'età del Bronzo Antico nell'Egeo, da
cui si presumeva
che derivassero, e, in Inghilterra, la struttura definitiva di
Stonehenge, che
si riteneva fosse stata ispirata da maestranze micenee, fu
completata molto prima
dell'inizio della civiltà micenea"164.

164 Renfrew, L'Europa della preistoria, pag. 63

Tornando alle tracce dei Micenei nel contesto nordico - in un


periodo, lo
sottolineiamo ancora, che precede di diversi secoli il loro
insediamento in Grecia
- esse si inseriscono splendidamente nel quadro generale sin
qui tracciato,
tenendo anche conto del fatto che i contatti fra mondo baltico-
scandinavo ed
isole britanniche sono stati sempre intensi fin dall'antichità:
fra gli antenati degli
attuali Inglesi vi sono gli antichi luti, provenienti dallo
Jutland (nel seguito
ci azzarderemo ad accostarli agli omerici Etoli, che, seguendo
la scansione
del Catalogo delle navi, risultano localizzabili proprio in
quell'area); lo stesso
Saxo all'inizio delle Gesta Danorum ricorda l'ascendenza danese
del mitico
progenitore degli Angli. Al riguardo, la Laviosa Zambotti ci
conferma "quell'ininterrotta
continuità dei rapporti esistenti tra la Scandinavia, la
penisola
cimbrica (lo Jutland) e le isole Britanniche, che constatammo
anche anteriormente
fin dal Mesolitico. Tali rapporti dovettero essere fecondi e
particolarmente
attivi durante il Neolitico non soltanto rispetto ai cicli
culturali artico baltico,
submegalitico e megalitico nordico, ma posteriormente ancora
quando le
isole Britanniche assumono una funzione importante
nell'irradiazione della
cultura iberica del vaso campaniforme e l'Irlanda con la sua
produzione aurea
diviene una fonte di inesausti contatti con il Nord"165.

165 Laviosa Zambotti, Le più antiche civiltà nordiche, pag.


223

E di queste relazioni è rimasto un preciso ricordo anche nella


mitologia
greca: "I legami che uniscono gli abitanti dell'isola
Britannica ai Greci risalgono
a quel corredo di leggende che ritroviamo in Erodoto o Plinio
il Vecchio
a proposito degli Iperborei e della nascita di Apollo a
Delo"166. Ora, tra le ragioni
di tali contatti, indubbiamente facilitati dalla particolare
navigabilità del
mare durante l'optimum climatico", una delle più importanti
doveva essere legata
al fatto che la Cornovaglia è una delle pochissime regioni
nordiche produttrici
di stagno, metallo fondamentale per la produzione del bronzo
(che, ricordiamo, è una lega di rame e stagno): è dunque più
che probabile che la ricca
produzione di oggetti registrata durante l'età del bronzo
nell'Europa settentrionale
sia almeno in parte attribuibile allo sfruttamento delle
miniere dell'Inghilterra
sud-occidentale ed al relativo commercio del bronzo, attraverso
il
Mare del Nord, dalle isole britanniche verso l'area baltico-
scandinava.

166 Markale, I Celti, pag. 104


A questo punto, proviamo a rileggere un passo dell'Odissea che
riporta la
dichiarazione di un uomo di mare (si tratta di Mente, capo dei
Tafi), appena
sbarcato ad Itaca: "Sto andando sul livido mare verso genti
straniere,/ verso Temesa per bronzo ("es Temésen metà
chalkòn"), e porto ferro lucente" (Od. I,
183-184): sarebbe ragionevole ipotizzare un collegamento
fraTemesa, mercato
del bronzo situato oltremare, tra "genti straniere"
("allothròous anthròpous"),
ed il nome del Tamigi, chiamato in latino Tamesis e "dai primi
cronisti inglesi
variamente Tamis, Tamisa o Tamensim"167. Insomma
nell'Inghilterra meridionale
doveva esistere un centro di scambio tra il bronzo, prodotto
con lo stagno
della Cornovaglia, ed il ferro proveniente dall'area baltica
settentrionale;
d'altronde una tale ipotetica, ma certamente plausibile, rotta
preistorica tra le
isole britanniche e il golfo di Botnia per lo scambio dei
metalli poteva senz'altro
annoverare tra i suoi scali intermedi anche l'arcipelago del
Sud Fionia, situato
non molto lontano dallo sbocco del Baltico verso il Mare del
Nord, e così
si spiega anche la sosta di Mente nell'isola d'Itaca.

167 The new Encyclopædia Britannica - Macropædia, voce:


"Thames River"

Ciò è anche in linea col fatto, sottolineato dal Brögger, che


"l'età del bronzo
ha contrassegnato il grande millennio della navigazione d'alto
mare (...) Le
materie prime necessarie, stagno e rame, dovevano provenire da
regioni completamente
differenti; bisognava andare a cercarsele (...) L'ubicazione
delle
materie prime governava, in certa misura, i nuovi
itinerari"168. E riguardo all'abilità
marinara degli Achei e dei loro discendenti Micenei, ce ne
danno ampie
testimonianze non solo i poemi omerici, ma anche le evidenze
archeologiche
riscontrate in tutta l'area mediterranea.

168 Bibby, Le navi dei Vichinghi, pag. 281

Tornando a Temesa, questo nome sarebbe poi stato, come al


solito, "riciclato"
nel Mediterraneo: sembra infatti che così fosse chiamata una
città calabrese
della Magna Grecia (situata ad ovest della Grecia vera e
propria, dunque
in posizione all'incirca corrispondente a quella
dell'Inghilterra rispetto al mondo
baltico degli Achei).
E, sempre riguardo al Tamigi, ci sembra particolarmente
significativo un
riferimento di Tacito alla Londra del suo tempo: "Londinium
(...) assai nota per
i grandi traffici di mercanti e di merci" (Annali, XIV, 33).
Abbiamo già osservato
che l'epoca di Tacito può essere collocata all'incirca a metà
dell'intervallo
temporale che intercorre tra le vicende dell'Odissea ed il
mondo di oggi;
nondimeno, è certamente ragionevole supporre che la vocazione
mercantile
di quell'area, favorita dalla sua posizione geografica, si
fosse sviluppata sin
da tempi remoti (ciò d'altronde è confermato da quei rapporti
tra Scandinavia
e isole britanniche, risalenti ad epoche antichissime, a cui
accennavamo poco
fa). Anzi, durante l'età del bronzo, allorché armi, stoviglie e
utensili erano fatti
quasi esclusivamente con questo materiale, la sua importanza
doveva essere
ancora maggiore: dato infatti il ruolo preminente della
Cornovaglia per la
produzione dello stagno, non si può affatto escludere, a rigor
di logica, che l'estuario
del Tamigi, strategicamente orientato verso il mar Baltico e la
Scandinavia,
rappresentasse il principale centro di scambio dei metalli in
tutta l'Europa
settentrionale. Non è dunque un caso che proprio Temesa sia
l'unico mercato
del bronzo menzionato nei poemi omerici (secondo recenti
notizie riportate
dalla stampa, a Londra, nei pressi del Parlamento, sarebbero
stati ritrovati
i resti di un ponte di legno sul Tamigi risalente ad almeno il
1500 a.C: ciò attesterebbe la presenza di un importante
insediamento, precedente di oltre
mille anni a quanto si sapesse finora, del tutto congruente con
il quadro che qui
stiamo cercando di ricostruire).
In ogni caso, ricordando che Stonehenge si trova a metà strada
tra la Cornovaglia
e l'estuario del Tamigi, in una zona strategica per il
controllo di questa
"via dello stagno" che attraversava tutta l'Inghilterra
meridionale da ovest
verso est, è facile a questo punto intuire le ragioni della
presenza degli Achei
nell'area del Wessex.

Ed ora, per approfondire l'analisi dei rapporti fra il mondo


descritto dai
poemi omerici e quello dei Micenei installatisi in Grecia, ci
soffermeremo brevemente
sulle tavolette provenienti da un archivio del palazzo di
Cnosso del
XV secolo a.C, nonché su altre, risalenti al XIII secolo,
rinvenute a Pilo e a Micene.
La decifrazione della scrittura micenea, la cosiddetta "lineare
B", che ricopre
le tavolette (avvenuta attorno al 1952 ad opera dell'architetto
inglese
Michael Ventris), ha consentito di stabilire che questi popoli
parlavano un dialetto
greco, affine allo ionico di Omero. È inoltre ben presente
l'impronta della
religione omerica, perché sulle tavolette si leggono i nomi di
Zeus, Hera,
Atena, Poseidone, Hermes, Artemide, Ares, Efesto: ciò fa
supporre che i Micenei
avessero già alle loro spalle una lunga storia, la quale doveva
affondare
le sue radici molto più indietro dei pochi secoli trascorsi da
quando erano arrivati
nel mondo mediterraneo.
Tra i nomi di persona, significativamente le tavolette ne
riportano alcuni che
ci sono noti dalla poesia omerica, quali Achille ed Ettore, che
nel periodo greco
classico sarebbero poi caduti in disuso; invece, nel mondo
miceneo "erano portati
da comuni mortali, fabbri, pastori e schiavi"169. Inoltre, in
una serie di tavolette
incise a Pilo si legge la parola "oka", cioè "olkas", nave,
seguita dal nome
dei comandanti: ciò richiama alla mente il Catalogo delle navi
dell'Iliade.

169 Graf, Il mito in Grecia, pag. 51


Più in generale, gli studiosi hanno cercato di mettere a
confronto la realtà descritta nei poemi omerici con quella del
mondo miceneo, quale è andata via
via emergendo dalla decifrazione delle tavolette. I risultati
sono stati sconcertanti:
a parte le discrepanze su cui ci siamo soffermati
nell'introduzione, è stato
notato che, se da un lato esiste un rapporto tra l'universo
descritto da Omero
e quello miceneo, dall'altro questi due mondi non si
identificano affatto, secondo
l'ormai unanime tendenza degli studiosi a negare che i poemi
omerici
riflettano la realtà di quest'ultimo: in proposito, come ci
dice il Finley, "oggi
non si sostiene più seriamente, anche se si continua a
ripeterlo abbastanza spesso,
che l'Iliade e l'Odissea rispecchiano la società micenea (...)
La decifrazione
delle tavolette in Lineare B e l'archeologia, insieme, hanno
distrutto la vecchia
ortodossia"170. Infatti "il mondo di Odisseo non è l'età
micenea di cinque,
sei o sette secoli prima, ma non è neppure il mondo dell'VIII o
VII secolo
a.C"171. A sua volta, il Codino osserva che "se cerchiamo di
ricostruire un'evoluzione
storico-politica disponendo in qualche ordine cronologico
plausibile
gli sparsi indizi contenuti nei poemi, dobbiamo ammettere
ancora una volta
che per questo scopo le poche conclusioni sicure raggiunte
dalla critica filologica
ci offrono un aiuto che può essere problematico"172: in
sostanza, sono
le parti dei poemi considerate più tarde che sembrano meglio
rispecchiare
ciò che sappiamo del mondo miceneo (il che s'inserisce
perfettamente nel quadro
tracciato dalla presente ricerca).

170 Finley, Il mondo di Odisseo, prefazione, pag. XVIII


171 Finley, Il mondo di Odisseo, pag. 30
172 Codino, Introduzione a Omero, pag. 77
Ancora, il Graf fa presente che "il racconto epico dei miti
presso i greci
ha una dimensione profonda, che affonda le sue radici in pieno
terzo millennio
avanti Cristo, molto tempo prima della fioritura della civiltà
micenea"173;
ne è una conferma il fatto che "ci sono luoghi importanti sotto
il profilo mitico,
senza un grande passato miceneo - le città di Argo e Sparta,
per esempio,
o Itaca, dove Schliemann aveva invano cercato un palazzo di
Odisseo; ci sono
insediamenti micenei o palazzi senza miti riconoscibili, per
esempio Gla in
Beozia, Asine nell'Argolide o Mileto; della colonizzazione
micenea dello Ionio
parla il mito tanto poco quanto della conquista micenea della
Creta minoica
(...) Mito ed epos non delineano alcun ritratto attendibile del
mondo miceneo"174.
Insomma, le vicende della loro mitologia, così ricche di
riferimenti al
mare e alla navigazione, sono ben difficilmente inquadrabili
nel contesto greco,
troppo recente: esse invece non possono che rispecchiare il
loro mondo originario. Quest'ultimo, dunque, doveva essere
costiero, essendo essi navigatori
provetti, e nel contempo nordico, come dimostra la loro
architettura.

173 Graf, // mito in Grecia, pag. 56


174 Graf, // mito in Grecia, pag. 52

D'altro canto, vi è un generale assenso su quanto il Finley


sosteneva sin dagli
anni '50, cioè sul fatto che, rispetto alla cultura micenea, il
mondo di Odisseo
era molto più primitivo nelle sue istituzioni. Pensiamo solo al
fatto che i figli del
re Priamo pascolavano le pecore tra le gole dell'Ida (Il. XI,
106) e che davanti alla
reggia di Ulisse vi era un grosso cumulo di letame (Od. XVII,
297) e razzolavano
i maiali (Od. XX, 164): siamo ben lontani dalle sontuose
civiltà palaziali del
mondo egeo! Ma un tale dislivello si può spiegare agevolmente
proprio alla luce
della presente tesi, anzi rappresenta un ulteriore indizio a
suo favore: è chiaro infatti
che la ruvida, ma vitalissima, civiltà degli Achei, una volta
discesa nel sud dell'Europa,
si è evoluta rapidamente perché è entrata subito in contatto,
grazie alla
navigazione e ai commerci, con le raffinate culture
mediterranee e del Vicino Oriente
(Creta, Egitto, Siria ecc.): da qui il gap tra il mondo omerico
antecedente alla migrazione,
più arcaico ed arretrato, e quello miceneo di qualche secolo
dopo.
E insomma evidente che, se da un lato esiste un rapporto tra
l'universo descritto
da Omero e quello miceneo, dall'altro questi due mondi non si
identificano
affatto, secondo l'ormai unanime tendenza degli studiosi a
negare che i
poemi omerici riflettano la realtà del contesto miceneo. In
questa situazione così
complessa e problematica, dove coesistono le divergenze del
mondo omerico
rispetto a quello miceneo, le sue corrispondenze con l'Europa
barbarica dell'età
del bronzo e le evidenze archeologiche sull'origine nordica
della civiltà
micenea, abbiamo già fatto presente che l'unico modo per far
"quadrare i conti"
è l'introduzione di un ulteriore tassello: la coincidenza della
geografia omerica
con il mondo nordico. Ciò comporta la rinuncia
all'apparentemente ovvia
collocazione mediterranea dei poemi omerici: d'altronde gli
sviluppi della
scienza moderna hanno comportato non meno clamorosi abbandoni
di altri
princìpi a prima vista intoccabili, quali il geocentrismo o
l'indipendenza della
contemporaneità degli eventi dal moto dell'osservatore.

E adesso, poiché i poemi omerici risentono in modo così marcato


della loro
originaria matrice nordica - non solo per la geografia ma anche
per tanti altri
aspetti, quali ad esempio il clima, così differente da quello
del Mediterraneo
-- ci si può domandare in qual modo essi, o quanto meno i loro
nuclei originari,
abbiano potuto tramandarsi da un'età tanto remota, precedente
al trasferimento
degli Achei nel sud dell'Europa, fino alla redazione dell'VIII
secolo
a.C. (è questa l'epoca su cui converge la maggior parte degli
studiosi).
Si tratta di un problema estremamente difficile, che certamente
esula dai
limiti della presente ricerca (la quale, lo ricordiamo, ha un
carattere essenzialmente
geografico). Qui ci limiteremo a fare qualche considerazione
sulle due
possibili modalità di trasmissione: quella scritta e quella
orale.
La persistenza, in un lasso di tempo tanto lungo, di
caratteristiche "nordiche"
così spiccate potrebbe far propendere verso l'ipotesi della
trasmissione
scritta: a questo proposito, le tavolette in "lineare B"
dimostrano che i Micenei
sapevano scrivere, sia pure in una scrittura sillabica, meno
raffinata di quella alfabetica;
il fatto che quelle sinora trovate - sopravvissute solo per
caso: gli incendi
dei palazzi in cui erano custodite hanno cotto l'argilla,
rendendo indelebili
i caratteri ivi impressi, e i successivi crolli le hanno
protette sotto le macerie nei millenni successivi - riportino
solo testi commerciali, non implica di per
sé che la trasmissione poetica dovesse essere affidata
unicamente all'oralità.
Per quanto riguarda in particolare il mondo omerico, se i
guerrieri che combatterono
a Troia certo non paiono essere più colti di un Carlo Magno,
noto esempio
di re pressoché analfabeta, nel VI libro dell'Iliade
incontriamo un passo, sia
pure isolato, che parrebbe alludere all'uso di una qualche
forma di scrittura: vi
si accenna al re Preto il quale, tramando la morte dell'eroe
Bellerofonte, lo
"mandò nella Licia, gli diede segni funesti,/ molte parole di
morte tracciando su
duplice tavola,/ e ingiunse, per farlo perire, che la mostrasse
al suocero" (Il. VI,
168-170; si inaugura così un cliché, peraltro noto anche alla
Bibbia, che avrà fortuna
tra gli scrittori delle epoche successive). Non si può insomma
escludere che
i primitivi nuclei dei due poemi siano stati trasmessi e
conservati durante l'età micenea attraverso testi scritti,
eventualmente subendo anche delle limitate rielaborazioni
per adattarli all'evoluzione del linguaggio (ad esempio il
Ramayana, poema epico dell'India, si trova diffuso in
moltissime versioni, corrispondenti
alle innumerevoli lingue di quell'immenso subcontinente).
Comunque, quella della loro eventuale trasmissione scritta
durante l'età micenea resta solo una congettura, in assenza di
prove specifiche; d'altronde
il mondo nordico non ha finora rivelato tracce di scrittura
risalenti al II millennio
a.C: si potrebbe dunque supporre che gli Achei ne abbiano
appreso l'uso
dopo il loro arrivo nel Mediterraneo, nel contatto con le
evolute civiltà locali.
Non si può peraltro escludere che la trasmissione orale di
generazione in
generazione, data la forte motivazione di quei popoli nei
confronti dei due
poemi, sia stata di per sé sufficiente a "traghettarli" senza
eccessivi traumi lungo
un arco temporale esteso su quasi un millennio, dalla discesa
nel Mediterraneo,
risalente al XVI secolo, fino alla redazione dell'VIII secolo.
A tale proposito, è interessante una notizia riportata dal
Piggott: "Non molto tempo fa apparve
a Benares un sacerdote indiano che dettò una lunghissima opera
religiosa
in versi, fino allora sconosciuta e non trascritta, che, a
giudicare dallo stile
e dal linguaggio, apparteneva almeno al medio evo, periodo nel
quale aveva cominciato
ad essere tramandata oralmente"175.

175 piggott, India preistorica, pag. 271


Inoltre, a nostro avviso, potrebbero essere di notevolissimo
interesse
per gli specialisti alcune considerazioni fatte dalla famosa
etnologa Alexandra
David-Neel, grande studiosa del mondo tibetano, la quale lungo
l'arco
di alcune settimane ebbe modo di ascoltare dalla viva voce di
un bardo, per
poi trascriverla in francese, l'epopea di Gesar, mitico eroe
nazionale del Tibet
(le cui vicende non di rado richiamano sia il mondo omerico che
quello
celtico): "Tutto lascia supporre che, originariamente, i canti
che celebravano
Gesar si trasmettessero solo oralmente. E un costume che ancora
esiste,
molti bardi sono tuttora analfabeti. In seguito, in un'epoca
che è difficile da
precisare, ebbe inizio la raccolta delle storie e la loro messa
per iscritto, raggruppandole
secondo il tipo di soggetto trattato. E possibile trovare dei
manoscritti,
sotto questa forma, che i devoti a Gesar si prestano
vicendevolmente
per poterli ricopiare (...) Non esistono raccolte che
comprendono l'epopea
intera. Ogni manoscritto riporta una parte speciale delle
avventure
dell'eroe (...) Pochi cantori conoscono per intero, nei
particolari, la storia di
Gesar. Le conoscenze della maggior parte di loro non vanno al
di là di un numero
più o meno importante di canti ed essi si limitano a recitare
sempre gli
stessi nelle riunioni cui vengono chiamati (...) La maggior
parte dei poeti si
reputerebbero gravemente offesi, se qualcuno si permettesse di
dire loro che
hanno imparato i canti del poema. Essi affermano di essere
direttamente
ispirati da Gesar o da un altro personaggio divino, che detta
loro le parole che
pronunciano"176.
176 David-Neel, Vita sovrumana di Gesar di Ling, pagg. 39-
40

Questa ci sembra essere la migliore risposta a molti


interrogativi sulle
modalità di trasmissione dei poemi omerici, che da un lato si
proclamano anch'essi
ispirati da una divinità, come esplicitamente dichiarato
all'inizio sia dell'Iliade che dell'Odissea, dall'altro hanno
diversi punti di contatto con la saga
di Gesar (che a sua volta potrebbe essere almeno in parte
ricondotta all'antichissima
tradizione comune indoeuropea, come sottolinea Gianfranco de
Turris177 nella sua introduzione alla versione italiana del
testo della David-Neel).
Invece, circa la primitiva redazione dei loro nuclei originari,
ogni ipotesi a
questo punto sarebbe temeraria; tuttavia, data la sostanziale
staticità che sembra
aver caratterizzato molti aspetti del mondo nordico dall'età
del bronzo al
tempo dei Vichinghi - passando per l'epoca romana, riguardo a
cui abbiamo
la testimonianza della Germania di Tacito - si potrebbe forse
tentare di ricavare
qualche elemento utile approfondendo le modalità di vita e di
lavoro degli
scaldi norreni, nonché analizzando le loro opere alla luce di
quanto è emerso
finora.

177 David-Neel, Vita sovrumana di Gesar di Ling, pagg. 10-


11
Riguardo poi all'antichità dei due poemi, abbiamo un indizio
che ci sembra
particolarmente significativo: come afferma il prof. Kirk,
"un'analisi linguistica
recente avanza l'ipotesi che la tmesi omerica, cioè l'uso di
staccare elementi
avverbiali o preposizionali che nella lingua posteriore
avrebbero costituito
parte integrante di verbi composti, appartenga ad uno stadio
del greco
antecedente a quello documentato dalle tavolette in lineare B:
in tal caso, si dovrebbero
arretrare nel tempo gli elementi del linguaggio omerico, un
balzo di
cinquecento anni e più rispetto all'epoca del poeta"178.

178 Cambridge University, La Letteratura greca, vol. 1,


pagg. 88-89

Per quanto concerne la redazione dell'VIII secolo (cioè quella


che in sostanza è pervenuta fino a noi, pur con tutti i
presumibili rimaneggiamenti successivi)
essa sembra coincidere con l'epoca dell'introduzione della
scrittura alfabetica
nel mondo greco, avvenuta all'incirca nello stesso periodo:
infatti, sempre
il Kirk afferma che "una delle circostanze curiose relative a
Omero è il suo
apparire in scena proprio sul limitare del periodo orale; era
l'epoca in cui la
scrittura, grazie all'introduzione dall'Oriente di un pratico
sistema alfabetico, nel
nono o all'aprirsi dell'ottavo secolo a.C, prese a diffondersi
in terra ellenica"179.
Sarebbe a questo punto ragionevole ipotizzare che questa
coincidenza non sia
affatto casuale e che tale redazione sia consistita
semplicemente nella trascrizione dei due poemi nel nuovo
sistema dì scrittura (il che potrebbe aver anche
comportato degli adattamenti specifici del testo alla lingua
allora corrente).

179 Cambridge University, La Letteratura greca, vol. I,


pag. 82
In tal modo si spiegherebbero tutte le innumerevoli
incongruenze, geografiche
e non: pensiamo per esempio al fatto che nell'area mediterranea
non
esiste alcuna traccia dei Feaci - eppure Omero più volte li
definisce "navigatori
famosi" - né della Scheria. Inoltre, perché mai un poeta
dell'VIII secolo
avrebbe dovuto inventarsi di sana pianta, e senza alcuna
esigenza narrativa,
un'isola ragguardevole come Dulichio, collocandola in un
contesto geografico
ben preciso (che però a sua volta risulta totalmente "sballato"
nel mondo
greco)? E come si giustifica l'insistenza nel menzionarla
ripetutamente sia nell'Iliade che nell'Odissea (le quali
oltretutto sembrano opera di due autori diversi, come molti
sostengono sin dall'antichità)? Ora, la presenza di Dulichio
nei poemi omerici - e di Langeland nel mar Baltico - è un fatto
altrettanto reale
quanto lo è la sua inesistenza nel Mediterraneo; e, come ci
ricorda Norberto
Bobbio, come tutti i "fatti" ha la testa più dura di qualsiasi
ragionamento, anche
il più sottile: "Contra factum non valet argumentum". E di
"fatti" come Dulichio,
come abbiamo visto, in questo campo ve ne sono a non finire.
E insomma incontestabile la persistenza di numerosissimi
particolari rivelatori
della matrice originaria, quelli che la presente ricerca sta
cercando di
mettere in luce: pensiamo, tra gli innumerevoli esempi,
all'alternativa, proposta
da Nestore (Od. III, 324) e accettata da Telemaco, di viaggiare
da Pilo a
Sparta per via di terra anziché per mare: nel contesto omerico,
calato nella
realtà della geografia baltica, una tale scelta appare
pienamente giustificata dal
fatto che il "Peloponneso" risulta pianeggiante; invece, ad un
ascoltatore greco
doveva sembrare assai strana, anzi del tutto assurda. Come
altrettanto assurdi
dovevano apparirgli i continui richiami a quell'inesistente
"isola lunga"
nei pressi di Itaca, o il racconto dell'interminabile battaglia
proseguita, chissà come, per tutta la notte senza mai
interrompersi. E che dire della stupefacente
precisione dei particolari topografici e morfologici di Toija-
Troia e di Lyø-Ita
ca, gli scenari in cui si svolgono le azioni principali dei due
poemi? Sono proprio
questi dettagli - ma pensiamo anche a quel clima così diverso
da quello
mediterraneo, su cui ci siamo soffermati poco fa - ad indurci a
supporre che i
testi per così dire "originali" non siano stati eccessivamente
stravolti dalla lunga
permanenza in un mondo tanto diverso (d'altronde, la poesia
tende a conservarsi
inalterata assai più della prosa): gli studiosi che avranno
modo di indagare
su questi problemi non potranno non tenerne conto.
Dunque i poemi omerici, o quanto meno i loro nuclei originari,
possono
essere considerati alla stregua di veri e propri "fossili",
risalenti all'età del
bronzo nordica e sopravvissuti al suo tracollo in virtù della
trasmigrazione
degli Achei nel sud dell'Europa. Ed ora siamo finalmente in
grado di capire anche
perché la figura di Omero appaia così vaga e sfuggente: di lui
in realtà non
si sa nulla, né dove nacque, né quando visse, né dove morì. Al
riguardo, il Codino
fa un'affermazione estremamente eloquente: "Se fosse possibile,
seguiremmo
lo schema classico di ogni indagine preliminare su un'opera
letteraria:
ambiente storico, fonti, biografìa e personalità dell'autore.
Si dà il caso che
per noi queste siano tre incognite"180. Sulla sua vita non si
ha alcuna notizia attendibile
(anzi, vi è il sospetto che addirittura si tratti di due
persone diverse):
l'immagine del poeta, nascosta dietro la sua opera, sfuma nelle
nebbie del mito
e in questo si fa tutt'uno con i suoi poemi. D'altronde, tutto
ciò s'inquadra
con tale naturalezza nella prospettiva delineata dalla presente
tesi da rappresentarne
in certo senso un'ulteriore conferma.

180 Codino, Introduzione a Omero.

In definitiva, l'Iliade e l'Odissea forse rappresentano il


"canto del cigno"
dei popoli di stirpe achea nell'area baltica, quasi un
"testamento spirituale"
con la memoria imperitura dell'ultima, e più gloriosa, impresa
comune: "Anche
in futuro/ noi saremo cantati fra gli uomini che verranno..."
(Il. VI, 357-358).
Così assume un senso ancor più struggente la
devozione che i loro discendenti
ebbero per la poesia di Omero, segno della continuità nel
ricordo dei padri ed estremo vestigio di un mondo scomparso,
poi mirabilmente ricostruito
nel Mediterraneo a partire dall'età micenea.

Viene infine naturale chiedersi quale via abbiano percorso gli


Achei per
trasferirsi dal bacino baltico a quello mediterraneo. Forse la
stessa che, due
millenni e mezzo dopo, avrebbero seguito i Variaghi, una stirpe
vichinga di
origine svedese? Costoro, provenendo dalla Scandinavia, verso
l'inizio del IX
secolo d.C irruppero nella Pianura Sarmatica, scesero per il
fiume Dnepr (il
Boristene degli antichi Greci), presero Kiev - dove fondarono
il regno di Rus',
primo nucleo dell'impero russo - e di lì, sempre seguendo il
corso del fiume,
sboccarono nel Mar Nero: nell'anno 886 giunsero ad assediare
Costantinopoli.
A tale proposito, "tutti gli storici russi vanno d'accordo nel
vedere la 'tendenza
verso Bisanzio' come un movimento favorito dallo stesso corso
dei fiumi
della Russia meridionale"181.

181 Treccani, voce "Russia: Storia"

Non sarà mai abbastanza sottolineata l'enorme importanza di


queste vie
d'acqua quali arterie per le trasmigrazioni di popoli e civiltà
dal nord al sud
(Tav. XIII); perciò non è difficile immaginare che pure gli
Achei, nella loro discesa
verso latitudini più meridionali, possano avere scelto tale
itinerario, il
più naturale tra il mondo baltico ed il Mediterraneo (senza
naturalmente escludere
i percorsi per via di terra, che molto tempo dopo sarebbero
stati seguiti da
altre popolazioni, anch'esse di origine baltico-scandinava,
nelle loro migrazioni
verso il sud dell'Europa, quali i Cimbri e i Teutoni nel I
secolo a.C. e, successivamente,
Burgundi, Goti e Longobardi). È quindi ragionevole supporre
che anch'essi, seguendo questa "tendenza verso Bisanzio" ante
litteram, allorché
il tracollo del clima li costrinse ad emigrare abbiano
raggiunto il Dnepr
(probabilmente dopo aver risalito la Dvina occidentale), ne
abbiano seguito
il corso fino allo sbocco nel Mar Nero, indi attraverso i
Dardanelli siano
sboccati nell'Egeo per poi insediarsi nel Peloponneso, dove
fondarono la civiltà
micenea (tra gli altri percorsi possibili vi è quello
costituito dalla Vistola e dal
Dnestr).
Al riguardo, ci sembra significativo il fatto che le tombe a
pozzo micenee
richiamino "le contemporanee tombe a capanne di legno della
Russia meridionale,
dove ancora si trova una singolare posizione funeraria con i
ginocchi
piegati sporgenti, esattamente come a Micene"182.

182 piggott, Europa Antica, pag. 129

È importante osservare che la "via del Dnepr" durante il


Medioevo sarebbe
stata un'arteria fondamentale per i mercanti vichinghi ed i
loro traffici tra l'area
baltica e il Mediterraneo
orientale, unitamente a quella del Volga, che a sua volta
collega il mondo nordico con il Mar Caspio e rappresenta la
principale via
di comunicazione con l'Iran e l'India: tali itinerari durante
l'età del bronzo probabilmente
erano già conosciuti, e pertanto non si può affatto escludere
che la
nascita e la successiva fioritura delle culture delle steppe -
gli Sciti dell'antichità classica - avvenute proprio nei
territori interessati, direttamente o indirettamente,
dai due grandi fiumi, siano da inquadrare proprio in tale
contesto.
In questo quadro ben s'inserisce anche una testimonianza di
Erodoto sull'origine
degli Sciti: "Essi dichiarano che dalla loro origine e dal loro
primo re,
Targitao, fino alla spedizione di Dario contro di loro sono
trascorsi mille anni" (Storie, IV, 7). Ora, poiché la
spedizione di Dario è databile al 514 a.C, di
conseguenza la loro origine risalirebbe al XVI secolo a.C: non
a caso, ritroviamo
la stessa epoca della discesa dei Micenei e delle altre
migrazioni indoeuropee.
Sempre
riguardo ai Micenei, una volta che questi navigatori abili e
ricchi
di iniziativa arrivarono nell'Egeo, dovettero subito lanciarsi
nell'esplorazione di
ciò che per loro era il "nuovo mondo"; così ben presto si
accorsero che esso presentava
alcune analogie geografiche con quello che avevano dovuto
abbandonare:
di qui la tendenza, del tutto naturale, a ribattezzare i luoghi
corrispondenti,
nonché i relativi popoli, usando gli stessi nomi della patria
perduta. Ecco allora
che Sjælland, la grande isola pianeggiante situata verso
l'estremità sud-occidentale
del Baltico, venne identificata con una penisola montuosa ma
collocata
in posizione similare nel contesto greco; il "largo" Ellesponto
di Omero, rivolto
a nord-est, trovò il suo naturale omòtopo nello Stretto dei
Dardanelli,
orientato all'incirca allo stesso modo; la "vasta terra" di
Creta, all'estremo sud
del bacino baltico, diede il suo nome all'isola, in precedenza
chiamata Keftivv,
che segna il limite meridionale del mar Egeo, e così via.
Tuttavia, se la trasposizione
salvò i nomi collocandoli più o meno nei luoghi corrispondenti,
non
potè certo conservare le caratteristiche morfologiche delle
entità geografiche
originarie, così accuratamente descritte nell'Iliade e
nell'Odissea: d'altronde, a comprovarci la collocazione nordica
del mondo omerico sono state proprio le
discrepanze rispetto al contesto mediterraneo, tutte peraltro
agevolmente spiegabili
non appena entrati in possesso della "chiave" giusta.
Sarebbe altresì suggestivo ipotizzare che a tener viva la
memoria di quei
nomi - e delle corrispondenti posizioni geografiche - abbiano
almeno in parte
contribuito proprio le notizie contenute nei nuclei originari
dei due poemi e, in
particolare, nel Catalogo delle navi dell'Iliade. Così i
migratori Achei riuscirono
a salvare dal naufragio dell'età del bronzo nordica un
patrimonio sia "geografico"
(nomi di luoghi e popoli baltici), sia "storico" (epos e
mitologia), che
avrebbe costituito il primo germe della civiltà occidentale,
trapiantandolo nel
Mediterraneo.
Osserviamo infine che l'evoluzione della cultura micenea nel
contesto egeo, naturalmente stimolata e arricchita dai contatti
con le grandi civiltà mediterranee,
ha costituito uno dei presupposti per la nascita e lo sviluppo
di quella
che secoli dopo sarebbe diventata la civiltà greca: essa in
seguito si sarebbe
gradualmente diffusa per ogni dove, anche per il tramite
dell'Impero Romano,
fin quando il grandioso circuito, innescatosi quasi due
millenni prima con il tracollo
dell'optimum climatico", non si sarebbe richiuso nel nord
dell'Europa,
nell'incontro con le culture germaniche, dando origine, con
l'apporto del Cristianesimo,
alla nostra civiltà attuale. Il suo valore fondamentale, il
concetto di
"democrazia", lo ritroviamo allo stato nascente nell'"agoré"
greca e nel "thing"
vichingo, l'assemblea pubblica delle comunità achee e nordiche,
ad Atene e in
Islanda: ed ora stiamo verificando che tale convergenza non è
casuale, ma è dovuta
ad un'origine comune.
Pertanto l'Europa ha un substrato culturale - e, a questo
punto, si può ben
dire anche "politico" - fondamentalmente unitario, il cui primo
germe si può a buon diritto far risalire a quell'età del bronzo
nordica che, lo stiamo scoprendo
adesso, ci ha lasciato in eredità i poemi omerici o quanto meno
i loro
nuclei essenziali: essi, tramandati di generazione in
generazione, rappresentano
il filo di Arianna che ci riporta indietro nel tempo, fino alle
più antiche radici
del mondo di oggi.

La prospettiva testé delineata consente di delimitare


cronologicamente
l'epoca delle vicende cantate da Omero - e, forse, anche della
primitiva redazione
dei nuclei centrali dei due poemi, presumibilmente
riconducibile allo
stesso ambito temporale e geografico - inquadrandola tra
l'inizio del declino
dell'optimum climatico", avvenuto attorno al XX secolo a.C, ed
il sorgere
della civiltà micenea, apparsa in Grecia nel XVI secolo.
Supponendo, inoltre,
sulla base degli indizi sparsi nei due poemi, che già da un
certo tempo si fosse
instaurata una fase di accentuata instabilità del clima -- che
probabilmente
non dovette precedere di molto lo spostamento degli Achei nel
Mediterraneo
- la guerra di Troia potrebbe forse essere collocata attorno al
XVIII secolo
a.C, circa cinquecento anni prima della data tradizionale, poco
dopo l'inizio
della fase subboreale che subentrò all'optimum". È peraltro
evidente che l'ultima
parola sulla questione spetta all'archeologia.
Ma adesso è giunto il momento di dedicarci alla ricostruzione
del primitivo
mondo degli Achei, attraverso quel vero e proprio "manuale di
geografìa",
che, provvidenzialmente, dai tempi omerici è giunto fino a noi:
ci riferiamo
al Catalogo delle navi dell'Iliade, preziosissima "fotografìa",
risalente
alla prima età del bronzo, degli insediamenti delle popolazioni
stanziate
lungo le coste del Baltico all'inizio del II millennio a.C,
prima della loro
discesa nel Mediterraneo.
XII. IL CATALOGO DELLE NAVI

"Un tronco secco s'innalza quanto è un braccio da terra,/ sia


quercia o pino,
e non marcisce alla pioggia;/ due sassi bianchi di qua e di là
vi s'appoggiano/
al crocevia; intorno è liscia la pista/ (...) Ora il glorioso
Achille ne ha fatto
la meta./ Spingi accosto il carro e i cavalli fino a
sfiorarla,/ e nella cassa ben
intrecciata piegati, intanto,/ un po' a sinistra di quelli; il
cavallo di destra/ pungola
e sgrida, allentando le redini,/ e il cavallo sinistro ti
sfiori la meta,/ tanto
che sembri quasi raggiungerla il mozzo/ della ruota ben fatta;
ma non toccare
la pietra,/ che tu non ferisca i cavalli e non fracassi il
carro" (Il. XXIII, 327-330;
333-341).
Queste che abbiamo appena letto sono le indicazioni che
l'espertissimo
Nestore, vecchio guidatore di carri, dà al figlio Antiloco
prima che abbia inizio
la corsa dei cocchi organizzata da Achille in occasione del
funerale di Patroclo:
notiamo che i veicoli girano in senso antiorario (come adesso
avviene
sulla pista di Indianapolis). Seguendo lo stesso verso - che, a
detta degli esperti,
sembra essere il più naturale - i pretendenti, seduti nella
reggia di Ulisse, si
alzano a turno per prendere parte alla gara con l'arco:
"Alzatevi tutti via via da
destra, compagni,/ cominciando dal lato in cui si versa anche
il vino" (Od.
XXI, 141-142); ma anche Efesto nell'Olimpo mesce da bere agli
altri dèi secondo
lo stesso ordine (Il. I, 597: è il culmine di una scena da
commedia, magistrale
per umanità e per sense of humour).
Perché ci siamo soffermati sul senso antiorario nei poemi
omerici? Perché così pure procede la scansione, lungo le coste
del Baltico, dei popoli di stirpe
achea enumerati nel cosiddetto Catalogo delle navi, contenuto
nel II libro dell'Iliade: in questa grandiosa rassegna, estesa
su 266 versi, Omero menziona
"tutti i condottieri e tutte le navi" (II, 493), ovvero le
ventinove squadre dell'armata
achea che parteciparono alla guerra di Troia, con i loro capi
(vengono
citati ben quarantasei nomi, tra comandanti e luogotenenti),
l'entità numerica di
ogni singola flotta e i rispettivi luoghi di provenienza.
Appare subito chiaro che
la sequenza non segue l'ordine d'importanza delle popolazioni o
dei condottieri:
ad esempio Agamennone, il capo della spedizione, il quale
"comanda l'armata
più grande" (Il. II, 580), è citato al nono posto. Invece il
Catalogo elenca
ordinatamente le popolazioni achee, seguendone la collocazione
attorno al mar
Baltico: d'altronde, tenuto conto del gran numero di flotte
menzionate, appare
del tutto naturale che la sequenza sia geografica, sia per
un'esigenza mnemonica
dell'aedo, sia per consentire agli ascoltatori di seguire
agevolmente la scansione,
visualizzando mentalmente le località man mano che vengono
nominate.
Mentre la classica localizzazione mediterranea del mondo acheo
dà luogo
a frequenti inciampi e contraddizioni, verificheremo che
quella baltica è del tutto coerente con la sequenza del
Catalogo. E che quest'ultima avvenga
effettivamente in senso antiorario ce lo mostrerà la sequenza
delle regioni del
Peloponneso e delle isole contigue ad Itaca, che abbiamo già
avuto modo di
identificare, in modo del tutto indipendente, attraverso le
indicazioni dell'Odissea.
Osserviamo ancora che, tra quei quarantasei nomi di capi achei
citati nella
lista, all'inizio della narrazione dell'Ilìade due risultano
assenti dal teatro della
guerra, come il poeta ci segnala con la sua consueta
precisione: si tratta di
Protesilao, ucciso al momento dello sbarco e sostituito dal
fratello Podarche,
e di Filottete, morso da un serpente durante la sosta a Lemno e
rimpiazzato da
Medonte (che a sua volta cadrà per mano di Enea durante la
difesa del muro
dell'accampamento, poco prima del contrattacco di Patroclo).
Dei restanti quarantaquattro
- ivi compresi i due "vice" appena citati - ben dieci cadranno
nei
combattimenti descritti nel poema e sette resteranno feriti
(quanto agli altri,
buona parte di loro si affacciano, in un modo o nell'altro, nel
corso dell'azione).
Ben peggiore è il bilancio riferito ai Troiani e ai loro
alleati, enumerati in
una lista a parte dopo il Catalogo (Il. II, 816-877): dei
ventisette comandanti
menzionati, alla fine se ne contano ben quattordici uccisi e
due feriti. Tutto
ciò, se dimostra quanto fossero sanguinose quelle battaglie,
nel contempo rappresenta
un'ulteriore prova, che potremmo a questo punto considerare
decisiva,
del fatto che l'Iliade racconta gli episodi di una guerra
iniziata da poco, non
certo nove anni prima.

Il Catalogo delle navi prende le mosse dalla Beozia (Tav. I):


"Dei Beoti
Peneleo e Leito erano a capo/ e Arcesilao e Clonio e
Protoenore,/ Iria abitavano
alcuni ed Aulide petrosa..." (II. II, 494-496). L'accenno ad
Aulìde è preziosissimo:
infatti ci permette di collocare la Beozia omerica in
quell'area della
Svezia centrale attorno alla baia di Norrtälje - situata poco a
nord di Stoccolma
e prospiciente le isole Åland e la "Troade" finlandese - che
poco fa abbiamo
identificato proprio con Aulide, da dove salpò la flotta achea
diretta a Lemno
e Troia; in tal modo risulta univocamente fissato il punto
iniziale della sequenza.
Avremo occasione di tornare su Aulide in uno dei capitoli
successivi,
dedicati ad alcune realtà geografiche del mondo omerico
particolarmente significative,
per le quali effettueremo qualche approfondimento specifico;
quanto
ad Iria ("Hyrìe" in greco), forse corrisponde all'attuale
Herräng, una sessantina
di chilometri a nord-est di Uppsala.
In ogni caso, a conferma della coincidenza di questa zona della
Svezia con
la Beozia omerica, fra poco vi ritroveremo anche le tracce
della celebre Tebe
beotica, la città di Edipo, una delle più famose della
mitologia greca: essa probabilmente
corrisponde all'attuale Täby, nelle vicinanze di Stoccolma, non
distante
dall'area di Norrtälje-Aulide. Tebe peraltro,
ripetutamente menzionata nell'Iliade, nel Catalogo non compare
perché non partecipò alla guerra di
Troia: infatti non era una città di Achei, ma anzi era abitata
dai Cadmei, loro
fieri avversari. Viene invece ricordata una Ipotebe, cioè "Tebe
di sotto" (II,
505), mai più citata dopo.
Seguendo il senso antiorario, cioè scendendo verso sud lungo il
versante
occidentale del Baltico, dopo la Beozia e la Minia incontriamo
la Focide: tra
le città enumerate da Omero troviamo Krisa e Lilea, a cui
potrebbero forse
corrispondere l'attuale città svedese di Kisa e il fiume
Lillan. Notiamo anche
la vicina cittadina di Falerum, praticamente omonima di una
località situata
presso l'Atene greca.
Fra le città della Focide Omero menziona Pito, dove sorgeva il
tempio di
Apollo con la sua "soglia di pietra" (Il. IX, 404; Od. VIII,
80). Nel mondo greco
la Pito omerica diventa Delfi, sede del famoso oracolo di
Apollo, il grande
dio che la mitologia greca collega strettamente agli abitanti
dell'estremo nord,
quelli che Pindaro chiama "il popolo degli Iperborei ministro
di Apollo" ("då-mon Yperboréon Apòllonos theràponta", III
Olimpica, 16). Erodoto si sofferma
a lungo sulla tradizione dei contatti che costoro mantenevano
con i Greci
del suo tempo, in particolare con i Delii (Storie IV, 33-35), e
Diodoro Siculo,
storico del I secolo a.C, in un passo esplicitamente riferito
al culto di Apollo
scrive che gli abitanti di Delfi e gli Iperborei avevano
"relazioni molto amichevoli"
e che "avevano ereditato questa tradizione di amicizia da tempi
molto
antichi" (Biblioteca Storica, II, 47). Nel tempio di Apollo a
Delfi era custodito
l'"omphalos", vale a dire la sacra pietra ovoidale che
rappresentava l'ombelico
di Gea, la dea della terra. Il prof. Vittorio Di Cesare,
archeologo di Bologna,
ci ha segnalato la sorprendente rassomiglianza tra l'omphalos
di Delfi,
la cui superfìcie è ricoperta da un particolare motivo
decorativo a rete, e certe
antiche pietre sferiche, decorate anch'esse con una sorta di
reticolo, rinvenute
nelle tombe della Svezia meridionale. La loro "sacralità" è
attestata dal fatto
che tra il V e il XII secolo d.C. su di esse si usava fare
giuramenti. Pertanto l'affermazione
di Diodoro riguardo ai legami tra Delfi e gli Iperborei a
questo
punto trova una precisa conferma archeologica.
Va altresì sottolineato il fatto che la sequenza del Catalogo
porta a situare
Pito, corrispondente omerica di Delfi, proprio nella Svezia
meridionale: la
congruenza tra geografìa omerica, mitologia greca, tradizioni
nordiche e reperti
archeologici è stupefacente.
Seguono le città dei Locresi, "che vivono di fronte alla sacra
Eubea" (Il.
II, 535): in effetti qui la costa svedese si affaccia
sull'isola di Öland (Tav. I).
In quest'area, secondo Omero, si trovavano "Tarfe e Tronio,
sulle rive del Boagrio"
(II, 533): ecco infatti Torpa e Tranås, all'interno e vicine
tra loro, in una
zona ricca di corsi d'acqua, mentre "Calliaro/(...) e la bella
Augea" (Il. II, 531-532)
corrispondono forse alle attuali Hallarum e Augerum.
Peraltro, più significativo delle assonanze toponomastiche - le
quali, come
abbiamo già sottolineato, devono essere sempre considerate con
la dovuta
cautela- è il fatto che qui Omero ci segnala la presenza di un
riferimento geografico
ben preciso come l'isola Eubea (su cui, dopo aver menzionato la
Locride,
il Catalogo si sposta direttamente). Ora, Öland costituisce
l'omòtopo, ossia
l'analogo geografico, dell'Eubea mediterranea (che l'attuale
Kalkstad corrisponda
all'antica Calcide?): è molto estesa in lunghezza, quasi quanto
la sua
gemella egea, e come questa segue il profilo della terraferma,
da cui la separa
uno stretto braccio di mare (attraversato, all'altezza di
Kalmar, da un bellissimo
ponte, che ne rende del tutto agevole l'accesso alle
automobili).
A questo punto, fermiamoci ad esaminare la sequenza di queste
prime regioni
indicate nel Catalogo: dopo la Beozia vengono enumerati
nell'ordine i
Minii, la Focide e la Locride, davanti alla quale si affaccia
la "sacra Eubea" (Il.
II, 535; avevamo già notato che in Omero l'aggettivo "hieròs"
più che "sacro"
sembra significare "eminente", "grande", "importante", però,
come al solito,
qui seguiamo la traduzione consueta, anche se ci sembra meno
precisa), indi
segue Atene: se ne deduce che la Beozia omerica doveva trovarsi
alquanto distante
dall'Eubea, e ancor più da Atene. Ora, mentre nello scenario
greco non
vi è alcuna coerenza tra questa scansione e le regioni
corrispondenti - la Beozia è situata proprio di fronte
all'isola Eubea, su cui si affaccia direttamente la
baia di Aulide (cioè l'attuale Vathy, in cui, come vedremo a
suo tempo, è ben
difficile riconoscere la Aulide omerica), ed è addirittura
contigua all'Attica,
mentre Locride e Focide si trovano dalla parte opposta - invece
nell'area baltica
il susseguirsi delle regioni risulta perfettamente congruente
con le indicazioni
dell'Iliade: tra la zona della "Beozia", comprendente la baia
di NorrtäljeAulide
e Täby-Tebe, e l'estremità settentrionale dell'isola Öland-
Eubea intercorrono
più di duecento chilometri.
Abbiamo così constatato che già in questa prima parte del
Catalogo si
verifica una piena convergenza con la geografia baltica, mentre
il contesto
egeo mostra le solite irrimediabili discrepanze rispetto alle
precise indicazioni
del poeta.
Dopo l'Eubea, il Catalogo segnala la presenza di Atene. Ormai
siamo in
prossimità dell'Attica e del capo Sunio, e difatti, all'altezza
della punta meridionale
di Öland, ad un certo punto la costa svedese piega bruscamente
verso
ovest (Tav. IX): ecco il "sacro Sunio" citato dall'Odissea
(III, 278). Subito oltre,
l'attuale Tornarmi ricorda l'antica Torico, la città
dell'Attica teatro del mito
di Cèfalo e Procri, affacciata davanti a "Creta" (che si
identifica, come vedremo
tra poco, con la prospiciente costa polacca). Procedendo
ancora, poco
più avanti s'incontra la città di Karlskrona, sul cui
territorio si rilevano diversi
indizi che sembrano rimandare ad Atene, in accordo sia con la
sequenza del Catalogo, sia con l'evidente
corrispondenza tra la sua posizione e quella della città greca.
Alla collocazione dell'Atene omerica nell'area dell'attuale
Karlskrona è dedicato un capitolo a parte: essa, come vedremo,
si identifica con la
Atene primordiale descritta da Platone nel dialogo Crìzia,
situata in una pianura
ondulata ricca di acque e di fiumi, dunque ben diversa dalla
morfologia dell'Attica
classica (come Platone stesso, piuttosto perplesso, fa
rilevare) e, in generale,
dall'arido e tormentato territorio della Grecia.
Osserviamo a questo punto che la presente teoria consente di
spiegare
un'altra apparente anomalia, cioè il ruolo estremamente
limitato attribuito al
contingente ateniese nella guerra di Troia: invece un'Iliade
ambientata nel
mondo greco, dove sin dall'età micenea Atene è stata un centro
di primaria
importanza, sicuramente gli avrebbe dato ben altro risalto.
Procediamo oltre: il Catalogo ora enumera le città sotto la
signoria di
Diomede, Tirinto, Trezene e Asine, forse identificabili con le
attuali Tyringe,
Träne e Asum. Stiamo ora percorrendo la Scania, la regione più
meridionale
della Svezia, ed è qui, in un sito non lontano dal mare, che
sorge Bredarör, la
grande tomba di Kivik, su cui in precedenza ci siamo soffermati
con particolare
attenzione, date le affinità che gli studiosi hanno riscontrato
con i coevi reperti
egei. L'enorme tumulo circolare di pietre sovrapposte è
indubbiamente
impressionante, ma lo è ancor di più la camera interna, a cui
si accede attraverso
un portale dall'aspetto vagamente "miceneo"; nell'oscurità
s'intravvede
una parete, dietro la quale si entra in un ambiente appena
rischiarato dai riflettori:
al centro appare l'antico sarcofago, formato da lastre di
pietra graffite,
illuminate a tratti dai lampi dei flash scattati dai
visitatori.
Avvicinandosi, l'occhio si sofferma, una per una, su ciascuna
di quelle figure
mute, strane, enigmatiche, in certo senso "aliene": ecco delle
silhouettes dall'apparenza solo vagamente umana, ecco un
cocchio con auriga, ruote, giogo
e due cavalli, ecco due scuri nel cui profilo s'indovina la
falce della luna, e
poi ancora immagini stilizzate di animali, di ruote, di onde...
Però, dopo un
primo attimo di sbalordimento, sia l'insieme che i dettagli
pian piano cominciano
a suscitare un'impalpabile sensazione di déjà-vu, di sottili
assonanze con
culture più familiari (è a un dipresso come l'incontro con un
parente mai visto
in precedenza, allorché, passato il momento iniziale in cui
prevale un senso di
estraneità e d'imbarazzo, subito dopo, studiandone meglio la
fisionomia e l'espressione,
cominciano ad affiorare dei vaghi barlumi, poi delle sensazioni
via
via più precise e meglio definite, che rimandano ad un che di
noto, a delle rassomiglianze,
ad un'"aria di famiglia" che alla prima impressione era
sfuggita).
Insomma, nell'esaminare il monumento di Kivik, sia all'esterno
che all'interno
della camera sepolcrale, e osservando attentamente le incisioni
sul sarcofago,
dopo un po' si arriva ad intuire perché uno studioso
dell'Ottocento abbia
addirittura pensato di attribuirgli un'origine "fenicia", cioè
mediterranea.
Nei dintorni di Kivik ci s'imbatte anche in altri resti
archeologici, sempre dell'età del bronzo: ciò potrebbe far
supporre che in quell'area sorgesse una
delle città più importanti della zona e, seguendo l'Iliade,
potremmo a questo
punto ipotizzare che si trattasse dell'Argo omerica.
Ci dirigiamo adesso verso l'estremità sud-occidentale della
Scania, in
cerca del famigerato capo Malea, menzionato più volte
nell'Odissea, davanti
a cui incontrarono gravi difficoltà, vento forte e mare in
burrasca, le flotte di
diversi eroi di ritorno da Troia, in particolare quelle di
Ulisse (Od. IX, 80), di
Agamennone (IV, 514) e di Menelao (III, 87), il quale in
precedenza, navigando
di conserva con le navi di Nestore, aveva doppiato il Sunio
(III, 278).
Ora, la posizione del capo posto immediatamente a sud di Malmö,
cioè l'attuale
punta di Falsterbo, in effetti risulta del tutto coerente con i
percorsi di ritorno
da Troia sia di Ulisse che degli Atridi, diretti
rispettivamente ad Itaca-Lyø e nel
Peloponneso-Sjælland: possiamo dunque ragionevolmente supporre
che esso
corrisponda al Malea omerico. Inoltre, nei pressi di quel capo
ci si imbatte, oltre
che in ottimi campi da golf, nel toponimo Knösen, che
sembrerebbe richiamare
il nome di Glosso..
Invece la posizione del Malea greco, davanti all'isola di
Citera (Tav. XII),
rivela un'altra incongruenza della geografia omerica: esso si
trova molto a sud
dell'Argolide, dove era diretto Agamennone, e pertanto gli
studiosi si sono
sempre chiesti come mai la sua flotta, proveniente da nord,
fosse passata di là.
Per continuare la sequenza del Catalogo, che a questo punto
enumera le
città sotto le signorie degli Atridi e successivamente il Pilo,
l'Arcadia e l'Elide,
bisogna ora attraversare lo stretto dell'Öresund, tra la Svezia
meridionale
e la Danimarca, e passare nel Sjælland, la grande isola di
Copenaghen: ritroviamo
pertanto, seguendo la scansione, le regioni di quel Peloponneso
che avevamo
già individuato attraverso le indicazioni dell' Odissea, con
riferimento alla
sua posizione rispetto ad Itaca e a Dulichio. Dunque gli Achei,
dopo la loro
migrazione verso il sud, attribuirono questo nome, "Isola di
Pelope" (che fa riferimento
ad un personaggio della mitologia greca, avo di Agamennone), ad
un'entità geografica del Mediterraneo che certamente non era
un'isola, però si
trovava in posizione corrispondente a quella dell'isola
lasciata nel Baltico: osservando
le rispettive posizioni rispetto alle corrispondenti masse
continentali, l'omotopìa appare evidente. E, come abbiamo avuto
già modo di rilevare,
questa apparente stranezza nella geografia della Grecia, cioè
l'"isola" che in
realtà non è un'isola, con la provenienza degli Achei dall'area
baltica diventa
immediatamente spiegabile.
A ciò va aggiunta l'altra fondamentale anomalia del Peloponneso
omerico,
ossia il fatto che in entrambi i poemi esso non appare mai
montuoso come
quello greco, bensì pianeggiante: l'identificazione con la
grande isola danese
risolve subito anche questa incongruenza. Ma per una più
approfondita discussione
sulle sue caratteristiche, ed in particolare sulla
collocazione dei popoli achei che vi abitavano, rimandiamo il
lettore a un successivo capitolo (in
cui fra l'altro indagheremo su un'altra apparente bizzarria
geografica: ci riferiamo
alla contiguità fra l'Argolide e il Pilo, attestata dall'Iliade
ma impossibile
sul suolo greco). Inoltre, in tale ambito riusciremo anche a
localizzare la
misteriosa isola Cranae (ossia "la Rocciosa", Il. III, 445),
mai rintracciata nel
Mediterraneo, dove Elena e Paride, subito dopo la precipitosa
fuga da Sparta,
sbarcarono ed ebbero il loro primo incontro amoroso: con ogni
probabilità si
tratta dell'attuale isola di Møn, caratterizzata da alte
scogliere e collocata in
prossimità della costa sud-orientale di Sjælland (che
effettivamente corrisponde,
come vedremo, alla Lacedemone omerica, la regione di Sparta).
Notiamo ora che città come Argo e Tirinto, da Omero poste sotto
la signoria
di Diomede (e non di Agamennone, come sarebbe stato più
naturale nel
contesto egeo), nel mondo baltico si trovano nella regione
svedese della Scania,
ubicata di fronte all'isola Sjælland, mentre in quello greco
risultano appartenere
al Peloponneso. Ciò si può spiegare facilmente considerando che
il
Peloponneso greco si estende su una superficie quasi tripla
rispetto a quella di
Sjælland: ecco la ragione per cui gli Achei, una volta discesi
nel Mediterraneo,
vi localizzarono città che nella loro sede precedente erano
situate sulla terraferma.
Passiamo
adesso a Dulichio, la ormai non più misteriosa isola "lunga":
"Ma quelli di Dulichio e delle sacre Echinadi/ isole che son di
faccia all'Elide
di là dal mare" (Il. II, 625-626; l'Elide è una regione del
Peloponneso); ecco
infatti Langeland, l'isola lunga, e, accanto, Lolland e
Falster, le "Echinadi"
omeriche, che risultano effettivamente antistanti alla costa
meridionale di Sjælland
(Tav. X). Seguono poi Itaca-Lyø e il suo arcipelago,
comprendente Zacinto-Tåsinge,
Samo-Ærø, qualche altra isola più piccola e l'Epiro-Fionia,
cioè la Costa: ce ne siamo già occupati a suo tempo. Tuttavia
richiamiamo ancora
l'attenzione sul fatto, importantissimo, che a questo punto la
scansione del Catalogo, dopo aver menzionato l'Elide -
identificabile con la parte sud-occidentale
di Sjælland - si aggancia, naturalmente e senza strappi, a
quella localizzazione
dell'arcipelago di Itaca a cui eravamo già pervenuti seguendo
le indicazioni dell'Odissea: da quest'ultima in precedenza
avevamo tratto tutti gli
elementi atti a caratterizzarne la fisionomia e ad
identificarlo con quello del Sud
Fionia; l'lliade a sua volta, oltre a confermare la sua
struttura, ci consente di
verificarne la posizione nell'ambito del mondo baltico. Nel
contempo, abbiamo
la conferma che la sequenza del Catalogo procede in senso
antiorario.
Inoltre, avevamo già notato che la "Same" dell'Odissea qui,
nell'Iliade, viene invece chiamata "Samo": ciò potrebbe essere
un ulteriore indizio che si
tratti di due poeti diversi, i quali forse attingono le notizie
anche a fonti differenti, e ciò non può che rafforzare il
valore della convergenza tra le loro indicazioni
geografiche. A questo punto è quasi superfluo rimarcare
nuovamente che le congruenze si verificano soltanto in questo
contesto nordico, laddove nel
mar Ionio va tutto in pezzi: di Itaca e del Peloponneso non
quadra nulla, l'Epiro
sta più a nord, Dulichio è introvabile. Osserviamo, infine, che
proprio la
patria del re a cui toccò in sorte, fra tutti i partecipanti
alla guerra, il ritorno più travagliato, risulta una delle più
lontane dalla costa troiana (anche se ciò ovviamente
non inficia tutte le riserve che abbiamo espresso in precedenza
sulla
"storicità" di quel viaggio).

Ma ora approfittiamo di questo momentaneo ritorno nel mondo di


Ulisse
per lasciare un attimo il Catalogo delle navi: andremo infatti
in cerca di un'isola-al
solito, mai individuata nel Mediterraneo-che, secondo
l'Odissea, si
trovava ad occidente rispetto ad Itaca. Quel che suscita un
particolare interesse
è il suo nome, Ortigia, ossia l'antica denominazione di Delo; e
ciò rimanda
a quanto accennato in precedenza a proposito delle leggende
relative all'isola
di Apollo e agli Iperborei, che secondo alcuni si riferiscono
alle isole britanniche.
D'altronde "Ortigia" è anche il nome che la mitologia greca
attribuisce alla
sorella di Latona, madre di Apollo, nata, secondo Diodoro
Siculo, proprio
nell'isola iperborea. Ora, Ortigia nell'Odissea viene
introdotta a proposito di
un'altra isola ad essa contigua, chiamata Siria ("Syrìe"), la
patria del porcaro
Eumeo: "Siria chiamano un'isola, se mai tu l'udivi,/ sotto
Ortigia, dov'è il calare
del sole" ("hòthi tropaì eelìoio"; Od. XV, 403-404). In base al
testo, tra le
due la maggiore sembra essere proprio Ortigia; ed entrambe -
che naturalmente
non sono mai identificate nel Mediterraneo - risultano
collocate molto
ad ovest dall'area di Itaca, a una distanza assai
ragguardevole, come appare dal
seguito del discorso di Eumeo, da cui si evince che la Siria
dista più di sei giornate
di navigazione, pur con il vento a favore (Od. XV, 475-482).
Esse poi, secondo
Omero, erano legate ad Apollo e Artemide (Od. XV, 410), i due
figli di
Latona; e sempre ad Artemide fa riferimento l'altro passo
dell'Odissea in cui
si menziona Ortigia: fu qui, infatti, che la dea uccise Orione
con le sue frecce
(Od. V, 121-124).
A questo punto andiamo a leggere Diodoro Siculo: "Nelle regioni
poste
al di là del paese dei Celti vi è un'isola non più piccola
della Sicilia; essa si troverebbe
sotto le Orse e sarebbe abitata dagli Iperborei (...)
Raccontano che in
essa sia nata Latona: e per questo Apollo vi sarebbe onorato
più degli altri dèi;
i suoi abitanti sarebbero anzi un po' come dei sacerdoti di
Apollo (...) Sull'isola
vi sarebbe uno splendido recinto di Apollo, e un grande tempio
adorno di
molte offerte, di forma circolare (...) Gli Iperborei avrebbero
una loro lingua peculiare,
e sarebbero in grande familiarità con i Greci, soprattutto con
gli Ateniesi
e i Delii: avrebbero ereditato questa tradizione di benevolenza
dai tempi
antichi" (Biblioteca storica, II, 47).
Insomma, anche alla luce delle tracce micenee riscontrate
nell'Inghilterra meridionale e in particolare nell'area di
Stonehenge - che, date le sue caratteristiche
spiccatamente "solari", richiama subito alla mente lo
"splendido recinto
di Apollo" menzionato da Diodoro - tutto il quadro sembra
suggerire,
quanto meno a livello di ipotesi, l'identificazione
dell'Ortigia omerica con la
Gran Bretagna, che rispetto all'Itaca danese è situata in una
posizione geografica
perfettamente congrua con il racconto di Eumeo.
Qui si potrebbe aggiungere un altro dettaglio: secondo Ecateo
di Abdera
(citato dal Levalois183), l'isola iperborea dove nacque Latona
e dove suo figlio
Apollo aveva i suoi sacerdoti era chiamata "la Bianca"
("Leuké"): ora, viene
spontaneo l'accostamento ad un antico nome della Gran Bretagna,
"Albione"
- Plinio ci dice testualmente "Albion ipsi nomen fuit", "il suo
nome era Albione" (Storia Naturale, IV, 30) - che esprime
esattamente lo stesso concetto.
Esso era forse legato alle "bianche scogliere di Dover", che
annunciano l'isola
ai naviganti in arrivo dal continente, o alle bianche colline
del Wessex, dove
a cavallo fra il terzo e il secondo millennio a.C. fiorì la
cultura che edificò Stonehenge e della quale sono state
riscontrate le convergenze con quella micenea,
che sarebbe apparsa in Grecia diversi secoli dopo.

183 Levalois, La terra di luce, pag. 71

E la Siria, l'isola contigua a Ortigia? Essa a questo punto


potrebbe essere
l'Irlanda, a cui ben si attaglia la descrizione che il buon
porcaro fa della sua
patria (da dove i pirati Fenici lo avevano rapito bambino, lui
figlio di un re di
quel paese, per poi rivenderlo come schiavo ad Itaca): "...Non
molto abitata, ma
buona,/ ricca di vacche, di greggi, di grano" (Od. XV, 405-406:
da tali parole
traspare il velo di nostalgia di chi, come lui, era stato
strappato alla propria
terra in tenera età e non vi era mai più tornato). Questo
potrebbe essere altresì indizio di un rapporto tra i "Danai"
omerici della prima età del bronzo - coevi
di quegli antenati dei Micenei che prima di scendere nel
Mediterraneo hanno
lasciato nel Wessex le tracce della loro presenza - e il
misterioso popolo dei
Tuatha De Danann (la "Tribù della dea Dana"), ricordati dalle
leggende celtiche
come gli antichi abitatori dell'Irlanda, provenienti dalle
"isole al nord del
mondo". Ancora, sarebbe suggestivo accostare il nome "Syrìe" a
quello dell'Eire,
dove oltretutto, nella parte meridionale, si ritrova un fiume
chiamato
"Suir" (inoltre, l'antico nome del Lee, il fiume irlandese che
passa per Cork,
era "Laoi" ed un fiume "Lao" lo ritroviamo nell'Italia
meridionale, l'antica
Magna Grecia). D'altronde, lo stesso nome di Eumeo sembra
ricordare Emain,
antica capitale d'Irlanda; e, quanto ai suoi rapitori Fenici,
potrebbe esserne rimasta
una traccia in quei "Feni" che certi racconti tradizionali
irlandesi ricordano
come una delle tre popolazioni principali dell'isola.
Per inciso, notiamo che vi è una saga nordica incentrata su una
vicenda la quale ricorda sotto
certi aspetti le traversìe del porcaro dell'Odissea: vi si
racconta infatti la storia
della figlia di un re irlandese, chiamata Melkorka, che venne
rapita giovanisssima
e venduta come schiava a un certo Hoskuld, ricco
agricoltore184. D'altronde,
non è forse vero che Eumeo, con il suo vivissimo senso
dell'ospitalità - per di più manifestato nei riguardi di
qualcuno che si presentava come un povero
mendicante, da cui certo non poteva aspettarsi alcun
contraccambio - è il
più "irlandese" dei personaggi omerici?

184 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 326

In ogni caso, tutto ciò sembra confermare quanto già visto in


precedenza
circa i rapporti tra le isole britanniche e l'area danese, che
già nell'età del bronzo
dovevano essere molto intensi, sia per lo sviluppo della
navigazione e dei
traffici, favoriti dal clima mite di quell'epoca, sia, in
particolare, per l'importanza
strategica dello stagno della Cornovaglia, a cui doveva fare
riferimento tutto
il mondo nordico: pensiamo al mercato del bronzo di Temesa. Si
è calcolato
che, con il vento a favore, alle navi vichinghe occorressero
tre giorni e tre notti
per navigare dalla Danimarca all'Inghilterra185: ora, questo
dato è abbastanza
congruente con il tempo - qualcosa più di sei giorni: purtroppo
Omero non ci
fornisce dati precisi sulla durata della parte finale del
viaggio - impiegato dai pirati
fenici per coprire, con il loro piccolo ostaggio, il percorso,
alquanto più lungo,
dall'isola Siria fino ad Itaca, cioè dall'Irlanda meridionale
all'isola di Lyø.

185 portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 232 «


Infine, a suggello di queste considerazioni, ci sembra
suggestivo accostare
il nome delle gentildonne britanniche, le attuali "Ladies"
(anche se la sua
origine viene di solito ricondotta ad altre radici), a quello
dell'antica Latona,
o Leto, la grande dea nata nell'Isola Bianca.

Dopo questa incursione dal Baltico verso il Mare del Nord,


ritorniamo al Catalogo. Procedendo oltre l'arcipelago di Itaca,
esso menziona le città degli
"intrepidi Etoli" (Il. IX, 529), capitanati da Toante (II,
638): notiamo subito che
in quest'area del Baltico dove ci ha condotto la scansione era
stanziata l'antica
popolazione degli luti, i quali hanno dato il loro nome alla
penisola dello Jutland
(in danese "Jylland"; lo stesso Amleto, secondo Saxo, era un
principe iuto):
data l'affinità del nome e l'identità del territorio, sarebbe
suggestivo accostare
Etoli e luti e supporre che questi ultimi fossero i diretti
discendenti del
glorioso popolo di Toante. Così pure l'attuale Jelling, che fu
sede regia nel X
secolo, situata nello Jutland orientale, potrebbe forse
identificarsi con la Oleno
omerica (Il. II, 639).
Restando fra gli Etoli, i nomi delle città di Pilene e Calidone
(II, 639-640) forse li possiamo ritrovare sull'adiacente costa
della Germania settentrionale,
nelle città di Plön e Kiel. Soprattutto il nome di Pilene
("Pyléne"),
paragonato a quello dell'attuale Plön, sembra essersi
conservato quasi intatto.
Riguardo a Calidone, la città del "biondo Meleagro" (II, 642)
"caro ad Ares"
(IX, 550), essa è definita "amabile" ("eranné"; Il. IX, 531);
ma ciò, se viene riferito
al contesto greco, "contrasta con la sua reale posizione
montuosa"186.
Invece tale caratterizzazione, inequivocabilmente ribadita dal
poeta nei versi
successivi: "Dov'è più grassa la pianura ("pedìon") di Calidone
amabile..."
(IX, 577), si attaglia perfettamente alla morfologia del mondo
baltico. Si tratta
dunque di un caso analogo a quello della Atene descritta nel
Crìzìa: a tale
proposito osserviamo che proprio il ripetersi di siffatte
"anomalie" rende altamente
improbabile che possa trattarsi di discrepanze casuali;
ciascuna di esse
va invece a rafforzare quel sottile senso di estraneità fra il
mondo omerico e
l'ambiente greco, che finora è stato sbrigativamente attribuito
alla "fantasia
del poeta" e, forse, anche al pregiudizio che il mito vada
tenuto il più possibile
separato dalla realtà. Naturalmente, tutte le discrepanze si
risolvono d'emblée non appena il racconto mitico viene calato
nel suo giusto contesto geografico.

186 Graf, Il mito in Grecia, pag. 50

Secondo
la narrazione dell'Iliade, Calidone fu attaccata dai Cureti
(IX,
529), il cui nome a sua volta ci viene ricordato da Kyritz e
Köritz, due cittadine
tra Berlino e Amburgo. E, proprio nei sobborghi di
quest'ultima, il nome
della città di Aitona sembra ricordare quello della madre di
Meleagro, Altea
(Il. IX, 155). Un mito, non omerico, lega la vita di Meleagro
alla durata di
un tizzone custodito dalla madre: a tale proposito è
significativo il fatto che
"un gran numero di racconti (...) anche della Lituania e
dell'Islanda, conosce
un tizzone fatale come questo"187. Riguardo a Kyritz e Köritz,
esse si trovano
nel territorio di quella che doveva essere l'antica "Creta"
baltica, la quale
infatti nel Catalogo segue immediatamente l'Etolia: come
vedremo meglio nel
capitolo che le è dedicato, essa si può fare all'incirca
coincidere con la costa
della Pomerania - che delimita il bacino baltico verso sud,
esattamente come
la Creta mediterranea delimita l'Egeo - e con un vasto
entroterra comprendente
sia il territorio polacco, sia una parte dell'attuale
territorio tedesco ad
ovest dell'Oder.

187 Graf, Il mito in Grecia, pag. 49

Va sottolineato il fatto che la coerenza interna della


geografia omerica tanto
incerta nel contesto mediterraneo, quanto solida in quello
baltico - significativamente
si estende anche al resto della mitologia greca: questa infatti
colloca i Cureti proprio a Creta, nel mito della nascita di
Zeus, avvenuta sul
monte Ida, in cui essi giocano un ruolo non secondario. Nello
scenario mediterraneo,
fra questi Cureti "cretesi" e quelli che secondo l'Ilìade
combatterono
a Calidone vi sarebbe una incongruenza geografica: al
contrario, nella collocazione
nordica i Cureti cretesi e quelli omerici coincidono
perfettamente.
Inoltre il loro nome - di cui al solito nel Mediterraneo non vi
è traccia alcuna
- nell'area baltica ha un concreto riscontro: infatti, nella
parte più occidentale
della Lettonia, al confine con la Lituania, troviamo la
provincia di Curlandia,
che deriva il proprio nome dall'antico popolo dei Curi, di
stirpe finnica. E singolare
il fatto che la Curlandia venga chiamata "Curetia" da Saxo
Grammaticus,
il quale indica con l'esplicito nome di "Curetes" i suoi
abitanti: che i Cureti
omerici, quelli che attaccarono la città di Calidone, fossero
partiti da qui,
diretti verso la parte sud-occidentale del Baltico?
Per inciso, i filologi potrebbero indagare sulla possibilità di
una relazione
tra il nome di Calidone e quello dei Caledoni, un'antica
popolazione che abitava
la Scozia al tempo dei Romani.
Dopo Creta, il Catalogo prosegue con Rodi, ai cui abitanti
"divina opulenza
versava il Cronìde" (Il. II, 670): premesso che Omero non la
definisce
mai un'isola, essa si doveva verosimilmente estendere su un
territorio, situato
ad est della Polonia, comprendente la penisola su cui
attualmente sorge Kaliningrad;
confrontando infatti la carta del Baltico con quella del
Mediterraneo
orientale e tenendo conto sia della posizione della Rodi
mediterranea, sia della
sequenza del Catalogo, si nota l'analogia tra le posizioni
occupate rispettivamente
dalla penisola baltica (non lontano dalla quale si riscontrano
toponimi
come Rodniki e Rodnikovo) e dall'isola mediterranea. Potrebbe
inoltre non
essere casuale il ritrovare nella città bielorussa di Lida il
nome del primo dei
tre gruppi nei quali Omero suddivide i Rodiesi, "quelli di
Lindo, di leliso e della
bianca Camiro" (Il. II, 656); e proprio su Lindo avremo tra
poco modo di ritornare.
Se
a questo punto provassimo a seguire il Catalogo nel mondo
mediterraneo,
avremmo sempre più problemi a rintracciarvi un qualche filo
logico: è come una matassa che s'ingarbuglia sempre più. Invece
nel contesto baltico essa
procede tranquillamente e senza intoppi lungo la costa
orientale, dove Crapeto
e Caso (II, 676) corrispondono forse all'attuale città lituana
di Klaipeda
e alla lettone Cèsis, non lontana da Riga. Qui si trova la
Curlandia (la terra dei
Curi, o Cureti, legati al culto di Zeus) che abbiamo menzionato
poco fa: ed è particolarmente significativo il fatto che
proprio in questa zona vengan segnalate
le analogie tra il dio lituano Dievas e l'omerico Zeus (che al
caso genitivo
si muta in "Diòs" con la probabile caduta della F tra le due
vocali; Il. I, 5).
Questo naturalmente non può che rafforzare il valore del
parallelismo riscontrato
in precedenza tra Baubo, la dea orfica delle messi, e la
"vecchia Boba",
la
madre del grano dei campi lituani (avevamo anche accennato al
fatto che la lingua della Lituania presenta caratteristiche
molto arcaiche e singolari affinità sia con il greco che con il
latino).
Giungiamo così alla Livonia, regione attualmente suddivisa tra
Estonia e
Lettonia: sarebbe suggestivo ipotizzare una relazione con la
"Libia" omerica,
menzionata dall'Odissea in un paio di episodi, in uno dei quali
si parla della
nave che, diretta verso la Libia, filava "in alto mare su
Creta" (Od. XIV, 300).
Tale indicazione, pur se generica, non è incoerente con la
posizione della Livonia
rispetto alla costa polacca, la "Creta" baltica: essa
presumibilmente fa riferimento
alle rotte delle navi che a quell'epoca operavano nel Baltico
meridionale.
Più significativo è il fatto che il nome di Livonia trae
origine dai Livi,
antica popolazione baltica, ormai quasi estinta, di agricoltori
e allevatori, di
cui è caratteristica l'importanza tutta particolare attribuita
agli animali da allevamento: è tradizione che, nel giorno delle
nozze, agli sposi si regalino degli
animali domestici, i quali "hanno una parte importante anche
nei funerali"188.
Ciò è in perfetto accordo con l'altro episodio in cui Omero
accenna alla
Libia, caratterizzata come una terra di allevatori, "dove tre
volte nel giro di un
anno figliano i greggi:/ là padrone o pastore mai prova
mancanza/ di cacio, di
carne, di dolce latte,/ che inesauribile il latte offrono
sempre da mungere" (Od.
IV, 86-89). Questo quadro idilliaco delineato dal poeta trova
effettivamente un
riscontro nel fatto che il clima mite e umido lungo la costa
lèttone permette la
vita in alcuni luoghi privilegiati a piante mediterranee, al
punto che "una zona
veniva denominata dai tedeschi, grazie al suo clima,
Gottesländchen"189.

188 Treccani, voce "Livi"


189 Treccani, voce "'Lettonia: Clima"

Se, come a questo punto appare plausibile, i Livi attuali


fossero davvero
gli ultimi discendenti dei Libi dei tempi omerici, ci
troveremmo di fronte ad
uno straordinario esempio di persistenza dell'identità e delle
peculiarità di un
popolo attraverso i millenni, dalla prima età del bronzo fino
all'epoca contemporanea.
Osserviamo anche che nel nome della città di Liepàja (Lettonia
occidentale),
chiamata Libava in russo e Libau in tedesco, sembra tuttora
riecheggiare
quello della Libia omerica.
Notiamo altresì che a quest'ultima nel mondo mediterraneo
corrispondono
due entità differenti: la Libia e il Libano. Una possibile
spiegazione è che il nome
della prima sia dovuto ad uno stanziamento nell'Africa
settentrionale di Libi
scesi dal nord (se le cose stanno effettivamente in questi
termini, allora la Libia
non dovrebbe mai essere menzionata nei documenti egizi
anteriori al II millennio
a.C), mentre il Libano potrebbe essere stato chiamato in questo
modo a causa della
sua posizione geografica nel Mediterraneo orientale, che in
effetti corrisponde
molto bene, mutatìs mutandis, a quella della Livonia nel
contesto baltico.
L'accenno alla costa africana ci dà lo spunto per formulare una
congettura
sull'origine del termine "Africa", che troviamo per la prima
volta riportato
dal romano Ennio, e che inizialmente indicava una parte della
costa africana
prospiciente l'Italia. Tale costa invero rappresenta il
corrispondente mediterraneo
della Frisia, affacciata sul Mare del Nord, a sud-ovest della
penisola
scandinava: ora, sarebbe suggestivo supporre che sia stato il
nome dell'antico
popolo dei "Frisoni" (in latino "Frisii") ad ispirare ai
migratori achei, impegnati
a ricostruire dove possibile i luoghi geografici della patria
perduta, quell'appellativo
dì "Africa" che si sarebbe poi gradualmente esteso all'intero
continente
(quanto all a a iniziale aggiunta, potremmo trovarvi
un'analogia nell'iniziale
del nome greco "Afrodite" rispetto ai suoi corrispondenti
nordici Freyja,
Freyr e Frodili). Osserviamo ancora che, ove tale congettura si
rivelasse esatta, ci troveremmo in presenza di un singolare
"scherzo" della Storia: ci riferiamo
al nome dei coloni di origine olandese trapiantati in Africa
meridionale,
i quali vengono chiamati "Afrikander": essi, a conclusione di
un complesso
susseguirsi di vicende storiche che abbracciano un arco di ben
quattro millenni,
nella loro nuova terra avrebbero inconsapevolmente recuperato,
sia pure
con qualche storpiatura, la radice del nome dei loro lontani
antenati Frisii...
E adesso la Frisia ci consente di identificare un'altra
località del mondo
omerico. L'Iliade infatti menziona un santuario dedicato a
Poseidone, il dio del
mare, in un luogo chiamato "Helike" (Il. VIII, 203); d'altra
parte, una delle isole
frisoni, Helgoland (o Heligoland), ha anche un altro nome,
Fositesland, derivato
da quello di un antico dio frisone, chiamato Fosite,
corrispondente proprio
a Poseidone. A questo punto ci sembra molto plausibile che
l'antica Helike,
santuario di Poseidone, corrisponda all'attuale Helgoland.

Ora torniamo nel Baltico, dove, risalendo la sponda orientale,


giungiamo
in Estonia: qui il villaggio di Koo, a cento chilometri da
Tallinn, ricorda l'omerica
Kos, "la città di Euripilo" (II, 677). Riguardo alla
localizzazione di Kos
in quest'area, notiamo che essa trova una significativa
conferma nelle peripezie
di Eracle, su cui l'Iliade torna un paio di volte, "il giorno
in cui quel superbo
figlio di Zeus/ partì da Ilio per mare, distrutta la rocca dei
Teucri" (Il. XIV,
250-251; il riferimento è ad una spedizione precedente a quella
degli Achei).
A questo punto, come Zeus rinfaccia ad Era col classico tono
del marito adirato,
"tu col vento Borea, persuase le procelle/ lo spingesti per lo
sterile mare,
meditando rovina,/ e lo trascinasti a Kos, la ben popolata./ Ma
io lo salvai di
là, lo guidai nel ritorno/ ad Argo che nutre cavalli" (Il. XV,
26-30). Ora, nella
sua ira contro la moglie, Zeus ci fornisce una preziosa
indicazione geografica:
nel Baltico infatti risulta del tutto plausibile che una nave
salpata da Troia, sulla
costa settentrionale del Golfo di Finlandia, e diretta ad Argo,
nel Baltico
sud-occidentale,
venga deviata da Borea, il vento del nord, verso Kos, in
Estonia, sul versante meridionale del Golfo stesso (Tav. VII).
La coerenza interna di un siffatto quadro geografico, così
articolato e ricco
di dettagli, è assai rimarchevole: la posizione di Kos, quale
risulta dalla sequenza
del Catalogo lungo le coste baltiche, s'incrocia mirabilmente,
e con
tutta naturalezza, col racconto della movimentata avventura di
Eracle. Quest'ultima
in tale contesto appare del tutto verosimile, mentre in quello
mediterraneo
(Tav. XII) lo è assai meno, sia per la rilevante distanza tra
lo stretto dei
Dardanelli e l'isola egea di Kos, situata verso l'estremità
sud-occidentale della
penisola anatolica, sia, soprattutto, per le tante isole più o
meno grandi che
si frappongono lungo la via: Tenedo, Mitilene, Chio, Samo,
Icaria... Si tratta di
un'altra difficoltà fra le tante che la geografia mitica greca
manifesta allorché viene forzata nel mondo mediterraneo: invece
l'ambientazione nordica, al solito,
consente di chiarire immediatamente la questione. Osserviamo
ancora che
sulla Kos omerica regnavano i figli del re Tessalo (Il. II,
679): ora, alcuni toponimi
come Teissala e Tessjö li ritroviamo nei pressi della sponda
meridionale
della Finlandia, affacciata davanti alla costa dell'Estonia.
Ma quest'area geografica ha in serbo ancora qualche sorpresa:
infatti, come ci dice il Kerényi nel suo saggio La nascita di
Helena, "il poema epico estone Kalevipoeg, composto nel secolo
decimonono dal materiale di antichi canti popolari
e tradizioni, contiene un racconto sulla nascita della bella
Linda da un uovo di
gallina di montagna casualmente ritrovato. È già stata rilevata
la sua analogia con
la nascita di Elena. Particolarmente affine al racconto estone
è quella forma del mito
greco, secondo cui Leda trova l'uovo in un luogo paludoso o
boscoso". Il
Kerényi si sofferma sull'antefatto di questa nascita, intriso
di un'atmosfera tutta
nordica: "Il dio in forma di cigno, la dea in forma di oca
selvatica, animale di un
mondo palustre primordiale, celebrarono le divine e animalesche
nozze, il cui
frutto doveva essere la più bella donna e il più grave destino:
Elena...", e conclude
con un'affermazione perentoria: "I più bei paralleli per i
singoli particolari del
mito greco sulla nascita di Elena da un uovo e su quelle
primordiali nozze di uccelli
della palude si riscontrano presso i popoli finno-ugri della
Russia"190.

190 Kerényi, Miti e misteri, pagg. 35-36

Ora, finalmente, la localizzazione baltica degli Achei consente


di inserire
tutte queste convergenze in un quadro complessivo razionale e
coerente: in
particolare risultano assai significative le affinità tra la
mitologia greca e quella
ugro-finnica. Potrebbe essere altresì suggestivo l'accostamento
della "bella
Linda" oltre che a Leda, madre di Elena, anche a Lindo, uno dei
tre gruppi di
Rodiesi citati nel Catalogo.
Quest'ultimo successivamente tocca l'Ellade e la Ftia. La prima
si estendeva
lungo la costa dell'Estonia affacciata sul Golfo di Finlandia
di fronte alla "Troade": il nome dell'"Ellesponto" (il "mare
dell'Ellade"), attribuito al mare
davanti a Troia, è evidentemente legato a quest'area. Insomma
l'Iliade conferma
la contiguità fra "Ellade" ed "Ellesponto" - che invece nel
mondo greco
non trova riscontro - e ciò è congruente col fatto che Saxo
Grammaticus sembra
collocare un popolo di "Ellespontini" nell'area baltica
orientale: questo nome
probabilmente rappresenta una sorta di "relitto linguistico"
risalente addirittura all'età del bronzo, allorché qui si
parlava una sorta di lingua greca. Notiamo
anche che nell'ultimo capitolo della Germania Tacito accenna ad
un popolo
di Ellusi ("Hellusii", 46, 4) senza attribuire loro una
collocazione precisa:
peraltro, dal contesto si può arguire che fossero spostati
molto a nord. Costoro
potrebbero avere a che fare con gli Ellespontini di Saxo,
pertanto nel loro nome
potrebbe forse ancora echeggiare quello degli Elleni cantati da
Omero.
Per trovare la vicina Ftia, dove vivevano sia i Mirmidoni di
Achille, sia
gli Ftioti di Protesilao, che il Catalogo menziona subito dopo,
dobbiamo spostarci
nell'entroterra estone: la Ftia infatti, come verificheremo in
un prossimo
capitolo, si estendeva a partire dalle fertili colline
dell'Estonia sudorientale
verso la Lettonia ed il territorio della Russia, dove
probabilmente arrivava fino
alle sponde del fiume Velikaja ed al lago di Pskov.

L'enumerazione delle flotte achee prosegue ora lungo la costa


della Finlandia
affacciata sul golfo di Botnia, dopo aver oltrepassato la
Troade e la Frigia,
il territorio del "nemico". Qui il Catalogo ricorda "quelli che
abitavano Fere,
sulla palude Boibeide,/ Boibe, Glafira e la bella Iolco;/ di
questi guidava undici
navi il caro figlio di Admeto,/ Eumelo, che generò ad Admeto
una donna
divina,/Alcesti..." (Il. II, 711-715).
Ritroviamo l'antica Iolco, con il nome rimasto intatto, nel
villaggio finlandese
di Jolkka. Esso attualmente dista venti chilometri dal mare, in
accordo
col fatto che in quest'area la velocità di sollevamento del
terreno è particolarmente
accentuata (dal che consegue che anche i resti degli altri
insediamenti
achei affacciati sul golfo di Botnia sono da ricercarsi
nell'entroterra, a partire
dalla linea di costa di quattromila anni fa). Nella mitologia
greca Iolco occupa
un posto di particolare rilievo: è infatti legata alle vicende
di Giasone e degli
Argonauti, ma anche a quelle di Alcesti, "...la più bella delle
figlie di Pelia"
(Il. II, 715). Ora, in tale zona si riscontrano sia un toponimo
"Alkkia", sia un
"Vimpeli", quest'ultimo sul lago Lappajärvi; quanto al fiume
che scorre nelle
vicinanze di Jolkka, potremmo forse identificarlo con l'antico
Anauro. Ma soffermiamoci
ancora per un istante su quell'ultimo verso, nitido e prezioso
come
un antico cammeo, in cui la bella Alcesti viene evocata da un
lontano passato:
il Catalogo è tutt'altro che un'arida elencazione, e spesso la
magìa del
poeta ad un tratto illumina e mette a fuoco un dettaglio,
un'immagine di quel
mondo scomparso.
E "Fere sulla palude Boibeide"? Potrebbe forse identificarsi
con l'attuale
Vörå, situata sul fiume Kyrönjoki, non lontano dal lago
Lappajärvi. Osserviamo
che il suo re Eumelo (a cui potremmo forse accostare il
toponimo Jumaliskylä,
ad est di questa zona) era cognato di Penelope, in quanto ne
aveva
sposato la sorella Iftime (Od. IV, 798); pertanto le due
sorelle - i cui mariti si
trovarono a militare assieme sotto le mura di Troia-
risiedevano in due aree
opposte del Baltico, una ad Itaca-Lyo, verso l'estremità sud-
occidentale, e l'altra
sul golfo di Botnia: a questo proposito, l'Odissea ci conferma
che esse vivevano
"molto lontane" ("apòprothi"; Od. IV, 811), a riprova della
rigorosa
coerenza tra le notizie geografiche fornite dai due poemi.
Inoltre, il nome di Fere
potrebbe essersi conservato in quello dell'attuale Perhonjoki,
il "fiume Perirò",
che scorre nei pressi di Jolkka.
Riguardo al Lappajärvi, quest'ultimo sembra ricordarci i mitici
Lapiti, che
presero parte alla guerra di Troia agli ordini di Polipete
(anche il nome di una città
vicina al Kyrönjoki, Lapua, ha una radice simile). In effetti,
la sequenza del Catalogo
sembra indicare che costoro vivevano in questa zona. D'altro
canto, il nome
del Kyrönjoki ci rimanda a Chirone, "il più sapiente dei
Centauri" (Il. XI,
832). Questi ultimi, tradizionali nemici dei Lapiti, in Omero
appaiono con sembianze
umane normali, senza quelle connotazioni "equine" che sono
state probabilmente
il frutto delle solite elucubrazioni dei mitografi greci (e che
forse si
possono ricondurre alla totale perdita dei contatti dopo la
migrazione dal nord).
Quanto ai Centauri, l'Iliade li chiama anche "Feri": al
riguardo, notiamo
che Jordanes (o Giordane), storico di origine gotica vissuto
nel VI secolo d.C,
nel l'enumerare i popoli della Scandinavia menziona i "Fervir"
accanto ai "Finnaith",
ossia i Finni (Storia dei Goti, cap. III). Omero inoltre li
definisce "lachnéentas"
(II, 743): è un aggettivo che normalmente viene tradotto
"pelosi",
con riferimento alle loro ipotizzate sembianze bestiali, ma che
si potrebbe invece
interpretare come "ricoperti di pelliccia" - in greco "làchne":
pensiamo
alla "pelliccia" che spunta dal mantello di Nestore (Il. X,
134) - in accordo con
le caratteristiche della fauna scandinava. Al riguardo, notiamo
che, subito prima
dei Finnaith e dei Fervir, Jordanes menziona i Suethans (forse
antenati degli
Svedesi) "i quali riforniscono i Romani di pelli di martora,
con un commercio
che coinvolge molti altri popoli, e sono famosi per lo
splendido nero
delle loro pellicce" ("famosi pellium decora nigredine", cap.
III).
Alla base dell'equivoco sull'aspetto dei Centauri potrebbe
esservi stato
proprio questo fraintendimento, che, pertanto, costituirebbe un
altro indizio
dell'estraneità fra il mondo omerico e quello dei mitografi
greci.
Omero menziona in più occasioni la guerra fra i Centauri e i
Lapiti: "Il vino
anche un Centauro, il glorioso Euritione,/ fece impazzire
dentro la sala di
Piritòo magnanimo,/ tra i Lapiti (...)/ Di qui fra i Centauri e
gli eroi guerra nacque"
(Od. XXI, 295-297; 303). Questo racconto mitico, che ha però
tutta
l'aria di ispirarsi a qualche fatto realmente accaduto, viene
naturale accostarlo ad
un passo di Tacito in cui si fa esplicito riferimento alle
risse tra ubriachi che nel
mondo dei Germani si scatenavano frequentemente nei banchetti,
"spesso con
morti e feriti" (Germania, 22, 1 ). Esso ci ricorda anche la
vicenda dell'arcivescovo
Elfego, a cui abbiamo già accennato in precedenza, massacrato
dai Vichinghi
ubriachi durante un banchetto: è un episodio dal quale emerge
chiaramente
l'aspra dimensione di quel mondo rude e barbarico, così affine
per tanti
aspetti a quello degli Achei omerici e ad esso legato,
attraverso i secoli, da
una singolare continuità, che nella testimonianza dello storico
romano trova, in
certo senso, il suo "anello di congiunzione".
Tornando ai Lapiti, alla loro spedizione contro i Centauri
aveva partecipato
in gioventù anche Nestore, che vi dedica uno dei suoi soliti
amarcord: "In nessun luogo già vidi né mai vedrò uomini tali/
quali Piritoo e Driante, pastore
di popoli,/ Caineo ed Essadio, Polifemo pari agli dèi,/ Teseo,
figlio di
Egeo, simile agli immortali:/ fortissimi essi crebbero fra gli
uomini in terra,/
fortissimi furono, e con forti pugnarono,/ coi Centauri
montani, li massacrarono
orrendamente./ Ebbene, con questi ho vissuto, partito da Pilo/
laggiù, terra
lontana" ("telòthen exapìes gaìes", Il. I, 262-270). Ora,
effettivamente Pilo, situata
nel Peloponneso-Sjælland, era ben distante dal teatro
"finlandese" della
guerra tra i Centauri ed i Lapiti; ma è rimarchevole anche la
coerenza temporale
di quelle remote vicende: l'irrequieto Nestore, che da giovane
aveva partecipato
a quel conflitto insieme con Piritoo e Caineo, da vecchio, cioè
forse
una trentina d'anni dopo, in occasione della guerra di Troia si
ritrovò a fianco
Polipete e Leonteo, rispettivamente figlio e nipote di quegli
antichi compagni
d'arme. Il Catalogo infatti introduce, e con enfasi
particolare, "il forte guerriero
Polipete,/ figlio di Piritoo, che Zeus immortale generò./ Lui
da Piritoo generò Ippodamia gloriosa,/ il giorno che fece
vendetta dei Centauri pelosi,/ li cacciò dal Pelio, li spinse
verso Etici" (Il. II, 740-744; riguardo al Pelio, già
incontrato
poco fa a proposito di Chirone, e ad Etici, "Aìthikes" in
greco, essi corrispondono
forse a due toponimi, un monte Paljakka e un lago Aittojärvi,
distanti tra
loro una cinquantina di chilometri, in una zona ad est di
Oulu).
Dunque Polipete era nato nel giorno della battaglia decisiva
fra i Centauri
e i Lapiti; quanto a Leonteo, era "figlio dell'animoso Corono
Caineide" (Il.
II, 746): era dunque nipote di Caineo, l'altro lapita compagno
di Nestore (Il. I,
264), menzionato anche nello Scudo d'Ercole (v. 178), opera
attribuita dagli antichi
ad Esiodo. La congruenza di tali complesse genealogie va
indubbiamente
a sostegno della possibile attendibilità "storica" di queste
lontane vicende
dell'età del bronzo nordica che il poeta ci ha tramandato con
tanta dovizia di
particolari, anche se ben diffìcilmente potremo mai averne una
controprova.
Per inciso, il nome di Caineo sembra ricordare Kajaani, città
della Finlandia
settentrionale, non lontana dalla zona del Paljakka e
dell'Aittojärvi, la
quale a sua volta richiama il nome di Cenaia, villaggio toscano
situato in un'area
dove si riscontrano altri toponimi "finnici" (Levanto, Savona,
Pisa).
Questi due Lapiti, Polipete e Leonteo, discendenti dei due
vecchi compagni
di Nestore nella campagna contro i Centauri, hanno modo di
distinguersi
nella difesa del campo acheo, poco prima che entri in campo
Patroclo, in una
scena di battaglia di fortissima intensità: "(I Troiani) sulle
porte trovarono due
forti eroi/ figli superbi dei Lapiti guerrieri,/ il figlio di
Piritoo, Polipete gagliardo,/
e Leonteo pari ad Ares (...)/I due continuamente gli Achei/
eccitavano,
stando dentro, a difender le navi./ Ma quando verso il muro
videro correre/
i Teucri e nacque urlo e fuga di Danai,/ allora lottarono,
balzando davanti
alla porta..." (Il. XII, 127-130, 141-145). Ma, alla fine,
l'impeto dei Troiani finirà
per abbattere il muro, "come un bimbo la sabbia sulla riva del
mare/ che
dopo aver costruito i suoi giochi infantili,/ di nuovo coi
piedi e le mani rovescia
tutto giocando" (Il. XV, 362-364): è un quadretto dolcissimo,
che per un
attimo illumina di un sorriso il cupo incalzare della battaglia
(d'altro canto,
qui abbiamo la conferma dell'intrinseca fragilità di
quell'arcaica palizzata fatta
con tronchi e pietre, che pur tuttavia, come abbiamo visto,
Omero considera
superiore al muro di Troia).
In ogni caso, i mitici Lapiti, vicini dei Centauri, sono
anch'essi localizzabili
in Finlandia, ma alquanto più a nord rispetto alla "Troade", in
accordo
con la loro posizione nella sequenza del Catalogo. Sarebbe
assai suggestivo
metterli in correlazione con i Lapponi, i quali pertanto
attraverso i millenni
avrebbero conservato immutati sia il nome che la voglia di
battersi, dalla campagna
di Troia alla seconda guerra mondiale. D'altronde, abbiamo già
visto
che la loro lingua attuale, appartenente al ceppo delle ugro-
fìnniche, probabilmente
non è quella originaria.
Torniamo adesso al centauro Chirone, che la mitologia greca
ricollega a
Peleo e al suo fortissimo figlio, il "pie' veloce" Achille
(epiteto che ne sottolinea
l'abilità nello scatto e nel gioco di gambe: un poeta dello
sport di oggi potrebbe
attribuirlo a Ronaldo o a Cassius Clay). Il tramite è
rappresentato dalla
celebre lancia di quest'ultimo, "grande, pesante, solida:
nessuno degli Achei
poteva/ brandirla, solo Achille a brandirla valeva,/ faggio del
Pelio, che Chirone
aveva donato a suo padre,/ dalla cima del Pelio, per dar morte
ai guerrieri"
(Il. XVI, 141-144; XIX, 388-391). Notiamo che questo è un tipo
di arma,
frequente tra i reperti archeologici e nelle incisioni rupestri
dell'età del bronzo,
che fu senza dubbio assai diffuso in Scandinavia191. Appare
altresì rimarchevole
che Saxo, a proposito dei Finni, dichiari che "nessun altro
popolo è così
esperto nel lanciare i giavellotti" (V, XIII, 1): si tratta
dunque di una tradizione
che potrebbe affondare le sue radici in tempi remoti (e che si
protrae fino
ai nostri giorni, data la nota abilità degli atleti finlandesi
in questa pratica
sportiva). Quanto al Pelio omerico, esso potrebbe corrispondere
al finnico
Paljakka, nome di svariate alture della Finlandia centro-
settentrionale.

191 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pag. 647

Chirone aveva anche fama di medico: conosceva infatti


particolari farmaci
per curare le ferite, che aveva dato sia allo stesso Achille
(Il. XI, 832) sia
ad Asclepio (Il. IV, 219), padre del medico dell'esercito
acheo, Macaone. Curiosa
sorte quella di Asclepio: è bastata qualche fugace menzione da
parte di
Omero, che lo chiama "bravissimo dottore" ("amymonos ietòros",
Il. IV, 994;
XI, 518), per mitizzarlo e farlo diventare nel tempo il dio
della medicina (sia
pure attraverso la "sponsorizzazione" della sua immagine da
parte di Pindaro:
potenza dei media, anche quelli di allora). Ai nostri fini però
risulta più interessante
il fatto che suo figlio Macaone proveniva da Tricca, una delle
ultime
località citate nel Catalogo (II, 732): questo ne conferma
l'origine "finlandese"
e, di conseguenza, la prossimità con Chirone. Potrebbe invece
apparire
strana l'amicizia di quest'ultimo con Peleo e con suo figlio
Achille - su cui l'Iliade torna con insistenza (XI, 831-832;
XVI, 143-144; XIX, 390-391)- i quali
vivevano ben distanti: ma una spiegazione plausibile la
troveremo allorché,
nel capitolo dedicato alla Ftia, cercheremo di indagare sulla
sede originaria dei
Mirmidoni.
Tornando adesso al Catalogo delle navi, anche alcuni nomi
contenuti nell'ultima
parte consentono di ipotizzare possibili correlazioni con
toponimi finlandesi:
infatti Metone sembra rimandare a Mietoinen; Melibea a
Myllyperä;
Olizone a Oulunsalo; Tricca a Tyykiluoto (era questa forse la
patria di Asclepio
e Macaone; nel suo nome potrebbe essersi verificato lo stesso
fenomeno fonetico
che ha trasformato Troia in Toija, cioè la "storpiatura" della
TR iniziale,
dovuta alla pronuncia ugrofìnnica). Ancora, la sorgente
Ipereia, menzionata
anche nel dialogo tra Ettore e Andromaca, ricorda Ypäjä; il
monte Titano dalle
"bianche cime" ("leukà kàrena"; Il. II, 735), la radice di
Tiitonranta; Oloosso,
città sotto la signoria di Polipete, l'attuale Oulu, che in più
trova la sua naturale
corrispondente greca, in senso sia lessicale che geografico,
nella città di
Vòlos, in Tessaglia.
La penultima flotta menzionata nel Catalogo è quella di Guneo,
il quale
"conduceva ventidue navi da Cifo:/ lo seguivano gli Enieni e i
forti guerrieri
Perebi,/ quelli che intorno alla tempestosa Dodona si fecero
case,/ quelli che
intorno all'amabile Titaresio coltivavano i campi" (Il. II,
748-751). Siamo ormai
quasi giunti all'estremità settentrionale del golfo di Botnia
(Tav. XI), come
ci conferma il nome di Cifo (Kyphos), a cui potrebbe
corrispondere l'attuale
villaggio costiero di Kuivaniemi ("niemi" in lingua finnica
significa capo, punta);
anche la caratterizzazione di Dodona, "tempestosa", è
presumibilmente legata
all'alta latitudine, nonché, forse, anche alla
complessità del sistema idrografico della zona, dove le
alluvioni non dovevano essere infrequenti. Quanto
al nome dei Perebi, esso rimanda alla Pieria, che, come vedremo
tra breve, era
situata proprio in quest'area, verso la Lapponia ed il Circolo
polare artico (e
l'attuale nome finnico del mare antistante, cioè l'alto Golfo
di Botnia, è "Perämeri").
Riguardo
poi al fiume Titaresio "che nel Peneo getta l'acque" (II, 752),
Omero ci dice che esso è un emissario ("aporròx", Il. II, 755)
dello Stige: quest'ultimo
lo identificheremo tra poco, avvalendoci di tale indicazione,
con il sistema
formato dai laghi Livojärvi e Kitka, situati nell'entroterra dì
quest'area,
non lontano da una zona montuosa identificabile con l'Olimpo:
il Titaresio sarebbe
dunque l'attuale Livojoki, emissario del Livojärvi ed affluente
di un altro
fiume, lo Iijoki (corrispondente dunque al Peneo omerico) che
sfocia nel
Baltico tra Oulu e Kuivaniemi (forse le antiche Oloosso e
Cifo). A questo punto
notiamo che nella scansione del Catalogo, dopo Oloosso (II,
739), città sotto
la signoria di Polipete, quella menzionata subito dopo è
proprio Cifo (II, 748):
insomma, anche in queste estreme regioni settentrionali del
Golfo di Botnia
possiamo constatare una rimarchevole congruenza con la
geografia dell'Iliade.
Infine, l'ultimo popolo acheo citato nella rassegna è quello
dei Magneti,
i quali "intorno al Peneo e al Pelio sussurro di fronde/
abitavano" (II, 757-758):
ecco di nuovo il fiume Iijoki e il monte Paljakka (toponimo
questo non
infrequente in quest'area della Finlandia). Inoltre, sul basso
corso dell'Iijoki,
la località denominata Mannisenranta forse ricorda ancora il
nome di quell'antico
popolo ("ranta" significa "riva"), che d'altro canto viene da
sempre associato
alla "magnetite", minerale di ferro dalle note proprietà
magnetiche: e
potrebbe essere non privo di significato il fatto che
nell'entroterra a nord del
golfo di Botnia esistono territori, appartenenti alla Svezia,
caratterizzati da immensi
giacimenti di ferro (lo stesso toponimo Kiruna, al centro di
tale area,
sembra quasi "grecheggiante").

Siamo così arrivati alla fine del Catalogo delle navi, che ci
ha condotti fino
all'estremità settentrionale del Baltico, in un'area che, come
vedremo più avanti, risulta quasi contigua a quella del monte
Olimpo, la sede degli dèi; ma,
per completare il quadro della geografia mitica greca, non
possiamo tralasciare
il Caucaso, che - pur se non viene mai citato da Omero -
giganteggia in uno
dei miti più potenti a noi pervenuti dal mondo classico, dal
sapore estremamente
arcaico: esso è il teatro del supplizio inflitto da Zeus a
Prometeo, per aver
questi donato agli uomini il fuoco sottratto alla fucina degli
dèi. Poiché i Greci
lo collocavano nella Scizia, verso oriente, non è irragionevole
supporre che
il suo eventuale "prototipo" baltico fosse situato ad est del
primitivo mondo degli
Achei. E, in effetti, in una zona di alture ad un centinaio di
chilometri a
nord-est di Helsinki, a metà strada tra le città di Lahti e
Kouvola, si
incontra la località di Kaukas; inoltre, nelle vicinanze, si
trovano una Kaukasuo e una
Varala: quest'ultimo toponimo sembra ricordare "Borea", che,
secondo la mitologia,
era il primordiale nome della montagna, poi ribattezzata
Caucaso dal
nome di un pastore, rifugiatosi colà dopo la Gigantomachia
(nella lingua finnica
la B non esiste e il suffisso "-la" è tipico dei toponimi
locali).
Poco a nord di Lahti, "Taulu" potrebbe ricordare il Tauro;
sarebbe poi
suggestivo collegare "Ammätsä" con le mitiche Amazzoni; in ogni
caso, anche
a prescindere dai toponimi - riguardo ai quali valgono le
riserve e le cautele già espresse in più occasioni - già
un'antica tradizione riconduce al mondo nordico
queste donne "forti come i guerrieri" (Il. III, 189), contro
cui, secondo Omero,
in gioventù aveva combattuto lo stesso Priamo: Adamo di Brema
afferma
che esse abitavano lungo le coste baltiche (IV, 19), mentre
Saxo ci dice che
"esistevano un tempo presso i Danesi donne che scambiavano la
loro bellezza
con abiti maschili e dedicavano quasi ogni momento della loro
vita al perfezionamento
delle arti militari (...) costringendo il loro carattere
muliebre a comportarsi
con virile rigore: tale era l'ardore con cui cercavano la
gloria militare
che chiunque avrebbe pensato che non fossero più donne" (Gesta
Danorum VII, VI, 8). Le Amazzoni dunque rappresentano un altro
punto di contatto fra
il mondo di Omero e la mitologia nordica.
E adesso, al termine di questo capitolo, nel quale abbiamo
cercato di ricostruire
il mondo di Omero nel Baltico, ricavandone una straordinaria
"fotografia"
degli insediamenti achei nella prima età del bronzo, prima di
dedicarci
all'approfondimento di alcuni punti specifici torniamo a
sottolineare la mirabile
coerenza - sotto tutti gli aspetti, geografici, climatici,
toponomastici,
morfologici - dell'intero universo mitologico della Grecia una
volta collocato
nell'Europa settentrionale: basti pensare al tema affascinante
dell'Apollo Iperboreo,
che nel contesto greco-mediterraneo appare irrimediabilmente
"fuori
posto", mentre in quello nordico si inserisce splendidamente.
Su tale argomento
segnaliamo un articolo di Marco Duichin, intitolato Apollo, il
dio sciamano
venuto dal Nord e sottotitolato Sulla rotta dei cigni e
dell'ambra, dove
tra l'altro si legge: "...Traspare infatti il riflesso di
un'originaria venuta del dio
da un remoto settentrione "iperboreo": nostalgica reminiscenza,
forse, delle
lontane contrade da cui in tempi immemorabili trassero origine
gli Elleni"192 (incidentalmente, questa è una precisa
testimonianza del fatto che tra gli studiosi
attuali l'idea dell'origine nordica della civiltà greca è ben
presente). Le
pietre tondeggianti, così simili all'omphalos di Delfi, che
abbiamo trovato nella
Svezia meridionale, dove sorgeva l'omerica Pito, confermano
questo rapporto
e, più in generale, la validità di tutta la presente
ricostruzione.

192 Contenuto in Abstracta n. 39, Luglio-Agosto 1989


E che dire dei "diluvi" della mitologia greca, i quali proprio
nel mondo
nordico, piatto e procelloso, trovano finalmente la loro giusta
collocazione? E
un dato accertato che in tempi preistorici tutta l'area
baltica, a partire dalla fine
dell'era glaciale, è stata soggetta a ripetute variazioni della
linea di costa, di
entità anche rilevante, le quali debbono aver certamente avuto
ripercussioni
catastrofiche sulla vita delle antiche popolazioni costiere
(forse ne ritroviamo
un'eco anche nelle città sommerse delle leggende celtiche).
Pensiamo solo al
fatto che, allorché la "fase atlantica" subentrò alla
"boreale", dando inizio
all"'optimum climatico" (siamo attorno al 5500 a.C), il
Baltico, che fino ad allora
era stato un lago, almeno per un certo periodo (il cosiddetto
"lago ad Ancylus",
che a sua volta aveva fatto seguito al "mare di Joldia"), si
trasformò in un
mare vero e proprio ("mare a Litorina"), il che produsse
variazioni anche assai
considerevoli nei profili costieri (i nomi citati si
riferiscono ai diversi tipi
di molluschi prevalenti nelle varie fasi, caratterizzate da
differenti valori di salinità
e temperatura).
In ogni caso, non è nei suoli accidentati e aridi della Grecia
e delle isole
mediterranee, ma nelle sterminate foreste dell'Europa
settentrionale, nelle sue
silenziose distese lacustri, nei suoi mari scuri e nebbiosi,
nei suoi cieli cangianti,
nei suoi crepuscoli interminabili che riusciamo a percepire e a
rivivere
l'autentico spirito della mitologia classica, attraverso cui
echi e ricordi di un
lontano passato nordico, perduto ma mai del tutto dimenticato,
si sarebbero riverberati
in ogni manifestazione della civiltà greca.
XIII. AULIDE, TEBE, ATENE E NAXOS

"In Aulide le navi dei Danai/ s'adunarono, male a Priamo e ai


Troiani
portando" (Il. II, 303-304): questa località della Beozia, più
che a causa di
Omero - il quale la cita in un'altra sola occasione, all'inizio
del Catalogo delle
navi - è nota per la celebre tragedia di Euripide, che vi
ambienta la vicenda
di Ifigenia, sacrificata dal padre Agamennone allo scopo di
ottenere dagli dèi
un vento propizio per la traversata della flotta achea diretta
a Troia.
Al solito, facciamo preliminarmente una ricognizione sul suolo
greco,
dove Aulide risulta situata presso l'attuale Vathy: il suo
porto, collocato su una
roccia protesa sul mare di Eubea, forma due minuscole
insenature nello stretto
dell'Euripo, quasi di fronte a Calcide. Di qui probabilmente i
due accenni dell'Ifigenia alle sue caratteristiche: in un passo
si parla di "stretto di Aulide",
nell'altro dei suoi "stretti ormeggi". Ad ogni modo, è
impensabile che queste
due piccole baie abbiano potuto dar ricetto alle quasi
milleduecento navi che,
secondo l'Iliade, parteciparono alla spedizione; inoltre, la
loro posizione dietro
l'Eubea appare particolarmente infelice, soprattutto nella
prospettiva di una
traversata in direzione dell'Asia Minore.
Insomma, siamo di fronte all'ennesimo caso di discordanza fra
il dato
omerico e la geografìa della Grecia.
Esaminiamo invece la situazione nel Baltico: avevamo già
osservato che
nel punto più favorevole per la traversata da un versante
all'altro, là dove la costa
della Svezia si protende maggiormente verso est, all'altezza
dell'arcipelago
delle Åland, esiste una baia, più lunga che larga, orientata in
direzione dell'antistante
costa finlandese, là dove abbiamo localizzato la "Troade" (Tav.
VII). Essa è chiamata Norrtäljeviken ("viken" per l'appunto
significa baia), è
riparata verso l'imbocco da molte isole ed isolette, ha rive
generalmente basse,
praticabili per le imbarcazioni, e penetra profondamente verso
l'interno: in
fondo si trova l'omonima città di Norrtälje, il cui nome,
depurato dal prefisso,
sembra conservare ancora il ricordo dell'antichissima Aulide.
La realtà geografica di questa baia è del tutto coerente con
l'Aulide omerica:
essa rappresenta l'ideale punto di concentramento di una grande
squadra
navale diretta verso la sponda opposta, sia per le dimensioni
(in particolare la
lunghezza, quasi venti chilometri, che offre un ottimo riparo
per le navi), sia
per l'eccellente posizione strategica: la sua distanza dalla
prospiciente sponda
finlandese è inferiore alle cento miglia marine, con in più la
possibilità di effettuare,
in caso di necessità, uno scalo intermedio alle isole Åland;
non a caso,
nel passato questo è sempre stato un punto di passaggio
preferenziale, sia
militare che commerciale, tra la Svezia e la Finlandia.
D'altronde, ancora adesso
i traghetti diretti verso Helsinki o
Turku si attestano a Kapellskär, sullo sbocco della baia, e
varie corse effettuano una fermata a Mariehamn, il capoluogo
delle Åland.
Non sorprende perciò che la flotta achea, dopo la partenza da
Aulide, abbia
sostato a Lemno, identificabile, come abbiamo già visto, con
l'isola dì Lemland, situata proprio lungo quella rotta:
attualmente i traghetti diretti a
Turku transitano davanti alla sua punta meridionale. Facendo il
paragone col
percorso, che esamineremo fra poco, tra il "fiume Egitto" e
Faro, la traversata
si può effettuare anche in una giornata, a patto che,
beninteso, il vento sia favorevole:
sappiamo bene quanti guai questo "dettaglio" procurò ad
Agamennone.
Infatti, l'uscire da una baia così lunga e relativamente
stretta - e con una
miriade di scogli in corrispondenza dello sbocco - in caso di
vento contrario doveva
essere un'impresa proibitiva per le antiche navi a vela quadra
e chiglia
piatta, poco adatte a navigare di bolina.
Dunque, ancora una volta, la localizzazione baltica, al
contrario di quella
mediterranea, "calza a pennello" con quanto ci è stato
tramandato dalla mitologia.
Per
visitare il luogo, conviene partire da Stoccolma: dopo un'ora
di macchina
si arriva a Norrtälje, ma vale la pena di tirare ancora avanti,
seguendo la
strada che corre lungo la costa, fino a Gräddö, dove la baia
s'allarga e sbocca
in mare aperto. Il panorama è molto bello: fìtti boschi di
conifere si susseguono
sulle due rive, che man mano tendono a divaricarsi; e non di
rado s'incontrano,
svoltando per le vie laterali, "camping" bene attrezzati e
punti d'attracco
per le barche, in una dimensione che comunque resta sempre
gradevolmente
rustica e naturale. Le suggestioni indotte dal paesaggio
vengono esaltate dal
pensiero che proprio questo possa essere stato il teatro del
grande concentramento
della flotta achea e della tragica vicenda di Ifigenia... Da
qui le nere navi
di Agamennone e dei suoi alleati salparono alla volta di Troia,
mentre adesso
partono, seguendo all'incirca la stessa rotta, gli assai meno
bellicosi ferryboat
della linea Kapellskär-Turku, carichi di viaggiatori con auto
al seguito, diretti
verso la Finlandia. Non si può peraltro escludere, anzi è
probabile, che l'attuale
linea del litorale non coincida più con quella si allora,
perché anche in
quest'area il suolo tende gradualmente a sollevarsi; tuttavia
l'aspetto generale
della costa che si affaccia sul Baltico è rimasto certamente lo
stesso, cioè assai
frastagliato, con lunghe baie e promontori che si protendono
sul mare tra un'infinità di scogli e di isolotti, tipicamente
raggruppati in fìtti sciami chiamati
"skjären" (ecco di nuovo quella radice, risalente all'antica
lingua nordica, che
ci ricorda la "Selleria" omerica). Ed alla morfologia tipica di
queste insenature
baltiche, strette e allungate - che in realtà sono veri e
propri fiordi, però delimitati
da coste basse, a differenza di quelli norvegesi - si può forse
ricondurre
anche l'affinità tra il nome di Aulide ("Aulìs") e il termine
greco "aulòs", che
significa tubo, canna, flauto e, in genere, indica una "cosa
vuota e prolungata"193
(notiamo che ciò, al solito, ha ben poco a che vedere con
l'aspetto dell'Aulide
greca).

193 Voc. Rocci, voce "aulòs"

E, a questo punto, non ci sorprende che Saxo Grammaticus ci


racconti un
episodio, riferito ad una spedizione navale, del tutto analogo
alla vicenda di Ifigenia:
"Giunti in un certo luogo, furono tormentati da una lunga
tempesta con
venti che impedivano la navigazione, sicché dovettero restare
inoperosi per
gran parte dell'anno, finché decisero di propiziarsi gli dèi
col sangue umano.
Gettate le sorti nell'urna, il destino reclamò una vittima
regale" (Gesta Danorum, VI, V, 7).
A conclusione dell'itinerario, ritornando a Norrtälje, quasi
all'inizio del
fiordo s'incontra un caratteristico ristorante, ricavato in una
nave ormeggiata alla
banchina: qui i soci del Rotary locale tengono periodicamente
le loro placide
riunioni conviviali, ignari del fatto che negli stessi luoghi,
quattromila anni
fa, sulla nave ammiraglia di Agamennone si riunivano, magari
con uno stile
meno soft, i comandanti della flotta achea: Menelao, Nestore,
Ulisse, Aiace...

Anche la città di Tebe "dalle sette porte" (Il. IV, 406),


secondo la mitologia
greca, era ubicata in Beozia: pertanto conviene ricercarla
nella stessa area
dove abbiamo trovato Aulide-Norrtälje, cioè nella regione
dell'attuale Stoccolma.
Non partecipò alla guerra di Troia, in quanto era abitata non
da Achei
ma da Cadmei, loro nemici giurati; tuttavia Omero la cita
numerose volte, soprattutto nell'Ilìade, in particolare per
quella guerra "dove l'esercito degli
Achei fu distrutto" (Il. VI, 223) e che sarebbe stata poi
ripresa da Eschilo. In quella sfortunata spedizione, di cui era
stata protagonista la generazione
precedente agli eroi che combatterono a Troia, si era distinto
Tideo, padre
di Diomede; lo ricorda Agamennone: "Egli venne una volta a
Micene, però non in guerra,/ ospite, col divino Polinice,
raccogliendo soldati;/ essi allora
movevano in campo contro le mura sacre di Tebe" (Il. IV, 376-
378); Diomede
non ebbe il tempo di conoscere il bellicoso genitore perché
"...in fasce mi lasciò,
quando perì a Tebe l'esercito acheo" (Il. VI, 222-223). Diversi
anni dopo
quell'episodio, i figli di quegli Achei, i cosiddetti
"Epìgoni", si presero la
rivincita: al riguardo Stendo, scudiero di Diomede,
orgogliosamente afferma:
"Ci vantiamo d'essere molto migliori dei padri;/ noi prendemmo
la rocca di Tebe
che ha sette porte,/ guidando più piccolo esercito contro muro
più forte"
(Il. IV, 405-407). Ora, Diomede nell'Iliade risulta essere uno
dei comandanti
più giovani (Il. XIV,
112); pertanto la prima campagna di Tebe, in cui morì suo padre
mentre lui era neonato, potrebbe essere avvenuta all'incirca 25
anni prima, forse poco tempo dopo la guerra fra i Centauri e i
Lapiti (allorché nacque
Polipete, come abbiamo visto poco fa): ne consegue che, data la
sua età,
ben difficilmente poteva trovarsi sotto le mura di Troia da
nove anni dopo aver
già preso Tebe in precedenza (oltretutto aveva anche una moglie
che lo attendeva
a casa: Il. V, 412-415). Abbiamo così un'ulteriore conferma che
la guerra
di Troia, al momento delle vicende raccontate da Omero, non
poteva essere
iniziata da molto tempo.
In ogni caso, la Tebe beotica (omonima sia della Tebe cilicia
che di quella
egizia, due città omeriche che nella collocazione mediterranea
risultano entrambe
affette da gravi anomalie geografiche: l'una perché la Cilicia
anatolica è lontanissima dai Dardanelli, l'altra perché
l'Odissea la colloca vicino al mare)
gioca un ruolo di particolare rilievo nella mitologia greca, ma
forse il principale
motivo della sua fama sta nell'aver fatto da sfondo alle
tragiche vicende
di Edipo: questi a sua volta viene ricordato nell'Iliade, anche
se quasi di
sfuggita, là dove si accenna ad un altro sodale di Diomede, un
certo Eurìalo,
"figlio di Mecisteo (...)/ che un tempo venne in Tebe, d'Edipo
caduto/ al funerale"
(Il. XXIII, 678-680). Ciò conferma che Ventourage di Diomede in
passato
aveva avuto stretti rapporti con i Tebani; nel contempo Omero
fa correttamente
risalire l'epoca della morte di Edipo, di poco precedente alla
prima
spedizione degli Achei contro Tebe, alla generazione dei padri
di coloro che
combatterono a Troia. Più in generale, le cronologie omeriche
di regola mostrano
una straordinaria coerenza interna: ora, l'aver ritrovato i
reali scenari delle
remote vicende raccontate da Omero ci autorizza a ritenerle -
se non proprio
tutte, almeno in gran parte - alla stregua di autentiche
cronache di quel mondo
perduto da millenni.
Ora, nell'area della Svezia che, avvalendoci del Catalogo delle
navi e
della posizione di Aulide, abbiamo identificato con la Beozia
omerica, si trova
una cittadina, situata ad una quarantina di chilometri a sud di
Norrtälje, non
distante dall'autostrada che da quest'ultima conduce verso
Stoccolma: il suo
nome, Täby, costituisce già un primo indizio per
l'identificazione con l'antica
Tebe: ce ne dà una conferma un "giacimento di toponimi"
particolarmente significativi,
che si trovano proprio nell'area della Capitale svedese.
Ecco, infatti, il nome di una località situata nei pressi di
Stoccolma: si
tratta di Tyresö, che sembra ricordarci il "tebano Tiresia"
(Od. X, 492), veggente
cieco, uno degli indovini dì maggiore rilevanza nella mitologia
greca: esso
viene citato ripetutamente nell'Odissea, dove è tenuto in gran
considerazione
e viene addirittura chiamato con l'appellativo di "ànax", "re"
(XI, 151);
sempre nella veste di indovino, gioca un ruolo importante nelle
vicende dell'Edipo
Re. Ma Sofocle ci dice anche che nei dintorni di Tebe si
trovava il mitico
monte Ficio, sul quale stava appostata la famigerata Sfìnge,
che ai malcapitati
viandanti proponeva certi indovinelli alla cui soluzione era
legata la loro
vita. Invero non lontano da Täby, nei pressi del sobborgo di
Viksjö, esiste
un'altura, denominata Hummelmoraberg: sarà forse questo il
luogo del duello
verbale tra Edipo e la Sfinge? Esso ora è un ameno parco
alberato: piacevoli
sentieri consentono l'accesso a chi, lasciata eventualmente
l'auto nel vicino
parcheggio, voglia fare dello jogging o semplicemente
passeggiare in un'atmosfera
rilassata, inconsapevole dell'inquietante "presenza" che
quattro millenni
or sono infestava questi luoghi...
Dopo aver ritrovato nei pressi di Täby le tracce di Tiresia e,
forse, quelle
di Edipo, cerchiamo anche quelle di Dioniso, che secondo la
mitologia greca
nacque a Tebe, come afferma lo stesso Omero (Il. XIV, 325): già
il nome di una
località chiamata Bromma, nell'area di Stoccolma, sembra
rimandare a "Brò-mios", uno dei soprannomi di Dioniso, che
significa all'incirca "lo Strepitante"
(e una divertente coincidenza fa sì che attualmente a Bromma si
avverta lo
"strepito" del vicino campo d'aviazione); ma il toponimo forse
più intrigante
si riferisce ad un'altura situata poco a sud della capitale, il
Nysättra: oltre a ricordare
la "divina Nisa", città collocata dal Catalogo delle navi
proprio in Beozia
(Il. II, 508: il Catalogo chiama "divina", "zathée", oltre a
Nisa solo un'altra
città, Crisa nella Focide), esso richiama alla mente il monte
Nisa, una delle
località più misteriose e leggendarie della mitologia greca:
qui infatti fu allevato
il piccolo Dioniso, il cui nome per l'appunto significa "dio
del Nisa".
Per individuare questa mitica montagna, introvabile in Grecia,
sin dai
tempi antichi sono state avanzate le più fantasiose ipotesi:
qualcuno la ha cercata
persino in Arabia o in India! Invece, un altro indizio che il
Nisa si identifichi
con un'altura nei dintorni della Tebe baltica, probabilmente
dedicata ad
un culto di "Dioniso fanciullo", forse lo troviamo nel nome di
una località situata
accanto al Nysättra: Vidja. Quest'ultima infatti ricorda le
"ladi", le ninfe
che, secondo la mitologia, tennero a balia il piccolo dio sul
monte Nisa; alle
ladi, "le nutrici del folle Dioniso/ (...) sul sacro Nyséion",
accenna lo stesso
Omero (Il. VI, 132-133).
Di Vidja è rimasto solo il nome (in cui, per la gioia dei
glottologi, la V iniziale
sembra attestare la presenza dell'antico digamma) e qualche
casa sparsa
per la campagna; il vicino Nysättra è un'altura adibita al
pascolo e alla raccolta
del legname in un'area agricola, a cui si accede attraverso una
stradina in terra
battuta, dove il passaggio è spesso ostacolato da qualche
gregge di pecore:
insomma l'ambientazione è tutta "campagnola" e agreste,
totalmente diversa
da quella del monte della Sfinge. Forse però, proprio per
questo, vi si riesce a
percepire una sottile atmosfera, che richiama quella che doveva
essere la dimensione naive di un arcaico mondo pastorale di
quattromila anni fa.
Notiamo a questo punto che nel mondo greco Dioniso è stato una
divinità di primaria importanza, a partire dalla civiltà
micenea fino al mondo classico.
Ora, il fatto che in Omero sia
quasi ignorato lascia alquanto perplessi gli studiosi. In
effetti, se si colloca Omero dopo la civiltà micenea la cosa
appare incomprensibile;
se, invece, si retrodata Omero ad un'epoca precedente, tutto va
al suo posto: infatti, dopo che gli Achei si stanziarono in
Grecia, sotto l'influsso
delle grandi civiltà del Vicino e Medio Oriente le fattezze dei
loro dèi
dovettero certamente cominciare a cambiare. Non a caso, alcune
divinità greche
di epoca classica mostrano caratteristiche per così dire
"orientaleggianti":
evidentemente il lunghissimo periodo, quasi un millennio,
intercorso fra la discesa
dei barbari provenienti dal nord e l'inizio della letteratura
greca vera e
propria, attorno al VII secolo a.C, nonché la vocazione
mercantile propria sia
dei Micenei che dei loro successori, debbono aver favorito
l'acquisizione, da
parte degli dèi olimpici, di tratti e caratteri propri dì
civiltà molto diverse. Allo
stesso modo si possono spiegare anche altri problemi, ad
esempio le differenze
tra il pantheon di Omero e quello di Esiodo, che sono
difficilmente spiegabili
se ci si basa sulle attuali cronologie, secondo le quali i due
poeti sarebbero
quasi contemporanei.
Tutto ciò d'altra parte è perfettamente congruente con la
constatazione anch'essa
ben difficile da spiegare sulla base delle cronologie correnti
- che il
mondo omerico appare molto più arcaico rispetto a quello
miceneo.
Sparsi nell'hinterland di Stoccolma si possono riscontrare
anche altri indizi
a sostegno dell'identificazione di Tebe con Täby: Lyckeby si
può forse
collegare con il nome di Lieo, antico re tebano, o con quello
di Apollo Liceo,
la cui presenza è attestata a Tebe dalle tragedie greche; Aspen
e Aspudden potrebbero
alludere ad un antico fiume ricordato da Omero, il quale
menziona "i
fìtti canneti ed i prati erbosi dell'Asopo" (Il. IV, 383); la
località di Duvnäs e
la piccola baia omonima, situate ad est di Stoccolma verso
Tyresö, forse ricordano
il nome di Dafne, figlia di Tiresia; nei dintorni si trovano
infine tanti
altri luoghi, quali l'isola di Faringsö e le località di Kynäs
e di Arsta, che portano
nomi dall'inconfondibile "sapore" greco. Kynäs in particolare
ricorda Cinoscefale,
il villaggio della Beozia che diede i natali a Pindaro, situato
proprio
nei pressi della Tebe greca.
Inoltre, parlando di Samotracia, abbiamo già accennato alle
tracce, anche
nel territorio di Stoccolma, di culti legati ai misteri della
metallurgia, in perfetto
accordo con la ben attestata tradizione "kabirica" dell'antica
Tebe: i nomi delle
località di Hammarby (esistono ben due "paesi di martelli": uno
a nord di
Täby, l'altro nelle immediate vicinanze della capitale), di
Axala, di Karby e di
Kairo vanno idealmente a ricollegare, come un ponte steso tra i
millenni, le attività
dei metallurgi dell'età del bronzo con le realizzazioni
tecnologiche della
moderna industria siderurgica svedese.

Non si può lasciare Tebe senza accennare al mito di Edipo, dal


quale trarremo
qualche altro spunto a favore dell'origine nordica della
mitologia greca;
avremo altresì l'occasione di proporre qualche ipotesi sui miti
solari, anch'essi
forse nati nel settentrione, e sull'arte della metallurgia,
deviando brevemente
dal tema principale della nostra ricerca. Atal fine prenderemo
le mosse dalla
figura della Sfinge tebana, per cercare di individuare il
simbolismo ad essa
sotteso.
Già autori come il Graves hanno messo in relazione certi esseri
mitici
compositi della mitologia greca, quali la Chimera, con il
calendario194; ma anche
nella religione mitriaca appare una figura mostruosa che il
Pettazzoni correla
alla Sfinge egizia e assimila al Tempo195; pertanto è
ragionevole supporre
che abbiano lo stesso significato gli analoghi mostri indo-
iranici e addirittura
nordamericani (della Columbia Britannica) analizzati dal
Dumézil, spesso effigiati
con più teste serpentiformi196, nonché i Cherubini della Bibbia
(che ritroviamo
anche nell'Apocalisse di Giovanni). Ed è interessante il fatto
che pure
nella mitologia nordica, e precisamente nella Hrolfssaga Kraka,
appaia un
mostro alato che uccide gli eroi e devasta il paese, proprio in
corrispondenza
con la festa di metà inverno: è evidente l'allusione alla
"temporalità" del mostro.
Va altresì notato che lo stesso re di quel luogo, Hrolf, in un
carme dell'Edda
(Grottasongr; strofa 22) viene chiamato "figlio e fratello" di
sua madre:
dunque, in un contesto analogo a quello tebano, dove agisce il
mostro devastatore,
si ritrova il tema dell'incesto, che ha fatto la moderna
fortuna del mito
di Edipo.

194 Graves, I miti greci, pag. 3 (Introduzione)


195 Pettazzoni, La figura mostruosa del Tempo nella
religione mitriaca, pag. 7 sgg.
196 Dumézil, Ventura e sventura del guerriero, pag. 152
D'altronde, nella tragedia Eschilo definisce la Sfinge "demone
rapitore di genti": quale migliore definizione per indicare
l'aspetto distruttivo
del Tempo? E ci siamo già imbattuti in simili metafore anche
nei poemi
omerici: pensiamo al drago che divora nove passeri nel II libro
dell'Iliade o l'aquila che scanna venti oche nel XIX
dell'Odissea. Ma il simbolismo temporale
della Sfinge traspare anche dagli indovinelli proposti ai
viandanti: "Qual è l'essere che ha quattro gambe al mattino,
due a mezzogiorno e tre la sera, e
quando ha più gambe è meno forte?", e "Quali sono le due
sorelle che si generano
alternativamente, a vicenda?" La risposta al primo quesito è
"l'Uomo",
all'altro "il Giorno (che in greco è un vocabolo di genere
femminile) e la Notte".
Ora, è molto significativo che nell'antico Egitto fosse adorata
una "Trinità"
solare, costituita da Khepri, Ra e Atum (i quali
rappresentavano rispettivamente
il Sole al mattino, a mezzogiorno e al tramonto), che pare
fosse simboleggiata
proprio dalla Sfinge egizia; ma ritroviamo anche in India
concetti analoghi
(la Taittirìya Samhita, II, 1, 2, 5,
afferma che il Sole ha tre luci: quella del mattino, "Vasanta";
quella del mezzogiorno, "Grishma"; quella della sera,
"Sharad"). E in un passo di Plutarco s'incontra un brano che ha
singolari attinenze
col famoso indovinello: "A Sais, nel vestibolo del tempio di
Atena, si vedeva
scolpito un bambino, un vecchio, uno sparviero, un pesce ed
infine un ippopotamo
(...) Quest'ultimo rappresentava la violenza impudente, perché
si dice che questo animale, dopo aver ucciso il padre, faccia
violenza alla madre
e si accoppi con lei" (De Iside et Osiride, cap. XXXII).
L'accenno all'incesto ci riporta di nuovo ad Edipo: e forse non
è un caso
che Kullervo, personaggio dai tratti "solari" del Kalevala, si
renda anch'egli
involontariamente responsabile della stessa colpa, in questo
caso nei confronti
della sorella, la quale pure finirà per suicidarsi (runo XXXV).
Inoltre il nome
del re tebano, che significa "piedi forati" - con riferimento
alle crude modalità della sua esposizione dopo la nascita (per
di più il carro del padre Laio gli pesta
un piede) - allude a una zoppìa, molto significativa: la
ritroviamo infatti tipicamente
nei fabbri (pensiamo al dio Efesto), ma anche nello stesso
Ulisse, altra
figura per certi versi "solare", segnato dalla ferita alla
gamba, nell'artefice
Volund, il "Dedalo" nordico, nel vecchio Väinämöinen,
protagonista del Kalevala, persino nel "Re Pescatore" del
castello del Graal: c'è forse un'allusione all'obliquità
del percorso del sole, che andando verso l'inverno "zoppica"
sempre
di più. Ne abbiamo la conferma in un antico rito egiziano,
ricordato dal Frazer
nel suo Il ramo d'oro: dopo l'equinozio d'autunno gli Egiziani
celebravano
una festa detta "natività del bastone del sole" perché,
"siccome la grande lampada
declinava ogni giorno nel cielo e la sua luce ed il suo calore
diminuivano,
si supponeva che avesse bisogno di un bastone su cui
appoggiarsi".
Lo stesso tema si ritrova nella mitologia indiana: come ci dice
il Tilak, "la
potenza del sole d'inverno scema e si può facilmente capire
perché il sole invernale
sia detto zoppo, vecchio, disgraziato..."197. E una suggestiva
triade solare,
concettualmente identica all'indovinello della Sfinge - il
Neonato, l'Adulto,
il Vecchio - la troveremo fra poco nell'Trao omerico a Hermes,
dopo
averne verificato, attraverso un'apparente anomalia
astronomica, l'ambientazione
estremamente settentrionale. Così pure, la triade del Kalevala:
il giovane
Lemminkäinen, il maturo fabbro Ilmarinen ed il vecchio
Väinämöinen, sulle
cui valenze solari non possiamo qui dilungarci, potrebbe essere
una variazione
sempre sullo stesso tema: ad esempio, li troviamo nel runo XLII
che veleggiano
tutti e tre insieme su una nave, classico simbolo solare,
esattamente
come lo è la barca del Re Pescatore (d'altronde anche i re Magi
tradizionalmente
hanno le stesse caratteristiche di età: e, non a caso, appaiono
in corrispondenza
del solstizio d'inverno). Ancora, un importante personaggio
della
mitologia del Tibet, il mago Padmasambhava, in un racconto
appare come un
bimbo al mattino, un uomo a mezzogiorno, un vecchio al
tramonto198. Ma la
simbologia solare non è mai tanto esplicita quanto in un
racconto tzigano, dove
"il re del Sole vola verso il mondo la mattina presto, quando è
ancora un frugolino.
A mezzogiorno è già un uomo maturo, mentre la sera, quando
torna a
casa, è un povero vecchietto e si addormenta in grembo alla
madre"199.

197 Tilak, La dimora artica nei Veda, pag. 219


198 David-Neel, La vita sovrumana di Cesar di Ling, pag. 47
199 Ficowski, Il rametto dell'albero del Sole, pag. 27

Quali conclusioni possiamo trarre da tutto ciò? Ci sembra


ragionevole
supporre che la vicenda di Edipo sia globalmente leggibile
nella chiave dell'eroe
che sconfigge la Temporalità, rappresentata dalla Sfinge, e in
tal modo
acquisisce la regalità, che s'identifica con il principio
solare. Il Sole a sua volta
nasce dalla "Madre Terra" e poi, dopo aver spento col suo
fulgore il Cielo
stellato notturno (commettendo così un involontario
"parricidio"), si sostituisce
ad esso e la feconda con i suoi raggi (ecco ['"incesto");
infine, di sera "si
accieca" e scompare. E all'ascendenza del Sole forse allude
anche il celebre
versetto orfico della laminetta di Petelia: "...sono figlio
della Terra e del Cielo
stellato", presumibilmente riferibile ad un rito iniziatico, in
cui l'adepto riconosce
la sua essenza divina, cioè "solare". A questo punto si
potrebbe addirittura
supporre che la risposta al primo indovinello della Sfinge,
"l'Uomo", in
realtà nasconda il Sole (in questa chiave si potrebbe forse
altresì spiegare l'origine
dell'espressione tradizionale "il figlio della vedova", che
potrebbe alludere
al Sole, figlio della Terra, a sua volta "vedova" del cielo
notturno).
Ma anche l'allusione alla "provenienza dall'Etiopia" della
Sfinge probabilmente
ha un preciso significato "solare": Omero infatti chiama gli
Etiopi
"quelli del sole che tramonta e quelli del sole che sorge" (Od.
I, 24); li definisce
inoltre "gli estremi fra gli uomini" e, nei luoghi dove forse
risiedevano, oltre
il Circolo polare (come vedremo fra poco, nel capitolo dedicato
al fiume
Oceano), il normale ciclo diurno del sole subisce una cesura
drammatica sia durante
l'estate, allorché l'astro non tramonta, sia, soprattutto,
durante l'inverno,
allorché non riappare per un lungo periodo da sotto
l'orizzonte: ecco l'analogia
col mostro della Hrolfssaga Kraka, che devasta il paese proprio
in corrispondenza
del solstizio invernale.
D'altronde, con riferimento ad una tradizione indoeuropea che
si richiama
ad una primitiva sede circumpolare, lo Haudry osserva che "una
parte di
questa tradizione non può esplicarsi se non a partire da una
situazione geografica
in cui l'anno, cornice temporale delle attività umane ed in
particolare del
culto, si compone di una parte "diurna" e di una parte
"notturna",
separate da
un periodo di "aurore". Un gran numero di testimonianze
attestano l'impazienza provata durante questo periodo aurorale,
che sembra ritardare il ritorno
sperato del sole. Quanto alla parte notturna dell'anno, è una
prova che bisogna
"attraversare", come si attraversa una distesa d'acqua"200.

200 Nouvelle Ecole n. 49, pag. 119

A questo punto si potrebbe congetturare che i miti solari


abbiano avuto
tutti un'origine nordica, se non artica (naturalmente in
un'epoca favorita da un
clima molto più mite di quello attuale): infatti, solo alle
alte latitudini si impone
drammaticamente il ciclo annuale delle stagioni fortemente
caratterizzate e dei
giorni esageratamente lunghi o brevi. Invece, scendendo a
latitudini più meridionali,
gli sbalzi giornalieri e stagionali sono sempre meno
avvertibili e diviene
proporzionalmente più importante, anche per un'agevole misura
del tempo,
la funzione delle fasi lunari, a loro volta connesse con i
cicli femminili, la
fertilità della terra e così via. Pertanto, fra i popoli di
origine nordica potrebbe
prevalere l'attenzione o per il contrasto luce-tenebre o
direttamente per il Sole,
il che può sfociare o in un dualismo di tipo manicheo o nel
monoteismo,
eventualmente corretto da forme "trinitarie" - del tipo di
quelle egizie e indù a
cui abbiamo già accennato - che, almeno all'origine,
intendevano forse alludere
ai tre diversi aspetti con i quali il disco solare si presenta:
bianco allo zenit, rosso al tramonto, nero durante le eclissi
(e, per estensione, di notte).
In effetti, Dio appare a Dante, nell'ultimo canto del Paradiso,
sotto forma
di "tre cerchi di tre colori e d'una continenza", uno dei quali
è il rosso,
mentre gli altri potrebbero essere il bianco e il nero, in
simmetria con quelli delle
tre facce di Lucifero descritte nell'Inferno. Essi sono i
colori alchemici delValbedo, della rubedo e della nigredo, ma
anche i colori, rispettivamente, della
veste del Papa, dei vescovi e dei sacerdoti cattolici: a sua
volta il Dumézil li
associa alle tre funzioni fondamentali dei primitivi
Indoeuropei, la sacerdotale,
la guerriera e la produttiva201. E forse si possono leggere
alla stessa stregua
i simbolismi "tricolori" sia del cardellino, uccellino in voga
nella pittura del Rinascimento,
non di rado incline all'esoterismo, sia di molte bandiere
nazionali,
che accostano il rosso ad altri due colori, uno chiaro e uno
scuro: anch'esse
dunque sono riconducibili ad un simbolismo solare (di cui la
bandiera del Giappone
costituisce un esempio, si può ben dire, "lampante"),
confermato dall'uso
tradizionale di innalzarle al mattino e di ammainarle al
tramonto.

201 Dumézil, La courtisane et les seigneurs colorés, pag.


17

Pertanto, dietro i culti solari di molti popoli forse non è


irragionevole ipotizzare
un'origine molto settentrionale, anzi artica. Questo ci dà lo
spunto per
accennare ad un'affascinante teoria sulle festività celtiche,
proposta da J.M.
Williams202, secondo cui le quattro grandi feste del calendario
celtico, Samain
(1 novembre), Imbolc (1 febbraio), Beltane (1 maggio) e
Lugnasad (1 agosto)
potrebbero aver avuto origine in un contesto estremamente
settentrionale, dove
scandivano i quattro momenti più significativi dell'anno
artico, allorché rispettivamente
iniziano e finiscono la notte solstiziale (Samain e Imbolc) ed
il
giorno ininterrotto estivo senza tramonto (Beltane e Lugnasad).
Essi potrebbero
dunque rappresentare l'estremo ricordo della provenienza da una
terra dove la
notte polare durava tre mesi, il che non si verifica in alcun
punto del continente
europeo, ma soltanto in isole collocate più a settentrione,
quali le Svalbard
(che sono attualmente inabitabili, ma che durante l"'optimum
climatico"
erano libere dai ghiacci). Al riguardo, aggiungiamo che,
secondo un passo della Battaglia di Mag Tuired, i Celti erano
discesi dalle "isole a nord del mondo",
affermazione che ben si sposa con la teoria del Williams.

202 A New Theory ofCeltic Festivals, C. & C. Workshop


1995:1

I culti solari richiamano subito alla mente la civiltà egizia,


apparsa improvvisamente
nella valle del Nilo attorno all'inizio del III millennio a.C.
Riguardo
ad una sua eventuale provenienza artica, segnaliamo uno
straordinario
parallelismo con la mitologia finnica: nel Kalevala
Lemminkäinen viene ucciso
da un serpente acquatico e poi il suo corpo è fatto a pezzi e
gettato nel fiume,
"tra le scure onde di 'Manala'" (faldilà", runo XIV); ora, ciò
ricorda da vicino
il mito di Osiride ucciso da Tifone, smembrato e gettato nel
Nilo, su cui
Plutarco si sofferma nel suo De Iside et Osiride (cap. XIII e
seguenti). Le analogie
continuano e si sviluppano, in modo stupefacente, nel seguito
dei due
racconti: la madre di Lemminkäinen ricerca il figlio,
scandagliando il fiume "fino
agli estremi abissi di Mana", finché non riesce a recuperarne i
pezzi, che poi
ricompone e resuscita (runo XV); così pure, Iside riesce a
ritrovare nel Nilo le
parti smembrate del marito e a rimetterle insieme.
Sempre riguardo al mito di Osiride, il Frazer osserva che "la
diurna apparizione
e sparizione del sole si può esprimere con un mito della sua
morte
e resurrezione (...) ma se il tema delle leggende era la sua
morte diurna, perché
veniva celebrato con una cerimonia annuale? (...) Per di più,
anche se si
può dire che il sole muore ogni giorno, che senso potrà avere
l'affermazione
che esso è fatto a pezzi?"203. È evidente che una spiegazione
in grado di rispondere
esaurientemente a questi legittimi dubbi non può non
considerare il
ciclo del sole nelle regioni artiche, dove al giorno continuo
durante il solstizio
estivo seguono le fasi della sua alternanza con la notte (il
dio viene
"smembrato"), poi le tenebre del solstizio d'inverno (la
sparizione "nelle acque"),
il ritorno dell'alternanza tra giorno e notte (il ripescaggio
dei pezzi) e,
finalmente, il ripetersi del sole senza tramonto nell'estate
successiva (il ripristino
dell'integrità).

203 Frazer, Il ramo d'oro, pagg. 605-606


L'aver dunque ritrovato il mito di Osiride nel mondo finnico,
proprio dove
tali fenomeni effettivamente si verificano, ci sembra assai
significativo nonché
meritevole di ulteriori approfondimenti da parte degli
specialisti, anche
considerando che, all'epoca della repentina apparizione della
civiltà egizia,
l'estremo Nord godeva di un clima ben diverso da quello
attuale.
Tipica della mitologia egizia, come pure di tante altre, è la
lotta tra il principio
solare (il dio Ra) ed il principio delle tenebre (il dragone
Apophis). D'altronde,
abbiamo appena visto che Lemminkäinen lotta con un serpente
acquatico,
il che induce a credere che l'analoga battaglia tra Osiride e
Tifone sia una
variante dello stesso tema. L'identico motivo si ritrova fra i
Greci, nel racconto
di Apollo neonato che uccide il serpente Pitone (non a caso
Apollo è il dio
"iperboreo" per eccellenza); nella mitologia nordica, dove "con
forza l'audace
Thor tirò su,/ a bordo della nave, il serpente lucente di
veleno/ e col martello
colpì l'orrendo capo" (Hymìskvìdha, 90-92; secondo l'Edda di
Snorri, Thor
"gli staccò la testa", Gylfaginning, 48); fra gli Hittiti, che
celebravano il "mito
del combattimento del dio della tempesta col serpente" in
occasione della festa
del Purulli (il loro capodanno; il nome richiama quello delle
"Parilia", la festa
della nascita di Roma); in Mesopotamia, nella lotta fra Enlil e
il mostro acquatico
Tiamat; nell'evento iranico e nel Rigveda indiano, dove
Tishtrya e Indra
uccidono Apaosha e, rispettivamente, Vritra; persino in
Polinesia, dove
Maui decapita Tuna, il mostro-anguilla che perseguitava una
donna. Un'altra
variante la ritroviamo nell'avventura di Sir Gawain e il
Cavaliere Verde, bellissimo
poemetto di un anonimo inglese del Trecento, dove appare la
mostruosa
figura di un gigantesco cavaliere, decapitato da Galvano
all'inizio dell'Anno
Nuovo, che si inserisce a meraviglia in questa casistica; così
pure, l'eroe celtico
Cüchulainn è il protagonista di una vicenda del tutto analoga
nel Banchetto
di Bricriu.
Riguardo in particolare al mito di Apollo che, appena nato,
uccide il dragone
con le sue frecce, ci sembra estremamente significativo il
fatto che nel terzo
millennio a.C, allorché 'optimum climatico" era al suo apice,
il Polo Nord
non era contrassegnato dalla Stella Polare, come avviene ora,
ma dalla costellazione
del Dragone. Invero il moto precessionario dell'asse terrestre
nel 2830
a.C. portò la stella chiamata Thuban ("Alpha Draconis") ad
appena 10' dal polo
celeste204 (mentre attualmente la Polare dista circa 50', cioè
poco meno di
un grado). Pertanto a quell'epoca il Dragone sembrava
letteralmente avvolgersi
attorno al polo, al centro del cielo notturno: era davvero il
signore delle
tenebre, che per di più
torreggiava quasi allo zenith nelle regioni artiche! Ma
quando il nuovo sole, preannunciato dalle albe rotanti,
risaliva dalla notte solstiziale, i suoi raggi annientavano il
dragone: ecco la vittoria del Sole, incarnato
dall'Apollo Iperboreo che sorge dalla Madre Terra, sul Dragone
che la tormentava
con la sua oscurità.

204 Bianucci, Stella per stella, pag. 62

Possiamo a questo punto supporre che l'omphalos, cioè


l'ombelico-centro
della terra custodito nel tempio di Apollo a Delfi,
rappresentasse il corrispondente
simmetrico del centro del cielo stellato, il polo attorno a cui
5000 anni
fa il dragone si attorcigliava (che da questa immagine abbia
tratto origine anche
l'antico simbolo della svastica?). Non è dunque un caso che noi
ritroviamo
il dragone o il serpente (pure associato al mito del paradiso
perduto, comune
a tante tradizioni) in molte mitologie, dalla vecchia Europa -
pensiamo
solo alla leggenda di San Giorgio - alla Cina e all'America
precolombiana.
Così pure, il minaccioso dragone descritto nel Beowulf chiamato
"l'antico flagello
dell'alba (...) che vola di notte" ("nihtes fleogedh"; 2271-
2273), è riconducibile
al medesimo significato. Una traccia letteraria più recente la
troviamo
nel racconto iniziatico di Goethe Il serpente verde; inoltre,
le sue fattezze sono
tuttora ben riconoscibili negli aquiloni, la cui testa
quadrangolare con la
lunga coda serpeggiante imita perfettamente la caratteristica
forma della costellazione
del Dragone (e, non a caso, "drago" è un altro nome
dell'aquilone205).
E un altro vestigio inaspettatamente compare sulla nostra
tavola la notte
di Natale, in coincidenza con il solstizio d'inverno e con la
nascita del Sole
bambino: chi avrebbe detto che il popolare "capitone" del
cenone natalizio è probabilmente quanto rimane dei terribili
Apophis, Pitone, Tifone, Tiamat e
Tuna, i draghi delle tenebre - identificate dal Tilak con le
"acque" in cui essi
invariabilmente sono immersi - uccisi dal principio solare?

205 Vocabolario Treccani, voce "Drago"

Ed una straordinaria conferma ce la dà addirittura un mito


eschimese, riportato
al solito dal Frazer: "Alla fine dell'inverno artico, quando il
sole riappare
all'orizzonte dopo un'assenza di settimane o di mesi, (...) a
Punta Barrow,
l'estremità settentrionale dell'Alaska, gli eschimesi scelgono
il momento del
riapparire del sole per cacciare via da ogni casa lo spirito
malefico Tuna"206. È evidente l'analogia di quest'ultimo,
scacciato al ritorno del sole, con il polinesiano
Tuna ed il greco Pitone, sconfìtti da Maui e da Apollo, il sole
"neonato"
(ma anche Lemminkäinen, l'eroe che combatte col serpente, non a
caso è il più giovane della triade finnica).

206 Frazer, Il ramo d'oro, pag. 851

In questo quadro potrebbe forse rientrare anche un celebre


passo della
Bibbia, dove si afferma che "il Signore visiterà con la sua
spada (...) il Leviathan,
il serpente tortuoso, e ucciderà il mostro che è nel mare"
(Isaia, 27, 1 ),
come pure la "guerra nei cieli" tra Michele ed il dragone che
insidia il neonato
narrata nel cap. XII dell'Apocalisse di Giovanni (dove forse si
avverte anche
un'eco delle raffigurazioni che presumibilmente decoravano il
tempio di
Artemide, sorella di Apollo, ad Efeso). Una tale concezione
potrebbe aver avuto
la sua prima origine alle alte latitudini, dove le tenebre del
solstizio d'inverno
sono davvero in grado d'incutere il timore che il sole potrebbe
non riapparire
mai più.
Quanto ad Apophis, l'avversario di Ra, avanziamo qui l'ipotesi
che proprio
con lui si identifichi la "bestia del mare" a cui, secondo il
celebre indovinello
proposto nel cap. XIII dell'Apocalisse, è associato il numero
666. Infatti
la somma dei numeri, corrispondenti a ciascuna delle lettere
greche del suo
nome, risulta pari a 667, a cui va tuttavia sottratto 1, il
numero della "A" iniziale,
perché il dragone ha la "testa" tagliata! Riteniamo anche che
Dante conoscesse
la soluzione dell'indovinello e genialmente ce la abbia
riproposta nella Commedia, sempre in forma enigmatica, con il
famoso verso "Pape Satan,
Pape Satan aleppe" (VII canto dell' Inferno): esso potrebbe
voler esprimere da
un lato l'identificazione di Apophis con Satana, dall'altro il
distacco fra la testa
("aleppe", cioè alpha) ed il resto del corpo ("pape", cioè
pophis); tale interpretazione
viene confermata dai versi successivi, nei quali il poeta fa
esplicite
allusioni proprio a quella parte dell'Apocalisse e, in
particolare, a Michele
ed alla sua vittoriosa lotta col dragone: riletti secondo
questa chiave, essi si
rivelano di una evidenza lampante.
A questo proposito, ci sia qui consentito un breve excursus sul
significato
generale dell'Apocalisse: anch'essa infatti, se proviamo a
rileggerla in una
chiave spregiudicata, senza farci confondere dalla ridondanza
delle sue immagini
e dei suoi simboli, appare tutta pervasa dal concetto di
"temporalità",
che si incentra sul "libro sigillato con sette sigilli",
interpretabile come il libro
della Storia, articolata su altrettante epoche, di cui le prime
quattro sono le età della tradizione classica, prima
dell'avvento del Redentore. Esse sono rappresentate
dai "quattro cavalieri", che nel loro simbolismo e nei colori
dei rispettivi
cavalli ne illustrano in modo trasparente le caratteristiche:
così il cavaliere
col cavallo bianco, che appare all'apertura del primo sigillo
(VI, 1-2), sembra
alludere all'età dell'oro, correlabile con i filosofi; quello
con il cavallo rosso
e la spada, introdotto dal secondo sigillo, all'età
dell'argento (i guerrieri);
quello col cavallo nero e la bilancia, terzo sigillo, all'età
del bronzo (i commercianti);
il quarto, infine, all'età della Morte", il "Kali Yuga", segno
evidente
degli influssi della cultura indiana nell'area del Mediterraneo
all'epoca
della redazione dell'Apocalisse (circa la relazione tra i
cavalli ed il trascorrere
del tempo, pensiamo agli omerici "cavalli dell'Aurora" ed ai
graffiti scandinavi
sullo stesso soggetto, su cui ci siamo soffermati in
precedenza). Invece
l'apertura degli ultimi tre sigilli scandisce le tre età
successive alla nascita di
Cristo, a partire dal
tempo delle persecuzioni fino all'attesa del Giudizio finale e
al Giudizio stesso; in tal modo si compie la "storia della
salvezza", la quale
a sua volta si interseca con quella del dragone (quest'ultimo
simboleggia,
come abbiamo già visto, il principio delle tenebre,
contrapposto a quello solare):
alla fine, naturalmente, il dragone verrà annientato e si
celebrerà il trionfo
dell'Agnello.
Notiamo ora che la carta del cielo ci appare come un grande
affresco di
figure mitologiche "congelate" nei nomi delle costellazioni: e
dietro le vicende
di cui esse sono protagoniste si potrebbe addirittura
sospettare che si celino
frammenti di informazioni, per così dire "criptate", riguardo
alle rotte dei
navigatori preistorici, per i quali le stelle rappresentavano i
principali "strumenti
di lavoro". In realtà, i culti stellari, di cui si ritrovano
tracce persino negli
antichissimi "Testi delle Piramidi", ai primordi della civiltà
egiziana, non
hanno mai cessato di esercitare una sottile influenza sulle
concezioni dell'umanità:
basti pensare al richiamo che tuttora esercita l'astrologia,
come pure all'interesse
che i fenomeni astronomici hanno sempre suscitato nella poesia
e
nella letteratura.
In tal senso riteniamo, se ci è consentita un'altra breve
digressione, che
nulla eguagli lo stupendo VIII canto del Purgatorio di Dante,
riguardo al quale
qui proponiamo che il poeta si sia ispirato, oltre che al
ricordo dei suoi migliori
amici, proprio alla contemplazione del cielo stellato e della
sua lenta rivoluzione
nel corso delle ore notturne; nel testo ciò non viene
dichiarato esplicitamente,
ma è Dante stesso ad avvertirci della metafora: "Aguzza qui,
lettor,
ben li occhi al vero,/ che 'I velo è ora ben tanto sottile,/
certo che 'I trapassar
dentro è leggiero". E, sollevato il "velo", dopo sette secoli
l'architettura di questo
canto, restituito al suo significato originario, può finalmente
dispiegarsi in
tutta la sua straordinaria bellezza, senza più equivoci, così
come il poeta l'aveva
concepita: ecco dunque che, mentre cala la sera ("Era già l'ora
che volge
al disio..."), cominciano ad apparirgli gli astri più
brillanti: primo fra tutti,
nelle vesti di "una de l'alme/ surta", Venere, o Lucifero, a
cui non a caso viene
associato il coro Te lucis ante; poi man mano si accendono le
altre stelle, finché
non compare una serpe, la cui presenza ha sempre lasciato
perplessi i commentatori,
mentre in questa chiave astronomica tutto si spiega
immediatamente:
si tratta dell'Idra, la più lunga tra le costellazioni, il
serpente mitico che spicca
nel cielo notturno di primavera (la stagione in cui è
ambientata la Commedia). "La mala striscia" in questo contesto
appare bassa sull'orizzonte: Dante
infatti colloca il Purgatorio nell'altro emisfero e
coerentemente ci descrive le
costellazioni del firmamento meridionale, dove risplendono sia
le "tre facelle/
di che il polo di qua tutto quanto arde", cioè il Triangolo
Australe, sia le "quattro
chiare stelle" della Croce del Sud, già ricordate con
particolare enfasi all'inizio
della cantica (si tratta con ogni probabilità di dati
astronomici di origine
araba: la Croce risulta parzialmente visibile già alla
latitudine del Cairo).
Infine, riguardo ai due "astor celestiali" che inseguono il
serpente, il poeta si
diverte a giocare con l'assonanza tra "astor" e "astri";
inoltre ci dice che non
li vede muoversi, ma ad un certo punto "vidi bene l'uno e
l'altro mosso": così
implicitamente ci conferma che si tratta proprio di corpi
celesti, i cui movimenti
sono in effetti impercettibili. Che voglia alludere alle due
stelle più brillanti
della costellazione del Centauro, non lontane dalla coda
dell'Idra? Sembra
indicarcelo anche il singolare accenno alle loro "verdi ali":
infatti il nome
arabo di Alpha Centauri è "Toliman", il "Germoglio della
Vite"207...

207 Klepesta-Riikl, Le Costellazioni, pag. 130

Circa le denominazioni di stelle e costellazioni, non ci


sorprende di ritrovare
anche nella poesia di Omero nomi che ci sono familiari, quali
Boote,
Orione, l'Orsa e così via: è la conferma della loro estrema
antichità, che ovviamente
si estende ai racconti e ai personaggi che vi ruotano attorno.
Riguardo
in particolare all'Orsa (che per gli studiosi va identificata
con l'Orsa Maggiore),
sia nell'Iliade che nell'Odissea troviamo una singolare
affermazione:
essa "sola non ha parte ai lavacri d'Oceano" (Il. XVIII, 489;
Od. V, 275). Ora,
mentre nel Mediterraneo in taluni periodi dell'anno essa scende
parzialmente
al di sotto dell'orizzonte, alle latitudini settentrionali in
effetti l'Orsa Maggiore
non tramonta mai, il che potrebbe costituire un altro
significativo indizio a
favore dell'origine nordica dei poemi omerici.
In ogni caso, forse non è troppo arrischiato congetturare che
in una remota
preistoria miti solari e stellari fossero in certo senso
complementari - pensiamo
ad Orione, nella cui figura si ritrovano entrambi gli aspetti -
magari nell'ambito
di una visione cosmica globale di cui nelle età successive
sarebbero
rimasti solo alcuni frammenti. In particolare, i segni dello
Zodiaco appaiono in
molte culture, anche lontanissime tra loro: ad esempio, il
Griaule li ritrova tra
i Dogon della Nigeria208. Ora, ci sembra plausibile che un tale
concetto - lo Zodiaco è la zona dell'eclittica descritta dal
Sole nel suo moto annuo apparente
(in greco "Zodiakòs kyklos" significa all'incirca "cìrcolo
degli animali"; un significato
analogo hanno il corrispondente termine norvegese "Dyrekretsen"
e
quello finnico "Eläinrata") - possa essere stato concepito
originariamente alle
alte latitudini, dove si presenta quasi come una sorta di
"girotondo" di costellazioni
basse sull'orizzonte, per poi trasmigrare e perpetuarsi in zone
più meridionali,
dove invece il fenomeno sì manifesta via via con minore
evidenza.
Osserviamo anche che certi accenni delle antiche mitologie ad
una modifica
dell'inclinazione dell'asse terrestre si potrebbero a questo
punto spiegare senza
far ricorso a catastrofi cosmiche, ma semplicemente
ricorrendo al salutare
"rasoio di Occam": ad aver dato l'impressione che l'asse si
fosse improvvisamente inclinato potrebbero essere semplicemente
state le migrazioni dei popoli
verso latitudini più basse, con il conseguente spostamento del
punto d'osservazione
sulla superficie terrestre. Sempre riguardo allo Zodiaco,
qualcuno dei
suoi dodici segni stilizzati (che potrebbero essere in
relazione con gli antichi
sistemi di numerazione duodecimale) sembra presentare curiose
affinità con
certe lettere dell'alfabeto: sarebbe insomma suggestivo
congetturare che quest'ultimo
possa aver tratto la sua prima origine da un preistorico
insieme di
simboli sacri (pensiamo alle rune nordiche) legati
all'astronomia e, quindi, all'arte
della navigazione: successivamente i navigatori fenici
potrebbero aver
pensato di utilizzarli, con gli opportuni adattamenti, per i
loro commerci, raddoppiandone
il numero e divulgandoli in senso "profano".

208 Griaule, Dio d'acqua, XXXII giornata

Per inciso, dalla cultura del popolo dogon - a cui Marcel


Griaule ha dedicato
il suo bellissimo Dio d'acqua - emergono una mitologia e una
cosmologia
estremamente complesse, non di rado sorprendentemente vicine a
quelle
classiche: ad esempio, ecco un culto del fuoco, imperniato su
due legni cavi
e bruciacchiati, denominati "Anakyè" e "Badu": al primo, il
"fuoco maschio",
i Dogon dedicano un santuario a base circolare; all'altro, il
"fuoco femmina",
un santuario quadrangolare209. Dal canto suo, il Dumézil210 ci
informa
che, ai tempi vedici, nel mondo indiano il rito del sacrificio
era imperniato su
tre fuochi, tra cui i principali erano due, uno rotondo,
l'altro quadrangolare.
Ora, ricordando che "Agni" era il dio del fuoco, mentre "Vedi",
sempre secondo
il Dumézil, era uno spiazzo rituale adiacente al secondo fuoco,
sembra
quasi di ritrovare in questi due nomi i vocaboli dogon "Anakyé"
e "Badu".

209 Griaule, Dio d'acqua, XXIX giornata


210 Dumézil, La religione romana arcaica, pag. 279

Sarebbe
poi estremamente suggestivo ipotizzare una relazione tra questi
due miseri
legni bruciati, simbolo di una cultura tanto povera
materialmente quanto
ricca sotto l'aspetto spirituale, e le due superbe colonne in
bronzo erette davanti
al tempio di Salomone, denominate rispettivamente "Jakin" e
"Boaz" (7Re, 1, 21): nonostante le vicissitudini del tempo e
della storia, certe parole non sono
andate perdute...
Osserviamo adesso che qualche studioso ha ritenuto di scorgere
le tracce
di antichissimi miti astrali anche nei nomi e nei simboli con
cui indichiamo i
numeri; al riguardo, Paolo Ettore Santangelo ci dice che "se
esaminate le comuni
cifre arabiche, trovate una cosa curiosa: il sei e il nove sono
indicati con
due segni simili, ma disposti in senso contrario; il 6 ha la
forma della luna calante
(lat. sex = sica, falce); il 9 ha la forma della luna nuova
(lat. nov-em, greco ennéa = nuova). Voi avete così un primo
sospetto del come il primitivo abbia
potuto
esprimere l'idea della molteplicità. Si tratta del solito
sistema a base di metafore: e se esaminate i nomi del sette e
dell'otto, trovate che il primo
indica la luna sepolta (lat. septem), l'altro la luna morta
(lat. o-cto connesso col
verbo greco kteìno "uccidere"). Troviamo dunque in questi
numerali adombrato
tutto un dramma divino: il dio lunare che viene squartato e
ridotto a brani,
che quindi viene sepolto e che al terzo giorno resuscita. Non
meno curioso è poi il fatto che le cifre arabiche esprimano con
le figure ciò che i numeri indoeuropei
esprimono con le parole. Se ne deve concludere, o che gli Arabi
non
furono gl'inventori delle cifre (e questo ormai è assodato), o
che gl'Indoeuropei,
accanto ai noti sistemi di rappresentazione dei numeri (i
Latini avevano i
così detti numeri romani, i Greci utilizzavano a ciò
l'alfabeto), avessero un cifrario
esoterico, segreto, che non essendo mai stato reso di pubblica
ragione
venne obliato e fu praticamente perduto, fino a quando
gl'Indiani o gli Arabi
non ce lo fecero recuperare"211.

211 Santangelo, L'origine del linguaggio, pagg. 172-173

Fin qui il Santangelo: però in questa suggestiva


interpretazione stride leggermente
il fatto che la luna venga prima sepolta e poi muoia, il che
non ci sembra
del tutto logico. Ben più interessante a nostro avviso sarebbe
interpretare
che la luna, una volta "sepolta", non muoia, ma diventi
"omicida". Come? Ovviamente,
perché "uccide" il sole: infatti le eclissi solari avvengono
sempre
prima della luna nuova, quando il nostro satellite s'interpone
fra la Terra e il
sole e, pertanto, la sua faccia diventa per noi invisibile
(cioè sepolta). Insomma
nei numeri sarebbe nascosto - anzi, si potrebbe ben dire,
"cifrato" - il segreto
delle eclissi! Oltretutto sembra confermarlo proprio il segno,
costituito da
due cerchi tangenti, che rappresenta il numero 8: cosa si
potrebbe trovare di più adatto per indicare il momento in cui
la luna comincia ad "uccidere" il sole?
Segnaliamo altresì la convergenza tra alcuni passi dell'
Iliade, dal sapore
estremamente arcaico, e certe immagini, riconducibili proprio
ad eventi astronomici,
della mitologia indiana ed iranica (tutte quelle che qui
seguono, comprese
le citazioni tra virgolette, sono tratte dal cap. 5 di Orione
del Tilak): ad
esempio, la "triplice freccia" del dio indiano Rudra, che
secondo il Tilak corrisponde
alle tre stelle della cintura di Orione, a nostro avviso ha un
suggestivo
parallelo nella "freccia a tre punte" ("oistöi triglòchini",
Il. V, 393) con cui
Eracle ferisce la dea Era; ed è sempre Eracle a colpire Ade
(Il. V, 395) e a minacciare
gli altri dèi con i dardi (Il. V, 404), in analogia con certe
credenze dei
Parsi, secondo cui "la Via Lattea è detta stare sopra l'Inferno
e (...) che tale costellazione
sia l'arma costantemente puntata da Mithra sulla testa dei
Daeva".
Per inciso, il testo dell'Iliade a noi pervenuto narra che
Eracle colpì Ade
"en Pyloi", cioè "a Pilo" (V, 397), ma letto così non ha nessun
senso; avrebbe
invece un significato astronomico
ben preciso leggere "en Pylei", cioè "alla Porta" equinoziale
(ovvero, il che è equivalente, alla Porta degli Inferi). Al
riguardo
segnaliamo che l'Iliade riporta un'altra espressione
sintatticamente
identica, contenuta nella profezia, fatta da Ettore prima di
morire, che Paride
ucciderà Achille "alle porte Scee", "e« Ska.ìèis'1 pyleisin"
(XXII, 360). Sempre l'Iliade in più occasioni menziona
espressamente le "porte di Ade" (Il. VIII,
367; IX, 312; XXIII, 71): probabilmente questi miti rimandano
ad un'epoca
precedente (infatti il poeta usa i verbi al passato) allorché
"Eracle" - che in questo
caso rappresenterebbe un "alter ego" del cacciatore Orione -
doveva forse
identificarsi con la costellazione che segnava l'equinozio di
primavera e, nel
contempo, l'inizio dell'anno. Ed è l'Odissea a darci di Eracle
un'immagine tipicamente
"orionica", allorché lo "fotografa" in posa plastica nell'Ade,
a mo'
di cacciatore, con arco e frecce: "nudo l'arco teneva ed il
dardo sul nervo/ terribilmente
girando gli occhi, sempre pronto a scoccare" (Od. XI, 607-608).
In
tal modo si ricollega sia all'Eracle arciere, che abbiamo
incontrato poco fa, sia
ai suoi minacciosi corrispondenti indiani.
Per inciso, non mancano alla figura mitica di Eracle anche i
tratti solari:
al riguardo, è curiosa la somiglianza del suo nome con quello
di Harakhte,
"Horo dei due orizzonti", divinità solare di primo piano
nell'affollato pantheon
egizio.
Ma adesso leggiamo un passo, tratto sempre dall'Iliade,
riferito al momento
in cui la dea Era esce dall'Olimpo con il suo carro:
"Cigolarono da sole ("autòmatai") le porte del cielo ("pylai
ouranoù"), che le Ore sorvegliano,/
le Ore, a cui il Cielo vasto è confidato ("epitétraptai") e
l'Olimpo,/ se scostare
o calare la densa nube ("pykinòn néphos") si debba" (Il. V,
749-751). In esso
è mirabilmente visualizzato il movimento, regolare come un
meccanismo ad
orologeria, della volta celeste lungo l'arco dell'anno,
scandito dalle Ore, corrispondenti
alle nostre stagioni - il termine greco "Hòrai" sembra affine
al latino
"ver", da cui l'italiano "primavera" - le quali determinano
l'alternanza
fra il prevalere del sole e dell'oscurità (la "densa nube", che
viene scostata o
calata lungo il volgere dei mesi). Si potrebbe intravvedere in
questi versi, dal
sapore estremamente arcaico, una reminiscenza dell'ambiente
artico, in cui la
contrapposizione fra luce e tenebre è assai più marcata
rispetto alle latitudini
intermedie. Quanto al carro di Era, potrebbe anch'esso alludere
ad un fenomeno
astronomico: che abbia a che fare con il moto della luna?
Notiamo che
la figura della dea appare collegata all'astronomia in un'altra
singolare immagine,
allorché, avvinta ad una catena d'oro, pende "nell'etere fra le
nubi" (Il.
XV, 18-21).
Se ora passiamo all'Odissea, anche qui troviamo due enigmatiche
"porte",
le quali hanno l'aria di voler entrare a pieno titolo in questo
discorso: ci riferiamo
a un singolare passo che
troviamo in coda alla descrizione delfantro
delle Ninfe" (forse aggiunto da qualche poeta posteriore che ne
aveva perduto il significato): "Vi sono due porte,! una da
Borea, accessibile agli uomini;/
l'altra, dal Noto, è dei numi e per quella/ non passano
uomini,/ degli immortali è lavia" (Od. XIII, 109-112). Che
anche in questo caso si tratti di porte celesti
lo possiamo arguire dai Veda, dove è frequente la
contrapposizione tra il
"cammino degli Dèi" ("Devayåna") e quello dei "Padri"
("Pitriyåna"): "La
strada del Devayåna inizia con il sorgere dell'aurora o dopo la
fine dell'oscurità:
e questa era la strada per la quale Agni, gli Ashvin, Ushas,
Surya e gli altri
dèi del mattino viaggiavano durante il loro corso nei cieli. Il
cammino dei
Pitris o Pitriyåna, d'altra parte, è descritto come 'l'inverso
del Devayåna o sentiero
della morte'. Nel Rigveda, X 10-15, il poeta dice che ha udito
solo di 'due
strade, una dei Devas, l'altra dei Pitris'. Se il Devayåna
inizia con l'aurora,
dobbiamo pensare che il Pitriyåna inizi con l'avvento
dell'oscurità"212. Notiamo
che la convergenza con l'Odissea si estende anche al fatto che
Omero pone
la "via degli dèi" dalla parte del Noto, il sud, rivolto verso
il cammino del
Sole (il vedico Surya), mentre l'accesso per gli uomini è da
Borea, cioè dal
nord, in direzione della notte. Insomma anche qui, come nel
passo dell'Iliade che abbiamo letto prima, alle "due porte" fa
riscontro la solita dicotomia fra luce
e tenebre.
Ma l'Odissea ha in serbo anche altre sorprese: cosa dobbiamo
pensare
infatti degli stranissimi cani che fanno la guardia davanti
alle porte della reggia
di Alcinoo, i quali "sono immortali ("athanàtous") e per sempre
senza vecchiezza ("agéros")" (Od. VII, 94)? Chiaramente non
sono di questo mondo: lì troviamo invece in cielo, nelle due
costellazioni {Canis Maior e Canis Minor) che accompagnano
Orione: nel Rigveda sono i "custodi della casa e della via
poste in direzione della regione di Yama" (il "Cane di Orione",
cioè Sirio, è espressamente menzionato nell'Iliade, XXII, 29).
Quanto a Yama, il dio dei
morti del pantheon indù, è l'esatto corrispondente dell'omerico
Ade: e, non a
caso, anche quest'ultimo ha un cane, anzi un "cane odioso",
"àxonta kyna" (Il.
VIII, 368), protagonista di un'altra avventura di Eracle;
d'altronde il Tilak rileva
l'analogia tra l'uccisione di Orthros da parte dello stesso
Eracle e quella
di Vritra da parte di Indra. Riguardo ancora ai nostri
quadrupedi celesti, essi,
secondo l'Avesta iranico, sono "gialli o bianchi con orecchie
gialle"213: e, parallelamente, l'Odissea ci dice che i cani di
Alcinoo sono "d'oro e d'argento"
("chryseioi kaì argyreoi", VII, 91). Dobbiamo perciò supporre
che il poeta dell'Odissea, per conferire maggiore aulicità ed
importanza al suo racconto, abbia
attinto ad un formulario per così dire "tradizionale", che ai
suoi tempi doveva
essere già molto antico.

212 Tilak, La dimora artica nei Veda, pag. 72

213 Tilak, Orione, pag. 135


Ed a queste considerazioni sulle porte astronomiche, sia
celesti che infere,
nonché sui loro guardiani, sarebbe suggestivo accostare un
celebre passo
evangelico: "Le porte dell'Inferno non prevarranno (...) a te
(Pietro) darò le
chiavi del Regno dei Cieli" {Matteo 16, 18-19). Ci sembra
insomma che la
concezione delle due chiavi, d'oro e d'argento - ossìa le
insegne della Chiesa
cattolica, impresse sulla bandiera gialla e bianca del Vaticano
- possa in qualche
modo riallacciarsi ad un simbolismo che affonda le sue radici
in un'antichissima
tradizione indoeuropea.
Ritorniamo adesso ai miti solari: una forte caratterizzazione
in tal senso,
certamente riferibile all'alta latitudine, la ritroviamo tra i
graffiti rupestri dell'età
del bronzo scandinava: vi sono spesso raffigurate navi, che si
legano alla
simbologia delle "barche del Sole" (così familiare anche alla
cultura egizia), ed
insieme asce, le quali sono dunque riconducibili al medesimo
simbolismo; pertanto
non ci sorprende che esse si ritrovino associate insieme anche
nei poemi
omerici, come abbiamo già visto a proposito dei chermadi.
Avevamo anche
prospettato una probabile correlazione tra le dodici scuri,
bersaglio della gara
con l'arco nell'Odissea, e i dodici mesi dell'anno, che ci
hanno indotto ad ipotizzare
una diretta relazione tra la luna e il simbolo della scure. Di
ciò troviamo
una precisa conferma nell'archeologia nordica: infatti sulla
lastra 6 della
tomba di Kivik sono incise due lame di scuri, che gli studiosi
mettono in rapporto
proprio con la luna: "Le immagini della scure o del crescente,
e più probabilmente
le ruote a croce, sono concepibilmente allusioni alla luna e al
sole
rispettivamente"214 (notiamo che le ruote con quattro raggi a
croce si ritrovano
identiche nei bassorilievi di cocchi sulle stele di Micene).
È evidente che queste corrispondenze tra luna e scuri
nell'Odissea e nel
tumulo di Kivik - la prima apparentemente mediterranea ma in
realtà tutta intrisa
di riferimenti nordici, l'altro nordico però per tanti versi
occhieggiante alle
civiltà del Mediterraneo - si illuminano e si rafforzano a
vicenda.

214 Randsborg, Kivik archaeology and iconography, pag 119

In precedenza ci siamo già soffermati sullo stretto rapporto


tra navi e asce.
Queste ultime - che si ritrovano con particolare frequenza in
Danimarca - in
molte culture hanno un significato "religioso" e sono chiamate
"pietre del fulmine"
(o "del tuono"). Al riguardo Mircea Eliade afferma che "gli dèi
del temporale
colpiscono la terra con 'pietre del fulmine'; essi hanno come
insegna l'ascia
bifronte e il martello"215; ed ancora: "È significativo (...)
che il simbolismo
delle 'pietre del fulmine', che assimilava al fulmine
proiettili ed armi da lancio
litiche, abbia avuto grande sviluppo nelle tecnologie
metallurgiche"216.

215 Eliade, Arti del metallo e alchimia, pag. 26


216 Eliade, Arti del metallo e alchimia, pag. 88
Per inciso, l'eroe mesopotamico Gilgamesh rischia di
compromettere la
sua traversata per nave attraverso l'"oceano della morte"
perché distrugge certi
non meglio identificati "oggetti in pietra": sarebbe a questo
punto assai suggestivo
verificare se queste misteriose "entità" siano identificabili
con delle
asce.
Più in generale, dietro certi insiemi di simboli comprendenti
barche, scuri
e ruote, comunissimi tra i graffiti scandinavi e spesso
accostati in modo apparentemente
bizzarro, potrebbero essere racchiuse, in un codice ancora
tutto
da decifrare (che essi corrispondano ad anni, mesi e giorni?),
informazioni di
carattere temporale o calendariale. Così pure il simbolo della
spirale, frequente
nei reperti dell'età del bronzo sia nordici che egei, potrebbe
essere stato ispirato
dall'osservazione della traiettoria, per l'appunto
"spiraliforme", descritta
dal sole alle alte latitudini nel periodo del solstizio estivo.
Al riguardo, segnaliamo
la convergenza tra i vocaboli "hélios" ("sole") ed "hélix"
("spirale"): la
radice di quest'ultimo, "helik-", in greco ha tutto l'aspetto
di un aggettivo, che
sembra effettivamente derivare da "hélios".
Si potrebbe ora supporre che a Tebe, centro kabirico dei
misteri metallurgici,
esistesse un centro di culto del Sole, con un "mito di
fondazione" e
una cerimonia d'iniziazione - che forse aveva luogo in un
santuario dedicato
alla Sfìnge sul monte Ficio - comprendenti il famoso
indovinello: Sofocle ce
li ha tramandati attraverso il mito di Edipo (secondo la
tradizione, Eschilo, altro
grande tragediografo greco, fu accusato di empietà per aver
divulgato i Misteri
attraverso le sue opere). Ricordiamo anche che il Dumézil ha
richiamato
l'attenzione sull'aspetto rituale ed iniziatico della "lotta"
con i "mostri" dell'area
indo-iranica e nordamericana, i quali vanno probabilmente
interpretati
in termini non dissimili dalla Sfinge.
Nel caso del mito di Edipo - il quale talvolta viene
significativamente
considerato figlio di Elio, il Sole - siamo probabilmente in
presenza di una
iniziazione "solare", coincidente con l'iniziazione "regale":
dopo aver sconfitto
la Sfinge nel duello rituale sul monte Ficio, Edipo diviene re
di Tebe.
Nei dintorni di Tebe forse sorgeva anche un santuario che
distribuiva al
popolo oracoli e vaticini: ed ecco l'indovino Tiresia, ovvero
l'aspetto "exoterico"
e popolare di quel culto solare che proprio a Tebe doveva avere
il suo centro.
Della sua importanza può essere un indizio il toponimo "Tyresö"
che ricorda
l'antico veggente, a cui inoltre è legata un'altra
significativa leggenda,
concernente la spropositata lunghezza della sua vita,
protrattasi addirittura per
sette generazioni: ciò va forse messo in relazione con la
persistenza di quel
luogo di culto, riguardo a cui si potrebbe anche ipotizzare che
il sacerdote dell'oracolo,
nell'entrare in carica, assumesse automaticamente come titolo
il nome
stesso del fondatore, diventando "il
Tiresia". D'altronde, qualcosa di analogo,
in tempi storici, avveniva ad Eleusi, sede dei più famosi
"Misteri" del mondo greco, dove "i sacerdoti e sacerdotesse
iniziatori (...) erano tutti 'Eumolpi',
cioè lo stesso del loro mitico antenato; 'Eumolpo' è, infatti,
il nome di
una carica: gli Eumolpidi perdevano il loro nome proprio nel
momento stesso
in cui entravano nella carica dell'Eumolpo"217. Si spiegherebbe
in tal modo da
un lato la straordinaria longevità del vecchio Tiresia,
dall'altro l'origine del
toponimo Tyresö. Analogamente, la località di Vidja nei pressi
del Nysättra
forse ricorda l'esistenza di un santuario, dedicato al piccolo
Dioniso del monte
Nisa, custodito da un ordine di sacerdotesse che portavano il
nome delle la
di, le nutrici del dio bambino.

217 Kerényi, Miti e misteri, pag. 173

Tornando ad Edipo, va notata l'analogia con le vicende di Teseo


e di Artù:
anch'essi ignorano di essere di discendenza regale, ma vengono
riconosciuti
dopo aver superato una prova: l'estrazione della spada dalla
roccia, la quale pure,
come la zoppìa di Edipo, rimanda ad un mito di fabbri. In
questi arcani personaggi
del mondo antico la dimensione sacerdotale si abbina infatti a
quella
"tecnologica": il "pontifex" romano era un "facitore di ponti"
e lo stesso nome
di Artù potrebbe forse ricollegarsi al persiano "arth", fuoco,
e alla radice latina
"art-" (da cui "artifex"), che presso gli antichi aveva un
significato molto
più concreto di quello attuale.
A questo punto, allargando ancora l'orizzonte della nostra
indagine, diventa
chiaro anche il senso dell"'estrarre la spada dalla roccia":
riteniamo ragionevole
ipotizzare che tale espressione alluda alla capacità di
fabbricarsi
l'arma, "estraendola" dalla "roccia" contenente il minerale di
ferro. Per inciso,
non è forse un caso che uno splendido esemplare di "spada nella
roccia",
risalente al XII secolo, si trovi tuttora nei pressi
dell'abbazia cistercense di San
Galgano, fra Siena e Grosseto, nell'area delle "colline
metallifere" (ricordiamo
che le leggende arturiane, probabilmente di origine celtica,
sono nate, o
riapparse, in ambiente cistercense); inoltre, potrebbe essere
significativo il nome
del fiume che scorre nei dintorni dell'abbazia, il Merse: esso
infatti ha un
suggestivo omonimo nel Mersey, il fiume di Liverpool,
nell'Inghilterra nordoccidentale.
Ma ancora più interessante è il fatto che esso ricorda Marte,
il dio
del ferro (sui suoi rapporti con il simbolo della spada il
Dumézil ha fatto uno
studio specifico218).

218 Dumézil, Storie degli Sciti, cap. 5: "Attila e la spada


di Marte"

D'altronde questa divinità non era legata soltanto alla guerra:


la problematica
figura del "Marte agrario" dei Romani si potrebbe forse
interpretare
considerando che il ferro serve a fabbricare non soltanto le
armi, ma anche gli
attrezzi agricoli (anzi, in Omero ha soprattutto tale funzione,
come si evince dall'Iliade, XXIII, 832-835): che, su tali basi,
sia possibile
stabilire una relazione tra i misteri della metallurgia e
quelli dell'agricoltura? Non a caso, tra i
Dogon da un lato il sole viene considerato alla stregua di un
vaso di rame incandescente219 - ecco il raccordo tra culti
solari ed operazioni metallurgiche,
in cui la produzione del metallo fuso è probabilmente correlata
all'essenza del
sole stesso - dall'altro il fabbro "ogni anno, al momento del
raccolto, lascia il
suo fuoco e percorre il paese per prelevare i semi degli
appezzamenti dissodati
dal suo ferro: egli conosce tutti i campi che gli devono il
tributo..."220: con
tutta probabilità, la chiave per comprendere il "Marte agrario"
sta proprio qui.

219 Griaule, Dio d'acqua, II giornata


220 Griaule. Dio d'acqua, XIII giornata

Per inciso, una correlazione tra Marte e le attività agricole è


forse riscontrabile
anche nella mitologia celtica: nel racconto irlandese del Cath
Maige
Tuired(La battaglia di Mag Tuired) ad un certo punto si
sentenzia: "il martedì per arare, il martedì per gettare i semi
del campo, il martedì per mietere"221; al
riguardo, come rileva Melita Cataldi, curatrice del testo, "che
Mairt, 'terzo'
giorno della settimana, fosse fausto per l'agricoltura è
tradizione attestata nei
paesi celtici insulari"222.

221 Antiche storie e fiabe irlandesi, pag. 52


222 Antiche storie e fiabe irlandesi, pag. 58, nota 54

È in ogni caso il fabbro che, nel momento culminante della


fusione, fa nascere
un piccolo sole - il "fuoco del cielo" del mito di Prometeo,
che in effetti
si ritrova, con tratti pressoché identici, anche nella
mitologia dogon - nel
suo crogiolo: quest'ultimo sarebbe suggestivo accostarlo al
Graal, il mitico
calderone, fonte di ricchezza e potere per chi lo possiede, di
concezione celtica
(ma ne ritroviamo uno simile anche nel mito greco di Medea,
anch'essa personaggio
dai tratti spiccatamente "solari" e, addirittura, in certe
leggende nordamericane).
Lo stesso dio solare egizio Horo, secondo le iscrizioni del suo
tempio a Edfu, sarebbe giunto nella valle del Nilo a capo di
una schiera di metallurgi,
esperti nella fusione del ferro. Ma anche i re Inca, seguaci di
un culto
solare - che tra l'altro prevedeva, oltre alle "spose del
Sole", anche le mandrie
dedicate all'astro, esattamente come le intoccabili vacche
dell'isola Trinachia
- dovevano sapersi forgiare le armi, come il germanico
Sigfrido.
Per inciso, dai Commentari reali degli Incas emergono diversi
indizi su
una possibile provenienza europea dei loro antenati: che alcuni
gruppi di coloni,
provenienti dall'Europa settentrionale e non ancora convertiti
al Cristianesimo,
siano riusciti ad attraversare l'Atlantico durante il "periodo
caldo medioevale"?
Certe leggende dei Maya, in America centrale, sembrano
conservare
le tracce del loro arrivo; si potrebbe altresì cercare di
indagare sulla possibilità di una relazione non casuale (e,
forse, essa stessa legata a tali contatti) tra
l'abbandono dei principali centri maya, nel IX secolo d.C, e la
repentina apparizione
degli Incas -- il cui antico costume prevedeva,
significativamente, "una
treccia rossa" sul capo223 - nell'area peruviana, avvenuta poco
tempo dopo.

223 Garcilaso de la Vega, Commentari Reali degli Incas, IX,


40

Con l'occasione, notiamo anche che i sacerdoti degli Incas,


seguaci di un
culto solare per diffondere il quale attuavano una politica di
continua espansione
nei confronti dei loro confinanti, concentravano i raggi del
sole con una
lente e accendevano il fuoco sacro, che poi "veniva portato al
tempio del Sole
e alla casa delle vergini, dove veniva custodito per tutto
l'anno, ed era di cattivo
augurio che si spegnesse"224. Queste vergini erano considerate
le spose
del Sole: esse presentano sorprendenti analogie con le Vestali
dell'antica Roma,
impegnate anch'esse a custodire il fuoco nel tempio. Si
potrebbe congetturare
che questi riti risalgano ad una primordiale civiltà artica -
ricordiamo al
riguardo la singolarità del primitivo calendario romano,
articolato su dieci mesi
- che, durante il periodo della notte solstiziale, aveva cura
di conservare con
ogni attenzione il fuoco acceso direttamente dal sole l'anno
precedente, quasi
come pegno del suo ritorno. E altresì significativo il fatto
che le spose del Sole
peruviane, se mancavano al voto di castità, venivano sepolte
vive225, esattamente
come le Vestali: potremmo supporre che, ovviamente sotto
metafora,
questa pena alluda una sorta di ripudio da parte del loro
"sposo", alla cui presenza
le poverette non erano più degne di comparire (forse così si
spiega anche
la logica della pena inflitta a quella suor Virginia, murata
viva per molti anni,
che ha ispirato il personaggio manzoniano di Gertrude). Tutto
ciò poi richiama
alla mente anche le vergini di una nota parabola evangelica
{Matteo, 25,
1-12), obbligate a tenere accesa una lucerna fino a tarda
notte, in attesa dell'arrivo
dello "sposo"; se la lasciavano spegnere, venivano ripudiate
senza appello:
"Non vi conosco!".

224 Garcilaso de la Vega, Commentari Reali degli Incas, VI,


22
225 Garcilaso de la Vega, Commentari Reali degli Incas, IV,
3

A questo punto, ricordando la tesi del Williams sull'origine


artica delle festività
celtiche, azzardiamo un'ulteriore congettura: poiché la festa
di Imbolc
corrisponde alla festività cristiana della Candelora - ossia la
benedizione dei
ceri, diffusa anche in Inghilterra e Germania -- viene da
chiedersi se in essa magari
non sia celato l'estremo ricordo di qualche antichissimo rito
artico, incentrato
sullo spegnimento del fuoco che era stato custodito dalle
"spose del
Sole" durante la notte solstiziale.
Notiamo ancora che, secondo il Kalevala, in un passo dedicato
alle origini
del ferro, questo metallo nasce da un latte nero, uno bianco e
uno rosso (runo
IX): ritroviamo i tre colori
"solari" a cui avevamo accennato poco fa. In questo quadro,
potremmo azzardare un'ipotesi anche sul significato originario
della
cosiddetta "pietra filosofale": questa locuzione forse faceva
riferimento al
carbone, che è necessario nel processo di fusione non solo per
realizzare un'alta
temperatura, ma anche per consentire la riduzione del minerale
da ossido di
ferro a ferro metallico (ciò spiegherebbe anche l'apparenza
vile ed insignificante
che gli alchimisti le attribuivano). Si potrebbe altresì
congetturare che l'espressione
alchemica "lapis exillis", legata al Graal, sia nata da una
corruzione
dell'espressione greca "ek xylou", ossia "dal legno"
(l'alchimia ebbe un
grande impulso in epoca ellenistica), con riferimento al fatto
che il carbone di
legna, usato dagli antichi metallurgi nei loro forni, è
effettivamente una sorta
di "pietra" ("lapis") che trae origine "dal legno".
Non è peraltro questa la sede per approfondire il fondamentale
rapporto,
non sempre adeguatamente sottolineato, fra regalità,
tecnologia-con particolare
riguardo all'arte dei metalli - ed esoterismo nel mondo antico
(per cominciare
ad addentrarsi in questo affascinante argomento, segnaliamo il
prezioso Arti del metallo e Alchimia di M. Eliade e
l'"Appendice 11 " del Mulino
di Amleto). In tale discorso comunque si inseriscono
splendidamente sia i culti
solari in Inghilterra- pensiamo a Stonehenge, all'Apollo
nordico di Diodoro
Siculo, all'Orione omerico ucciso in Ortigia e, nel contempo,
allo stagno
estratto in Cornovaglia ed al bronzo commerciato a Temesa - sia
il culto dei
Kabiri a Tebe, legato proprio ai misteri della metallurgia.
Da tutto ciò emerge l'importanza degli antichi culti, legati al
Sole e alle
costellazioni, che ancora vivono inestricabilmente connessi con
la nostra civiltà attuale: basti pensare all'immensa fortuna
che ha avuto il mito di Edipo nella
sua interpretazione psicoanalitica (la quale invero, come
afferma, senza peli
sulla lingua, il grande Walter Otto, "gli ha fatto ottenere una
triste notorietà, ma è anche indubbiamente la più sconsiderata
e la meno vera"226). Come abbiamo
cercato di dimostrare, le loro tracce si ritrovano ancor oggi
nei toponimi sparsi
sul territorio dell'antica Tebe baltica, che fu il teatro sia
dei "misteri" della
metallurgia sia, soprattutto, delle tragiche vicende del re
macchiatosi di parricidio
e d'incesto per volere del Fato.

226 Otto, IlMito, pag. 82

A completare il quadro stanno quei graffiti rupestri scandinavi


menzionati
poco fa, i quali spesso rappresentano il disco solare
trasportato su una nave,
scortato da armati, talvolta addirittura in presenza dei
cavalli alati che la mitologia
greca associa al carro del Sole. Di questi ultimi l'Odissea,
come abbiamo
già visto, ci tramanda anche il nome: sono Lampo e Faetonte,
cioè Luminoso
e Splendente, "i due cavalli che l'Aurora trasportano" (XXIII,
246). A
questo punto non possiamo non ricordare il più solare dei miti
greci, quello di
Fetonte, che guidò il carro del Sole troppo vicino alla terra,
costringendo Zeus
ad abbatterlo; le sue sorelle, le Elìadi (cioè le "figlie del
Sole"), lo piansero
presso il fiume, finché non si trasformarono in pioppi, mentre
le loro lacrime
si mutavano in ambra. E l'ambra, prodotto prezioso del Baltico,
ci rammenta
l'origine nordica di questo suggestivo racconto.
In ogni caso, a quei muti reperti dell'Europa settentrionale,
ai quali abbiamo
tante volte accennato, siamo ormai in grado di attribuire un
nome e una
voce. E che voce! Quella stessa dell'epos omerico.

La posizione dell'Atene omerica è legata al capo Sunio: "Ma


quando il
Sunio sacro, il capo d Atene ("àkron Athenéon") toccammo..."
(Od. III, 278);
pertanto la ricerca di questa preistorica città baltica, di cui
troviamo una vivida
descrizione addirittura in Platone, non può che iniziare
dall'individuazione,
lungo le coste della Svezia - data la sequenza del Catalogo
delle navi - di un
riferimento geografico corrispondente al Sunio mediterraneo,
tenendo sott'occhio
anche la carta della Grecia.
E facile in questo modo, guidati dalla corrispondenza tra le
posizioni dell'isola
di Öland e dell'Eubea nei rispettivi contesti geografici,
risalire al capo
che si trova ad est della città di Karlskrona, là dove, circa
all'altezza della punta
meridionale di Öland, la costa svedese piega bruscamente verso
occidente:
esso rappresenta l'esatto "analogo geografico" (Vomòtopo) del
Sunio mediterraneo.
Inoltre, quest'area risulta situata in posizione congruente non
soltanto
con la scansione del Catalogo, che menziona Atene subito dopo
l'Eubea, ma
anche col racconto di Nestore nell'Odissea, secondo cui tale
città, nel percorso
di ritorno da Troia verso il Peloponneso, si incontrava prima
del capo Malea
(Od. III, 287), identificabile, come abbiamo visto, con il capo
situato all'estremità
meridionale della Scania, nei pressi dell'attuale Malmö.
L'attuale Karlskrona è una bella città di mare, costruita circa
tre secoli fa,
in posizione invidiabile: è proiettata su una penisoletta
rivolta verso sud, a cui
fanno corona una serie di isole, alcune delle quali collegate
con ponti alla terraferma.
Data la sua posizione, non stupisce che essa vanti, oltre che
un bel Museo
della Marina, una sviluppatissima attività marittima, in campo
sia mercantile
che, soprattutto, militare (alcune isole sono interdette agli
stranieri e
non è un caso che un sommergibile-spia sovietico, della classe
"Whisky" secondo
il codice NATO, anni fa si sia incagliato nella zona,
meritandosi in tal
modo l'ironico soprannome di "Whisky on the rocks"): ha insomma
la stessa
vocazione marinara della sua lontana antenata. D'altronde,
spesso è proprio la
geografìa, insieme con il clima, a segnare ed indirizzare il
destino dei popoli.
Un'osservazione specifica va fatta sul nome stesso di Atene,
che già in
Omero è riportato al plurale. Ricordando che il nome di
Siracusa era al plurale
sia in greco che in latino ("Syracusae"), in seguito al fatto
che, come attesta Cicerone nelle Verrine, la città si trovava
"a cavallo" tra la terraferma e l'isola
prospiciente, è ragionevole supporre che la forma "Athènai",
cioè "le Atene",
risalga alla primitiva localizzazione baltica della città,
tutta sfrangiata fra
isole e penisole. Allo stesso modo si spiega anche il nome al
plurale della Tebe
beotica: la sua antenata baltica non era molto distante dalle
isole su cui sorge
l'attuale Stoccolma.
Esiste tuttavia un passo dell'Odissea in cui il nome di Atene
appare al
singolare, allorché la dea Atena "arrivò alla spaziosa Atena
("euryàguian Athenen")/ed
entrò di Eretteo nella solida casa" (Od. VII, 80-81). Forse qui
vi è un
riferimento al nucleo più antico della città, dove
presumibilmente sorgeva la casa
di Eretteo - oggi si direbbe la "city" o, meglio ancora, il
"centro storico" che
si può ragionevolmente supporre venisse indicato proprio col
nome della
dea a cui la città era dedicata. D'altronde, anche il nome di
Tebe talvolta appare
al singolare, allorché si riferisce specificamente alla
cittadella circondata
di mura, ovvero "la rocca di Tebe ("Thébes", un genitivo che
alla lettera andrebbe
tradotto "di Teba") dalle sette porte" (Il. IV, 406; Od. XI,
263). Lo stesso
vale per Micene, il cui nome, normalmente al plurale - il che
ci aiuterà a localizzarla
nell'area dell'attuale Copenaghen - compare invece al singolare
nell'espressione
"polychrysoio Mykenes" ("di Micena ricca d'oro": Il. VII, 180;
XI, 46; Od. III, 304), con probabile allusione alle ricchezze
custodite nella cittadella.
Alcuni
toponimi dell'area di Karlskrona, in particolare quelli delle
isole attorno
al promontorio su cui sorge la città, meritano qualche
approfondimento
sulla loro origine: ad esempio, una di esse è chiamata Aspö, ed
il richiamo al toponimo
ateniese Asopo è naturale ed insieme eccitante. Un'altra porta
il nome di
Säljö: che si tratti di Salamina, l'isola prospiciente Atene,
la patria del fortissimo
Aiace? Troviamo inoltre un'isola Fäjö, che potrebbe ricordare
un'impresa
dell'eroe ateniese Teseo (Faia era il nome della feroce scrofa
da lui uccisa), mentre
un'altra piccola isola, Kalo, ha un nome che sembra "suonare"
greco. Passando
alla terraferma, lo stesso possiamo dire di Kylinge e Kallinge
(il suffisso
"-gè" lo abbiamo già ritrovato nelle versioni attuali dei nomi
di Zacinto e Tirinto:
ciò potrebbe suggerire l'ipotesi di un trapasso, che giriamo
agli specialisti
per le necessarie verifiche, dal primitivo suffisso greco "-
thos" all'attuale "-gè",
eventualmente attraverso una forma intermedia in "-kos", tipica
sia di toponimi
che di aggettivi nella lingua greca); ma particolarmente
interessante è Hallarum,
nelle vicinanze di Karlskrona: essa potrebbe essere l'antica
Calliaro (Il. II, 531 ),
città dei Locresi, che, secondo Omero, "vivono in faccia alla
sacra Eubea" (II,
535); la Calliaro omerica doveva dunque essere adiacente ad
Atene, che in effetti
il Catalogo menziona subito dopo la parentesi dell'Eubea.
Una conferma dell'identificazione di questo territorio con
quello di Atene
si trova nella leggenda greca di Cefalo e Procri, ambientata a
Torico, città
che era situata verso l'estremità meridionale dell'Attica, di
fronte a Creta. Attualmente
in posizione del tutto corrispondente si trova la città di
Torhamn: la
radice dell'antico nome sembrerebbe esser passata quasi intatta
attraverso i
millenni. A suo tempo verificheremo che essa è effettivamente
situata in posizione
antistante alla "Creta" baltica; e, sempre a proposito di
quest'ultima, la
mitologia greca ci ha tramandato contatti così stretti tra
Atene e Creta da far
supporre una loro prossimità geografica, nonostante
l'interposizione del mar
Egeo: pertanto la Creta omerica, allorché la andremo a
localizzare nel contesto
baltico, dovrà anch'essa ottemperare a questa condizione.
È pure suggestivo il nome di un promontorio ad est della città,
Knösö, che
potrebbe rappresentare un antico retaggio del tempo in cui
l'Atene di Teseo era
sottomessa ai Cretesi, ed ogni anno doveva inviare a Creta
sette ragazzi e sette
ragazze da dare in pasto al Minotauro nel Labirinto... Forse
qui risiedeva una
delle postazioni che assicuravano ai Cretesi omerici il
controllo della navigazione
nei "punti strategici" del Baltico.
Infine, il mito, non omerico, di Teseo e del Minotauro ci dà lo
spunto per
un'altra considerazione geografica. Vi si menziona infatti
l'isola di Naxos, dove
l'eroe ateniese, sulla via del ritorno ad Atene dopo aver
ucciso il terribile
mostro, abbandonò Arianna: Naxos dunque doveva fungere da scalo
intermedio
nel percorso, via nave, fra la Creta e l'Atene della mitologia.
Ora, a mezza
strada fra la costa svedese (Atene) e quella polacca (che tra
poco, in modo
del tutto indipendente, identificheremo con Creta), incontriamo
effettivamente
un'isola, Bornholm, che a questo punto viene naturale
identificare con l'antica
Naxos (Tav. IX). Ed una straordinaria verifica di tale identità
ci giunge dal
nome di una delle sue città più importanti: "Neksø". Sempre a
Bornholm, il nome
del capoluogo, Rønne, sembrerebbe ricordare quello di Arianna.
Dunque, a parte i poemi omerici, anche il resto della mitologia
greca, come
abbiamo avuto già modo di verificare, contiene indizi utili
alla ricostruzione
della primitiva patria nordica degli Achei. Un altro esempio ce
lo fornisce
Platone: infatti l'aver ritrovato, sulla base delle indicazioni
geografiche forniteci dall'Iliade, Atene in terra svedese -
l'Atene della mitologia, quella di Eretteo,
di Egeo, di Teseo - riceve una suggestiva conferma nella lunga
digressione,
contenuta nel dialogo Crizia (109a-112e), in cui il sommo
filosofo si sofferma
a descrivere un'Atene antichissima, con i suoi abitanti e le
sue istituzioni, fondata
e guidata da Atena e da Efesto, inserita in un'Attica
morfologicamente tutta
diversa da quella attuale: "In quel tempo aveva per montagne
alte ondulazioni
di terra; le piane che ora si chiamano campi di Felleo, erano
coperte di una
terra grassa; c'erano vaste foreste sulle montagne (...)
Dovunque scorrevano
copiose acque di fiumi e sorgenti". Era differente anche lo
stesso territorio della
città: "A quel tempo la zona dell'Acropoli non era come è
adesso (...) allora
era tanto vasta,
che si estendeva fino all'Eridano e all'Ilisso, ed era limitata
dal monte Licabetto". E, a questo punto, non
possiamo non rimarcare il fatto che l'ampiezza attribuita dal
Crizia al territorio
di questa remota città preistorica ha un perfetto corrispettivo
in quell'aggettivo
"spaziosa" ("euryàguia") che "fotografa" l'Atene omerica.
Insomma, come abbiamo già visto a proposito dell'amabile"
Calidone
dell'Iliade, così diversa da quella greca, le immagini di
questa Atene primordiale
sono inserite in un contesto geografico totalmente estraneo
alla città che
ben conosciamo: lo stesso Platone lo sottolinea ripetutamente,
cercando di giustificare
tale anomalia con l'azione degli agenti atmosferici
(spiegazione illogica:
questi semmai tendono ad addolcire le asperità, non ad
accentuarle).
Tutto ciò invece si cala a meraviglia nella realtà dell'ampia e
ondulata terra
di Svezia, ricchissima di acque e di fiumi: pertanto, letto
alla luce del presente
discorso, questo passo del Crizia - un relitto salvatosi chissà
come dal naufragio
attraverso i millenni, quasi un "messaggio in bottiglia" alla
deriva nel mare
del tempo - rappresenta l'eccezionale testimonianza della
fisionomia reale
dell'antichissima Atene nordica, che emerge nitida dalle
profondità della preistoria e dalle nebbie del mito, con le sue
"case, i giardini, i ginnasi" e, soprattutto,
i suoi abitanti, "i più illustri fra tutti gli uomini di
allora" (Crizia 112e).

L'accenno al dialogo Crizia, in cui Platone descrive la mitica


Atlantide e
ci racconta la guerra scatenata dai suoi abitanti contro quella
Atene primordiale
dalla fisionomia così diversa rispetto alla sua città, ci dà
ora lo spunto per
soffermarci brevemente sulla millenaria questione dell'isola
che sarebbe
sprofondata nell'Atlantico in tempi remoti.
Premesso che le eventuali future ipotesi sulla sua ubicazione
d'ora in poi
non potranno non tener conto della collocazione nordica del
primitivo mondo
acheo, cercheremo subito di fare chiarezza su un passaggio
problematico nel
testo di Platone, il quale, nel dialogo Timeo, da un lato
definisce sempre Atlantide
un'"isola" ("nèsos") e mai un continente, dall'altro afferma
che essa era
"più grande di Libia ed Asia insieme". Quest'ultima
affermazione, se male interpretata,
si presta ad equivocare sulle reali dimensioni dell'isola e nel
contempo
contribuisce a rendere poco credibile il racconto platonico,
anche alla luce
delle moderne acquisizioni della geofisica riguardo alla deriva
dei continenti:
ciò in definitiva autorizza chiunque a stravolgere il testo,
modificandone
arbitrariamente i termini (che invece sono sostenuti da una
solida coerenza
interna) per adattarli a localizzazioni di Atlantide del tutto
inverosimili, negli
angoli più impensati dell'orbe terracqueo.
Esaminiamo dunque come nell'antica letteratura greca venivano
indicate
le dimensioni delle isole; a titolo di esempio riportiamo qui
il modo con cui
Diodoro Siculo indica la "grandezza" della Britannia, l'attuale
Gran Bretagna:
"Il lato più breve misura 7500 stadi e si distende lungo
l'Europa; il secondo
lato va dallo Stretto al vertice del triangolo ed ha una
lunghezza di 15000 stadi,
mentre l'ultimo è lungo 20000 stadi, così che il perimetro
dell'isola misura
complessivamente 42500 stadi" (Biblioteca storica, V, 21; uno
stadio equivaleva
a 184 metri).
Dunque, mentre per noi il concetto di "grandezza" di
qualsivoglia entità territoriale si riferisce esclusivamente
alla misura della sua superfìcie - il che
ha spesso portato fuori strada nell'interpretazione delle reali
dimensioni di
Atlantide - per una civiltà marinara la "grandezza" di un'isola
non può che
identificarsi con la misura della lunghezza del suo profilo
costiero, grossolanamente
stimabile attraverso una semplice circumnavigazione (a
differenza
dell'area, che richiede ben altri mezzi): ce lo conferma il
fatto che anche Cristoforo
Colombo procedeva allo stesso modo, come ad esempio risulta
dalla
sua Lettera a Luis de Santàngel, dove tra l'altro afferma che
una certa isola "è più grande dell'Inghilterra e della Scozia
insieme". Al riguardo, ecco il commento
del prof, de Anna: ".. .Naturalmente, quando egli dice che
l'isola di Juana è 'più grande' intende riferirsi, in quanto
marinaio, al perimetro costiero,-e
non alla superficie della terra, un modello di valutazione
comune a Colombo
e che compare anche in altri passi dei suoi testi"227.

227 de Anna, Le isole perdute e le isole ritrovate, pagg.


110-111

Insomma Platone, o meglio la sua fonte, per dare un'idea delle


grandi dimensioni
dell'isola Atlantide, ne ha confrontato non l'area, bensì il
perìmetro con lo sviluppo costiero dell'Asia Minore e della
Libia, con ciò volendo presumibilmente
indicare una parte delle coste dell'Africa settentrionale che
insieme
dovevano costituire un percorso ben noto agli antichi Greci (a
meno che
la sua fonte non si riferisse ai loro corrispondenti nordici).
Pertanto Atlantide, sulla base delle indicazioni di Platone,
che a questo
punto risultano ben coerenti fra loro, non era certo un
continente, ma semmai
un'isola, sia pure dalle dimensioni certamente rilevanti
(collocata "davanti alle
Colonne d'Ercole", che più avanti cercheremo di individuare
nell'Atlantico
del nord); il fatto poi che Platone ne parli in connessione con
un'Atene primordiale
che, come abbiamo visto poco fa, coincide con la "spaziosa
Atene"
omerica, ubicata sulla costa della Svezia meridionale, potrebbe
aprire nuove interessanti
prospettive su una sua eventuale localizzazione.
D'altronde nel mondo nordico, a partire dalla fine dell'era
glaciale, si sono
ripetutamente verificati allagamenti e sommersioni di vasti
territori: al riguardo,
il Rydbeck ha ipotizzato l'esistenza, durante il periodo
megalitico, "di
un territorio intermedio emerso, nel mare del Nord, fra le
isole britanniche e la
penisola cimbrica"228 (e in tempi ancora precedenti, durante il
cosiddetto "periodo di Joldia", nel Baltico meridionale
probabilmente esisteva un'altra grande
isola, comprendente l'attuale Bornholm, le isole danesi e la
Scania229). Né mancano gli studiosi che hanno accostato
Atlantide alle civiltà megalitiche dell'Europa
nord-occidentale.

228 Laviosa Zambotti, Le più antiche civiltà nordiche, pag.


73
229 Laviosa Zambotti, Le più antiche civiltà nordiche, pag. 9

Notiamo che ciò potrebbe quadrare con un'altra indicazione


geografica di
Platone, secondo cui l'aggressiva civiltà atlantidea aveva
colonizzato, sul continente
europeo, una regione detta "Gadirica" ("Gadeiriké" in greco,
dal nome
di Gadiro, fratello di Atlante; Crizia 114b): sarebbe infatti
suggestivo accostare
tale nome a quello dell'attuale territorio di "Agder", nella
Norvegia meridionale,
situato proprio di fronte al Mare del Nord (esso forse
corrisponde all'omerica
Citera ed ha una sorta di "analogo geografico" nella zona di
Cadice,
all'estremità della penisola iberica).
Ed è Omero che alla fine ci permette di chiudere il cerchio:
infatti proprio
in quell'area della Norvegia, in una zona non distante da
Agder, abbiamo ritrovato
la civiltà dei Feaci, i quali, come è stato rilevato da alcuni
studiosi, presentano
non pochi tratti in comune con gli atlantidei del Crizia
(pensiamo alla
loro vocazione marinara, alla discendenza da Poseidone, alle
caratteristiche
della reggia di Alcinoo descritte nel VII libro dell'Odissea,
alla stessa parentela
del re con sua moglie, che era figlia di suo fratello).
Insomma, a questo
punto il mito platonico dell'isola perduta comincia ad apparire
meno fantasioso
di quanto molti non abbiano finora ritenuto.
Peraltro, come è stato giustamente osservato, nessuna terra
emersa presenta
contemporaneamente tutte le caratteristiche che il Crizia
attribuisce alla
mitica isola. Al riguardo, potremmo ipotizzare che il mito di
Atlantide nasconda
un secondo substrato ancora precedente, ossia il ricordo di una
patria
primordiale ancora più antica. In particolare, nel racconto
platonico lascia perplessi
la presenza degli elefanti: ora, sulla base di recenti notizie
di stampa, nell'isola
siberiana di Wrangel sarebbero stati ritrovati resti di mammut
risalenti
al 1700 a.C. (se ciò venisse confermato, la fine dell"'optimum"
avrebbe dunque
comportato anche l'estinzione degli ultimi mammut). Insomma,
gli enigmatici
"elefanti" di cui parla il Crizia potrebbero essere l'ultimo
ricordo dei
mammut con cui in un lontano passato gli Atlantidi avrebbero
convissuto, forse
in una terra artica o subartica, per poi scendere verso il Mare
del Nord e, in
una fase ancora successiva, nel Mediterraneo (nel suo Atlantis
of the North, Jürgen Spanuth sostiene che ad introdurre in
Egitto il ricordo di Atlantide sarebbero
stati i cosiddetti "popoli del mare", attorno al XIII secolo
a.C). In ogni
caso, la sovrapposizione dei due "substrati", quello artico e
quello nordico, a
nostro avviso potrebbe spiegare molti enigmi del racconto
platonico (inoltre si sposerebbe molto bene sia con
l'ipotizzata origine artica dei Celti, sia con le relazioni
che sono state prospettate tra la civiltà di questi ultimi,
quella di Atlantide
e le culture megalitiche).
Infine, il tema di Atlantide ci consente di accennare ad un
altro argomento,
ad esso strettamente connesso, ricollegabile alla primitiva
localizzazione
degli Achei sulle sponde del Baltico. Ci riferiamo al
persistere del ricordo, nella
Grecia classica, di un misterioso metallo scomparso, chiamato
"oricalco", su
cui il Crizia si sofferma allorché ci descrive le immense
ricchezze dell'isola
sprofondata. Infatti tra le risorse di quest'ultima, afferma
Platone, vi erano "tutti
i metalli, duri o malleabili, che si possono estrarre dalle
miniere. In primo luogo,
quello del quale ora conosciamo solamente il nome, ma di cui
c'era allora,
oltre al nome, proprio la sostanza: l'oricalco, che si estraeva
dal suolo in varie
località dell'isola, il più prezioso, dopo l'oro, dei metalli
che vi erano allora" (Crizia 114e): evidentemente l'oricalco
non era una lega, come è stato talvolta
ritenuto, ma un vero e proprio metallo prezioso. E della sua
esistenza vi sono
anche altre tracce nella letteratura greca: nel II Inno omerico
ad Afrodite gli
orecchini della statua della dea sono "fiori d'oricalco e d'oro
prezioso" (v. 9),
a conferma del fatto che si trattava di un metallo nobile,
paragonabile all'oro;
inoltre, nello Scudo d'Ercole si accenna a "schinieri
d'oricalco" (v. 122).
Per inciso, l'uso di metalli preziosi per gli schinieri è
attestato anche nell'Iliade: all'inizio del canto XI
Agamennone, la mattina della grande battaglia
presso le navi, si arma e "per primi intorno alle gambe mise
gli schinieri, belli,
con i rinforzi d'argento alle caviglie"; ed anche gli schinieri
dell'armatura
prestata da Achille a Patroclo per scendere in campo nella
"notte funesta" hanno
la medesima caratteristica (Il. XVI, 132); invece quelli
fabbricati da Efesto
sono di stagno (Il. XVIII, 612), che peraltro, come abbiamo già
visto, doveva
essere anch'esso considerato un materiale pregiato.
Tornando all'oricalco, da quanto detto in precedenza si evince
che esso
potrebbe essere esistito realmente: a questo punto, per
identificarlo, bisogna tener
presente che nel mondo antico classico gli unici metalli
preziosi noti erano
l'oro e l'argento, mentre non si conosceva il platino, i cui
principali giacimenti
si trovano nella zona degli Urali, in Alaska e in Sudamerica:
esso entrò nel novero dei metalli per usi di gioielleria solo
nell'età moderna, dopo essere
stato scoperto nel 1735 da A. de Ulloa, in depositi alluvionali
della Colombia
(peraltro veniva utilizzato dalle popolazioni precolombiane del
Sudamerica
sin da tempi remoti).
Ora, poiché l'oricalco era, come abbiamo visto, un metallo
puro, e in natura
non esistono altri elementi chimici oltre ai 92 riportati nella
nota "tavola
di Mendeleev", ne consegue che esso dovrebbe identificarsi con
il platino, il
quale ancor oggi è, insieme con l'oro, il metallo considerato
più prezioso, proprio
come afferma Platone nel passo che abbiamo appena letto.
Ed è proprio la primitiva localizzazione degli Achei a chiarire
la ragione
per cui il mondo greco, pur avendone ormai perduto le tracce,
lo aveva conosciuto
e ne conservava una sia pur vaga memoria: infatti la distanza
(oltre
1500 km) dell'area baltica dai giacimenti più vicini, quelli
situati negli Urali,
pur essendo indubbiamente rilevante non doveva esser tale da
impedirne il
commercio, almeno sin quando il declino dell'optimum climatico"
non rese
impervie le vie di comunicazione. Invece, già all'epoca della
guerra di Troia
i contatti con gli Urali dovevano già essersi interrotti da
tempo: ciò spiega da
un lato il fatto che il prezioso metallo non venga mai
menzionato da Omero,
dall'altro la persistenza del ricordo, sia pure estremamente
affievolito, che ne
restava tra i Greci, non più in grado, dopo la discesa nel
Mediterraneo, di ripristinare
i contatti con una zona che si era fatta ancora più lontana e
inaccessibile.
Notiamo
anche che lo stesso significato del termine "oricalco" ("oreì-
chalchos"), vale a dire "rame dei monti", con cui quelle remote
popolazioni
avevano denominato il platino, ci dà un'ulteriore conferma
della sua natura e
della sua provenienza: esso infatti doveva essere estratto,
come abbiamo appena
visto, nei monti Urali, ossia i primi rilievi di una certa
entità che, provenendo
dalla piatta area baltica, si incontrano al di là dell'immensa
pianura russa.
XIV. LE REGIONI DEL PELOPONNESO E IL VIAGGIO
DI TELEMACO

Il viaggiatore che scende dalla Svezia con l'Iliade in valigia,


una volta
giunto a Helsingborg (la città che, sullo stretto dell'Öresund,
fronteggia la grande
isola danese di Sjælland), diffìcilmente può sottrarsi alla
tentazione di ricostruire
con la fantasia la scena dell'imponente flotta achea degli
Atridi e di Nestore
che quattromila anni fa veleggiava su quelle acque, diretta
verso Aulide
e Troia: se Omero non ci ha tramandato tale immagine, ne
troviamo una simile
nell'opera di Saxo, dove viene registrato il magnifico colpo
d'occhio offerto
dalle flotte che parteciparono alla battaglia navale di
Bràvellir, combattuta
in quella stessa area tra Danesi e Svedesi: "Dappertutto si
vedevano le acque
solcate dalle prore e le vele spiegate sugli alberi delle navi
coprivano la vista
del mare..." {Gesta Danorum, VIII, III, 13).
Quanto al Peloponneso - il corrispondente egeo di Sjælland che,
insieme
ad Atene, in certo senso rappresenta il cuore della Grecia-
secondo l'autorevole
testimonianza di Tucidide, il suo nome significa "Isola di
Pelope" {Storie I, 9, 2): tuttavia, ad onta di ciò, nel
Mediterraneo non è affatto un'isola, mentre
lo è il suo omòtopo nel mondo baltico (confermato dalla
scansione del Catalogo
delle navi, oltre che dalla sua posizione rispetto a Langeland-
Dulichio
e a Lyø-Itaca).
Attraversato l'Öresund si arriva nell'isola Sjælland, e
precisamente a Helsingør:
il teatro della tragedia di Amleto di fatto coincide con i
luoghi dove molti
secoli prima si erano svolte le fosche vicende di Atreo e dei
suoi due figli,
Agamennone e Menelao (opposti in una faida sanguinosa, dai
risvolti truculenti, a Tieste fratello-nemico di Atreo, ed a
suo figlio Egisto). Per inciso, nella
mitologia nordica "Atrìdh" è un appellativo di Odino
{Gylfaginning, 20).
Sulla base della sequenza del Catalogo, nell'isola erano
presenti vari insediamenti
achei: i domìni di Agamennone (con capitale Micene), di Menelao
(Sparta), di Nestore (Pilo), l'Arcadia e l'Elide. Sarà proprio
tale sequenza, unitamente
alle posizioni delle regioni corrispondenti sul suolo greco
(che talvolta
appaiono in contrasto rispetto alle indicazioni omeriche, ma
avremo presto
modo di scoprirne il motivo) nonché a certi dettagli rivelatori
che prenderemo
via via in esame, a consentirci di ricostruire la mappa della
loro dislocazione
sul territorio di Sjælland (Tavv. IX e X).
Provenendo dalla Svezia meridionale, il Catalogo si sofferma
dapprima
sul territorio di Agamennone, spesso chiamato "Argo" da Omero
(che invece
attribuisce la città omonima alla signorìa di Diomede: Il. II,
559): esso, dunque,
doveva giacere lungo la costa nord-orientale di Sjælland,
affacciata sull'Öresund
(in posizione corrispondente all'Argolide greca). Ce ne
dà una conferma il racconto dell'Odissea a proposito del
ritorno del comandante acheo dopo la
guerra: infatti Agamennone, sorpreso da una tempesta presso il
capo Malea
(situato, come abbiamo visto, all'estremità meridionale della
Svezia, proprio
di fronte a quella costa; invece la posizione del Malea greco,
a sud dell'Argolide,
dà adito ad una grossa incongruenza geografica), venne sospinto
verso
"l'estremità del podere dove ebbe casa Tieste/ prima, e allora
Egisto, figlio di
Tieste, abitava" (Od. IV, 517-518) prima di riuscire a tornare
nella sua Micene,
dove lo attendeva una tragica fine.
Pertanto Micene era ubicata su quel versante dell'isola;
inoltre, come si
deduce da un passo dell'Iliade, riferito sempre ad Agamennone,
in cui Diomede
ricorda "le navi/ che ti seguirono da Micene" ("toi héponto
Mykénethen"; Il.
IX, 43-44), doveva trovarsi direttamente sul mare. Ricordiamo
anche che il
suo nome è spesso riportato al plurale ("Mykènai"), come quelli
di Atene e di
Tebe; pure in questo caso, ciò potrebbe essere messo in
relazione col fatto che
il territorio cittadino comprendeva delle isole. Ora, come
segnalatoci dal dott.
Finn Gemynthe Madsen di Herlev, lungo la costa orientale di
Sjælland vi è
soltanto un'isola: si tratta di Amager, su cui si estende parte
della città di Copenaghen,
che in tal modo si trova per così dire "a cavallo" fra l'isola
stessa e
la terraferma. Al riguardo, i filologi potrebbero verificare se
il toponimo "Amager"
("Amacum" nell'XI secolo e "Amakæ" o "Amake" nel XIII) sia
eventualmente
riconducibile alla radice di "Micene".
È insomma probabile che la Micene omerica si trovasse
all'incirca sul sito
dell'attuale capitale della Danimarca: quest'ultima, fondata
nel XII secolo
d.C, nel tempo si è andata espandendo lungo la costa ed
attualmente ne occupa
una porzione non trascurabile. D'altronde, che anche la sua
lontana antenata
si estendesse su una superficie considerevole ce lo attesta
l'eloquente aggettivo
"spaziosa" che VIliade le attribuisce ("euryàguia", Il. IV, 52:
è lo stesso con
cui l'Odissea definisce Atene). Essa dunque aveva ben poco a
che vedere con
la Micene greca, "un vero nido d'aquila su di un'acropoli
grosso modo triangolare,
alta alla sommità 278 metri e delimitata, salvo che da un lato,
da burroni
scoscesi. Cime aride e rocciose dominano questo sperone
circondato da
gole deserte, nascosto, inaccessibile, invisibile dal mare"230,
da cui dista una
quindicina di chilometri. Insomma, anche in questo caso si
ripropone quanto
già osservato in precedenza per Atene e Calidone, i cui
prototipi mitici sono
morfologicamente del tutto diversi dalle città mediterranee
ribattezzate con lo
stesso nome.

230 Leveque, La civiltà greca, pag. 44


Per inciso, è un dato ricorrente nella storia umana che certi
luoghi perpetuino
nel tempo la vocazione ad ospitare le grandi città - già nel
nostro studio abbiamo trovato l'esempio di Tebe-Stoccolma - e
tale fenomeno non è diffuso
soltanto in Europa: ad esempio le antiche capitali dei due
imperi precolombiani,
la azteca Tenochtitlàn (ora Città del Messico) e la incaica
Quito, ancora oggi
sono le capitali del Messico e dell'Ecuador. E Micene doveva
essere una delle
metropoli più importanti della civiltà del bronzo nordica: sta
a dimostrarlo il
sussiego di Agamennone, comandante supremo della spedizione
achea: "Era vestito di bronzo abbagliante/ e andava superbo,
fra tutti i capi primeggiava,/
perché era il più forte, guidava moltissime schiere" (Il. II,
578-580).
Notiamo ancora che i domìni di Agamennone comprendevano tra
l'altro
la città di "Sidone, là dove Adrasto prima regnò" (Il. II,
572), menzionata di
frequente nella mitologia greca: secondo l'Iliade, essa si
estendeva su "un ampio
territorio" ("eurychoros"), espressione che ben si adatta sia
alla morfologia
della pianeggiante isola danese, sia alla caratterizzazione
della "spaziosa"
Micene omerica, presumibilmente ubicata in un'area adiacente.

Contiguo al regno di Agamennone era quello di suo fratello


Menelao, come
suggeriscono sia la logica che la sequenza del Catalogo. Già in
prima approssimazione,
possiamo ragionevolmente supporre che la Lacedemone omerica
(corrispondente alla Laconia greca) fosse ubicata nel versante
sudorientale
dell'isola Sjælland, data l'analogia tra il suo profilo e
quello del Peloponneso
egeo: notiamo infatti che il golfo di Fakse rappresenta il
corrispondente geografico
del golfo di Laconia; d'altronde, anche la posizione dei domìni
di Agamennone
ricorda quella dell'Argolide in Grecia (la collocazione della
città di
Argo, in fondo al golfo di Nauplia, corrisponde a quella della
danese Køge sul
golfo omonimo).
A questo punto, osservando in dettaglio la carta geografica
(Tav. X), si può
comprendere perché Omero definisca "concava e avvallata" la sua
Lacedemone
("koìlen Lakedaìmona ketòessan", Il. II, 581; Od. IV, 1): essa
doveva
estendersi lungo la costa, fortemente "incurvata" attorno al
golfo di Fakse, e nel
suo entroterra- ossia la "pianura ampia" su cui regnava Menelao
(Od. IV, 603)
- dove troviamo alcuni toponimi grecheggianti, quali Nysø e
Karise. Inoltre,
nell'entroterra del golfo di Fakse, in posizione quasi
corrispondente a quella di
Sparta in Grecia, il nome del villaggio di Fårup ricorda Fari,
città menzionata
accanto a Sparta nel Catalogo delle navi ("Phàrìn te Sparten",
Il. II, 582).
Ed ora abbiamo gli elementi per formulare un'ipotesi
sull'origine e il significato
del vocabolo "Lacedemone". Esso ha l'aspetto di un nome
composto,
che sembra derivare da "lakìs" (in latino "lacer"), ossia
"lacerazione, strappo",
e dal verbo "daìomai" che significa "dividere" (da cui discende
il sostantivo
"daimoné", "divisione"): insomma, "Lacedemone" potrebbe
significare
all'incirca "il pezzo diviso". Ora, ciò si accorda molto bene
con la morfologia
della parte più interna del golfo di Fakse, dove vi è un lembo
di terra che si
protende sul mare delimitando, come una sorta di diga naturale,
un'insenatura
chiamata Præstøfjord: si potrebbe pertanto congetturare che
proprio da questa
penisoletta stretta e allungata, un vero e proprio "pezzo
diviso" dalla costa
adiacente (dove presumìbilmente era ubicato lo scalo marittimo
che serviva
l'area della Sparta omerica), abbia tratto origine quel nome,
poi esteso a tutta
la regione contigua.
Riguardo al nome di Sparta, si può fare una considerazione
oltremodo
interessante, suggeritaci dal dottor Bruni. Nell'antico nordico
"spar(r)i" significava
"trave, tavola" (in alto tedesco "sparre", nel tedesco attuale
"sparren"):
ora, come ci ricorda il Graves, gli Spartani rappresentavano i
loro Dioscuri (i
due gemelli Castore e Polluce, ricordati da Elena nel III libro
dell'Iliade) proprio
con "due travi di legno parallele unite da due altre travi
trasversali"231 (si
tratta del simbolo che indica la costellazione dei Gemelli).
Insomma, nel nome
di Sparta, se ricondotto ad una radice nordica, sarebbe
racchiuso un significato
legato all'emblema stesso della città, la "doppia trave" dei
suoi mitici
protettori. Per inciso, il culto dei gemelli si ritrova anche
presso i Dogon della
Nigeria, riguardo ai quali avevamo già segnalato le affinità
con la mitologia
classica: secondo il Griaule, i Dogon li rappresentano con due
vasi, ovvero
"due ciotole rotonde e appiattite (...) saldate l'una all'altra
per il bordo"232; ciò
appare vieppiù significativo se pensiamo che l'altro simbolo
dei gemelli spartani,
oltre alle due travi, era una doppia anfora233.

231 Graves, I miti greci, 74


232 Griaule, Dio d'acqua, XXX giornata
233 Graves, I miti greci, 74.7
Si potrebbe allora congetturare che sia stato proprio il
vessillo di Sparta
a indurre i popoli nordici a chiamare le travi con il nome
della località di cui
esse erano l'emblema: nelle lingue il fenomeno dei sostantivi
derivati da toponimi
non è affatto raro (il francese faience, che indica la
maiolica, deriva dalla
nostra Faenza; ma pensiamo anche al gioco chiamato Shangai o
alla lana cachemire). E il nome della città dove ebbe luogo il
ratto di Elena forse risuona
ancora nello svedese "spår", che vuol dire "binario" (cioè
"doppia trave") e nel
suo composto "spårvagn", il "tram", ovvero, alla lettera, la
"vettura su rotaie".
Circa poi il toponimo Sparresholm, localizzato a qualche
chilometro da
Fårup, sembra che abbia un'origine recente: risalirebbe infatti
al XVII secolo,
allorché in quel sito è attestata la residenza di un
maresciallo di re Cristiano IV,
chiamato per l'appunto Sparre (sarebbe peraltro da verificare
la possibilità che
tale nome sia a sua volta riconducibile ad un toponimo
preesistente).
In ogni caso, l'individuazione della Lacedemone omerica ci
conferma
che Telemaco, nel suo viaggio da Pilo, situata sul versante
occidentale, a
Sparta - dove si recò, accompagnato da Pisistrato, figlio di
Nestore, per incontrare
Menelao - dovette presumibilmente attraversare Sjælland da
nord-ovest a sudest.
Ecco dunque perché il saggio Nestore gli suggerì di andare per
via di terra
anziché per mare: in tal modo il giovanotto si risparmiò un
mezzo periplo
dell'isola ed abbreviò di molto il percorso.
Nel raccontarci questo viaggio, il poeta dell'Odissea ci
fornisce informazioni
preziose: "Salì Telemaco sul cocchio bellissimo,/ e accanto il
Nestoride
Pisistrato, capo di forti,/ montava sul cocchio e prendeva in
mano le redini;/
poi frustò per andare, e quelli bramosi volarono/ verso la
pianura ("es
pedìon"), lasciarono l'alta rocca di Pilo./Tutto il giorno
scossero il giogo, che
insieme portavano./ Tramontò il sole, tutte le vie si
oscuravano,/ e giunsero a
Fere, a casa di Dìocle,/ figlio d'Ortiloco, che l'Alfeo
generò./ Qui dormirono
la notte, lui infatti diede loro accoglienza./ Quando, figlia
di luce, brillò l'Aurora
dita rosate,/ i cavalli aggiogarono, salirono sul cocchio
dipinto,/ fuori dall'atrio
guidarono e dal portico sonoro./ Pisistrato frustò per andare e
quelli bramosi
volarono/ e giunsero alla pianura ferace di grano ("pedìon
pyrephòron");
là presto/ compiron la via, tanto // trasportavano veloci i
cavalli ("hypékpheron
okées hìppoi")" (Od. III, 481-496).
Questo è uno dei passi in cui le discrepanze tra la geografia
omerica e la
morfologia del mondo greco si manifestano maggiormente: la
"pianura ferace
di grano", così rapidamente attraversata dal cocchio guidato
dal figlio di Nestore
(che naturalmente evoca il graffito del carro inciso sulla
lastra 7 del sarcofago
di Kivik), non ha alcun riscontro nella tormentatissima
orografìa del Peloponneso
mediterraneo, dove il viaggio di Telemaco avrebbe comportato il
valico
di catene montuose, di cui qui non vi è traccia alcuna; invece
la narrazione dell'Odissea (corroborata, come vedremo tra poco,
da un'analoga descrizione dell'Iliade) si cala con tutta
naturalezza nella realtà della pianeggiante,
e molto meno estesa, isola di Sjælland. Riguardo poi alla sosta
intermedia dei
due viaggiatori a Fere (da non confondere con l'omonima città
di Eumelo, situata
da tutt'altra parte), notiamo che a circa metà strada tra le
due coste, occidentale
ed orientale, di Sjælland si trova il villaggio di Førslev: che
in questo
nome permanga il ricordo del toponimo omerico? Oltretutto esso
si trova
nelle immediate vicinanze del Suså, il maggiore fiume
dell'isola, identificabile
con quell'Alfeo che, nel passo riportato poco fa, Omero mette
direttamente
in relazione con il signore di Fere.
In ogni caso, se l'Odissea fosse stata ambientata in Grecia non
avrebbe
avuto alcun senso, avendo una nave a disposizione, effettuare
quel viaggio per
via di terra, tra le montagne; invece nel contesto dell'isola
danese, molto più piccola e pianeggiante, la scelta di Telemaco
appare del tutto giustificata (oltretutto
il mar Baltico è, ai fini della navigazione, certamente più
impegnativo
del Mediterraneo). D'altronde, a tale situazione si
attagliano perfettamente anche le parole che di lì a poco
Telemaco, ormai arrivato a destinazione, rivolgerà a Menelao:
"Tu sei il signore della pianura! ampia ("pedìoio euréos"),
dove il
trifoglio, il cìpero, è molto" (Od. IV, 602-603). E, in un
altro passo dell'Odissea, tale connotazione viene attribuita
alla stessa Sparta, anch'essa definita
"ampia" ("enì Spàrtei eureìei"; XI, 460). Peraltro le
incongruenze rilevabili
nel viaggio di Telemaco non si limitano agli aspetti
morfologici: fra poco, dopo
aver individuato la zona di Pilo, sulla costa occidentale di
Sjælland, torneremo
nuovamente sull'argomento, per approfondire una palese
discrepanza
nell'ora di arrivo a Sparta, che ci rivelerà il maldestro
tentativo, da parte di un
ignoto interpolatore, di prolungare la durata di un percorso
troppo "facile" per
il contesto greco.
Ma adesso entriamo con Telemaco nella reggia di Menelao e
seguiamo
con i suoi occhi l'incedere della bellissima Elena che scende
dalla sua stanza,
"simile ad Artemide dalla conocchia d'oro" (Od. IV, 122). La
regina è accompagnata
da tre ancelle: una di esse è Filò, la quale viene immortalata
dal poeta
nell'atto di porgere alla sua padrona un prezioso cesto d'oro e
d'argento; ne
abbiamo già segnalato la somiglianza con Fulla, fedele ancella
della dea nordica
Frigg e custode del suo scrigno con i gioielli. Elena tesse e
fila la lana, incombenza
comune tra le donne del mondo omerico (pensiamo alla tela di
Penelope);
d'altronde anche nell'Iliade il poeta la ritrae mentre è
intenta a lavorare
a una grande tela ("mégan històn"), su cui sta ricamando le
vicende della
guerra in corso fra i Troiani e gli Achei (Il. III, 125-128).
Viene spontaneo il parallelo
con l'arazzo di Bayeux, di fattura normanna (XI secolo), che,
secondo
la tradizione, sarebbe stato eseguito personalmente da Matilde,
moglie di Guglielmo
il Conquistatore, con le immagini della guerra condotta dal
marito sul
suolo inglese: costei dunque sarebbe stata un'emula
inconsapevole, dopo tanti
secoli, della sua lontana antenata achea... Ora, le
straordinarie dimensioni dell'arazzo
ricamato da Matilde (lungo 70 metri, con un'altezza di 50 cm)
ci fanno
indirettamente capire come mai, secondo il poeta dell' Odissea,
i pretendenti
trovassero normale ("épeithon Achaioùs", Od. XIX, 151) che
Penelope
per ben tre anni avesse continuato a lavorare alla sua tela, da
lei stessa definita
"grande" ("mégan", Od. XIX, 139), anzi addirittura "smisurata"
("perirne,
tron", XIX, 140).
Insomma Elena e Penelope da una parte, Matilde dall'altra ci
dicono che
nel contesto nordico doveva essere abituale per le signore
altolocate passare il
tempo a tessere e ricamare storie importanti (e tale usanza
potrebbe essersi
perpetuata addirittura per tre millenni). Scopriamo altresì che
tra quegli antichi
popoli il ricordo delle memorie del passato era affidato non
solo ai canti degli
aedi, ma anche ai ricami delle nobildonne (che vi sia una
relazione tra l'omerico
"històs", "tela", e la radice di "storia", in greco "historie"?
Pensiamo
anche al verbo
"istoriare" ed ai pannelli dipinti con cui i cantastorie
siciliani illustravano i loro racconti, che oltretutto si
ispiravano ad eventi per così dire
"storici", quali le imprese di Orlando e dei suoi paladini
contro i Mori).
Sempre Elena, nel seguito dell'episodio dell'Iliade in cui è
intenta a ricamare
la sua tela, viene raggiunta da Paride che, con fare molto
seduttivo, le
ricorda il loro primo incontro amoroso, "quando da Lacedemone
amabile/ti rapii
e per mare partii sulle navi,/ e nell'isola Cranae ("nésoi d'en
Kranaéi") mi
t'unii d'amore e di letto..." (Il. III, 443-445). Qui non solo
ritorna il tema
dell'"amabile" ("erateinès") Lacedemone, così differente
dall'aspra morfologia
della Laconia greca (si ripropone insomma la questione
dell'altrettanto
"amabile" Calidone, su cui ci siamo soffermati in precedenza),
ma veniamo altresì
a sapere che presumibilmente non lontano da essa esisteva
un'isola chiamata
Cranae, mai identificata nel Mediterraneo, dove i due
sbarcarono e fecero
l'amore per la prima volta. Ora, in greco Cranae significa
"rocciosa" ed effettivamente,
a poche miglia di distanza dal Præstøfjord, ossia da
Lacedemone,
si trova un'isola, ora chiamata Møn, caratterizzata da
bellissime scogliere
in gesso, di un colore bianco accecante, alte più di cento
metri, a picco sul mare:
essa era dunque nella posizione ideale per tale gradevole
incombenza (sarebbe
un po' come se due innamorati, fuggiti insieme da Napoli, si
dirigessero
in tutta fretta verso Capri...).
In particolare, nella penisoletta di Ulsvhale, protesa in
direzione del golfo
di Fakse e del Præstøfjord, vi sono alcune delle più belle
spiagge dell'isola: pertanto è ragionevole supporre che proprio
qui, sulla costa settentrionale di Møn,
nel tratto pianeggiante prima dell'inizio delle scogliere (che
s'incontrano qualche
chilometro più ad est), la nave di Paride abbia gettato
l'ancora per dare inizio
alla luna di miele più romantica e più funesta della storia. Al
solito, geografìa
e morfologia dei luoghi baltici si sposano perfettamente con la
mitologia
greca.
Notiamo anche che le alte scogliere di Møn, oltre che
un'attrattiva turistica,
rappresentano una singolarità geologica nel piatto mondo
baltico: ciò spiega il nome datole dagli Achei, evidentemente
legato a questa caratteristica
distintiva (invece chiamare "rocciosa" un'isola greca non ha
molto senso:
ecco perché nel mar Egeo non esiste nessuna Cranae).
Møn è un'isola abitata da tempi remotissimi (vi si riscontrano
diverse sepolture
risalenti al Neolitico), dove tuttora esiste un villaggio
chiamato "Kraneled",
che sembra essere l'unico toponimo, in tutta la Danimarca,
contenente
il prefisso "Krane". Quanto al suffisso "-led", è una radice
che in danese significa
"guida", "capo" (corrisponde all'inglese "to lead", "leader"):
ora, poiché
Kraneled si trova ad appena un chilometro dalla costa, verso
l'estremità sud-orientale dell'isola, si potrebbe supporre che
durante l'età del bronzo, o
quanto meno in un'epoca in cui l'isola "rocciosa" era ancora
chiamata con il
suo vecchio nome, su quel sito sorgesse un porto o quanto meno
un approdo,
il primo che si presentava alle navi provenienti da sud-est
subito dopo la zona
delle scogliere (le quali sono localizzate sul versante
orientale, dove pertanto
non è possibile attraccare): di qui il nome di "guida (o
inizio, o capo) di Cranae"
che sarebbe sopravvissuto fino ai nostri giorni.
In ogni caso, la coerenza e l'accuratezza di tutto il quadro
sono tali da dare
la precisa sensazione che le vicende narrate nell'Iliade,
compreso il ratto di
Elena, non siano frutto di mera fantasia, ma siano state
ispirate da eventi realmente
accaduti.
E, a questo punto, possiamo provare ad immaginare lo stato
d'animo della
regina giovane e bella, gravata da responsabilità più grandi di
lei, dopo la
partenza dall'isola, mentre, dalla nave di Paride che la
portava via dalla sua patria,
si soffermava con lo sguardo su quelle bianche scogliere che si
allontanavano
all'orizzonte, ultima immagine del mondo in cui fino allora era
vissuta e
che si stava lasciando alle spalle. Qui Omero tace; cediamo
allora la penna a
Laura Orvieto ed al suo indimenticabile Storie della storia del
mondo (senza
il quale questo libro forse non sarebbe mai stato scritto):
"Una magìa dolce,
mandata da Afrodite, le faceva credere a tutte le parole del
principe troiano, desiderare
di star sempre con lui, sognare un mondo meraviglioso di amore
e di
gioia nella città lontana dove la nave li portava... E la nave
correva, veloce come
il vento, portando Elena lontano, lontano, e sempre più
lontano".
Prima di lasciare la Laconia, notiamo che l'Odissea vi colloca
la città di
Messene (XXI, 13-15), il che non quadra con la geografia greca.
L'Iliade poi
ricorda Messe "ricca di colombe" (Il. II, 582): questo termine
così evocativo
ci dà un ulteriore esempio del fatto che il Catalogo è molto
più di un mero
elenco di luoghi, di capi e di navi; spesso, invece, l'arte del
poeta "fotografa"
e riporta alla vita una realtà, quella dell'età del bronzo
nordica, scomparsa da
millenni, della quale non ci sono rimaste altre testimonianze
scritte, a parte la
descrizione dell'Atene preistorica tramandataci dal Crizia.

E adesso, dopo il territorio di Menelao, ecco "quelli che Pilo


abitavano e
l'amabile Arene,/ e Trio, guado dell'Alfeo..." (Il. II, 591-
592); siamo dunque
arrivati nel regno di Nestore. Ora, l'ubicazione di Pilo sin
dai tempi dell'antichità
classica è sempre stata considerata un rompicapo: addirittura
il suo nome è arrivato a diventare quasi sinonimo di luogo
inesistente o introvabile, come
appare da una battuta della commedia I Cavalieri di Aristofane.
Insomma,
non si è mai riusciti a far quadrare in modo soddisfacente le
svariate informazioni
che Omero ci fornisce su questo territorio, le quali sono
coerenti e circostanziate
ma che, allorché si cerca di calarle sul territorio della
Grecia, appaiono
del tutto incongruenti. Per tentare di superare le difficoltà,
il solito Strabone
si è prodotto in una lambiccata ipotesi, ma i problemi non sono
mai stati
veramente risolti nemmeno dagli studiosi contemporanei: il
Palmer onestamente
ammette che "i ricercatori moderni, armati di tutto il
formidabile apparato
della scienza organizzata, hanno fatto poco più che precisare
la tesi di
Strabone"234; dal canto suo il Graf taglia corto
sull'argomento, affermando senza
mezzi termini che "la geografìa della Pilo micenea non è quella
che presuppone
Omero"235.

234 Palmer, Minoici e Micenei, pag. 9


235 Graf, Il mito in Grecia, pag. 52

Invece, lo spostamento del teatro dei poemi omerici nel Baltico


e l'identificazione
di Sjælland con il Peloponneso consentono di risolvere d'emblée
anche
questo millenario problema: il territorio della Pilo omerica,
in base alla
scansione del Catalogo, doveva essere situato sul versante
occidentale dell'isola
danese. Ce lo conferma il percorso della nave di Telemaco,
proveniente
dall'arcipelago di Itaca, situato ad occidente, e sospinta in
direzione del Peloponneso
dallo Zefiro, il vento che soffia da ovest (abbiamo già notato
che nel
contesto mediterraneo sarebbe stato più adatto il vento del
nord). Dopo aver sostato
a Pilo, l'intraprendente figlio di Ulisse proseguì alla volta
di Sparta, la
città di Menelao, che dunque si trovava spostata ancora di più
verso oriente.
Ora, poiché la sequenza antioraria del Catalogo delle navi, che
in questo tratto
del Baltico procede da est verso ovest, menziona Itaca dopo le
cinque regioni
del Peloponneso e dopo Dulichio (ecco un'altra località che nel
contesto tradizionale
risultava altrettanto "misteriosa" quanto Pilo, se non di più),
ne deduciamo
che le prime due, cioè l'Argolide di Agamennone e la Laconia di
Menelao,
dovevano essere collocate verso est, mentre il Pilo di Nestore
volgeva
a ovest e l'ultima, cioè l'Elide, fronteggiava Dulichio; quanto
all'Arcadia, è la
stessa Iliade a suggerirci che si trovava all'interno (Tav.
IX).
Tutto ciò è in perfetto accordo sia con quanto si evince dall'
Odissea, sia
con il naturale snodarsi di quelle coste. Insomma anche in
questo caso, a fronte
delle incongruenze a cui conduce la collocazione mediterranea,
si manifesta
la straordinaria coerenza tra le concordi indicazioni dei due
poemi e la geografia
baltica.
Il Pilo doveva essere particolarmente esteso: infatti Omero ci
dice che
esso confinava con il territorio controllato da Agamennone (Il.
IX, 153), con
l'Arcadia (Il. VII, 134) e con l'Elide (Il. XI, 671). Ciò ben
si accorda col fatto
che Nestore comandava una squadra di ben 90 navi (Il. II, 602),
la seconda come
entità della flotta achea; di qui l'ossequio che gli altri
capi, i quali in genere
non si distinguevano per il buon carattere (siamo ancora
nell'età del bronzo...),
manifestavano in ogni circostanza nei riguardi del vecchio re:
lo stesso
potentissimo Agamennone, con le sue 100 navi, lo "onorava
moltissimo" (Il. II,21).
Ma torniamo al confine tra il regno di Nestore e quello di
Agamennone: l'Ilìade enumera ben sette città di quest'ultimo
collocate "tutte non lungi dal
mare, vicino al Pilo sabbioso'" ("néatai Pylou emathòentos",
IX, 153). E questo
un dettaglio molto significativo, perché esprime l'ennesima
contraddizione
tra la geografia omerica e la realtà del Peloponneso in Grecia:
qui infatti i
due regni, l'Argolide e il Pilo, non sono affatto contigui,
bensì diametralmente
opposti: l'una sta nel nord-est, l'altro nel sud-ovest (Tav.
XII). Né tantomeno
un ipotetico confine potrebbe mai trovarsi nei pressi del mare,
come invece
afferma il passo appena letto. Ora, tale discrepanza troverà
immediatamente
una spiegazione proprio nel quadro della presente tesi:
torneremo sull'argomento
non appena avremo parlato della posizione dell'Elide (la
regione che nel
contesto greco, essendo rivolta a nord-ovest, verso le isole
Ionie, si trova interposta
fra le altre due e così impedisce che esse abbiano un confine
comune).
Attraverso i domini di Nestore passava il mitico fiume Alfeo,
"che scorre
largo sopra la terra dei Pili" (Il. V, 545): in questo stupendo
verso, prezioso
come una stampa antica, possiamo percepire il gusto tutto
particolare che ha il
poeta dell'Iliade di ammantare di poesia i dati geografici (la
poetica digressione
di Jules Verne sui nomi dei mari lunari, gli sarebbe
sicuramente
piaciuta). Ora, l'Alfeo- nome che richiama da vicino la radice
di "fiume"
nelle lingue nordiche: "älv" in svedese, "elv" in danese e
norvegese - probabilmente
s'identifica con il più importante fiume di Sjælland, il Suså
(lungo
il cui corso troviamo una Lynge, che ricorda l'antica Olimpia).
L'identificazione dell'Alfeo con il Suså dà corpo ad una delle
entità più suggestive dell'intero mondo della mitologia greca
e, nel contempo, rappresenta
la chiave per risolvere un altro enigma proposto dalla
geografia omerica:
si tratta delle incongruenze, notate sin dall'antichità, tra
l'aspra morfologia
del Peloponneso greco e le vicende, ambientate in un contesto
totalmente differente,
narrate nell'XI libro dell'Iliade, dove Nestore racconta lo
svolgimento
di una spedizione militare a cui in gioventù aveva partecipato
per difendere
dagli attacchi degli Epei la città di Trio, "collina dirupata/
lontano, sull'Alfeo,
in fondo al Pilo sabbioso" (Il. XI, 711-712); da quest'ultimo
verso si deduce
che, almeno in quel tratto, l'Alfeo doveva segnare il confine
con l'Elide,
il territorio abitato dagli Epei. Ora, secondo il
circostanziato racconto del vecchio
re - che, al solito, ha tutta l'aria di riferirsi ad eventi
realmente accaduti
- il suo esercito, dopo aver pernottato ad Arene, presso la
foce del fiume Minieo,
"a giorno (giunse) al sacro fiume Alfeo" (XI, 726; anche in
questo caso
il termine "hieròn" sembra significare "ampio" o "importante"
piuttosto che
"sacro"). Qua i Pili attaccarono gli Epei, che stavano per
impadronirsi della
città assediata, e li sgominarono, inseguendoli poi "per la
vasta pianura" ("dia
spidéos pedìoio", XI, 754), fino a Buprasio e alla "collina
d'Alesio" (XI, 757).
L'allusione alla "vasta pianura" è del tutto coerente con le
modalità del viaggio di Telemaco da Pilo a Sparta (ma anche con
lo "scorrere largo" dell'Alfeo)
e ci toglie ogni dubbio sul fatto che qui siamo ben lontani dal
montuoso
territorio della Grecia, dove queste vicende, al solito,
risultano incomprensibili:
anche poco prima Nestore ricordava: "Dalla piana ("ek pedìou")
spingemmo un ricco bottino:/ cinquanta mandrie di vacche..."
(Il. XI, 677-678).
Invece sul pianeggiante territorio di Sjælland le varie fasi si
ricostruiscono
agevolmente (Tav. X): Nestore con i suoi mosse dapprima verso
Arene,
cioè Årslev, situata sul fiume Minieo, l'attuale Tudeå (nome
che richiama quello
del bellicosissimo padre di Diomede, Tideo, "Tydeùs", già
ricordato tra i
protagonisti della prima guerra fra Achei e Tebani); da lì i
Pili puntarono su Trio
"guado dell'Alfeo" ("Alpheioìo pòron", Il. II, 592; per inciso,
l'omerico "poron"
ricorda l'inglese "ford"), forse l'attuale Trælløse, situata 30
km a sud-est,
sul fiume Suså (nelle vicinanze vi è in effetti un rilievo,
alto 36 metri: ecco la
collina di Trio); successivamente, vinta la battaglia,
inseguirono gli Epei nel loro
territorio, fino a Buprasio, ovvero Bårse, situata altri 30 km
a sud-est, e alla
"collina d'Alesio", forse corrispondente ad un'altura presso
Allerslev, 5 km
ancora oltre, sempre nella stessa direzione.
E interessante notare che nelle Gesta Danorum Saxo riporta un
episodio
militare che ricalca quasi esattamente gli sviluppi della
spedizione dei Pili: si
tratta dell'incursione di Hacone, un pirata che, partendo dal
sito dove ora sorge
Kalundborg, marciò verso il fiume Suså, presso cui
successivamente ingaggiò
battaglia con i Danesi (VII, VIII, 2-3).
A questo punto, prima di proseguire nella nostra ricostruzione
geografica,
notiamo che da un episodio così movimentato - come pure da
altri simili,
altrettanto tipici del mondo omerico, come quello che mostra le
varie sequenze
di un "agguato/ sul fiume, dov'è l'abbeverata di tutte le
mandrie" (Il. XVIII,
520-521) - emerge un quadro estremamente vivido e realistico
della vita di
quei mandriani e guerrieri arcaici, autentici cowboys dell'età
del bronzo, impegnati
in continue scaramucce, con relativi agguati, furti di
bestiame, inseguimenti
tra pianure, colline e fiumi, in un paesaggio molto più
facilmente
identificabile con le distese pianeggianti e ben irrigate
dell'Europa settentrionale
che con i suoli aridi e scabri del mondo greco (anche se le
loro armi non
erano Winchester e Colt ma lance e frecce, le atmosfere, le
situazioni, persino
i caratteri dei personaggi sembrano avere qualcosa in comune
con l'epopea
della frontiera americana, così come appare dai vecchi film
western; peraltro
ciò si avverte più nel testo originale che nelle traduzioni).
Con tale quadro risulta altresì coerente la consuetudine,
attestata da Omero,
di attribuire alle cose e agli schiavi un valore espresso in
"buoi" o "vacche"
(d'altronde, la romana "pecunia", dal latino "pecus",
"bestiame", tradisce la
stessa origine): così un vaso nuovo, ornato a fiori, aveva "il
prezzo d'un bove"
(Il. XXIII, 885); un tripode grande valeva ben dodici buoi (Il.
XXIII, 703); invece una schiava "che molti lavori sapeva" era
valutata quattro buoi (Il. XXIII,
705); molto di più, venti buoi, era costata Euriclea, nutrice
di Ulisse, forse perché
"giovanissima ancora" (Od. I, 431 ; però Laerte, dopo averla
comprata, non
osò mai toccarla, "per evitare l'ira della moglie"); la stessa
cifra, venti buoi a
testa, propose Eurimaco quale risarcimento da parte dei
pretendenti "per quanto è stato bevuto e mangiato in palazzo"
(Od. XXII, 56; ovviamente, Ulisse non
accettò). E vi erano anche "merci" assai più pregiate: un
principe di sangue reale
- si tratta di Licaone, figlio di Priamo, preso prigioniero da
Achille - sulla
"piazza" di Lemno venne acquistato addirittura per cento buoi
(Il. XXI, 79): è lo stesso prezzo di una frangia d'oro
dell'egida di Atena (Il. II, 449) e dell'armatura
d'oro del licio Glauco (Il. VI, 236: in questo fa buona
compagnia a Sir
Francis Drake), mentre quella di bronzo di Diomede ne valeva
appena nove (Il.
VI, 236), che comunque doveva già rappresentare una bella
somma. Ma la cifra
più alta fra quelle indicate nei due poemi è quella relativa al
costo di una
sposa: il troiano Ifidamante per la figlia di Cissete "pagò
cento buoi, e mille ancora
promise" (Il. XI, 244). Disgraziatamente il povero - si fa per
dire - fidanzato
non fece in tempo a saldare il debito col suocero, perché venne
ucciso in
duello da Agamennone.
E che dire delle fanciulle danzanti effigiate sullo scudo di
Achille, definite
"alphesìboiai"? Tale aggettivo, che si può rendere con "molto
ambite" o
"corteggiate", alla lettera significa "in grado di dare buoi",
cioè ricchezza, ai
loro genitori in occasione del matrimonio (magari oggi diremmo
"ragazze che
valgono un capitale"). Ciò attesta la grande arcaicità del
mondo omerico; nel
contempo, è molto significativo il fatto che la vacca "veniva
impiegata, ancora
nella prima età vichinga, come unità monetaria corrente"236:
insomma, nel
contesto nordico certi tratti caratteristici sono rimasti
sostanzialmente immutati
per molti secoli, dall'età del bronzo fino al primo millennio
della nostra èra,
e fra queste due epoche così distanti ben s'inserisce una
precisa testimonianza
di Tacito: "Mucche e buoi (...) sono le sole e gratissime
ricchezze dei Germani" {Germania, 5, 1). Ancora, a titolo di
confronto con i prezzi di cui sopra, osserviamo
che, come risulta dalla storia di Melkorka e di Hoskuld,
attorno al 950
d.C. il valore di mercato di una schiava in Norvegia
indicativamente si aggirava
tra uno e tre marchi d'argento237: evidentemente nel X secolo
le transazioni
in "vacche" erano ormai cadute in disuso (invece il traffico
degli schiavi era
sempre fiorentissimo). In ogni caso, la particolare importanza
dei buoi e delle
vacche nel mondo omerico gioca anch'essa a favore di una
collocazione nordica
anziché greca.

236 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 199


237 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 325
Torniamo alla città di Pilo: sulla base di quanto già esposto,
e ricordando
che l'Odissea la colloca nei pressi del mare - come risulta
dall'arrivo della nave
di Telemaco, all'inizio del libro III, e dal ritorno di
quest'ultimo da Sparta,
allorché il figlio di Nestore lo riaccompagnò col suo cocchio
alla spiaggia per
poi dirigersi "verso la rocca dei Pili, e presto ("thoós")
giunse al palazzo" (Od.
XV, 216) - in definitiva possiamo ritenerla situata sul
versante occidentale di
Sjælland, nel tratto di costa compreso fra Kalundborg e la foce
del Tudeå (che
i Pili passarono, come abbiamo visto, nella loro marcia verso
sud-est in direzione
di Trio). Quel litorale in molti tratti è sabbioso, il che ben
si accorda con
l'espressione "Pilo arenosa", frequente in Omero.
Inoltre, sulla sua ubicazione l'Odissea ci fornisce un altro
particolare importante:
allorché Telemaco partì dalla reggia di Nestore, i cavalli
"volarono/
verso la piana, lasciarono l'alta rocca di Pilo" ("Pylou aipy
ptolìethron"; Od. III, 484-485); la città dunque sorgeva su
un'altura davanti al mare. Ora, lungo
quella costa le località più "indiziate" non sono molte: in
particolare, nel sito
di Rævehøj, presso Dalby, quasi di fronte alla penisoletta di
Reersø, il dott.
Preben Hansson di Korsør ci ha segnalato la presenza di una
tomba megalitica,
utilizzata anche durante l'età del bronzo, con incisioni di
tipo geometrico;
inoltre, non lontano vi sono altri tumuli. Una successiva
visita in loco ha mostrato
che la morfologia del luogo, un po' rialzato rispetto al
livello del mare,
corrisponde effettivamente alle indicazioni omeriche: che
l'antica Pilo si trovasse
nei dintorni? Adesso la parola tocca all'archeologia.

E adesso, dopo aver individuato il territorio della Pilo


omerica, è giunto
il momento di esaminare in dettaglio i tempi del viaggio di
Telemaco attraverso
il "Peloponneso": avremo così modo di rilevare un'altra
macroscopica incongruenza,
che risulterà assai significativa ai fini della presente tesi.
- Prima tappa, da Pilo a Fere: il figlio di Ulisse,
ospite di Nestore a Pilo, dopo
un solenne sacrificio e un banchetto mattutino di commiato (era
uso di
quei popoli pranzare molto presto, a mo' di breakfast, per poi
cenare la sera),
parte in cocchio alla volta di Fere, tappa intermedia sulla via
di Sparta, accompagnato
da Pisistrato, figlio di Nestore. I due arrivano poco dopo che
il
sole è tramontato: "Il sole andò sotto, tutte le vie si
oscuravano./ E giunsero
a Fere, a casa di Diocle,/ figlio di Ortiloco, che l'Alfeo
generò./ Qui dormirono
la notte, lui infatti diede loro accoglienza" (Od. III, 487-
490). Il primo
dei versi citati, evidenziato in corsivo, comprova che l'arrivo
a Fere avviene
all'incirca all'ora del tramonto.
- Seconda tappa, da Fere a Sparta: il mattino successivo,
i nostri eroi affrontano
la seconda parte del viaggio, da Fere a Sparta, e "là presto/
compiron la
via, tanto li trasportavano veloci i cavalli./ Il sole andò
sotto, tutte le vie si
oscuravano.! E giunsero a Lacedemone, concava, avvallata,/ e
guidarono il
cocchio al palazzo di Menelao" (III, 495 - IV, 2). Il verso in
corsivo, identico
a quello che indica l'ora di conclusione della prima tappa,
vuole evidentemente
esprimere che anche l'arrivo a Sparta ha luogo verso il
tramonto, o
poco dopo.
L'orario di arrivo della seconda tappa risulta però in palese
contraddizione
rispetto a tutto il seguito dell'episodio, sviluppato nel libro
IV dell'Odissea, da cui si evince senza ombra di dubbio che
l'arrivo a Sparta avviene non di sera,
ma di mattina: infatti Telemaco e Pisistrato, una volta giunti
alla reggia di
Menelao, hanno modo di fare un lauto "pranzo" ("deìpnon", IV,
61) e, successivamente,
dopo una serie di convenevoli e di bei discorsi con il padrone
di casa
e con Elena, anche una "cena" ("dòrpon", IV, 213), prima di
andare a dormire
(IV, 294-303).
Notiamo che i differenti significati dei vocaboli "deìpnon",
"pranzo", e
"dòrpon", "cena", nel contesto dei due poemi emergono un po'
dovunque: anzi,
vi è addirittura un passo dove essi risultano volutamente, ed
inequivocabilmente,
contrapposti: "Iniziarono il pranzo ("deìpnon") nell'allegria/
(...) ma
nessuna cena ("dòrpon") sarebbe stata più amara" (Od. XX, 390-
392). Per inciso,
il realismo del racconto della visita a Sparta è dovunque
sostenuto da una
esemplare coerenza interna, al punto da mettere in luce anche
dettagli sorprendenti,
quali il "tranquillante" che Elena dopo la cena somministra ai
suoi
ospiti per favorire un sonno sereno (Od. IV, 219-233;
evidentemente l'occhio
esperto della madre di famiglia aveva avvertito l'agitazione
dei due ragazzi).
A questo punto vi sono due possibilità: o alla fine della
seconda tappa vi
fu un ulteriore pernottamento, in una località ignota, su cui
Omero ha sorvolato
(ipotesi assai improbabile: il poeta nel descrivere queste
vicende si mostra
sempre molto attento e accurato, sia nei particolari
descrittivi che nei riferimenti
geografici); oppure quel verso "il sole andò sotto, tutte le
vie si oscuravano"
(III, 497), ripreso tal quale dal racconto della prima tappa, è
un'interpolazione.
Infatti, se lo si espunge, tutto torna subito a posto: "Là
presto/ compiron
la via, tanto li trasportavano veloci i cavalli;/ e giunsero a
Lacedemone"
(giunsero ovviamente la mattina stessa, in tempo per prender
parte al banchetto
di nozze in corso nella reggia di Menelao). Questa seconda
ipotesi appare di
gran lunga la più attendibile: oltretutto, si accorda molto
bene con quel "presto
compiron la via" ("épeita ènon hodòn") immediatamente
precedente al verso
"incriminato".
In sostanza, da tutto ciò emerge che l'intero itinerario da
Pilo a Sparta
era percorribile in meno di un giorno: infatti la prima tappa,
da Pilo a Fere, richiese
all'incirca mezza giornata, dal tardo mattino, dopo il
banchetto in casa
di Nestore, fino al tramonto, mentre la seconda sembra essere
stata alquanto più breve: dunque la Fere omerica era molto più
vicina a Sparta
che a Pilo. A questo
punto, ci si potrebbe chiedere perché Telemaco abbia deciso di
fermarsi a Fere invece di proseguire direttamente per Sparta:
la risposta sta probabilmente
nel fatto che, a parte i possibili rischi di un viaggio
notturno, allora come adesso
doveva essere ritenuto poco conveniente presentarsi in casa
d'altri - o meglio,
di un re potente come Menelao - a sera inoltrata.
Se ora andiamo ad esaminare la geografia greca, constatiamo
subito che
una durata così limitata per il viaggio da Pilo a Sparta è
quanto meno irrealistica:
qui infatti il percorso, passando per Messene e Kalamata,
supera abbondantemente
i cento chilometri, con un profilo altimetrico ben diverso da
quello,
tutto pianeggiante, indicato nell'Odissea. Dunque
l'interpolazione fu fatta
a ragion veduta: essa certamente è nata dall'esigenza di
prolungare il più possibile,
evitando però di stravolgere troppo il testo, la durata del
viaggio di Telemaco,
per adattarlo alla realtà fìsica della Grecia. D'altronde,
appare ben
comprensibile che qualche antico aedo greco, a cui i tempi
indicati dall'Odissea non quadravano, abbia cercato di
"gonfiare" perlomeno la seconda tappa
e, a tal fine, abbia pensato di ripetere il verso con cui Omero
precisava che
l'arrivo a Fere era avvenuto di sera (Omero interpolato con
Omero: quale modo
migliore per fare un falso "a fin di bene", salvandosi la
coscienza?). Però in tal modo l'ignoto falsario, nel
posticipare l'orario dell'arrivo a Sparta, se da
un lato ha migliorato la congruenza rispetto alla geografia
greca, dall'altro ha
aperto una grossa falla nella logica della narrazione,
costringendo i suoi personaggi
ad un vero e proprio tour de force gastronomico, pranzo e cena
nella
stessa serata (in realtà non aveva altra scelta, a meno di
stravolgere totalmente
l'episodio dell'incontro fra Telemaco e Menelao per renderlo
coerente con
l'arrivo serale anziché mattutino).
Ma se il viaggio di Telemaco pone tanti problemi nel contesto
greco, invece
in quello danese si inserisce con estrema naturalezza. Infatti
nell'isola
Sjælland (Tav. X) la lunghezza della prima tappa - ovvero la
distanza tra il sito
di Rævehøj, il più "indiziato" per corrispondere alla Pilo
omerica, e Førslev-Fere - è dell'ordine di 50 chilometri, tutti
in pianura, come espressamente indicato da Omero, facilmente
percorribili nell'arco di un pomeriggio; quanto alla
seconda tappa, la breve distanza tra Førslev e l'area di
Fårup/Sparresholm,
20 chilometri o giù di lì, si accorda benissimo con quel
"presto compiron la via"
e con il rapido tragitto mattutino che consentì ai due giovani
di arrivare a Sparta
in tempo per il pranzo.
Da quanto detto discende un'ulteriore considerazione: poiché
Fere si trovava
nelle vicinanze di Sparta, non si vede per quale ragione
Telemaco dovesse
sostarvi anche nel viaggio di ritorno, come ci narra il XV
libro dell'Odissea. Andiamo a rileggere: il mattino della
partenza da Sparta il figlio di
Ulisse si sveglia prestissimo, prima dell'alba (Od. XV, 50),
preso improvvisamente
dall'ansia di tornare a casa (XV,
66). Per inciso, è logico supporre che
fosse il terzo giorno dall'arrivo: del primo abbiamo già detto,
mentre il giorno successivo Telemaco, in un colloquio riservato
con Menelao, aveva avuto
le informazioni che andava cercando riguardo alla sorte di suo
padre e quindi
non aveva più motivi per prolungare la sua permanenza, dati
anche i problemi
che aveva lasciato ad Itaca. Poco dopo sopraggiunge Menelao,
che dà subito disposizioni di preparare il pranzo mattutino -
anche qui chiamato "deìpnon"
(XV, 94), come quello servito ai due ospiti subito dopo il loro
arrivo,
ad ulteriore conferma che essi erano effettivamente giunti a
Sparta di mattina
- e poi ha luogo il commiato. A questo punto, tenuto conto del
fatto che stavolta
Telemaco non si ferma più alla reggia di Nestore - "bisogna che
ritornì al più presto" ("thasson"; XV, 201), dice all'amico
Pisistrato- ma si dirige direttamente
verso la spiaggia di Pilo per imbarcarsi, è lecito congetturare
che
la versione originale dell'Odissea non prevedesse per il
ritorno alcuna tappa
intermedia: sembrerebbe insomma logico supporre che ì due,
partiti in gran
fretta da Sparta subito dopo quel breakfast consumato di prima
mattina, siano
arrivati alla spiaggia di Pilo nel pomeriggio o al massimo in
serata, senza
effettuare alcuna sosta; oltretutto, il successivo viaggio per
mare verso Itaca
si svolse di notte. A conferma di ciò, notiamo che tutti i
versi relativi alla fermata
del ritorno (Od. XV, 185-192) sono copiati in blocco, parola
per parola,
da quelli dell'andata (III, 487-494).
D'altronde, mettiamoci per un attimo nei panni del possibile
"falsario":
se il percorso da Pilo a Sparta, pur con una fermata
intermedia, sembrava un
po' troppo breve per la geografìa greca, a maggior ragione il
ritorno non-stop in un'unica giornata doveva apparirgli del
tutto impossibile. Con ogni probabilità
fu da qui che nacque l'idea di aggiungere la sosta a Fere, in
analogia all'itinerario
dell'andata: essa però, data la vicinanza tra Fere e Sparta
("presto
compiron la via"), nel viaggio di ritorno non ha proprio alcun
senso.
Quanto alla prima interpolazione, quella relativa all'andata, è
praticamente
certa, perché comprovata dall'assurdità della doppia cena
(anzi, del pranzo seguito
dalla cena nella stessa serata), mentre l'altra, da essa
direttamente conseguente, è più induttiva (però, a nostro
avviso, altrettanto probabile). Entrambe
sono state chiaramente originate dalla perdita della "memoria
storica" degli aedi
riguardo alla localizzazione pregreca dell'Odissea. Se ne
potrebbe dunque dedurre
che risalgano ad un'epoca posteriore alla caduta della civiltà
micenea (XII
secolo a.C): ci sembra infatti ragionevole supporre che anche
gli ultimi Micenei,
nonostante i quattro o cinque secoli trascorsi dalla migrazione
dal nord, dovessero
ancora conservare una certa consapevolezza del fatto che le
vicende
della loro mitologia si riferivano non già alla nuova sede,
bensì all'antica patria
da cui erano discesi i loro antenati. Successivamente il
tracollo del mondo miceneo
ed i secoli oscuri del medioevo ellenico, se non impedirono la
trasmissione
dei due poemi, finirono tuttavia per cancellare ogni residua
memoria del
reale contesto in cui essi erano originariamente ambientati.
Può essere altresì significativo il fatto che il tentativo di
correggere in
qualche modo la geografia omerica si riferisca ad un itinerario
posto proprio
nel cuore della Grecia, quindi particolarmente familiare agli
aedi dell'epoca,
mentre per le anomalie geografiche di località più periferiche,
quali l'arcipelago
di Itaca, Troia, Faro e così via, coloro che ci hanno
tramandato i due poemi
non si sono posti particolari problemi, forse perché esse erano
sostanzialmente
estranee alla loro realtà quotidiana. In ogni caso, è
comprensibile il disagio
degli antichi greci di fronte ad un testo che collimava con la
realtà geografica
ad essi familiare soltanto nei nomi, mentre per il resto, dalla
morfologia dei luoghi ai tempi degli spostamenti, doveva
apparire alla stregua di uno
stranissimo, inestricabile rompicapo...
Notiamo ancora che, secondo tale ricostruzione, tutte le
vicende di Telemaco nell'Odissea si svolgono in un arco di
tempo che abbraccia esattamente
un arco di dieci giorni, articolati come segue:
1. incontro ad Itaca con Mente, che esorta Telemaco a
"darsi una mossa";
2. assemblea degli Itacesi e partenza serale per Pilo;
3. arrivo a Pilo e incontro con Nestore;
4. commiato da Nestore, partenza per Sparta, sosta a Fere;
5. arrivo a Sparta, pranzo con Menelao, conversazione
pomeridiana, cena;
6. colloquio con Menelao sulla sorte dei reduci della
guerra di Troia;
7. commiato da Menelao, ritorno a Pilo, imbarco serale;
8. arrivo ad Itaca, incontro con Eumeo, riconoscimento di
Ulisse;
9. ritorno alla reggia e preparazione della strage;
10. strage dei pretendenti.
Ora, anche in base a quanto detto in precedenza, siamo propensi
a ritenere
che la principale struttura narrativa del poema sia costituita
proprio dal racconto
di questi dieci giorni; in essa poi confluisce l'altro grande
filone, quello che ha
dato al poema il nome e il protagonista: ci riferiamo
naturalmente al ritorno di
Ulisse, che occupa all'incirca un terzo dell'Odissea ed è a sua
volta articolato
nella storia del viaggio dell'eroe da Ogigia ad Itaca, con la
tappa intermedia
della Selleria, e nella narrazione in prima persona ai Feaci
delle vicissitudini occorsegli
dalla partenza da Troia fino all'arrivo ad Ogigia (spesso
identificate,
nell'immaginario popolare, con l'essenza dell'Odissea stessa).
Tra il racconto dei "dieci giorni" e quello del "ritorno" vi
sono, a nostro
avviso, rimarchevoli differenze: mentre il primo è
caratterizzato da un notevole
realismo, al punto da non poter del tutto escludere che sia
stato ispirato da
qualche fatto realmente accaduto (anche se sarà ben diffìcile
dimostrarlo), nell'altro
invece il poeta si sbizzarrisce in voli di fantasia, dando la
sensazione di
attingere a piene mani ad un repertorio mitico-favolistico che
potrebbe anche
essere riconducibile alla primitiva eredità indoeuropea (non di
rado riprendendo
anche temi
per così dire "magico-sciamanici" di sapore estremamente
arcaico, che peraltro talvolta appaiono anche nell'altro
"filone"). Tuttavia anche
qui non mancano, come abbiamo visto, sorprendenti agganci alla
realtà di
certi luoghi e di certe popolazioni: pensiamo ai Feaci, i
"famosi navigatori" che
abbiamo localizzato in un'area ricchissima di reperti dell'età
del bronzo e di
graffiti rupestri ispirati alla navigazione.

Al quadro del "Peloponneso" omerico dobbiamo adesso aggiungere


l'Arcadia:
essa era adiacente al Pilo, come risulta da un altro degli
episodi - una delle
solite scaramucce tra confinanti - raccontati da Nestore (Il.
VII, 133-156);
inoltre Omero sugli Arcadi ci dà un'informazione importante:
"Donò loro, il sire
di genti Agamennone,/ le navi buoni scalini, da andar sul cupo
mare,/ il figlio
d'Atreo, che quelli non sanno di cose marine" (Il. II, 612-614:
anche qui,
come al solito, troviamo il "cupo mare", "oìnopa pònton"): ciò
fa supporre che
essi fossero contigui all'Argolide, il territorio di
Agamennone, ma che non
avessero sbocchi sul mare.
Pertanto l'Arcadia doveva essere ubicata verso il centro
dell'isola: in effetti,
il viaggiatore che, partendo da Copenaghen, si dirige verso
l'interno di
Sjælland, percorrendo ad esempio la strada che va da Roskilde a
Sorø, si ritrova
ben presto immerso in una particolarissima atmosfera
"arcadica": le dolci ondulazioni
di quella terra, i suoi corsi d'acqua, le mandrie di bovini, la
stessa vegetazione,
tutto contribuisce a dare delle sensazioni che possono essere
percepite
solo visitando quei luoghi.
Sempre in Arcadia era situato l'"alto monte Cillene, presso la
tomba d'Epito"
(Il. II, 603): esso probabilmente si identifica con il
bellissimo Gyldenlø-veshøj, l'altura più elevata di Sjælland,
ricoperto da un fitto bosco e percorso da
un ameno sentiero che consente di guadagnarne agevolmente la
cima con una
suggestiva passeggiata, al termine della quale si raggiunge un
sacrario dedicato
ai Caduti. In un certo senso, è rimasto un "luogo sacro"
attraverso i secoli,
adesso come allora: infatti, secondo la mitologia greca, il dio
Hermes era nato
qui, sul monte Cillene, "che la foresta ricopre" (Inno omerico
a Hermes, v. 228).
Per inciso, dopo aver letto quel verso dell'Iliade, in cui
l'immagine del
mitico Cillene appare strettamente legata a quella della tomba
d'Epito (che
colpo sarebbe per l'archeologia ritrovarne i resti!), ci sembra
naturale supporre
che proprio a quest'ultima possa essersi ispirato il coltissimo
pittore classicista
francese Nicolas Poussin nel concepire il suo famoso quadro Les
bergers
d'Arcadie ("I pastori d'Arcadia"), in cui viene raffigurata
un'enigmatica tomba
con accanto alcuni misteriosi personaggi. La particolare
atmosfera che sembra
permeare tutta la scena del dipinto ha dato adito a svariati
tentativi d'interpretazione;
al riguardo ricordiamo che il Poussin era incline
all'esoterismo
e che Hermes, nato in quei pressi, nella mitologia greca
rappresenta par excellence il dio della sapienza iniziatica.
Nelle vicinanze del Gyldenløveshøj (la cui assonanza col nome
del Cillene è casuale) troviamo Ebberup, la cui radice potrebbe
forse ricordare il nome
di Epito (con la consueta erosione dei nomi danesi), e
Tingerup, forse identificabile
con l'antica città arcade di Tegea (Il. II, 607).
Infine, per ricostruire integralmente il quadro degli
insediamenti achei
nell'isola, resta solo da collocare l'"Elide bella, dove
comandan gli Epei" (Od.
XIII, 275): al riguardo, come abbiamo visto poco fa, VIliade ci
dice che questi
ultimi confinavano con i Pili, situati sul versante occidentale
di Sjælland; ma
particolarmente significativa è una notizia tratta dal Catalogo
delle navi, che
menziona "quelli di Dulichio e delle sacre Echinadi/ isole che
son di fronte all'Elide ("Elidos anta") di là dal mare" (Il.
II, 625-626). L'Elide omerica dunque
si estendeva lungo la parte sud-occidentale di Sjælland,
rivolta verso Dulichio-Langeland
e le "isole Echinadi", cioè Falster (che tale nome sia
accostabile
a quello dei Filistei, popolazione forse di stirpe greca? In
tal caso si ritroverebbe
in quello dell'attuale Palestina) e la vicina Lolland: entrambe
sono
effettivamente affacciate davanti alla costa meridionale di
Sjælland.
Ed ora siamo finalmente in grado di spiegarci perché, mentre
nel IX libro
dell'Iliade Argolide e Pilo appaiono confinanti, nella
geografia greca tra le due
regioni si trovi interposta l'Elide. Il nocciolo della
questione sta nel fatto che
quest'ultima, come abbiamo appena visto, da Omero viene
collocata di fronte
a Dulichio, cioè davanti all'arcipelago di Itaca: ora, nel
contesto baltico queste
isole si trovano a sud-ovest rispetto a Sjælland, e infatti
l'Elide risulta orientata
allo stesso modo (Tav. IX); invece nel mar Ionio stanno a nord-
ovest del
Peloponneso, e di conseguenza è stata chiamata "Elide" la
regione corrispondente
(Tav. XII). Però in tal modo, se da un lato è stata mantenuta
la sua vicinanza
alle isole, dall'altro non era possibile salvare il suo
orientamento, e pertanto
l'Elide greca è rimasta incuneata fra il Pilo, che è stato
giocoforza spostare
più a sud, e l'Argolide a nord, col risultato che in Grecia
Pilo e Argolide
non sono più contigue, in patente contraddizione con il dettato
omerico (notiamo
ancora il ruolo chiave che in questo contesto svolge Dulichio,
vera e
propria cerniera tra le regioni del Peloponneso e l'arcipelago
di Itaca: come abbiamo
sottolineato più volte, la sua assenza nel Mediterraneo, a
fronte della
"perfetta" collocazione baltica di Langeland, è un argomento
particolarmente
importante a sostegno della presente tesi).
E del tutto coerente con tale quadro geografico è la rotta
seguita dalla nave
di Telemaco per tornare da Pilo ad Itaca: "L'Elide bella passò,
dove comandan
gli Epei./ Quindi fra l'isole aspre la spinse Telemaco,/
ansioso se avrebbe
fuggito la morte o l'avrebbero preso" (Od. XV, 298-300): ciò
conferma anche
che la città di Nestore era situata lungo il versante
occidentale di Sjælland, a
nord dell'Elide e della punta settentrionale di Langeland.
D'altronde, avevamo
già verificato la precisa congruenza tra le dettagliate
indicazioni di Omero e la
realtà fisica di quest'area, affacciata verso l'arcipelago di
Itaca; un ulteriore riscontro è poi scaturito dai dettagli
geografici della "guerricciola" fra i Pili e gli
Epei, tutta ambientata in questo territorio pianeggiante.
Per inciso, nell'ultimo passo citato vi è un punto che ha
sempre suscitato
perplessità tra gli studiosi. Ci riferiamo alle "isole aspre",
che è un tentativo di
traduzione di "nésoisin thoèisin", espressione questa assai
problematica in
quanto normalmente l'aggettivo "thoòs" in Omero significa
"veloce", "rapido",
e pertanto non ha senso attribuirlo a delle isole238. Noi
suggeriamo che alla base
del problema possa esservi stata un'antica corruzione del
testo: notiamo infatti
che frequentemente l'aggettivo in questione, in entrambi i
poemi, si trova
associato alle navi (ad esempio, Il. XV, 391; Od. VII, 34); in
particolare,
questo è proprio l'attributo che il poeta usa per la nave con
cui Antinoo cerca
d'intercettare Telemaco (Od. IV, 669). Pertanto, se
consideriamo che il vocabolo
"nèsos", "isola", è molto simile, nonché metricamente
equivalente, a
"neùs", "nave" (l'affinità è ancora maggiore se teniamo conto
della perdita del
digamma fra le vocali, ossia la V, che si ritrova nel latino
"navis"), ne consegue
che probabilmente, nel testo originale dell'Odissea, Telemaco
volgeva la
prua non verso quelle assurde "isole veloci", bensì verso le
"navi veloci" dei
suoi nemici, riguardo ai quali ben sapeva che lo stavano
aspettando al varco,
come emerge senza alcun dubbio dal verso successivo:
"...ansioso se avrebbe
fuggito la morte o l'avrebbero preso" (in effetti, di quel
progetto criminale ai
suoi danni la dea Atena lo aveva messo al corrente la notte
prima).

238 Un accenno a varie ipotesi interpretative si trova nel voc.


Rocci, voce "thoòs"
La conferma di questa interpretazione ce la dà lo stesso Omero,
allorché i pretendenti reduci dal fallito agguato a loro volta
raccontano come avevano
vissuto quella drammatica notte: "Al calar del sole/ non sulla
terra passammo
la notte, ma in mare,/ navigando con la nave veloce ("nei
thoéi"), aspettavamo
l'aurora/ spiando Telemaco, per impadronircene/ e ucciderlo"
(Od. XVI, 366-370).
Si tratta del perfetto pendant del passo in cui avevamo
riscontrato l'anomalia
- certamente dovuta ad un errore di trasmissione orale o di
trascrizione,
peraltro spiegabile con l'antichità del testo - in cui Telemaco
aveva espresso i
suoi timori e nel contempo la sua determinazione nel voler
forzare il blocco delle
"navi veloci" dei suoi nemici attraverso quella ardita
navigazione notturna
(riteniamo altresì probabile che l'espressione "nave veloce"
nel mondo omerico
non fosse generica ma specifica; in altre parole, essa forse
indicava una
particolare categoria di imbarcazioni, un po' analoghe alle
nostre torpediniere
o corvette, impiegate per missioni dove certi requisiti, quali
la velocità e la
manovrabilità, erano più importanti, ad esempio, della capacità
di carico).
Prima di ritornare all'argomento principale, l'accenno alla
possibilità di antichi errori di trasmissione del testo dei due
poemi ci dà lo spunto per un'altra
riflessione. All'inizio del presente studio, abbiamo visto che
Omero da un
lato definisce "bassa" ("chthamalè") l'isola d'Itaca,
dall'altro accenna alla presenza
del monte Nerito. Questa contraddizione si può senz'altro
risolvere ritenendo
che il poeta volesse alludere ad una delle modeste alture
dell'isola, da
lui correttamente definita "aspra" ("trecheìa"); pensiamo
tuttavia di non poter
del tutto escludere una soluzione alternativa, tenendo conto
del fatto che, nell'enumerazione
del Catalogo delle navi, il Nerito viene menzionato
separatamente
da Itaca: "Odisseo conduceva i Cefalleni magnanimi/ quelli che
avevano
Itaca e il Nerito" (Il. II, 631-632), e pertanto sembrerebbe
essere un'entità geografica diversa, contigua ad Itaca però ben
distinta da essa. Si potrebbe a
questo punto prendere in considerazione l'ipotesi che il
"Nerito" si identifichi
con "Nerico" (nel greco omerico non vi sono gli articoli della
lingua italiana),
ossia la fortezza, definita "punta dell'épeiros" (Od. XXIV,
378), che il padre di
Ulisse aveva conquistato in gioventù. Insomma quest'ultima-
cioè l'altura o
il capo, situato nella costa di fronte a Lyø, su cui era
edificata la cittadella che
gli Itacesi, da bravi antesignani della "politica dell'altra
sponda", avevano pensato
bene di annettersi con un'azione militare -- forse inizialmente
si chiamava
"Nerito", il che consentirebbe di spiegare la distinzione che
il Catalogo fa
tra essa ed Itaca.
In seguito, nel corso dei secoli, un banale errore di
trasmissione o di trascrizione
nel passo che menziona l'impresa di Laerte potrebbe aver mutato
"Nerito" in "Nerico", inducendo col tempo qualche aedo greco a
credere che
il primo fosse un monte di Itaca. Un tale fraintendimento
potrebbe essere stato
favorito dal fatto che ormai quest'ultima era stata
identificata con la montuosa
isola del mar Ionio, la quale, pur essendo tutt'altro che
"bassa" (oltre che
collocata in modo completamente diverso nell'ambito del suo
arcipelago), aveva
comunque ereditato il nome della patria di Ulisse ed aveva
finito per sostituirsi
ad essa.
Se le cose stessero davvero in questi termini, nella
ricostruzione dell'Itaca
omerica il Nerito andrebbe spostato sulla costa di Fionia
prospiciente Lyø,
là dove abbiamo collocato Nerico: ed anche in questo caso
Ulisse, che secondo
Omero riconobbe il Nerito dopo che i Feaci lo avevano sbarcato
nel porto
di Forchis, poteva individuarlo facilmente, volgendo lo sguardo
in direzione del
mare, verso la "costa bruna" dell'Epeiros-Fionia davanti ad
Itaca-Lyø. Infatti
abbiamo visto che la "punta dell'épeiros", dove sorgeva Nerico,
probabilmente
corrispondeva all'estremità del promontorio di Horneland
rivolta verso sudest,
situata proprio di fronte alla doppia punta che, all'angolo
orientale di Lyø,
delimita la baia di Forchis.
Tornando all'Elide, osserviamo che, secondo il Catalogo, il suo
territorio
si estendeva fino a Mirsino, città definita "l'ultima"
("eschatòosa", cioè
l'estrema, la più lontana, Il. II, 616): sarebbe suggestivo
identificarla con l'attuale
Mern, che in effetti è situata a nemmeno dieci chilometri
dall'estremità meridionale
della grande isola danese. Non solo: il Catalogo la menziona
accanto
a "Buprasio" e alla "collina d'Alesio" - le due località fin
dove il giovane Nestore
aveva inseguito gli Epei dopo la battaglia di Trio - e, in
effetti, Mern si
trova nelle immediate vicinanze di Bårse e di Allerslev (Tav.
X). Anche in questo
caso, all'assonanza dei toponimi fa riscontro una sbalorditiva
corrispondenza
geografica.
E, anche in questo contesto, Omero non manca di evocare la
solita nebbia:
secondo il racconto di Nestore, durante la battaglia di Trio
"già abbattevo gli Attoridi,
i due ragazzi Molioni,/ se il padre loro, il potente
Enosìctono, dalla battaglia/
non li avesse salvati, di molta nebbia coprendoli" (Il. XI,
750-752; L'Enosìctono" è il dio Poseidone). D'altronde, che il
clima del Peloponneso omerico
fosse alquanto rigido lo avevamo già osservato in precedenza, a
proposito dell'abbigliamento
"pesante" indossato da Telemaco (Od. IV, 50) durante il
banchetto
nella reggia di Menelao a Sparta. Perché stupircene? Siamo in
Danimarca,
nell'isola Sjælland, il cuore non soltanto delle Gesta Danorum
ma anche molti
secoli prima del malinconico Amleto - del mondo di Omero e dei
suoi personaggi:
il saggio Nestore, il superbo Agamennone, la bellissima
Elena...

Abbiamo così portato a termine la ricostruzione del Peloponneso


omerico;
una tale operazione, impossibile sul suolo greco, nel Sjælland
diventa agevole
(Tav. IX): l'Argolide era situata a nord-est, la Laconia a sud-
est, il Pilo a
ovest, l'Arcadia al centro e, infine, l'Elide a sud-ovest,
davanti a DulichioLangeland,
in perfetta coerenza con le indicazioni geografiche dei due
poemi.
La soluzione di questo puzzle millenario è tanto più
significativa, in quanto a
sua volta va ad incastrarsi perfettamente nel quadro globale
del primitivo mondo
acheo lungo le coste del Baltico. Nel contempo, è stato
possibile sciogliere
certi nodi antichissimi della geografia di Omero, quali
l'introvabilità di Dulichio
e di Cranae, la strana rotta di Agamennone per il capo Malea,
l'indecifrabile
posizione di Pilo, le apparenti assurdità del viaggio di
Telemaco, sia
cronologiche che ambientali, e l'impossibile" confine tra il
Pilo e l'Argolide.
E ora, prima di concludere questo argomento, prendiamo spunto
dal mancato
scontro tra il giovane Nestore ed i figli di Attore, "i due
ragazzi Molioni"
(quelli miracolosamente salvati dalla nebbia, come abbiamo
appena visto),
per un'ulteriore verifica della coerenza delle genealogie
omeriche e della stessa
unità strutturale dell'Iliade. In quel passo il vecchio re
rievoca un episodio
di almeno quaranta anni prima: egli stesso allora era giovane
(Il. XI, 670;
684), addirittura alle prime armi (XI, 719): pertanto doveva
essere quasi coetaneo
dei suoi
giovanissimi avversari. Se li sarebbe ritrovati di fronte in
un'altra
circostanza, assai meno drammatica, "quando gli Epei
seppellirono il forte Amarinceo/ a Buprasio, ed i figli fecero
gare in onore del re" (Il. XXIII,
630-631 ): allora "coi cavalli mi vinsero i figli di Attore/
(...) essi eran gemelli,
uno sempre guidava,/ guidava sempre, l'altro con la frusta
incitava" (XXIII,
637; 641-642).
Attraverso il Catalogo delle navi scopriamo che questi due
gemelli, figli
di Attore e coetanei di Nestore, si chiamavano Cteato ed
Eurito: vi sono infatti
menzionati i loro figli, condottieri degli Epei alla guerra di
Troia: "Erano a
capo degli uni Anfimaco e Talpio,/ uno figlio di Cteato,
l'altro d'Eurito, Attendi;/
degli altri era capo il forte Diore Amarincide" (Il. II, 620-
622). Perciò alla
guerra parteciparono i figli dei due gemelli figli di Attore,
uno dei quali, Anfimaco,
verrà ucciso da Ettore durante l'assalto alle navi (Il. XIII,
186); e,
quanto a Diore Amarincide - anch'egli destinato a cadere in
battaglia, dopo
essere stato ferito da un "chermadio" (Il. IV, 518) - si tratta
evidentemente del
figlio di quell'Amarinceo per i cui funerali Nestore, molti
anni prima, si era trovato
a gareggiare con i gemelli: apparteneva insomma alla
generazione di coloro
che a suo tempo avevano fatto la spedizione contro i Centauri e
la prima
campagna di Tebe. Ma alla guerra di Troia parteciparono anche
altri nipoti del
vecchio Attore (il quale evidentemente apparteneva alla
generazione ancora
precedente, quella di Neleo, il padre di Nestore): tra di essi,
vi erano Eudoro,
"rapido a correre e battagliero" (Il. XVI, 186), figlio di
Hermes e della moglie
dell'Attende Echeclo (XVI, 190), e il ben più noto Patroclo,
figlio dell'Attende
Menezio.
Per inciso, osserviamo che il modo omerico di accompagnare al
nome il
patronimico ("Achille Pelide", "Menelao Arride" e così via),
corrisponde esattamente
all'uso scandinavo antico di unire come cognome il patronimico
al
proprio nome personale: ad esempio, Leif Eriksson vale "Leif
figlio di Erik"
(in certe zone della Scandinavia quest'uso si è protratto fin
quasi ai nostri
giorni).
Tornando alle nostre genealogie, si possono svolgere
considerazioni analoghe
anche per la stirpe reale troiana, riportata in dettaglio nel
libro XX dell'Iliade (vv. 215-240); essa trova riscontri e
conferme qua e là lungo tutto l'arco
del poema: infatti i fratelli di Priamo, cioè Lampo, Clizio e
Icetaone, oltre
che in tale passo li ritroviamo menzionati anche all'inizio,
tra gli "Anziani" se'duti
presso le porte Scee (Il. III, 147-149); i loro figli, come
quelli degli altri
Anziani, partecipano ai combattimenti insieme con i figli di
Priamo, loro cugini
nonché coetanei: ad esempio il figlio di Clizio, Caletore,
viene ucciso da
Aiace durante l'assalto alle navi achee (Il. XV, 419); poco
dopo è il figlio di
Lampo, Dolopo, che cade colpito da Menelao (XV, 541) e a questo
punto Ettore
esorta il figlio di Icetaone, Melanippo, a vendicare il "cugino
ammazzato" ("anepsioù ktaménoio"; XV, 554; Melanippo cadrà poco
dopo per mano di
Antiloco, figlio di Nestore).
Vediamo dunque quanto queste complesse vicende e genealogie
siano legate
da una granitica coerenza interna: l'Iliade, compreso il
Catalogo delle navi, è come "cucita" con robustissimi fili
invisibili - genealogici, cronologici,
geografici e narrativi - che la rendono un corpo estremamente
compatto (a parte,
ovviamente, alcuni episodi spuri). Essi talora si estendono
anche all'altro
poema: ad esempio, il re Ifìclo di Filache, citato nel Catalogo
in quanto padre
dell'eroe Protesilao (quello ucciso al momento dello sbarco;
Il. II, 705), nell'Odissea viene menzionato a proposito di una
complessa storia di furti di bestiame
e di matrimoni che coinvolge da un lato il padre e la sorella
di Nestore,
dall'altro l'indovino Melampode (Od. XV, 225), avo di un ospite
di Telemaco:
il fatto doveva aver suscitato all'epoca grande scalpore, visto
che il poeta vi si
sofferma, fornendo altri particolari, anche in occasione della
discesa di Ulisse
nell'Ade (Od. XI, 287-297). In ogni caso, i rimandi tra le
varie generazioni risultano
sempre cronologicamente corretti.
Ora, se tutto ciò depone a favore della validità dei dati su
cui abbiamo potuto
ricostruire il mondo di Omero nell'area baltico-scandinava, è
anche possibile
trarne una conseguenza di ordine più generale: alle vicende
cantate dall'epos
omerico finora non è mai stato possibile attribuire
un'attendibilità "storica",
anche a causa della contraddittorietà e dell'improbabilità del
quadro che
ne risultava calandole nel contesto greco (pensiamo soltanto
alle assurdità, sia
ambientali che di cronologia, del viaggio di Telemaco); invece,
nell'inedito
scenario che emerge dalla presente ricerca esse - in
particolare quelle dell'Iliade
- recuperano un tale livello di coerenza e di verisimiglianza
da porre con
forza la questione della loro sostanziale storicità.
Riteniamo insomma di poter a buon diritto affermare che a
questo punto
il largo diaframma tra il mito e la storia, fatte salve le
necessarie verifiche archeologiche,
sembra essersi improvvisamente, e considerevolmente,
assottigliato.
L'età del bronzo nordica, che è stata finora avvolta in una
fittissima tenebra,
probabilmente adesso ha ritrovato non solo il suo cantore, ma
anche il
suo primo straordinario cronista.
XV. LA FTIA, CRETA, IL FIUME EGITTO E FARO

Secondo il Catalogo delle navi la Ftia omerica, patria di


Achille, non era
lontana dall'Ellade: "Quelli che abitavano Argo Pelasga,/
alcuni vivevano ad
Alo, Alope e Trachine,/ alcuni avevano la Ftia e l'Ellade dalle
belle donne/ ed
erano chiamati Mirmidoni, Elleni ed Achei;/ Achille comandava
le loro cinquanta
navi" (Il. II, 681-685).
Seguendo la scansione del Catalogo, abbiamo verificato che
l'Ellade
omerica con tutta probabilità si estendeva lungo l'attuale
costa dell'Estonia.
Quanto alla vicina Ftia, Omero afferma che tra essa e Troia "vi
sono molti
monti ombrosi e il mare sonante" (Il. I,156-157), il che ci
indirizza verso l'entroterra
estone, che è in effetti marcatamente collinoso. Inoltre Omero
menziona
la Ftia "dalle fertili zolle ("eribòlaka"), madre di greggi"
(Il. IX, 479) e,
invero, la parte più fertile dell'Estonia non si trova lungo la
costa, dove i ghiacciai
dell'ultima era glaciale hanno eroso profondamente il suolo,
bensì nella
parte sudorientale, verso il confine con la Lettonia e la
Russia, caratterizzata
da colline moreniche ricoperte di sedimenti depositati dal
ritiro dei ghiacciai
stessi239. La Ftia "dalle fèrtili zolle" doveva dunque trovarsi
in quest'area.

239 Treccani, voce "Estonia"

Però non tutta la regione ricadeva sotto la sovranità di


Achille. Subito dopo
di lui il Catalogo menziona "quelli che avevano Filache e
Piraso fiorita,
santuario di Demetra (...)/ li aveva guidati Protesilao finché
era stato in vita, ma
ormai era morto./ Lasciava la moglie con le guance graffiate a
Filache/ e una
casa costruita a metà. Lo aveva ucciso un guerriero dardano/
mentre saltava giù dalla nave, primissimo fra gli Achei" (Il.
II, 695-703; al comando del suo contingente,
quaranta navi, subentrò il fratello Podarce).
Notiamo anzitutto il fortissimo impatto emotivo di questa
giovane moglie
disperata, rimasta sola nella sua casa costruita a metà: la
poesia di Omero, che
ci racconta la vita, le storie e i sentimenti di persone
assolutamente identiche
a noi, è il migliore antidoto contro un sottile pregiudizio
moderno, che potremmo
definire "razzismo temporale", secondo cui i nostri antenati
sarebbero
meno "evoluti" rispetto ai nostri illuminati contemporanei. Ciò
detto, osserviamo
che questo brano non riporta il nome dei seguaci di Protesilao
né la
regione di provenienza. A chiamarli esplicitamente "Ftioti" in
realtà è un altro
passo, inserito nel racconto della grande battaglia del
pomeriggio precedente
alla "notte funesta" (XIII, 686-699). D'altro canto il Catalogo
ci dice che i seguaci
di Achille, provenienti dalla Ftia e dall'Ellade, erano
"Mirmidoni, Elleni
ed Achei", ma non Ftioti. Ne potremmo dedurre che in un'epoca
precedente,
forse non di molto, alla guerra di Troia, i Mirmidoni - la cui
terra originaria
era forse un'altra, come vedremo fra poco - dovevano essere
scesi ad occupare
una parte della Ftia: pertanto gli Ftioti erano stati costretti
a cedere parte
del loro territorio agli invasori, i quali erano probabilmente
più forti di loro,
come si arguisce dalle vicende della guerra di Troia, ma non
abbastanza da
scacciarli o sottometterli (lo conferma la stessa consistenza
delle rispettive flotte:
50 navi i Mirmidoni, 40 gli Ftioti, che un è margine certamente
significativo
matutt'altro che schiacciante). Ora, non sempre il Catalogo
menziona i nomi
dei popoli di cui si riportano le città e i condottieri, ma in
questo caso abbiamo
l'impressione che l'omissione sia voluta (considerato anche che
il poeta
dell'Iliade, proteso ad esaltare il ruolo svolto da Achille e
dai suoi nella
guerra, potrebbe essere stato legato all'entourage di
quest'ultimo o dei suoi discendenti).
Notiamo
anche che le navi degli Ftioti erano state sistemate
nell'aigialos"
accanto a quelle di Aiace (Il. XIII, 681), cioè dalla parte
opposta rispetto
a quelle di Achille, il che potrebbe essere indizio di qualche
vecchia ruggine
esistente tra i due popoli. D'altronde Omero accenna spesso a
tensioni e conflitti
tra confinanti, ad esempio tra i Pili e gli Epei, i Pili e gli
Arcadi -tutti costoro
parteciparono poi alla guerra di Troia come alleati - i Lapiti
e i Centauri,
i Feaci e i Ciclopi (evidentemente l'ONU a quell'epoca ancora
non funzionava).
Gli
Ftioti durante la guerra non furono particolarmente fortunati:
il loro
capo, Protesilao, fu il primo degli Achei a cadere, e
successivamente l'unica nave
che i Troiani riuscirono a incendiare, al culmine dell'assalto
al campo acheo,
poco prima che scendesse la "notte funesta", fu proprio la sua.
In effetti, il vittorioso
contrattacco di Patroclo alla testa dei Mirmidoni ebbe luogo
subito dopo
che la nave ftiota era stata data alle fiamme: il luogotenente
di Achille riuscì
facilmente a scacciare i nemici dai suoi resti semidistrutti
(XVI, 284-295).
Qui il poeta sembra voler rimarcare la differenza tra i
Mirmidoni e gli Ftioti,
la cui flotta, a parte la perdita dell'ammiraglia, riuscì a
salvarsi soltanto grazie
al provvidenziale intervento dei loro formidabili confinanti.
Ma c'è di più: prima dell'intervento di Patroclo, Omero si
sofferma a lungo
sull'eroica difesa delle navi da parte di Aiace, rimasto
praticamente solo a
contrastare le soverchianti forze troiane, mentre Podarce, il
comandante ftiota
subentrato a Protesilao, nel corso dell'episodio viene
menzionato appena una
volta, e quasi di sfuggita, malgrado le sue navi fossero
contigue a quelle del Telamonio.
Anzi, fu proprio Aiace, e non Podarce, a difendere strenuamente
la nave
di Protesilao, attaccata da Ettore (II. XV, 704-746), fin
quando la pressione
dei Troiani non lo costrinse ad arretrare (XVI, 102-124). Ciò
d'altronde è perfettamente
coerente con un singolare commento inserito nel Catalogo: dopo
che Podarce aveva preso il
posto del fratello a capo degli Ftioti, il suo contingente
"rimpiangeva l'altro, che era migliore" (Il. II, 709). Questa
dura critica
ad un comandante, sia pure subentrato al titolare, è
assolutamente unica ed è presumibile che non fosse priva di
significato "politico" - unitamente al racconto
dell'episodio in cui i Mirmidoni corrono in soccorso delle navi
ftiote per
gli ascoltatori achei della versione originaria del poema.
Riguardo all'ignota terra di origine dei Mirmidoni, Achille ce
ne dà un indizio
in una sua invocazione al re degli dèi : "O Signore Zeus,
Dodonico, Pelasgico,
tu che vivi lontano ("telòthi naìon")/ e governi la tempestosa
Dodona..."
(Il. XVI, 233-234). Questa, che ha tutta l'aria di essere una
formula rituale
del culto dello Zeus "Dodonico", potrebbe indicare che i
Mirmidoni fossero
originari di quella zona, la quale in effetti era situata ben
lungi dall'area
estone: sulla base della sequenza del Catalogo, Dodona doveva
trovarsi verso
l'estremità settentrionale del Golfo di Botnia. E probabile che
il declino climatico
connesso con l'instaurarsi della fase subboreale, successiva
all'optimum
climatico", avesse spinto in quel periodo vari popoli a migrare
vèrso sud
(abbiamo già visto che i Feaci erano da poco scesi dall'Iperea
nella Scheria,
cioè dal nord al sud della Norvegia).
Al riguardo, l'aggettivo "tempestosa", attribuito a Dodona, è
estremamente
eloquente: esso fa intuire sia le difficoltà dei Mirmidoni,
pressati dal
tempo inclemente ad emigrare, sia quelle dei Perebi, i quali ne
avevano preso
il posto e ovviamente si ritrovavano alle prese con gli stessi
problemi (Il. II,
749-750). Quanto alla figura di Zeus, il signore di Dodona, ha
le tipiche fattezze
del "dio della tempesta" indoeuropeo. Notiamo che il nome di
Dodona
sopravvive ancora nel villaggio lituano di Dudoniai: è pertanto
probabile che
migratori provenienti dal nord ricostruirono in quel luogo il
tempio di Zeus, il
cui culto, sotto il nome di "Dievas", come abbiamo già visto si
ritrova proprio
nel folklore lituano.
Questa ricostruzione consente altresì di spiegare come mai il
padre di
Achille fosse legato da uno stretto vincolo di amicizia
(ribadito più volte nell'Iliade) con Chirone, il centauro che
viveva nella Finlandia settentrionale: evidentemente
Peleo manteneva legami e contatti risalenti all'epoca in cui i
suoi
antenati non si erano ancora spostati dalla terra dei Centauri.
Non a caso, dunque,
il Catalogo cita Dodona subito dopo aver menzionato i Lapiti di
Polipete,
vicini-nemici dei Centauri, nonché la famosa guerra in cui gli
uni sconfissero
gli altri cacciandoli dal monte Pelio (Il. II, 744): ora, è
proprio dal Pelio
che proveniva il legno dell'asta che Chirone aveva donato a
Pèleo (Il. XVI,
143), ad ennesima conferma della sbalorditiva congruenza dei
fatti raccontati
nel poema e della loro localizzazione geografica.
Diamo ora un'occhiata ai toponimi dell'Estonia sudorientale,
dove era
localizzata la Ftia. Qui i villaggi di Ahja e Polva (o Pölwe),
nei pressi del fiume
Ahja, ricordano i nomi di Achille e
di suo padre Peleo. L'attuale Vòru, 25 km a sud di Polva,
riecheggia il nome di Boro ("Bòros"), genero di Peleo (Il.
XVI, 175-178). Per inciso, saremmo tentati di accostare "Boro"
al nome russo
"Boris"; con l'occasione, notiamo anche che il nome di Alte,
padre di una
concubina di Priamo, è forse riconducibile all'attuale Walter,
con la consueta
perdita del digamma iniziale, e magari anche allo stesso
Baltico. Tornando all'Estonia,
Valga (o Walk), al confine con la Lettonia, ricorda il nome di
Alope
(Il. II, 682), con la solita caduta del digamma e la variazione
tra P e K, comune
nei dialetti greci. Il fiume che passa per Valga, chiamato
Podeli (Pedele in
Lettonia, dove un villaggio pure chiamato Pedele si trova a 7
km da Valga), ricorda
il toponimo ftiota Pteleo (II, 697). In genere si ritiene che
quest'ultimo
si riferisca ad una città, ma osserviamo che Omero chiama
Pteleo "lechepoìen",
cioè "dal letto d'erba", che sembra piuttosto riferibile a un
fiume, anche in
considerazione del fatto che "lechepoìen" in un'altra occasione
viene riferito
all'Asopo, il fiume di Tebe (Il. IV, 383). En passant, le
radici "pt-", "ped",
"pod-" richiamano "Padus", il nome latino del Po. Nella stessa
area il nome del
villaggio lettone di Aluksne, a 20 km dalla frontiera con
l'Estonia, ricorda l'omerica
Alo (II, 682).
Se ora ci spostiamo verso la vicina Russia, la radice "palk-"
dell'attuale
Palkino, a 40 km dal punto dove convergono i confini di
Estonia, Lettonia e
Russia, ricorda Filache, la città dello sfortunato Protesilao.
Ma ora sentiamo cosa
ha da dirci Fenice, il vecchio precettore di Achille: "Vivevo
all'estremità della
Ftia ("eschatièn Phthìes") e capeggiavo i Dolopi" (IIl IX,
484). Ora, a 20 km
ad est di Palkino, poco oltre il fiume Velikaja, si trova una
"Dulovka", nel cui
nome potrebbe risuonare quello dei Dolopi omerici. Pertanto la
Ftia forse si
estendeva verso est, in quello che è l'attuale territorio
russo, fino alla Velikaja,
che doveva rappresentare il confine con la terra dei Dolopi.
Qualche chilometro più a nord, questo grande corso d'acqua
incontra la
città di Pskov e sfocia nel lago omonimo. Pskov è una delle più
antiche città russe; il suo vecchio nome era Pleskov240. Si
potrebbe ipotizzare che "Pleskov"
derivi dal nome dell'omerica Argo Pelasgica ("Pelasgikòn
Argos", Il. II, 681),
città sotto la signoria di Achille (e che presumibilmente era
in rapporto con
quello Zeus "Dodonico, Pelasgico" a cui l'eroe si dimostra così
devoto).

240 Treccani, voce "Pskov"

Notiamo che la posizione decentrata della Ftia era ideale per i


fuggiaschi
in cerca d'asilo: non a caso, nel contingente mirmidone vi
erano ben tre rifugiati,
Fenice, Epigeo e Patroclo, mentre un altro, Medonte, militava
tra gli Ftioti.
In sintesi, non mancano gli elementi per ritenere che la Ftia
omerica si
estendesse su un territorio relativamente vasto, dall'Estonia
sudorientale alle
zone di confine con la Lettonia e la
Russia e forse ancora oltre, fino alla Velikaja ed al lago di
Pskov. In questa regione, fertile e adatta all'allevamento del
bestiame - Omero fa uno specifico accenno alle pregiate ed
ambitissime mandrie
del padre di Protesilao (Od. XI, 289-291) - gli Ftioti
convivevano più o
meno pacificamente con i Mirmidoni, presumibilmente discesi dal
nord in tempi
più recenti. La contiguità di questi popoli nella sequenza del
Catalogo, corrispondente
ad una reale prossimità geografica deducibile soltanto
attraverso
un passo del libro XIII, ci conferma la granitica congruenza
tra le varie parti dell'Iliade. Inoltre, ciò che dalla
narrazione trapela su questi due popoli e sui
loro rapporti ci fa capire quanto il
poeta fosse radicato nella realtà del suo mondo
e del suo tempo.
E adesso, prima di lasciare la terra di Achille, non possiamo
non accennare
al suo celebre scudo, fabbricato da Efesto, sulle cui
decorazioni Omero si
sofferma per più di cento versi (Il. XVIII, 483-607), secondo
un gusto che abbiamo
ritrovato fra gli scaldi vichinghi. Tuttavia per capire la
distribuzione,
sulla superfìcie dello scudo, di tali decorazioni - che
rappresentano uno straordinario
"documentario" della vita quotidiana di quei popoli - è
necessario risolvere
il problema della sua struttura, che fin dall'antichità è stata
motivo di
perplessità tra gli studiosi.
Al riguardo, ecco un passo dell'Iliade relativo al duello tra
Enea e Achille,
e precisamente al momento in cui lo scudo viene colpito dalla
lancia di
Enea: il colpo è violentissimo, però "neanche allora l'asta
gagliarda di Enea/
sfondò lo scudo, la fermò l'oro del dio:/ due strati passò, ma
tre ancora/ ve
n'erano, che cinque strati vi aveva steso lo Storpio (Efesto),/
due di bronzo, due
di stagno e nel mezzo/ uno d'oro: questo fermò l'asta di
faggio" (Il. XX, 267-272).
In merito a questi versi, il Codino annota testualmente: "Gli
ultimi quattro
versi erano considerati spuri già dall'alessandrino Aristarco:
il verso 268 significa
che lo scudo d'oro non fu trapassato, ma i versi seguenti
vengono a dire
assurdamente che lo strato d'oro è racchiuso fra due di bronzo
e due di stagno"241.
Insomma, che l'oro dello scudo resti confinato in uno strato
interno,
come sembra desumersi da questi versi, a prima vista pare
irragionevole: infatti,
come ritiene il moderno Codino seguendo l'antico Aristarco,
esso in tal modo
resterebbe praticamente invisibile (un po' come una fetta di
formaggio in un
tramezzino) e pertanto verrebbe meno la sua funzione
decorativa.
Ma davvero le cose stanno così, o vi potrebbe essere una
soluzione alternativa,
che restituisca a Omero, nonché alla logica, quei quattro
versi? Per indirizzare
il lettore che non l'avesse già intuita, confrontiamo il passo
precedente
con quello in cui Omero ci descrive la fabbricazione dello
scudo: "(Efesto) fece
per primo uno scudo grande e pesante/ ornandolo
dappertutto; un orlo vi fece, lucido,/ triplice ("trìplaka"),
scintillante, e una tracolla d'argento./ Erano cinque gli
strati ("pente ptyches") dello scudo, e in esso/ fece molti
ornamenti
con i suoi sapienti pensieri" (Il. XVIII, 478-482). Abbiamo
messo in evidenza
i "cinque strati", che corrispondono esattamente a quelli
indicati nella citazione
precedente; d'altronde il termine "ptyches", "strati" (forse
affine al latino
"plica"), lo ritroviamo anche a proposito dello scudo di Aiace,
a cui la lancia
di Ettore addirittura "trapassò sei strati" (Il. VII, 247; però
in questo caso
non erano di metallo, ma in pelle di bue).
A questo punto abbiamo tutti gli elementi per risolvere il
millenario problema
e ridare ad Omero quel che è di Omero. Tuttavia la soluzione si
trova posposta
alla fine di questo capitolo, in modo che tu, gentile lettore,
gentile lettrice,
possa riflettere con calma: ti auguro di avere la soddisfazione
di arrivare
là dove, per più di duemila anni, tanti eminenti studiosi non
sono riusciti (a
tal fine, ti suggerisco in particolare di ripensare
attentamente a quel "triplice"
orlo nonché alle caratteristiche dei materiali che formano i
cinque strati, due di
bronzo, uno d'oro e due di stagno).

In tutti i passi nei quali Omero nomina Creta (sono diciannove:


quattro nell'Iliade e ben quindici nell'Odissea) non la
considera mai un'isola: la definisce
invece una "terra" ("gaie") "vasta" ("eureia", aggettivo che
ricorre per
ben sei volte riferito a Creta), bella, ricca, percorsa da
fiumi e con "innumerevoli"
("apeirésioi", Od. XIX, 174) abitanti. Vi abitavano molti
popoli: "Le lingue
sono mescolate: vi sono gli Achei,/ gli Eteocretesi magnanimi,
e i Cidoni,/
i Dori divisi in tre stirpi ed i gloriosi Pelasgi" (Od. XIX,
175-177). Sempre secondo l'Odissea, essa contava novanta città
(XIX, 174), mentre l'Iliade nel Catalogo delle navi parla
addirittura di cento (II, 649): da questa insistenza, che
non trova riscontri in nessuna altra area del mondo omerico, si
potrebbe forse
arguire che, tra le regioni abitate dagli Achei nella loro
patria baltica, Creta
fosse una delle più grandi e più popolate.
Notiamo inoltre che la discrepanza tra l'indicazione più
generica (cento
città) dell'Iliade e quella più puntuale (novanta) dell'Odissea
è forse riconducibile
alla maggior distanza dalla Creta baltica dell'area del Golfo
di Finlandia,
dove potrebbe forse essere ricercata la genesi del poema di
Achille, rispetto
all'area danese, cioè "itacese", più vicina e quindi
presumibilmente meglio
informata, dove potrebbe aver visto la luce il primo nucleo del
poema che
glorifica Ulisse: d'altronde, alla stessa conclusione sembra
condurre la constatazione
relativa al maggior numero di volte in cui tale regione è
citata nell'Odissea rispetto all'Iliade; vedremo tra poco che
l'effettiva ubicazione di
Creta andrà a confermare tali ipotesi.
Proviamo adesso ad individuare, sullo scenario del Baltico, una
collocazione
per Creta che siä inquadrabile in modo soddisfacente nella
realtà
descritta da Omero. Al riguardo, la scansione del Catalogo
delle navi, che menziona
Creta subito dopo l'arcipelago di Itaca e la terra degli Etoli,
già in prima
battuta ci orienta verso le coste del Baltico meridionale,
attualmente suddivise
fra la Germania e la Polonia. E, confrontando la carta
dell'Egeo con quella
del Baltico, immediatamente balza agli occhi la similitudine
tra la posizione
dell'isola di Creta rispetto all'Egeo e quella della Polonia
baltica (o meglio
della sua parte quasi "peninsulare" che si protende sul Baltico
tra le città di
Stettino e Danzica) rispetto alla Scandinavia. Queste due
entità geografiche,
Creta e Polonia baltica, oltre a delimitare verso sud i
rispettivi bacini, sono
molto simili sia per la forma, all'incirca rettangolare
allungata, sia per l'estensione
longitudinale pressoché coincidente, dell'ordine dei 250
chilometri, nonché
per il comune orientamento nella direzione dei paralleli.
Tuttavìa, mentre la Creta mediterranea, isola lunga ma stretta
e arida, non
ha dimensioni tali da poter ospitare tanti popoli diversi, per
di più distribuiti su
novanta o cento città, né fiumi meritevoli di qualche menzione
(e il suo splendido
mare è tutt'altro che "livido" o "nebbioso", almeno durante la
stagione
della navigazione), invece l'entroterra della costa meridionale
del Baltico (non
limitato alla sola Polonia, ma esteso anche verso ovest, oltre
l'Oder, sul territorio
della Germania settentrionale) si estende su un amplissimo
territorio, all'incirca
coincidente con la regione pomerana, ben irrigato, senza
problemi di
spazio: insomma ha tutti i requisiti per identificarsi con la
"vasta terra" della
Creta omerica e della mitologia greca, dove "Minosse/ per nove
anni regnava,
l'amico del grande Zeus" (Od. XIX, 178-179).
A questo punto osserviamo che la localizzazione di Creta sulla
sponda
meridionale del Baltico ottempera puntualmente anche alla
condizione di prossimità,
posta nel capitolo relativo ad Atene, tra il mondo di
quest'ultima e quello
cretese: la costa polacca si trova infatti di fronte all'area
di Karlskrona-Ate
ne e della vicina Torhamn, l'antica città attica di Torico, in
perfetto accordo con
la mitologia classica (invece nel contesto egeo, malgrado sia
molto più angusto,
la distanza fra Atene e Creta risulta considerevolmente
maggiore e di prossimità
non si può più parlare).
Non solo: la presenza, tra le due coste, dell'isola dì
Bornholm-Naxos rappresenta
la controprova della correttezza dei ragionamenti che, partendo
dai dati
geografici forniti dai poemi omerici, ci hanno consentito di
localizzare, in
modo del tutto indipendente, prima Atene, sulla costa della
Svezia meridionale,
ed ora Creta. L'insieme Atene-Creta-Naxos (Tav. IX) delìnea nel
Baltico meridionale
un quadro geografico estremamente coerente sia con Omero, sìa,
più in generale, con tutto il mondo della mitologia greca
(abbiamo già notato che
il mito di Teseo e Arianna non è omerico e che la descrizione
dell'Atene "nordica"
ci viene data da Platone). Inoltre a tale quadro ben presto si
aggiungerà,
e con altrettanta naturalezza, il
complesso costituito dal fiume Egitto, dalla Tebe egizia e
dall'isola di Faro, che nella collocazione mediterranea ha
sempre
dato un gran filo da torcere agli studiosi.
Torniamo adesso all'Odissea e leggiamo il drammatico resoconto
del naufragio
della flotta di Menelao: "Ma quando lui pure, andando sul
livido mare/
con le concave navi, il capo Malea dirupato/ raggiunse
correndo, allora mala
via Zeus vasta voce/ gli preparò, dei venti urlanti gli
rovesciava contro il soffiare,/
onde enormi s'alzavano, come montagne./ E tagliata la flotta,
alcune
navi sbatté contro Creta,/ dove vivono i Cidoni, sulle correnti
del Giardano./
C'è una rupe liscia a picco sulle acque all'entrata del porto
di Gortina, nel mare
nebbioso..." (Od. III, 286-293: è suggestivo l'accostamento con
il "mare color
piombo, con onde altissime lacerate da raffiche di vento",
tratto dall'articolo
che l'inviato del quotidiano La Repubblica il 30 settembre 1994
ha scritto
sul teatro della tragedia del traghetto "Estonia"). Una
disavventura simile capitò
anche alle navi di Ulisse: "A Creta lo spìnse la forza del
vento,/ nel viaggio
per Troia, dal Malea deviandolo" (XIX, 186-187). Ora,
ricordando la posizione
del capo Malea, localizzato all'estremità della Scania, appare
del tutto
plausibile che un forte vento di nord-ovest abbia potuto
deviare le navi verso
l'area che abbiamo appena identificato con la Creta omerica.
D'altronde, riguardo al clima, è illuminante quel dettaglio
riportato dall' Odissea, già accennato in precedenza, in merito
ai "dodici giorni" durante i
quali il vento del Nord aveva flagellato la costa cretese "e
non lasciava star ritti/
nemmeno a terra" (Od. XIX, 200-201); inoltre, tutto il quadro
ben si accorda
col fatto che in tale occasione Ulisse indossava un "manto
purpureo, velloso (...)/ doppio" (XIX, 225-226): un altro
mantello simile, "doppio" ("dìplaka",
XIX, 241) anch'esso, lo aveva appena ricevuto in dono da un
amico. Quanto
appare lontano tutto ciò dal dolce mar Egeo!
Ed Omero ricorda anche "i monti di Creta coperti di neve"
("niphòenta";
Od. XIX, 338): il riferimento è probabilmente alla cosiddetta
"Svizzera pomerana",
una zona di alture moreniche di origine glaciale situate ad est
dell'Oder242.

242 Treccani, voce "Pomerania"

Tornando
al racconto del naufragio di Menelao, vi sono riportati alcuni
nomi di luoghi e di popoli che possiamo tentare di localizzare
in questo contesto
geografico: ad esempio, Gortina forse si ritrova nell'attuale
Gostyn, a
qualche chilometro dal mare, ad est della foce dell'Oder;
quest'ultimo è a sua
volta identificabile con il fiume Giardano "dove vivono i
Cidoni" ("Kydones",
Od. III, 292), come ci indicano i nomi rispettivamente dei
villaggi di Gardno
(prossimo alla sua riva destra verso la foce) e di Cedynia
(situato più a monte;
che la cittadina di
Forst, verso l'interno, ricordi la Festo omerica?). Tracce dei
Cidoni le troviamo anche più ad oriente, nella città di Gdynia,
che richiama Cydonia,
un'antica città della Creta mediterranea, evidentemente
ribattezzata così
dagli Achei. Quanto a Cnosso ("Knosòs"), in alcune località
"strategiche"
nell'area baltica abbiamo già trovato certi toponimi che vi si
potrebbero accostare;
infatti, a conferma della particolare vocazione marinara dei
Cretesi, costoro
dovevano possedere scali e basi nei punti strategici del
Baltico; ecco dunque
i nomi, notati in precedenza, di Knösen, in corrispondenza con
il capo Malea,
e di Knösö, in prossimità del capo Sunio. Ancora, nel toponimo
Krotoszyn,
città della Polonia, sembra risuonare il nome stesso della
Creta omerica.
Notiamo anche che il nome di Minosse - nonno di Idomeneo (Il.
XIII,
451), il capo del contingente cretese alla guerra di Troia -
forse risuona ancora
in quello di una cittadina polacca, Mniszek, situata a sud di
Danzica: potrebbe
essere altresì significativa l'assonanza con Mannus, il mitico
capostipite
dei Germani secondo Tacito (Germania, 2, 2).
E forse si è conservato persino il nome di Dedalo, l'artefice
del Labirinto,
nel toponimo "Dedelow", che ritroviamo in Germania, presso la
frontiera
polacca. A Dedalo gli studiosi accostano il fabbro
Volund, che, secondo la Volundarkvidha, riuscì a librarsi in
volo, con ali artificiali,
per sfuggire ad un re che lo teneva prigioniero: secondo il
Mastrelli, questa
leggenda sarebbe di origine germanica243, e ciò, oltre a
trovare riscontro
nel nome "Dedelow", s'inserisce perfettamente nel quadro
geografico qui delineato.
Appare inoltre significativo che Volund sia figlio del "re dei
Finni". Al
riguardo, è significativo che in un episodio del Kalevala
Lemminkäinen riesca
a fuggire da una terra ostile volando come un'aquila fino alla
sua casa; anche
qui, come nel mito greco, non manca un accenno al problema
dell'eccessivo
calore del sole, che "gli bruciò le guance" (runo XXVIII).

243 L'Edda, carmi norreni, Introduzione, pag. LXXXV

Spostandoci nei pressi dell'Elba, il toponimo Iden potrebbe


ricordare l'Ida,
il monte cretese legato alla nascita di Zeus; nei pressi,
Demerthin e Liickstedt
forse si possono avvicinare ai nomi di Demetra e del monte
Liceo. Che
in questa zona vi fosse un santuario dedicato a "Zeus bambino"?
Qui non siamo
lontani dall'area di Kyritz e Köritz, già incontrate nella
scansione del Catalogo, che richiamano i Cureti, essi pure
protagonisti di quel mito famoso. In
un'area contigua, Lychen ricorda Lieto (Il. II, 647): tutto ciò
potrebbe suggerire
(ferme restando le debite cautele riguardo ai toponimi) che la
"vasta Creta"
nel suo entroterra forse comprendeva anche territori a
occidente dell'Oder,
anzi doveva estendersi addirittura fino all'Elba.
L'identificazione della Creta omerica con la Polonia
settentrionale consente
altresì di formulare una suggestiva ipotesi sull'origine del
nome che attualmente designa gli abitanti di quel Paese.
Infatti l'Odissea tra. le genti che abitavano
quella terra pone anche i "gloriosi Pelasgi" ("dToi Pelasgoì";
Od. XIX,
177), il cui nome ha una singolare assonanza con quello di
"Polska": dunque gli
attuali Polacchi potrebbero aver ereditato il proprio nome
direttamente dai "Pelasgi"
omerici, loro remoti predecessori sul territorio dell'antica
Creta baltica.
Notiamo anche che, nell'enumerare gli antichi abitanti di
Creta, l'Odissea menziona, accanto ai Pelasgi, il popolo dei
Dori "divisi in tre stirpi" (sarebbero
stati proprio costoro, discesi dal nord attorno al XII secolo
a.C, a soppiantare
la civiltà micenea, che si era installata in Grecia circa
quattro secoli
prima; i biondi Spartani si vantavano di essere loro
discendenti). Ora, il nome
dei Dori si può forse accostare a quello della Turingia
(Thuringia), un'antica
regione della Germania centrale.
Essi vanno così ad aggiungersi al novero di quei popoli citati
da Omero
di cui nel mondo baltico sussistono tuttora i rispettivi
pendant moderni: ai vari
Danai, Pelasgi, Cureti e Lapìti - dei quali nel Mediterraneo
non esiste alcuna
traccia: ed ora siamo finalmente in grado di capire il perché -
fanno infatti
riscontro gli attuali Danesi, Polacchi, Curlandesi e Lapponi
(per non parlare dei
Livi, gli abitanti della "Libia" omerica), ad essi
corrispondenti sia nel nome che
nella collocazione geografica.
A questo punto, ricordando la caratteristica caduta della V
iniziale nel
greco omerico, notiamo l'affinità tra i nomi degli "Argivi" -
in greco "Argeioi",
un altro nome degli Achei, a cui la restituzione della
consonante iniziale
darebbe la forma (F)argeioi - ed i "Variaghi" o "Vareghi",
ossia i Vichinghi
svedesi. Il termine "variaghi" viene fatto discendere da un
etimo legato al
commercio; peraltro non si può escludere che quest'ultimo a sua
volta abbia
tratto origine dal nome degli Argivi omerici, abilissimi
navigatori per l'appunto
dediti a tale attività (che sarebbe stata poi tipica dei
Micenei); d'altronde
la città di Argo, seguendo il Catalogo delle navi, l'abbiamo
localizzata proprio
nella Svezia meridionale.
E gli Achei? Se consideriamo il rapporto fra i termini greci
"areté" (valore)
e "àte" (colpa, errore) ed i loro corrispondenti latini
"virtus" e "vitium"
- a parte la V iniziale, le vocali A e I 'in effetti sono
spesso intercambiabili:
pensiamo ad esempio all'oscillazione tra "giovane" e "giovine"
o a quella tra
"annaffiare" e "innaffiare" (inoltre, all'italiano "imboscata"
corrisponde l'inglese
"ambush") - applicando la stessa variazione al loro nome (in
greco
"Achaioi") otteniamo quello dei "Vichinghi".
Sarà ovviamente necessario che gli specialisti effettuino le
dovute verifiche;
nel frattempo, ci sembra assai probabile che i nomi degli
Argivi, degli
Achei e dei "biondi Danai" cantati nei poemi omerici,
protagonisti della guerra
di Troia ma introvabili nel Mediterraneo, siano sopravvissuti
nel mondo nordico
per millenni (la distanza temporale che li separa dagli albori
della
civiltà vichinga è all'incirca uguale a quella che divide noi
dall'Atene di Pericle) fino
a ritrovarsi tutti, pressoché intatti, in epoca storica.
Tornando all'argomento principale, cosa dire della civiltà
minoica, fiorita
nella Creta egea? Al riguardo, va notato un fatto assai
singolare: nel mondo
minoico, tanto ricco dal punto di vista delle arti figurative,
le rappresentazioni
di navi sono scarsissime, sia per numero che per qualità. A ciò
va aggiunto
che nulla, nell'arte minoico-cretese, sembra illustrare una
qualunque leggenda
del tipo di quelle che noi conosciamo: ce lo ricorda il Vidal-
Naquet in un suo
saggio di prefazione all'Iliade; eppure sappiamo bene
l'importanza di Creta
ovviamente, la Creta omerica - nella mitologia greca.
Non dimentichiamo inoltre l'affermazione dell'Odissea,
riportata poco
fa, riguardo alla presenza sul territorio "cretese" di molti
popoli diversi e dall'indole
tendenzialmente bellicosa - almeno a giudicare dagli aggettivi
con cui
vengono definiti - tra i quali i conflitti dovevano essere
tutt'altro che infrequenti:
ma ciò appare in stridente contrasto con la scarsezza di opere
difensive
riscontrata negli insediamenti minoici della Creta
mediterranea. Quest'ultima
insomma, a parte il nome attribuitole dagli achei discesi dal
nord, non ha
nulla a che vedere con la "vasta terra" a cui alludono i due
poemi.
A questo punto sentiamo anche cosa ci dice il prof. Nilsson
riguardo al
rapporto tra la civiltà micenea e quella minoica: "Le
differenze della civiltà micenea
rispetto a quella minoica sono tali da non poter essere
spiegate da uno
sviluppo organico della cultura minoica in condizioni diverse;
esse puntano
decisamente verso il nord, così che si può tranquillamente
sostenere che sono
state introdotte da un popolo con collegamenti nordici, il
quale ha superato la
cultura minoica ma la ha mescolata con elementi propri"244.

244 Nilsson, Homer and Mycenae, pag. 82

Sempre riguardo alla civiltà minoica, l'interpretazione della


scrittura "lineare
B" ha rivelato una lingua greca arcaica, forse importata dagli
invasori micenei,
i quali con più o meno encomiabile zelo hanno voluto
ribattezzare ogni
località con gli stessi nomi della Creta baltica: Cnosso,
Amniso... Ma i veri
nomi delle città (e del popolo che le abitava prima
dell'invasione) li conosceremo
soltanto quando, e se, verrà decrittato il "lineare A", l'altra
forma di scrittura
trovata nell'isola egea. Al momento, l'unico indizio
linguistico in nostro
possesso che non sia ricollegabile alla civiltà greca è il nome
attribuitole dagli
Egizi, "Keftiw", forse legato a quello dei suoi primitivi
abitatori; invece tutti i
nomi, sia geografici che di persona, dell'universo mitologico
"cretese" a noi familiare,
quali Cnosso, Festo, Minosse, Arianna, Dedalo, il labirinto,
dobbiamo
a questo punto presumere che siano stati trasposti tout court
dal mondo baltico
a quello mediterraneo.
D'altronde gli stessi Greci, discendenti degli Achei, hanno
mantenuto la
tradizione di perpetuare nelle nuove colonie i nomi delle città
di origine, talora
anche rispettando le corrispondenze geografiche: ad esempio,
nell'isola egea
di Tinos, che ha in piccolo la stessa forma della Sicilia, il
porto di Panormos è situato nell'identica posizione di Palermo.
Fenomeni analoghi, peraltro molto comuni, si sono verificati
anche in
epoche successive, ad esempio durante la colonizzazione del
Nuovo Mondo da
parte degli Europei, ed anche più recentemente: pensiamo alla
bonifica delle
Paludi Pontine ad opera di coloni veneti, i quali hanno
esportato la toponomastica
delle loro montagne - il Sabotino, il Montello, il Grappa,
addirittura un
"Monte Nero" e così via - nella provincia di Latina, in un
bassopiano che non
presenta la minima traccia di alture. Se gli storici di un
lontano futuro, ingannati
dalle omonimie, dovessero ambientare gli avvenimenti della
prima guerra
mondiale nelle aree pianeggianti del basso Lazio, si
troverebbero in imbarazzi
analoghi a quelli di Strabone e di quanti altri nel corso dei
secoli si sono
impegnati nell'impossibile impresa di far "quadrare" il mondo
dei poemi omerici
con la realtà geografica del Mediterraneo: da qui è nato il
vieto adagio
"tappabuchi" che Omero "è un poeta e non un geografo". Quale
statura di geografo
abbia in realtà Omero, lo stiamo constatando in queste pagine.

L' Odissea in più occasioni menziona un fiume chiamato "Egitto"


("Aigyptos"), la cui posizione appare legata a quella di Creta:
abbiamo già visto
che Menelao, sorpreso da una tempesta presso il capo Malea,
venne per
l'appunto deviato verso di essa, dove "fracassarono contro gli
scogli le navi/
le ondate; però cinque navi prua azzurra/ l'acque e il vento,
spingendole, in
Egitto portarono" (Od. III, 298-300).
Questo fiume Egitto, presso cui sorgeva una grande città, Tebe
"dalle cento
porte" (Il. IX, 383), doveva avere un'importanza notevole, come
si evince
anche dal fatto che era navigabile: Ulisse infatti racconta di
avervi ancorato le
sue navi (XIV, 258), provenendo, anche lui, da Creta. Notiamo
subito che l'identificazione
classica con la Tebe dei faraoni è affetta da una grossa
discrepanza
geografica: infatti il poeta dell' Odissea sembra collocare la
sua Tebe
nelle vicinanze del mare, mentre l'omonima città egiziana
notoriamente si trova
sull'alto corso del Nilo, a parecchie centinaia di chilometri
nell'interno.
Ma continuiamo a seguire il racconto del nostro eroe, che a un
certo punto
per la strada incontra addirittura il sovrano del paese:
"...Corsi davanti ai cavalli
del re/ e gli afferrai e baciai le ginocchia: lui mi salvò, fu
pietoso,/ sul cocchio
mi fece sedere e mi portò al suo palazzo, piangente" (XIV, 278-
280): l'atteggiamento
così poco "ieratico" di questo re, in giro per le vie della
città, ci conferma
che siamo ben lontani dalla valle del Nilo. Quest'ultima
oltretutto era
chiamata dai suoi abitanti "Kem"; così, analogamente, il nome
originale della
Tebe egiziana era "Wò'se"; invece il nome "Egitto",
successivamente dato alla
Terra di Kem, come pure quello di Tebe, attribuito all'antica
Wò'se, sono entrambi
di origine greca: si ripropone insomma la questione già
discussa per Creta,
il cui nome originariamente designava una terra baltica e poi
passò ad indicare
un'isola mediterranea, ad essa assimilabile per la posizione
geografica.
E proprio il fatto che gli Achei, una volta discesi nel
Mediterraneo, abbiano
chiamato la valle del Nilo col nome di "Egitto", induce a
cercare, in
un'area adiacente alla "Creta" baltica che abbiamo appena
individuato, un fiume
dalle caratteristiche analoghe a quelle del Nilo stesso. In
effetti, in quel territorio
un fiume che corrisponde molto bene ad una siffatta tipologia
esiste
davvero: si tratta della Vistola, la cui foce, un ampio delta
esteso per una cinquantina
di chilometri, si apre sulla parte orientale della costa
polacca (Tav. I).
E evidente sia la rassomiglianza tra questo delta e quello del
Nilo, sia la corrispondenza
tra le loro posizioni sul versante meridionale del Baltico e,
rispettivamente,
del Mediterraneo; inoltre, i due corsi d'acqua nell'ultimo
tratto hanno
un orientamento analogo, da sud verso nord: ecco dunque perché
gli invasori
achei del Mediterraneo ribattezzarono la valle del Nilo, ovvero
l'originaria
Terra di Kem, con lo stesso nome di "Egitto" con cui nella loro
sede precedente
avevano indicato il grande fiume del Nord.
Ma non si limitarono a questo: infatti, mentre si andavano
installando sul
suolo greco e davano origine alla civiltà micenea - correva
all'incirca l'inizio
del XVI secolo a.C. - la città di Wò'se, ossia quella che
sarebbe stata poi chiamata
Tebe, espresse la dinastia regale che avrebbe cacciato gli
Hyksos dalla
Valle del Nilo, tornando in tal modo ad essere la capitale
dell'Egitto. Così si
spiega la ragione per cui Wò'se, nonostante la sua distanza dal
mare, fu ribattezzata
in lingua greca col nome, che conserva tuttora, di quella che
doveva essere
la principale città dell'"Egitto" baltico.
In questo contesto appare molto significativo il nome di una
popolazione
barbarica vissuta sul delta della Vistola fino al III secolo
della nostra èra, i Gepidi
(la cui più nota rappresentante è senz'altro la moglie di
Alboino, Rosmunda,
famosa per l'aneddoto secondo cui il marito l'avrebbe costretta
a bere
dal teschio del padre trasformato in coppa). Costoro, secondo
Jordanes, "vivevano
in un'isola circondata dai guadi del fiume Vistola, che nella
lingua dei
padri chiamavano Gepidos" ("commanebant in insula Visclae amnis
vadis circumacta,
quam pro patrio sermone dicebant Gepidos"; Storia dei Goti,
cap.
XVII). Il nome dei Gepidi e della loro isola, con quella
curiosa desinenza "grecheggiante"
in -os, richiama da vicino l'omerico "Aigyptos", a conferma del
fatto che quest'ultimo si identifica proprio con la Vistola.
E la Tebe omerica? Sarebbe suggestivo identificarla con
l'attuale città
polacca di Tczew, situata presso la foce della Vistola, dunque
in posizione perfettamente
congruente con le
indicazioni dell'Odissea. Inoltre, a quanto ci dice Omero, gli
abitanti di Tebe godevano di un'agiatezza straordinaria: "A
Tebe/
egizia (...) nelle case vi sono enormi ricchezze..." ("pleìsta
ktémata", Od.
IV, 126-127); ora, ciò è spiegabile proprio con la posizione
della città sulla foce
del grande fiume: infatti "il commercio dell'ambra baltica
(...) dovette esercitare
ingenti attrattive anche sulle popolazioni del Ponto e della
stessa Mesopotamia.
La Vistola, sul cui corso superiore si svolge la civiltà di
Zlota, era la
via immediata che conduceva a quest'Eldorado
dell'antichità"245. Ecco dunque
cosa vi era dietro alle "enormi ricchezze" dei fortunati
cittadini di Tebe: il business dell'ambra! Essi sfruttavano nel
migliore dei modi la posizione strategica
della loro città allo sbocco del "fiume Egitto" e, soprattutto,
la navigabilità
di quest'ultimo, esplicitamente attestata dall'Odissea:
d'altronde le chiglie
piatte delle navi achee, nonché la manovrabilità assicurata
dalla loro doppia
prua, si prestavano magnificamente allo scopo. Non a caso,
proprio in occasione
dell'attracco di Ulisse alla sponda del fiume, il poeta ricorda
che le sue
navi erano "amphielìssas", cioè "doppiamente ricurve" (Od. XIV,
258). Né guastava il fatto, sempre ai fini della manovrabilità,
che l'albero si potesse abbassare
allorché si andava a remi: fu infatti in tale assetto (Od. XV,
496-497)
che i compagni di Telemaco effettuarono la manovra a marcia
indietro, dalla
"prima punta" di Itaca fino al porto, e la nave di Ulisse
riuscì a passare tra gli
insidiosi scogli delle Sirene, al largo delle Lofoten.

245 Laviosa Zambotti, Le più antiche civiltà nordiche, pag. 209

Per quanto riguarda il Nilo, Omero, significativamente, non lo


menziona
mai; esso comunque è riuscito a sfuggire alla "balticizzazione"
dei nomi perseguita
dagli Achei, per il resto quasi perfettamente riuscita
attraverso l'egemonia
culturale che nel corso dei secoli le popolazioni di lingua
greca discese dal
nord riuscirono gradualmente ad imporre nell'area mediterranea.
Chi avrebbe
detto che la Tebe dei Faraoni - ovvero l'antica Wò'se nella
terra di Kem - non
ha nulla a che vedere con la "Tebe sul fiume Egitto" di Omero,
ma dista migliaia
di chilometri dal suo "prototipo" baltico, situato alla foce
della Vistola? In ogni
caso, questo di Wò'se-Tebe rappresenta un caso esemplare del
modo con cui gli
Achei, una volta arrivati nelle nuove sedi, operarono per
cambiare la toponomastica
preesistente - anche quella di nazioni diverse dalla propria -
conformandola
per quanto possibile a quella del mondo da cui provenivano.
A questo punto riusciamo a spiegarci anche un singolare
racconto riportato
da Erodoto, secondo cui "essendo Eracle venuto in Egitto, gli
Egiziani dopo
averlo incoronato lo condussero in processione per sacrificarlo
a Zeus; ed egli per
un certo tempo rimase tranquillo, ma, quando furono iniziati
presso l'altare i preparativi
del suo sacrificio, ricorse alla forza e fece strage di tutti"
(Storie, II, 45).
La singolarità di questo episodio (che vagamente ricorda quello
biblico di Sansone)
sta nel fatto, sottolineato da Erodoto, che non era
consuetudine degli Egizi
fare sacrifìci umani. E pertanto da ritenere che, anche in
questo caso, quegli
strani "Egiziani", di cui i suoi contemporanei conservavano
ancora la memoria
- è lo scrittore stesso a precisare che si tratta di una
"storia", "mythos", raccontata
da Greci - non fossero i civilissimi abitanti della valle del
Nilo, bensì quelli
che, ai tempi di Eracle (della cui ascendenza nordica fra poco
troveremo una
traccia anche in Tacito), vivevano sulle sponde dell'omerico
"fiume Egitto".
La localizzazione di questa terra "egizia" nell'area baltica
potrebbe poi
contribuire a far luce anche su una questione tuttora oscura:
l'origine degli
Zingari. Che l'appellativo di Gipsy, "Egizi", con cui costoro
vengono chiamati
in varie contrade europee, si riferisca non all'antica "Terra
di Kem", poi ribattezzata
"Egitto" dai Greci, ma proprio all'"Egitto" omerico - quello
autentico
- che abbiamo appena ritrovato alla foce della Vistola? In tal
modo comincerebbe
finalmente a diradarsi il mistero che ha sempre avvolto la loro
origine:
essi potrebbero essere gli ultimi discendenti di una
popolazione di calderai
e metallurgi dell'età del bronzo, provenienti dal nord
dell'Europa. Abbiamo
già visto che il nome di una delle loro tribù, quella dei
Sinti, ha un singolare
riscontro nei "Sinti" omerici, abitanti di Lemno, isola legata
al dio fabbro
Efesto, l'attuale Lemland; e, quanto al loro nome, "Rom", e al
connesso aggettivo
"romnì", è curiosa l'assonanza con Roma, edificata lungo la via
dei
metalli su un guado del Tevere ai confini con l'Etruria
(regione produttrice di
ferro e di stagno), e con "romanus". La stessa "India", talora
indicata come il
loro luogo di provenienza, potrebbe essere in realtà, seguendo
le tesi del Tilak,
una terra nordica, sede primitiva di quegli Indoeuropei, cugini
degli Achei, che
dopo il tracollo dell"'optimum climatico" si stanziarono
nell'India attuale.
In ogni caso, le ampie, fertili e ben irrigate pianure
dell'Europa settentrionale,
addolcite da un clima molto più mite di quello attuale, quattro
o cinquemila
anni fa dovevano essere ben popolate: per di più doveva viverci
gente sicuramente
più "interessante" di quanto finora non ci fosse dato di
immaginare.

Un'ulteriore conferma dell'identificazione tra il "fiume


Egitto" e la Vistola
può essere ricavata da un passo dell'Odissea: "Un'isola c'è nel
mare flutti
infiniti,/ davanti all'Egitto ("Aigyptou propàroithe"), la
chiamano Faro,/tanto
lontana quanto in un giorno ("panemerìe") una concava nave/
cammina, a
cui soffi dietro un vento sonoro" (IV, 354-357).
Nel tradizionale contesto mediterraneo, la Faro omerica - dove
Menelao
rimase bloccato a lungo durante il suo laborioso viaggio di
ritorno da Troia:
"Qui per venti giorni gli dèi mi trattennero e mai a soffiare/
i venti marini s'alzavano"
(Od. IV, 360-361)-è stata identificata con l'omonima isoletta
su cui,
in epoca ellenistica, fu eretto il celebre "faro" che da essa
prese il suo nome,
poi trasmesso a tutti gli altri fari e sorgenti di luce dei
secoli successivi, e che segnalava l'imboccatura del porto di
Alessandria. Però la sua collocazione,
non in mare aperto ma adiacente alla costa egiziana (a nemmeno
un miglio di
distanza), dà luogo ad una delle più famose incongruenze della
geografìa omerica: ed è da qui che sin dall'antichità hanno
preso il via le più sofisticate elucubrazioni
per cercare un'impossibile quadratura con le indicazioni
dell'Odissea, la quale oltretutto poco dopo ribadisce, in
patente contraddizione con
la realtà del Mediterraneo, che la rotta tra Faro e l'Egitto è
"lunga e difficile"
("dolichèn argaléen te"; IV, 483). In particolare Strabone si
affanna su questa
e su altre apparenti assurdità geografiche contenute nei due
poemi, davanti a
cui alla fine si arrende con uno sconsolato "questi sì che sono
enigmi!" ("taù-ta gàr ainìgmatos plére"; Geografia I, 2, 31).
Finora dunque il motivo che ha indotto Omero a collocare Faro
in mezzo
al mare è sempre rimasto oscuro (ironia di certi nomi). Ma a
questo punto
vediamo se la geografìa del Baltico può illuminarci: in
effetti, esattamente in
direzione nord rispetto alla foce della Vistola - "davanti
all'Egitto" - esiste
un'isola, attigua alla grande isola svedese di Gotland, che è
chiamata proprio
Faro; inoltre la sua distanza dalla costa polacca, circa 200
miglia marine, è tale
che una buona nave, "a cui soffi dietro un vento sonoro", può
effettivamente
percorrerla in un sol giorno (oltretutto, a quelle latitudini,
nelle giornate estive
vi sono almeno una ventina di ore di luce disponibili per la
navigazione). Al
riguardo, può essere interessante il confronto con le
velocissime navi vichinghe,
di cui abbiamo rilevato le analogie con quelle achee: esse
talvolta riuscivano,
in condizioni particolarmente favorevoli, a tenere medie di
oltre 9 nodi246.
246 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 215

Ma c'è di più: l'isola Faro si trova esattamente sulla rotta


del ritorno degli
Achei dalla Troade, indicata da Nestore a Telemaco nel III
libro dell'Odissea, ossia quella che, passando al largo di
Chio-Hiiumaa, taglia trasversalmente
il Baltico da nord-est a sud-ovest, in direzione dell'Eubea-
Öland (Tav.
VII). Insomma, anche nel caso di Faro-Fårö si verifica quanto
già constatato
per molte altre isole della mitologia greca, quali Lemno-
Lemland, Zacinto-Tà-singe, Naxos-Neksø, Ogigia-Høgoyggj, cioè
la perfetta congruenza tra le posizioni
geografiche ed i toponimi corrispondenti. Al solito, calando
nel giusto
contesto le vicende narrate nei poemi omerici, si risolvono
d'incanto enigmi
millenari.
Ci si potrebbe tuttavia chiedere se con l'espressione "davanti
all'Egitto"
il poeta volesse veramente intendere il nord; al riguardo, già
in precedenza abbiamo
avuto modo di osservare che per Omero l'ovest è a sinistra e
l'est a destra
(Il. XII, 239-240), il che significa che a quell'epoca
l'orientamento rispetto
ai punti cardinali (operazione fondamentale per una civiltà
basata sulla navigazione) era esattamente uguale al nostro,
così come tuttora lo si insegna ai
bambini delle scuole elementari: insomma, allora come adesso,
il nord stava davanti. A sostegno di ciò vi è anche il passo
dell' Odissea in cui Nestore accenna
a due possibili rotte di ritorno da Troia, cioè navigando
"sopra ("kathyperthe")/
(...) o sotto ("hypénerthe") Chio" (Od. III, 170-172), dove il
sopra corrisponde
al nord ed il sotto al sud. Insomma il poeta ha ben ragione di
dirci che la sua
Faro (Faro) si trovava "davanti all'Egitto" (cioè alla
Vistola).
A questo punto ci sembra utile rimarcare il fatto che,
spostando l'Egitto
omerico dal Mediterraneo al Baltico, entrambe le assurdità
geografiche da cui
sembrava affetto - da un lato la prossimità di Tebe al mare,
dall'altro la lontananza
di Faro dalla terraferma - vengono istantaneamente risolte.
Oltretutto l'identificazione con Faro si inserisce molto bene
nella dimensione
tutta nordica in cui è calata la Faro dell' Odissea, teatro
dell'imboscata tesa
da Menelao al divino Proteo, il "Vecchio del mare" ("géron
hàlios"): costui infatti
viene descritto come il pastore di una mandria di foche, che
dagli abissi salgono
a prendere il sole sugli scogli: "Quando il sole raggiungerà il
mezzo del cielo/
allora esce dal mare il Vecchio del mare verace,/ nascosto nel
brivido bruno,
sotto il soffio di Zefiro,/ e, uscito, dorme nelle cave
spelonche;/ intorno a lui le
foche piedi natanti della bella Figlia del mare/ dormono
strette, uscite dal mare
schiumoso,/ l'acuto odore del mare ricco d'abissi emanando"
(Od. IV, 400-406).
Con tali indicazioni, fornite dalla figlia di Proteo, Menelao
riuscirà a sorprendere
il Vecchio e, dopo una lunga lotta - durante la quale costui
farà ricorso a tutte
le arti trasformistiche che hanno reso proverbiale il suo nome
- ad immobilizzarlo,
costringendolo quindi a divinargli le modalità del ritorno in
patria.
Il passo che abbiamo appena letto, tra i più suggestivi
dell'intera Odissea, sospeso com'è in un'atmosfera elegiaca tra
realtà e favola, ha un tono che si attaglia
in modo molto più naturale al mondo nordico che al
Mediterraneo, come
sempre avviene nelle descrizioni di scene marine in Omero.
Chiunque abbia
avuto occasione di fare degli appostamenti fotografici alle
foche nei mari
settentrionali (ad esempio, nelle isole Orcadi), apprezzerà il
realismo, oltre che
la poeticità, di questa stupenda descrizione.
Ora, a distanza di tanti millenni, nell'isola Fårö esiste il
nome di una località
chiamata Broa: anche se il significato del termine è forse
riconducibile
ad altre radici, sarebbe suggestivo immaginarvi l'ennesima
trasformazione del
Vecchio del mare, il pastore di foche! E se adesso non ci
s'imbatte più nei suoi
trucchi e nelle sue magie, a Faro si può comunque incontrare un
altro insigne
fabbricante di fantastiche illusioni: è qui infatti che il
grande regista svedese
Ingmar Bergman ha stabilito la propria residenza.
Per inciso, il vocabolo indicante quel "brivido bruno" (Od. IV,
402), così
straordinariamente espressivo, che abbiamo incontrato poco fa
nella descrizione
della surreale mandria del
Vecchio, in greco è "phrìx"; esso compare anche in una
bellissima immagine dell'Iliade: "Scende sul mare il brivido di
Zefiro ("Zephyroio phrìx") appena sorto/ ed il mare si fa buio
sotto di esso" (Il.
VII, 63-64). Curiosamente lo ritroviamo, disceso per chissà
quali misteriosi
rami attraverso i millenni, in un vocabolo tipico del dialetto
romano: chi avrebbe
mai detto che il "frìccico ner core", richiamato nel ritornello
della nota canzone,
inconsapevolmente riprende - e nell'identico significato di
"brivido" quel
"phrìx" in cui l'epos omerico nascondeva il Vecchio del mare?
Tornando a Faro, è chiara l'importanza che quest'isola, situata
a mezza
strada tra le sponde opposte, doveva rivestire per gli antichi
navigatori: "C'è un porto buoni ancoraggi, donde le navi
dritte/ spingono in mare, quando hanno
attinto acqua bruna" (Od. IV, 358-359), recita Omero. E il
racconto di Proteo
indica che, oltre all'acqua, i marinai dell'età del bronzo vi
trovavano una
specie di "santuario oracolare" che forniva vaticini per il
futuro, dando conforto
e speranza a chi metteva continuamente a repentaglio la propria
vita tra le
procelle del Baltico: "Lui ti dirà il cammino e la durata del
viaggio/ e il ritorno,
come potrai navigare sul mare pescoso" (IV, 389-390). L'alone
mitico, da
favola, che traspare dall'avventura di Menelao indica anche che
tale funzione
doveva rappresentare un ricordo antichissimo già al tempo in
cui sono ambientati
i poemi omerici: era forse il vestigio di un periodo ancora
precedente.
D'altronde, come abbiamo già visto a proposito delle avventure
di Ulisse, il
poeta dell' Odissea ricorre di frequente a materiale
folkloristico o leggendario,
risalente a un'epoca che agli stessi suoi contemporanei
presumibilmente doveva
già apparire come "la notte dei tempi", e che spesso era
intriso, come in
questo caso, di motivi magico-sciamanici certamente molto
arcaici (forse anche
legati all'assunzione di sostanze allucinogene).
E, non a caso, un'atmosfera simile è percepibile in certe
leggende celtiche:
"Le donne-foca della tradizione gaelica si liberano dal pelo e
appaiono sotto
forma di splendide fanciulle; le nozze con un essere umano
rendono permanente
questo temporaneo scioglimento dall'incantesimo..."247. Così
pure Teti anch'essa
divinità marina, figlia di Nereo, un altro "Vecchio del mare"
(Il. I,
538) - ha la stessa capacità di trasformarsi, messa in atto in
occasione del suo
matrimonio con Peleo: "La sposa riluttante adoperò tutte le
arti trasformatrici
delle antiche deità marine. Si trasformò in fuoco e in acqua,
digrignò i denti come
un leone e tentò d'impedire l'abbraccio sotto forma di
serpente..."248.

247 Sir Gawain e il Cavaliere Verde, pag. 170, nota 20


248 Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, pag. 294

Possiamo ora provare a chiederci quale fosse il significato


recondito della
vocazione trasformistica di queste singolari divinità. Che il
"Vecchio del
mare verace,/
immortale, Proteo egizio, il quale del mare/ sa tutti gli
abissi" (Od. IV, 384-386) sia in un certo senso la
personificazione dello "spirito del
mare", dall'aspetto perennemente cangiante, ora calmo e
benevolo, ora inquieto
e minaccioso? Esso dà il presagio del buon ritorno al navigante
che sappia
scrutarlo, sappia interpretarne i segni, sappia attendere
pazientemente, sappia
cogliere l'attimo propizio per compiere felicemente la
traversata: si tratta
in ogni caso di un crudele gioco d'azzardo, la cui posta è la
salvezza della nave
e della vita stessa, ed in cui valgono insieme l'intuito,
l'abilità e la fortuna.
Inoltre, per quanto riguarda in particolare la capacità di
divinare il futuro,
un curiosissimo pendant del Vecchio del mare dell' Odissea lo
ritroviamo nella
mitologia nordica: si tratta del "marmendill" (o "marmennill"),
bizzarro essere
dall'aspetto umano deforme e con corpo di foca dalla cintola in
giù, che vive nelle
profondità marine ed è noto per la sua conoscenza del destino
e, quindi, per
le capacità profetiche249; tuttavia egli parla soltanto quando
gli aggrada, esattamente
come Proteo. La Hàlfs saga Hàlfsrekka narra il suo movimentato
incontro
con il re vichingo Hjörleif250: in tale circostanza, prima
della profezia,
ha luogo anche una "gara di lotta" - la "glima", un tipo di
lotta tradizionale
islandese251 - che si potrebbe accostare a quella ingaggiata da
Menelao con Proteo
per indurlo a rivelargli ciò che lo attende. Ma questo Hjörleif
è una nostra
vecchia conoscenza, che abbiamo già avuto modo di incontrare in
occasione di
un precedente parallelo tra l'Odissea e la letteratura nordica:
si tratta infatti di
quel re che aveva accecato un orco minaccioso con una lancia
arroventata, in
una situazione che richiama da vicino l'accecamento di
Polifemo, e ciò non può
che rendere ancora più intrigante questo complesso insieme di
corrispondenze.

249 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pag. 352


250 Chiesa Isnardi, Leggende e miti vichinghi, pagg. 169-
170, 199 sgg.
251 Chiesa Isnardi, Leggende e miti vichinghi, pag. 199,
nota 36

A questo punto notiamo anche che, in un altro passo della Hàlfs


saga Hàlfsrekka, Hjörleif mandò "un messaggio con una freccia".
Come annota la
Chiesa Isnardi, si tratta dell'örvarbodh, un uso nordico di
raccogliere uomini per
formare un esercito mandando da un luogo all'altro una "freccia
di guerra"252.
Questo potrebbe dare un senso ad un dibattuto passo di Erodoto:
"Si dice che
Abari fosse Iperboreo (...); portò in giro una freccia per
tutta la terra" (Storie IV, 36), confermando nel contempo
l'esistenza di antichi rapporti tra i Greci e
gli Iperborei. Sempre questa saga parla di un sacrificio umano
per salvare una
nave dall'ira degli dèi durante una tempesta: è un tema analogo
a quello del sacrificio
di Ifigenia. In una parola, la Hàlfs saga sembra riprendere
diversi temi
comuni alla mitologia greca: a questo punto, sarebbe opportuno
che gli specialisti
sviluppassero specifiche indagini sulla sua genesi e le sue
fonti.

252 Chiesa Isnardi, Leggende e miti vichinghi, pag. 202,


nota 41
Tornando a Proteo, vi è un'altra impressionante analogia con
l'uomo-foca norreno: infatti, come ci dice sempre la Chiesa
Isnardi, in un testo vichingo
(il Libro dell'insediamento) si narra che un marmendill "indicò
a Selthorir in
quale luogo avrebbe dovuto stabilirsi; si noti che la prima
parte del nome del
colono 'Sel-' significa 'foca'; è detto infatti che al momento
della profezia egli
era coricato nell'imbarcazione e coperto con una pelle di
foca"253. Anche questa
situazione così particolare trova nell'Odissea un preciso
riscontro: torniamo
infatti al momento in cui Menelao e i suoi compagni, d'intesa
con la figlia
del Vecchio, ne attendono l'arrivo per agguantarlo e carpirgli
l'oracolo: "Ed ecco
che lei s'immerse nel vasto seno del mare/ e quattro pelli di
foche portò fuori dal fondo./ Tutte erano appena scuoiate: al
padre così preparava l'inganno./
(...) Ci fece allora stendere in fila e gettò su ciascuno una
pelle" (Od. IV,
435-437; 440). Sono versi che, confrontati con l'atteggiamento
del nordico
Selthorir, anch'egli coperto da una pelle di foca in attesa del
responso, non lasciano
dubbi sulla comune matrice del racconto omerico e di quello
norreno,
pur appartenenti a due culture separate da millenni.

253 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pag. 584

Notiamo ancora che Proteo viene definito dal poeta con una
formula ricorrente:
"il Vecchio del mare verace" ("nemertés", Od. IV, 384; 401;
542).
Questo aggettivo "nemertés", che sembra costituire una parte
inscindibile del
suo nome, è composto dal prefisso negativo "ne-" e dalla radice
di un verbo che
vale "errare" o "fallire"; dunque significa letteralmente
"l'infallibile", con un
chiaro riferimento alle doti profetiche del Vecchio. Ora,
sarebbe intrigante ricondurre
il nome del "marmendill" ad un'estrema corruzione
dell'aggettivo
"nemertés": riguardo all'oscillazione tra le consonanti Med N,
talora la ritroviamo
nel passaggio tra il greco e il latino, dove "me" e "syn"
diventano rispettivamente
"non" e "cum", e dove la desinenza dell'accusativo singolare
termina
in Min latino, in A' in greco; inoltre, abbiamo l'esempio del
nome di un
fiume lituano, il Nemunas, che in tedesco diventa Memel (si
potrebbe altresì considerare la corrispondenza fra le "Moire"
greche e le "Norne" vichinghe).
In attesa che gli specialisti si pronuncino sulla questione, è
diffìcile sottrarsi alla
suggestione dell'ipotesi che anche il nome dell'uomo-foca,
nonché profeta,
nordico abbia la sua remota origine nel suo "verace", anzi
"infallibile", corrispondente
omerico (questo caso potrebbe dunque essere analogo a quello
del
"thing", l'assemblea nordica, di cui abbiamo ipotizzato la
derivazione dall'aggettivo
omerico "thémenos", che di frequente si accompagna
all"'agoré").
Quanto alla singolare equazione "foche = capacità profetica",
si potrebbe
congetturare che sia stata ispirata da qualche antichissima
usanza di osservare
il comportamento di questi
animali, a mo' di rudimentale "bollettino meteorologico", per
ricavarne delle previsioni sulle condizioni del tempo e del
mare
(pensiamo al vecchio adagio, sopravvissuto fino ai nostri
giorni, secondo cui
il volo a bassa quota degli uccelli è segno di burrasca
imminente). In tale ottica,
potremmo intendere il Vecchio del mare, nonché il suo epigono
nordico, anche
in chiave di "spirito (profetico) del branco di foche".
In ogni caso, le corrispondenze fra i miti greci e quelli
norreni su tematiche
spiccatamente marinare (pensiamo anche all'identità riscontrata
tra le figure dei
giganti marini Egeone e Ægir), se da un lato ci confermano che
gli antenati degli
Achei e degli antichi popoli scandinavi hanno avuto un'origine
comune, dall'altro
ci indicano che, con tutta probabilità, la loro sede primitiva
era marittima e non
continentale. Al riguardo, osserviamo che Omero per indicare il
mare utilizza ben
quattro termini diversi: "hàls", "thàlassa", "pòntos" e
"pélagos". Usa inoltre l'aggettivo
"marmàreos" ("splendente"), la cui radice è identica a quella
di "mare",
proprio in rapporto al mare: "hàla marmaréen", ossia "il mare
splendente" (Il.
XIV, 273). Ciò conferma che gli Achei sono stati in stretta
relazione con il mare
sin da epoche molto remote, come d'altronde ci attestano oltre
ogni dubbio sia la
spiccatissima vocazione marinara dei loro discendenti micenei,
che certo non poteva
essere di origine recente, sia gli stessi contenuti dei poemi
omerici.

E proprio questi ultimi argomenti ci danno lo spunto per


introdurre i temi
dell'ultima parte di questo lavoro. Infatti, dopo aver concluso
la nostra ricognizione
"a tutto campo" del mondo degli Achei, adesso ci dedicheremo
alla
ricerca di alcuni luoghi della geografìa mitica, situati al di
fuori dell'area baltica,
che già al tempo di Omero si trovavano relegati in una
dimensione leggendaria
o, comunque, estranea alla vita quotidiana di quelle antiche
popolazioni.
Sono questioni che, oltre ad inserirsi molto bene nel quadro
generale già
tracciato, ci forniranno anche alcuni indizi particolarmente
interessanti sul passato
degli Achei baltici e sulla loro provenienza, riportandoci, in
taluni casi, addirittura
verso le più antiche radici del mondo indoeuropeo. Però ora,
prima di
chiudere il capitolo, dobbiamo riprendere la questione che poco
fa avevamo lasciato
in sospeso: ci riferiamo alla struttura dello scudo di Achille,
fondamentale
per poter ricostruire l'effettiva dislocazione delle
decorazioni che lo adornavano.
Ecco
allora la soluzione del problema che toglieva il sonno
all'alessandrino
Aristarco, inducendolo a dubitare dell'autenticità di alcuni
versi dell'Iliade: dall'insieme delle indicazioni esaminate
poco fa, i soci del Mensa avranno
subito dedotto che lo scudo era costituito da cinque strati
sovrapposti, ossia
cinque piastre circolari metalliche, ovviamente concentriche,
però tutte di
diametri diversi, cioè gradualmente crescenti; le prime due,
quelle centrali, di
bronzo, più piccole ma più resistenti, dovevano soprattutto
parare i colpi; le altre
tre, più
esterne, una d'oro e due di stagno - metalli che per la loro
malleabilità si prestano ad essere lavorati in lamine molto
sottili, alleggerendo così la
struttura - costituivano l'"orlo lucido, triplice,
scintillante" ed avevano funzioni
ornamentali, oltre che di difesa ausiliaria (lo strato d'oro
para la botta
della lancia di Enea, già attutita da quelli di bronzo);
ovviamente, le decorazioni
ricoprivano tutto il primo strato nonché le corone circolari
esterne degli altri
quattro.
Questo scudo, che visto di fronte pertanto assomigliava ad un
bersaglio
circolare suddiviso in cinque settori concentrici, era "grande
e pesante" ("mega
te stibaròn te"; Il. XVIII, 478), a causa dei cinque strati di
metallo. A scopo
puramente orientativo, abbiamo provato a calcolare il peso di
un ipotetico
manufatto costituito da cinque dischi sovrapposti, assumendo
diametri rispettivamente
di 40, 60, 80, 100, 120 cm, con spessori di 2 mm per le lamiere
in bronzo e di 0,5 mm per le altre; è infatti ragionevole che i
due strati di
bronzo, dovendo assolvere alla funzione difensiva vera e
propria, fossero più spessi, mentre quelli d'oro e di stagno,
di diametro maggiore (il "triplice orlo"),
dovevano essere di spessore minimo per contenere il peso entro
limiti accettabili
(l'oro in particolare ha un peso specifico elevatissimo, quasi
venti
volte quello dell'acqua). Premesso che un calcolo del genere,
basato su misure
necessariamente arbitrarie, non può fornire null'altro che un
mero ordine di
grandezza, un tale oggetto avrebbe all'incirca un peso di 20
kg, indubbiamente
rilevante, però non insostenibile per un campione nel pieno
della vigoria
fìsica e ben allenato; d'altronde gli eroi omerici di norma non
tenevano
lo scudo con l'avambraccio, cioè nel modo usuale delle civiltà
mediterranee
e mediorientali, ma lo reggevano sulla spalla sinistra (Il.
XVI, 106) mediante
un'apposita "tracolla" ("telamòna", Il. XVIII, 480). Notiamo
che l'uso dello
scudo a spalla, denominato "da arciere"254 perché lasciando le
mani libere
consente di tirare con l'arco, è stato riscontrato presso certe
popolazioni primitive
dell'Africa e dell'Indonesia, il che ben s'inquadra
nell'acclarata arcaicità
del mondo omerico.

254 Treccani, voce "scudo"

Per inciso, le perplessità manifestate dagli antichi Greci


riguardo alla
struttura dello scudo di Achille - del resto analoghe a quelle
su Dulichio, su Faro
e sulla battaglia con due mezzogiorni, nonché ai
fraintendimenti sulle "ninfe
Naiadi", sulle ecatombi, sui chermadi, sull'aspetto dei
centauri e così via
rappresentano un ulteriore indizio dell'irrimediabile
discontinuità fra il loro
mondo e quello che aveva prodotto i due poemi, separati da un
abisso temporale
di quasi un millennio, in cui per di più si erano verificati
eventi traumatici
di enorme portata, quali lo spostamento degli Achei dal Baltico
al Mediterraneo
e, alcuni secoli dopo, la caduta della civiltà micenea.
Ed ora, seguendo l'ordine con cui il poeta ci illustra le varie
decorazioni,
non è diffìcile ricostruire la loro distribuzione sui singoli
strati dello scudo,
che era certamente più adatto per le parate che per i campi di
battaglia (in effetti,
se la narrazione dell'Iliade è stata veramente ispirata da
eventi reali, è ragionevole
supporre che Achille sia sceso in campo col suo scudo da
parata,
costruito più per ostentare ricchezza e potere che per le
esigenze di un vero
combattimento, in quanto quello di battaglia, che lui stesso
aveva dato a Patroclo
insieme con il resto dell'armatura allorché lo aveva mandato a
combattere
in sua vece alla testa dei Mirmidoni, era rimasto nelle mani di
Ettore). Sul
primo strato, quello centrale, in bronzo, erano dunque
effigiati la terra, il cielo
e gli astri; sul secondo, pure in bronzo (o meglio, sul suo
bordo esterno, cioè sulla corona circolare che sporgeva dalla
piastra centrale), erano rappresentate
due città, una in pace e l'altra in guerra; sul terzo, quello
d'oro, dedicato al
lavoro, si trovavano alcuni quadretti ispirati all'agricoltura
e all'allevamento
del bestiame: che essi fossero proprio sullo strato aureo, lo
conferma il poeta
stesso, allorché precisa che la terra arata era d'oro
("chryseìe per eoùsa"; Il.
XVIII, 549); sul quarto, di stagno, era raffigurata una
bellissima danza di "ragazzi
e ragazze molto ambite, infine sul quinto, anch'esso in
stagno, Efesto "incise la gran possanza del fiume Oceano,/
lungo l'orlo estremo ("àntyga par pymàten") del solido scudo"
(XVIII, 606-607).
Quest'ultimo verso comprova che nel passare in rassegna le
decorazioni
il poeta è effettivamente risalito dal primo al quinto strato,
ossia dal centro verso
l'esterno; nel contempo, ci dà la conferma che la ricostruzione
della struttura
dello scudo, così come l'abbiamo qui prospettata, è sicuramente
corretta
(notiamo che il vocabolo "àntyga", "orlo", viene usato sia
nell'espressione "l'orlo triplice", cioè l'insieme delle tre
corone circolari esterne, quella d'oro
e le due di stagno, sia per indicare l'ultima delle tre corone
stesse, cioè "l'orlo estremo" del manufatto).
Il mondo, la pace e la guerra, il lavoro, la danza (oggi magari
diremmo "il
tempo libero"), il fiume Oceano che tutto circonda: le
decorazioni dello scudo,
distribuite sui suoi cinque strati dai "sapienti pensieri" di
Efesto con somma
arte ed intelligenza, ci danno una sorta di "spaccato", di
inestimabile valore,
sulla vita e sulle concezioni dei primitivi Achei, cioè, in una
parola, sul loro
mondo originario. E forse non è casuale che le attività
produttive, quelle
che elargiscono agli uomini la ricchezza, Omero le abbia
collocate nel cerchio
d'oro, il più prezioso di tutti.
In ogni caso, questo ci sembra essere il più degno suggello
alla ricostruzione
del perduto mondo degli Achei.
Quarta parte

ACHEI E INDOEUROPEI
XVI. L'OLIMPO, LA PIERIA E LA LUNA DI HERMES

"Se ne andò, Atena occhio azzurro,/ verso l'Olimpo, dov'è,


dicono, la sede
sempre serena dei numi:/ non da venti è squassata, mai dalla
pioggia/ è bagnata,
non cade la neve, ma l'etere sempre/ si stende privo di nubi,
candida
scorre la luce:/ là il giorno intero godono i numi beati" (Od.
VI, 41-46). Da questo
passo dell'Odissea sì ricava la sensazione che l'Olimpo si
trovi in una località
"fuori dal mondo", quasi del tutto idealizzata, dunque
presumibilmente
lontanissima dalla zona "itacese": lo conferma il fatto che nel
poema di Ulisse
viene menzionato appena in una ventina di occasioni, mentre
nell'Iliade è ricordato assai più spesso, quasi novanta volte.
Dovremo dunque aspettarci
una collocazione relativamente più vicina all'area baltica
settentrionale.
Riguardo alla sua morfologia, dall'analisi dei vari passi in
cui viene citato
emerge chiaramente che non si tratta di una montagna singola:
una formula
che nell'Iliade ricorre più volte, costituita da un unico
verso, suona "sulla
vetta più alta dell'Olimpo dalle molte cime" ("polydeiràdos",
Il. I,499; V, 754;
VIII, 3), mentre altrove esso risulta "grande", "fulgido",
"innevato", "dalle
molte valli". Insomma, come nel caso dell'Ida, Omero con il
termine "Olimpo"
sembra voler indicare non una cima isolata, bensì tutto un
territorio alquanto
accidentato. Peraltro, a differenza dell'Ida, la cui altura
principale era
il Gargara, l'Iliade non riporta mai i nomi delle sue singole
vette; invece un
passo dell'Odissea ci suggerisce che la cima più alta si
chiamasse proprio
Olimpo, come vedremo tra poco.
Per orientarsi e cercare di dare contorni un po' meno vaghi
all'ubicazione
di questo Olimpo omerico, conviene ora porre l'attenzione su
due passi i
quali alludono, sia pure genericamente, ad una sorta di
itinerario che dalla sede
degli dèi conduce al mondo degli uomini: l'Iliade narra che Era
dall'Olimpo
scese nella Pieria e nell"'amabile Emazia", da qui puntò sulla
Tracia e poi
"dall'Athos si buttò verso l'ondoso mare,/ e giunse a Lemno"
(Il. XIV, 229-230); l'Odissea a sua volta racconta che Hermes,
su ordine di Zeus, partì dall'Olimpo
e si diresse verso l'isola Ogigia: "Sulla Pieria balzato,
piombò dal cielo
sul mare" (Od. V, 50).
Entrambi i passi indicano la "Pieria" ("Pierie" o "Pereìe")
come prima
tappa di una sequenza geografica che parte dall'Olimpo: ed è
proprio questa la
chiave per individuarlo. La Pieria infatti era legata al popolo
dei Perebi, di stirpe
achea, penultimi nella scansione del Catalogo delle navi (Il.
II, 749), che a
suo tempo avevamo localizzato nella parte più settentrionale
del versante finlandese
del golfo di Botnia (quest'ultimo in lingua finnica è indicato
col nome
di "Perämeri": "perä" significa "indietro" e, curiosamente, ciò
collima col fatto
che l'antica
Pieria era situata in posizione arretrata rispetto al mar
Baltico; sarebbe altresì suggestivo ipotizzare una relazione
tra il finnico "perä" e le particelle
locative greche "para" e "perì"). Ce lo conferma un passo
dell'Iliade in
cui la Pieria viene correlata direttamente con Fere, la città
di Eumelo: "Le cavalle
migliori erano quelle del Feretidel e le guidava Eumelo (...)/
le allevò nella Pieria Apollo arco d'argento" (Il. II, 763-764;
766). Osservando che Fere
nel Catalogo (II, 711-712) risulta vicina a Iolco, cioè
l'attuale Jolkka- nel
contempo "Feri" è l'altro nome dei Centauri, i quali pure
abitavano nella stessa
area-ne deduciamo che la Pieria doveva essere ubicata nella
Finlandia settentrionale: è qui dunque che dobbiamo
indirizzarci per localizzare la regione
dell'Olimpo (d'altronde la stessa presenza di Apollo nella
Pieria costituisce un
indizio della sua vicinanza alla sede degli dèi olimpici).
Torniamo ai Perebi: il Catalogo ci dice che costoro risiedevano
nei pressi
del fiume Titaresio (Il. II, 751), emissario dello Stige,
"l'acqua tremenda del
giuramento" degli dèi (II, 755): anche questo è un indizio
della prossimità con
questi ultimi. Più avanti verificheremo la corrispondenza tra
"l'acqua di Stige"
e il complesso formato dai laghi Kitka e Livojärvi, nella
Finlandia settentrionale,
situato circa a metà strada fra l'estremità del Golfo di Botnia
e la costa
del Mar Bianco: in tale ambito, il Titaresio omerico coincide
con il fiume Livojoki,
emissario del Livojärvi. Inoltre nei pressi di una città dei
Perebi, la
"tempestosa Dodona" (II. II, 750), secondo l'Iliade vivevano i
"Selli", interpreti
di Zeus (XVI, 234): sembra ragionevole collegare il loro nome a
quello dell'attuale
Salla, località situata sempre nella stessa zona, poco a nord
del Kitka.
Così pure, il nome della città di Perälä potremmo forse
accostarlo sia ai Perebi
che alla Pieria, la regione contigua all'Olimpo omerico.
Esaminiamo adesso un passo dell'Odissea che ci racconta un
mito, presumibilmente
antichissimo, riguardante l'assalto portato alla sede degli dèi
da
due giganti, Oto ed Efialte, i quali "minacciavano anche gli
Eterni, che sull'Olimpo/
avrebbero fatto mischia di impetuosa guerra./ E l'Ossa sopra
l'Olimpo
vollero porre, e sull'Ossa/ il Pelio sussurro di fronde, per
giungere al cielo"
(Od. XI, 313-316: è questo il passo dove l'Olimpo appare come
una vetta
singola). A tale racconto il Graves accosta un mito hurrita,
nel quale due fratelli
divini attaccano il monte Hazzi255, quasi omonimo dell'Ossa.
Ora, il Pelio,
ossia il monte dei Centauri, come abbiamo visto in un capitolo
precedente
corrisponde al monte Paljakka, nella Finlandia settentrionale;
inoltre, poco
più a nord-est, sempre nella zona che poco fa abbiamo
identificato con la Pieria, quasi al confine con la Russia
troviamo un toponimo "Hossa", che riecheggia
sia il nome dell'"Ossa" omerico, sia quello dell'"Hazzi"
hurrita.

255 Graves, I miti greci, 36.4


Insomma, tutto un insieme di dati congruenti e convergenti ci
consente ormai
di individuare univocamente la zona dell'Olimpo "dalle molte
cime": essa
corrisponde ad un territorio montuoso situato fra la Lapponia e
la Carelia,
nei pressi del confine russo-finlandese (Tav. XI). Più a nord-
ovest, il Pyhätunturi
(il "Monte Santo") e il Pyhäjoki (il "Fiume Santo") confermano
la "sacralità"
di tale area, dove il nome del Pallastunturi ("Monte Pallas")
ci tramanda
esattamente, senza nemmeno la normale erosione dovuta al tempo,
l'appellativo
più importante di Atena, Pallàs, la divinità nazionale degli
Achei. Curiosamente, nell'Inno omerico a Hermes, "Pallas" (v.
100) è il nome attribuito al
padre della Luna, la quale in questa composizione - in parte
ambientata proprio
nella Pieria - gioca un ruolo astronomicamente anomalo,
spiegabile soltanto in
un contesto artico, a un'altissima latitudine. Notiamo che,
come ipotizzato all'inizio,
se qui siamo lontani dal contesto dell'Iliade, lo siamo assai
di più dal
mondo di Itaca.
E, proprio nella regione testé individuata, scopriamo che il
nome della
mitica sede degli dèi, in greco "Oùlympos", si è mantenuto
pressoché intatto
fino ad oggi: infatti, verso il confine con la Russia, quasi
alla latitudine del
Circolo polare, scorre l'Oulankajoki - il "fiume Oulanka" - in
una zona montagnosa
in cui ritroviamo le località di Oulanka e, ancora, di Perälä e
Paljakka,
omonime ma non coincidenti con quelle già menzionate (una parte
dell'area è protetta da un grande parco nazionale, l'Oulangan
Kansallispuisto). Riguardo
al rapporto fra "Oùlympos" e "Oulanka", osserviamo che
l'oscillazione tra P e K nei dialetti greci ricorre di
frequente: ad esempio tra "poù" e "koù" ("dove"),
o tra "potè" e "kòte" ("quando"); per inciso, tale fenomeno si
verifica anche
nel passaggio tra l'italiano e il siciliano, in cui vocaboli
come "più", "piombo"
e "piazza" vengono pronunciati "kiù", "kiùmmu" e "kiàzza".
A questo punto l'itinerario seguito da Era per recarsi
dall'Olimpo a Lemno,
passando per la Pieria, l'Emazia e la Tracia, si ricostruisce
facilmente: esso
parte dall'area dell'Oulankajoki, scende attraverso la Lapponia
(la "Pieria"),
costeggia da nord a sud il versante occidentale del Golfo di
Botnia (l'"Emazia"
e la "Tracia"), indi taglia per il mare e giunge a Lemland. Ciò
conferma l'ubicazione
"svedese" della Tracia omerica (in cui l'Edda di Snorri colloca
il dio
Thor) proprio dove l'avevamo già localizzata in precedenza,
cioè lungo la costa
sud-occidentale del Golfo di Botnia e nel suo entroterra;
inoltre ci consente
di localizzare anche l'Emazia (Il. XIV, 226), che nel contesto
mediterraneo sarebbe
stata poi identificata con una parte della Macedonia: essa nel
mondo di
Omero doveva corrispondere alla pianura alluvionale costiera
che orla il versante
nord-occidentale del Golfo stesso (e proprio in tale area un
fiume svedese,
l'Urne, forse tuttora ricorda il nome dell"'amabile Emazia").
L'Olimpo dunque si trovava ben lontano dagli insediamenti achei
attorno
al Baltico: la sede degli antichi dèi era alquanto distaccata
dal mondo degli
uomini comuni, molto più a settentrione (ma un preciso punto di
contatto è costituito dalla localizzazione dei Perebi).
Tuttavia, anche in questo caso, nell'area
che abbiamo individuato si è andato delineando un quadro
geografico
ricco ed articolato, oltre che estremamente coerente con quanto
tramandatoci
dalla mitologia greca.
Si potrebbe a questo punto congetturare che in un'epoca
precedente, allorché
l"'optimum climatico" era nel pieno del suo rigoglio, nel nord
della
Scandinavia fosse fiorita una civiltà di cui quei popoli
baltici conservavano
ancora la memoria (anche i Feaci, secondo l'Odissea,
provenivano da una terra
contigua a quella degli dèi). Che tutto ciò si riallacci al
ricordo, attestato in
molte tradizioni dei popoli indoeuropei, di un'originaria
civiltà polare o iperborea?
In tale ottica si potrebbe forse interpretare il fatto che in
più occasioni
Omero menziona cose o persone che hanno due nomi, uno
attribuito loro dagli
uomini, l'altro dagli dèi: abbiamo già visto che la collina
situata davanti a
Troia "gli uomini la chiamano Batiea ("Spinosa")/ e gli
immortali il segno della
Mirina che spunta qua e là" (Il. II, 813-814); ma troviamo
anche "l'uccello
canoro che nelle selve/ Càlcide chiaman gli dèi, e gli uomini
Ciminde" (Il.
XIV, 290-291) e "il Centìmano/ che i numi dicon Briareo, ma gli
uomini tutti/ Egeone" (Il. I, 402-404); il caso più noto è poi
quello del "gran fiume dai
gorghi profondi,/ che i numi chiamano Xanto e gli uomini
Scamandro" (XX,
73-74).
Notiamo che sono tutti esempi tratti dall'Ilìade, perché il
poeta dell'Odissea ignora la questione, a meno di non volervi
trovare un accenno nel passo
in cui afferma che un'erba particolare (quella con cui Ulisse
neutralizza gli
incantesimi di Circe) "gli dèi la chiamano möly" (Od. X, 405):
ora, il fatto che
tale nome lo ritroviamo quasi identico in un vocabolo della
lingua sanscrita
("mula") ci dà un indizio sul genere di lingua che gli antichi
"dèi" presumibilmente
parlavano; va altresì sottolineata la circostanza che il
termine "mòly"
viene introdotto nel corso di un'avventura ambientata in un
contesto estremamente
settentrionale, con il sole di mezzanotte e le albe rotanti.
D'altronde sono
stati proprio questi fenomeni, riscontrabili anche negli inni
vedici - ecco il
rapporto con il sanscrito - che hanno consentito al Tilak di
sviluppare la sua affascinante
teoria sull'origine artica degli Arii (ricordiamo anche le
corrispondenze
tra i "signori dei venti" omerico e indù, Eolo e Vayu, nonché
quelle tra
i rispettivi dèi del mare, Poseidone e Visnu).
In aggiunta, ma non necessariamente in alternativa, si potrebbe
ipotizzare
che la "lingua degli dèi" facesse riferimento ad un antico
formulario tradizionale,
forse comprendente inni di carattere magico-religioso: è
d'altronde
difficile credere che opere elaborate e complesse come i poemi
omerici siano
improvvisamente apparse in un deserto poetico e culturale. E
invece ragionevole
supporre che esse rappresentino l'apice di una produzione
poetica sviluppatasi in un lungo arco di tempo e poi perdutasi
dopo la migrazione dal
nord e, successivamente, in seguito al tracollo del mondo
miceneo (osserviamo
che, se si segue l'ipotesi che i due poemi siano stati
concepiti nel mondo
greco attorno all'VIII secolo a.C, come attualmente si ritiene,
la totale scomparsa
del loro background letterario risulta difficilmente
spiegabile; essa invece
va ad integrarsi perfettamente nel quadro delineato dalla
presente tesi). Di
tale produzione sono forse rimaste alcune tracce nei cosiddetti
Inni omerici, come
vedremo meglio tra poco, e nella più antica letteratura
indiana; inoltre, essa
sta presumibilmente alla base, direttamente o indirettamente,
dell'immenso corpus mitologico da cui hanno tratto ispirazione
tutti gli scrittori del mondo
greco, da Esiodo in poi.
In ogni caso, che tale ipotetica civiltà primordiale - la cui
fioritura nell'estremo nord sarebbe stata resa possibile grazie
all'eccezionale congiuntura
climatica, protrattasi dal VI millennio a.C. fino all'inizio
del II, che fece sparire
le tundre da tutto il territorio europeo, rendendolo abitabile
anche alle latitudini
più alte - abbia forse raggiunto un certo livello di sviluppo
sembrerebbe
arguirsi dalla descrizione della singolarissima fucina
"automatizzata" di
Efesto, ubicata proprio sul monte Olimpo: "...Tornò verso i
mantici:/ al fuoco
li rivoltò, li invitò a lavorare:/ e i mantici, tutti e venti,
soffiarono sulle fornaci,/
mandando fuori soffi gagliardi e variati/ a volte buoni a
servirlo con fretta,
a volte il contrario,/ come Efesto voleva e procedeva il
lavoro" (Il. XVIII,
468-473). Ed anche i manufatti che il dio fabbro aveva in
lavorazione erano caratterizzati
da un funzionamento "automatico" quanto meno sorprendente:
"Venti tripodi in una volta faceva,/ da collocare intorno alle
pareti della sala ben
costruita;/ ruote d'oro poneva sotto ciascun piedistallo,/
perché da soli entrassero ("autòmatoi dysaìato") nell'assemblea
divina,/ poi a casa tornassero ("pròs dòma neoìato"),
meraviglia a vedersi" (Il. XVIII, 373-377). Ma ancora
più sbalorditiva è la descrizione dei "robot" che operavano nel
suo laboratorio:
"Due ancelle/ d'oro, simili a fanciulle vive:/ avevano mente
nel petto ("nòos
metà phresìn") e avevano voce/ e forza" (Il. XVIII, 417-420).
Il tutto appare ancora più rimarchevole se lo mettiamo a
confronto con il
tono di asciutto e vivido realismo, quasi da sceneggiatura
cinematografica, che
caratterizza l'atteggiamento di Efesto nella sua officina:
"Pose i mantici fuori
dal fuoco, e tutti gli attrezzi/ con cui lavorava raccolse
nella cassa d'argento;/
con una spugna si asciugò il viso e le mani/ e il collo robusto
e il petto peloso,/
vestì la tunica, prese il suo grosso bastone e venne fuori/
zoppicando" (Il.
XVIII, 412-417).
Può a questo punto risultare assai suggestivo il parallelismo
con Ilmarinen,
il mitico "fabbro eterno" del Kalevala, il quale abita
anch'egli nella Carelia
(runo XXXI) e si forgia una moglie d'oro e d'argento (runo
XXXVII), del
tutto simile alle fantastiche creazioni del suo "collega"
greco. Non è però il
caso di scatenare l'immaginazione con ipotesi da fantascienza:
di automi capaci
di notevoli performances già si parlava nell'antichità
classica, e più recentemente
nel Sei-Settecento, dunque prima che iniziasse la rivoluzione
industriale
- ingegnosi costruttori hanno realizzato autentici capolavori
di meccanica,
storicamente ben documentati e talora arrivati sino ai nostri
giorni.
Per inciso, è anche vero che la scoperta - o, meglio, la
riscoperta - di un
importante concetto della scienza moderna la si deve proprio al
poeta dell'Iliade. Ci riferiamo al superamento dell'idea di
"generazione spontanea" in biologia:
infatti, ancora nel XVII secolo si riteneva che i vermi della
putrefazione
si producessero spontaneamente, fin quando, nel 1668, il medico
e poeta aretino
Francesco Redi non pubblicò l'opera Esperienze intorno alla
generazione
degli insetti, in cui riportava l'esito di esperimenti da cui
si evinceva che il
fenomeno dell'imputridimento in realtà è prodotto da uova
deposte dalle mosche:
esso insomma è l'effetto della presenza dei vermi e non
viceversa. Ora,
come ci ha segnalato il prof. Giuseppe Sermonti, fu lo stesso
Redi ad ammettere
che la prima idea della sua scoperta gli era stata suggerita da
un passo del
XIX libro dell'Iliade, in cui Achille si preoccupa che le
mosche provochino la
decomposizione del corpo di Patroclo: "Ho paura che nel forte
figlio di Menezio/
entrino mosche per le piaghe aperte dal bronzo/ e facciano
entrare vermi,
sfigurino il corpo,/ marcisca tutta la carne: la vita è stata
uccisa./ E gli rispose
allora la dea Teti dai piedi d'argento:/ Figliolo, questo non
ti preoccupi
in cuore;/ cercherò io d'allontanare la razza selvaggia,/ le
mosche, che divorano
gli uomini uccisi in guerra;/ quand'anche egli giaccia per
tutto un anno intero/
sempre avrà intatto il corpo" (Il. XIX, 24-33). Insomma, Omero
era al corrente
di una verità scientifica che gli uomini avrebbero riscoperto
dopo millenni.
D'altronde, questo può essere correlato proprio con la
localizzazione
nordica, dove il fenomeno della putrefazione si verifica solo
in estate (mentre
nel mite clima mediterraneo avviene per tutto l'anno): ecco
perché gli Achei
erano riusciti ad intuirne la genesi.
Riguardo ancora al tema delle conoscenze scientifiche
nell'antichità, aggiungiamo
che Platone, nel IV secolo a.C, dimostra di conoscere
l'esistenza
degli spermatozoi, da lui definiti "viventi invisibili per la
loro piccolezza" ("aerata
hypò smikròtetos", Timeo, 91 d) venti secoli prima della loro
scoperta (avvenuta
nel 1677 grazie al microscopio); e, ciò che appare ancora più
singolare,
sempre Platone, allorché nello stesso dialogo introduce la sua
concezione
"geometrica" dell'universo, sembra prefigurare addirittura
l'idea di spaziotempo,
introdotta soltanto nel XX secolo dalla teoria della
Relatività: "Il tempo
è nato con il cielo ("chrònos d'oùn met'ouranoù gégonen")
cosicché, nati
insieme, si dissolveranno insieme, se mai debbano dissolversi"
(Timeo 38b).
Che alla radice dell'intuizione di Einstein vi sia stata anche
la lettura di questo
passo? In ogni caso queste parole del filosofo ateniese, se non
sono il
riflesso di conoscenze più antiche, rappresentano una delle più
sfolgoranti intuizioni
nella storia del sapere umano.
Tornando a Omero, è ancora l'Iliade a darci lo spunto per
un'altra idea che
potrebbe essere interessante per la scienza. Ci riferiamo
alfarco purpureo" che
potrebbe alludere al fenomeno dell'aurora boreale, e che è
considerato "segno
di guerra o di gelido inverno" (Il. XVII, 548-549). Sembrerebbe
pertanto che
il poeta sia al corrente di un rapporto diretto tra l'aurora
boreale ed il manifestarsi
di quest'ultimo. Ma attraverso quale meccanismo? Noi sappiamo
che le
aurore sono prodotte dal vento solare, cioè un flusso di
particelle cariche, emesse
dal sole, che interagiscono con il campo magnetico terrestre e
la cui intensità
dipende dall'attività dell'astro. Gli studiosi dovrebbero
verificare se il vento
solare, oltre a produrre le aurore, sia anche in grado di
modificare il chimismo
dell'alta atmosfera e di conseguenza interferire sull'effetto
serra, che regola
la temperatura (l'atmosfera è paragonabile ad una coperta che
avvolge e
riscalda la terra, più o meno "pesante" a seconda della sua
composizione). Un
altro effetto concomitante potrebbe essere causato dal fatto
che un aumento
dell'attività solare tende a provocare un aumento delle
macchie, le quali sono
"punti freddi" sulla superficie dell'astro: ciò potrebbe
contribuire ulteriormente
a ridurre, sia pure di poco, la temperatura del nostro pianeta.
Insomma, l'attività
solare potrebbe avere un ruolo diretto nelle glaciazioni. Per
di più è noto
che il vento solare tende a influenzare l'umore e il
comportamento delle persone,
mentre un "gelido inverno" può rovinare i raccolti e provocare
carestie
e migrazioni (abbiamo visto che Saxo Grammaticus attribuisce la
migrazione
dei Longobardi proprio ad un fatto del genere): ecco come si
arriva al rapporto,
suggerito da Omero, tra le aurore e la guerra.
Se Ylliade ci riserva simili sorprese, possiamo forse iniziare
a guardare
con altri occhi anche un'enigmatica frase che l'Odissea
attribuisce al re dei
Feaci (rivolto ad Ulisse): "Dimmi la terra, il popolo tuo, la
città,/ perché ti ci
portino le navi guidate dal pensiero ("tityskòmenai phresì");/
infatti i Feaci
non hanno nocchieri/ né vi sono timoni quali ne hanno le altre
navi,/ ma sanno
da sole i pensieri e gli intendimenti degli uomini/ e sanno le
città e i pingui
campi di tutti/ gli umani, e l'abisso del mare velocissime
passano/ di nebbia e
nube avvolte: mai hanno paura/ di subir danno o d'andare
perdute" (Od. VIII,
555-563). Qui si potrebbe facilmente argomentare che siamo nel
campo della
favola (o del mito: concetti vagamente simili si ritrovano in
qualche leggenda
celtica); però non ce la sentiamo di escludere del tutto
un'altra spiegazione, basata
sul fatto che i versi sopra riportati, sfrondati dalle
amplificazioni poetiche,
sembrano accennare a una sorta di "pensiero" che indica la
rotta e pilota le navi
nella nebbia. Ora, il vocabolo "phresì", tradotto come
"pensiero", ha in realtà
un significato complesso, che include i concetti di "cuore" e
"diaframma" (la
sua radice si può accostare al termine sanscrito
"bhurati", che significa "muoversi"256). Ciò sembra suggerire
l'idea di qualcosa di "vitale" o di "animato".
Si potrebbe a questo punto supporre che ad ispirare il poeta
possa essere stato
un qualche strumento simile alla bussola: soltanto navi guidate
dal magico oggetto
- tale infatti ad una mentalità arcaica doveva apparire la
proprietà di una
barretta magnetizzata di rivolgersi costantemente verso il nord
- avrebbero potuto
permettersi, senza timore "d'andare perdute" ("apolésthai"), di
operare in
condizioni di visibilità scarsissima, o addirittura nulla, come
ci suggerisce l'espressione
"di nebbia e nube avvolte" ("eéri kaì nephélei kekalymménai"),
che, per inciso, ritroviamo tal quale (Od. XI, 15) riferita al
mondo dei Cimmeri,
là dove uuna notte tremenda ("nyx oloé") grava sui mortali
infelici" (Od. XI,
19).

256 Voc. Rocci, voce "phrén"

In modo ancora più sfumato ed ellittico, forse allo stesso


concetto si ispira
il poeta (al quale in questo caso non si può certo richiedere
una nozione precisa
di ciò di cui sta parlando) allorché, sempre riguardo ai Feaci,
afferma che
"dell'agili, rapide navi loro fidandosi/ l'abisso immenso
traversano (...)/ le loro
navi son rapide come l'ala e il pensiero" ("nòema"; Od. VII,
34-36). A questo
punto - ricordando che fino ad un'epoca di poco precedente ai
tempi omerici
vi erano state condizioni climatiche eccezionalmente favorevoli
per la navigazione,
e che i Cinesi sin da tempi remoti conoscevano le proprietà
dell'ago
magnetico - potremmo azzardarci a congetturare che i Feaci
riuscissero ad
attraversare l"'immenso abisso" dell'Oceano avvalendosi di un
primitivo tipo
di bussola, su cui naturalmente mantenevano il segreto.
Tornando adesso all'Olimpo, si può ragionevolmente supporre che
una tale
civiltà, progenitrice delle culture indoeuropee, sia in seguito
decaduta, forse
a causa dell'incrudirsi del clima susseguente al progressivo
degrado
dell"'optimum climatico", e, scendendo dalla primitiva sede
artica ormai diventata
inabitabile, abbia dato luogo a culture più meridionali, quelle
cantate
da Omero, stanziate lungo le sponde del Baltico: qui esse
avrebbero continuato
a tramandarsi il ricordo, inevitabilmente idealizzato, della
paradisiaca terra
degli antenati, la quale, tramontata la mitica età di Crono,
soppiantato da Zeus,
era stata trasformata dal gelo nella sinistra sede dei morti,
sotto la cupa signoria
di Ade (che tra poco ritroveremo nell'estremo Nord) con la sua
"ombra
nebbiosa" ("zòphon eeròenta", Il. XV, 191). Successivamente le
stirpi achee,
dopo il definitivo tracollo dell'optimum", sarebbero
trasmigrate ancora più a
sud, nel tiepido bacino dell'Egeo, dove avrebbero dato inizio
alla cultura micenea
sul suolo greco e, nel contempo, alla grande avventura della
civiltà occidentale,
senza però perdere mai del tutto la memoria degli antichi dèi e
delle
loro origini "iperboree".
Ciò d'altronde collima con le intuizioni di alcuni scrittori
dell'Ottocento
- a cui peraltro mancavano le attuali conoscenze
sull'evoluzione del clima - anche
precedenti alle ricerche del Tilak: ad esempio lo Schüre,
all'inizio del suo
famoso Igrandi iniziati, nel suo inconfondibile stile scrive
che "i ghiacci del
polo artico hanno visto spuntare la razza bianca: sono i popoli
iperborei di cui
parla la mitologia greca, uomini dai capelli rossi e dagli
occhi azzurri, discesi
dal nord attraverso le foreste illuminate dai bagliori
boreali...".

Una suggestiva traccia di un'originaria provenienza degli Achei


da latitudini
molto settentrionali - e, allo stesso tempo, una conferma della
localizzazione
della Pieria nell'area della Lapponia - la ritroviamo in uno
degli Inni
Omerici (una raccolta di carmi, di diversa origine e
provenienza, che la tradizione
attribuiva addirittura a Omero), dedicato a Hermes. Vi si
racconta la nascita
del dio nell'oscurità di una grotta e la sua prima impresa
notturna: nel
quarto giorno del mese lunare, sul finire della notte, il
neonato si reca nella Pieria e ruba cinquanta vacche della
mandria di Apollo, sotto la luce della luna.
Gli studiosi non hanno mancato di rilevare le "contraddizioni"
e le "impossibilità",
sotto il profilo astronomico, della narrazione: "Di sicuro, al
quarto
giorno del mese lunare, la divina Selene non brilla verso la
fine della notte;
la sua falce, molto sottile, sparisce presto dietro
l'orizzonte, e non dà che una fievole luce"257.

257 Homère, Hymnes, pag. 108

Però, se ci si sposta al di sopra del Circolo polare, le fasi


del nostro satellite
si manifestano in tutt'altro modo: supponendo di trovarci
proprio al Polo
nei giorni attorno al solstizio d'inverno, vedremmo risplendere
la luna per
quattordici giorni consecutivi. Essa infatti sorge allorché già
si trova al termine
del primo quarto, cioè piena a metà, comincia a descrivere ampi
cerchi lungo
l'orizzonte senza tramontare e, salendo lungo una traiettoria a
spirale, continua
gradualmente a crescere nella notte solstiziale fin quando, una
settimana
dopo, in corrispondenza col plenilunio, raggiunge l'altezza
massima; successivamente
inizia a decrescere e ad abbassarsi verso l'orizzonte, dietro
cui tramonta
al termine della settimana successiva (lasciamo al lettore la
soddisfazione
di ricostruire le fasi corrispondenti al solstìzio estivo, non
meno suggestive,
ma che ai fini del nostro Inno non interessano).
Il fenomeno testé descritto (per semplicità abbiamo trascurato
il movimento
della Terra attorno al sole e l'inclinazione dell'orbita lunare
sul piano
dell'eclittica) si verifica anche negli altri punti all'interno
della calotta polare,
sia pure in forma sempre più ridotta man mano che ci si
allontana dal Polo; ma
ormai - ricordando che la vicenda è ambientata nella Pieria,
cioè nel
nord della Finlandia - le apparenti anomalie astronomiche
dell'Inno a Hermes si possono
spiegare agevolmente: la luna sorta da poco in realtà brilla
nelle tenebre
della notte solstiziale, illuminando di un arcano chiarore la
scena del furto delle
vacche, sullo sfondo di un irreale paesaggio dell'Artide: "
(Hermes)... spense
la brace e coprì di sabbia la cenere nera/ nelle ultime ore
della notte: dall'alto
splendeva la bella luce di Selene" ("kalòn de phòos epélampe
Selenes"; vv.
140-141).
Ad attestare la presenza degli Achei nell'estremo Nord, in un
lontanissimo
passato, resta dunque questa straordinaria "testimonianza
fossile", ad un
tempo astronomica e poetica, miracolosamente sopravvissuta ai
millenni e alle
traversie della storia, ed in qualche modo analoga alla "notte
funesta" scesa
sulla battaglia fra Patroclo e i Troiani senza interromperla:
peraltro in questa
"notte di Hermes" entra in gioco il solstizio d'inverno invece
che quello estivo,
l'ambientazione è più settentrionale, oltre il Circolo polare,
e tutto l'insieme
sembra alludere ad un mondo ancora più arcaico di quello
dell'Iliade. Mai
come qui traspare con altrettanto nitore la dimensione nordica
- anzi, "iperborea"
- della mitologia greca.
Inoltre, ricordando il significato delle "vacche del Sole", che
furono fatali
ai compagni di Ulisse, possiamo osservare che il furto delle
cinquanta "vacche
di Apollo" da parte di Hermes, anch'esso riconducibile alla
sottrazione dei
giorni perduti durante le tenebre solstiziali, si inserisce a
meraviglia nello scenario
artico qui delineato: la notte invernale, la cui lunghezza
varia con la latitudine,
arriva ad oltre due mesi nell'estremo nord della Lapponia. Ecco
perché,
come osserva il Cassola, "nella prima parte dell'Inno la notte
sembra sempre
sul punto di finire, e non finisce mai"258.

258 Inni omerici, pag. 172

Ma anche nei personaggi dell'Inno abbiamo modo di riscontrare


chiarissime
valenze di tipo "solare": Hermes è il Sole neonato, che viene
al mondo in
una grotta oscura durante la notte solstiziale: miti analoghi a
proposito di un
bimbo sparito ("kumara"), che è poi un dio solare, Agni o
Surya, si ritrovano
anche nella mitologia indiana (e talvolta il bimbo viene
buttato in mare in una
cassa, proprio come il greco Perseo e il finnico Kullervo; ma
pensiamo anche
a Romolo o a Mosé); Apollo invece qui rappresenta il Sole
adulto; compare altresì
la figura di un "Vecchio" ("géron", v. 87), che va a completare
quella triade
su cui ci eravamo già soffermati nel capitolo dedicato a Tebe
(azzardiamo
che la sua ultima eco potrebbe essere arrivata fino a noi, dopo
molteplici trasformazioni,
nelle sembianze di Babbo Natale). Quanto alla Luna, chiamata
"Selène", il poeta afferma che essa è figlia di un enigmatico
"re"
("ànax")
chiamato Pàllas (v. 100): ora, tale nome risulta identico a
quello di una montagna della Lapponia finlandese, il
Pallastunturi. Gli altri due personaggi che
appaiono nell'Inno, Maia, la madre del bambino, e Zeus, padre
sia di Hermes
che di Apollo, probabilmente rappresentano la Madre Terra, da
cui spunta il
nuovo Sole, e il Cielo stellato. E, a questo punto, si spiega
anche la stretta relazione
- magistralmente analizzata dal Kerényi nel saggio intitolato
Hermes,
la guida delle anime259 - tra l'oscurità notturna e Hermes, che
nella nostra interpretazione
rappresenta il dio-Sole nato nelle tenebre solstiziali: da qui
il rapporto
tutto particolare che il dio "psicopompo" ha con le anime dei
defunti (ricordiamo,
nell'avventura di Ulisse nell'isola delle vacche del Sole,
un'esplicita
dichiarazione di quest'ultimo: "scenderò nell'Ade e brillerò
per i morti").

259 Kerényi, Miti e misteri, pag. 57 sgg.

In tale quadro, ricordando quanto è emerso in precedenza in


merito al
simbolismo scure-luna, possiamo cercare di interpretare anche
il fatto che alla
gara con l'arco narrata nel penultimo libro dell'Iliade siano
correlate dieci
scuri anziché dodici (Il. XXIII, 851). Al riguardo osserviamo
anzitutto che, come nell'Odissea, anche in questo caso la gara
è sotto il patrocinio del dio Apollo,
circostanza che il poeta tiene ripetutamente a sottolineare:
uno dei due concorrenti
riuscirà vincitore perché, a differenza dell'altro, "ad Apollo
arciere
promise/ di fargli una bella ecatombe di agnelli" (Il. XXIII,
872-873). Ora, il
fatto che qui le scuri, anzi le "doppie scuri" ("pelékeas") -
che ancor meglio si
prestano a simboleggiare il doppio ciclo mensile, crescente e
decrescente, della
luna (riscontrabile anche nella suddivisione in due,
"suklapaksha" e "krsnapaksha",
dei primitivi mesi indiani260) - siano soltanto dieci ci
suggerisce che
tra gli Achei baltici dell'Iliade dovesse ancora permanere il
ricordo di un primordiale
calendario, tipico delle regioni artiche, in cui il ciclo
solare, rappresentato
da Apollo, contava dieci lune all'anno, mentre gli ultimi due
mesi erano
avvolti nelle tenebre solstiziali: non a caso essi
corrispondono alle "cinquanta
vacche" sottratte allo stesso Apollo - che, significativamente,
Omero in
un passo dell'Iliade ci presenta nei panni di un sorvegliante
di buoi (XXI, 448)
- ad ulteriore conferma della sua tradizionale dimensione
"iperborea".

260 Treccani, voce "Calendario: Il calendario indiano"

D'altronde
sembra che anche il primitivo calendario romano fosse
articolato su
dieci mesi: e nel nome degli ultimi quattro, da settembre
("september") a dicembre ("december"), il ricordo
dell'antichissima numerazione, corrispondente
alle dieci scuri-lune dell'Iliade, è rimasto per così dire
"cristallizzato" fino ai
nostri giorni.
Insomma, una volta individuato il reale contesto geografico,
non solo si
risolve ogni anomalia, ma viene alla luce una costruzione
concettuale e simbolica
mirabilmente coerente, alla
base della quale sta un complesso pensiero astronomico-
teologico, esteso ben oltre l'ambito della mitologia greca, i
cui riflessi
tuttora si riverberano nella nostra stessa cultura (pensiamo al
simbolo
del dragone, la costellazione che 5000 anni fa indicava il Polo
Nord). E, infine,
non dimentichiamo che questa lettura dell'Inno a Hermes ci
rivela una
"gemma" straordinaria, forse unica nella letteratura antica:
l'immagine della luna
che risplende nella notte artica.
XVII. IL FIUME OCEANO, L'ETIOPIA ARTICA E LE CASE DI ADE

Per Omero l'Oceano è un fiume che scorre nel mare, però ben
distinto da
esso: "Ma come del fiume Oceano ("potamoìo Okeanoìo") lasciò la
corrente/
la nave, giunse all'onde del mare ampie vie/ e all'isola Eea"
(Od. XII, 1-3).
Omero parla della "grande forza" ("méga sthénos") della sua
"profonda corrente"
("bathyrreìtao", Il. XXI, 195); inoltre in entrambi i poemi lo
indica con
il singolare aggettivo "àpsorros", che a un dipresso significa
"quello che scorre
via" (Il. XVIII, 399; Od. XX, 65) e che ritroviamo anche nella
Teogonia di
Esiodo (v. 776); inoltre è un fiume che, stranamente, "scorre
senza rumore"
("analarreìtao", Il. VII, 422; Od. XIX, 434).
Osserviamo ora la carta geografica: in corrispondenza del
limite tracciato
dai due arcipelaghi delle Orcadi e delle Shetland, a nord della
Scozia, un
viaggiatore proveniente dal Mare del Nord incontra la Corrente
del Golfo, il
grande "fiume marino" le cui acque calde e azzurre si muovono
silenziosamente
verso nord-est senza mescolarsi con quelle, di color grigio,
del gelido
Atlantico.
Il "Potamòs Okeanòs", la cui "quieta corrente" "scorre via"
inesorabilmente,
"senza rumore", in direzione opposta a quella degli
insediamenti umani
conosciuti (infatti, come presto vedremo, trasporta Ulisse
verso le "case dell'Ade"),
non potrebbe forse identificarsi con la Corrente del Golfo? Ciò
appare
assolutamente ragionevole, ed in tal modo tutte le indicazioni
date da Omero
troverebbero una spiegazione logica; in particolare, finalmente
si chiarirebbe
il significato di quel passo dell'Odissea che abbiamo appena
menzionato (e
su cui non ha mancato di affannarsi, come al solito, il povero
Strabone): "Ma
come del fiume Oceano lasciò la corrente/ la nave, giunse
all'onde del mare...".
A questo punto sarebbe possibile dare un senso anche al nome di
"Okeanòs", riconducendolo all'aggettivo "kyanos", "azzurro";
infatti è proprio
questo, almeno in certe circostanze, il colore delle acque
della corrente
atlantica, la quale pertanto si differenzia, talora anche
nettamente, rispetto al
mare circostante. Il "Potamòs Okeanòs" sarebbe così il "Fiume
Azzurro": per
la Corrente del Golfo - che Benjamin Franklin, in una carta
disegnata nel 1770,
rappresentò proprio come un immane fiume scorrente tra immobili
pareti liquide
- non si potrebbe trovare definizione più appropriata.
In tale quadro, appare estremamente seducente una
corrispondenza con i Veda indiani, secondo cui nei tempi mitici
"il fiume Sarasvati scorreva nel mare"261.

261
Morretta, Miti indiani, pag. 338
Notiamo anche che un ramo della Corrente segue le coste
norvegesi fino
all'estremo nord, addentrandosi poi nel Mare Artico: da qui la
convinzione di
quegli antichi popoli che l'Oceano circondasse tutta la terra.
E la sua relazione
con i "confini del mondo" viene richiamata in modo esplicito in
un passo dell'Odissea: "Infine per te, Menelao alunno di Zeus,
non è fato/ morire e trovare
la fine in Argo che nutre cavalli,/ ma nella pianura Elisia, ai
confini del
mondo ("es peìrata gaìes")/ ti condurranno gli eterni, dov'è il
biondo Rada
manto,/ e là bellissima per i mortali è la vita:/ neve non c'è,
non c'è mai freddo
né pioggia,/ ma sempre soffi di Zefiro che spira sonoro/ manda
Oceano a
rinfrescare quegli uomini" (Od. IV, 561-568).
Così pure, l'enigmatico racconto mitologico fatto da Era a Zeus
nel XIV
canto dell'Iliade, letto nella chiave dell'identificazione con
la Corrente del
Golfo, si colora di significati: "Vado a vedere i confini della
terra feconda,/
l'Oceano, principio dei numi, e la madre Teti,/ che nelle case
loro mi nutrirono
e crebbero;/ questi vado a vedere; scioglierò loro litigio
infinito,/ perché da
lungo tempo stanno lontani/ dall'amore e dal letto, da quando
cadde l'ira nell'animo"
(XIV, 301-306). In effetti, quale modo potrebbe essere più
poetico, e
nel contempo più preciso, per indicare che le acque della
Corrente del Golfo e
quelle dell'Atlantico non si mescolano mai?
Questo passo sembrerebbe anche sottintendere che la divisione
fra Oceano
e Teti sia avvenuta in tempi remoti, prima dei quali, se ne
potrebbe dedurre,
essa non doveva sussistere e pertanto la Corrente del Golfo
ancora non c'era:
a tale proposito segnaliamo il fatto che, secondo certe teorie
oceanografiche
attuali, durante le ere glaciali il flusso delle correnti calde
dai Tropici verso
i mari polari si interromperebbe. Al momento è comunque
impossibile arrivare
a conclusioni certe su tali questioni: ma ci sembra già
abbastanza l'aver
trovato nella bellezza e nella forza del mitico "Potamòs
Okeanòs", il Fiume Azzurro,
anche l'eco suggestiva della realtà.
Il termine "Oceano", non più identificato con un "fiume", ha
successivamente
assunto il significato attuale, e forse non soltanto per una
naturale estensione
del termine: nella sede mediterranea, dopo che la sua precisa
nozione
era ormai sfumata, tale nome passò ad indicare l'immenso mare
che si estende
oltre le "Colonne d'Ercole". A questo punto è ragionevole
chiedersi se i Greci del Mediterraneo abbiano coniato "ex novo"
quest'ultima espressione,
o se invece abbiano attribuito allo Stretto di Gibilterra un
appellativo che forse
gli Achei del Baltico potrebbero aver precedentemente
utilizzato, magari
per indicare un limite in corrispondenza del quale forse si
incontrava il loro
"Fiume Azzurro". Tra poco cercheremo di dare una risposta a
tale domanda.
L'identificazione del "fiume Oceano" con la Corrente del Golfo
ci dà un
indizio per tentare di far luce su un altro dei tanti misteri
della geografia omerica, su cui il solito Strabone, e altri con
lui, si sono affaticati invano: la collocazione
del popolo degli Etiopi, citati sia nell'Iliade che
nell'Odissea.
Al riguardo, osserviamo subito che per raggiungere la sua
"Etiopia" Omero
ci indica sempre la via dell'Oceano: e ciò, riferito a tempi in
cui il canale di
Suez era di là da venire, fa subito escludere qualsiasi ipotesi
di identificazione
con l'omonima regione dell'Africa orientale. Infatti
nell'Ilìade il poeta manda
Iris, la messaggera degli dèi, "alle correnti d'Oceano,/ degli
Etiopi alla terra,
dove fanno ecatombi/ ai numi" (XXIII, 205-207); e nell'Odissea,
proprio
all'inizio del poema, ci dà un'indicazione apparentemente più
precisa, ma altrettanto
sibillina: "Se n'andò Poseidone tra gli Etiopi lontani,/ gli
Etiopi che
in due si dividono, gli estremi degli uomini ("éschatoi
andrön")/ quelli del sole
che cade e quelli del sole che nasce" (I, 22-24). Sempre
nell'Odissea, il dio
Poseidone, nel ritornare dalla terra degli Etiopi, dai monti
Solimi scorge Ulisse
in navigazione davanti alla terra feacia: l'identificazione di
quest'ultima con
la costa norvegese restringe di molto il campo della ricerca,
orientandola verso
il nord della Scandinavia.
Proviamo allora a seguire il ramo più settentrionale della
Corrente del
Golfo, che dal Mar di Norvegia, seguendo il profilo della
costa, s'insinua nel
mar di Barents: doppiato Capo Nord, il "fiume Oceano" raggiunge
il capo
estremo della penisola Nordkinn, dopo la quale si apre il
Tanafjorden; più oltre,
la costa comincia a piegare verso sud. Dunque è proprio in tale
zona, nel
punto più settentrionale del continente europeo, che l'Odissea
sembra collocare
la residenza degli Etiopi omerici, "gli estremi degli uomini"
(che successivamente,
nel contesto mediterraneo, sarebbero stati ubicati oltre
l'Egitto, anche
qui all'"estremità" del mondo allora conosciuto).
Esaminiamo la penisola Nordkinn: essa in realtà è quasi
un'isola, dalla
forma all'incirca poligonale, collegata alla terraferma
soltanto da un sottile
istmo posto al centro del suo versante meridionale, a partire
dal quale si dipartono
in direzioni opposte due fiordi, chiamati Eidsfjorden e
Hopsfjorden.
Ora, sia la posizione di questi luoghi così settentrionali, sia
la loro particolarissima
conformazione geografica sembrano rispecchiare alla lettera i
versi
di Omero: se, infatti, nel pieno dell'optimum climatico" -
allorché, 5000
anni fa, anche queste plaghe estreme dell'Europa erano
abitabili - attorno all'istmo
fosse fiorito un insediamento umano (a cavallo tra i due
fiordi, orientati
rispettivamente verso ovest e verso est), di costoro si sarebbe
potuto effettivamente
dire che "in due si dividono" e che erano "gli estremi degli
uomini",
"quelli del sole che cade e quelli del sole che nasce".
Riguardo a quest'ultima
formula, oltre che un contenuto puramente geografico vi si
potrebbe
forse trovare anche un'allusione a quei culti solari,
presumibilmente di origine
artica, a cui abbiamo già accennato in
precedenza: la mitologia greca attribuisce
alla Sfinge tebana una provenienza "etiopica". Inoltre, in
questo quadro così congruente con le indicazioni dell'Odissea,
il dottor Bruni ha
notato che i nomi dei due fiordi attorno all'istmo, "Eid" e
"Hop", letti insieme
sembrano evocare il nome stesso degli Etiopi (in greco
"Aithìopes"), quasi
a rafforzare il concetto che essi erano "divisi in due"
("dichthà dedaìatai").
E nelle interminabili giornate dell'estate artica, dai due
opposti versanti dell'istmo
gli uni e gli altri vedevano risplendere il sole di
mezzanotte...
Se adesso andiamo ad esaminare il loro nome, notiamo che esso è
forse
riconducibile alla radice del verbo "aìthein" che, come abbiamo
già visto a
proposito delle probabili etimologie dei nomi "Italia" e
"Itaca", vale "bruciare",
"ardere"; dunque il vocabolo "Etiopi" potrebbe significare
"quelli della
fiamma". In tale espressione potrebbe essere contenuto un
diretto riferimento
ad un culto del fuoco, che ben si addice alla loro vocazione
solare e, nel contempo,
all'ubicazione nordica della fucina di Efesto, il dio del fuoco
per eccellenza.
Al riguardo è significativo che non solo l'Odissea, ma anche
l'Iliade attribuisca agli Etiopi rapporti particolarmente
stretti con gli dèi: "Zeus verso
l'Oceano, verso gli Etiopi senza macchia/ ieri partì, per un
banchetto; e tutti gli
dèi lo seguivano" (Il. I, 423-424): d'altronde, ciò può
ricollegarsi al fatto che
abbiamo localizzato l'area dell'Olimpo tra la Lapponia
finlandese e la Carelia,
non eccessivamente distante da questa singolare "Etiopia
artica". E nel Finnmark,
l'estrema regione settentrionale della Norvegia, i graffiti
rupestri di Alta
dimostrano l'esistenza di antichissimi insediamenti umani,
risalenti all'età
della pietra, allorché il clima era molto più mite di quello
attuale.
Infine, il nome del Tanafjorden, contiguo alla penisola
Nordkinn, si ritrova
tal quale in quello del lago Tana, la sorgente del Nilo
Azzurro, proprio nel territorio
dell'Etiopia attuale. E forse non si tratta solo di una
coincidenza: tra le
due Etiopie, quella artica di Omero e quella tropicale,
esistono relazioni inaspettate,
nonché suscettibili di sviluppi estremamente interessanti ai
fini dell'individuazione
della sede primordiale degli Indoeuropei: tra poco ce ne
occuperemo.

In
questo capitolo dedicato all'Oceano non possiamo non dedicare
qualche
parola ad una delle più celebri avventure della mitologia
greca: ci riferiamo
alla leggenda degli Argonauti, i quali, guidati da Giasone, a
bordo della nave
"Argo" si recarono nella lontana Colchide in cerca del "vello
d'oro", affrontando
le più incredibili peripezie sia nel viaggio di andata che in
quello di
ritorno, compiuti su due rotte diverse (ricordiamo che in
precedenza avevamo
localizzato la Colchide nei pressi dell'Eea, l'isola di Circe,
situata nell'arcipelago
delle Lofoten). Al riguardo, la narrazione più completa che ci
sia rimasta
è, purtroppo, di epoca tarda: si tratta delle Argonautiche del
poeta alessandrino
Apollonio Rodio, opera risalente al III secolo a.C.
Essa probabilmente trae
origine dalla trasposizione nel contesto mediterraneo di un
racconto antichissimo, addirittura precedente alla guerra di
Troia: nell'Iliade infatti viene citato
un figlio di Giasone, Euneo, signore di Lemno (VII, 468: in
tale isola sono
ambientate alcune vicende iniziali dell'equipaggio
dell'"Argo"), nonché svariati
altri personaggi tradizionalmente legati a questa avventura,
come Pelia ed
Eracle, tutti appartenenti alla generazione precedente a quella
dei protagonisti
del ciclo troiano; vi si menziona inoltre la città di lolco
(patria di Pelia e di Giasone),
che, seguendo la scansione del Catalogo delle navi, avevamo a
suo tempo
identificato con la località finlandese di Jolkka, sulla sponda
orientale del
golfo di Botnia.
Ricordando che, secondo Apollonio, gli Argonauti partirono
dall'Ellesponto,
percorsero parte del tragitto per via fluviale e poi sboccarono
nel mar
Cronio (l'Atlantico settentrionale), possiamo a questo punto
supporre che la loro
impresa rappresenti il ricordo di un antichissimo periplo della
Scandinavia,
effettuato, in senso antiorario, a partire dal Golfo di Botnia:
passando per i fiumi
ed i laghi della Lapponia essi dovettero raggiungere il Mar
Bianco, da dove
navigarono verso ovest, in direzione delle Lofoten, e infine,
dopo essere
riusciti a sfuggire al "terribile Eeta" avventurandosi per le
Rupi Erranti, discesero
lungo la costa norvegese per poi rientrare nel Baltico
attraverso lo Skagerrak.
Aggiungiamo
che Eeta, re della Colchide, e sua sorella Circe, signora della
vicina Eea, sovrani delle isole incantate dove "i raggi del
sole riposavano durante
la notte", erano figli del Sole e discendenti dell'Oceano (Od.
X, 138-139).
Inoltre, il figlio di Eeta, Apsirto - chiamato anche Fetonte,
tipico nome
solare - secondo la mitologia venne fatto a pezzi da sua
sorella Medea: qui abbiamo
una sorta di versione greca del mito di Lemminkäinen-Osiride,
che ci
conferma il rapporto tra l'isola di Eeta ed il sole di
mezzanotte (in un'altra circostanza,
la terribile ragazza getterà i pezzi di un ariete in un
calderone da cui
poi uscirà fuori un agnellino vivo, il che ricorda il mito del
Graal e ne conferma
l'originaria "solarità").
Notiamo ancora che Apollonio, in un passo in cui menziona
esplicitamente
Apollo e gli Iperborei, fa una diretta allusione alla
"amphilyke", la notte
chiara delle alte latitudini (Argonautiche, II, 671-675).
In definitiva, tutto ciò appare perfettamente congruente con il
quadro geografico
delineato dalla presente ricerca.
Prima di concludere questa breve digressione sugli Argonauti,
segnaliamo
quella che a noi sembra essere una singolarità, o piuttosto
un'anomalia,
contenuta nel testo dell'Odissea. Ci riferiamo al nome della
nave con cui Giasone
e i suoi compirono la loro impresa: "Quell'Argo che tutti
cantano" ("Argo
pasimélousa"; Od. XII, 70). L'anomalia sta nel fatto che, ad
eccezione di questo
passo, in nessun altro punto dei due poemi viene mai riportato
il nome di
una nave. Eppure nel mondo omerico di navi si parla in
continuazione:
il poeta dell'Iliade si sofferma lungamente sulle flotte della
coalizione achea, accenna
alla spedizione di Paride a Sparta e al suo ritorno con Elena,
racconta in
dettaglio la missione con cui Ulisse riporta Criseide a suo
padre, menziona la
nave di Protesilao incendiata dai Troiani; quanto all'Odissea,
vi si parla della
nave di Ulisse, di quella con cui i Feaci lo accompagnano ad
Itaca, di quella che
conduce Telemaco a Pilo, della "nave veloce" con cui il perfido
Antinoo tenta
d'intercettarlo e così via.
Ora, i cantori dei due poemi, pur diversissimi per stile e
temperamento,
hanno però in comune un'estrema analiticità, che sovente lì
porta a soffermarsi
sui più minuti particolari di ciò che raccontano: ed è proprio
questa loro caratteristica
a farci meravigliare del fatto che non menzionino mai i nomi
delle
navi di cui parlano. Ciò induce a sospettare che la nostra
inveterata consuetudine
di "battezzare" ogni nave, di ogni tipo e misura, dalla Santa
Maria al Mayflower,
dal Titanic alla corazzata Potemkin, in realtà nel mondo
omerico non
fosse affatto in uso. Questo però implicherebbe che dietro il
nome della nave
Argo possa esservi un altro madornale equivoco, del tipo di
quelli già rilevati
in precedenza. Al riguardo, partendo dalla constatazione che
"Argo" in Omero
è un toponimo con cui il poeta suole indicare sia la città di
Diomede, sia la
regione di Agamennone, sia più genericamente il Peloponneso e,
talvolta, l'intero
mondo acheo, potremmo chiederci se un antico errore di
trasmissione orale
o di trascrizione, magari in un contesto miceneo dove nel
frattempo poteva
aver preso piede il vezzo di attribuire alle navi un nome
proprio, abbia trasformato
un originale "Argei" (cioè "in Argo" o "nell'Argo", attestato
ad esempio
in Il. II, 108; VI, 224; XIV, 119; Od. IV, 174) nell'attuale
"Argo", metricamente
equivalente ma dal significato ben diverso. D'altronde il
significato
di "Argei" ben si attaglierebbe al successivo "pasimélousa",
composto da "pa-sì" ("da tutti", "fra tutti", "per tutti"), e
"mélousa" ("cantata", "decantata", "famosa").
Proviamo
allora a rileggere il verso in questione, unitamente a quello
che lo precede, dopo aver sostituito "Argo" con "Argei": "Sola
riuscì a passare
(per le Rupi Erranti) una nave marina/ cantata da tutti in
Argo, tornando
dal regno d'Eèta". In questo modo, oltre a mantenere un senso
compiuto
(forse anche più convincente rispetto alla versione
tradizionale), il
passo si allineerebbe con tutto il resto dell'opera omerica,
dove, ripetiamo,
di nomi di navi non si parla mai. È chiaro che, se così
stessero effettivamente
le cose, significherebbe che i mitografi greci sarebbero
incorsi in un
altro micidiale infortunio, coniando, a partire da quel
fantomatico "Argo",
il nome degli "Argonauti" (cioè "i navigatori dell'Argo"), mai
attestato in
Omero, per indicare l'equipaggio di una nave che in realtà non
aveva alcun
nome. In ogni caso, questa è una materia su cui l'ultima parola
tocca agli
specialisti.
Dalle imprese degli Argonauti passeremo ora ad un altro
itinerario oceanico,
anch'esso "ai confini della realtà", che a suo tempo avevamo
lasciato in
sospeso: ci riferiamo al temerario viaggio di Ulisse dall'isola
Eea "alle case dell'Ade
e della tremenda Persefone" (Od. X, 564). Per inciso, sarebbe
più corretto
tradurre il greco "Aìdao dòmous" con "case di Ade" e non
"dell'Ade": costui
infatti nei poemi omerici viene presentato sempre come un dio,
marito di
Persefone e fratello di Zeus; tuttavia per comodità
continueremo a seguire la
locuzione tradizionale. Ora, nell'Odissea questa avventura
costituisce una sorta
di intermezzo, che precede la definitiva partenza dell'Itacese
dalla dimora di
Circe verso Scilla e Cariddi; e forse qui, ancor più che
altrove, ci si aspetterebbe
un percorso calato in una dimensione fantastica, totalmente
sganciata dal mondo
reale: scopriremo invece che anche in questo caso non mancano i
riscontri
geografici (i quali oltretutto ci confermeranno la collocazione
dell'Eea nell'arcipelago
delle Lofoten).
Seguiamo dunque la nave di Ulisse che, partendo dall'isola di
Circe, procede
"lungo il fluire d'Oceano" (XI, 21) finché "ai confini arrivò
dell'Oceano
corrente profonda;/ là dei Cimmeri è il popolo e le città, di
nebbia e di nube avvolti;
mai su di loro/ il sole splendente guarda coi raggi,/ (...) ma
notte tremenda
grava sui mortali infelici" (Od. XI, 13-15; 19). Notiamo che
costoro
vengono tout court collocati dal Graves nell'estremo nord: "A
questa fredda regione
appartengono anche i Cimmeri, che a giugno possono godere del
sole a
mezzanotte, ma in inverno hanno il buio a mezzogiorno"262. Le
indicazioni
fornite da Omero sono coerenti con il percorso del ramo più
orientale della
Corrente del Golfo, che, dopo aver seguito tutta la costa
norvegese, fino alle
Lofoten e a Capo Nord, successivamente piega verso est,
addentrandosi nel
Mar Glaciale Artico: insomma l'Odissea colloca la terra dei
morti all'estremo
settentrione, cioè nella direzione del flusso della Corrente
verso plaghe deserte
e sempre più inospitali. Di qui la disperazione di Ulisse
allorché Circe gli comunica
la necessità di visitare le "case dell'Ade", prima di poter
tornare ad
Itaca: "...Mi si spezzò il caro cuore;/ piangevo seduto sul
letto e il mio cuore/
non voleva più vivere, vedere luce di sole" (Od. X, 496-498).

262 Graves, I miti greci, 170.4

Ora, è molto significativo il fatto che anche Saxo Grammaticus


collochi
in quella stessa area un mondo dei morti, dalle caratteristiche
analoghe a quello
omerico: "Gli Islandesi andavano dicendo cose incredibili sugli
enormi cumuli
di ricchezze lì ammassate, ma si raccontava che il cammino era
irto di pericoli
e quasi inaccessibile per dei mortali. Secondo quanto
affermavano gli
esperti di quella rotta, si doveva attraversare l'Oceano che
circonda la terra, lasciandosi
alle spalle sole e stelle, viaggiare nel regno del caos e
infine passare
nei luoghi esclusi dalla luce e immersi nell'oscurità perenne"
{Gesta Danorum VIII, XIV, 1). Vi è qui forse anche il ricordo
del tema classico di Plutone,
dio sia dell'Ade che delle ricchezze; ma il racconto di Saxo si
basa sulla tradizione
delle saghe islandesi, le quali collocavano quel luogo sinistro
nella
Biarmia. Con tale nome veniva identificata una regione che si
estendeva dagli
Urali fino al mar Bianco: quest'ultimo era chiamato Gandvìk
nella lingua nordica,
dal termine "gandr", "magìa", perché quelle popolazioni
dell'estremo
Nord - da cui l'accenno all'"oscurità perenne", che
presumibilmente allude alle
tenebre del solstizio d'inverno - erano considerate depositarie
di particolari
forme di magìa sciamanica, denominate "seidhr" nelle fonti
norrene (e, ovviamente,
guardate con sospetto).
Ciò ci conforta nell'ipotesi che la meta del viaggio di Ulisse
"lungo il
fluire d'Oceano" sia localizzabile proprio nel mar Bianco,
diramazione del
Mare Artico ad est dell'estremità settentrionale della
Scandinavia; ma continuiamo
a seguire il nostro eroe, diretto "alle case putrescenti
dell'Ade./ Qui in
Acheronte il Piriflegetonte si getta/ e il Cocito, che è un
braccio dell'acqua di
Stige" (Od. X, 512-514). Lo Stige! Le considerazioni che
seguono saranno
adesso rivolte ad individuare questa località, forse la più
misteriosa e sinistra
della geografia mitica greca: e sarà proprio essa a mostrarci
la via delle "case
di Ade", situate in un territorio, come vedremo tra poco,
congruente con le indicazioni dell'Iliade, dell'Odissea e delle
Gesta di Saxo.
Notiamo anzitutto che, per indicare lo Stige, Omero non parla
mai di "fiume";
invece utilizza costantemente la locuzione "acqua di Stige"
("hydor
Stygòs"): da essa, come abbiamo appena visto, secondo l'Odissea
si diparte un
emissario ("aporròx"), il Cocito, diretto verso l'Acheronte e
l'Ade; a sua volta l'Iliade, nel Catalogo delle navi, ci dice
che lo Stige ha un altro emissario,
il fiume Titaresio, affluente del Peneo, il quale scorre nel
territorio degli Enieni
e dei Perebi (II, 749-755), popoli achei partecipanti alla
guerra di Troia, localizzabili
verso l'estremità settentrionale del golfo di Botnia. Insomma i
due
emissari dello Stige omerico risultano diretti su due versanti
opposti: uno, il
Cocito, verso l'Ade e il mar Bianco, l'altro, il Titaresio,
verso il Baltico (è un
po' la stessa situazione del monte Fumaiolo, al centro
dell'Appennino toscoemiliano,
da cui si dipartono due fiumi, il Tevere e il Savio, diretti
rispettivamente
verso il Tirreno e l'Adriatico).
A questo punto, per individuare l"'acqua di Stige" basta
esaminare la carta
geografica: notiamo subito che tra il mar Bianco ed il Baltico,
distanti tra loro
circa 350 chilometri, si estende un'area ricchissima di fiumi e
di laghi, al
centro della quale sorge una zona di alture (Maanselkä) che
funge da spartiacque
tra gli opposti versanti e lungo cui corre, in direzione nord-
sud, il confine
russo-finlandese; e proprio in tale zona, ad una certa altezza
sul livello del mare,
appena al di sotto del Circolo polare, in territorio finlandese
ma a breve
distanza dal confine con la Carelia russa, si trovano due laghi
contigui, il Kitka
e il Livojärvi, che tramite i loro emissari risultano
interconnessi da un lato con
il sistema lacuo-fluviale orientato verso il mar Bianco, in
direzione nord-est,
dall'altro con quello rivolto verso il Baltico, a sud-ovest
(Tav. XI). Osserviamo
che tale punto di contatto, l'unico, fra il mondo dell'Iliade e
quello delle
avventure "oceaniche" dell'Odissea, trova questo preciso
riscontro geografico
nell'area nordica, mentre naturalmente non ne ha alcuno nel
contesto mediterraneo.
Ecco
dunque perché l'"acqua di Stige" viene chiamata da Omero
"traboccante"
("kateibòmenon", Il. XV, 37; Od. V, 185): essa infatti "scorre
verso
il basso", secondo il significato letterale del termine greco,
a partire dal Kitka
e dal Livojärvi, che sono situati in posizione relativamente
elevata ed alimentano
i loro emissari - cioè, rispettivamente, i fiumi Kitkanjoki e
Lìvojoki - sui
due versanti contrapposti.
E una conferma che tale complesso lacuale possa effettivamente
coincidere
con lo Stige, definito dall'Iliade "l'acqua tremenda del
giuramento" degli
dèi (II, 755), sta nel fatto che esso risulta contiguo a quel
territorio montuoso
che poco fa abbiamo identificato con il mitico Olimpo, la sede
degli dèi omerici.
Il concetto dell'Iliade viene ribadito nell'Odissea, dove
all'"acqua di Stige" è connesso "il più grande/ giuramento,
tremendo per i numi beati" (Od. V,
185-186).
Apriamo ora un breve inciso riguardo ad una singolare proprietà
di questa
misteriosa "acqua di Stige": infatti Omero ci dice che il suo
emissario, il Titaresio,
"nel Peneo getta l'acqua bella corrente,/ ma non si mischia col
Peneo flutto
d'argento,/ gli scorre di sopra, a fior d'acqua, come olio/
perché è un braccio
di Stige" (Il. II, 752-755: abbiamo visto in un capitolo
precedente che il Titaresio-Livojoki,
cioè l'emissario dello "Stige" sul versante baltico, in effetti
confluisce
in un altro fiume, il Peneo-Iijoki, che si va poi a gettare nel
golfo di Botnia
nei pressi di Oulu). Che nello Stige a quell'epoca fosse
presente della nafta,
la quale notoriamente galleggia in superficie? In tal caso la
sua "acqua" sarebbe
stata in realtà un liquido infiammabile, e così si
spiegherebbero il religioso
timore e l'aura di mistero ad essa connessi (a questo punto si
potrebbe supporre
che anche il nome di un altro fiume "infernale", il
Piriflegetonte, abbia la
stessa origine: in greco "pyr" significa "fuoco"). En passant,
notiamo che ad un
liquido dello stesso genere forse allude la Bibbia, nel passo
dove si narra che il
profeta Elia fece bruciare miracolosamente le parti di un bue,
offerto in olocausto,
dopo averle abbondantemente irrorate di "acqua": "...Subito il
fuoco del
Signore discese e divorò l'olocausto, la legna, le pietre e
persino la polvere, assorbendo
pure l'acqua che riempiva il fossatello" {(18, 38).
L'identificazione dello Stige ormai ci consente di risalire
facilmente all'ubicazione
dell'Ade omerico. Dal Kitka infatti scende verso oriente un
emissario, il Kitkanjoki, che nelle immediate vicinanze del
confine con la Russia
sfocia nell'Oulankajoki; le sue acque si addentrano nel
territorio russo col nome
di Olanga e, dopo svariate vicissitudini nel complesso sistema
idrologico
della Carelia, confluiscono nel lago Kouta; da qui sboccano
infine nel mar
Bianco occidentale, e precisamente nella baia di Kandalaksha, a
circa 66°40'
di latitudine: ecco il sito delle "case di Ade", dove "in
Acheronte il Piriflegetonte
si getta/ e il Cocito". Quanto al lago Kouta, esso è l'esatto
corrispondente
del Cocito, ed anche il suo nome sembra richiamare quello del
fiume omerico
(in greco "Kokytòs"), che, curiosamente, nell'ultimo canto
dell'Inferno Dante ci presenta come un lago ghiacciato ("Quindi
Cocito tutto s'aggelava").
Inoltre la denominazione di un fiume che fa parte dello stesso
sistema
idrografico, il Kuma, emissario del lago dove sbocca l'Olanga,
forse ricorda ancora
la radice del nome dei Cimmeri (i "mortali infelici" che,
secondo l'Odissea, vivevano nella regione dell'Ade; Erik Dahl
accosta questo nome alla radice
di "Eschimesi"), mentre quella del lago Keret, sempre in
Carelia, richiama
le Kere, i demoni annunciatori di morte della mitologia greca
(quanto alla
radice greca del nome Stige, "styg-", appare quasi identica a
quella dell'aggettivo
norvegese "stygg", che ha il significato negativo di "brutto").
In ogni
caso, la complessa idrografìa di quest'area attorno al mar
Bianco è perfettamente
in linea con il passo dell'Odissea che menziona i vari fiumi
dell'Ade.
Una notazione particolare merita poi il nome di Caronte, il
mitico traghettatore
delle anime nel mondo infernale, peraltro mai menzionato da
Omero: che sia
ricollegabile ad un termine, "karhu", che nell'attuale lingua
finnica significa
"orso", forse in riferimento a qualche antico mito o ad un
arcaico rituale funebre?
L'alta
latitudine di quest'area, con la conseguente notte solstiziale,
spiega
l'allusione alle tenebre, comune ad Omero e a Saxo (il tempo
dei riti per i
defunti è sempre stato associato all'inizio dell'inverno, il
che suggerisce una
connessione con la scomparsa del sole nel mondo artico); e, se
da un lato un
passo dell'Iliade collega direttamente l'Ade all"'ombra
nebbiosa" (XV, 191),
dall'altro l'accenno specifico dell' Odissea a quei popoli "di
nebbia e di nube
avvolti" trova un preciso riscontro nel clima della Carelia,
dove zone lacustri
e immense paludi si alternano a sterminate distese di boschi e
dove "la frequenza
delle acque superficiali e delle foreste mantiene una grande
umidità nell'atmosfera, e perciò i giorni sereni sono
pochissimi"263. A tale proposito,
notiamo anche che nel luogo indicato da Circe vi è "una
spiaggia bassa e boschi
sacri a Persefone,/ alti pioppi e salici dai frutti che non
maturano" (Od.
X,
509-510): si tratta di piante che tipicamente allignano lungo i
fiumi e nei boschi umidi; per quanto riguarda i salici, essi
sono tra i pochissimi tipi di alberi
che talvolta s'incontrano persino sui margini dei corsi d'acqua
della tundra,
il deserto gelato dell'Artide.

263 Treccani, voce "Careli;

Ma cos'era che continuava a tener vivo il ricordo di un mondo


così lontano
e diffìcile da raggiungere (che però molti secoli dopo, durante
un altro periodo
climaticamente favorevole, sarebbe stato frequentato dai
mercanti vichinghi
in cerca di pellicce, come il norvegese Ottar di Hålogaland264,
vissuto
attorno al IX secolo)? Forse, ma non solo, era la magia
sciamanica ("seidhr")
praticata da quelle popolazioni, che doveva avere origini
antichissime: l'evocazione
dei morti, dettagliatamente descritta nel libro X dell' Odissea
e ripresa
nell'XI, sembra infatti avere le caratteristiche di un
primordiale rito sciamanico,
consumato nell'oscurità dell'inverno artico in una remota
palude della
Carelia, ai piedi della "roccia all'unione dei due fiumi
sonanti" (X, 515: forse
un dolmen, ovvero il tumulo di un re già antico al tempo di
Ulisse): "Qui
dunque approdato, eroe, come ti dico,/ scava una fossa d'un
cubito per lungo
e per largo,/ e intorno a questa liba la libagione dei morti,/
prima di miele e latte,
poi di vino soave,/ la terza d'acqua; e spargi bianca farina
(...)/ come con voti
avrai pregato le stirpi gloriose dei morti,/ allora sgozza un
ariete e una pecora
nera,/ volti all'Èrebo, ma tu all'opposto rivolgiti,/ alle
correnti del fiume; là in
folla/verranno l'anime dei travolti da morte..." (Od. X, 516-
520; 526-530).
264 Portner, L'epopea dei Vichinghi, pag. 261

Ora, a parte l'arcana suggestione dì questi versi, dal sapore


estremamente
arcaico, non può non attrarre l'attenzione lo scavo di quella
"fossa" ("bòthron")
attorno a cui si svolge il rito funebre: in essa non è
difficile riconoscere
un preciso equivalente del "mundus" romano, il pozzo che dava
accesso al
mondo dei morti. Non solo: il "mundus" era anche la fossa che
venne scavata da Romolo in occasione della fondazione della
città ed in cui furono gettate le
sacre primizie (è un rito che i Romani consideravano di origine
etrusca). Al riguardo,
il Dumézil osserva che esso "corrisponde in modo notevole
all'arcaico
rituale vedico con cui veniva delimitato il sito del fuoco
sacrificale quadrato
e orientato (...) In mezzo al quadrilatero, esattamente al
punto d'incontro
delle diagonali, in un sito che chiamavano "bocca", i sacerdoti
collocavano
l'equivalente simbolico di un "mundus", un ciuffo d'erba
"darbha", sul quale
versavano dodici giare d'acqua e gettavano i semi di tutte le
erbe. Questo rituale è sicuramente molto antico"265.

265 Dumézil, La religione romana arcaica, pag. 562

E non è un caso che, dopo le affinità già riscontrate con la


mitologia indiana,
fra poco ritroveremo altre tracce del primitivo mondo vedico
proprio all'estremità
settentrionale della
Scandinavia, non lontano dalla localizzazione di questo Ade
omerico dove Ulisse compie l'antichissimo rito del "mundus".
Circa quest'ultimo termine, notiamo che è molto simile al
tedesco
"Mund", "bocca", che a sua volta ci riporta alla "bocca" del
rito vedico menzionato
dal Dumézil: il tutto probabilmente si può interpretare in
chiave di
"bocca", o, per meglio dire, di "sbocco" del passaggio che
collega il nostro
mondo con quello, sotterraneo, dei morti.
Ma continuiamo a leggere l'episodio: poco dopo l'anima
("psyché") dell'indovino
Tiresia, evocata dal rito, si avvicina alla fossa e prescrive
tra l'altro
ad Ulisse di sacrificare "un ariete, un toro e un verro" (Od.
XI, 131). Ora, questo
corrisponde esattamente al sacrificio romano dei suovetaurilia,
riguardo a
cui il Dumézil afferma che "la pratica è molto antica" e che
"l'India vedica conosceva
un rituale parallelo (...) il sacrificio di tre animali detto
sautramam"266: ecco di nuovo il triangolo tra l'Ade omerico, la
Roma arcaica ed il mondo
vedico. Non solo: l'atmosfera di estrema antichità in cui è
immerso tutto l'episodio,
attestata da queste convergenze, la avevamo già percepita
allorché ci
eravamo soffermati sul passaggio del discorso di Tiresia che
introduce la kenning
del remo-ventilabro - forse legata a qualche lontanissimo
incontro tra una
cultura marinara ed una più continentale - la quale a sua volta
ci aveva rimandato
ad Amleto e al mondo nordico. Mai come qui è altrettanto netta
la percezione
di una dimensione estremamente remota, molto precedente ad
Omero,
con ogni probabilità legata al retaggio della primordiale
civiltà indoeuropea:
viene quasi da dire che il viaggio di Ulisse verso la terra dei
morti lo si potrebbe
leggere non soltanto in chiave geografica, ma anche come una
sorta di percorso
a ritroso nel tempo, che sembra evocare la memoria degli
antenati degli
Achei e del perduto mondo artico dove la loro primitiva civiltà
era fiorita.

266 Dumézil, La religione romana arcaica, pag. 216

Ciò d'altronde appare in accordo con l'ipotesi che, quando


l"'optimum
climatico" era al suo culmine, in quelle plaghe ora gelide e
desolate si sia sviluppata
una civiltà, che ai tempi cantati da Omero era già decaduta in
seguito
all'incipiente peggioramento del clima: la fase subboreale
stava ormai subentrando
al mite periodo Atlantico, l'età felice del paradiso
primordiale indoeuropeo,
allorché la costellazione di Orione contrassegnava l'equinozio
di primavera
e tutta l'Europa godeva di un clima che la rendeva abitabile
fino alla
sua estremità settentrionale. Da qui potrebbe aver tratto
orìgine il mito della terra
dei morti - ossia degli antenati - situata ai limiti del mondo
allora conosciuto.
Questo si riallaccia alle precedenti considerazioni sugli
Etiopi "estremi
degli uomini", sull'Olimpo e sulla luna di Hermes, nonché sui
dieci mesi del
primitivo calendario romano, tutti elementi che sembrano
costituire i
frammenti
sparsi di una geografìa mitica, precedente al mondo di Omero
(che in effetti menziona la perduta età di Crono, spodestato da
Zeus, il dio della tempesta),
decisamente orientata verso l'estremo nord. È un discorso che
riprenderemo
tra poco, allorché, partendo dalle considerazioni del Tilak
nonché da
quanto è emerso nella presente indagine, proveremo a fare
qualche approfondimento
sulla sede primordiale degli Indoeuropei.
Per inciso, i legami tra il primitivo mondo vedico, quello
omerico e quello
romano arcaico ci danno lo spunto per segnalare una singolare
relazione, per
così dire "circolare", intercorrente tra alcuni particolari
vocaboli ed i rispettivi
significati nelle tre lingue: da un lato, in latino troviamo il
vocabolo "carmen",
che vale "poesia" (anzi, più esattamente, "canto magico") e ci
sembra
accostabile al verbo sanscrito "karman", che significa "fare"
(anche nel senso
specifico di "operare con la magìa": pensiamo all'italiano
"fattura")"; dall'altro,
il corrispondente di "karman" in greco è "poiein", "fare", da
cui deriva il
sostantivo "poìesis", che a sua volta è l'esatto analogo di
"carmen" (e, a questo
punto, sarebbe intrigante accostare la radice del verbo inglese
"to make",
"fare", a quella di "mago", "magìa").
Notiamo ancora che la discesa agli inferi è un tema tipicamente
sciamanico,
su cui si sofferma Mircea Eliade nel suo Lo sciamanismo e le
tecniche
dell'estasi: secondo gli sciamani altaici, essa avveniva
passando per "un foro
che è l'ingresso dell'altro mondo, yer mesi ('le mascelle della
Terra)" (cap.
VI), mentre presso gli Indiani Tuanas "si pratica un'apertura
alla superfìcie del
suolo (...) e si riproduce con una mimica energica la lotta
contro gli spiriti"
(cap. IX). Quest'ultimo aspetto, oltre a ricordare la lotta tra
Proteo e Menelao
prima del vaticinio, trova riscontro nel fatto che Ulisse
minaccia ripetutamente
con la spada gli spiriti dei defunti raccolti intorno alla
fossa (Od. X, 536; XI,
49; 95; 231). A questo punto potremmo chiederci se i riti
connessi con la discesa
nell'Ade (non a caso dettati da una figura "sciamanica" come
quella di
Circe) non rappresentino una sorta di anello di congiunzione
tra forme antichissime,
forse risalenti addirittura al Neolitico, ed i rituali del
mondo indoeuropeo
(e non solo: potrebbero avere una connotazione sciamanica anche
certi
episodi della Bibbia, quali la lotta notturna di Giacobbe con
un angelo e la sua
visione della scala fra terra e cielo, anch'essa seguita da un
vaticinio).
In ogni caso, il materiale mitologico utilizzato dal poeta per
costruire l'episodio
del viaggio alle "case di Ade" risulta essere
straordinariamente antico:
alla luce di ciò, riteniamo che un approfondito esame, parola
per parola, dell'intero
passo da parte degli specialisti potrebbe portare ad altre
significative
acquisizioni.
Infine, al ritorno dall'Ade, la nave del nostro eroe naviga
controcorrente
sul fiume Oceano, sfruttando "prima la forza dei remi e poi un
bellissimo vento"
(Od. XI, 640), mentre all'andata aveva seguito "il fluire
d'Oceano" ("ròon
Okeanoio", XI, 21 ), cioè il ramo artico della Corrente del
Golfo: si tratta di un
ulteriore tocco di realismo in un racconto ricco di spunti
mitologici ma che nel
contempo, una volta inserito nel giusto contesto geografico, si
rivela molto meno fantasioso di quanto a priori si potesse
supporre; infatti, per tornare dal Mar
Bianco alle isole Lofoten, sede della maga Circe, bisogna
procedere in senso
contrario a quello della Corrente stessa. Al solito, la
localizzazione dell'Ade
omerico incrocia mirabilmente i dati fornitici dall'Iliade,
dall'Odissea e dalla
tradizione nordica con la realtà geografica e morfologica di
quelle regioni.
In conclusione, anche quello che pareva essere il più impervio
tra gli itinerari
propostici dall'Odissea, il viaggio di Ulisse dall'isola di
Circe alla dimora
di Ade, una volta situato nell'Europa settentrionale trova una
ragionevole
collocazione e puntuali riscontri: esso si è rivelato l'ultimo
vestigio di una
remota rotta preistorica verso i confini del mondo conosciuto,
sulle tracce della
patria perduta degli antenati degli Achei. Ed è suggestivo il
fatto che a darcene
la chiave sia stato proprio lo Stige, che nel mondo antico era
considerato
pegno supremo di verità.

Dopo aver parlato delle "case dell'Ade" (anzi, "di Ade"),


adesso non possiamo
non fare una breve riflessione su un'altra famosa località
"infera": ci riferiamo
al Tartaro, che l'Iliade pone "agli estremi confini/ della
terra e del mare"
(VIII, 478-479). Là, secondo questo stesso passo, giaceva il
dio Crono, che
a sua volta Plutarco, nel medesimo capitolo XXVI del Defacie
quae in orbe
lunae apparet in cui ci segnala la posizione di Ogigia, colloca
in un'isola del
"mar Cronio", ovvero l'Atlantico settentrionale, accanto a
Briareo (il gigante
dalle cento mani, chiamato anche Egeone, che a suo tempo
avevamo identificato
con il nordico Ægir). Che tale isola sia l'Islanda, dove la
spettacolarità dei
fenomeni vulcanici, unita all'incombere dei ghiacciai e alle
tenebre invernali,
non può non suggerire delle iconografie da paesaggio dantesco?
Ed in questo
quadro geografico s'inserisce molto bene un'altra indicazione
di Omero, secondo
cui il Tartaro "tanto è lontano dall'Ade, quanto la terra dista
dal cielo"
(Il. VIII, 16); effettivamente, l'area islandese è lontanissima
dal mar Bianco e,
forse, allora costituiva una delle massime distanze, nel senso
della longitudine,
percorribili dai navigatori di allora: da qui l'espressiva
iperbole usata dal
poeta.
Riguardo a Briareo, ricordiamo che in quello stesso capitolo
del Defacie Plutarco lo definiva "guardiano delle isole e del
mare chiamato Cronio". A
questo punto, è estremamente significativo il fatto che,
secondo Aristotele, le
Colonne d'Ercole siano chiamate anche "Colonne di Briareo"267:
ciò riconduce
le Colonne d'Ercole all'area di Ogigia, che Plutarco pone
nello stesso contesto geografico di Briareo; d'altronde, la
relazione tra Crono, Briareo e le isole
dei mari nordici viene sottolineata anche in un'altra opera
plutarchea, il De
defectu oraculorum (cap. XVIII). Il cerchio infine si chiude
proprio su Ogigia:
infatti, all'inizio dell'Odissea Omero ci presenta l'isola di
Calipso in questi
termini: "Una dea v'ha dimora,/ la figlia del terribile
Atlante, il quale del mare/
tutto conosce gli abissi, regge le grandi colonne ("kìonas
makràs")/ che
terra e cielo sostengono" (Od. I, 51-54).

267 Plutarco, Il volto della Luna, pag. 164, nota 261


(frammento 687)

Il riferimento alle "grandi colonne" non è casuale: le isole


Färöer, in particolare
quelle del gruppo settentrionale dell'arcipelago, hanno una
tipica forma
alta, stretta e allungata e sono disposte in fila
trasversalmente, in modo
molto caratteristico (Tav. II; viste in pianta, sembrano quasi
le vertebre di una
gigantesca spina dorsale), con angusti bracci di mare
interposti: esse torreggiano
a picco sul mare una accanto all'altra, a formare davvero una
sorta di
maestoso colonnato: ecco le "grandi colonne" di Atlante! Omero
nel passo che
abbiamo appena letto le chiama "kìonas", e una di queste isole,
proprio quella
dalla forma più regolare, si chiama Kunoy: che sia la "Colonna"
per eccellenza?
A questo punto appare ancor più appropriata l'espressione
"figlia di
Atlante" attribuita a Calipso, la dea di Ogigia, l'isola
contigua a queste "colonne".
In
tale quadro ben s'inserisce un'importante testimonianza di
Tacito: a
suo dire, le popolazioni costiere dell'Europa settentrionale
"da quella parte
tentano anche l'Oceano; e si sparse la fama che ancora
restassero le Colonne
d'Ercole (...) Né mancò audacia a Druso Germanico, ma l'Oceano
si oppose all'esplorazione
sia delle sue acque, sia delle vestigia di Ercole" (Germania,
34,
2: Druso Germanico, fratello di Tiberio, fu un comandante
romano che con la
sua flotta s'avventurò ad esplorare il Mare del Nord, nell'anno
12 a.C, ma le
avversità ambientali lo costrinsero a rinunciare).
Pertanto le isole Färöer, situate in posizione chiave
nell'Atlantico settentrionale,
in corrispondenza della Corrente del Golfo, ossia l''Oceano"
omerico,
con il loro aspetto così caratteristico forse rappresentavano
per i navigatori dell'età
del bronzo un punto di riferimento tutto particolare;
successivamente, quando l"'optimum climatico" iniziò a
declinare, esse dovettero man mano trasformarsi
in un limite sempre più diffìcilmente superabile (da qui forse
ha tratto
origine la favola del gigante "centìmano" Briareo-Egeone-Ægir,
localizzato nel
"mar Cronio", il quale ghermiva inesorabilmente le navi di
passaggio): e a questo
punto ci si spiega come mai gli Achei, allorché discesero nel
mar Egeo, nella
loro trasposizione geografica abbiano identificato il loro
corrispondente nello
Stretto di Gibilterra - là dove iniziava quello che venne poi
chiamato "Oceano"
- e gli abbiano attribuito lo stesso appellativo di "Colonne".
Una tale denominazione
però nel nuovo scenario non aveva più alcun significato: di qui
la
necessità per i mitografi greci, per ridarle il senso
irrimediabilmente perduto
nel passaggio dal Baltico al Mediterraneo, di costruire la
storia delle colonne
piantate sullo Stretto da Ercole, il quale, secondo il noto
racconto, si era alternato,
nella fatica di sostenere il mondo, proprio con Atlante.
Di quest'ultimo ci rimane la scultorea immagine tramandata da
Esiodo:
"Atlante il vasto cielo sostiene, sotto un'ineluttabile
necessità,/ ai confini del
mondo ("peìrasin en gaìes"), davanti alle Esperidi dal canto
sonoro" (Teogonia, 517-518). Sarebbe dunque suggestivo
immaginare che in queste "Esperidi" cioè "le Occidentali" - sia
racchiuso l'estremo, ed ormai inconsapevole, ricordo
dell'arcipelago che millenni prima, sotto l'influsso combinato
dell'optimum
climatico" e della Corrente del Golfo, ai lontani antenati dei
Greci provenienti
dalla Scandinavia doveva essere apparso come un vero giardino
delle
delizie.
Ce ne resta un'eco nei versi che Omero dedica alla favolosa
dimora di Calipso,
la dea figlia di Atlante (che non a caso si ritrova nella
tradizione celtica
dell'isola dell'eterna giovinezza, sperduta nell'oceano verso
occidente): "Quattro
polle sgorgavano in fila, di limpida acqua,/ una vicina
all'altra, ma in parti
opposte volgendosi./ Intorno molli prati di viola e di sedano/
erano in fiore;
a venir qui anche un nume immortale/ doveva incantarsi
guardando, e godere
nel cuore" (Od. V, 70-74).

Questi ultimi due capitoli ci hanno così condotti alle ultime


frontiere del
mondo omerico, dagli Etiopi "estremi degli uomini" fino alle
"case di Ade" ed
al giardino delle Esperidi "ai confini del mondo", contribuendo
ad arricchire e
a meglio definire i contorni del quadro delineato in
precedenza. Sistemate dunque
le ultime tessere del grande mosaico, e verificata la coerenza
sia dell'insieme
che dei dettagli, potremmo senz'altro concludere qui il nostro
lavoro.
Preferiamo invece fare ancora qualche passo avanti: poiché
infatti le implicazioni
della presente tesi si ripercuotono direttamente su molti altri
campi, d'ora
in avanti, confidando nella benevolenza del nostro lettore,
proveremo ad avventurarci,
senza alcuna preoccupazione di sistematicità o di completezza,
per
sentieri di ricerca spesso ardui e perigliosi, sulle tracce che
i primitivi Indoeuropei
sembrano aver lasciato un po' dovunque, e a tal fine seguiremo
alcuni indizi
particolarmente suggestivi, anche se certo non probanti, che
un'immensa
letteratura mitologica di tutto il mondo ci mette a
disposizione (senza però fornirci
le "istruzioni per l'uso"). In particolare rivolgeremo
l'attenzione ad un
problema che, pur non essendo centrale rispetto alla nostra
tesi, risulta ad essa
indissolubilmente legato: si tratta della vexata quaestio della
sede primordiale
di queste popolazioni, nel cui novero si trovano gli stessi
Achei omerici. È una questione che abbiamo già sfiorato più
volte e che adesso cercheremo di
approfondire, alla luce di quanto è emerso nei capitoli
precedenti.
Avremo così modo di formulare alcune ipotesi e congetture, che
saranno talvolta supportate da positivi riscontri, senza
tuttavia avere assolutamente la
pretesa di essere arrivati a conclusioni certe e definitive;
nutriamo però la speranza
di poter fornire qualche traccia che serva da spunto per futuri
studi e ricerche
su questi affascinanti argomenti.
In ogni caso, siamo ben consapevoli del fatto che molte delle
ipotesi qui
sviluppate contrastano radicalmente con un insieme di nozioni
correnti, talora
anche vecchie di millenni. A tale proposito ci sembra che torni
opportuna una
riflessione - attribuita a Francesco Bacone, il primo grande
filosofo della scienza
moderna - forse più attinente alle indagini nel campo delle
scienze naturali
ma sostanzialmente appropriata anche al presente contesto: "La
realtà non deve
essere costretta entro i limiti della umana comprensione, come
si è fatto finora,
ma è piuttosto la comprensione che deve estendersi ed ampliarsi
per includere
il quadro della realtà così come viene scoperta".
In tale prospettiva, lo stesso Bacone sosteneva - come ricorda
lo storico
della scienza Federico Di Trocchio - che "al 'non più oltre'
degli antichi si dovesse
contrapporre il 'più oltre' della nuova scienza. Per questo sul
frontespizio
della sua opera più famosa, il Novum Organum, fece
rappresentare le Colonne
d'Ercole, rappresentazione visibile del presunto limite dello
scibile, e in
mezzo ad esse pose come motto le parole del profeta Daniele:
Multi pertransibunt
et augebitur scienlia ("molti andranno oltre e la conoscenza
progredirà")"268.
Ed è alla memoria di Bacone che dedichiamo i prossimi capitoli.

268 Trocchio, Il genio incompreso, pag. 239


XVIII. L'OPTIMUM CLIMATICO E IL PARADISO INDOEUROPEO

Sia le ipotesi sulla fioritura di una remota civiltà


"iperborea" a latitudini
molto elevate, sia, soprattutto, le evidenze relative
all'origine nordica degli
Achei, stirpe di lingua indoeuropea, trovano un singolare
riscontro nell'opera
di Bål Gangàdhar Tilak, il bramino indiano che alla fine
dell'Ottocento propose,
nel suo The Arctic Home in the Vedas (titolo italiano: La
dimora artica
nei Veda), la tesi, tanto ardita quanto ben documentata, che
gli Arii fossero originari
di una terra artica. La sua dottissima opera - forse non
abbastanza conosciuta
e apprezzata - è incentrata sulla dimostrazione che i Veda,
cioè le più antiche raccolte di inni della letteratura indù,
conservano inequivocabili tracce
di un calendario concepito in una regione subpolare, con i suoi
tipici periodi
di sole senza tramonto e di tenebra continua in corrispondenza
dei solstizi;
inoltre, il Tilak trova negli inni vedici, e in particolare
nella figura danzante di
Ushas, la dea dell'alba, significativi riferimenti al fenomeno
delle albe rotanti,
peculiare dell'estremo Nord (che abbiamo riscontrato anche
nelle "danze
dell'Aurora" dell'isola di Circe; e, reciprocamente, la
localizzazione dell'Eea
ad un'altissima latitudine, quale emerge non solo da quelle
"danze" ma anche
da tanti altri indizi, costituisce un'indiretta conferma di
quanto sostenuto da
questo geniale e coltissimo studioso).
Sempre il Tilak, in un precedente saggio intitolato The Orion
or Researches
into the Antìquity ofthe Vedas (Orione: a proposito
dell'antichità dei Veda), aveva dimostrato che la stesura di
tali inni doveva risalire ad un'epoca
ben definita, allorquando, come egli mette in luce sulla base
di svariati accenni
astronomici in essi contenuti, al momento dell'equinozio di
primavera (che
veniva considerato l'inizio dell'anno) il sorgere del sole
aveva luogo in corrispondenza
della costellazione di Orione: questo fenomeno si verificava
puntualmente
tutti gli anni, al passaggio dell'equinozio, nel periodo
compreso all'incirca tra
il 4000 e il 2500 a.C; successivamente, in seguito al moto di
precessione
dell'asse terrestre, tale configurazione si è modificata.
Insomma le due opere del Tilak consentono, sia pure per grandi
linee, di
orientarsi - l'una dal punto di vista geografico (The Arctic
Home), l'altra da
quello cronologico (The Orion) - sulla localizzazione nonché
sull'epoca della
primitiva civiltà che produsse gli inni vedici, prima della sua
discesa nel
subcontinente indiano; e l'incrocio con le nozioni che si hanno
oggi sull'"optimum
climatico", di cui egli un secolo fa non era a conoscenza, le
rende ancora
più attuali e meritevoli di attenzione.
Infatti questa datazione - che risulta anteriore alle
migrazioni dei popoli
indoeuropei - per una singolare coincidenza si sovrappone
cronologicamente alla
fase espansiva dell'optimum":
esso fiorì proprio in quell'epoca, assicurando condizioni di
vita accettabili anche alle latitudini più alte, raggiunse il
culmine
verso la fine del periodo orionico e poi incominciò lentamente
a declinare.
D'altronde, nello stesso periodo in cui gli Arii facevano la
loro comparsa
nell'India nord-occidentale, i Micenei si installavano
nell'area egea: si tratta,
non a caso, dell'epoca susseguente alla fine dell'"optimum".
È altamente significativo il fatto che questa stessa cronologia
sia comune anche
ad altri popoli indoeuropei: ad esempio, per quanto concerne
gli Hittiti, stanziati
in Asia Minore e all'incirca coevi dei Micenei, "il dialetto
nashili degli Hittiti,
appartenente alla famiglia indoeuropea, è riconoscibile subito
dopo l'inizio del II millennio a.C. nelle iscrizioni e nei
documenti dell'impero hittita che oggi ci restano"269.
Inoltre, "le più antiche attestazioni certe di una lingua
indoeuropea risalgono
ai testi delle tavolette cuneiformi in ittita antico, cioè
attorno al 1700
a.C."270. Quanto al loro nome-gli Hittiti chiamavano se stessi
"Khatti", donde anche
il nome della loro capitale, Khattushash - ci sembra
accostabile a quello dei Cetei
("Kéteioi"), ricordati da Omero (Od. XI, 521), e soprattutto
dei Chatti, tribù germanica su cui Tacito si sofferma a lungo:
"Il territorio dei Chatti incomincia dalla
selva Ercinia..." ("Germania, 30, 1 ). A questo punto ci
permettiamo una notazione curiosa: poiché la selva Ercinia
copriva all'incirca l'area compresa fra l'Assia e la Turingia,
dove incontriamo
la città di Kassel, chiamata Cassala in un documento dell'anno
913 d.C.271, se il nome
di quest'ultima effettivamente discende da quello degli antichi
Chatti (in greco SS e TT sono intercambiabili) e se vi è un
rapporto fra costoro ed i Khatti, ossia
quegli indoeuropei che 1800 anni prima di Tacito si erano
stanziati in Anatolia, ne
conseguirebbe una singolare relazione tra il nome dell'antica
Khattushash e quello
dell'attuale Kassel. Gli emigranti turchi che vivono nell'Assia
o nella Turingia
ignorano di essere ritornati nella terra da cui provenivano i
loro antenati...

269 piggott, India Preistorica, pag. 268


270 Costa, Le origini della lingua poetica indeuropea, pag.
241
271 Treccani, voce "Kassel"

Sempre "intorno all'inizio del XVI secolo a.C, la Mesopotamia


subì le incursioni
degli abitanti delle montagne, provenienti dal nord (...)
mentre fu insediata
una nuova dinastia sotto i Cassiti, i cui re portano nomi
indoeuropei. Esse
provenivano quasi certamente da nord o nord-est, e segnano
l'inizio della
grande dispersione dei popoli di lingua indoeuropea verso
oriente (...) Durante
questo periodo abbiamo i primi indizi dell'esistenza di un
altro gruppo indoeuropeo
alla frontiera sud-occidentale del regno cassita, i Mitanni
(...) Nei
secoli XIV e XV a.C. fra i governanti mitanni sono frequenti i
nomi indoeuropei";
inoltre, tra i loro dèi incontriamo "Mitra, Varuna e Indra,
dell'antico
pantheon indiano"272.

272 Piggott, India Preistorica, pag. 268


All'incirca nello stesso periodo della comparsa degli Hittiti,
verso il 1700
a.C, sul delta del Nilo apparvero gli Hyksos. Recenti studi,
sviluppati dal prof.
Jahanshah Derakhshani dell'Università di Teheran, suggeriscono
che anche gli
Hyksos siano da annoverare nella famiglia indoeuropea273. Essi
corrisponderebbero
agli Haxa, che vivevano nell'Iran orientale, chiamati Sàkha o
Sacae rispettivamente
dagli Indiani e dai Romani, o magari agli Sciti. Potremmo a
questo
punto azzardarci ad accostare il loro nome anche a quello dei
Sassoni, sebbene
costoro siano apparsi alla ribalta della Storia moltissimo
tempo dopo (a
dire il vero, l'idea di questi "Sassoni" alla corte del Faraone
sembra assai bizzarra).

273 v. sito www.int-pub-iran.com/ipis05_tl.htm

Insomma,
l'aver riscontrato, attraverso l'analisi della geografia
omerica,
la provenienza settentrionale degli Achei - peraltro già
sostenuta dal Nilsson
sulla base delle evidenze archeologiche "nordiche" riscontrate
sui siti micenei
- non solo conferma le ipotesi del Tilak sull'origine degli
Arii ma, più in generale,
consente finalmente di gettare una nuova luce anche sull'annosa
questione
della patria primordiale degli altri popoli appartenenti alla
famiglia indoeuropea,
nonché sul motivo che li spinse a migrare verso sedi più
accoglienti:
la poesia di Omero, "incrociata" con le conoscenze attuali
sull'evoluzione
del clima, ci dà la chiave per penetrare in ambiti finora
inaccessibili.
Ma nella memoria storica delle popolazioni indoeuropee è
rimasta qualche
traccia della loro vita precedente e delle ragioni della
diaspora? E su questo
argomento che adesso cercheremo di indagare.
Nella mitologia greca è ben presente il ricordo di un tempo
felice primordiale,
antecedente all'epoca del mondo cantato da Omero: si tratta del
regno
del dio Crono, corrispondente al latino Saturno, signore
dell'età dell'oro
(il cui ritorno è vagheggiato da Virgilio all'inizio della IV
Ecloga: "redeunt
Saturnia regna"). Secondo l'Iliade, Crono venne poi soppiantato
dai suoi tre figli,
che a quel punto si divisero il mondo: a Poseidone "toccò di
vivere nel
mare canuto,/ (...) Ade ebbe l'ombra nebbiosa/ e Zeus si prese
il cielo fra le nuvole
e l'etere" (Il. XV, 190-192). Questi versi sembrano adombrare
gli effetti
dell'affievolirsi dell'optimum climatico", che, dopo aver
raggiunto il culmine
attorno alla metà del III millennio a.C, al tempo dei due poemi
doveva essere
pressoché tramontato: infatti, attorno al 2000 a.C, il mite
periodo atlantico
aveva cominciato a virare verso la fase subboreale, con il
conseguente prevalere
delle tempeste, sia marine che atmosferiche, e con la
desertificazione
delle estreme regioni settentrionali, strette in una morsa di
gelo e di ghiaccio.
Tale situazione è ben rispecchiata nei "connotati" dei tre
figli di Crono, messi in evidenza in entrambi i poemi:
Poseidone imperversa sul mare con le
sue terribili burrasche, Ade, il signore dei morti, dimora in
un desolato contesto
artico e lo stesso Zeus presenta tutte le caratteristiche di un
"dio della tempesta",
con i vari epiteti ad esso connessi: "lanciatore di folgori"
("terpikérau-nos", Il. II, 478), "radunatore di nuvole"
("nephelegerétes", Il. I, 511), "nuvola nera" ("kelainephés",
Il. I, 397), "scagliatore di fulmini" ("asteropétes", Il.
VII, 443), "vasto tuono" ("erìgdoupos", Il. V, 672); quando
nevica fitto, è lui
"che agli uomini mostra quali sono le sue armi"
("piphauskòmenos tà ha kè-la", Il. XII, 280). Inoltre l'Iliade
plasticamente ricorda "la folgore del grande
Zeus/ ed il tuono terribile, quando dal cielo rimbomba" (Il.
XXI, 198-199):
non è quindi un caso che Walter Otto accosti la sua figura a
quella di Tesub, il
dio della tempesta hurrita274.

274 Otto, Il mito, pag. 90

Per inciso, in tale quadro si potrebbe anche tentare


d'interpretare quel
singolare passo del I libro dell'Iliade, su cui ci siamo già
soffermati in un capitolo
precedente, dove si narra il temporaneo imprigionamento di Zeus
e la sua
successiva liberazione da parte del "centìmano" Briareo-Egeone,
il gigante del
mare. Che si tratti del ricordo, ovviamente sotto metafora, di
un momentaneo
miglioramento del clima, dopo che il tracollo dell'optimum" era
già iniziato
(Omero potrebbe averlo ripreso da qualche poeta precedente)?
Così si spiegherebbe
il fatto che Zeus, dio della tempesta, venga "legato"; però,
dopo una
breve tregua - forse alcuni anni, o al massimo qualche
decennio: in meteorologia
queste oscillazioni non sono rare - s'inverte di nuovo il trend
e ricominciano
le burrasche, sia atmosferiche che marine: è Zeus che con
l'aiuto di Briareo,
signore del mare tempestoso, riprende la sua egemonia nel
consesso degli
dèi! Quanto a "Briareo" ed "Egeone" - secondo il greco
Filostrato, quest'ultimo
era un soprannome di Poseidone275 - probabilmente sono due
antichissimi
nomi del dio del mare, già caduti in disuso al tempo di Omero,
che infatti li nomina
in quella sola occasione; d'altronde nella mitologia nordica
Egir ha esattamente
la stessa funzione. E a questo punto si spiega anche un'altra
caratteristica del Briareo omerico, cioè che costui era "per la
forza ("bìen") superiore
al padre" (di cui il poeta non ci dice il nome; Il. I, 404):
infatti, proprio come
al pacifico Crono, sovrano dell'età dell'oro, si era sostituito
il tempestoso Zeus
- e, come abbiamo accennato poco fa, il trapasso era stato
preannunciato da un
evento astronomico legato alla precessione degli equinozi, vale
a dire dalla fine
del periodo orionico -- così al mare tranquillo e facilmente
navigabile, che
aveva contraddistinto la fase migliore dell'optimum", era
succeduto un "figlio"
dalle caratteristiche tutte diverse, sintetizzate in quel
vocabolo "bìe" cioè "forza" o, meglio ancora, "violenza" - da
cui trapela una sfumatura sinistra,
minacciosa.

275 Voc. Rocci, voce "Aigaìon"

Il ricordo di un antichissimo disastro climatico d'altronde è


rimasto vividamente
conservato nella memoria di molti altri popoli: pensiamo ad
esempio
al terribile Ragnarok dei miti nordici, il "crepuscolo degli
dèi" annunciato da
una serie di inverni terribili; esso a sua volta trova un
preciso parallelo nella distruzione,
sempre ad opera della neve e del gelo, del paradiso primordiale
indoeuropeo,
l'Airyana Vaèjo, secondo il racconto dell'averto (il testo
sacro iranico):
il dio Ahura Mazda avvertì Yima, primo re degli uomini, che una
serie
di rigidissimi inverni avrebbe distrutto il suo paese; dopo di
allora, vi sarebbero
stati dieci mesi d'inverno e due d'estate276. Ora, questo è
l'attuale clima delle
regioni artiche. Lo stesso Ahura Mazda prescrisse a Yima di
conservare animali
e piante in un particolare recinto, denominato "Vara" (nome con
cui viene anche
indicato il regno primordiale dello stesso Yima), per salvarli
dalla distruzione.
Ed è singolare che, all'estremo nord della Scandinavia- ad
oriente di Capo
Nord e del Tanafjorden - si trovi una penisola, larga e
squadrata, denominata
Varanger: che vi sia un rapporto con l'iranico Vara? Per di più
la "Varena"
avestica ("Varuna" in sanscrito), una delle 16 regioni create
direttamente
da Ahura Mazda, aveva "quattro angoli"277: essa dunque
corrisponde molto
bene alla caratteristica forma della penisola Varanger.

276 Tilak, La dimora artica nei Veda, pag. 263


277 Tilak, La dimora artica nei Veda, pag. 258

In questo quadro, anche alla luce di quanto è emerso sulla


localizzazione
nordica degli Achei, è rimarchevole che singolari tracce degli
Arii, i quali parlavano
una lingua affine al greco e alle lingue germaniche, si
ritrovino nella toponomastica
delle isole Vesterålen e dei territori adiacenti, "a cavallo"
tra la
Norvegia e la Svezia settentrionale. Qui siamo al di sopra del
Circolo polare,
in accordo con le ipotesi del Tilak (che però non è stato in
grado di indicare l'ubicazione
esatta dell'originaria dimora artica dei suoi antenati).
Infatti, i nomi delle isole Langøya e Hinnøya richiamano
rispettivamente
"Lanka" (l'isola dove fu portata la bella Sita, rapita al suo
sposo Rama) e
"Hindi" (l'India nella mitologia viene tradizionalmente
considerata non una
penisola, ma proprio un'isola); nella prospiciente terraferma
si trovano il lago
Sitasjaure e la città di Ramsund; il monte Meru, il Kailasa e
lo stesso Gange
sono ricordati dai toponimi Meraftestind, Kaalas e
Gangnesaksla; nelle radici
di toponimi quali Harstad, Narvik, Vajsa, Kalixålven,
Riksocokka, Sydtoppen,
Jamnfjellet, Arjeplog e tanti altri ancora della stessa area si
ritrovano nomi ben
noti della civiltà indiana; la Birmania, situata ad est
dell'India, ha un singolare
corrispondente sia lessicale che geografico nella
Biarmia, antica denominazione di una regione russa affacciata
sul mar Bianco, ad est rispetto alla Norvegia;
i monti Suleiman nel nord-ovest dell'India ricordano i monti
Solimi dell'Odissea, che a suo tempo avevamo localizzato
nell'area norvegese; l'isola di
Ceylon ha un nome che richiama quello dell'isola artica di
Seiland (inoltre, collocata
com'è davanti all'estremità del subcontinente indiano, ha una
posizione
del tutto analoga a quella di un'altra sua quasi omonima:
Sjælland, situata
all'estremità meridionale della Scandinavia).
Un caso particolarmente eccitante di trasposizione è poi quello
dei nomi
dell'isola indonesiana di Bali e della vicina città giavanese
di Malang; ritroviamo
infatti i loro "prototipi" nordici, anch'essi contigui tra
loro, nei pressi di
Tromsö: si tratta del Balsfjorden e del Malangenfjorden,
rimasti praticamente
identici a distanza di quattromila anni e dodicimila
chilometri. Per di più, attiguo
a Malang vi è il monte Semeru ("Sumeru" o "Meni" è il monte
sacro della
mitologia indiana), mentre ad appena dieci chilometri a sud del
Malangenfjorden
incontriamo un "Sumarbakke", il "colle di Sumar" che con gli
altri
due toponimi va a formare un "triangolo" stupefacente, per di
più completato
da un "Ramfjorden", il "fiordo di Ram", una diramazione del
Balsfjord che
richiama il nome di Rama, l'eroe indù. Ed è proprio qui,
davanti a queste coste, che a questo punto potremmo definire
"paleo-arie", della Norvegia settentrionale,
che a suo tempo avevamo identificato l'omerica Trinachia,
l'isola
del Sole, dove vigeva il divieto, tipicamente indiano, di
uccidere le vacche e di
cibarsi delle loro carni.
Notiamo inoltre che nella stessa area l'Odissea colloca il
gorgo di Cariddi,
identificabile con il Maelstrom; ma anche di esso la mitologia
indiana conserva
una nitida traccia, che in tale contesto diventa subito
decifrabile: si tratta
del celebre mito del "frullamento dell'oceano", riportato nel
Mahabharata. Quello del "mare frullato", usando come frullino
il monte Mandara e come
corda il serpente Vasuki278, è uno dei racconti più singolari e
potenti dell'universo
mitologico indiano: riteniamo che sia ben diffìcile darne
un'interpretazione
al di fuori della prospettiva qui delineata, dove invece si
cala con assoluta
naturalezza. Il suo pendant è l'immagine di quel fiume
Sarasvati, menzionato
poco fa, che scorre nel mare: esso pertanto è il corrispondente
del "fiume
Oceano" omerico. È superfluo ricordare che il ramo più
settentrionale della
Corrente del Golfo lambisce proprio le coste estreme norvegesi,
addolcendone
il clima e rendendo abitabili gli arcipelaghi delle Lofoten e
delle Vesterålen.

278 Morretta, Miti indiani, pag. 135

D'altronde,
"l'intera struttura dell'antica società indiana, e il suo
sistema
di guerreggiare, come li conosciamo attraverso i più antichi
testi in sanscrito,
ricordano spesso in modo singolare i racconti eroici
irlandesi"279: lo afferma il
Piggott, aggiungendo che "il carro da guerra degli Ariani in
India era essenzialmente
uguale al veicolo conosciuto in altre aree di colonizzazione
indoeuropea,
nella Grecia micenea e omerica, o nella Gran Bretagna
celtica"280. E
sempre lo studioso inglese ci dice che "i più antichi popoli di
lingua indoeuropea
in India erano appassionati della corsa col cocchio (...) La
corsa avveniva
lungo una pista fino a un segnale intorno a cui i cocchi
giravano e tornavano
indietro"281: le corrispondenze con il mondo dell'Iliade sono
evidenti.

279 piggott, India Preistorica, pag. 265


280 piggott, India Preistorica, pag. 302
281 piggott, India Preistorica, pag. 286

E a tale quadro, così ricco di correlazioni, di congruenze e di


rimandi reciproci,
diffìcilmente attribuibili tutti al caso, si aggiunge il fatto
che la letteratura
indiana menziona i "Danava", mitici nemici degli Arii282,
ovviamente accostabili
agli omerici Danai; D'altronde, l'area di Tebe risulta contigua
alla Tracia di Omero, che
abbiamo visto essere strettamente legata al dio Ares - nome che
rinvia proprio
agli Arii - e che nel contempo sembra riecheggiare Trakajit,
uno degli appellativi
di Kartikeya, il dio della guerra indù. Quest'ultimo viene
chiamato anche
Skända, la cui affinità con l'omerica città di Scandia (Il. X,
268) e con la
stessa Scandinavia è assolutamente rimarchevole.

282 Morretta, Miti indiani, pag. 314

Appare poi di particolare interesse la circostanza che, a poca


distanza dal
villaggio svedese di Trekilen, situato proprio in quell'area
"tracia" di cui esso
sembra riecheggiare l'antico nome, scorre l'indalsälven, cioè
il "fiume Indals",
il quale richiama da vicino l'Indo, il grande corso d'acqua
colonizzato dai primi
Arii discesi in India dal settentrione. Da tutto ciò
sembrerebbe ragionevole
dedurre che l'omerica Tracia di Ares (sede anche del dio
nordico Thor, come
abbiamo visto in precedenza), situata sul versante occidentale
del Golfo di Botnia,
fosse una regione di confine tra il primitivo mondo indo-ario e
quello
acheo, rispettivamente situati nel nord e nel sud della
penisola scandinava.
D'altronde, il fatto che la lingua degli Arii fosse simile sia
al greco che al germanico
(per non parlare del lituano) si accorda perfettamente con la
tesi che gli
Achei provenissero dall'area scandinava.
Consideriamo a questo punto i nomi di alcuni popoli stanziati
nella valle
dell'Indo, le cui lingue appartengono alla famiglia
indoeuropea, quali i Baiti del
Baltistan ed i loro vicini Dardi, che
ricordano rispettivamente il Baltico ed i Dardani dell'Iliade,
capeggiati da Enea. Ora, "I caratteri antropologici dei Baiti
sono molto vicini a quelli dei Dardi (Ariani)"283 e, ricordando
che la stirpe di
Enea, originario dell'Ida, praticamente si identifica con
quella troiana (egli
stesso era cugino di Ettore), sarebbe suggestivo supporre che
qualche gruppo
di suoi consanguinei, o discendenti, in tempi remoti sia
emigrato verso sud-est.
Notiamo inoltre che i Dardi in guerra utilizzavano uno scudo di
cuoio rotondo284,
del tutto simile a quello che Ettore usa nell'Iliade.

283 Treccani, voce "Baltistan"


284 Treccani, voce "Dardi"

Non solo: sempre lungo l'alto corso dell'Indo - il primo fiume


colonizzato
dagli Arii, nella stessa epoca i cui i Micenei apparivano in
Grecia- in una
valle chiamata "Wakhan", vivono i "Wakhi", il cui nome sembra
l'anello di
congiunzione tra quello degli "Achei" e dei "Vichinghi" (che a
loro volta sono
molto simili tra loro, considerando l'abituale perdita della V,
comune sia al
dialetto omerico che al greco classico). Più a valle sono
stanziati i Sindhi, abitanti
del Sind (una regione del Pakistan), che sono praticamente
omonimi dei
Sinti omerici.
Insomma, la mirabile coerenza interna della geografìa mitica
greca, una
volta inserita nel mondo nordico, sembra allargarsi anche ad
altre mitologie; in
tale ottica, sarebbe senz'altro opportuno verificare se le
grandi composizioni
epiche indiane, il Mahabharata e il Ramayana, anch'esse affette
da curiose
anomalie geografiche, in realtà non rispecchino un contesto
nordico, precedente
alla migrazione in India, in analogia a quanto abbiamo già
constatato
per i poemi omerici.
È
È poi assai significativo il fatto che i miti indiani
menzionino una terra posta
"agli estremi confini del mondo", corrispondente dunque
all'Etiopia omerica:
il Mahabharata la chiama "Uttarakuru", ossia la "terra estrema"
o "regione
estrema", denominata in sanscrito "Paradesha", in iranico
"Pairidaeza",
in greco "Paràdeisos", in ebraico "Pardes"285. Inoltre, "nella
tradizione vedica
compare, in luogo di Airyana Vaéjo, l'Uttarakuru come il luogo
primigenio
degli Arii vedici"286.

285 Tilak, Orione, pag. 15 (Premessa di G. Acerbi)


286 Antichi popoli europei, pag. 56

Esaminiamo allora due singolari toponimi, sempre appartenenti a


quell'area
estrema della Norvegia, un po' ad ovest del Tanafjorden, dove
avevamo
localizzato gli Etiopi: ci riferiamo alla penisola Porsanger e
alla contigua isola
Magerøya (alla cui estremità si trova Capo Nord, la punta
settentrionale del
continente europeo). In questi nomi sembra di ritrovare quelli
dei "Parsi" e dei
"Magi", sacerdoti e seguaci dello Zoroastrismo, una religione
che nel dualismo esasperato fra luce e tenebre rivela una
probabile discendenza da un primordiale
culto solare: essa è incentrata su un culto del fuoco che fa
riferimento all'averto,
il testo sacro iranico, i cui richiami alla patria primordiale
circumpolare
distrutta dal gelo sono chiari e inequivocabili.
Al riguardo, vi è una stretta relazione intercorrente tra culti
solari e adorazione
del fuoco: "Il Sole sembra essere stato, con il cielo diurno,
il grande dio della
religione proto indoeuropea: il formulario tradizionale
conserva non meno di
cinque espressioni che si applicano a lui o ai suoi attributi.
Questo culto solare
si è probabilmente prolungato attraverso un culto del fuoco,
segnatamente nel dominio
vedico (...), ma anche nei domìni romano e germanico"287. E
chissà, aggiungiamo,
se un'espressione dell'Iliade, in cui si fa riferimento "al
raggio/ o del
fuoco ardente o del sole che sorge" ("è pyròs aithoménou è
eelìou aniòntos", Il.
XXII, 134-135) non sia stata tratta da qualche antico
formulario tradizionale.

287 Nouvelle Ecole n. 49, pag. 98

Ora, "le fonti Indo-iraniche testimoniano la presenza di un


culto solare
nella terra dell'Airyana Vaèjo prima che sopraggiungessero i
climi glaciali: il
culto apollineo, che viene non a caso dalla terra degli
Iperborei e che secondo
la tradizione si insedia in Grecia, crea in proposito un
parallelismo impressionante.
Gli Iperborei, che vivono ai confini dell'Oceano (...) trovano
un parallelo
con quegli Arii che vivono in un territorio che, secondo le
fonti avestiche
e vediche, è assolato per sei mesi (o per dieci mesi, secondo
la variante delle
fonti) con il clima mite, la cui divinità preponderante è
quella solare, e con una
notte di altrettanti sei mesi (o due mesi, nella precedente
variante)"288.

288 Antichi popoli europei, pag. 59

Pertanto, anche alla luce del fatto che abbiamo trovato tracce
degli Etiopi
omerici, "estremi tra gli uomini" nel punto più settentrionale
della Scandinavia,
cioè nella penisola Nordkinn, non lontana dalla Varanger (il
che quadra perfettamente
con la "terra estrema" del Mahabharata ed il "Pairidaeza"
iranico), dall'insieme
di tutte queste considerazioni - ricordando anche l'ubicazione
della dimora
di Ade, dove Omero evoca gli antichissimi riti comuni al mondo
romano arcaico
ed a quello vedico - emerge che la Urheimat, cioè la sede
primordiale degli
Indoeuropei, come aveva già intuito il Tilak e come ci
confermano tante tradizioni
differenti, era probabilmente una terra artica, la quale ormai
può essere collocata
con precisione sulla carta geografica: si tratta dell'estremità
settentrionale
della Scandinavia, ovvero di quella sorta di "cappello " del
continente europeo,
affacciato sul Mar Glaciale, che va dalle ìsole Vesterålen alla
penisola di Kola ed
al cui vertice troviamo le penisole Porsanger, Nordkinn e
Varanger nonché l'isola
Mageröya e il Tanafjorden; fu qui (e forse anche più a
settentrione, nelle "isole
al nord del mondo " dei miti celtici) che, a partire da cinque
o seimila anni fa,
allorché la costellazione di Orione segnava l'equinozio di
primavera e il Dragone
indicava il Polo Nord, si sviluppò l'originaria civiltà
indoeuropea, nel periodo
climaticamente più favorevole che si sia mai verificato in tale
area.
Successivamente però l'optimum climatico" cominciò a declinare
e questo
segnò la fine del "regno degli dèi" (a cui fanno spesso
riferimento i documenti
egizi; ma ricordiamo che anche i Feaci vivevano accanto agli
dèi prima
di scendere nella Selleria, cioè nella Norvegia meridionale);
l'Edda dì Snorri ce ne dà un resoconto drammatico (del tutto
analogo a quello, riportato in precedenza,
dell'averto, in cui si narrava la distruzione dell'Airyana
Vaèjo, il paradiso
primordiale degli Iranici): "Verrà l'inverno chiamato
Fimbulvetr ('inverno
spaventoso'): la neve cadrà vorticando da tutte le parti; vi
sarà un gran
gelo e venti pungenti; non ci sarà più il sole. Verranno tre
inverni insieme, senza
estati di mezzo" {Gylfaginnìng, 51). Per inciso, questi inverni
ininterrotti
fanno pensare agli anni senza estate provocati da grandi
eruzioni vulcaniche,
anche in tempi recenti: pensiamo a quella del Tambora nel 1815.
I Protoindoeuropei
furono perciò costretti ad emigrare; ed ecco che attorno al
2000 a.C
troviamo la cultura achea attestata sulle sponde del Baltico: è
quella cantata nei
poemi omerici, dove è ancora vivo il ricordo dell'epoca felice
precedente, l'età
di Crono, poi soppiantato da Zeus, il dio della tempesta.
Più in generale, si può ritenere che il tracollo dell'optimum"
con ogni
probabilità abbia coinvolto non soltanto il nord della
Scandinavia, ma anche gli
altri bordi continentali situati tutt'attorno al Mare Artico,
comprendenti le coste
della Siberia, dell'Alaska, del Canada, della Groenlandia,
nonché le innumerevoli
isole ad essi adiacenti: si tratta di milioni di chilometri
quadrati, attualmente
inabitabili ma che fino a quattro o cinquemila anni fa erano
potenzialmente
suscettibili di insediamenti umani anche consistenti. In quel
periodo
eccezionalmente favorevole, durato per millenni, le terre
affacciate tutt'attorno
a quella sorta di "Mediterraneo Artico" che circonda il Polo
Nord, e che
allora era libero dai ghiacci, forse svilupparono una comune
civiltà marinara
ed uno stesso linguaggio, come il mito della Torre di Babele,
diffuso in tutto il
mondo fino alla Polinesia, sembra indicare. Il successivo
raffreddamento del
clima su aree tanto vaste dovette pertanto innescare movimenti
migratori di
immensa portata, provocati da una catastrofe ambientale
inimmaginabile.
Per inciso, "è ragionevole supporre che l'evoluzione climatica
nel corso
dell'Olocene sia stata la stessa per tutto il pianeta"289. Se
venisse dimostrato che
in una remota preistoria anche l'emisfero australe è stato
interessato da un "optimum
climatico", le prospettive per la primitiva storia dell'umanità
sarebbero
a dir poco
sconvolgenti. Tra l'altro si spiegherebbero le carte di Piri
Reis, risalenti all'inizio del XVI secolo ma presumibilmente
ricalcate su modelli assai
più antichi, che mostrano il profilo di un'Antartide libera dai
ghiacci; d'altronde
Dante Alighieri, che non di rado sembra attingere ad antiche
fonti tradizionali,
nel primo canto del Purgatorio, riguardo alle "quattro sante
stelle",
identificabili con la Croce del Sud, enigmaticamente le
definisce "a tutti ignoXefuor
eh 'alla prima gente".

289 Treccani, voce "Olocenico, periodo"

Ma la crisi climatica non era ancora finita: il progressivo


deterioramento
del clima - a cui il definitivo colpo di grazia venne forse
inferto dalla catastrofica
esplosione di Thera e dai suoi effetti su tutto il pianeta, il
cui ricordo poi si
confuse con quello di catastrofi precedenti - avrebbe costretto
gli Indoeuropei
a cercarsi ancora altre sedi, a latitudini sempre più basse, e
così si spiega l'esodo
dei Micenei in Grecia, degli Arii in India, degli Hittiti in
Anatolia, degli Hyksos
in Egitto e così via, durante la prima metà del secondo
millennio.

Possiamo a questo punto ipotizzare che, in seguito alla fine


dell'optimum",
mentre gli Achei scendevano per il Dnepr, diretti verso il mar
Nero, gli
Arii si siano incanalati giù per il Volga (Tav. XIII), verso il
mar Caspio: abbiamo
già avuto modo di sottolineare l'enorme importanza di queste
vie d'acqua
non solo per le migrazioni, ma anche per i commerci tra l'area
baltico
scandinava e le regioni del Mediterraneo orientale e dell'Asia
meridionale. Alcuni
dei migratori si fermarono in Iran, mentre gli altri
proseguirono fino all'India
e all'Indonesia (gli antichi Laos, che hanno dato il proprio
nome ad una
nazione della penisola indocinese contigua al Vietnam, hanno un
nome che in
greco significa "popolo").
Pertanto nella prospettiva qui delineata le steppe della Russia
e l'area del
Caucaso si ridurrebbero ad un punto di irradiazione secondaria,
una sorta di
snodo legato alla loro posizione rispetto ai fiumi provenienti
dal nord, mentre
la vera origine dei popoli indoeuropei si troverebbe molto più
a settentrione e
la loro diffusione - o quantomeno la diaspora finale, di cui la
discesa degli
Achei nel Mediterraneo e quella degli Arii in India non
rappresentano che due
episodi - sarebbe stata causata dal tracollo climatico avvenuto
in Scandinavia
proprio in quel periodo. Nella stessa ottica, come abbiamo già
accennato, si potrebbe
interpretare anche il sorgere ed il fiorire delle civiltà delle
steppe, localizzate
nelle aree interessate da quei due fiumi, il Dnepr e il Volga,
che tanta importanza
hanno avuto come vie commerciali e di transito fra il nord e il
sud.
Oltretutto una localizzazione nelle pianure russe o nel
continente asiatico
non si concilia né con la tipologia dei primitivi Arii, alti e
biondi, né, tantomeno,
con la fortissima caratterizzazione marinara sia della
mitologia greca,
sia della civiltà micenea, la quale sin dal suo apparire appare
intensamente
proiettata sull'arte della navigazione: ciò presuppone
infatti una tradizione già consolidata da molto tempo. Questo
ci viene confermato dalle convergenze riscontrate fra miti
omerici e nordici, che presentano caratteri estremamente
arcaici
e, nel contempo, indiscutibilmente marini: pensiamo alle
correlazioni tra
Egeone ed Ægir o a quelle tra Proteo e il marmendill, che di
certo con l'ambiente
delle steppe hanno certamente ben poco a che vedere.
Per quanto riguarda la regione caucasica, notiamo che l'insigne
egittologo
Flinders Petrie vi ha rilevato la presenza di svariati toponimi
riferibili alla
geografia mitica degli antichi Egizi, quale emerge dal
cosiddetto "Libro dei
morti", che spesso fa riferimento ad una primordiale "Terra
degli dèi"290: tra i
numerosi casi che egli segnala, vi è quello del nome della
città di Baku, che ricorda
Bekhaw, il monte di Osiride. Curiosamente, in lingua norvegese
"bakke"
significa "colle": a questo punto verrebbe quasi la tentazione
di ipotizzare che
le piramidi della piatta valle del Nilo - opera da una civiltà,
che praticava culti
solari, apparsa improvvisamente nell'area mediterranea -
fossero riproduzioni,
magari a grandezza naturale, delle alture di una ipotetica sede
originaria
degli Egizi, prima della loro discesa verso il Caucaso e la
valle del Nilo.
D'altronde il nome Nårte, divinità arcaica egizia divenuta
Neith nella trascrizione
greca291, ricorda i "Narti", antenati mitici degli Osseti, un
popolo caucasico,
studiato dal Dumézil, su cui torneremo fra poco. Peraltro Nårte
richiama
anche il nome di Nerthus, dea dei Germani (Germania, 40, 2) -
che a sua volta è "etimologicamente identica a Njördhr"292, il
dio nordico -e la correlazione
Nårte-Nerthus viene rafforzata dal fatto che il mitico
fondatore della prima
dinastia egizia, Menes, è quasi omonimo del leggendario
capostipite dei Germani,
Mannus (Germania, 2, 2; ma pensiamo anche al Manu indù, al
Menebus
amerindo e al polinesiano Maui, tutti protagonisti delle
rispettive mitologie;
quanto al Minosse omerico, abbiamo visto che la sua "Creta"
pomerana coincide
con il territorio dei discendenti di Mannus).

290 The Origin of the Book of the Dead, in Ancìent Egypt,


June 1926, citato dal de Rachewiltz
ne Il libro dei morti degli antichi egiziani, pag. 8
291 Treccani, voce "Egitto, Religione "
292 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pag. 280

E' altresì curiosa la circostanza che in un'area circoscritta


della Finlandia
meridionale, ad oriente di Helsinki, si incontrano numerosi
toponimi i quali
mostrano rimarchevoli assonanze sia con quelli egizi, sia con
quelli per così dire
"egizio-caucasici" segnalati dal Flinders Petrie: ecco Voikkaa
(il monte
Bekhaw); il Teutjärvi (il dio Thot); il Kymijoki (la "terra di
Kem", vale a dire
l'Egitto); Kouvola (Khufu, cioè Cheope); Pyhtää (il dio Ptah);
Karhula (la città di Kher-aha); Sakkara (Saqqarah è il nome
della località dove sorge l'antichissima
piramide a gradini del re Zoser); Sokerimäki (Sokar è un
antichissimo
dio egizio: su questa collina, in finnico "mäki", di Sokeri
sarebbe
interessante avviare una ricerca archeologica), e così via. Pur
ricordando che tra le antiche
città egiziane vi era una "Troiu", sarebbe comunque
estremamente arrischiato
cercare di trarre conclusioni affrettate da tutto ciò:
occorrono ovviamente
anche riscontri di altro tipo, pur se è difficile sottrarsi al
fascino di un
"giacimento di toponimi" tanto ricco e concentrato in un'area
circoscritta.
In ogni caso, un'eventuale provenienza degli antichi Egiziani
dal settentrione,
naturalmente anteriore alla diaspora indoeuropea, oltre a
quelle singolari
assonanze tra nomi mitici egizi, caucasici e nordici
spiegherebbe anche il
mistero della curiosa testa di animale con cui essi effigiavano
il dio Seth, e che
non si è mai riusciti ad identificare nella fauna africana:
quel muso particolare,
lungo e un po' incurvato, sembra quello di una renna o di un
alce... Ma pensiamo
anche al dio Khonsu, praticamente omonimo di Consus, divinità
romana
arcaica, o a Mnevis, che ricorda Minerva (per non parlare di
certi paralleli
con la religione tibetana, a cui fa riscontro la quasi omonimia
tra "Kem", il nome
con cui era chiamata la terra egizia, e "Kham", un'antica
regione del Tibet);
e, a chiudere questo bizzarro triangolo Finlandia-Egitto-Roma,
sta il riscontro,
assolutamente straordinario, tra il "Manala" finnico, legato
alle acque dell'aldilàche
abbiamo trovato nella vicenda di Lemminkäinen fatto a pezzi,
gettato per l'appunto nel Manala e poi ricomposto, esattamente
come Osiride - ed
il "Manaus lapis" dei Romani: quest'ultimo è la pietra manale,
ovvero la "pietra
sacra che ha la virtù di provocare la pioggia. Con tale
denominazione fu anche
designata la pietra che chiudeva la porta dell'Orco, nel mondo
degli Inferi,
rimossa la quale le anime, ossia i Mani, potevano liberamente
uscire dall'
Ade"293.

293 Treccani, voce "Manale, pietra"

Tutto ciò sembra accordarsi col fatto che i Romani si vantavano


di essere
discendenti di una stirpe di origine "troiana" trapiantata nel
Lazio (di qui anche
la loro tradizionale amicizia con i Veneti, sulle cui possibili
radici finniche
ci siamo già soffermati). Ora, una suggestiva conferma della
loro possibile provenienza
dal Baltico orientale la ritroviamo, oltre che in quei toponimi
attorno
alla zona di Toija su cui ci siamo già soffermati in
precedenza, anche nel fatto
che l'attuale idioma della Lituania presenta singolari affinità
con il latino: gli
studiosi hanno riscontrato decine di vocaboli uguali o molto
simili nelle due lingue.
Inoltre, riguardo alle numerosissime divinità minori degli
antichi lituani,
il Vyncke sottolinea l'analogia di "questa pletora di spiriti,
dalle funzioni spesso
estremamente marginali, col rito romano degli
indigitamenta'294. Sempre
in Lituania sono numerosi i cognomi "latineggianti" - ad
esempio
Maciulevicius,
Vencevicius, Skarbalius... ma pensiamo anche a Vilnius, la
capitale - e si riscontrano toponimi come Romainias o Romanavas
(e Romuva, nella Prussia
orientale, era il più importante luogo di culto, distrutto nel
XIII secolo, delle
genti baltiche). In tale prospettiva appaiono interessanti
anche i nomi di certi
fiumi di quella regione, quali il Neris e il Viliia,
accostabili alla Nera e al Velino,
o il Nemunas, che potrebbe richiamare Nemi.

294 Storia delle religioni, pag. 41 {La religione dei


Baiti)

Inoltre, il nome della cittadina lituana di "Raseiniai" sembra


ricordare il
nome dei "Råsena", con cui gli Etruschi, vicini dei Romani,
chiamavano se
stessi. D'altra parte, un famoso passo delle Storie di Erodoto
(1,94) colloca la
patria originaria degli Etruschi nella Lidia: che essa sia
identificabile con la
"Lidia" nordica del re Tantalo, situata non lontano dalla Troia
finlandese? Oltretutto,
tra Helsinki e Lahti si incontra una "Korttia", che sembrerebbe
richiamare
il nome di Cortona, ossia, secondo Virgilio, la patria di
Dardano, capostipite
della stirpe reale troiana, "di qua partito dalla sede etrusca
di Cortona"
("Hinc illuni Corythi Tyrrhena ab sede profectum"; Eneide VII,
209); non
distante da Korttia si trova poi una Kabböle, che parrebbe
rimandare ai Kabiri,
metallurgi originari della Frigia e legati allo stesso Dardano.
Notiamo altresì che gli Etruschi erano esperti metallurgi (e
non è improbabile che i loro antenati
fossero arrivati in Toscana proprio in cerca di metalli): essi
chiamavano
"Aiser" i loro dèi ("Ais" al singolare), termine che richiama
da vicino gli "Asi"
("Æsir") dei miti norreni; inoltre un loro tipico nome proprio,
"Lars" (pensiamo
a Lars Porsenna), è tuttora comunissimo nel mondo scandinavo;
ancora, diversi
caratteri del loro alfabeto sono identici alle rune nordiche
(abbiamo anche
visto che nelle loro tombe sono ritratti certi mostri marini,
con testa di cavallo,
del tutto simili a quelli descritti nella letteratura norrena).
Tornando all'area lituana, vi si può riscontrare un'altra
coincidenza quanto
mai intrigante. Ricordiamo infatti che proprio qui si trova la
regione della
Curlandia, cioè la "Curetia" di Saxo Grammaticus, che in
precedenza avevamo
ricollegato ai mitici Cureti omerici: ora, sarebbe assai
suggestivo ricondurre
il nome di questi ultimi, "Kourétes", a quello pressoché
identico dei
"Quirites" romani (la cui etimologia in effetti è controversa).
Non solo: il
Dumézil sottolinea la distinzione esistente nel mondo romano
tra i comuni
"quirites" e i "milites", ossia i cittadini sotto le armi295, e
ciò trova un singolare
riscontro nel mito greco della nascita di Zeus, dove compaiono
i Cureti, e,
in una variante riportata dal Kerényi, certe gigantesche
api296, in greco "mélittai":
ecco i "milites", ossia i soldati, con il loro pungiglione! Per
inciso, la stessa
metafora la ritroviamo in Etiopia, dove una leggenda narra che
il re Lalibela
alla
nascita fu ricoperto da uno sciame d'api, simbolo dei soldati
che in seguito lo avrebbero difeso. D'altro canto, pare che nel
primitivo Campidoglio
fosse effigiata la capra Amaltea, anch'essa legata al racconto
della nascita di
Zeus (pensiamo al dio lituano Dievas, ad esso tanto affine):
sarebbe a questo
punto estremamente suggestivo ipotizzare una relazione fra tale
nascita - a sua
volta riconducibile ai misteri della metallurgia - e la
fondazione della città.

295 Dumézil, La religione romana arcaica, pag. 108


296 Kerényi, Miti e misteri, pag. 410

Oltretutto, la presenza di quelle api in un contesto ben


preciso, legato per
l'appunto alla metallurgia, ha un bel parallelo proprio nel
Kalevala, in un passo
dove si racconta il mito dell'origine del ferro (runo IX, già
menzionato a proposito
del fatto che il ferro nasce da un latte nero, uno bianco e uno
rosso, i tre colori
"solari" dell'alchimia): il fabbro Ilmarinen, per temprare il
metallo, ricorre al
miele dell'ape Mehiläinen (colpisce la somiglianza di questo
nome con il greco
"mélitta", "ape"). Quanto alla magica cornucopia di Amaltea,
essa appare abbastanza
simile al Graal da farci supporre che entrambi questi mitici
"oggetti" fossero
legati alla stessa simbologia, connessa sempre alle attività
metallurgiche: come
abbiamo già ipotizzato proprio riguardo al Graal, potrebbe
trattarsi di metafore
del crogiolo dove gli antichi fonditori raccoglievano il
prezioso metallo, incandescente
come un piccolo Sole e apportatore di ricchezza e potere
attraverso
le attività agricole e militari. Saremmo tentati di accostarvi
il "meraviglioso uccellino"
di un racconto tzigano, capace di rifornire di ogni ben di Dio
il suo fortunato
proprietario: esso, significativamente, è colorato di rosso, di
bianco e di nero297.
D'altronde, abbiamo avuto già modo di richiamare gli stretti
legami degli
zingari con la metallurgia (nonché, tramite i Sinti, con lo
stesso dio Efesto).

297 Ficowski, Il rametto dell 'albero del Sole, pag. 118

Con l'occasione, osserviamo che nella letteratura vedica il


vocabolo "grafia"
indica un "vaso sacrificale"298, ovvero un particolare
recipiente, ad uso rituale,
per raccogliere il "soma", la bevanda d'immortalità della
mitologia indiana299 (d'altronde il termine greco "kérnos", ad
esso affine, indicava un piatto per le offerte,
usato durante i riti misterici): ora, la somiglianza del
"graha" con il Graal,
che esprime all'incirca lo stesso concetto, ci sembra
meritevole di attenzione.

298 Tilak, Orione, pag. 161


299 Monier-Williams, Sanskrit-English Dìctionary, voce
"graha"

A proposito poi del "soma", chiamato "haoma" in iranico,


segnaliamo la
sua somiglianza al finnico "juoma", ossia "bevanda". Questo
vocabolo è ripetutamente
usato nel runo XX del Kalevala, che si sofferma sull'origine
mitica
della birra (un'espressione tipica è "miesten juoma", ossia
"bevanda degli uomini").
La birra ha un ruolo importante in molte mitologie, tra cui
quella nordica,
dove rappresenta "la bevanda sacra che ha il potere di far
trascendere i limiti
umani"300; dal canto loro, gli antichi Egizi facevano risalire
la sua origine
addirittura a Ra, il dio del sole. Se ora riflettiamo sul fatto
che il soma - che
veniva mescolato con latte cagliato (Rigveda I, 5, 5) e miele,
il che ricorda il
"vino di Pramno", menzionato da Omero sia nell'Iliade che
nell'Odissea- era
di colore fulvo o bruno (Rigveda Vili, 29, 1 ; IX, 3,9),
potremmo ipotizzare che
in realtà si trattasse di una sorta di birra. Notiamo ancora
che i Romani usavano
una specie di surrogato del vino, derivato dal miglio, che
chiamavano "camum"
("kàmon" in greco): ecco di nuovo la radice di soma-haoma-
juoma.

300 Chiesa Isnardi, Leggende e miti vichinghi, pag. 163

E adesso, dopo aver ritrovato le possibili tracce di una


discesa degli Egizi
dall'estremo nord (al riguardo, sarebbe suggestivo
l'accostamento tra la mitica
terra di Tamanu, citata nei loro documenti, e la Costa Timana,
affacciata
sul Mare Artico, ad est del Mar Bianco, tra la penisola di
Kanin ed il bacino della
Peciora; ma l'indizio più importante rimane la centralità del
culto solare nella
loro religione), ricordiamo che, seguendo Omero, all'estremità
settentrionale della Scandinavia avevamo localizzato il popolo
degli Etiopi, "gli estremi degli
uomini"; avevamo altresì notato la coincidenza tra il nome del
Tanafjorden
e quello del lago Tana, nell'Etiopia africana. Ora, nel
Tanafjorden sbocca un
fiume norvegese, anch'esso chiamato Tana, che per un tratto
segna il confine
con la Finlandia e che pure ha un omonimo in Africa Orientale:
il fiume Tana,
che nasce nell'area del monte Kenya e sbocca nell'Oceano
Indiano poco a nord
di Mombasa. Un affluente di questo Tana africano si chiama
Tuia, nome che
richiama sia la mitica Tuie dell'estremo nord, sia il Tuloma,
un fiume artico che
scorre parallelamente al Tana norvegese e sfocia nel Mar
Glaciale all'altezza
di Murmansk, nella penisola di Kola; inoltre la località di
Tunga, che troviamo
sul versante orientale del Tanafjorden, è quasi omonima di una
Tanga, situata
in Tanzania poco a sud della foce del Tana (nei cui pressi
oltretutto si trova
una Lamu che sembra rimandare alla Lamøy norvegese, a sua volta
accostabile
alla Lamo omerica, la città dei Lestrigoni). A questo punto non
possiamo
non considerare con particolare attenzione le ulteriori
omonimie che man
mano ci si presenteranno.
Ricordiamo adesso che in quell'area estrema della Norvegia dove
avevamo
localizzato gli Etiopi, oltre al Tanafjorden avevamo
individuato la penisola
Porsanger e l'isola Mageröya, che sembrano rimandare ai Parsi
ed ai Magi:
con il loro culto del fuoco essi effettivamente si riallacciano
agli Etiopi, definiti nell'Odissea "quelli del sole che cade e
quelli del sole che nasce"; inoltre,
in Omero "Perse" è la sposa del Sole (Od. X, 139), madre di
Circe e di Eeta,
sovrani delle isole dove per due mesi splende il sole di
mezzanotte, mentre a
loro volta i Magi si ritrovano non solo in Persia, ma anche
nell'Etiopia meridionale,
e precisamente nell'area del lago Turkana (chiamato lago
Rodolfo fino
al 1979). Tutto ciò sembra rafforzare quel sorprendente asse
già intravisto
tra l'estremità settentrionale della Norvegia (l'Etiopia
omerica) e l'Africa
orientale, e che adesso si estende al mondo indo-iranico,
custode dei miti
sull'origine polare degli Indoeuropei. Un ulteriore tassello
potrebbe essere costituito
dal nome dell'isola Masöya, contigua a Mageröya: esso appare
pressoché uguale a quello dei Masai, una popolazione
dell'Africa orientale dalle peculiari
caratteristiche fisiche, che in passato hanno indotto alcuni
studiosi a ritenerli
discendenti da antichi incroci tra bianchi e neri (e certi
aspetti della cultura
Masai potrebbero essere accostati a quanto è stato ipotizzato
sulla primordiale
civiltà indoeuropea); così pure, l'isola norvegese di Havöya,
distante solo
qualche chilometro da Masöya, ricorda il nome della regione
etiopica di Hawash,
a nord-est di Addis Abeba.
Ma nulla può eguagliare il fascino del Monte Meru, la montagna
sacra dei
miti indiani, asse del mondo, che, come ci ricorda Gombrich,
era il segno del
Polo nonché la sede degli dèi301: ora, "Meru" è anche il nome
di un grande
vulcano, alto più di 4500 metri, situato proprio in Africa
orientale, nei pressi
del Kilimangiaro. E che non possa trattarsi di una coincidenza
ce lo confermano
non solo tutte le considerazioni esposte fino ad ora, ma anche
il fatto che nel
territorio circostante gravita il popolo degli Arusha, nel cui
nome si ritrova la
radice degli antichi Arii. Ancora più stupefacente è la
circostanza che poco più a nord, proprio nella zona del Tana e
del Tuia, ritroviamo un villaggio, anch'esso
chiamato Meru, situato quasi esattamente sull'Equatore (per la
precisione,
esso dista dalla linea equatoriale appena tre primi d'arco,
equivalenti, in
misure lineari, a meno di 6 km).

301 Antiche cosmologie, pag. 99

Cosa potrebbe significare tutto ciò? Possiamo ragionevolmente


supporre
che in tempi remoti, allorché nell'estremo nord dell'Europa
iniziò il declino
dell'"optimum climatico", una popolazione indoeuropea sia
discesa verso sud,
in cerca di un clima più mite, suddividendosi in più rami, uno
dei quali si stabilì
in Iran, mentre un altro giunse fino alle coste dell'Africa
orientale, penetrò
nell'interno e, incrociandosi con i locali, diede luogo ai
popoli Masai, Arusha
e così via. È altresì comprensibile che questi adoratori del
fuoco, nell'incontrare
un grande vulcano attivo, gli abbiano attribuito il nome del
Meru, la
loro montagna sacra (invece trascurarono il vicino
Kilimangiaro, che pure è più alto e più imponente,
presumibilmente perché era in quiete e non in eruzione;
se i geologi riuscissero a datare l'attività vulcanica del Meru
negli ultimi millenni,
forse se ne potrebbe trarre qualche utile indicazione
sull'epoca dell'arrivo
degli Indoeuropei).
Costoro dovevano essere anche astronomi e astrologi, attenti ai
moti e alle
posizioni delle stelle (forse a causa della vocazione marinara
dei loro antenati);
al riguardo, pensiamo a ciò che la tradizione ci tramanda sui
Magi (uno
dei quali era nero) che ritroviamo sia in Iran, sia in Etiopia,
sia, seguendo Omero,
in quell'Etiopia artica in cui si sono per così dire
"cristallizzati" i nomi di
Mageröya e del Tanafjorden: dovettero pertanto accorgersi
subito della singolarità
rappresentata, nel loro nuovo territorio, dalla linea
dell'Equatore, che costituisce
il logico pendant del Polo: ecco dunque l'idea di
"contrassegnarlo",
probabilmente con un santuario, attorno a cui si è poi
sviluppato il villaggio attuale,
al quale diedero lo stesso nome della loro mitica montagna
"polare". Infine,
una notazione sulla precisione di quella latitudine: essa
appare sbalorditiva,
però si tratta comunque di una misura che, a differenza della
longitudine,
non richiede strumenti particolarmente sofisticati (in ogni
caso, non è improbabile
che una popolazione in grado di effettuare misure di posizione
così accurate
avesse un consolidato background di tipo marinaro).

Torniamo adesso all'area caucasica: in Ossezia, una regione


della Transcaucasia,
ci si imbatte in racconti leggendari che ricalcano in modo
impressionante
i miti arturiani; in particolare, il Grisward ha messo in luce
rimarchevoli
analogie tra la morte dell'eroe osseto Batraz e quella di
Artù302; entrambi,
infatti, prima di morire sono costretti a lanciare in mare la
propria spada (nel
caso di Artù è la mitica Excalibur, quella estratta dalla
roccia) e contestualmente
si verifica un evento straordinario.

302 Dumézil, Storie degli Sciti, pag. 86

Ora, i miti arturiani, ovvero la cosiddetta Matière de


Bretagne, presumibilmente
sono di origine celtica; si può pertanto supporre che i Celti
dopo il tracollo
del clima siano migrati, alcuni verso l'Europa occidentale,
altri, per via fluviale,
verso il Caucaso: da qui la convergenza di racconti presenti in
aree così distanti.
D'altronde, che tali leggende siano riconducibili ad un'epoca
molto remota
lo potremmo forse dedurre anche dai parallelismi con la
mitologia greca: oltre
che alla "spada nella roccia", comune ad Artù e a Teseo,
pensiamo ad esempio
alla vicenda del Re Magagnato, il quale poteva essere guarito
soltanto dalla stessa
lancia che lo aveva ferito, esattamente come Tèlefo, figlio di
Eracle, colpito
dalla lancia di Achille, che a sua volta presenta non pochi
punti di contatto col
personaggio di Lancillotto, figlio della "Dama del Lago": su
tali analogie si potrebbe
continuare all'infinito. Né a questo punto ci sorprende che "in
Irlanda,
nell'alto Medioevo, fra le dodici storie principali che i bardi
dovevano conoscere
si trovavano i ratti di donne (aithid) (...) Il ratto di
Etaine, moglie del re supremo
Eochaid Aireain, da parte del dio-eroe Mider scatena una
guerra"303.

303 Markale, I Celti, pag. 73

Insomma, la collocazione originaria - sia nello spazio che nel


tempo delle
vicende che hanno ispirato la Matière de Bretagne, anch'esse
tutte impregnate
di miti solari, andrebbe forse
ricercata in tempi e contesti assai diversi da quelli a cui
tradizionalmente si suol fare riferimento. Naturalmente, ciò
non
esclude affatto che in epoche relativamente recenti vi possano
essere state figure
storiche che si sono per così dire sovrapposte ad altre
precedenti, riferibili
ad un substrato mitico molto più antico. Ad esempio, le vicende
di un re
bretone del VI secolo chiamato Artù potrebbero essere state
mescolate a ricordi
di figure mitiche forse risalenti addirittura alla primordiale
civiltà indivisa
(di cui altri prototipi sono Sigfrido, Teseo, Batraz ecc.). È
poi evidente
che i parallelismi con la mitologia classica possono essere
spiegabili in chiave
sia di fondo comune indoeuropeo, sia, talvolta, anche di
assimilazione, da
parte del mondo celtico, dell'antico retaggio di racconti e
leggende che gli
Achei, prima di scendere nel Mediterraneo, dovettero lasciare
nelle isole britanniche
insieme con quelle tracce archeologiche su cui ci siamo già
soffermati.
Con l'occasione, segnaliamo qui alcune suggestive analogie tra
la figura
del Cavaliere Verde, protagonista del Sir Gawaìn, e il
personaggio di Orione,
uno dei più straordinari della mitologia greca (il quale,
secondo l'Odissea, V,
121-124, avrebbe trovato la morte inOrtigia, l'isola forse
identificabile con la
Gran Bretagna): essi sono ambedue di statura gigantesca,
ambedue cacciatori
- il Sir Gawain si sofferma a lungo sulle fortunate cacce del
misterioso Cavaliere;
a sua volta l'Odissea nell'Ade ci mostra "Orione gigante/ che
caccia in
branco le fiere pel prato asfodelo" (XI, 572-573) - ambedue
vengono colpiti alla
testa; in entrambi è accentuatissima la simbologia solare.
Purtroppo qui non
possiamo dilungarci a lungo su tale affascinante questione;
accenniamo soltanto
ad una delle raffigurazioni più potenti del personaggio di
Orione, quella
del gigante che trasporta il fabbro Cedalione sulle spalle (nel
mondo cristiano
diventerà poi l'immagine di San Cristoforo che traghetta il
piccolo Gesù): ora,
questo Cedalione è quasi omonimo di Kurdalaegon, il mitico
fabbro degli Osseti304.
Pertanto un circuito di corrispondenze tra mitologia greca e
celtica si va
a chiudere proprio nell'area caucasica, là dove gli studiosi
riscontrano quelle
analogie con i miti arturiani che ricordavamo poco fa.

304 Dumézil, Storie degli Sciti, pag. 26

Infine, al termine di questa piccola digressione, puntiamo


l'attenzione
sulla fascia (il "budriere") che il Cavaliere Verde dona a
Galvano al termine
dell'avventura: l'anonimo poeta la considera molto importante,
visto che la fa
diventare un'insegna dei cavalieri di Artù - anzi, addirittura
afferma che "fu
chiamata la gloria della Tavola Rotonda" (Sir Gawain e il
Cavaliere Verde, v.
2519) - e con essa conclude il suo lavoro. A questo punto, per
ritrovarla, dobbiamo
alzare gli occhi al cielo: lassù, tra le stelle della
costellazione di Orione,
ve n'è
una, la "cintura del cacciatore" ("Mintaka" o Delta
Orionis305), la quale resta a ricordo perenne di un mito,
insieme greco e celtico, che si perde
nella notte dei tempi, quando la primordiale civiltà
indoeuropea era ancora indivisa.

305 Le costellazioni, pag. 210

I
corrispondenti di queste straordinarie figure mitiche li
ritroviamo anche
nella letteratura nordica: l'Edda di Snorri infatti si sofferma
a lungo sul
duello del dio Thor con il gigante Hrungnir, nel corso del
quale i due si colpiscono reciprocamente alla testa; nel
seguito della vicenda, Thor racconta di
aver trasportato sulle spalle un certo Aurvandill, sistemato in
una gerla; nel
corso dell'operazione, uno degli alluci dell'uomo si spezzò e
fu scagliato nel
firmamento, dove divenne la stella Aurvandilstà (per
approfondimenti sul rapporto
tra Orione e Aurvandill, che nelle Gesta Dan or um diventa
Horvendillus,
padre di Amleto, rinviamo all'"Appendice 2" del Mulino dì
Amleto): il tema del
duello rimanda al Sir Gawain, il trasporto sulle spalle e la
stella ad Orione,
mentre il tema della ferita alla testa è comune a tutti.
L'insegna dei cavalieri di Artù con ogni probabilità si
identifica anche
con quella descritta nel Beowulf, che il protagonista trova nel
tumulo dove il
dragone custodisce il tesoro: "[/« 'insegna tutta d'oro ("segn
eall-gylden")/ sospesa,
alta sopra il tesoro,/ meraviglia manuale grandissima, tessuta/
a mano
con ingegno" (Beowulf 2161-2169). Anche qui, il dragone sembra
rappresentare
il signore del cielo stellato: dunque il suo "tesoro" potrebbe
essere l'intero
firmamento, e l'"insegna" una particolare stella o
costellazione. Quale? Nelll'Odissea abbiamo già incontrato la
figura di Eracle, in tenuta da cacciatore (accostabile
dunque al personaggio di Orione), la cui cintura è un oggetto
assolutamente
straordinario, singolarmente simile all'insegna custodita dal
drago del Beowulf "Paurosa attorno al petto, a regger la
spada,/ scendeva una cintura
d'oro ("chryseos telamòn") (...)/ nemmeno con tutta l'arte
potrebbe rifarne una
simile/chi quella cintura lavorò con la sua arte" (Od. XI, 609-
610; 613-614).
Ora, in tale meraviglia ancora una volta non è diffìcile
riconoscere la cintura
di Orione, splendente nel cielo notturno: e così si spiega
anche perché la superba
immagine dell'eroe, che Omero ha probabilmente estratto da un
bagaglio
iconografico estremamente arcaico, appaia "simile a notte buia"
("eremnèi
nyktì eoikòs"; Od. XI, 606).
Dunque il Beowulf sembra voler sottolineare il rapporto tra
Orione e il
Dragone: si tratta delle due costellazioni che in quella
primitiva civiltà iperborea
dovevano essere ritenute le più importanti, in quanto a
quell'epoca, tra
il quarto ed il terzo millennio a.C, esse contrassegnavano
rispettivamente l'equinozio
di primavera, ossia l'inizio dell'anno, ed il segno del Polo.
Insomma
la cintura di Orione poteva a buon diritto essere considerata
l'insegna del dragone,
il signore della notte.
A sua volta, il Tilak nell'Orione si sofferma sulle convergenze
tra miti
greci, indiani e iranici riguardo a questa costellazione, e in
particolare
sulla cintura (che si ritrova ad esempio nel "kusti", il sacro
cordone dei Parsi), spiegandole
col fatto che durante il periodo orionico i vari rami della
stirpe indoeuropea
dovevano essere ancora indivisi. Il Tilak accenna anche a certe
mascherate
popolari di fine anno e d'inìzio dell'anno nuovo, attestate in
Inghilterra
e in Germania fino al Medioevo, le quali pure, a suo avviso,
sono riconducibili
alla medesima simbologia306: ora, è interessante osservare che
la vicenda
del Cavaliere Verde si svolge per l'appunto tra due Capodanni,
ad ulteriore
conferma della sua stretta relazione con il mito di Orione.

306 Tilak, Orione, pag. 163

Riferendoci sempre al periodo orionico, potremmo anche rilevare


una
corrispondenza con l'età di Crono, che probabilmente rinvia
anch'essa al periodo
precedente all'abbandono della patria primordiale da parte
degli Indoeuropei;
al riguardo, ci sembra particolarmente suggestivo accostare il
nome
greco di Crono, "Krònos", al termine sanscrito "Agrayana",
"colui che inizia
l'anno", sinonimo di Orione307. L'età di Crono doveva trovarsi
sotto il segno
di Orione-Agrayana, che per l'appunto indicava l'inizio
dell'anno in corrispondenza
dell'equinozio. Osserviamo ancora che, secondo il Tilak, un
altro
appellativo indiano di Orione è Prajàpati308, "il dio del
Tempo"309: perciò non è forse un caso che il vocabolo greco
"chrònos", "il tempo", conservi quasi intatto
il nome dell'antico Krònos, che nel volgere dei secoli
l'inesorabile spostamento
dell'asse terrestre ha dapprima collocato, per poi scalzarlo,
nella posizione
privilegiata di Agrayana, "colui che inizia l'anno". Nel
frattempo, il segno
del Polo nel firmamento si andava gradualmente spostando dalla
costellazione
del Dragone verso la Stella Polare.

307 Tilak, Orione, pag. 161


308 Tilak, Orione, pag. 123
309 Tilak, Orione, pag. 229

In effetti, il declino dell'optimum climatico" ebbe inizio poco


dopo che
il moto di precessione aveva segnato la fine del periodo
orionico: nel frattempo
gli Indoeuropei avevano cominciato ad abbandonare la loro
originaria sede
artica, che poi, stretta nella morsa del gelo e dei ghiacci, in
epoche successive
sarebbe stata ricordata come la terra dei morti: l'età felice
di Crono era tramontata
per sempre (o, per meglio dire, astronomicamente ritornerà fra
circa
ventimila anni).
Torniamo adesso all'Odissea, e precisamente al momento in cui
Ulisse
giunge con la sua zattera davanti alla Selleria, e, nel mare
diventato improvvisamente
tempestoso, deve lottare disperatamente per sopravvivere,
sballottato
da onde enormi che gli spezzano l'albero e gli strappano la
vela. Ma ecco che,
poco prima che la zattera si disarticoli sfasciandosi del
tutto,
ad un tratto accanto a lui si posa, in forma di folaga, una dea
marina: è Ino Leucotea, la Dea
Bianca, che per salvarlo gli dà un provvidenziale velo
("krédemnon") da stendere
sul petto. Non si tratta certo di un salvagente qualsiasi; ha
invece caratteristiche
molto particolari: è "immortale" ("àmbroton") e, una volta
indossato,
non permette "né di soffrire né di morire" ("oudé pathéein
oud'apolésthai";
Od. V, 347). Al nostro eroe la dea fornisce anche dettagliate
istruzioni per la restituzione
del meraviglioso oggetto: "Appena avrai toccato con le mani la
terra/
scioglilo e scaglialo ancora nel livido mare,/ molto lontano da
terra, ma tu
voltati indietro" (Od. V, 348-350). E, non appena riesce ad
approdare sulla terraferma,
presso la foce del fiume dei Feaci, Ulisse sollecitamente
ottempera alle
richieste della sua salvatrice: "Si sciolse il velo della dea/
e lo gettò nel fiume
dove si mischia col mare;/ indietro se lo portava il gran
flutto con la corrente,
e subito Ino/ lo raccolse nelle mani" (Od. V, 459-462). Ora, ci
sembra assai
rimarchevole il parallelismo con le spade di Artù e dell'osseto
Batraz, le
quali devono essere anch'esse restituite al mare; riguardo poi
all'evento che,
nel caso di questi due eroi, si verifica al momento della
restituzione, Omero
sembra tacerlo - a meno che non si tratti del gesto della dea
che si riprende il
velo, del tutto analogo alla mano che nella MortArtu spunta
dall'acqua per afferrare
la spada del re - ma in ogni caso è significativo che ad Ulisse
sia vietato
guardare, il che indica che comunque "qualcosa" deve accadere.
Potremmo ancora chiederci quale relazione vi sia tra una spada
ed un velo
che fascia il petto: una possibile risposta la troviamo proprio
nella figura di Orione,
la cui cintura, o budriere, ha precisamente la funzione di
reggere la spada. In
tale quadro si cala a meraviglia un'osservazione di Jacob Grimm
relativa al personaggio
di Aurvandill, di cui poco fa, citando l'episodio dell'Edda di
Snorri relativo al dio Thor, abbiamo riscontrato lo stretto
rapporto con Orione: "Tutto
l'intreccio della leggenda (di Aurvandill) ricorda l'Odissea:
il naufrago che s'aggrappa
a una tavola, si scava un buco, tiene un ramo di fronte a sé;
anche l'abito
senza cuciture può essere paragonato al velo di Ino"310. Ora,
questo Aurvandill-Ulisse
lo ritroviamo nelle Gesta di Saxo con il nome di Horvendillus,
il padre
di Amleto: e di quest'ultimo avevamo già rilevato le
rimarchevoli analogie
col personaggio di Telemaco, il figlio di Ulisse. Insomma,
ciascuno dei due termini
della coppia padre-figlio dell'Odissea (Ulisse-Telemaco) ha il
suo preciso pendant in una coppia analoga del mondo nordico
(Horvendillus-Amleto), a conferma
da un lato delle strettissime corrispondenze tra le due
mitologie, dall'altro
della ricchezza degli spunti mitico-astronomici -
presumibilmente risalenti tutti
al periodo orionico, cioè all'epoca degli Indoeuropei indivisi
- a cui il poeta delYOdissea ha attinto per costruire la sua
storia e abbellire i suoi personaggi.

310 de Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto, pag. 414


Continuando ad argomentare su questa strada - ovviamente, qui
ci stiamo
avventurando su un terreno estremamente congetturale - si
potrebbe ipotizzare
un rapporto diretto fra la cintura di Orione e la spada di
Artù: d'altronde, ciò
lo avremmo già potuto arguire, o quanto meno sospettare, dal
fatto che il personaggio
di Galvano è legato sia a quest'ultima, sia, come abbiamo visto
poco
fa, alla cintura del Cavaliere Verde. Insomma, il velo
dell'omerica Ino - il
quale sembra essere l'equivalente del sacro cordone dei Parsi
nonché di quello
dei Brahmani indù, lo "yajnopavita", che trae origine, secondo
il Tilak, da
un pezzo di stoffa anch'esso riconducibile al simbolismo di
Orione311 - ci apre insospettabili orizzonti per la
comprensione di uno schema mitico diffuso in
tutta l'area indoeuropea, dall'Europa settentrionale alla
Caucasia e all'India.
Che il tuffo in mare della spada, ovvero della cintura,
simboleggi il tramonto
in mare della costellazione di Orione, all'epoca in cui segnava
l'inizio dell'anno?
A questo punto si potrebbe tentare di dare una spiegazione
"astronomica"
anche al simbolo della spada che esce dalla roccia, non
alternativa bensì
complementare a quella "metallurgica" che abbiamo proposto in
precedenza:
esso è forse riferibile al sorgere di tale costellazione sullo
sfondo di un megalite,
traguardato da un punto di riferimento fisso, nel giorno
dell'equinozio
(i complessi megalitici, come Stonehenge, avevano certamente
funzioni astronomiche).

311 Tilak, Orione, pag. 169

È
difficile poi sottrarsi alla tentazione di ricondurre alla
stessa tematica anche
altri simboli legati al ciclo arturiano: pensiamo alla colomba,
che appare
(evidentemente librata su nel cielo) nel giorno di Pasqua, cioè
in occasione
dell'equinozio: in effetti Orione ha pressappoco la forma di un
volatile stilizzato,
in cui le stelle della cintura rappresentano il corpo mentre le
altre corrispondono
alle ali spiegate; inoltre, con un po' di fantasia, nei suoi
lineamenti
non è difficile riconoscere anche qualcosa che potrebbe
rassomigliare ad una
coppa, ossia il calice del Graal. Ma pensiamo anche alla Tavola
Rotonda, con
i suoi dodici cavalieri, forse accostabile allo Zodiaco; o,
ancora, alla cerca del
Graal connessa alla "terra desolata": che essa si riferisca
alla corrispondenza
tra Orione ed il punto equinoziale, che in tempi remoti era
visualizzabile nei
santuari megalitici, ed alla sua successiva perdita, in seguito
allo spostamento
causato dal moto di precessione, messa in rapporto con il
contemporaneo abbandono
di una terra divenuta inabitabile a causa del tracollo del
clima? In tale
ottica, anche l'assonanza tra "Graal" e "Agrayana" potrebbe non
essere casuale.
In
ogni caso, la duplice valenza, stellare e solare, di Orione si
spiega proprio
con il fatto che questa costellazione (forse la più bella del
firmamento,
comprendente stelle brillanti come Betelgeuse e Rigel)
contrassegnava l'inizio
dell'anno; e il mito dei suoi amori con l'Aurora, così come ci
viene raccontato
da Omero (Od. V, 121), è in fondo un modo più poetico per
esprimere lo stesso
concetto: naturalmente si trattava di un'"Aurora" molto
particolare, quella
cioè che dava inizio al giorno dell'equinozio durante il
periodo orionico (notiamo
anche che il mitico eroe celtico Cùchulainn aveva una moglie,
chiamata
"Emer", che per alcuni studiosi è riconducibile all'aurora).
A questo punto si comprende come mai al tempo dei poemi omerici
l'Aurora
avesse un altro compagno, Titone (Od. V, 1). Con ogni
probabilità anche
in questo caso si trattava di una stella o una costellazione,
come ci suggerisce
il fatto che il suo nome è riconducibile al sanscrito
"didhyana", cioè "brillante"312.
Ma quale? Essa, a nostro avviso, si potrebbe identificare con
Aldebaran
("Alpha Tauri"), la stella più brillante della porzione di
cielo dove, attorno al
2000 a.C, il sole sorgeva all'equinozio di primavera. Per di
più il suo nome arabo,
che significa "l'inseguitore" o "il pretendente", esprime bene
il ruolo dell'innamorato,
svolto per un periodo molto lungo (il moto di precessione è
lentissimo:
appena un grado ogni 72 anni); e forse è proprio questo il
motivo per
cui la mitologia greca ormai considerava Titone, ossia l'amante
di turno dell'Aurora,
alla stregua di un vecchio decrepito (però immortale, come ben
si addice
ad una stella).

312 Voc. Rocci, voce "Tithonòs"

Quanto abbiamo sopra esposto ci conferma l'importanza dell'area


caucasica,
fondamentale "capolinea" delle vie fluviali provenienti dal
Nord e, nel
contempo, punto primario di smistamento verso il Mediterraneo,
la Mesopotamia,
l'Iran e l'India (che i fieri Ceceni della Caucasia
settentrionale siano i discendenti
dei "Ciconi bellicosi", i quali, come abbiamo visto, secondo
l'Odissea riuscirono a dare qualche dispiacere anche al
contingente di Ulisse? Così pure,
potrebbe essere interessante mettere in relazione i Curdi
attuali, stanziati appena
un po' più a sud, con gli antichi Cureti). Ed è qui che si
trova l'Ararat, il
monte dove sarebbe scesa la mitica Arca di Noè; tuttavia,
ricordando anche il
rilievo che sia i Veda, sia tante altre mitologie attribuiscono
al Diluvio, viene da
ripensare all'effettiva localizzazione del racconto biblico:
che il monte della
salvezza sia collocabile nella regione caucasica, tra cime alte
più di cinquemila
metri, è chiaramente assurdo; è invece più ragionevole supporre
che esso abbia
avuto un prototipo altrove, in qualche altura, magari su
un'isola, di altezza
modesta ma sufficiente a salvare dalla sommersione gli abitanti
di un bassopiano,
poi migrati nel Caucaso utilizzando i grandi fiumi di cui
abbiamo già parlato (quando poi identificarono il monte di
Noè con l'Ararat, forse sulle sue pendici costruirono un
modello di Arca a mo' di santuario). Insomma, anche
considerando che ricordi del Diluvio e dell'arca si ritrovano
in molte mitologie,
nutriamo qualche dubbio sulla tradizionale localizzazione del
racconto biblico.
Ricordando ora che la narrazione biblica del Diluvio riprende
quella contenuta nell'Epopea di Gilgamesh, risalente ai Sumeri
- popolo anch'esso di
provenienza tuttora sconosciuta - constatiamo che quest'ultima
è inserita in
una dimensione tutta marinara, a cui potrebbe essere
ricollegato anche il particolare
interesse del mondo mesopotamico per le costellazioni e
l'astronomia.
Osserviamo che il nome attribuito dall' Epopea al monte della
salvezza, "Nisir",
ha una certa assonanza da un lato con il Nisa, il monte di
Dioniso - dio
legato al vino ma anche alla navigazione, come si desume
chiaramente dall'Inno
omerico a lui dedicato, esattamente come Noè - dall'altro con
il greco
"nèsos", "isola" (il che è coerente con lo scenario di un'isola
a cui approdano
i superstiti di un'inondazione: pensiamo a Bornholm, l'omerica
Naxos, la quale
circa 7500 anni fa rimase l'unica terra emersa di una
disastrosa inondazione
che sommerse vasti territori del Baltico meridionale). Ora,
Dioniso notoriamente
equivale a Bacco e, nell''interpretatio greca, il
corrispondente egizio
di Dioniso è Osiride, il dio che, secondo il "libro dei morti",
risiedeva sul monte
Bekhaw (abbiamo visto poco fa che in norvegese "bakke"
significa "colle").
Inoltre, secondo il Libro dei Giubilei (VII, 1) il monte dove
Noè piantò la sua
vigna si chiamava "Lubar"313, nome quasi identico a "Liber", il
dio romano del
vino.

313 Apocrifi dell'Antico Testamento, pag. 252


D'altro canto, il nome di Jafet, figlio di Noè, è stato
accostato a quello del
titano Giapeto, relegato con Crono nel Tartaro, "agli estremi
confini/ della terra
e del mare" (Il. VIII, 478-479), cioè, sulla base di quanto
detto in precedenza,
in un'isola dell'Atlantico del nord. Poiché Crono a sua volta
rappresenta il
vestigio di un'epoca precedente, in questo modo, passando per
la mitologia greca,
un circuito di indizi sull'effettiva localizzazione del Diluvio
sembra chiudersi
proprio sull'Atlantico settentrionale: d'altronde, alcuni
studiosi hanno già segnalato
i parallelismi tra la vicenda narrata nella Genesi (con il suo
prototipo sumerico)
ed il mito, sviluppato da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia,
sulla sommersione
di Atlantide, l'isola collocata "davanti alle Colonne
d'Ercole".
Al riguardo, come abbiamo già accennato, un suggestivo
riscontro potremmo
trovarlo nelle sommersioni di vasti territori - nonché di isole
vere e proprie ripetutamente
verificatesi nel mondo nordico dopo la fine dell'ultima
glaciazione.
D'altronde il noto racconto del corvo mandato in ricognizione
fuori dall'arca (Genesi 8, 6-7) trova un singolare parallelo
nella letteratura norrena: infatti, secondo
il Libro dell'insediamento, un certo
Flòki Vilgerdharson, uno dei primi vichinghi a giungere in
Islanda, per orientarsi verso la terraferma lanciò dalla sua
nave
un corvo314, esattamente come Noè. Doveva insomma essere una
consuetudine
di quei navigatori arcaici tenere a bordo qualche corvo a mo'
di bussola.

314 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pag. 552

Secondo la Genesi, Noè si servì anche di una colomba; ora, da


un passo dell'Iliade potremmo dedurre che anche gli Achei
tenessero colombe a bordo
delle loro navi: ci riferiamo all'episodio della gara con
l'arco narrata nel libro
XXIII, in cui una colomba viene legata con una cordicella
all'albero di una
nave in modo da fungere da bersaglio (Il. XXIII, 852-854).
Potremmo dunque
supporre che le colombe nelle navi achee avessero la stessa
funzione dei corvi
in quelle vichinghe nonché nell'arca (dove la colomba fungeva
da riserva).
Oltretutto, come ci segnala il dott. Bruni, il Libro di Enoch
(cap. CVI) ci
tramanda una curiosa descrizione di Noè appena nato, che aveva
"la carne
bianca come neve e rossa come rosa ed i capelli come bianca
lana"315: sembra
proprio il ritratto di un bimbo nordico (e potrebbe non essere
un caso che nella
letteratura norrena "Noatun" sia la "città delle navi"316).

315 Apocrifi dell'Antico Testamento, pag. 661


316 Chiesa Isnardi, I miti nordici, pag. 277

Non mancano poi gli studiosi, come ad esempio l'Albright, i


quali hanno
messo in rilievo suggestivi paralleli tra la ninfa omerica
Calipso e la figura
della locandiera Siduri317, che Gilgamesh, singolare figura di
navigatore preistorico
in cerca dell'immortalità, incontra in un favoloso giardino sul
limitare
dell'oceano della morte" (questa locuzione sembra richiamare
sia il "mare
avvelenato" delle leggende vichinghe, sia il "mar morto" dei
Cimbri, ovvero
il mare "pigrum ac prope immotum", "pigro e quasi immobile",
menzionato da
Tacito nella Germania, 45, 1; e proprio in una delle Färöer,
Sudhuröy, si riscontra
il toponimo Seydhurdhstangi); al di là del mare Gilgamesh
infine troverà
il vecchio Ut-Napishtim, superstite del Diluvio.

317 de Santillana-von Dechend, Il mulino dì Amleto, pag.


353

D'altronde, proprio le tematiche comuni all'Epopea dell'eroe


sumerico ed all'avventura
di Ulisse con Calipso - le peripezie sull'oceano sconfinato, le
isole felici
dell'estremo occidente, le donne divine, le promesse di
immortalità e di eterna
giovinezza - trovano sorprendenti corrispondenze nella
mitologia celtica, in particolare
quella dell'Irlanda: in un capitolo precedente abbiamo già
accennato alla Navigazione
della barca di Màel Dùin e alla Navigazione di Bran figlio di
Febal.
Il circolo dei paralleli di Calipso - da un lato con Siduri,
dall'altro con le
donne divine delle isole celtiche - si chiude infine con la
sorprendente rassomiglianza
tra il nome di queste ultime, "le donne del Sid"318 (che per i
Celti era
il mondo dell'aldilà), e quello della stessa Siduri.

318 Le Roux, Les Druides, pag. 413


In tale contesto giova altresì ricordare che, secondo la
Laviosa Zambotti,
"una connessione deve esistere fra le mazze a tubercoli della
Mesopotamia
e quelle del ciclo artico-baltico"319. E, a questo punto,
risulta vieppiù singolare
l'assonanza tra il nome di Gilgamesh, tipica figura di eroe
solare, e quello
di Gwalchmei320, nome gallese di Galvano, personaggio anch'esso
dai tratti
spiccatamente "solari". Ancora, sarebbe suggestivo considerare
il meraviglioso
albero in cui Gilgamesh s'imbatte durante il viaggio - "i suoi
frutti sono rubini
(...) le sue fronde blu sono di lapislazzulo e il suo aspetto è
bellissimo" (tavoletta
IX, colonna V) - quasi come un prototipo del nostro albero di
Natale,
di tradizionale origine nordica. Inoltre, secondo una leggenda
mesopotamica,
il civilizzatore primordiale sarebbe stato un uomo-pesce
chiamato "Uan" (in
greco "Oannes"), nome che ricorda quello dei "Vani", i mitici
navigatori delle
saghe norrene (pertanto l'interesse del mondo mesopotamico per
l'astronomia
potrebbe essere il retaggio di un'antichissima tradizione
marinara). D'altronde,
qualche studioso ha già rilevato la singolare assonanza tra il
nome dei
Caldei e quello dei Celti, che in qualche modo rafforza il
rapporto intravisto fra
Gwalchmei e Gilgamesh.

319 Laviosa Zambotti, Le più antiche civiltà nordiche, pag.


142
320 Markale, I Celti, pag. 438

Poiché d'altra parte nella mitologia indù, come abbiamo già


visto, ha un
particolare rilievo la sede degli dèi, chiamata "Monte Meru in
sanscrito, Sineru
o Sumeru in pàli"321, viene a questo punto da chiedersi se
l'ignota terra originaria
dei Sumeri fosse prossima a quella degli Arii, cioè, seguendo
le ipotesi
del Tilak sull'origine di questi ultimi, si trovasse anch'essa
nel settentrione.
Insomma la civiltà sumerica potrebbe essere nata nel nord
durante la fase
espansiva dell"'optimum climatico", tra il quinto e il quarto
millennio a.C;
quanto alla sua discesa, magari avvenuta attraverso i soliti
fiumi russi, potrebbe
aver preceduto di qualche secolo quella dei Gutei, gli invasori
dell'impero
accadico che poco dopo la metà del terzo millennio occuparono e
governarono
la Mesopotamia per più di un secolo.

321 Antiche cosmologie, pag. 99

Sarebbe altresì suggestivo mettere in relazione i barbari Gutei


- i quali
"erano di capelli biondi"322-con i Goti, i quali nel II secolo
d.C. sarebbero partiti
dalla Scandinavia (dove il loro nome si ritrova tuttora nella
grande isola baltica
di Gotland e nella regione svedese del Götaland) per poi
affacciarsi minacciosamente
ai confini dell'Impero Romano. Costoro erano noti per "l'alta
e magra figura e i lunghi capelli intonsi, che erano segno di
libertà"323:
questa caratteristica li accomuna agli Achei "dai lunghi
capelli" ("komòontes"),
espressione frequente in Omero. Per inciso, una provenienza dal
nord delle
culture mesopotamiche spiegherebbe molto bene anche le
convergenze tra l'accadico
e le lingue indoeuropee messe in luce dal prof. Semerano nella
sua monumentale
opera Le origini della cultura europea.

322 Antichi popoli europei, pag. 200


323 Treccani, voce "Visigoti"

A questo punto dobbiamo menzionare il fatto che qualche


decennio fa, nel
nord-ovest della Sardegna, gli archeologi dell'Università di
Genova, guidati dal
prof. Santo Tiné, in una località chiamata Monte d'Accoddi
hanno fatto un ritrovamento
tanto straordinario quanto "anomalo": quello che all' inizio si
riteneva essere
il sito di un nuraghe, a qualche chilometro da Sassari, ha
invece rivelato i resti ben conservati di una ziggurat identica
a quelle mesopotamiche, ossia un tipico
tempio a torre completo di rampa di accesso e di cella
superiore canonicamente dipinta
di rosso, risalente alla prima metà del terzo millennio a.C.
Questo santuario è stato attivo per molti secoli: addirittura
sulla primitiva costruzione ad un certo
punto ne è stata edificata un'altra, simile ma più grande,
rimasta in funzione fin verso
il XVIII secolo a.C. (data che coincide, forse non per caso,
con la repentina apparizione
degli Indoeuropei in tante parti dell'Europa meridionale e
dell'Asia).
Quanto al nome del luogo del ritrovamento, "Monte d'Accoddi",
esso ha
una rimarchevole assonanza con "Akkad"; pertanto "Accoddi"
potrebbe alludere
direttamente ai suoi costruttori, tenuto anche conto del fatto
che, se andiamo
a scorrere i nomi delle località della zona, troviamo altre
tracce degli antichi
signori colà insediatisi: sempre nei dintorni di Sassari, Uri e
Usini rinviano
alle città mesopotamiche di Ur e di Isin (quest'ultima era la
sede di un santuario
della dea Isthar; si potrebbero proporre suggestive
correlazioni con l'egiziana
Iside e addirittura col santuario giapponese di Ise, dedicato
alla dea Amaterasu,
capostipite della dinastia regnante da millenni sul Sol
Levante, dove i
primi imperatori avevano il titolo di "Sumera"); Sennori, altro
centro vicino a
Sassari, ricorda Sennaar, la località dove, secondo la Bibbia
(Genesi, 11,2), fu
edificata la Torre di Babele; il monte Limbara potrebbe
rimandare al monte
Lubar dove, secondo il Libro dei Giubilei (V, 28), Noè sarebbe
approdato con
l'Arca324; il nome di Samassi, paese nel centro della Sardegna,
è virtualmente
identico a quello del dio solare mesopotamico Shamash. In
effetti, un'isola come
la Sardegna, talora rimasta un po' in disparte nel fluire delle
vicende storiche,
può più facilmente prestarsi a conservare quasi intatte certe
forme antichissime.
Al riguardo, uno studioso sardo, Raffaele Sardella di Isili, ha
dedicato
la sua vita alla ricerca delle tracce lasciate dalle lingue
mesopotamiche nei
dialetti sardi325. D'altronde, come abbiamo avuto già modo di
verificare in
tante occasioni nel corso del presente lavoro, dal naufragio
del mondo antico, galleggiando
sui flutti del tempo e della storia, sono arrivati fino a noi
molti più relitti, anche linguistici, di quanto normalmente non
immaginiamo.

324 Apocrifi dell 'Antico Testamento, pag. 245


325 Sardella, Il sistema linguistico della civiltà nuragica

Tornando ora alla possibile origine nordica delle civiltà


mesopotamiche,
con le quali quella ebraica è certamente imparentata (pensiamo
solo alle analogie
tra l'Epopea di Gilgamesh e il racconto biblico del Diluvio),
ci sembra
significativa un'osservazione di Asko Parpola riguardo al fatto
che l'ebraico
Yahve ha un singolare riscontro nel sanscrito Yahva, attributo
che il Rigveda applica a Soma, ad Agni e ad Indra326.
D'altronde, aggiungiamo, anche il nome
di Abramo, capostipite degli Ebrei, appare singolarmente simile
a quello di
Brahma, il mitico creatore del genere umano secondo la
mitologia indù (che
tende a trasportare gli eventi in una dimensione per così dire
"metafisica",
mentre normalmente la Bibbia preferisce storicizzarli). Inoltre
a Brahma-Abra
mo potrebbe corrispondere Brimir, il gigante primordiale della
tradizione nordica,
nonché, forse, il Bran del contesto celtico. Un'altra affinità
si può riscontrare
tra la biblica Agar e la romana Egeria, le quali, oltre ad
essere quasi
omonime, sono accomunate dai rispettivi legami "extra-
matrimoniali" con due
personaggi eminenti quali Abramo e Numa, ed inoltre sono
entrambe legate sia
all'acqua - e qui si potrebbe allargare il discorso al termine
omerico "Aigà",
che indica il santuario di Poseidone e si ritrova nella radice
del nome del dio
marino Egeone - sia alla fecondità. Così pure vi è una
singolare rassomiglianza
fra le radici di Yahve-Yahva e del romano Giove ("Iov").
326
Tilak, Orione, pag. 25 (Premessa di G. Acerbi, nota 17)

Né mancano i punti di contatto con il mondo greco arcaico: ad


esempio, a
parte il comune interesse del mondo ebraico e di quello omerico
per le genealogie,
il celebre sogno profetico divinato da Giuseppe, relativo alle
sette vacche
grasse divorate dalle vacche magre, è concettualmente del tutto
analogo al sogno
di Penelope, quello delle venti oche scannate dall'aquila (Od.
XIX, 536539),
del quale a sua volta avevamo riscontrato l'analogia con la
profezia di
Calcante riguardo ai nove uccellini divorati dal serpente (Il.
II, 326-329); in tutti
questi casi abbiamo a che fare con una divinazione del futuro
molto particolare,
basata su una sorta di kenning, dove il numero degli animali
uccisi sta per
gli anni corrispondenti all'attesa dell'evento profetizzato. Ed
un'altra analogia
con il mondo omerico si riscontra nel fatto che anche in quello
biblico il promesso
sposo "acquistava" la futura moglie, esattamente come avveniva
anche
in quello nordico: "La dote non la porta la sposa al marito, ma
il marito alla sposa"
("dotem non uxor marito, sed uxori maritus offert"; Germania,
18, 2).
L'Iliade e la Bibbia hanno poi in comune uno struggente
parallelismo, e
con toni straordinariamente simili, tra le generazioni umane e
le foglie degli alberi (Il. VI, 146-149; Siracide, 14, 18),
anche se in questo caso non si può forse
escludere un'aggiunta al testo biblico in tempi relativamente
più recenti.
Continuando su questa strada, osserviamo anche che il nome del
Giordano
ricorda da vicino il Giardano, un fiume cretese menzionato da
Omero (Od. III, 292); la tribù di Dan, i Danai; Haran, prima
tappa del viaggio di Abramo
verso la Terra Promessa, la Caria; i Cananei ed i Ferezei,
nominati insieme
nella Genesi (13, 7), gli Enieni e i Perebi (Il. II, 749);
Labano, il grande allevatore
di pecore zio nonché suocero di Giacobbe, la Libia omerica,
dove "tre
volte nel giro d'un anno figliano i greggi" (Od. IV, 86).
Quanto agli Arabi, discendenti
di Abramo, sarebbe suggestivo ipotizzare una relazione con gli
"Erembi", menzionati da Omero subito prima dei Libi (Od. IV,
84). Inoltre, nelle
vicinanze della "Terra Promessa" scorreva il "fiume d'Egitto"
(Genesi, 15,
18; Numeri, 34, 5): a questo punto, ricordando l'ubicazione
dell'omerico "fiume
Egitto", identificabile con la Vistola, c'è da chiedersi se
un'atroce ironia
della Storia non abbia sovrapposto i luoghi dell'Olocausto alla
terra dove quattromila
anni fa, durante l'optimum climatico", stillavano "latte e
miele" (Esodo, 3, 8).
Ora, anche considerando che il miracoloso passaggio del Mar
Rosso potrebbe
far pensare ad un fenomeno di marea, tipico delle coste
atlantiche, e ricordando
le ipotesi fatte in precedenza sul Ragnarok di Odino e la
migrazione
micenea dalla Scandinavia al Mediterraneo, si potrebbe
congetturare che gli avvenimenti
legati alle vicende di Mosé, ed in particolare le "sette
piaghe", siano
l'estremo ricordo, in un contesto nordico, degli effetti
dell'esplosione di
Thera, che avrebbero dato l'avvio all'esodo dall'Egitto -
l'Egitto baltico alla
foce della Vistola, che molto tempo dopo i compilatori della
Bibbia avrebbero
confuso con quello mediterraneo - verso la Palestina (il che
spiegherebbe
perché il viaggio durò 40 anni; a titolo dì paragone notiamo
che gli Aztechi, secondo
il Codice Ramirez, nella loro migrazione dalla patria
originaria fino al
Messico impiegarono un tempo doppio).
A conferma di ciò potrebbe stare il fatto che la civiltà
egizia, sempre attenta
a registrare gli eventi storici, non fa alcuna menzione né
degli ebrei, né
delle vicende ad essi connesse.
Un'ulteriore indizio sembra darcelo proprio la Bibbia: ci
riferiamo alla
singolarissima "parentela" tra Ebrei e Spartani, proclamata nel
libro I dei Maccabei (12, 21): ad essa fa riscontro il fatto
che ritroviamo il popolo degli Etei
da un lato nella Genesi, accanto ad Abramo, dall'altro nella
Creta omerica (con
il nome di "Eteocretesi"). Al riguardo, ricordando che i biondi
Spartani eràno
di stirpe dorica, e che i Dori (nome accostabile a quello della
Thuringia) li abbiamo
ritrovati anch'essi a Creta- Omero li menziona (Od. XIX, 177)
insieme
con gli Eteocretesi - potremmo davvero cominciare a chiederci
se la primordiale
civiltà ebraica non sia anch'essa inquadrabile nell'ambito
dell'età del
bronzo nordica, dati tutti gli indizi a sostegno
dell'identificazione della Creta
omerica con la costa tedesco-polacca del Baltico ed il suo
entroterra.
Tutto ciò sarebbe in sintonia con le ricerche a suo tempo
sviluppate dallo
Juslenius, il quale nella lingua finnica aveva riscontrato
varie radici comuni,
oltre che al greco antico, anche all'ebraico. È altresì comune
alla poesia
ebraica ed al Kalevala il fenomeno del "parallelismo", cioè la
ripetizione, con
qualche modifica, dello stesso concetto in due versi
consecutivi: per dare rilievo
a questa particolare modalità espressiva, gli interpreti dei
canti tradizionali
finnici erano normalmente due, che si alternavano ad ogni
verso. Per inciso,
qualche studioso ha ipotizzato che, nel passo dell'Iliade in
cui Achille è intento a cantare e suonare la cetra, Patroclo,
seduto davanti a lui, forse sta
aspettando di cantare a sua volta (Il. IX, 190-191).
A questo quadro potremmo ancora aggiungere l'assonanza tra il
nome
degli Ebrei e quelli di due regioni abitate dai Celti, l'Iberia
e l'Hibernia (nome
romano dell'Irlanda, dove si riscontra un'alta percentuale di
persone dai capelli
rossi, che è un tratto comune agli Ebrei Ashkenazi). E, a
questo punto, il fatto
che Abramo fosse originario di Ur dei Caldei potrebbe essere
letto in una nuova
prospettiva, anche considerando la già notata assonanza tra il
nome di questi
ultimi e quello dei Celti (a cui fa riscontro quella tra Siduri
e le sue "colleghe"
celtiche del Sid). D'altronde, i nomi di Tare ed Aran,
rispettivamente padre
e fratello di Abramo (Genesi 11, 27), sembrano "celtizzanti".
Così pure, il
nome di Isai o Jesse, padre di David, è molto simile a quello
di Esus, dio celtico
nonché appellativo dell'eroe Cùchulainn (inoltre, sia "Jesse"
che "Esus"
ricordano molto da vicino l'omerico "Iéson").
Riguardo ancora a David, scelto come re tra i suoi sette
fratelli dal profeta
Samuele malgrado fosse l'ultimogenito, il testo biblico mette
in rilievo il
fatto che era biondo (Samuele 16, 12). E che dire di Samuele?
Questa figura
è circondata da un vero e proprio timore reverenziale (che
traspare in particolare
dal versetto 16,4): la sua autorità, anche "politica", è tale
da poter addirittura
scegliere i re, il che non può non far pensare al potere che la
casta sacerdotale
dei Druidi esercitava nel mondo celtico.
Sarebbe a questo punto suggestivo accostare il tema della
"terra desolata",
che ritroviamo ad esempio in Isaia (cap. 24), a quello della
"terre gaste"
del ciclo celtico-arturiano: esso forse costituisce l'ultima
eco, nella memoria di
quelle antiche popolazioni, di una patria primordiale - che a
questo punto potremmo
ipotizzare fosse comune agli antenati degli Ebrei ed a quelli
dei Celti
-resa ad un certo punto inabitabile da un'inondazione o dal
tracollo del clima.
In ogni caso, già da questa ricognizione preliminare emerge che
potrebbe
essere estremamente interessante indagare più a fondo sulle
possibili relazioni
fra l'età del bronzo nordica ed i primi libri della Bibbia (si
potrebbe persino
ipotizzare l'esistenza di un rapporto fra l'episodio,
raccontato nella
Skàldskaparmàl, della gigantessa Giàlp, colpita con un sasso
dal dio Thor, e quello,
celeberrimo, del gigante Golia, chiamato Gialut nel Corano,
liquidato da David
in modo analogo; ed altre analogie le potremmo trovare tra gli
invincibili
Eracle e Sansone, due energumeni entrambi capaci di uccidere un
leone a mani
nude; il "leone" peraltro potrebbe riferirsi all'omonima
costellazione). Ne
potrebbero venir fuori spunti, anche geografici, di enorme
interesse: pensiamo
soltanto a quella "mappa", tracciata nella Genesi (cap. 10) dei
popoli discesi
dai patriarchi sopravvissuti al Diluvio.
Nel quadro delle possibili relazioni tra il mondo celtico e
quello ebraico
potremmo persino tentare di inserire un'ipotesi riguardante la
nascita del Cristianesimo.
Al riguardo, partiamo dagli Esseni, nel cui ambito vari
studiosi
hanno tentato di inquadrare la figura di Gesù ed i suoi
insegnamenti: costoro
erano una sorta di setta ebraica, o per meglio dire una
comunità dalle regole
molto particolari, la cui presenza è attestata in Palestina fin
dal II secolo a.C.
Ora, ricordando che nel secolo precedente i Celti erano
dilagati fino al Mediterraneo
orientale ed avevano costituito un regno di Galati, cioè di
Galli, nell'attuale
Turchia, si potrebbe ipotizzare che, alla fine della loro
avanzata verso
sud-est, avessero stabilito un avamposto in "Galilea" (che
potrebbe significare
"terra di Galli"), la patria di Gesù. Si potrebbe pertanto
congetturare che
gli Esseni abbiano tratto origine da una commistione di
elementi ebraici e
"druidici", magari anche favorita dalla memoria di un'eventuale
origine comune
(a sostegno di ciò si potrebbe portare il fatto che erano
dediti alla medicina
e ad altri studi, e che al culto ebraico sembra sovrapponessero
elementi di
un culto solare; inoltre vestivano di bianco). Se così stessero
davvero le cose,
si potrebbe altresì supporre che essi abbiano continuato a
tenere particolari
rapporti con esponenti della madrepatria celtica, ossia
l'attuale Francia e le
isole britanniche, magari anche con l'estensione alla Spagna
celtibera (dove
troviamo una "Galizia").
In questo ambiente sarebbe nato Gesù, il cui nome corrisponde a
quello
"celtizzante" di Jesse, di cui era un diretto discendente.
Successivamente alla
sua crocifissione, secondo una tradizione che ci viene dai
racconti celto-cri
stiani del ciclo arturiano e del Graal, alcuni di coloro che
gli erano più vicini,
quali la Maddalena e Giuseppe d'Arimatea (che presumibilmente
era un membro
della stessa confraternita, come Nicodemo e Lazzaro), si
sarebbero rifugiati
in Gallia, dove avrebbero trovato un ambiente estremamente
favorevole per la
diffusione del messaggio. Pertanto, mentre Pietro e Paolo
esportavano a Roma
una dottrina che, almeno all'inizio, era fortemente intrisa dì
ebraismo, non si
può escludere che nel frattempo in Gallia abbia incominciato a
diffondersi, negli
ambienti druidici ancora ben presenti in epoca romana, un
cristianesimo
celtizzato, basato sul ricordo del grande "druido" nato in
Palestina. Potrebbe essere
stata questa l'origine del cristianesimo celtico, dalle
spiccate connotazioni esoteriche, che secoli dopo avrebbe dato
una grande impronta al mondo medioevale
(pensiamo alla cosiddetta Matière de Bretagne, alle cattedrali
gotiche,
ai Cistercensi, a San Bernardo, al templarismo e così via).
E Costantino? Costui, all'inizio del IV secolo, si impose come
imperatore
a Roma provenendo da York - la romana Eboracum, in Inghilterra
meridionale,
di cui era il governatore - alla testa di un esercito celtico
(con la croce sugli
scudi, un tipico simbolo dei Celti). Potremmo a questo punto
congetturare
che in tale esercito fosse già diffuso il messaggio cristiano,
però veicolato attraverso
il druidismo d'Oltralpe: pertanto Costantino - ecco una
possibile ragione
del successo della sua politica "filocristiana" - una volta
preso il potere
avrebbe per così dire ricongiunto i due tronconi, quello
"celtizzante" del suo
esercito e quello "greco-romanizzato" di un cristianesimo,
sviluppatosi nel
frattempo a Roma, che fino ad allora era stato perseguitato
(successivamente,
nel Medioevo questi due filoni si sarebbero scontrati in un
tragico conflitto, che
ha portato alla fine dell'uno e alla decadenza dell'altro). In
tal modo si spiegano
sia la straordinaria capacità di diffusione che la nuova
religione ebbe sin dalle
sue origini, in particolare nell'Europa nord-occidentale, sia
la costante, strenua
difesa della Chiesa cattolica da parte della Francia
(protrattasi fino al brutale
intervento del 1849 contro la Repubblica Romana, che segnò la
pagina più gloriosa e forse più tragica del nostro
Risorgimento), sia, infine, la singolarità del cristianesimo
celtico e delle sue leggende, che non di rado sembrano
intrecciate
alla primordiale eredità indoeuropea. D'altronde, ancora adesso
il cristianesimo,
sia pure romanizzato, è la bandiera dell'Irlanda, cioè la terra
dove
si sono mantenute più vive le antiche tradizioni celtiche.
Notiamo ancora che, secondo le fonti storiche, gli Esseni
recitavano una
preghiera mattutina rivolti al Sole (Giuseppe Flavio, Guerra
giudaica, II, 128).
Sul contenuto di tale preghiera esse tacciono; tuttavia a
questo punto si potrebbe
congetturare che si tratti proprio del Padre Nostro,
tramandatoci dai
Vangeli come preghiera insegnata ai discepoli da Gesù in
persona. Sembra
confermarlo sia il suo inizio, "Padre nostro che sei nei
cieli", sia la frase "dacci
oggi il nostro pane quotidiano" la quale effettivamente ci
attesta che si tratta
di una preghiera del mattino, prima dell'inizio delle attività
della giornata
(cogliamo altresì l'occasione per rilevare che il controverso
passaggio "non ci
indurre in tentazione...", su cui si sono affannati esegeti e
teologi, si potrebbe
intendere non nel tradizionale senso "non ci tentare",
diffìcilmente sostenibile
sia logicamente che teologicamente, bensì nel senso di "non
indurci a tentarti",
cioè "non metterci nella condizione di voler (noi) tentare te",
considerando
che nelle Scritture è sempre l'inferiore che tenta il
superiore, cioè il diavolo
tenta l'uomo e l'uomo tenta Dio, e non viceversa).
In ogni caso, partendo dal legame, per così dire "circolare",
che sembra
unire gli Esseni e gli stessi Celti alla figura di Gesù ed al
primo Cristianesimo, si potrebbero spiegare molte cose tuttora
oscure: pensiamo anche al tema,
senz'altro più "celtico"327 che ebraico, della nascita
miracolosa di Gesù, nonché
a certi passi evangelici che sembrano richiamare la primordiale
eredità indoeuropea,
sui quali abbiamo avuto modo di soffermarci. Ricapitolando
brevemente,
questo tentativo di ricostruzione, peraltro tutto da
verificare, si basa
su alcuni dati, che nella prospettiva qui ipotizzata sembrano
trovare un filo comune:
la congruenza temporale tra l'invasione celtica nel
Mediterraneo orientale
e la nascita dell'essenismo, alcuni tratti di quest'ultimo, il
nome della "Galilea",
le leggende cristiano-celtiche della Matière de Bretagne
riguardanti gli
eventi successivi alla crocifissione, la provenienza
dell'imperatore Costantino
(e del suo esercito) e, infine, la rapidità della diffusione
del messaggio cristiano
nell'Europa nordoccidentale "celtica". Potremmo infine
osservare che, riletto
in quest'ottica, il trionfo del Cristianesimo sarebbe
interpretabile in chiave
di rivincita dell'antico druidismo contro le legioni da cui era
stato precedentemente
schiacciato.

327Markale, I Celti, pag. 387

Ci sembra tuttavia doveroso avvertire il nostro paziente


lettore che argomenti
così enormi, quali la possibile localizzazione nordica dei
primi libri della
Bibbia, i legami tra gli Ebrei ed il mondo indoeuropeo - in
particolare quello
celtico, su cui peraltro qualche studioso si è già cimentato -
e la stessa origine
del Cristianesimo, ovviamente richiedono ben altri
approfondimenti; riteniamo
peraltro che, in linea con quanto fatto presente alla fine del
precedente
capitolo nell'introdurre questa materia, le brevi
considerazioni qui riportate
potrebbero essere già sufficienti per giustificare l'inizio, da
parte degli specialisti,
di specifiche ricerche nel senso indicato.

Tornando ai rapporti tra il mondo ebraico e quello indoeuropeo,


segnaliamo
un'altra analogia fra la mitologia norrena e la Bibbia:
nell'Edda di Snorri si narra che fra i protagonisti del
Ragnarok vi è Surt, il "guardiano di Muspell",
il quale "possiede una spada fiammeggiante" "che irradia più
splendore
del sole" (Gylfaginning, 4; 51 ; ritroviamo il tema della spada
e della luce):
viene spontaneo l'accostamento al passo in cui Dio, dopo la
cacciata dei progenitori,
"pose davanti al giardino di Eden i Cherubini e la fiamma della
spada
guizzante" (Genesi 3, 24: potrebbe esservi un'allusione a
fenomeni atmosferici
connessi con aurore boreali o con gli esiti di grandi
eruzioni).
Ora, secondo la Genesi (2, 10-14), la regione denominata come
"Eden"
appare geograficamente ben caratterizzata; quanto ai quattro
fiumi ivi indicati,
nell'area mesopotamica due di
essi sono introvabili, il che potrebbe far sospettare
che gli altri due, chiamati con i nomi di "Tigri" e di
"Eufrate" potrebbero non identificarsi con quelli ben noti,
bensì essere i loro "prototipi" in un
contesto differente, poi trasposti in quello attuale con lo
stesso meccanismo
che tante volte abbiamo riscontrato nei toponimi greci
provenienti dall'area
nordica.
Osserviamo anche che nella Bibbia la regione di Eden viene
correlata direttamente
con la mitica città di Tiro: quest'ultima, secondo il Libro di
Ezechiele (capp. 26-28), era un'opulenta metropoli, situata in
un'isola in mezzo al
mare, sede di grandi traffici, che ad un certo punto fu
improvvisamente distrutta
da una catastrofica inondazione e si perse in fondo agli abissi
(tale immagine,
che sarà poi ripresa nella "grande Babilonia" dell'Apocalisse
giovannea, ha
molti punti in comune con l'Atlantide platonica e con la Vineta
della leggenda
scandinava); ora, rivolgendosi al re di Tiro, il profeta dice
testualmente "tu abitavi
in Eden, il giardino di Dio" (Ezechiele 28, 13): è questa
un'affermazione che
trova un preciso riscontro in una leggenda fenicia, riportata
dal Luken, secondo
cui l'antica Tiro sarebbe stata ubicata nell'isola del
Paradiso328 (d'altronde,
troviamo i Fenici accanto agli Achei nel mondo nordico dei
poemi omerici). E
ancora Ezechiele, nel seguito del passo appena citato, sempre a
proposito del re
di Tiro afferma: "Ti stabilii quale cherubino protettore, ti
posi sul monte santo
di Dio, e incedevi tra pietre fiammanti" (28, 14; le stesse
"pietre fiammanti"
vengono nuovamente menzionate due versetti dopo).
A questo punto sarebbe suggestivo accostare il vocabolo "Eden"
alla radice
"aith", "ardente", da cui deriva il nome degli "Etiopi"
omerici, gli "estremi
degli uomini", a cui Omero attribuisce strettissimi contatti
con gli dèi e dei
quali abbiamo già rilevato la corrispondenza con i mitici
abitanti del "Paradesha"
indiano e del "Pairidaeza" iranico. Parrebbe dunque ragionevole
collocare
la regione di Eden nell'area degli Etiopi, ossia nella penisola
Nordkinn, dove
forse vi era un'area sacra, un giardino-santuario, sede di una
sorta di re sacerdote:
addirittura il sottile istmo, che congiunge la Nordkinn alla
terraferma,
potrebbe aver ispirato il concetto del ponte Cinvat, stretto e
pericolosissimo,
che secondo i miti iranici rappresentava l'accesso al Paradiso
(ma sotto varie
forme lo ritroviamo anche in altre mitologie).

328 Luken, Le tradizioni del genere umano, pag. 137

E'poi curiosa l'assonanza fra i nomi di Adamo e di Ade, in


greco "Aìdes",
che VIliade chiama anche "Aidoneùs": costui è il signore della
terra dei morti,
che, come abbiamo visto, ha molti tratti in comune con Yama, il
signore dei
morti indù, ed è localizzabile sempre nello stesso contesto.
Inoltre il nome di
Ade-Aidoneo ricorda quello di Adone, e fra queste due figure
intercorrono precisi
rapporti: infatti, se da un lato sono entrambi legati a
Persefone, signora
dei morti (e per un periodo dell'anno ben preciso: quattro
mesi), dall'altro nei racconti che li riguardano si ritrovano i
temi della "colpa" e del "frutto": insomma,
si potrebbe supporre che si tratti di due varianti di un unico
mito originario.
Ad Adone sono altresì legati i temi del "giardino" e
dell'albero": è come
se le storie relative a questo personaggio fossero state
costruite a partire dagli
stessi, per così dire, "ingredienti" che ritroviamo nel
racconto biblico su
Adamo e sul periodo edenico (nella stessa casistica si
potrebbero forse far rientrare
anche i "giardini di Allah"; notiamo altresì che la dea degli
inferi hittita
si chiamava Allani).
E, ricordando le convergenze tra l'Edda e l'Avesta iranico
nella descrizione
dell'antica catastrofe, per chiudere questo singolare circuito
sarebbe interessante
che i filologi indagassero sulla possibilità di accostare il
nome di
Adamo a quello avestico di Yima, il mitico re del paradiso
perduto indoeuropeo
- ma pensiamo anche a "Ymir", il gigante primordiale dell'Edda
- chiamato
"Yama" nella mitologia indiana, secondo la quale costui fu il
primo uomo a conoscere
la morte.
Notiamo altresì che Eva nella Genesi viene anche chiamata
"Isha": tale
nome ci sembra accostabile al sanscrito "Ushas", la dea
dell'aurora (come,
d'altronde, la stessa "Eva" pare riecheggiare la greca "Eos").
Ora, ricordando
il rapporto fra l'Orione omerico e l'Aurora, nonché quello fra
Cùchulainn ed
Emer - tutti finiti tragicamente - potrebbe sorgere il sospetto
che dietro il personaggio
di Adamo si celi una figura "orionica" e che il racconto
biblico dell'Eden
costituisca la variante ebraica del rapporto tra Orione e
l'aurora dell'equinozio
di primavera, interrottosi, in seguito al moto di precessione
degli equinozi,
all'incirca all'epoca del collasso climatico nell'estremo Nord
e del tracollo
della civiltà ivi stanziata (a questo punto, all'"albero della
conoscenza",
collocato al centro del giardino, si potrebbe accostare
l'immagine dell'asse terrestre,
attorno a cui si arrotola il "serpente", possibile metafora
dell'inesorabile
volgere del Tempo che manda in rovina tutte le cose).
Osserviamo ancora che, proprio accanto alla Nordkinn, la
Varanger
Halvoja - ossia la penisola squadrata, solcata da numerosi
fiumi, contigua al
Tanafjorden e situata nella parte più orientale di quell'area
estrema della Scandinavia
che potrebbe essere accostata all'Etiopia omerica, alla "terra
estrema"
indù ed al Vara iranico - annovera fra i suoi toponimi un
"Urfjellet", ovvero
"monte di Ur" (riguardo poi ai curiosi "Adamsfoss" e
"Juovvajokka", sarebbe
opportuno approfondirne l'antichità e l'origine).
La sede originaria semitica sembrerebbe dunque coincidere con
quella
indoeuropea: invero, secondo la Genesi, il periodo per così
dire "edenico" sarebbe
stato precedente alla suddivisione, avvenuta dopo il Diluvio,
tra i discendenti
di Sem (Babilonesi, Fenici, Ebrei e Arabi), di Cam (gli Egizi)
e di Jafet
(gli Indoeuropei). Insomma molti indizi sembrano
confermare quel che sostiene
la Bibbia, cioè che le tre stirpi avrebbero avuto un'origine
comune; a favore di ciò depongono anche le affinità
riscontrabili tra le lingue semitiche e
quelle del ceppo indoeuropeo.
In ogni caso, un accenno a quello che, secondo tante mitologie,
sarebbe
stato l'Eden felice di una civiltà primigenia - ovviamente,
trasfigurato nella
memoria dei posteri, i quali non potevano non idealizzare il
ricordo dell'antica
patria perduta, divenuta la sede dei morti - lo abbiamo trovato
anche in
Omero: si tratta del passo, relativo al destino di Menelao, che
menziona la
"pianura Elisia, ai confini del mondo" dove "bellissima per i
mortali è la vita"
(Od. IV, 564). Avevamo altresì accennato alla sua analogia con
un mitico regno
delle saghe nordiche, denominato Glæsisvellir (la "pianura
splendente") o
Odàinsakr (il "campo degli immortali"), ripreso dall'"orto
delle delizie" di
Guthmundo e collocabile anch'esso verso l'estremità
settentrionale dell'Europa,
ossia la terra paradisiaca, resa abitabile dall'"optimum
climatico", dove ad
ogni estate si ripeteva la meraviglia del sole senza tramonto.
E, forse, un estremo ricordo del sole di mezzanotte sopravvive
in un versetto dell' Apocalisse giovannea, allorché si
manifesta la visione della Gerusalemme
celeste: "Le sue porte non saranno mai chiuse di giorno, perché
la notte
là non ci sarà più" (21, 25).
In conclusione, a suggello di queste considerazioni, riportiamo
una frase
del Bibby: "L'Età del bronzo europea, quel periodo di lunga ed
universale pace
in cui l'arte e l'artigianato raggiunsero la quasi perfezione,
il periodo illustrato
nelle pitture graffite, fu uno dei primi 'vertici' nel grafico
del progresso
umano. Ancora oggi non è esagerato considerarlo, come lo
consideravano i
greci, una sorta di età dell'oro"329.
329 Bibby, Le navi dei Vichinghi, pag. 284
XIX. ULTIMA THULE

Non è difficile a questo punto immaginare che gli abilissimi


navigatori
dell'età del bronzo, sfruttando le condizioni eccezionalmente
favorevoli offerte
dal pieno rigoglio dell'"optimum climatico" (che, come abbiamo
detto,
raggiunse il culmine attorno alla metà del III millennio a.C),
abbiano saputo
spingersi per mare anche a distanze molto grandi. Fra le tante
tracce che essi
hanno lasciato, spiccano quelle affinità tra mitologie, anche
lontanissime, alle
quali abbiamo già accennato e su cui purtroppo non possiamo
dilungarci quanto
meriterebbe l'argomento: ecco ad esempio che il dio Hoori, il
"Sole declinante"
della triade solare giapponese, sposa una dea marina, la quale
poi si trasforma
in coccodrillo e ritorna in mare (Kogiki, cap. XLII): ora, nel
Kalevala il vecchio Väinäimöinen incappa nella stessa
disavventura, infatti la moglie
diventa un pesce e lo abbandona (runo V); d'altronde, a sentire
gli antichi
esperti in "cronache rosa" dell'Olimpo, qualcosa del genere
accadde anche al ménage della coppia Peleo-Teti. Ancora, la
competizione tra Väinäimöinen, in
barca (che in certi tratti richiama il re Pelles, il "vecchio
pescatore", del mito
del Graal), e Ilmarinen, in slitta (runo XVIII), ricorda quella
tra Hoori, per mare,
ed il fratello, per terra (Kogiki, I, 39; ma pensiamo anche ai
duelli dei gladiatori
romani, di cui uno aveva una rete, l'altro una spada).
A sua volta questa leggenda giapponese richiama troppo la lotta
tra Horo
e Seth - uno dei miti più importanti dell'antico Egitto - per
pensare che l'omonimia
Hoori-Horo possa essere soltanto casuale. A questi due ultimi
personaggi
saremmo a questo punto tentati di aggiungerne un terzo, già
incontrato
in precedenza, anch'esso di tipo "solare" e dal nome molto
simile: si tratta del
cacciatore Orione, e l'accostamento è reso ancora più
intrigante dal fatto che
il giapponese Hoori talvolta appare proprio nelle vesti di un
cacciatore (Kogiki, I, 39).
D'altronde Hoori ha un quasi omonimo non soltanto in Egitto, ma
anche
nel mondo nordico: infatti nell'Edda dì Snorri Hàr è il primo
personaggio di
una triade divina in cui si cela Odino; l'assonanza tra Hoori e
Hàr risulta poi
vieppiù significativa se si tiene conto del fatto che, come
abbiamo appena visto,
Hoori fa parte della trinità solare del Giappone. Non solo: la
Hàlfs saga ok
Hàlfsrekka - quella in cui abbiamo già riscontrato alcuni
spunti comuni al mondo
della mitologia greca, quali l'orco accecato dalla lancia
arroventata e l'uomo-foca
profetico, che ne attestano le relazioni con radici
antichissime - racconta
la storia dei due figli del re Hjörleif (una nostra vecchia
conoscenza),
chiamati Hàlfr e Hjörolfr: costoro sono rappresentati come due
tipi
diametralmente
opposti, e questo ci riconduce ancora, e non soltanto per i
nomi, alla tematica
già vista.Notiamo anche che ad Odino-Hàr viene talora
attribuito il soprannome di
"Thrigg", "Triplice": in tale contesto, ci sembra rimarchevole
il fatto che il nome
di Amleto, dall'etimologia incerta, in antico egiziano suoni
molto simile alla
radice del numero "tre" ("hmt"); d'altronde, il tema del
giovane che uccide
lo zio per vendicare il padre lo ritroviamo nella vicenda di
Horo che punisce
Seth per la morte di Osiride. E peraltro già ben nota la
dimensione "orionica",
oltre che solare, di quest'ultimo (al riguardo, ricordiamo
anche le analoghe vicende
di Aurvandill-Horvendillus-Ulisse). In questo quadro, riteniamo
che l'omonimia
segnalata in precedenza tra le due coppie arcaiche, egizia e
germanica, Nàrte-Nerthus e Menes-Mannus, meriterebbe di essere
approfondita da parte
degli specialisti. Ricordiamo inoltre che Odino (cioè Hàr) e
Horo sono entrambi
monocoli.
Riguardo ancora ad Amleto - personaggio appartenente,
ovviamente sotto
nomi diversi, al patrimonio leggendario di tanti popoli, non
solo quelli nordici,
ma anche Romani, Persiani e così via, come ben mette in luce il
Mulino
di Amleto - segnaliamo che uno dei suoi "prototipi" più
perfetti, sfuggito al pur
attentissimo vaglio degli autori del Mulino, si trova, al
solito, nella letteratura
celtica: si tratta del personaggio di Labraid, protagonista del
racconto intitolato Orgain Denna Rig (La distruzione di Dind
Rìg)330. E che dire di un racconto
tzigano, intitolato I tre capelli d'oro del re del Sole331 ? In
esso, a parte la natura
"amletica" del protagonista, riscontriamo una serie di
trasparenti allusioni
ai miti solari (e non solo), quali il neonato che si salva in
una cesta, il sole
nel suo triplice aspetto di neonato, adulto e vecchio, la
lettera con l'ordine di
ucciderne il latore, il pescatore, il vecchio su una barca
affetto da un incantesimo,
il piccolo chiamato "Senzanome" che diventa re (pensiamo al
tema di
Ulisse-Nessuno), l'albero che produce mele d'oro dopo che il
serpente è stato
ucciso... Ma un altro omologo di Amleto fa capolino addirittura
in un antico testo
oracolare cinese: "Il principe Chi viveva alla corte del tetro
tiranno
Hsin (...) Il principe Chi era un parente di questo tiranno e
non poteva
ritirarsi dalla corte. Perciò nascondeva i suoi buoni
sentimenti e si fìngeva pazzo.
Benché fosse tenuto in schiavitù, non si lasciò scuotere nelle
sue convinzioni
dalle iniquità esterne"332. Nell'I Ching ritroviamo altresì la
figura di un'oca
selvatica, vista quale simbolo di fedeltà coniugale, che fa
fronte a una situazione
critica, in cui la pace familiare è minacciata333: il parallelo
con l'Odissea è impressionante (in greco "Penelope" significa
"oca selvatica") e non
si esaurisce qui: nella successiva illustrazione il testo
afferma infatti, nel caratteristico
stile oracolare ottimamente reso dal Wilhelm, che "il figlio
giovane
è in pericolo", "il marito esce di casa e non ritorna",
"propizio è respingere
predoni". Viene naturale supporre che le fonti mitologiche a
cui hanno attinto
i compilatori dell'I Ching siano state influenzate da apporti
di provenienza
esterna.

330 Antiche storie e fiabe irlandesi, pag. 59 sgg.


331 Ficowski, Il rametto dell 'albero del Sole, pag. 89
sgg.
332 I Ching, 36, "Ming I - l'ottenebramento della luce"
333 I Ching, 53, "Chien - lo sviluppo"

A questo punto, ci sembra significativo il fatto che nel nord-


ovest della Cina
è attestata la presenza di un popolo, i Tocari, ricordati da
Plinio ("Thocari", Storia Naturale, VI, 20), alti, biondi e dai
caratteristici tratti caucasici, i quali
parlavano una lingua genuinamente indoeuropea: ora, costoro
appaiono verso
l'inizio del II millennio a.C, il che ci dà un'ulteriore
conferma dello stretto rapporto
intercorrente fra il tracollo dell"'optimum climatico" e la
diaspora indoeuropea.
Oltretutto l'età del bronzo in Cina- con la dinastia Shang
(riguardo
a cui sarebbe da approfondire l'ipotesi di un rapporto con i
nomi degli HaxaSàkha-Hyksos)
- ha inizio tra il XVIII e il XVI secolo a.C, cioè esattamente
nello stesso periodo dell'insediamento dei Micenei in Grecia,
degli Arii in India
e delle altre popolazioni indoeuropee nelle loro sedi storiche.
È altresì significativo
il fatto che in Cina il nord è considerato la regione dei
morti334.

334 Treccani, voce "Cina: Religione e filosofia"

In questo quadro, non può non colpire la rassomiglianza fra i


due termini yang e yin - che nella filosofia cinese
notoriamente esprimono le opposte polarità
dei sessi, maschile e femminile - e, rispettivamente, le radici
greche andr e
gyn, anch'esse indicanti l'uomo e la donna ("anèr edè gyné",
"uomo e donna",
Od. VI, 184); ma ciò che a nostro avviso appare assolutamente
sbalorditivo è il
nome dell'ideogramma cinese indicante il "re", "wang": esso
infatti è pressoché identico al "wanax", il "re" miceneo, del
tutto corrispondente all'"ànax" omerico
(a parte la solita perdita del digamma iniziale).
Per inciso, sembra che l'insediamento degli Olmechi nel Golfo
del Messico
risalga alla stessa epoca: se ne potrebbe dedurre che costoro
fossero una
popolazione inizialmente stanziata nel nord del continente
americano - dove
poteva avere contatti con i Protoindoeuropei attraverso il Mare
Artico, che nel
III millennio a.C. non era ghiacciato - la quale
successivamente, in seguito al
cambiamento climatico, fu costretta a scendere verso sud. Ciò
potrebbe contribuire
a spiegare certe affinità con le culture del Vecchio Mondo
(senza peraltro
escludere altri tipi di contatti).
Spostiamoci adesso verso l'Indonesia: a Nias, un'isola ad ovest
di Sumatra
dal nome "grecheggiante", studiata dallo Scarduelli, vi sono
monumenti
megalitici e una popolazione dalla pelle chiara, nella cui
lingua esistono termini
che richiamano singolarmente la lingua greca, quali ad esempio
"bulusa",
"lancia", o "baie", "luogo dell'assemblea" (in greco, "bàllein"
e "Boulé"
significano rispettivamente "lanciare" e "Consiglio"). Vi
troviamo anche un racconto
popolare, riportato sempre dallo Scarduellì335 e citato dal
Pettazzoni nel
suo Miti e Leggende, che ricalca in modo stupefacente il
celebre mito dell"'Androgino"
(riportato nel Simposio di Platone), l'essere primordiale che
venne diviso
a metà da Zeus, dando così origine alla prima coppia umana:
pertanto,
quella che nell'Atene del IV secolo a.C. era ormai quasi
ridotta ad una storiella
per bambini, in realtà affonda le sue radici in una remota
antichità, anteriore
alla partenza degli antenati degli attuali abitanti di Nias
verso l'estremo
oriente.

335 Scarduelli, L'isola degli antenati di pietra, pag. 176

Se poi da qui saliamo verso il Giappone, ci imbattiamo


nell'appellativo
"Sumera" attribuito ai primi imperatori giapponesi: in
particolare, è singolare
il parallelismo tra il primo Sumera, chiamato Jimmu Tenno, di
stirpe solare che,
dopo aver guidato il suo popolo in una lunga trasmigrazione,
morì a 127
anni e fu sepolto nei dintorni del monte "Unebi" (Nihongi, III,
35; la sua tomba
non è stata ritrovata) - e la figura di Mosé, che fu
trasportato da bimbo in
una cesta come un Sole neonato e, dopo le note vicende, morì a
120 anni e fu
seppellito nell'area del monte "Nebo", dove il suo corpo non è
stato mai trovato (Deuteronomio, 34, 1-7).
D'altronde, nei miti più antichi del Giappone si incontra un
"Vecchio del
mare" (Nihongi, II, 28; 32) che a questo punto non può non
richiamare il suo
omonimo dell'Odissea; notiamo inoltre che le dee marine
giapponesi hanno doti
trasformistiche, esattamente come le loro "colleghe" greche.
Particolarmente
significative ci sembrano poi le convergenze tra due personaggi
di queste due
mitologie geograficamente tanto distanti, il "giapponese"
Inaihi e il "greco"
Inaco: costoro infatti, oltre ad essere pressoché omonimi, sono
ambedue figli
di una dea marina; entrambi poi, sentendosi tormentati dagli
dèi, si uccidono
allo stesso modo, il primo gettandosi in mare (Nihongi, III,
9), l'altro in un
fiume336; inoltre Inaihi ha un fratello chiamato Mikenu
(Kogiki, 1,43), mentre
Inaco ha una figlia, "Micene dalla bella corona" ("eustéphanos
Mykéne", Od.
II, 120). E forse non è un caso che la stessa radice "Myken" si
ritrovi anche nei
nomi di certe isole nordiche, dalla Mykines delle Färöer alla
Myken nel mar di Norvegia.

336 Messina, Dizionario di mitologia classica, voce "Inaco"

Notiamo anche che Inaihi gettandosi in mare muore e diventa un


dio: è esattamente quel che accade all'omerica Ino, "che prima
era una mortale con
parola umana,/ ora nella distesa del mare è stata messa a parte
della dignità degli
dèi" ("theon ex émmore timès", Od. V, 334-335). Qui si avverte
una dimensione
estremamente arcaica, peraltro riscontrabile anche
negli altri miti riportati da Omero e riferiti al mare:
pensiamo a Proteo o ad Egeone, dei quali
non a caso abbiamo ritrovato i corrispondenti in altri contesti
geografici. Sembra
quasi di essere arrivati al "brodo primordiale" di tutte le
mitologie, che potrebbe
riferirsi ad un'epoca estremamente antica e ad un'antichissima
civiltà marinara comune.
Oltretutto Ino, la dea marina che salva Ulisse davanti alla
costa dei Feaci,
è pressoché omonima di Hina, la grande divinità della
Polinesia; ma l'affinità
non sta soltanto nel nome: notiamo infatti che Hina è una dea
lunare337 e
che Ino viene da Omero chiamata "Leucotea", cioè la "Dea
Bianca" (in seguito
i Romani l'avrebbero identificata con l'aurora, forse basandosi
sulla traduzione
dal greco del termine "Leucotea", che in latino suona "Dea
alba"). Non
solo: forse Ino-Hina la ritroviamo nella mitologia romana con
il nome di "Anna":
Anna Perenna era un'antichissima divinità romana, riguardo alla
quale
Ovidio afferma: "Alcuni dicono che sia la luna, che completa
l'anno con i mesi"
("Sunt quibus haec luna est, quia mensibus inpleat annum";
Fasti, III, 657).

337 Guiart, Les religions de l'Oceanie, pag. 94

A questo punto si potrebbe congetturare che Ino, la quale


nell'Odissea fa
un'apparizione fugace ma determinante per la salvezza del
protagonista, fosse
una dea lunare venerata dai marinai (tra i quali è sempre stata
viva la tradizione
di confidare nell'aiuto di una figura divina di sesso
femminile, spesso
identificata proprio con la luna); d'altronde, la radice del
suo nome sembra ritrovarsi
come suffisso in certi appellativi mitologici che hanno
attinenza con
l'astro della notte, quali il greco Selene (il cui prefìsso
corrisponde al vocabolo
"sélas", ossia "splendore" o "luce", da cui il latino "sol" e
il nostro "sole")
e il latino Diana (in cui il prefìsso, sempre con lo stesso
significato, è legato al
latino "dius", al greco "dìos" e al sanscrito "diviyah":
pertanto sia Sel-ene che
Di-ana potrebbero significare "la luminosa Ino", ossia "la luna
splendente").
Potremmo altresì supporre che il suo magico velo (senza con ciò
escludere
l'interpretazione data in precedenza) alluda o all'alone che
sovente circonda la
luna o, più probabilmente, al fenomeno della "luce cinerea",
quella debole luminosità
color grigio-cenere che, per alcuni giorni dopo il novilunio,
consente
di distinguere la parte del disco lunare non illuminata
direttamente dal Sole,
ma che riceve la luce riflessa dalla Terra (la quale, allorché
è piena, risplende
come un faro nella notte selenita): in effetti la luce cinerea,
con il suo colore
smorto, così diverso dalla lucentezza della falce che riflette
i raggi solari, dà l'impressione di un velo steso a coprire la
faccia in ombra del nostro satellite.
E se anche la dea Calipso fosse riconducibile a tale contesto?
Sia il colore
del suo manto, "argypheon" (Od. V, 230) - bellissimo vocabolo
che alla lettera
significa "dalla luce argentea" o
"luminoso come l'argento" ed evoca stupendamente la luce della
luna - sia il suo velo, chiamato in greco "kalyptre"
(V, 232), lasciano intravvedere nella figura di Calipso (nome
che pertanto potrebbe significare non "laNasconditrice" ma "la
Nascosta", "la Velata") i tratti
di una divinità lunare dell'età del bronzo, presumibilmente
venerata dai marinai
delle Färöer, con un santuario nell'isola Ogigia: in tal modo
il poeta dell'Odissea avrebbe attribuito al suo eroe l'amante
più prestigiosa e seducente a
cui un uomo possa ambire, cioè la Dea Luna in persona...
Inoltre, considerando
le analogie che gli studiosi hanno rilevato fra Calipso e la
locandiera Siduri,
forse si potrebbe tentare di rileggere l'incontro di
quest'ultima con Gilgamesh,
prototipo dell'eroe solare, in chiave astronomica. A questo
punto sarebbe
suggestivo collegare alla luna anche la tradizionale "danza dei
sette veli",
interpretabile proprio in termini di luce cinerea che giorno
dopo giorno si riduce
man mano che si disvela la superfìcie dell'astro (il numero
sette è legato
al ciclo lunare); ma pensiamo anche al velo che copre il volto
delle danzatrici
arabe od alle divinità velate che si riscontrano fra i miti di
tanti popoli. Tutto
ciò contribuisce a rafforzare la sensazione che il poeta dell'
Odissea, nel costruire le avventure attribuite al suo
protagonista, abbia attinto a piene mani da un "serbatoio" di
storie e leggende, diffuse per tutto l'orbe terracqueo dai
marinai
di un'epoca remota, i cui frammenti si ritrovano tuttora
sparsi, oltre che
nelle varie mitologie, anche nelle favole, nel folklore e nelle
tradizioni di gran
parte dell'umanità (ma pensiamo anche all'astrologia, "figlia"
di quelle conoscenze
astronomiche che dovevano costituire un know-how fondamentale
di
quegli antichi navigatori).
Tornando a Ino-Hina, si potrebbe congetturare che gli
ardimentosi marinai
della preistoria, approfittando dell'optimum climatico", si
siano spinti fino
alla Polinesia: potrebbero forse attestarlo gli enigmatici
resti megalitici sparsi
un po' dovunque per gli arcipelaghi del Pacifico, insieme con
tutta una costellazione
di racconti e leggende che spesso richiamano in modo
stupefacente
i miti del Vecchio Mondo: pensiamo soltanto ai ricordi del
Diluvio e a quelli
della torre di Babele, che il Caillotha riportato, mostrandone
l'antichità, nel
suo affascinante Mythes, legendes et traditions des Polynesiens
(tutto ciò potrebbe
comunque considerarsi complementare, piuttosto che alternativo,
all'ipotesi
della diaspora da una originaria terra artica).
Ritroviamo ancora Hina in un mito polinesiano insieme con Maui:
già a
prima vista la cosa si prospetta interessante, poiché Maui,
l'uccisore del mostro-anguilla
Tuna, corrisponde all'Apollo greco (anzi, iperboreo) che uccide
Pitone, il drago delle tenebre. Leggiamo questo mito
nell'esposizione del
Guiart: "Hina regnava sul mondo dei morti (...) divorando gli
uomini nel suo
antro. Maui, assistito da un'armata di uccelli, si era
ripromesso di sconfìggerla
(...) Il suo piano era di penetrare fra le cosce della dea
addormentata per poi
uscire
dalla sua bocca: in tal modo si sarebbe impossessato della sua
immortalità facendola morire (...) Gli uccelli lo videro
strisciare in silenzio fra le cosce
e sparire. Ma quando non vi erano più che i piedi a dover
passare per la vulva
divina, uno degli uccelli non potè più trattenersi dal ridere.
Il suo riso svegliò
Hina che strinse le cosce, schiacciando Maui che morì. Questa
fu l'origine
della morte presso gli uomini"338.

338 Guiart, Les religions de l'Oceanie, pag. 27

Confrontiamo questo racconto con il mito greco di fondazione


del misteri
eleusini. Leggiamone prima la variante orfica, nella versione
dataci dal
Kerényi: "Sul campo di Raro, tra Atene ed Eleusi (...) Baubo
accolse ospitalmente
la dea (Demetra, che stava cercando sua figlia Proserpina,
rapita da Ade
e trasportata negli Inferi), sedette di fronte all'afflitta
Demetra con le gambe divaricate
(...) sollevò la veste, mostrando il suo corpo poco attraente,
ed ecco il
bambino lacco ridere lì, nel grembo di Baubo"339 (ci siamo già
occupati di
Baubo allorché ne abbiamo constatato l'identità con la vecchia
Boba, la "madre
del grano" delle campagne lituane). Questo racconto si cala nel
contesto dell'Inno omerico a Demetra, in cui la dea, in cerca
della figlia, riceve ospitalità
da parte del re di Eleusi, il quale le affida il suo figliolo:
per conferirgli l'immortalità,
Demetra di notte lo "nascondeva nella forza del fuoco come un
tizzone"
(v. 239), fin quando la madre del piccolo, spiandola, si
accorse di questo
singolare trattamento e, disperata, lanciò un urlo, temendo che
la divina
balia stesse per ucciderlo. A questo punto, Demetra s'infuriò,
tolse il bimbo dal
fuoco, lo poggiò per terra e rimproverò la madre, dicendole che
non avrebbe
più potuto evitargli la morte; indi se ne andò sdegnata, ma
dopo varie altre vicende
(tra cui il ritrovamento della figlia, che Ade acconsentì a
rimandarle, sia
pure temporaneamente, dagli Inferi) istituì ad Eleusi i riti
segreti che assicurano
agli iniziati una sorte diversa da quella che attende i comuni
mortali.

339 Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, pag. 202

Il confronto del mito polinesiano con le due versioni di quello


greco, di
cui quella orfìca è ritenuta la più antica340, ne mostra le
analogie ed insieme la
complementarità. I temi in comune sono almeno quattro:
l'ambiente infero, la
visione della vagina della dea, il riso, il tentativo fallito
di conseguire l'immortalità.
A questo punto, è difficile negare che vi sia un rapporto tra i
due
racconti, probabilmente legati dalla comune derivazione da uno
stesso prototipo.
A prima vista, potremmo tentare di interpretarli nel senso che,
per vincere
la morte, l'uomo dovrebbe rifare al contrario il percorso
effettuato all'atto
della nascita. Però il fatto che da un lato Maui sia una sorta
di eroe solare, a cui
infatti viene attribuita la stessa impresa
di Apollo, e che dall'altro il bimbo di
Eleusi sia esposto al fuoco, sembra piuttosto suggerirci di
ripensare all'identificazione tra l'uomo e il sole (ricordiamo
che la frase "sono figlio della Terra
e del cielo stellato" è anch'essa orfica): insomma, tutto
l'insieme potrebbe in
realtà alludere al fatto che l'astro, sorto al mattino dalla
terra, al tramonto va a
perdersi nuovamente nelle sue viscere.

340 Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, pag. 201

Più in generale, nell'aspetto "osceno", almeno all'apparenza,


della divinità
scoperta nella sua nudità, sembra di ritrovare il binomio eros-
thanatos: è il mistero dell'amore intrecciato con la morte,
ossia i
due estremi, dall'attimo
del concepimento all'ineludibile fine, di ogni vita
individuale. Esso trova il
suo momento più intenso, e nel contempo liberatorio,
nell'esplosione del riso:
sia quello giocoso che segue alle battute a sfondo sessuale, o
che nell'Iliade scioglie la tensione tra gli dèi dell'Olimpo
(Il. I, 599), sia quello angoscioso
che, in una delle scene più straordinarie e drammatiche
dell'Odissea, ad un
certo punto travolge i pretendenti, tragico presagio della
strage imminente:
"Ridevano di un riso involontario, inconsulto,/ mangiavano
carni insanguinate,
ma i loro occhi/ erano pieni di lacrime, l'animo pianto voleva"
(Od. XX,
347-349). Infine, non è forse un caso che i temi della nudità e
della morte si ritrovino
entrambi nel racconto biblico della cacciata dall'Eden.
Tra gli altri spunti, che lasciamo alla riflessione del lettore
ed agli approfondimenti
degli specialisti, vi è poi la relazione che l'accostamento
propone
tra la dea lunare (Hina) e la dea delle messi (Baubo, Demetra).
Al riguardo, è ben nota l'importanza, nel mondo
dell'agricoltura, del ciclo lunare,
in cui pure è ben presente il tema della morte e della
rinascita: ad esso si associano
i cicli femminili, con tutte le connesse implicazioni per la
fecondità, sia
per quanto riguarda i lavori dei campi che il mondo umano. Ma
pensiamo anche
al rapporto fra il tizzone e l'immortalità, che si ritrova nel
mito di Meleagro:
quest'ultimo a sua volta, come abbiamo visto, era diffuso anche
in Lituania
ed in Islanda.
D'altronde, la relazione di Hina con l'immortalità ha un
preciso riscontro
nel velo di Ino, che, come abbiamo visto poco fa, non solo è
immortale, ma
impedisce altresì di morire (Od. V, 347).
A questo punto, ci sembra rilevante il fatto che "fra i
Marchesani fu constatato
il 7,2% fra gli uomini ed il 9,5% fra le donne di occhi
azzurri: questo fatto
dimostra l'intervento, sebbene non documentato
anamnesticamente, di sangue
europeo"341. Ora, le Marchesi sono un gruppo di isole disperse
nell'immensità
del Pacifico, a nord delle Tuamotu: il fatto che siano
interessate dalla
grande corrente sud-equatoriale, che attraversa l'Oceano da est
(cioè dalle coste
sudamericane) verso ovest, ci dà una precisa indicazione sulla
possibile direzione
di
provenienza di quel "sangue europeo" (questa d'altronde fu la
rotta seguita dal Kon-Tiki, la zattera con cui Thor Heyerdahl
navigò dal Perù fino alla
Polinesia proprio per dimostrare la provenienza di quelle
popolazioni).

341 Treccani, voce "Polinesiani, Antropologia"

Notiamo ancora che il nome delle Samoa sembra quello di


un'isola omerica
- Same o Samo; e vi si trovano anche dei toponimi
"grecheggianti" - e le
isole Figi, situate non lontano dalle Samoa, sembrano quasi
riecheggiare i Feaci,
i grandi navigatori dell'Odissea... In tale contesto, è assai
singolare che "le
avventure di Longa Poa alle isole Figi ricordano stranamente
quelle di Ulisse"342:
si sarebbe quasi tentati di congetturare che i Feaci, adusi a
navigare per
il "grande abisso" (Od. VII, 35), fossero riusciti, allorché
l'optimum climatico"
era al suo culmine, ad arrivare dalla Norvegia settentrionale
(la "vasta Iperea"
omerica, loro patria originaria, precedente alla discesa nella
Scheria) fino
alle Figi, dove le loro leggende marinare si sono tramandate
fino ai nostri giorni;
successivamente, al decadere dell'optimum", essi sarebbero
scesi dal nord
al sud della Norvegia, insediandosi presso la foce del fiume
Figgjo, e qui un aedo
acheo potrebbe aver pensato di utilizzare quegli stessi
racconti per costruire
le peripezie del protagonista del suo poema (che poi le
racconta proprio alla
corte dei Feaci: questo poeta non doveva essere meno furbo del
suo Ulisse).

342 Treccani, voce "Maleopolinesiache, lingue"

Sempre in Polinesia, il "pareo", tipico indumento locale,


appare praticamente
omonimo dell'omerico "paréion" (Il. IV, 142), una sorta di
gualdrappa
colorata; e sarebbe suggestivo accostare anche il concetto di
"tabu" (o "tapu")
al vocabolo greco "tàphos", "tomba" (il termine siciliano
"tabutu", cioè "bara",
ha probabilmente la stessa origine). Ancora, la danza chiamata
"hula" potrebbe
ricordare il greco "chòros" e il termine hawaiano "aekai",
"spiaggia",
appare piuttosto simile ad "aigialòs". Non meno significativo è
il nome del
"kavu", ossia "il prete esperto dei riti di propiziazione del
totem"343, virtualmente
omonimo del "koes" o "kaves", il sacerdote samotracio dei riti
kabirici
in cui ci siamo imbattuti in precedenza. Per inciso, al kavu-
koes-kaves si potrebbe
accostare anche il "cohen", nome dei sacerdoti ebraici; e, a
questo punto,
non può non colpire il nome del dio polinesiano Yewea, che
sembra ricordare
Yahva-Yahve-Giove. È altresì singolare il nome dell'arcaica
società segreta
degli "Arioi", nelle Isole della Società, un'istituzione
considerata alla
stregua di una "sintesi organizzata delle funzioni di prete e
di nobile"344.

343 Guiart, Les religions de l'Oceanie, pag. 46


344 Guiart, Les religions de l'Oceanie, pag. 145

E che dire del fatto che nel mondo polinesiano si trovi un dio
dal nome
"egizio": Oro? Potremmo considerarlo un caso, però può far
riflettere il fatto
che l'anima dell'uomo e lo spirito degli antenati vengono
chiamati rispettivamente
"ko" e "bao"345, nomi che ricordano da vicino il "ka" ed il
"ba" degli antichi
Egizi. Inoltre, il nome delle piattaforme rituali polinesiane,
"marae" "costruzioni
in pietra più o meno complesse a seconda dell'importanza del
monumento,
il cui elemento essenziale era una piramide tronca"346 -
richiama
"il nome egizio delle piramidi (invece il vocabolo "piramide"
deriva dal
greco). Ancora, "in Polinesia si praticava, in taluni casi, la
mummificazione:
l'operazione veniva effettuata da specialisti e la tecnica
consisteva, dopo aver
estratto le viscere dall'ano e il cervello dalle narici, nel
trattare la pelle con applicazioni
di olio profumato, eliminando la carne e gli umori per favorire
l'essiccazione.
Le mummie si conservavano per molti decenni: a Samoa venivano
chiamate 'gli dèi seccati al sole'"347.

345 Guiart, Les religions de l'Oceanie, pagg. 80-81


346 Guiart, Les religions de l'Oceanie, pag. 90
347 Guiart, Les religions de l'Oceanie, pag. 13

In tale quadro, le innumerevoli concordanze di nomi, miti e


leggende,
spesso a sfondo "solare", diffuse in ogni area del mondo
(quindi ben oltre i limiti
del contesto indoeuropeo), possono forse portare a ricondurre
il tutto ad
un unico denominatore comune: la civiltà fiorita durante
l'optimum climatico"
nell'area della Scandinavia, già in passato definita "officina
gentium aut
certe velut vagina nationum", "fabbrica di popoli o per così
dire matrice di nazioni".
Ricordando anche il livello raggiunto nel nord dell'Europa
dall'arte
della navigazione, di cui troviamo eloquenti testimonianze sia
nei graffiti rupestri,
sia nei poemi omerici e in tutta la mitologia greca - per di
più in un'epoca
eccezionalmente favorevole, dal punto di vista climatico, per i
grandi
viaggi per mare - si potrebbe legittimamente ipotizzare che
proprio lì si sia
sviluppato il primo centro d'irradiazione, a dimensione
mondiale, di culti solari,
di miti stellari (presumibilmente legati alla navigazione) e,
infine, di tecniche
metallurgiche, a partire dal Neolitico fino alla diaspora
indoeuropea.

Ma delle imprese oceaniche dei navigatori achei non è rimasta


proprio alcuna
traccia nella mitologia greca? Per cercare di rispondere a tale
domanda,
esaminiamo anzitutto il passo in cui Platone, nel descrivere la
posizione di
Atlantide, fa un preciso riferimento anche ad un continente
situato al di là dell'Atlantico:
"I naviganti di un tempo passavano su altre isole e
successivamente
raggiungevano il continente che circonda il lato opposto del
mare" (Timeo, 24e). Esso ci rimanda al seguito di quel discorso
di Plutarco, nel cap.
XXVI del Defacie quae in orbe lunae apparet, da cui ha preso le
mosse la nostra
ricerca e che pertanto a questo punto può ritenersi molto
attendibile: "Più in là (di Ogigia) si trovano altre isole,
equidistanti tra loro" e successivamente
si incontra "il grande continente che circonda l'oceano".
Dopo aver notato che un preciso punto di contatto tra i due
passi testé citati si trova nell'Odissea, là dove si afferma,
come abbiamo visto poco fa, che
Calipso, la dea di Ogigia, era "la figlia del terribile
Atlante" (1, 52), non possiamo
non meravigliarci per la straordinaria congruenza di queste
descrizioni
con la realtà geografica dell'Atlantico settentrionale (abbiamo
già accennato alla
corretta segnalazione sulla brevità delle notti estive); ma
ancora più sorprendente è la successiva affermazione di
Plutarco: "La costa di quel continente è abitata da Greci lungo
le rive di un golfo, grande almeno quanto la Meotide
(l'attuale Mar d'Azov, presso la Crimea), che sbocca in mare
aperto circa alla
latitudine dello sbocco del Caspio. Essi considerano e chiamano
se stessi 'continentali'".
Questa
indicazione plutarchea può a prima vista sembrare un'assurda
fantasia,
se si parte dal presupposto che quei "Greci" dovessero
provenire dal Mediterraneo;
essa invece - oltre ad avere un puntuale riscontro geografico
nell'attuale
Golfo del San Lorenzo, davanti all'estuario dell'omonimo fiume
canadese
- acquista ben altro senso proprio nell'ottica di una primitiva
localizzazione
degli Achei nell'area scandinava (che, non a caso, abbiamo
individuato
proprio a partire dallo stesso capitolo del Defacie): anzi,
come vedremo,
si inserisce con tale naturalezza nel quadro emerso dal
presente lavoro da costituirne
essa stessa un'ulteriore conferma.
Consideriamo infatti che i Vichinghi, navigatori nordici dei
quali abbiamo
constatato le affinità con gli Achei omerici, hanno realizzato
l'impresa di
attraversare l'Atlantico: costoro, partendo dalle coste
norvegesi e appoggiandosi
agli scali intermedi delle isole Shetland, delle Färöer,
dell'Islanda e della
Groenlandia, attorno all'anno 1000 della nostra èra riuscirono
a raggiungere il
continente americano, approfittando del "periodo caldo
medioevale", durante
il quale, come abbiamo visto, i ghiacci polari si erano
ritirati e gli iceberg erano
quasi scomparsi; successivamente, il riincrudirsi del clima
bloccò di nuovo
quella rotta (nel capitolo dedicato alle avventure di Ulisse
abbiamo avuto occasione
di accennare allo sbarco di Leif Eriksson, figlio di Erik il
Rosso, nel
Vinland, il nome da essi dato alla terra oltremare).
Ciò dimostra che la via nordatlantica è senz'altro alla portata
di navigatori
esperti purché, beninteso, il clima sia propizio: essa è
infatti alquanto più breve e di gran lunga più agevole, data la
possibilità di effettuare vari scali intermedi,
rispetto alla interminabile traversata non-stop che Cristoforo
Colombo
dovette affrontare dalle Canarie alle Bahamas, avendo a
disposizione mezzi
limitati (la sua nave ammiraglia, la Santa Maria, aveva a bordo
appena 39
uomini, contro i 120 di certi vascelli achei). Pertanto non è
affatto irragionevole
attribuire ad una civiltà marinara evoluta, quale quella
descritta nei poemi
omerici, la possibilità, partendo dall'area scandinava ed
avvalendosi delle
isole intermedie - puntualmente menzionate sia da
Platone che da Plutarco - di
raggiungere e colonizzare le coste del continente americano,
sfruttando l'eccezionale situazione climatica determinatasi con
l'instaurarsi dell'optimum",
la quale, come abbiamo visto nel capitolo dedicato al clima, fu
per un lunghissimo
periodo ancora più favorevole di quella che millenni dopo
avrebbe
permesso ai Vichinghi di conseguire lo stesso obiettivo.
Insomma, per navigatori ricchi di iniziativa, quali
indubbiamente erano gli
Achei, la possibilità dell'attraversamento dell'Atlantico a
partire dalle coste
della Scandinavia era senz'altro destinata prima o poi a
tradursi nella sua effettiva
attuazione, inequivocabilmente attestata dall'esattezza con cui
Plutarco
ci ha tramandato la descrizione di quel mondo ignoto sia a lui
che ai suoi contemporanei;
d'altronde, un'altra traccia delle loro imprese marinare la
troviamo
in quel nome, "Mykines", dell'isola più occidentale delle
Färöer, possibile
vestigio di un antico scalo acheo lungo la rotta nordatlantica.
Nell'Odissea d'altronde non mancano gli accenni a navi che
attraversavano
"il grande abisso" ("méga laitma"), espressione che ritroviamo
sia specificamente
riferita ai Feaci (Od. VII, 35), sia in riferimento al tratto
tra Ogigia
e la Scheria (Od. V, 174), sia in una frase rivolta da Ulisse a
Polifemo: "Noi
siamo Achei, nel tornare da Troia travolti/ da tutti i venti
sul grande abisso del
mare" (Od. IX, 259-260), sia, ancora, a proposito di un "albero
di nave nera da
venti banchi,/ larga, da carico, che attraversa il grande
abisso" (Od. IX, 322323).
Può essere significativo anche il fatto che il poeta dell'
Iliade, il quale invece è calato in una realtà tutta baltica ma
non certo oceanica, del "grande
abisso" non faccia mai menzione.
Plutarco addirittura ci dice che vi furono più ondate di
colonizzazione:
dopo il mitico "popolo di Crono" che diede a quel mare il nome
di Cronio (e
nell'isola di Bordhoy, una delle Färöer settentrionali,
troviamo un toponimo,
Krùnufjall, che sarebbe suggestivo interpretare come "Monte di
Crono"), ultimi
arrivarono i "compagni di Eracle", i quali "riaccesero a forte
e vigorosa
fiamma la scintilla greca, che si andava ormai spegnendo
sopraffatta dalla lingua,
dai costumi e dal modo di vita dei barbari" (Defacie, cap.
XXVI): dalle
nebbie di una lontana preistoria - forse identificabile proprio
con la felice età di Crono - emerge un quadro di un realismo
sconcertante (d'altronde, di questo
"Ercole nordico", come pure dell'Ulisse nordico" abbiamo
ritrovato le
tracce anche in Tacito).
Né possiamo a questo punto escludere che quegli antichi
navigatori siano
riusciti a spingersi oltre il passaggio a nord-ovest del
continente americano
- la cui ricerca nel 1845 riuscì fatale alle navi di Sir John
Franklin, ma che nel
III millennio a.C. doveva essere libero dai ghiacci - arrivando
così, dopo aver
attraversato lo stretto di Bering, fino alle coste del Pacifico
e al Giappone (ecco
le analogie con la mitologia nipponica: pensiamo alle
corrispondenze tra
Inaco e Inaihi), od anche fino all'America del sud, da dove poi
la corrente sudequatoriale
ed i
venti alisei potrebbero averli convogliati verso gli
arcipelaghi del Pacifico: così si spiegherebbero i monumenti
megalitici, le somiglianze tra
i miti polinesiani e quelli del Vecchio Mondo e, soprattutto,
gli occhi azzurri e
"il sangue europeo" tra gli abitanti delle Marchesi. Insomma,
alla luce di quanto è emerso riguardo alla primitiva
localizzazione nordica degli Achei, e tenendo
conto delle attuali conoscenze sull"'optimum climatico", ciò
che afferma
Plutarco sembra in grado di spalancare prospettive immense
per nuove ricerche a tutto campo sulla "storia della
preistoria".
Ulteriori conferme a tale quadro - nonché a quello,
complementare più che alternativo, che scaturisce dall'ipotesi
di una diffusione nel senso dei meridiani,
a partire da terre artiche o subartiche divenute inabitabili
dopo il tracollo
del clima - potrebbero scaturire dall'approfondimento delle
affinità che
si riscontrano tra culture europee e precolombiane: ad esempio,
riguardo alla
mitologia, fra i vari casi di convergenza pensiamo a quello tra
le figure di Prometeo
e dell'eroe lunare nordamericano che presso i Menomini porta il
nome
di Menebus; ma un altro singolare "Prometeo amerindo" lo si
ritrova tra i Catlo'ltq
della Columbia Britannica, sulla costa pacifica del Canada, con
caratteristiche
così singolari da far esclamare al de Santillana: "Ecco qui un
mito
greco che improvvisamente emerge in piena luce fra le tribù
degli indiani d'America,
miracolosamente conservato"348. Inoltre, il nome del fiume di
Washington,
Potomac, è così affine al vocabolo greco "potamòs", "fiume", da
far
riflettere sulla possibilità che non si tratti di una
coincidenza.

348 de Santillana-von Dechend, Il mulino di Amleto, pag.


377
E che dire del fatto che l'immagine azteca dell'aquila con un
serpente nel
becco, antico simbolo di Tenochtitlàn, la ritroviamo nel bel
mezzo di una battaglia dell'Iliade (XII, 201 )? A questo punto
verrebbe quasi la tentazione di avvicinare
il termine onorifico maya "Ahau", cioè "Signore", addirittura
agli Achei
omerici ("Achaioi" in greco: è una somiglianza che avrebbe
senz'altro entusiasmato
Plutarco); così pure il nome della tribù degli Iowa, poi
attribuito ad uno
degli Stati Uniti, richiama da vicino quello degli lavana
("Iàones", cioè "Ioni",
Il. XIII, 685), con cui i Greci erano comunemente indicati nel
mondo antico.
In tale quadro, forse anche l'enigmatico rito romano
dell'arrostimento di
pesci vivi in onore di Vulcano349 si potrebbe accostare - e
così troverebbe una
ragionevole spiegazione - ad un mito degli Tsimshian, anch'essi
abitanti della
Columbia Britannica, in cui la fusione del rame viene associata
ad un pesce350 (forse per l'aspetto "metallico" delle
scaglie?). Si potrebbe ipotizzare anche una
correlazione con la mitologia celtica, dove i salmoni vivono
nella fontana della
sapienza e chiunque si nutre della loro carne diventa saggio e
profeta.

349 Dumézil, La religione romana arcaica, pag. 285


350 Lévi-Strauss, La via delle maschere, pagg. 36-37
Ma uno dei parallelismi più stupefacenti lo riscontriamo tra la
leggenda
di una fanciulla fecondata da una pianta, riportata nei miti
dei Maya Quiché del
Guatemala, {Popol Vuh, II, 3), e quella, contenuta nel Kalevala
(runo L), in cui
la ragazza è fecondata da un mirtillo. I due racconti si
assomigliano in molti
dettagli, tra cui la riprovazione dei genitori ed i pericoli
corsi dai figli neonati,
i quali peraltro in entrambi i casi sono destinati a diventare
personaggi eminenti:
addirittura, secondo il Kalevala, il piccolo viene consacrato
"Re dei Careli,
guardiano di tutto il regno". Si dovrebbe escludere che i due
miti possano
discendere dal racconto evangelico della nascita di Gesù, in
quanto collimano
su particolari che quest'ultimo non riporta; sarebbe se mai più
logico ipotizzare
che anch'esso possa aver conservato qualche reminiscenza di un
remotissimo
substrato comune agli altri due (lo stesso nome della ragazza
nel mito finnico,
Marjatta, se da un lato sembra rinviare a Maria, dall'altro
ricorda il mirtillo,
"marja"). D'altronde, come annota il Recinos, il racconto qui
ché "ricorda il mito
messicano della nascita di Huitzilopochtli, il quale venne
generato da una
pallottola di piuma che discese sulla madre sua Coatlicue e che
questa si mise
sul seno, della quale dicono rimase gravida"351. Non a caso, lo
stesso tema si
ritrova anche nel mondo celtico, e precisamente nella Storia di
Taliesin, il cui
protagonista viene concepito in circostanze molto simili
(ricordiamo inoltre
che sua madre è una dea-strega, quella Ceridwen che abbiamo
provato ad accostare
alla Circe omerica).

351 Popol Vuh, le antiche storie del Quiché, pag. 110, nota
42
Infine (ma la lista delle corrispondenze potrebbe continuare),
gli Indiani
americani immaginavano che le stelle dell'Orsa Maggiore
disegnassero la figura
di un'orsa352, proprio come facciamo noi. Però la disposizione
di questa
costellazione non rassomiglia nemmeno lontanamente ad alcun
tipo di animale:
pertanto dobbiamo considerare questo fatto - a meno di non
voler credere
ad una improbabilissima combinazione - come un ulteriore
significativo indizio
di antichi legami tra le culture del Vecchio e del Nuovo Mondo.

352 Bianucci, Stella per stella, pag. 49

Torniamo ora al racconto di Plutarco, a proposito del quale


rimane un dato
incontrovertibile: le notizie che egli ci fornisce riguardo
alla geografìa dell'Atlantico
settentrionale e del continente oltremare risultano esatte: ne
consegue
che l'Autore le ha attinte da una fonte certamente bene
informata, anche
se a noi ignota. Essa a sua volta doveva far riferimento ad una
tradizione antichissima,
dato che già all'epoca dei poemi omerici il declino
dell'"optimum climatico",
con l'acuirsi delle tempeste, aveva ormai reso proibitiva la
stessa traversata
fino a Ogigia, "immenso abisso di mare/ spaventoso,
invincibile: neppure
navi di perfetto equilibrio/ lo passano" (Od. V, 174-176):
la rotta nordatlantica doveva essere stata da tempo
abbandonata. Ne resta un ricordo nelle
imprese mitiche, spesso ambientate nell'estremo occidente, di
Eracle - che Plutarco,
come abbiamo visto, menziona esplicitamente quale protagonista
di una
spedizione oltreoceano - e, forse, in un enigmatico passo della
Medea di Seneca:
"Verrà nel futuro un'epoca/ in cui l'Oceano scioglierà i suoi
sigilli,/ apparirà
un immenso continente,/ Teti svelerà nuovi mondi/ e Tuie non
sarà più l'ultima terra" ("Venient annis saecula seris/ quibus
Oceanus vincula rerum/
laxet et ingens pateat tellus/ Tethysque novos detegat orbes/
nee sit terris ultima
Thule").
In ogni caso, mentre gli Achei combattevano sotto Troia, i
"Greci continentali"
avevano forse già perduto ogni contatto con i luoghi di
origine; per loro
doveva essere ormai iniziato un irreversibile processo di
assimilazione da
parte delle preesistenti culture amerinde, cui fa cenno il
passo plutarcheo. Ma
forse anch'essi, i discendenti degli intrepidi navigatori che
in una remota preistoria
si erano avventurati oltre le Colonne d'Ercole, diedero il loro
contributo
- Graecìa capta ferum victorem cepit - al sorgere ed al fiorire
di quelle civiltà
precolombiane che, alcuni millenni dopo, avrebbero stupito gli
Europei
sbarcati nel Nuovo Mondo. A tale proposito, il Brögger ipotizza
che "la via dell'America
sia stata scoperta durante l'età del bronzo, nell'epoca in cui
la navigazione
era al suo apogeo. Ciò potrebbe aiutarci a spiegare perché le
popolazioni
americane vivessero nell'età del bronzo, quando gli europei le
raggiunsero
nella successiva epoca delle grandi scoperte"353.

353 Bibby, Le navi dei Vichinghi, pag. 283


In conclusione, il racconto di Plutarco sui "Greci
continentali", inverosimile
solo in apparenza, rappresenta probabilmente la testimonianza,
incredibilmente
sopravvissuta ai millenni, di stanziamenti preistorici sul
continente
americano da parte di coloni provenienti dall'Europa
settentrionale durante
l'optimum climatico": esso pertanto si inquadra perfettamente -
dandocene nel
contempo un'ulteriore conferma - in quel contesto nordico verso
cui lo scrittore
di Cheronea ci ha inizialmente indirizzato indicandoci la reale
posizione
dell'isola Ogigia, chiave di accesso al mondo di Omero.
CONCLUSIONI

Il reale scenario dell'Iliade e dell'Odissea è identificabile


non nel mar
Mediterraneo, ma nel nord dell'Europa. Le saghe che hanno dato
origine ai
due poemi provengono dal Baltico e dalla Scandinavia, dove nel
II millennio
a.C. fioriva l'età del bronzo e dove sono tuttora
identificabili molti luoghi omerici,
fra cui Troia e Itaca; le portarono in Grecia, in seguito al
tracollo dell'"optimum
climatico", i grandi navigatori che nel XVI secolo a.C.
fondarono la civiltà
micenea: essi ricostruirono nel Mediterraneo il loro mondo
originario, in
cui si erano svolte la guerra di Troia e le altre vicende della
mitologia greca, e
perpetuarono di generazione in generazione, trasmettendolo poi
alle epoche
successive, il ricordo dei tempi eroici e delle gesta compiute
dai loro antenati
nella patria perduta.
Ecco, in estrema sintesi, le conclusioni della nostra ricerca.
Essa - preso
atto delle assurdità a cui conduce la collocazione mediterranea
dei poemi omerici,
dei loro problematici rapporti con la geografia micenea, della
loro dimensione
europeo-barbarica (Piggott) nonché della probabile provenienza
nordica
della civiltà micenea (Nilsson) - è partita dall'indicazione di
Plutarco riguardo
alla collocazione settentrionale dell'isola Ogigia: è stata
questa la chiave
che ci ha spalancato le porte del mondo omerico, consentendoci
di dare il
via ad una minuziosa ricostruzione, i cui risultati comprovano
la fondatezza
dell'assunto iniziale.
Tale prospettiva - a cui non manca il requisito popperiano
della "falsificabilità"
- oltre a dare finalmente risposte adeguate alle domande degli
antichi,
smentendo la vecchia opinione che "Omero è un poeta ma non un
geografo",
va ad inserirsi con tutta naturalezza tra le recenti
acquisizioni degli studi
sui poemi omerici e sulla civiltà micenea, permettendo di
raccordarle in una
coerente visione unitaria e realizzando in tal modo una sintesi
altrimenti impossibile.
La
ricostruzione dei luoghi omerici risulta particolarmente
significativa
sia per l'area di Troia che per quella di Itaca, su cui abbiamo
una grande quantità
di riscontri, rappresentando esse i rispettivi scenari
dell'Iliade e dell'Odissea: e già il solo fatto di aver
ritrovato Dulichio, la misteriosa "isola lunga" tante
volte menzionata da Omero - correttamente situata davanti ad un
"Peloponneso"
pianeggiante e ad un gruppo di isole perfettamente congruente
con
le indicazioni di entrambi i poemi - di per sé potrebbe
costituire un non trascurabile
titolo di validità della teoria. Abbiamo inoltre constatato che
i due
poemi spaziano anche in ambiti differenti, ma in certo senso
complementari:
l'uno, per mezzo del Catalogo delle navi, ci ha messo in grado
di ricostruire
integralmente gli
stanziamenti achei lungo il Baltico durante la prima età del
bronzo; l'altro, attraverso le peregrinazioni di Ulisse,
riporta un quadro straordinariamente
vivo e coerente delle notizie che quelle antiche popolazioni
avevano
riguardo al mondo "esterno", fascinoso ma anche pieno di
insidie, quali
la grande marea dell'Atlantico (che Omero introduce in due
occasioni, con
sembianze tutt'affatto diverse: minacciosa nel terribile gorgo
di Cariddi, benevola
allorché aiuta l'eroe a prender terra, portandolo al sicuro
dentro la foce
del fiume della Scheda), nonché di singolari fenomeni, quali le
lunghissime
giornate estive del paese dei Lestrigoni, che a loro volta
prefigurano, ancora
più a nord, la dimensione artica dell'isola di Circe, dove in
estate il sole
non tramonta e dove vi sono le "danze dell'aurora".
In una parola, le informazioni geografiche ricavabili
dall'intero universo
omerico possono essere catalogate in alcuni grandi
"raggruppamenti": il mondo
di Itaca (nelle isole danesi), le avventure di Ulisse
(nell'Atlantico del nord),
il mondo di Troia (nella Finlandia meridionale) e quello degli
Achei (lungo le
coste del Baltico). Ognuno di essi presenta straordinarie
corrispondenze con i
rispettivi ambiti individuati nell'Europa settentrionale, a cui
fanno riscontro le
incongruenze della tradizionale collocazione mediterranea; e
per ciascuno si
può verificare un quadro meteorologico sistematicamente freddo,
nebbioso e
perturbato, in pieno accordo con il contesto nordico. Inoltre,
le notti chiare delle
alte latitudini consentono di risolvere il problema dei due
giorni di battaglia
ininterrotta fra Achei e Troiani, a cui si aggiunge la
concomitanza con la piena
dello Scamandro e del Simoenta, in perfetto accordo con i
regimi stagionali
dei fiumi nordici.
I risultati del presente studio sono in grado di dare una
risposta soddisfacente
anche a molte altre questioni: in primis l'arretratezza della
civiltà omerica
rispetto a quella micenea, ma anche l'assenza di accenni alla
mitologia
greca nell'arte minoico-cretese, la presenza di un antico
popolo di "Ellespontini"
nel Baltico orientale, le discrepanze tra la morfologia delle
omeriche Micene
e Calidone e quella delle omonime città greche, l'impossibile"
contiguità
fra l'Argolide e il Pilo, le differenze fra il pantheon omerico
e quello
esiodeo, la lontananza degli alleati dei Troiani dalla zona dei
Dardanelli, l'introvabilità di popoli come i Feaci e di regioni
come la Scheria. Ma vi sono ancora
altri aspetti del mondo omerico che si calano nella dimensione
nordica assai
meglio che in quella greca: ad esempio, l'importanza dei bovini
rispetto agli
altri animali d'allevamento, o le stoviglie di metallo e di
legno invece che di
ceramica. Lo stesso dicasi per diversi termini omerici, quali
"Scheria", "Scandia",
"amphilyke nyx" (la "notte chiara"), che sembrano riflettere
vocaboli o
concetti estranei al mondo greco-mediterraneo, ma che
appartengono al mondo
nordico.
Ciò d'altronde ben s'accorda con le perplessità degli antichi
Greci su svariati
aspetti dei due poemi, oltre a quelli strettamente geografici:
pensiamo alla
struttura dello scudo di Achille, ma anche a certi equivoci,
protrattisi fino ai
tempi attuali, nell'interpretazione di espressioni come "la
tomba della balzante
Mirina" e la "ninfa naiade", od il significato di termini quali
"chermadio" ed
"ecatombe".
Tutto, dunque, sembra confermare la sostanziale estraneità
della cultura
greca, compresa quella più arcaica - basti pensare al problema
di Dioniso, una
divinità che in Grecia è stata sempre molto importante
dall'epoca dei Micenei
fino all'età classica, mentre in Omero è quasi assente --
rispetto ad un mondo
che, come abbiamo cercato di dimostrare, da essa era in realtà
molto distante,
sia nello spazio che nel tempo.
A fronte di ciò stanno le convergenze fra il mondo degli Achei
e quello
dei Vichinghi, quali, ad esempio, le rassomiglianze fra le
caratteristiche delle
loro navi, di cui l'albero smontabile è forse la più
significativa, o quelle, non
meno rimarchevoli, tra le rispettive mitologie nonché tra i
sistemi di relazioni
sociali, gli interessi e gli stili di vita di due società
apparentemente così distanti.
Questa
chiave consente dunque di aprire agevolmente molte serrature
finora
rimaste ermeticamente chiuse: d'altronde, come è stato
autorevolmente
detto, nella scienza vi sono soltanto idee buone o idee
cattive, cioè idee che riescono
a spiegare il mondo, cioè le cose e i fatti, ed altre che vi
riescono meno,
o non vi riescono affatto.

E l'archeologia? Oltre al fatto che l'origine nordica dei


Micenei è attestata
da precisi riscontri archeologici sul suolo greco, vi sono le
tracce lasciate dai
Micenei nella cultura del Wessex ed in quella di Unetice,
precedenti al loro insediamento
in Grecia, e le analogie riscontrate fra le loro sepolture e
quelle
della Russia meridionale. Tutto ciò poi s'inquadra nel più
generale discorso delle
affinità tra i manufatti egei e quelli dell'età del bronzo
nordica. Ma vanno ricordati
anche i tumuli dell'età del bronzo ed i graffiti rupestri di
navi presenti
proprio nell'area della Norvegia meridionale dove, seguendo
alla lettera le indicazioni
di Omero, erano stanziati i "grandi navigatori" feaci, le
rassomiglianze
tra l'imponente monumento di Kivik e le coeve manifestazioni
dell'arte
egea, nonché quelle tra l'omphalos di Delfi e le pietre rotonde
svedesi
(provenienti dalla regione dove, in modo del tutto
indipendente, abbiamo individuato
la Pito omerica, il che conferma anche i rapporti, segnalati
dagli autori
classici, tra Delfi e gli Iperborei).
A questo punto, dopo che la prospettiva così individuata ha già
avuto una serie di precise conferme attraverso sopralluoghi
diretti sui territori interessati, è ormai
maturo il tempo di avviare specifiche indagini archeologiche
nelle località individuate,
a partire dal territorio di Toija - e, in particolare, dalle
alture adiacenti
all'attiguo villaggio di Kisko - nonché dall'isola di Lyø,
corrispondente ad Itaca
sotto tutti gli aspetti, geografici, topografici, morfologici e
descrittivi.
In ogni caso, a prescindere da quelli che saranno gli esiti di
tali indagini
- si tratta peraltro di siti archeologicamente assai
promettenti - le concordanze
tra i dati forniti dai poemi omerici ed i corrispondenti ambiti
geografici dell'Europa
settentrionale, unitamente alla coerenza del quadro complessivo
delineato
dalla mitologia greca una volta inserita in tale contesto, sono
così straordinarie
da non poter essere ignorate o eluse: esse, comunque, attendono
una
spiegazione.
Se poi la tesi qui proposta sarà confortata da riscontri
positivi, i poemi
omerici, riletti in questa nuova prospettiva, consentiranno di
fare piena luce su
quell'età del bronzo nordica di cui al momento, a parte i
reperti archeologici,
ignoriamo praticamente tutto: l'Iliade e l'Odissea ci
restituiranno intatti nomi,
vita, cultura, città, usi, religione, addirittura pezzi di
storia di quelle popolazioni.
Si apriranno inoltre nuovi affascinanti orizzonti, di ampiezza
incalcolabile,
per quanto riguarda non solo le indagini sulla protostoria ma,
addirittura,
le origini e gli sviluppi di tutta la civiltà europea.
Infine, la riscoperta di Omero in chiave nordica potrebbe
favorire un diverso
approccio all'idea di unità dell'Europa - la quale ha più che
mai bisogno
di ritrovare identità e radici comuni dopo le tragedie del
ventesimo secolo - e,
più in generale, contribuire alla nascita di un nuovo umanesimo
nella cultura
dell'Occidente, in grado d'integrare la dimensione tecnologica
dell'Homofaber alla vigilia della grande epopea che, nel segno
di Ulisse, attende l'umanità del terzo millennio, "oltre
l'immenso abisso... spaventoso, invincibile": la conquista
delle stelle.
Ma abbiamo già detto abbastanza: è tempo ormai che la parola,
galileianamente,
passi alla vanga.
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Nota 1: Per i dati geografici ho fatto soprattutto riferimento


al Grande Atlante
Geografico, all'Atlante Geografico Illustrato, all'Atlante
Geografico Metodico, all'Atlante Stradale dell'Europa ed
all'Atlante Storico, tutti della
De Agostini, nonché al Nuovo Atlante Treccani, edito
dall'Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Per gli approfondimenti sui singoli Paesi ho anche
fatto
ricorso alle guide De Agostini-Baedeker "Danimarca" e
"Scandinavia" e inoltre ho consultato le seguenti carte:

Aijala Peruskartta 1:20.000 - Maanmittaushallitus, Helsinki


Baltic Sea:1:270.000 - Admiralty, London

Danmark Færdselskort 1:200.000 - Kort-og Matrikelstyrelsen


Føroyar Topografiskt Atlas 1:100.000 - Kort-og
Matrikelstyrelsen

Kisko Peruskartta 1:20.000 - Maanmittaushallitus, Helsinki

Lithuania, Estonia, Latvia 1:850.000 - Cartographia

Lofotodden 1:50.000 - Statens Kartwerk


Nordkapp to Mys Kanin Nos incl. the White Sea 1:1.000.000 -
Admiralty, London

Norge - Cappelens Bilatlas Northern Germany 1:500.000 -


Kümmerly-Frey

Polska-Ceskoslovensko 1:1.000.000 - Touring Club Italiano

Stora Dimun 1:20.000 (M 42) - Geodætisk Institut, Danmark

Suomen Tiekartta 1:200.000 - Karttakeskus, Helsinki Suomi-


Finland Tiekartasto 1:200.000; 1:400.000 - Karttakeskus,
Helsinki Suomusjärvi 1:50.000 - Maanmittaushallitus, Helsinki
Sverige - K.A.K. Bilkartor
Sydfyn og Langeland 1:100.000 - Geodætisk Institut, Danmark

Toija Peruskartta 1:20.000 - Maanmittaushallitus, Helsinki

Værøya to Lilløya including Vestfjorden to Narvik 1:1.200.000 -


Admiralty,
London

Nota 2:
Per le citazioni ho fatto ricorso ai testi menzionati in
Bibliografìa. In
particolare per quelle relative ai poemi omerici ho normalmente
seguito l'ottima
traduzione - in cui la numerazione dei versi segue quella del
testo greco
- di Rosa Calzecchi Onesti, che ringrazio sentitamente per la
simpatia dimostrata
nei confronti di questo lavoro, per la sua squisita
disponibilità e per gli
incoraggiamenti ad andare avanti. Per l'interpretazione dei
vocaboli e la traduzione
letterale di alcuni passi mi sono avvalso del Vocabolario
Greco-Italiano di L. Rocci. Faccio inoltre presente che i
corsivi all'interno delle citazioni
sono miei e non degli Autori: tra questi ultimi tengo
particolarmente a ricordare
la Chiesa Isnardi, autrice di lavori fondamentali per
addentrarsi nella letteratura
nordica, tra cui l'eccezionale I miti nordici; il Mastrelli,
autore di una pregevole
traduzione dell'Edda; la Koch e la Cipolla, la cui bellissima
versione
delle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus - con le relative note
- mi è stata
di straordinaria utilità; il Pinna, con il suo pregevole saggio
Climatologìa, anch'esso
di basilare importanza per la costruzione della mia teoria.
Purtroppo qui
non mi è possibile ringraziare uno per uno anche gli altri
Autori, Traduttori e
Curatori ai quali ho fatto riferimento, nonché gli amici,
italiani e stranieri, che
mi hanno seguito ed aiutato: a tutti (ed in particolare a
Frederic Jueneman,
"editor" della versione inglese) va la mia grandissima
riconoscenza, perché senza il loro prezioso contributo questo
lavoro non sarebbe mai potuto crescere!
(Quanto ai detrattori, sento di dovere qualcosa anche a loro,
per la motivazione
supplementare che involontariamente mi hanno dato).
APPENDICE FOTOGRAFICA

In questa Appendice sono riportate alcune delle foto scattate


nel corso dei
viaggi effettuati sulle tracce dì Omero in alcuni paesi nordici
- Danimarca,
Svezia, Norvegia e Finlandia - a partire dall'estate 1992 fa
eccezione quella
del monte Høgoyggj, nell arcipelago delle Färöer, che è stata
gentilmente concessa
da un fotografo locale).
Nel loro insieme esse mirano, più che a un distaccato scopo
documentario,
a dare contorni reali ai luoghi mitici che, evocati dalle
nebbie di un lontano
passato, se visualizzati solo sulle mappe si ridurrebbero a
mere "espressioni
geografiche "; nel contempo, vogliono in qualche modo rendere
il lettore
partecipe delle intense emozioni che hanno accompagnato questi
viaggi,
nei quali, utilizzando i poemi omerici come un preziosissimo
"Baedeker", siamo
andati alla scoperta dì località assolutamente "normali ", dove
gli uomini
di oggi vivono la propria vita di tutti i giorni, ovviamente
inconsapevoli del fatto
che esse un tempo furono Troia o Tebe, Atene o Itaca, o magari
la foce del
fiume norvegese dove Nausicaa e le sue ancelle giocavano a
palla...
E l'attenzione era rivolta non solo ai luoghi, ma anche alle
persone, o meglio
alle sembianze e agli atteggiamenti degli ignari discendenti
dei Troiani e
degli Achei: ecco l'espressione di compiaciuta sorpresa dell
'impiegata dell'ufficio
postale di Toija, la quale non poteva certo indovinare il vero
motivo che
spingeva un turista italiano a farsi bollare una cartolina col
timbro del suo minuscolo
villaggio finlandese; o la squisita cortesia della signora di
Stoccolma
a passeggio con il suo cane tra i sentieri del mitico monte
della Sfinge; o, ancora,
il gesto di disappunto del camionista polacco - stavo per dire
"pelasgo "!
- allorché si è visto fotografato sul piazzale del porto di
Karlskrona, mentre
nella cabina del suo TIR aspettava l'imbarco sul traghetto che
segue la stessa
rotta, da "Atene" a "Creta", a suo tempo percorsa dal mitico
eroe Teseo.
Come si può infine dimenticare il senso di ospitalità del
contadino di Lyø,
novello Eumeo pronto ad aprire la porta della sua casa a uno
straniero che,
sorpreso in bicicletta dall'acquazzone più
furioso dopo la fine dell' "optimum climatico ", chiedeva
disperatamente un riparo esprimendosi
in una lingua sconosciuta?
Nei loro atteggiamenti, gesti, parole rivive lo stesso mondo
quotidiano dì Achille e di Ettore, di Elena e Paride, dì Ulisse
e Penelope: un mondo da cui
non ci separano lunghe ere geologiche, ma soltanto 120 o 130
generazioni; un
mondo che sembrava perduto e che invece è stato ritrovato, come
queste immagini
stanno ad attestare.
Simili a foglie sono le generazioni degli uomini:
le foglie, il vento le fa cadere, ma altre spuntano sugli
alberi in fiore al tempo di primavera;
così le generazioni degli uomini: nasce una, l'altra dilegua.
(Iliade VI, 146-149)
Addendum al cap. I

Con riferimento al fatto che l'Odissea menziona la presenza di


uno scoglio a
forma di nave davanti al porto della città dei Feaci (v. pag
33), il dott. Erik Dahl ci
ha recentemente segnalato che, circa 1 km a nord della foce del
fiume Figgio, si apre
il porto di Sele, davanti a cui si allunga un isolotto, che
sembra effettivamente evocare
lo scafo di una nave. Questo isolotto, chiamato Feistein, si
trova a circa due chilometri
dalla costa: è dunque ben visibile dalla terraferma, proprio
come afferma
Omero ("kaì de prouphaìneto pàsa"; Od. XIII, 169).
Pertanto tutta la disposizione dei luoghi corrisponde molto
bene alla descrizione
omerica, secondo cui la città dei Feaci si estendeva attorno a
un porto, di fronte a
cui stava lo scoglio, "simile a rapida nave" (XIII, 157); non
lontano, si apriva la foce
del fiume, con i lavatoi dove le donne si recavano per lavare i
panni (VI, 86).
Il dott. Dahl si sofferma anche sulle possibili corrispondenze
tra "Sele" e
"Scherìa" (a suo dire, L e R in lingua norvegese hanno spesso
una pronuncia simile),
nonché sull'etimologia di "Feistein", non ben conosciuta ma
forse riconducibile
ad un "Fey-stone", "scoglio di Fey", che sembra ricordare il
nome del Figgjo e
degli stessi Feaci. Tuttavia, a nostro avviso, è molto
significativo il fatto, sottolineato
dallo stesso Dahl, che la zona di Sele sia molto ricca di resti
dell'età del bronzo,
fra cui il "Tangar-haug" (tumulo di Tangar).

Addendum al cap. VII


Il dott. Stuart Harris, ricercatore americano, insieme con John
Catto, giornalista
e fotografo che lavora per il National Geographic, nel mese di
luglio 2002 ha effettuato
un sopralluogo nell'area di Toija. Al riguardo, ci ha
comunicato che a qualche
chilometro ad ovest di Toija vi sono numerosissimi tumuli
dell'età del bronzo, simili
a quelli che si trovano nella zona di Salo (v. pag. 139).
Questi tumuli (formati da grosse pietre sovrapposte, alti circa
cinque metri e larghi
una decina) stanno sulla cima delle alture che si trovano lungo
la valle, un tempo
ricoperta dal mare, estesa tra il villaggio di Pernio e il
Kirkkojàrvi: essi dunque, allorché
vennero eretti, erano affacciati "davanti al largo Ellesponto",
esattamente come
afferma Omero (Il. VII, 86).
L'area in questione potrebbe pertanto essere stata la sede di
un grosso insediamento,
ad ulteriore conferma di tutti gli indizi già esposti a favore
della sua identificazione
con la Troia omerica.

Addendum al cap. XVIII

Abbiamo osservato che, secondo la Genesi, la regione denominata


"Eden" risulta geograficamente ben caratterizzata. Così infatti
il testo biblico descrive
i quattro fiumi che si dipartono dal mitico
giardino: "Il nome del primo fiume è Pison; esso circonda tutta
la regione di Avila, dove si trova l'oro; l'oro di
quel paese è puro; là si trova pure la resina profumata e la
pietra onice. Il nome del
secondo fiume è Gihon: esso circonda tutto il paese di Etiopia.
Il terzo si chiama
Tigri e scorre ad oriente di Assiria. Il quarto fiume è
l'Eufrate" (Genesi!, 11-14).
Al riguardo, avevamo notato che nell'area mesopotamica si
ritrovano soltanto il
Tigri e l'Eufrate, mentre gli altri due fiumi sono inesistenti.
Non solo: questi fiumi
che, secondo la Bibbia, nascono nella zona di Eden, vanno ad
interessare due
regioni, l'Etiopia e l'Assiria, dislocate addirittura in
continenti diversi! Si tratta di
assurdità - per non parlare di quella misteriosa "regione di
Avila", con il suo oro
fino, finora mai localizzata da nessuna parte - che rendono il
racconto biblico, pur
così dettagliato, geograficamente inverosimile.
A questo punto, il dott. Luigi Cesetti di Falerone, sulla base
dell'edizione
precedente del presente volume, ci ha segnalato che, ove questo
problematico "paese
di Etiopia" fosse l'Etiopia omerica, situata all'estremità
settentrionale dell'Europa,
tutto sembrerebbe andare a posto. Esaminiamo infatti il fiume
che la bagna, il Tana
(che pertanto corrisponderebbe al Gihon biblico): esso nasce in
una zona della
Lapponia finlandese, nell'area di Enontekiö (nome che significa
"che fa grandi
fiumi")1, da cui effettivamente si dipartono vari altri fiumi.
Uno è l'Ivalo, che i
Lapponi (o Sami) chiamano "Avvil". L'assonanza con "Avila", la
regione biblica
dell'oro, da sola potrebbe essere casuale, ma proprio questo
territorio è ricco d'oro,
come attesta il museo dell'oro di Tankavaara2, a pochi
chilometri dal fiume Ivalo.
Per di più si tratta di un oro eccezionalmente puro, come
afferma il passo biblico:
esso arriva a 23 carati3, il che lo distingue dall'oro estratto
dai giacimenti di altre
parti del mondo. La resina è secreta da pini e abeti e, per
quanto riguarda l'onice,
questa zona della Lapponia è ricca di pietre, tra cui il
calcedonio e il diaspro, simili
all'onice per la composizione dei cristalli.
E gli altri due fiumi, ossia i "prototipi" del Tigri e
dell'Eufrate? Sempre nell'area
di Enontekiö nascono un affluente del Moun i o -Tornionjoki e
lo Ounas-Kemijoki,
che scorrono in parallelo verso sud per poi sfociare vicini
all'estremità settentrionale
del Golfo di Botnia. Il complesso di questi fiumi, con il
territorio da essi racchiuso,
delinea una sorta di "Mesopotamia" finnica, straordinariamente
rassomigliante a
quella asiatica (v. tavola acclusa).
Potrebbe dunque essere stata questa la terra da dove discesero
i Sumeri, che
l'avrebbero poi trasposta nella Mesopotamia a noi ben nota4. Il
cambiamento del
clima la avrebbe poi resa inospitale, come ricorda il profeta
Isaia: "Ecco che il
Signore spopola la terra, la devasta, ne altera l'aspetto, ne
disperde gli abitanti" (Isaia 24, 1 ). È la "Tetre Gaste'" dei
miti arturiani ! Questo concetto a sua volta trova
un preciso riscontro nella "dimora in rovina ("dòmon euròenta")
di Ade",
menzionata da Omero (Od. X, 512), a cui pure sono associati
vari fiumi (oltretutto il
nome di Ade, il signore dei morti omerico, sembra evocare il
biblico Adamo e lo
stesso Eden).
Avila-Avvil ricorda poi la leggendaria "Avalon" del mondo
arturiano, che
probabilmente fa riferimento alla sede primordiale celtica: ciò
potrebbe far
sospettare un rapporto tra caldei e celti, che peraltro trova
riscontro in certe analogie
tra il mondo celtico e quello ebraico (per inciso, nella
letteratura celtica si ritrova la
locuzione "Terra della Promessa".5 Notiamo anche che, calando
la
descrizione biblica nel contesto lappone, il mitico giardino
collocato ad oriente di
Eden appare al centro di una sorta di quadrifoglio costituito
da quattro regioni
(Eden, l'Etiopia, Avila e l'Assiria): ciò delinea un quadro
singolarmente simile a
quello della mitica suddivisione dell'Irlanda, terra celtica
per eccellenza, in cui un centro politico-religioso, Tara, era
circondato da quattro regioni periferiche. Per
inciso, il nome di un fiume edenico, il Pison (o Fison) ricorda
Pisa, un toponimo sia
finnico che lappone, menzionato anche nel Kalevala (la stessa
radice si ritrova in
vocaboli omerici quali "pìsos", "luogo irrigato", e "pìdax",
"sorgente").
Tra le osservazioni di Luigi Cesetti, di particolare interesse
è poi il riferimento
ad un altro versetto della Bibbia: "Caino si allontanò dalla
presenza del Signore e
abitò nel paese di Nod, a oriente di Eden" (Genesi'4,16). Ora,
ad est di Enontekiö,
ossia "a oriente di Eden", nella Lapponia russa si trovano il
fiume Nota ed il lago
Nota (Notozero). Inoltre, scendendo a sud del bacino del Nota,
s'incontra la regione
di Kainuu6, in territorio finlandese, situata ad est del golfo
di Botnia. Essa
corrisponde al territorio dei Lapiti omerici, tra i quali
l'Iliade ricorda Caineo, avo di
un eroe lapita che partecipò alla guerra di Troia ((Il. II,
745-746). Ciò potrebbe
indicare che i discendenti di Caino, allorché il clima cominciò
a tracollare e la
tundra prese il sopravvento, rendendo inabitabili le regioni
situate al di sopra del
circolo polare, si spostarono dal bacino del Nota verso un
territorio più vivibile,
situato ad una latitudine leggermente più bassa. A questo punto
si potrebbe anche
supporre che il diluvio di Noè rappresenti il ricordo di una
disastrosa inondazione
che avrebbe interessato una vasta area della Lapponia
settentrionale, il cui territorio
- prevalentemente pianeggiante, con pochi rilievi isolati - è
spesso caratterizzato da
un fitto intrico di laghi, fiumi e acquitrini.
In ogni caso, avevamo già visto che lo stretto rapporto tra il
mondo originario
semitico e quello indoeuropeo è attestato, a parte la comune
ascendenza di Sem e di
Jafet, anche dal passo biblico che proclama l'affinità tra gli
Ebrei e gli Spartani:
"Ario, re degli Spartani, a Onia, Sommo Sacerdote, salute! In
uno scritto riguardante
gli Spartani e i Giudei, si è trovato che sono fratelli, perché
della stessa stirpe di
Abramo (...) I nostri bestiami e i nostri beni sono vostri, e
ciò che è vostro è nostro" (IMaccabei 12, 20-23)7. Potremmo
aggiungere l'analogia di un sacrificio officiato
da Abramo ( Genesi 15,9) con il sautramaniindù, il
suovetaurilia romano ed il rito
riportato in Odissea, XI, 131, sui quali ci siamo già
soffermati (si potrebbe altresì
congetturare che la mitica "Ur dei Caldei" da cui partì Abramo,
diretto verso la
Terra Promessa, fosse localizzata anch'essa nella terra
primordiale).
Sempre riguardo a Sem, colpisce la rassomiglianza del suo nome
con quello dei
Sami, gli abitanti nomadi della Lapponia. Costoro inoltre hanno
un monte sacro, il
Saana, che ricorda il Sinai, il monte sacro degli Ebrei (alle
pendici del Saana giace il
lago Kilpis, da cui scaturisce una ramificazione del Mounio-
Tornionjoki, il fiume
corrispondente all'Eufrate mesopotamico).
E Cam, l'altro figlio di Noè? Ritorniamo al Kemijoki, il "fiume
Kemi", che
scende dalla Lapponia verso l'estremità settentrionale del
Golfo di Botnia: alle sue
spalle nasce il fiume Tana, il quale poi si dirige verso
quell'Etiopia artica che
ritroviamo sia in Omero che nel racconto biblico dell'Eden.
Tale configurazione
rappresenta quasi uno specchio dell'Egitto africano, la "terra
di Kem", abitata dai
discendenti di Cam e situata lungo il grande fiume che proviene
dall'Etiopia e dal
lago Tana (da cui trae origine il Nilo Azzurro). Dunque i
primitivi Egizi, come ci
confermano gli indizi riportati in precedenza riguardo ad una
loro possibile origine
nordica - in primis il culto solare - forse provenivano
anch'essi dall 'area lappone:
essi poi, in analogia a quanto accaduto in Mesopotamia, una
volta arrivati nella valle
del Nilo (passando probabilmente per la Caucasia, dove
lasciarono le tracce
toponomastiche riscontrate dal Funders Petrie) ricostruirono a
modo loro il remoto
mondo artico da cui erano discesi. D'altronde anche i loro
documenti, proprio come
la Bibbia e gli stessi poemi omerici - pensiamo alla terra dove
i Feaci vivevano
accanto agli dèi, alla Pieria dell''Inno a Hermes, alle sedi
dell'Olimpo, degli Etiopi e
dell'Ade, tutte collocabili nell'area lappone - ricordano la
loro patria primordiale
come la "terra degli dèi". Addirittura, Isaia menziona il
"monte dell'assemblea" degli
dèi "nell'estremo settentrione" (14, 13).
Insomma, se già la Lapponia ci ha dato non pochi indizi per
localizzarvi la sede
della sede primordiale indoeuropea, ora queste convergenze con
l'Eden biblico da
un lato ne rappresentano una conferma, dall'altro allargano il
quadro a prospettive
ancora più stupefacenti, dando una sostanza sia storica, sia
geografica alla
concezione tradizionale dell'origine "iperborea" della nostra
civiltà, e saldandola nel
contempo al concetto biblico della comune origine dei Semiti,
dei Camiti e degli
Indoeuropei.
Tutto ciò invece va irrimediabilmente a cozzare con la vecchia
idea dell'origine
orientale della civiltà europea ("Ex Oriente lux"). A tale
concezione hanno forse
contribuito sia la grande antichità delle civiltà
mesopotamiche, sia l'indicazione
(fraintesa, come abbiamo visto) della Genesi riguardo alla
localizzazione dell'Eden
nei pressi delle sorgenti del Tigri e dell'Eufrate. Peraltro
avevamo già osservato che
tale concetto è stato da tempo messo in crisi dall'introduzione
della datazione col
radiocarbonio, corretta con la dendrocronologia. In una parola,
lo spostamento delle
origini della nostra civiltà dall'oriente al settentrione
risulta perfettamente in linea
con le più recenti acquisizioni della scienza.
Le precedenti considerazioni peraltro richiedono ulteriori
verifiche ed
approfondimenti da parte degli specialisti dei vari ambiti da
esse toccati: noi
preferiamo pertanto considerarle un punto di partenza, più che
di arrivo, nella ricerca
delle origini della civiltà umana.

1 Le informazioni sulla Lapponia sono tratte da Iter Lapponìcum


di Ada Grilli Bonini, Bergamo 2000
2 v. sito http://www.urova.fi/home/kulta/eindex.htm
3 Grilli Bonini, Iter Lapponìcum, pag. 277
4 Il dott. Giuliano Bruni ci segnala che in sanscrito
"Sumeni" indica il polo artico {Monier-Wìlliams,
Sanskrit-English Dictionary
5 MacCulloch, La religione degli antichi Celti, pag. 352
'' 6 Treccani, app. 2000, voce "Finlandia", lab. (v. anche sito
htip:// www.kainuu.com/eng/')
7 Il concetto della comune origine di Ebrei e Spartani è
ribadito in I IMaccabei 1,9
Stampa: Palombi Editori - Roma, III ristampa - ottobre 2002

Scansionato da Pier Giorgio Mela

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