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Palombi Editori
© Felice Vinci
e
Palombi Editori
Via Germanico, 107
00192 ROMA
ISBN: 88-7621-251-5
PRESENTAZIONE
di Rosa Calzecchi Onesti
Ciò d'altronde
è coerente con il fatto che "il mondo dell'Europa barbarica del
secondo
millennio fu il mondo dell'Iliade e dell' Odissea (...) Gli
eroi dei racconti,
nonostante tutta l'arte del poeta, appartengono sempre ad un
mondo estraneo,
primitivo e barbarico. Forse non si presta sufficiente
attenzione ai caratteri che
il mondo omerico condivide con quello degli eroi irlandesi, di
Beowulf o delle
saghe, e che devono essere stati comuni alla letteratura orale
di tutta l'antica
Europa barbarica"8.
IL MONDO DI ULISSE
I.
ITACA
Insomma,
tra le usanze degli Achei e quelle dei popoli nordici vi sono
affinità
assai significative, su cui avremo modo di ritornare anche in
seguito:
pensiamo all'importanza dell'assemblea pubblica - l'agoré a cui
corrisponde pressoché esattamente il "thing" nel contesto
vichingo - che presso
entrambi i popoli costituiva il momento centrale "politico" ai
fini della gestione
della comunità (ed è questo il primo germe del concetto di
democrazia)
ma potremmo fare molti altri esempi. D'altronde, forme
assembleari del
tutto simili all'agoré" e al "thing" erano in uso presso i
popoli dell'Europa settentrionale
anche al tempo di Tacito, come risulta dal cap. 11 della
Germania. Al riguardo, notiamo anche che nell'Odissea si
riscontra un'espressione
tipica "convocata l'assemblea", che in greco suona "agorèn
thémenos" (Od.
X 188- XII, 319). La forma verbale "thémenos", derivata dal
verbo "tithemi
("'istituire porre"), da un lato sembra costituire con il
vocabolo "agorén" una
sorta di formula giuridica, dall'altro trova riscontro
addirittura in una divinità,
chiamata "Themis", per l'appunto patrona delle assemblee,
riguardo alla quale
Omero esplicitamente ci dice "...per Themis ("Thémistos")/ che
scoglie e
raduna le assemblee ("agoràs")" (Od. II, 68-69). Ora, date
queste corrispondenze
dell"'agoré" omerica con il participio "thémenos" e con la dea
Themis
da un lato con il "thing" vichingo dall'altro, a nostro avviso
gli specialisti
dovrebbero verificare la possibilità che la radice del vocabolo
"thing" sia etimologicamente
riconducibile a quella di "Themis-thémenos".
Un altro punto di contatto significativo è la distinzione,
tipica della società germanica pre-feudale, tra la proprietà
pubblica gestita dal re ed i suoi beni
privati. Ciò appare sia nell'Odissea (I, 392; II, 335) che nel
Beowulf'(vv. 73,
2330, 2608), poema di un anonimo inglese forse risalente al VII
secolo d.C,
il cui protagonista è un eroe scandinavo (per l'esattezza
svedese). Sempre riguardo
al Beowulf, un ulteriore parallelismo con l'Odissea è
costituito dal contrasto
che s'accende tra Unferdh e Beowulf alla corte del re Hrodhgar
(vv. 499-606),
del tutto analogo a quello che insorge tra Eurialo e Ulisse
alla corte di Alcinoo
(Od. VIII, 158-185). Come ci dice Ludovica Koch, si tratta di
"un vero
e proprio genere letterario germanico, attestato soprattutto,
come senna e mannjafnadhr, nella cultura norrena"45. Osserviamo
inoltre che nei due poemi
il contrasto si risolve allo stesso modo: i provocatori,
Unferdh ed Eurialo, si riconciliano
con i rispettivi antagonisti offrendo loro una spada (Beowulf \
ASI; Od. VIII, 403). Con l'occasione, notiamo anche che tra le
analogie del Beowulf con i poemi omerici vi è la comune
ambientazione nel mondo scandinavo, anche
se poi sia l'uno che gli altri si sono conservati altrove.
Non solo: una meta tipica dei racconti celtici sono le isole
paradisiache situate
in mezzo all'oceano, nell'estremo occidente, dove vivono donne
divine
che rifocillano ed amano gli eroi colà giunti, e possono anche
conceder loro
l'immortalità e l'eterna giovinezza, come nel caso dell' Immram
curaìg Màele
Dùin (La navigazione della barca di Màel Dùin) o delVImmram
Brain maic
Febail (La navigazione di Bran figlio di Febal)53.
LE AVVENTURE DI ULISSE
In
particolare, il famigerato Maelstrom ("Moskenstraumen" in
lingua norvegese)
si forma all'estremità meridionale di Moskenesøya, davanti al
Capo
Lofotodden. Ora, considerando che il gorgo di Cariddi ha tutto
l'aspetto di un
fenomeno mareale - "Cariddi gloriosa l'acqua livida assorbe:/
tre volte al giorno ("tris ep'émati") la vomita e tre la
riassorbe" (Od. XII, 104-105) - esamineremo
in dettaglio la morfologia dello stretto fra Scilla e Cariddi,
così come
ce la descrive l'Odissea, e la metteremo a paragone con la zona
del Maelstrom.
Innanzi tutto, Omero ci dice che in quest'area vi sono "due
scogli; uno arriva
fino al cielo" ("ouranòn hikànei", Od. XII, 73): è lo scoglio
di Scilla, mentre
l'altro è "più basso" ("chthamalòteron"; XII, 101). Inoltre
essi sono "vicini
uno all'altro, dall'uno potresti colpir l'altro di freccia"
("ken dioì'steùseias",
XII, 102). In effetti, come ci ha segnalato Franco Michieli,
alla base della scoscesa
punta meridionale di Capo Lofotodden (lo scoglio che "arriva al
cielo"),
chiamata Helle, vi è un isolotto, chiamato Rödöya, di forma
allungata, parallelo
alla costa; da essa lo separa un angusto passaggio, il
Reidsundet, una sorta
di corridoio lungo circa 500 metri e largo 50, giusto un tiro
di freccia (tav.
VI).
Circe raccomanda ad Ulisse di passare attraverso lo "stretto"
("steinopòn",
XII, 234) tra i due scogli, "lungo lo scoglio di Scilla
navigando veloce"
("Skylles skopéloi pepleménos öka"; XII, 108) in modo da non
farsi risucchiare
dal gorgo, il cui raggio d'azione si estende al di là
dell'isolotto (XII,
104); ed effettivamente le istruzioni che Ulisse impartirà al
pilota della sua nave
prima di impegnarsi nello stretto saranno coerenti con tale
schema: "Fuori
dal vortice tieni la nave/ e bada allo scoglio ("skopélou
epimaìeo"), che non ti
sfugga/ la nave e vi cozzi e ci mandi in malora" (XII, 219-
221). E evidente la
preoccupazione che il gorgo possa risucchiare la nave o magari
la spinga ad infrangersi
contro l'isolotto, data la difficoltà, in quel mare sconvolto
dalle correnti,
di "centrare" l'imbocco dello stretto corridoio interposto fra
di esso e la
rupe di Scilla.
In una parola, la descrizione omerica ricalca esattamente i
dettagli morfologici
dell'area del Maelstrom. Ed è straordinario il fatto che,
millenni dopo gli
avvertimenti di Circe, a coloro che si avventurano in quelle
acque il portolano
dell'Ammiragliato, nel paragrafo intitolato "Route through
Moskenstraumen",
ripete la raccomandazione che Circe fa ad Ulisse: "E
consigliabile tenersi rasenti
a Lofotodden" ("It is advisable to keep near to Lofotodden").68
Omero ci dice anche che una nave era riuscita a passare indenne
attraverso
le Rupi: "Quell'Argo che tutti cantano, tornando dal regno
d'Eèta:/ e il flutto
quella pure contro le immani rocce scagliava,/ ma Era la spinse
oltre, perché
le era caro Giasone" (Od. XII, 70-72). Ciò conferma che la
Colchide, ossia il
regno di Eeta, era effettivamente contigua all'isola di sua
sorella Circe.
Riguardo alle avventure di Giasone e dei suoi Argonauti in
cerca del Vello
d'Oro, tramandateci da poeti molto posteriori ad Omero, vedremo
più avanti
che esse sono probabilmente il ricordo di un antichissimo
periplo della Scandinavia,
effettuato in senso antiorario una generazione prima della
guerra di
Troia (l'Iliade infatti menziona il figlio di Giasone, re di
Lemno e buon amico
degli Achei): partendo dal Golfo di Botnia, gli Argonauti
raggiunsero il Mare Artico
per via fluviale, indi navigarono verso le Lofoten, dove si
trovava il regno
del "terribile Eeta", il fratello di Circe. Ora, il fatto che
nella trasposizione mediterranea
l'Eea e la Colchide, in patente contrasto con il dettato
omerico, siano
finite lontanissime l'una dall'altra, anzi in direzioni
diametralmente opposte
rispetto alla Grecia -l'una è stata localizzata nel mar
Tirreno, l'altra nel mar Nero
- potrebbe essere ricondotto al vago ricordo di due itinerari,
rispettivamente
verso occidente (il viaggio di Ulisse) e verso nord-est
(l'impresa degli Argonauti),
che, ove si parta dal mondo baltico, possono effettivamente
ricongiungersi
in corrispondenza delle Lofoten, mentre in quello mediterraneo,
dove la
chiusura è impossibile, rimangono irrimediabilmente distanti.
Notiamo a questo punto che il nome greco dell'isola di Circe,
"Aiaìe", è
formato dal suffisso "aie", variante del più comune "gaie", che
in Omero significa
"terra", e dal prefìsso "ai", che si ritrova nel nome di Eeta,
"Aiétes" in
greco (lasciamo agli specialisti la verifica di un'eventuale
relazione con l'antico
nordico "ey", "isola", dal protonordico "awjo").
Per inciso, "Aja" è il nome di un mitico popolo menzionato nel
Rigveda (VII, 18, 19), il più antico testo della letteratura
indiana: questa sarebbe da considerarsi
una mera combinazione se le avventure di Ulisse non
contenessero diversi
spunti che sembrano rimandare proprio al mondo vedico. Al
riguardo, è significativo
il fatto che, secondo il Tilak, la civiltà che ha prodotto gli
inni del Rigveda proveniva da una terra dell'estremo nord, al
di sopra del circolo polare.
Ma, una volta appurato che l'Eea e la Colchide erano due isole,
probabilmente
contigue,
nell'ambito delle Lofoten, è possibile tentare di individuarle
esattamente? Qui azzardiamo un'ipotesi, la cui verifica o meno
da parte degli
specialisti nulla cambia rispetto a quanto già acquisito. Da un
lato, il nome
"Aiaìe" lo si potrebbe forse accostare a quello di Vågøya (il
vecchio nome di
Austvågøya), la prima delle Lofoten che si incontra provenendo
da nord-est;
dall'altro, sulla costa occidentale dell'attigua Vestvågøya il
sito di Koivika potrebbe
ricordare il nome della Colchide. Come segnalato dal dott.
Dahl, in quest'area
sono presenti tracce di insediamenti umani risalenti al
Neolitico72. Si potrebbe
pertanto congetturare che le isole in cui Omero colloca Circe e
suo fratello
Eeta corrispondessero alle attuali Austvågøya e Vestvågøya.
Questo scenario
potrebbe spiegare perché mai che la nave Argo, salpata in tutta
fretta per
sfuggire al "terribile Eeta", preferì avventurarsi tra le "rupi
erranti" del Sundstraumen,
il pericolosissimo stretto fra Moskenesøya e Flakstadøya,
invece di
imboccare il più vicino Nappstraumen, fra Flakstadøya e
Vestvågøya: infatti il
tratto meridionale di quest'ultimo si trovava proprio davanti
alla Colchide e,
pertanto, era presumibilmente presidiato dalle navi di Eeta.
Insomma Giasone
non aveva altra scelta che tentare la via più rischiosa,
confidando nella buona
sorte e soprattutto nella sua protettrice, la grande dea Era
(invece Omero fa
scegliere al suo Ulisse la rotta in direzione di Cariddi).
IL MONDO DI TROIA
VI.
Ora,
lo sconcertante Ellesponto omerico ha un altrettanto singolare
corrispondente
in quel mondo baltico dove già abbiamo ritrovato l'arcipelago
di
Itaca: ci riferiamo all'Ellesponto di Saxo Grammaticus, abitato
da un popolo
nemico dei Danesi: "...Dopo questi avvenimenti Regnerò, che
stava preparando
una spedizione contro gli Ellespontini, convocò l'assemblea dei
Danesi
(...) Quindi con una serie di ripetuti assalti fiaccò e
sottomise l'Ellesponto ed il suo monarca, Dian. Da ultimo lo
uccise, dopo avergli causato una
rovina dietro l'altra" {Gesta Danorum IX, IV, 20). Per di più
questo Ellesponto
nordico, che sembra essere collocato ad oriente rispetto
all'area danese,
ha, come abbiamo già visto, un nome inequivocabilmente greco, a
testimonianza
del fatto che in tempi remoti sulle rive del Baltico si parlava
la
lingua degli Achei.
Esaminiamo dunque il Baltico orientale e fissiamo in
particolare l'attenzione
sul Golfo di Finlandia: esso da un canto è situato in posizione
congruente
con questi "Ellespontini" di Saxo, dall'altro, essendo rivolto
verso il nord-est
dell'area baltica, risulta essere il naturale corrispondente
geografico, però ben
più vasto, dello Stretto dei Dardanelli: appare insomma
ragionevolmente identificabile
con il "largo Ellesponto" di Omero. Ce lo confermerà tra poco
il fatto
che la scansione del Catalogo delle navi ci porterà a
localizzare l'Ellade
omerica sulla costa dell'Estonia, affacciata proprio sul Golfo
di Finlandia: che
quest'ultimo fosse insomma l'"Ellesponto", cioè il "mare
dell'Ellade" appare
dunque del tutto ammissibile. Si tratta insomma di un caso
molto simile a quello
del Peloponneso, l'"Isola di Pelope": mentre quello greco non
quadra affatto
con le indicazioni dei due poemi - anzi, nemmeno col suo stesso
nome - invece
nel contesto baltico abbiamo trovato un'isola, situata in
posizione corrispondente,
che vi si adatta a meraviglia.
Chiediamoci ora se dall'Iliade si possa evincere l'orientamento
del territorio
di Troia rispetto all'Ellesponto. Qui ci viene in soccorso la
dea Era in
persona, con una precisa affermazione: "Di Zefiro e di candido
Noto/ spingerò dal mare ("ex halòthen") una violenta tempesta"
(Il. XXI, 334-335). Tenendo
presente che "Zefiro" è il vento dell'ovest, "Noto" quello del
sud, la loro provenienza
"dal mare" indica che il "largo Ellesponto" era situato a sud-
ovest rispetto
alla città: ciò da un lato mette definitivamente fuori gioco il
sito di Hissarlik,
orientato in tutt'altro modo, dall'altro indirizza la ricerca
della Troia
omerica verso un'area affacciata sul Golfo di Finlandia e, nel
contempo, orientata
a nord-est rispetto ad esso.
Una zona che risponde ad entrambi i requisiti - anzi l'unica, a
parte il territorio
russo ad ovest di San Pietroburgo - è quella situata ad
occidente di Helsinki,
nella Finlandia meridionale, verso l'estremità del Golfo
omonimo, là dove quest'ultimo
confluisce nel Baltico: qui il mare si trova per l'appunto in
direzione sud
ovest. Inoltre, sulla costa svedese di fronte a tale area, nel
punto in cui le due
sponde contrapposte si avvicinano maggiormente, rendendo più
agevole il passaggio
dall'una all'altra, si apre una grande baia, quella di
Norrtälje,
che è orientata nella direzione dell'antistante costa
finlandese e già a prima vista richiama alla
mente l'Aulide omerica, da cui salpò la flotta achea diretta a
Troia.
Osserviamo anche che nel tratto di mare interposto vi è un
arcipelago,
quello delle Åland, che a questo punto viene naturale mettere
in relazione con
l'isola di Lemno, dove gli Achei fecero scalo durante la
traversata, e con le vicine
Imbro e Samotracia (è la rotta attualmente percorsa dalle linee
di traghetti
tra la Svezia e la Finlandia). In particolare, una di tali
isole, che costituiscono
una sorta di ponte naturale tra le due sponde, si chiama
proprio Lemland. E
più a sud, davanti alla costa estone, vi è un'altra isola,
Hiiumaa, la quale potrebbe
coincidere con la Chio davanti a cui transitarono le navi di
Nestore (Od. III, 170) nel viaggio di ritorno da Troia, dopo la
fine della guerra (Tav. VII).
Ma su Aulide, Lemno e le altre isole torneremo in seguito;
adesso - dopo
aver verificato che nell'altra area situata a nord-est del
Golfo, quella verso San
Pietroburgo, non si hanno riscontri di sorta - è il momento di
puntare l'attenzione
sulla zona della Finlandia meridionale che abbiamo appena
individuato
e che già a prima vista appare estremamente promettente.
TROIA
103
Chiesa Isnardi, Imiti nordici, pag. 197 e pag. 248.
È
potuto consentirne l'impiego in combattimento. È vero peraltro
che in taluni
passi si accenna a tattiche e schieramenti: ad esempio,
l'ateniese Menesteo si
distingueva "per ordinare cavalli e uomini armati di scudi"
(Il. II, 554), arte in
cui naturalmente era maestro il vecchio espertissimo Nestore
(II, 555), il quale,
all'inizio di un combattimento, "davanti ì cavalieri con i
cavalli e i carri,/
dietro dispose i fanti (...)/ nel mezzo spinse i pavidi,/ che
combattesse per forza
anche chi non voleva" (Il. IV, 297-300); così pure, all'inizio
della "notte funesta",
i Mirmidoni guidati da Patroclo scesero in campo con uno
schieramento
a falange, molto compatto ed estremamente efficace: "Scudo a
scudo si
strinse, elmo a elmo, uomo a uomo" (Il. XVI, 215).
Per inciso, ciò potrebbe forse spiegare il peso determinante
che il poeta
attribuisce ad Achille, nella sua qualità di capo dei Mirmidoni
(che dunque
erano, in certo senso, le "truppe corazzate" dell'esercito
acheo), in ordine alle
sorti della guerra: al riguardo osserviamo che, secondo Tacito,
per gli antichi
Germani "l'impegno più solenne è attribuire anche le proprie
prodezze alla
gloria (del comandante)" ("sua quoque fortia facta gloriae eius
assignare praecipuum
sacramentum est", Germania, 14, 1); e forse in questa stessa
chiave si
può intendere una smargiassata di Nestore, il quale si vantava
di aver preso, in
una battaglia combattuta in gioventù, addirittura "cinquanta
carri, e intorno a
ciascuno due eroi/ strinsero coi denti la terra, vinti dalla
mia lancia!" (Il. XI,
748-749).
Con l'occasione osserviamo anche che a questi combattenti,
interamente
ricoperti di bronzo, veniva richiesto un impegno fisico enorme,
forse in qualche
misura paragonabile alle prestazioni atletiche degli attuali
giocatori di football
americano (che però sono equipaggiati in modo senz'altro più
leggero): il
corpo a corpo, il gioco di gambe, la corsa, i lanci, le
schivate, gli scatti fanno
tutti parte di un repertorio ben noto al poeta dell'Iliade
(certo più che al suo collega
dell''Odissea, probabilmente più aduso alla vita di corte che
ai campi di
battaglia), il quale vi si sofferma spesso, indicandoci i
campioni più abili nelle
varie specialità: ad esempio, Aiace Oileo "con l'asta vinceva
tutti gli Elleni
e gli Achei" (II, 530) ed era particolarmente rapido
nell'inseguimento (XIV,
521), mentre l'altro Aiace, il Telamonio, uomo dalla
corporatura gigantesca
(III, 226-229), era fortissimo nel corpo a corpo (XIII, 325);
quanto ad Achille
"pie veloce" ("pòdas okys") eccelleva in tutto, ma in
particolare nello scatto e
nel gioco di gambe (XIII, 325). Quest'ultima dote era tra le
più importanti, come
ben sanno pugili e schermidori: non per nulla Omero riguardo ai
duelli parla
del "danzare di Ares" ("mélpesthai AreT", VII, 241); così,
allorché il cretese
Merione riesce a schivare l'asta scagliatagli contro da Enea,
viene sarcasticamente
tacciato di essere un "ballerino" ("orchestén", XVI, 617).
Tutto ciò naturalmente richiedeva uomini giovani - Ettore aveva
un figlio
nato da poco - fisicamente prestanti e atleticamente ben
preparati: invece l'anziano
re di Creta Idomeneo, ormai "brizzolato" ("mesaipòlios", XIII,
361), non
aveva più "salde le gambe nel muoversi,/ né a balzare seguendo
il dardo, né a
evitarne:/ così nel corpo a corpo il giorno fatale sapeva
sfuggire,/ ma fuor della
lotta, a fuggire, i piedi non lo portavano più" (Il. XIII, 512-
515; sembra quasi
il ritratto di qualche ex calciatore, di quelli che talvolta
appaiono in certe nostalgiche
partite riservate alle "vecchie glorie", dove però, a
differenza di Idomeneo,
non devono affrontare avversari più giovani e, soprattutto, non
rischiano
la pelle).
Non è dunque un caso che, secondo l'lìiade, l'unica coppia
padre-figlio
presente nell'esercito acheo era quella costituita dal vecchio
Nestore e da Antiloco:
dobbiamo perciò ritenere poco realistici, se non spuri, certi
accenni dell'Odissea ad un figlio di Achille che avrebbe preso
parte alla fase finale della
guerra (oltretutto Achille appare sempre come uno degli eroi
più giovani tra
quelli che parteciparono al grande conflitto).
Concludiamo queste considerazioni con la splendida immagine del
campo
apprestato dai Troiani davanti alle navi achee, illuminato dai
fuochi che ardono
nella notte: "Essi, pieni di gloria, sul campo della lotta/
stettero tutta notte,
accesero molti fuochi./ Come le stelle in cielo, intorno alla
luna lucente/
brillano ardendo, se l'aria è
priva di venti;/ si scoprono tutte le cime e gli alti
promontori/ e le valli; nel cielo s'è rotto l'etere immenso,/
si vedono tutte le
stelle; gioisce in cuore il pastore;/ tanti così, fra le navi e
lo Xanto scorrente/
lucevano i fuochi accesi dai Teucri davanti ad Ilio;/ mille
fuochi ardevano nella
pianura, e intorno a ciascuno/ cinquanta eran seduti, alla
vampa del fuoco
fiammante;/ i cavalli, mangiando l'orzo bianco e la spelta,/
ritti accanto ai carri,
l'Aurora bel trono aspettavano." (Il. VIII, 553-565). A questo
stupendo scenario
ora si può finalmente attribuire la giusta collocazione.
D'altronde, la natura rappresenta uno degli aspetti
fondamentali dell'universo
omerico, in cui ritroviamo il mare, il cielo, i fiumi,
l'aurora, il tramonto,
i boschi, gli uccelli, la caccia... tutti elementi di un
arcaico mondo primordiale,
certamente più rude del nostro ma anche più libero dalle
sovrastrutture
che continuamente minacciano di soffocare la vita degli uomini
di oggi.
(successivamente, attorno al
1300 a.C, la tendenza si invertì e la temperatura media
ricominciò a salire).
Ritornando ora ad Omero, avevamo già posto l'accento
sull'intensità delle
precipitazioni descritte nei due poemi - nell'Iliade vi sono
espliciti accenni
alla "pioggia infinita" ("athésphaton òmbron", III, 4) -
correlandola con quanto
avvenne durante la fase declinante dell'optimum". Ed un altro
indizio che,
al tempo di quelle vicende, tale fase fosse ormai iniziata è
costituito dalle violente
perturbazioni che resero così difficili i ritorni in patria dei
reduci della
guerra troiana: in particolare, nel drammatico racconto di
Nestore a Telemaco
si avvertono tutte le perplessità sulla rotta da seguire e i
presagi di sciagure incombenti:
"Io con tutte le navi che m'avevan seguito,/ fuggivo, perché
compresi
che un dio preparava sciagure;/ fuggiva il figlio guerriero di
Tideo..."
(Od. III, 165-167). E a questo contesto così travagliato si
possono forse imputare
anche le difficoltà a salpare da Aulide che la flotta achea
aveva incontrato
all'inizio della guerra. E dunque probabile che, non molto
tempo dopo gli
avvenimenti narrati nei due poemi, le avvisaglie del tracollo
delle condizioni
climatiche nell'area baltica avrebbero fatto maturare in quelle
popolazioni l'esigenza
di scendere verso il sud, alla ricerca del clima più temperato
che il bacino
del Mediterraneo poteva offrire.
Che, d'altronde, le vicende cantate da Omero vadano collocate a
ridosso
dell'optimum climatico" ce lo indica il fatto che in quel mondo
sono ancora
presenti piante come la vite, o animali quali i grandi felini
(leoni e leopardi);
peraltro, a proposito di questi ultimi, notiamo che essi
vengono menzionati solo
nelle similitudini o in relazione alle loro pelli, mentre non
appaiono mai in
connessione con quei paesaggi di tipo tropicale in cui siamo
avvezzi a raffigurarceli:
ad esempio, nell'Odissea troviamo la singolare immagine di un
"leone
nutrito sui monti, sicuro della sua forza,/ che va tra la
pioggia e il vento" ("hyòmenos kaì aémenos"; Od. VI, 130-131):
più che a un abitante della savana,
questa immagine farebbe piuttosto pensare ad un orso.
D'altronde, già in
occasione della sorprendente identificazione del "fico" sullo
scoglio davanti a
Cariddi con un'alga che ricopre gli scogli dei mari nordici,
avevamo richiamato
l'attenzione sui possibili equivoci connessi con il
riconoscimento delle specie,
sia vegetali che animali, menzionate nei poemi omerici (al
riguardo, notiamo
che gli Spagnoli, allorché si insediarono in Sudamerica, spesso
diedero ad animali
e piante locali i nomi di specie più o meno simili presenti nel
Vecchio
Mondo). In ogni caso, è tutto nordico il delizioso quadretto
dell'Iliade in cui
vediamo "d'uccelli alati/ un branco, che beccano in riva al
fiume,/ oche o gru
o cigni dal candido collo" (Il. XV, 690-692). Al riguardo,
notiamo che sui graffiti
rupestri di Alta (Norvegia settentrionale), risalenti al IV
millennio a.C, sono
raffigurati proprio gru e cigni.
Inoltre, immagini quali quella del "pioppo/ cresciuto
nell'umido prato di
una grande palude" (Il. IV, 482-483) certamente evocano più un
paesaggio di
tipo finlandese che l'arido e scabro suolo della Grecia.
Tornando al tracollo del clima, in tale contesto si inseriscono
perfettamente
anche certe recenti tendenze a correlare i peggioramenti
climatici - riferiti
in particolare ai secoli, tra il XIII
ed il XVIII della nostra èra, successivi
al "periodo caldo medioevale", che hanno fatto registrare
diminuzioni della temperatura media tali da far parlare
addirittura di una "piccola glaciazione" con
l'insorgere di carestie e di epidemie (pensiamo alla peste che
flagellò l'Europa
nel XIV secolo, poco dopo l'inizio di questo processo di
raffreddamento,
o alla diffusione del cosiddetto "ballo di San Vito",
all'incirca nello stesso periodo).
Soprattutto le carestie, innescate dal freddo, potrebbero aver
rappresentato
una motivazione fondamentale per la ricerca di siti più
accoglienti da
parte degli antichi popoli baltici; ad esempio, secondo Saxo
Grammaticus, i
Longobardi migrarono dal Baltico al Mediterraneo perché "a
causa dell'estrema
inclemenza del clima, il raccolto dei campi andò in rovina e si
verificò una
grave penuria dei viveri" (Gesta Danorum VIII, XII, 1); ma
pensiamo anche
al "gelido inverno" (Il. XVII, 549) menzionato in precedenza.
In generale, si
ha quasi l'impressione che gli storici antichi fossero più
attenti di quanto non
lo siano i moderni a correlare le vicende storiche con le
oscillazioni del clima
(magari anche perché erano personalmente più esposti alle
avversità meteorologiche
e alle loro conseguenze).
Riguardo in particolare alle epidemie, basti ricordare il
morbo, provocato
dalle "frecce di Apollo", che infuria nel campo acheo
all'inizio dell'Iliade (1,
10): ad esso fa riscontro la morte dei dodici figli di Niobe
(XXIV, 603), sempre
ad opera delle "frecce" degli dèi. Questa situazione traspare
anche dalla suggestiva
descrizione di una stella che spunta in autunno e annuncia
l'arrivo della cattiva
stagione, con il suo triste fardello di sofferenze e di
malattie: "Si leva l'astro
autunnale e chiari i suoi raggi/ appaiono fra innumerevoli
stelle nel cuor della
notte;/ esso è chiamato il Cane d'Orione,/ ed è il più lucente,
ma dà presagio
sinistro/ e molta febbre porta ai mortali infelici" (Il. XXII,
27-31 ). Tutto ciò, unitamente
a quanto già detto in precedenza, va a delineare un quadro
complessivo,
di degrado climatico e di compromissione delle condizioni di
vita, che nel
suo insieme risulta perfettamente coerente e attendibile. Non
solo: esso fornisce
una più che ragionevole motivazione alle grandi migrazioni
verificatesi nella
prima parte del II millennio a.C, subito dopo il tracollo
dell'optimum": ci
riferiamo alla diaspora delle popolazioni indoeuropee, di cui
la discesa degli
Achei dal nord al sud dell'Europa non fu che un episodio.
Insomma, nel mondo omerico gli effetti del degrado del clima si
avvertivano
chiaramente: si stava avvicinando il momento di emigrare verso
le tiepide
rive del Mediterraneo.
Tale
origine traspare anche da svariate particolarità della loro
architettura:
"A causa di parecchie di queste caratteristiche (tetto a doppia
falda, dimora
chiusa, focolare fisso) il palazzo miceneo evoca i paesi
nordici, freddi e umidi,
da cui senza dubbio proviene (...) Esso si oppone in modo
radicale alla concezione
architettonica, specificatamente mediterranea, del palazzo
cretese"145.
E che dire della struttura del "megaron", il salone principale
dei palazzi micenei?
Esso "era molto appropriato per un capo attorniato da vassalli
e compagni
di tavola, ed è identico alla sala degli antichi re scandinavi"
("is identical
with the hall of the ancient Scandinavian kings")146.
Secondo
la narrazione dell'Iliade, Calidone fu attaccata dai Cureti
(IX,
529), il cui nome a sua volta ci viene ricordato da Kyritz e
Köritz, due cittadine
tra Berlino e Amburgo. E, proprio nei sobborghi di
quest'ultima, il nome
della città di Aitona sembra ricordare quello della madre di
Meleagro, Altea
(Il. IX, 155). Un mito, non omerico, lega la vita di Meleagro
alla durata di
un tizzone custodito dalla madre: a tale proposito è
significativo il fatto che
"un gran numero di racconti (...) anche della Lituania e
dell'Islanda, conosce
un tizzone fatale come questo"187. Riguardo a Kyritz e Köritz,
esse si trovano
nel territorio di quella che doveva essere l'antica "Creta"
baltica, la quale
infatti nel Catalogo segue immediatamente l'Etolia: come
vedremo meglio nel
capitolo che le è dedicato, essa si può fare all'incirca
coincidere con la costa
della Pomerania - che delimita il bacino baltico verso sud,
esattamente come
la Creta mediterranea delimita l'Egeo - e con un vasto
entroterra comprendente
sia il territorio polacco, sia una parte dell'attuale
territorio tedesco ad
ovest dell'Oder.
Siamo così arrivati alla fine del Catalogo delle navi, che ci
ha condotti fino
all'estremità settentrionale del Baltico, in un'area che, come
vedremo più avanti, risulta quasi contigua a quella del monte
Olimpo, la sede degli dèi; ma,
per completare il quadro della geografia mitica greca, non
possiamo tralasciare
il Caucaso, che - pur se non viene mai citato da Omero -
giganteggia in uno
dei miti più potenti a noi pervenuti dal mondo classico, dal
sapore estremamente
arcaico: esso è il teatro del supplizio inflitto da Zeus a
Prometeo, per aver
questi donato agli uomini il fuoco sottratto alla fucina degli
dèi. Poiché i Greci
lo collocavano nella Scizia, verso oriente, non è irragionevole
supporre che
il suo eventuale "prototipo" baltico fosse situato ad est del
primitivo mondo degli
Achei. E, in effetti, in una zona di alture ad un centinaio di
chilometri a
nord-est di Helsinki, a metà strada tra le città di Lahti e
Kouvola, si
incontra la località di Kaukas; inoltre, nelle vicinanze, si
trovano una Kaukasuo e una
Varala: quest'ultimo toponimo sembra ricordare "Borea", che,
secondo la mitologia,
era il primordiale nome della montagna, poi ribattezzata
Caucaso dal
nome di un pastore, rifugiatosi colà dopo la Gigantomachia
(nella lingua finnica
la B non esiste e il suffisso "-la" è tipico dei toponimi
locali).
Poco a nord di Lahti, "Taulu" potrebbe ricordare il Tauro;
sarebbe poi
suggestivo collegare "Ammätsä" con le mitiche Amazzoni; in ogni
caso, anche
a prescindere dai toponimi - riguardo ai quali valgono le
riserve e le cautele già espresse in più occasioni - già
un'antica tradizione riconduce al mondo nordico
queste donne "forti come i guerrieri" (Il. III, 189), contro
cui, secondo Omero,
in gioventù aveva combattuto lo stesso Priamo: Adamo di Brema
afferma
che esse abitavano lungo le coste baltiche (IV, 19), mentre
Saxo ci dice che
"esistevano un tempo presso i Danesi donne che scambiavano la
loro bellezza
con abiti maschili e dedicavano quasi ogni momento della loro
vita al perfezionamento
delle arti militari (...) costringendo il loro carattere
muliebre a comportarsi
con virile rigore: tale era l'ardore con cui cercavano la
gloria militare
che chiunque avrebbe pensato che non fossero più donne" (Gesta
Danorum VII, VI, 8). Le Amazzoni dunque rappresentano un altro
punto di contatto fra
il mondo di Omero e la mitologia nordica.
E adesso, al termine di questo capitolo, nel quale abbiamo
cercato di ricostruire
il mondo di Omero nel Baltico, ricavandone una straordinaria
"fotografia"
degli insediamenti achei nella prima età del bronzo, prima di
dedicarci
all'approfondimento di alcuni punti specifici torniamo a
sottolineare la mirabile
coerenza - sotto tutti gli aspetti, geografici, climatici,
toponomastici,
morfologici - dell'intero universo mitologico della Grecia una
volta collocato
nell'Europa settentrionale: basti pensare al tema affascinante
dell'Apollo Iperboreo,
che nel contesto greco-mediterraneo appare irrimediabilmente
"fuori
posto", mentre in quello nordico si inserisce splendidamente.
Su tale argomento
segnaliamo un articolo di Marco Duichin, intitolato Apollo, il
dio sciamano
venuto dal Nord e sottotitolato Sulla rotta dei cigni e
dell'ambra, dove
tra l'altro si legge: "...Traspare infatti il riflesso di
un'originaria venuta del dio
da un remoto settentrione "iperboreo": nostalgica reminiscenza,
forse, delle
lontane contrade da cui in tempi immemorabili trassero origine
gli Elleni"192 (incidentalmente, questa è una precisa
testimonianza del fatto che tra gli studiosi
attuali l'idea dell'origine nordica della civiltà greca è ben
presente). Le
pietre tondeggianti, così simili all'omphalos di Delfi, che
abbiamo trovato nella
Svezia meridionale, dove sorgeva l'omerica Pito, confermano
questo rapporto
e, più in generale, la validità di tutta la presente
ricostruzione.
Sarebbe
poi estremamente suggestivo ipotizzare una relazione tra questi
due miseri
legni bruciati, simbolo di una cultura tanto povera
materialmente quanto
ricca sotto l'aspetto spirituale, e le due superbe colonne in
bronzo erette davanti
al tempio di Salomone, denominate rispettivamente "Jakin" e
"Boaz" (7Re, 1, 21): nonostante le vicissitudini del tempo e
della storia, certe parole non sono
andate perdute...
Osserviamo adesso che qualche studioso ha ritenuto di scorgere
le tracce
di antichissimi miti astrali anche nei nomi e nei simboli con
cui indichiamo i
numeri; al riguardo, Paolo Ettore Santangelo ci dice che "se
esaminate le comuni
cifre arabiche, trovate una cosa curiosa: il sei e il nove sono
indicati con
due segni simili, ma disposti in senso contrario; il 6 ha la
forma della luna calante
(lat. sex = sica, falce); il 9 ha la forma della luna nuova
(lat. nov-em, greco ennéa = nuova). Voi avete così un primo
sospetto del come il primitivo abbia
potuto
esprimere l'idea della molteplicità. Si tratta del solito
sistema a base di metafore: e se esaminate i nomi del sette e
dell'otto, trovate che il primo
indica la luna sepolta (lat. septem), l'altro la luna morta
(lat. o-cto connesso col
verbo greco kteìno "uccidere"). Troviamo dunque in questi
numerali adombrato
tutto un dramma divino: il dio lunare che viene squartato e
ridotto a brani,
che quindi viene sepolto e che al terzo giorno resuscita. Non
meno curioso è poi il fatto che le cifre arabiche esprimano con
le figure ciò che i numeri indoeuropei
esprimono con le parole. Se ne deve concludere, o che gli Arabi
non
furono gl'inventori delle cifre (e questo ormai è assodato), o
che gl'Indoeuropei,
accanto ai noti sistemi di rappresentazione dei numeri (i
Latini avevano i
così detti numeri romani, i Greci utilizzavano a ciò
l'alfabeto), avessero un cifrario
esoterico, segreto, che non essendo mai stato reso di pubblica
ragione
venne obliato e fu praticamente perduto, fino a quando
gl'Indiani o gli Arabi
non ce lo fecero recuperare"211.
Tornando
al racconto del naufragio di Menelao, vi sono riportati alcuni
nomi di luoghi e di popoli che possiamo tentare di localizzare
in questo contesto
geografico: ad esempio, Gortina forse si ritrova nell'attuale
Gostyn, a
qualche chilometro dal mare, ad est della foce dell'Oder;
quest'ultimo è a sua
volta identificabile con il fiume Giardano "dove vivono i
Cidoni" ("Kydones",
Od. III, 292), come ci indicano i nomi rispettivamente dei
villaggi di Gardno
(prossimo alla sua riva destra verso la foce) e di Cedynia
(situato più a monte;
che la cittadina di
Forst, verso l'interno, ricordi la Festo omerica?). Tracce dei
Cidoni le troviamo anche più ad oriente, nella città di Gdynia,
che richiama Cydonia,
un'antica città della Creta mediterranea, evidentemente
ribattezzata così
dagli Achei. Quanto a Cnosso ("Knosòs"), in alcune località
"strategiche"
nell'area baltica abbiamo già trovato certi toponimi che vi si
potrebbero accostare;
infatti, a conferma della particolare vocazione marinara dei
Cretesi, costoro
dovevano possedere scali e basi nei punti strategici del
Baltico; ecco dunque
i nomi, notati in precedenza, di Knösen, in corrispondenza con
il capo Malea,
e di Knösö, in prossimità del capo Sunio. Ancora, nel toponimo
Krotoszyn,
città della Polonia, sembra risuonare il nome stesso della
Creta omerica.
Notiamo anche che il nome di Minosse - nonno di Idomeneo (Il.
XIII,
451), il capo del contingente cretese alla guerra di Troia -
forse risuona ancora
in quello di una cittadina polacca, Mniszek, situata a sud di
Danzica: potrebbe
essere altresì significativa l'assonanza con Mannus, il mitico
capostipite
dei Germani secondo Tacito (Germania, 2, 2).
E forse si è conservato persino il nome di Dedalo, l'artefice
del Labirinto,
nel toponimo "Dedelow", che ritroviamo in Germania, presso la
frontiera
polacca. A Dedalo gli studiosi accostano il fabbro
Volund, che, secondo la Volundarkvidha, riuscì a librarsi in
volo, con ali artificiali,
per sfuggire ad un re che lo teneva prigioniero: secondo il
Mastrelli, questa
leggenda sarebbe di origine germanica243, e ciò, oltre a
trovare riscontro
nel nome "Dedelow", s'inserisce perfettamente nel quadro
geografico qui delineato.
Appare inoltre significativo che Volund sia figlio del "re dei
Finni". Al
riguardo, è significativo che in un episodio del Kalevala
Lemminkäinen riesca
a fuggire da una terra ostile volando come un'aquila fino alla
sua casa; anche
qui, come nel mito greco, non manca un accenno al problema
dell'eccessivo
calore del sole, che "gli bruciò le guance" (runo XXVIII).
Notiamo ancora che Proteo viene definito dal poeta con una
formula ricorrente:
"il Vecchio del mare verace" ("nemertés", Od. IV, 384; 401;
542).
Questo aggettivo "nemertés", che sembra costituire una parte
inscindibile del
suo nome, è composto dal prefisso negativo "ne-" e dalla radice
di un verbo che
vale "errare" o "fallire"; dunque significa letteralmente
"l'infallibile", con un
chiaro riferimento alle doti profetiche del Vecchio. Ora,
sarebbe intrigante ricondurre
il nome del "marmendill" ad un'estrema corruzione
dell'aggettivo
"nemertés": riguardo all'oscillazione tra le consonanti Med N,
talora la ritroviamo
nel passaggio tra il greco e il latino, dove "me" e "syn"
diventano rispettivamente
"non" e "cum", e dove la desinenza dell'accusativo singolare
termina
in Min latino, in A' in greco; inoltre, abbiamo l'esempio del
nome di un
fiume lituano, il Nemunas, che in tedesco diventa Memel (si
potrebbe altresì considerare la corrispondenza fra le "Moire"
greche e le "Norne" vichinghe).
In attesa che gli specialisti si pronuncino sulla questione, è
diffìcile sottrarsi alla
suggestione dell'ipotesi che anche il nome dell'uomo-foca,
nonché profeta,
nordico abbia la sua remota origine nel suo "verace", anzi
"infallibile", corrispondente
omerico (questo caso potrebbe dunque essere analogo a quello
del
"thing", l'assemblea nordica, di cui abbiamo ipotizzato la
derivazione dall'aggettivo
omerico "thémenos", che di frequente si accompagna
all"'agoré").
Quanto alla singolare equazione "foche = capacità profetica",
si potrebbe
congetturare che sia stata ispirata da qualche antichissima
usanza di osservare
il comportamento di questi
animali, a mo' di rudimentale "bollettino meteorologico", per
ricavarne delle previsioni sulle condizioni del tempo e del
mare
(pensiamo al vecchio adagio, sopravvissuto fino ai nostri
giorni, secondo cui
il volo a bassa quota degli uccelli è segno di burrasca
imminente). In tale ottica,
potremmo intendere il Vecchio del mare, nonché il suo epigono
nordico, anche
in chiave di "spirito (profetico) del branco di foche".
In ogni caso, le corrispondenze fra i miti greci e quelli
norreni su tematiche
spiccatamente marinare (pensiamo anche all'identità riscontrata
tra le figure dei
giganti marini Egeone e Ægir), se da un lato ci confermano che
gli antenati degli
Achei e degli antichi popoli scandinavi hanno avuto un'origine
comune, dall'altro
ci indicano che, con tutta probabilità, la loro sede primitiva
era marittima e non
continentale. Al riguardo, osserviamo che Omero per indicare il
mare utilizza ben
quattro termini diversi: "hàls", "thàlassa", "pòntos" e
"pélagos". Usa inoltre l'aggettivo
"marmàreos" ("splendente"), la cui radice è identica a quella
di "mare",
proprio in rapporto al mare: "hàla marmaréen", ossia "il mare
splendente" (Il.
XIV, 273). Ciò conferma che gli Achei sono stati in stretta
relazione con il mare
sin da epoche molto remote, come d'altronde ci attestano oltre
ogni dubbio sia la
spiccatissima vocazione marinara dei loro discendenti micenei,
che certo non poteva
essere di origine recente, sia gli stessi contenuti dei poemi
omerici.
ACHEI E INDOEUROPEI
XVI. L'OLIMPO, LA PIERIA E LA LUNA DI HERMES
D'altronde
sembra che anche il primitivo calendario romano fosse
articolato su
dieci mesi: e nel nome degli ultimi quattro, da settembre
("september") a dicembre ("december"), il ricordo
dell'antichissima numerazione, corrispondente
alle dieci scuri-lune dell'Iliade, è rimasto per così dire
"cristallizzato" fino ai
nostri giorni.
Insomma, una volta individuato il reale contesto geografico,
non solo si
risolve ogni anomalia, ma viene alla luce una costruzione
concettuale e simbolica
mirabilmente coerente, alla
base della quale sta un complesso pensiero astronomico-
teologico, esteso ben oltre l'ambito della mitologia greca, i
cui riflessi
tuttora si riverberano nella nostra stessa cultura (pensiamo al
simbolo
del dragone, la costellazione che 5000 anni fa indicava il Polo
Nord). E, infine,
non dimentichiamo che questa lettura dell'Inno a Hermes ci
rivela una
"gemma" straordinaria, forse unica nella letteratura antica:
l'immagine della luna
che risplende nella notte artica.
XVII. IL FIUME OCEANO, L'ETIOPIA ARTICA E LE CASE DI ADE
Per Omero l'Oceano è un fiume che scorre nel mare, però ben
distinto da
esso: "Ma come del fiume Oceano ("potamoìo Okeanoìo") lasciò la
corrente/
la nave, giunse all'onde del mare ampie vie/ e all'isola Eea"
(Od. XII, 1-3).
Omero parla della "grande forza" ("méga sthénos") della sua
"profonda corrente"
("bathyrreìtao", Il. XXI, 195); inoltre in entrambi i poemi lo
indica con
il singolare aggettivo "àpsorros", che a un dipresso significa
"quello che scorre
via" (Il. XVIII, 399; Od. XX, 65) e che ritroviamo anche nella
Teogonia di
Esiodo (v. 776); inoltre è un fiume che, stranamente, "scorre
senza rumore"
("analarreìtao", Il. VII, 422; Od. XIX, 434).
Osserviamo ora la carta geografica: in corrispondenza del
limite tracciato
dai due arcipelaghi delle Orcadi e delle Shetland, a nord della
Scozia, un
viaggiatore proveniente dal Mare del Nord incontra la Corrente
del Golfo, il
grande "fiume marino" le cui acque calde e azzurre si muovono
silenziosamente
verso nord-est senza mescolarsi con quelle, di color grigio,
del gelido
Atlantico.
Il "Potamòs Okeanòs", la cui "quieta corrente" "scorre via"
inesorabilmente,
"senza rumore", in direzione opposta a quella degli
insediamenti umani
conosciuti (infatti, come presto vedremo, trasporta Ulisse
verso le "case dell'Ade"),
non potrebbe forse identificarsi con la Corrente del Golfo? Ciò
appare
assolutamente ragionevole, ed in tal modo tutte le indicazioni
date da Omero
troverebbero una spiegazione logica; in particolare, finalmente
si chiarirebbe
il significato di quel passo dell'Odissea che abbiamo appena
menzionato (e
su cui non ha mancato di affannarsi, come al solito, il povero
Strabone): "Ma
come del fiume Oceano lasciò la corrente/ la nave, giunse
all'onde del mare...".
A questo punto sarebbe possibile dare un senso anche al nome di
"Okeanòs", riconducendolo all'aggettivo "kyanos", "azzurro";
infatti è proprio
questo, almeno in certe circostanze, il colore delle acque
della corrente
atlantica, la quale pertanto si differenzia, talora anche
nettamente, rispetto al
mare circostante. Il "Potamòs Okeanòs" sarebbe così il "Fiume
Azzurro": per
la Corrente del Golfo - che Benjamin Franklin, in una carta
disegnata nel 1770,
rappresentò proprio come un immane fiume scorrente tra immobili
pareti liquide
- non si potrebbe trovare definizione più appropriata.
In tale quadro, appare estremamente seducente una
corrispondenza con i Veda indiani, secondo cui nei tempi mitici
"il fiume Sarasvati scorreva nel mare"261.
261
Morretta, Miti indiani, pag. 338
Notiamo anche che un ramo della Corrente segue le coste
norvegesi fino
all'estremo nord, addentrandosi poi nel Mare Artico: da qui la
convinzione di
quegli antichi popoli che l'Oceano circondasse tutta la terra.
E la sua relazione
con i "confini del mondo" viene richiamata in modo esplicito in
un passo dell'Odissea: "Infine per te, Menelao alunno di Zeus,
non è fato/ morire e trovare
la fine in Argo che nutre cavalli,/ ma nella pianura Elisia, ai
confini del
mondo ("es peìrata gaìes")/ ti condurranno gli eterni, dov'è il
biondo Rada
manto,/ e là bellissima per i mortali è la vita:/ neve non c'è,
non c'è mai freddo
né pioggia,/ ma sempre soffi di Zefiro che spira sonoro/ manda
Oceano a
rinfrescare quegli uomini" (Od. IV, 561-568).
Così pure, l'enigmatico racconto mitologico fatto da Era a Zeus
nel XIV
canto dell'Iliade, letto nella chiave dell'identificazione con
la Corrente del
Golfo, si colora di significati: "Vado a vedere i confini della
terra feconda,/
l'Oceano, principio dei numi, e la madre Teti,/ che nelle case
loro mi nutrirono
e crebbero;/ questi vado a vedere; scioglierò loro litigio
infinito,/ perché da
lungo tempo stanno lontani/ dall'amore e dal letto, da quando
cadde l'ira nell'animo"
(XIV, 301-306). In effetti, quale modo potrebbe essere più
poetico, e
nel contempo più preciso, per indicare che le acque della
Corrente del Golfo e
quelle dell'Atlantico non si mescolano mai?
Questo passo sembrerebbe anche sottintendere che la divisione
fra Oceano
e Teti sia avvenuta in tempi remoti, prima dei quali, se ne
potrebbe dedurre,
essa non doveva sussistere e pertanto la Corrente del Golfo
ancora non c'era:
a tale proposito segnaliamo il fatto che, secondo certe teorie
oceanografiche
attuali, durante le ere glaciali il flusso delle correnti calde
dai Tropici verso
i mari polari si interromperebbe. Al momento è comunque
impossibile arrivare
a conclusioni certe su tali questioni: ma ci sembra già
abbastanza l'aver
trovato nella bellezza e nella forza del mitico "Potamòs
Okeanòs", il Fiume Azzurro,
anche l'eco suggestiva della realtà.
Il termine "Oceano", non più identificato con un "fiume", ha
successivamente
assunto il significato attuale, e forse non soltanto per una
naturale estensione
del termine: nella sede mediterranea, dopo che la sua precisa
nozione
era ormai sfumata, tale nome passò ad indicare l'immenso mare
che si estende
oltre le "Colonne d'Ercole". A questo punto è ragionevole
chiedersi se i Greci del Mediterraneo abbiano coniato "ex novo"
quest'ultima espressione,
o se invece abbiano attribuito allo Stretto di Gibilterra un
appellativo che forse
gli Achei del Baltico potrebbero aver precedentemente
utilizzato, magari
per indicare un limite in corrispondenza del quale forse si
incontrava il loro
"Fiume Azzurro". Tra poco cercheremo di dare una risposta a
tale domanda.
L'identificazione del "fiume Oceano" con la Corrente del Golfo
ci dà un
indizio per tentare di far luce su un altro dei tanti misteri
della geografia omerica, su cui il solito Strabone, e altri con
lui, si sono affaticati invano: la collocazione
del popolo degli Etiopi, citati sia nell'Iliade che
nell'Odissea.
Al riguardo, osserviamo subito che per raggiungere la sua
"Etiopia" Omero
ci indica sempre la via dell'Oceano: e ciò, riferito a tempi in
cui il canale di
Suez era di là da venire, fa subito escludere qualsiasi ipotesi
di identificazione
con l'omonima regione dell'Africa orientale. Infatti
nell'Ilìade il poeta manda
Iris, la messaggera degli dèi, "alle correnti d'Oceano,/ degli
Etiopi alla terra,
dove fanno ecatombi/ ai numi" (XXIII, 205-207); e nell'Odissea,
proprio
all'inizio del poema, ci dà un'indicazione apparentemente più
precisa, ma altrettanto
sibillina: "Se n'andò Poseidone tra gli Etiopi lontani,/ gli
Etiopi che
in due si dividono, gli estremi degli uomini ("éschatoi
andrön")/ quelli del sole
che cade e quelli del sole che nasce" (I, 22-24). Sempre
nell'Odissea, il dio
Poseidone, nel ritornare dalla terra degli Etiopi, dai monti
Solimi scorge Ulisse
in navigazione davanti alla terra feacia: l'identificazione di
quest'ultima con
la costa norvegese restringe di molto il campo della ricerca,
orientandola verso
il nord della Scandinavia.
Proviamo allora a seguire il ramo più settentrionale della
Corrente del
Golfo, che dal Mar di Norvegia, seguendo il profilo della
costa, s'insinua nel
mar di Barents: doppiato Capo Nord, il "fiume Oceano" raggiunge
il capo
estremo della penisola Nordkinn, dopo la quale si apre il
Tanafjorden; più oltre,
la costa comincia a piegare verso sud. Dunque è proprio in tale
zona, nel
punto più settentrionale del continente europeo, che l'Odissea
sembra collocare
la residenza degli Etiopi omerici, "gli estremi degli uomini"
(che successivamente,
nel contesto mediterraneo, sarebbero stati ubicati oltre
l'Egitto, anche
qui all'"estremità" del mondo allora conosciuto).
Esaminiamo la penisola Nordkinn: essa in realtà è quasi
un'isola, dalla
forma all'incirca poligonale, collegata alla terraferma
soltanto da un sottile
istmo posto al centro del suo versante meridionale, a partire
dal quale si dipartono
in direzioni opposte due fiordi, chiamati Eidsfjorden e
Hopsfjorden.
Ora, sia la posizione di questi luoghi così settentrionali, sia
la loro particolarissima
conformazione geografica sembrano rispecchiare alla lettera i
versi
di Omero: se, infatti, nel pieno dell'optimum climatico" -
allorché, 5000
anni fa, anche queste plaghe estreme dell'Europa erano
abitabili - attorno all'istmo
fosse fiorito un insediamento umano (a cavallo tra i due
fiordi, orientati
rispettivamente verso ovest e verso est), di costoro si sarebbe
potuto effettivamente
dire che "in due si dividono" e che erano "gli estremi degli
uomini",
"quelli del sole che cade e quelli del sole che nasce".
Riguardo a quest'ultima
formula, oltre che un contenuto puramente geografico vi si
potrebbe
forse trovare anche un'allusione a quei culti solari,
presumibilmente di origine
artica, a cui abbiamo già accennato in
precedenza: la mitologia greca attribuisce
alla Sfinge tebana una provenienza "etiopica". Inoltre, in
questo quadro così congruente con le indicazioni dell'Odissea,
il dottor Bruni ha
notato che i nomi dei due fiordi attorno all'istmo, "Eid" e
"Hop", letti insieme
sembrano evocare il nome stesso degli Etiopi (in greco
"Aithìopes"), quasi
a rafforzare il concetto che essi erano "divisi in due"
("dichthà dedaìatai").
E nelle interminabili giornate dell'estate artica, dai due
opposti versanti dell'istmo
gli uni e gli altri vedevano risplendere il sole di
mezzanotte...
Se adesso andiamo ad esaminare il loro nome, notiamo che esso è
forse
riconducibile alla radice del verbo "aìthein" che, come abbiamo
già visto a
proposito delle probabili etimologie dei nomi "Italia" e
"Itaca", vale "bruciare",
"ardere"; dunque il vocabolo "Etiopi" potrebbe significare
"quelli della
fiamma". In tale espressione potrebbe essere contenuto un
diretto riferimento
ad un culto del fuoco, che ben si addice alla loro vocazione
solare e, nel contempo,
all'ubicazione nordica della fucina di Efesto, il dio del fuoco
per eccellenza.
Al riguardo è significativo che non solo l'Odissea, ma anche
l'Iliade attribuisca agli Etiopi rapporti particolarmente
stretti con gli dèi: "Zeus verso
l'Oceano, verso gli Etiopi senza macchia/ ieri partì, per un
banchetto; e tutti gli
dèi lo seguivano" (Il. I, 423-424): d'altronde, ciò può
ricollegarsi al fatto che
abbiamo localizzato l'area dell'Olimpo tra la Lapponia
finlandese e la Carelia,
non eccessivamente distante da questa singolare "Etiopia
artica". E nel Finnmark,
l'estrema regione settentrionale della Norvegia, i graffiti
rupestri di Alta
dimostrano l'esistenza di antichissimi insediamenti umani,
risalenti all'età
della pietra, allorché il clima era molto più mite di quello
attuale.
Infine, il nome del Tanafjorden, contiguo alla penisola
Nordkinn, si ritrova
tal quale in quello del lago Tana, la sorgente del Nilo
Azzurro, proprio nel territorio
dell'Etiopia attuale. E forse non si tratta solo di una
coincidenza: tra le
due Etiopie, quella artica di Omero e quella tropicale,
esistono relazioni inaspettate,
nonché suscettibili di sviluppi estremamente interessanti ai
fini dell'individuazione
della sede primordiale degli Indoeuropei: tra poco ce ne
occuperemo.
In
questo capitolo dedicato all'Oceano non possiamo non dedicare
qualche
parola ad una delle più celebri avventure della mitologia
greca: ci riferiamo
alla leggenda degli Argonauti, i quali, guidati da Giasone, a
bordo della nave
"Argo" si recarono nella lontana Colchide in cerca del "vello
d'oro", affrontando
le più incredibili peripezie sia nel viaggio di andata che in
quello di
ritorno, compiuti su due rotte diverse (ricordiamo che in
precedenza avevamo
localizzato la Colchide nei pressi dell'Eea, l'isola di Circe,
situata nell'arcipelago
delle Lofoten). Al riguardo, la narrazione più completa che ci
sia rimasta
è, purtroppo, di epoca tarda: si tratta delle Argonautiche del
poeta alessandrino
Apollonio Rodio, opera risalente al III secolo a.C.
Essa probabilmente trae
origine dalla trasposizione nel contesto mediterraneo di un
racconto antichissimo, addirittura precedente alla guerra di
Troia: nell'Iliade infatti viene citato
un figlio di Giasone, Euneo, signore di Lemno (VII, 468: in
tale isola sono
ambientate alcune vicende iniziali dell'equipaggio
dell'"Argo"), nonché svariati
altri personaggi tradizionalmente legati a questa avventura,
come Pelia ed
Eracle, tutti appartenenti alla generazione precedente a quella
dei protagonisti
del ciclo troiano; vi si menziona inoltre la città di lolco
(patria di Pelia e di Giasone),
che, seguendo la scansione del Catalogo delle navi, avevamo a
suo tempo
identificato con la località finlandese di Jolkka, sulla sponda
orientale del
golfo di Botnia.
Ricordando che, secondo Apollonio, gli Argonauti partirono
dall'Ellesponto,
percorsero parte del tragitto per via fluviale e poi sboccarono
nel mar
Cronio (l'Atlantico settentrionale), possiamo a questo punto
supporre che la loro
impresa rappresenti il ricordo di un antichissimo periplo della
Scandinavia,
effettuato, in senso antiorario, a partire dal Golfo di Botnia:
passando per i fiumi
ed i laghi della Lapponia essi dovettero raggiungere il Mar
Bianco, da dove
navigarono verso ovest, in direzione delle Lofoten, e infine,
dopo essere
riusciti a sfuggire al "terribile Eeta" avventurandosi per le
Rupi Erranti, discesero
lungo la costa norvegese per poi rientrare nel Baltico
attraverso lo Skagerrak.
Aggiungiamo
che Eeta, re della Colchide, e sua sorella Circe, signora della
vicina Eea, sovrani delle isole incantate dove "i raggi del
sole riposavano durante
la notte", erano figli del Sole e discendenti dell'Oceano (Od.
X, 138-139).
Inoltre, il figlio di Eeta, Apsirto - chiamato anche Fetonte,
tipico nome
solare - secondo la mitologia venne fatto a pezzi da sua
sorella Medea: qui abbiamo
una sorta di versione greca del mito di Lemminkäinen-Osiride,
che ci
conferma il rapporto tra l'isola di Eeta ed il sole di
mezzanotte (in un'altra circostanza,
la terribile ragazza getterà i pezzi di un ariete in un
calderone da cui
poi uscirà fuori un agnellino vivo, il che ricorda il mito del
Graal e ne conferma
l'originaria "solarità").
Notiamo ancora che Apollonio, in un passo in cui menziona
esplicitamente
Apollo e gli Iperborei, fa una diretta allusione alla
"amphilyke", la notte
chiara delle alte latitudini (Argonautiche, II, 671-675).
In definitiva, tutto ciò appare perfettamente congruente con il
quadro geografico
delineato dalla presente ricerca.
Prima di concludere questa breve digressione sugli Argonauti,
segnaliamo
quella che a noi sembra essere una singolarità, o piuttosto
un'anomalia,
contenuta nel testo dell'Odissea. Ci riferiamo al nome della
nave con cui Giasone
e i suoi compirono la loro impresa: "Quell'Argo che tutti
cantano" ("Argo
pasimélousa"; Od. XII, 70). L'anomalia sta nel fatto che, ad
eccezione di questo
passo, in nessun altro punto dei due poemi viene mai riportato
il nome di
una nave. Eppure nel mondo omerico di navi si parla in
continuazione:
il poeta dell'Iliade si sofferma lungamente sulle flotte della
coalizione achea, accenna
alla spedizione di Paride a Sparta e al suo ritorno con Elena,
racconta in
dettaglio la missione con cui Ulisse riporta Criseide a suo
padre, menziona la
nave di Protesilao incendiata dai Troiani; quanto all'Odissea,
vi si parla della
nave di Ulisse, di quella con cui i Feaci lo accompagnano ad
Itaca, di quella che
conduce Telemaco a Pilo, della "nave veloce" con cui il perfido
Antinoo tenta
d'intercettarlo e così via.
Ora, i cantori dei due poemi, pur diversissimi per stile e
temperamento,
hanno però in comune un'estrema analiticità, che sovente lì
porta a soffermarsi
sui più minuti particolari di ciò che raccontano: ed è proprio
questa loro caratteristica
a farci meravigliare del fatto che non menzionino mai i nomi
delle
navi di cui parlano. Ciò induce a sospettare che la nostra
inveterata consuetudine
di "battezzare" ogni nave, di ogni tipo e misura, dalla Santa
Maria al Mayflower,
dal Titanic alla corazzata Potemkin, in realtà nel mondo
omerico non
fosse affatto in uso. Questo però implicherebbe che dietro il
nome della nave
Argo possa esservi un altro madornale equivoco, del tipo di
quelli già rilevati
in precedenza. Al riguardo, partendo dalla constatazione che
"Argo" in Omero
è un toponimo con cui il poeta suole indicare sia la città di
Diomede, sia la
regione di Agamennone, sia più genericamente il Peloponneso e,
talvolta, l'intero
mondo acheo, potremmo chiederci se un antico errore di
trasmissione orale
o di trascrizione, magari in un contesto miceneo dove nel
frattempo poteva
aver preso piede il vezzo di attribuire alle navi un nome
proprio, abbia trasformato
un originale "Argei" (cioè "in Argo" o "nell'Argo", attestato
ad esempio
in Il. II, 108; VI, 224; XIV, 119; Od. IV, 174) nell'attuale
"Argo", metricamente
equivalente ma dal significato ben diverso. D'altronde il
significato
di "Argei" ben si attaglierebbe al successivo "pasimélousa",
composto da "pa-sì" ("da tutti", "fra tutti", "per tutti"), e
"mélousa" ("cantata", "decantata", "famosa").
Proviamo
allora a rileggere il verso in questione, unitamente a quello
che lo precede, dopo aver sostituito "Argo" con "Argei": "Sola
riuscì a passare
(per le Rupi Erranti) una nave marina/ cantata da tutti in
Argo, tornando
dal regno d'Eèta". In questo modo, oltre a mantenere un senso
compiuto
(forse anche più convincente rispetto alla versione
tradizionale), il
passo si allineerebbe con tutto il resto dell'opera omerica,
dove, ripetiamo,
di nomi di navi non si parla mai. È chiaro che, se così
stessero effettivamente
le cose, significherebbe che i mitografi greci sarebbero
incorsi in un
altro micidiale infortunio, coniando, a partire da quel
fantomatico "Argo",
il nome degli "Argonauti" (cioè "i navigatori dell'Argo"), mai
attestato in
Omero, per indicare l'equipaggio di una nave che in realtà non
aveva alcun
nome. In ogni caso, questa è una materia su cui l'ultima parola
tocca agli
specialisti.
Dalle imprese degli Argonauti passeremo ora ad un altro
itinerario oceanico,
anch'esso "ai confini della realtà", che a suo tempo avevamo
lasciato in
sospeso: ci riferiamo al temerario viaggio di Ulisse dall'isola
Eea "alle case dell'Ade
e della tremenda Persefone" (Od. X, 564). Per inciso, sarebbe
più corretto
tradurre il greco "Aìdao dòmous" con "case di Ade" e non
"dell'Ade": costui
infatti nei poemi omerici viene presentato sempre come un dio,
marito di
Persefone e fratello di Zeus; tuttavia per comodità
continueremo a seguire la
locuzione tradizionale. Ora, nell'Odissea questa avventura
costituisce una sorta
di intermezzo, che precede la definitiva partenza dell'Itacese
dalla dimora di
Circe verso Scilla e Cariddi; e forse qui, ancor più che
altrove, ci si aspetterebbe
un percorso calato in una dimensione fantastica, totalmente
sganciata dal mondo
reale: scopriremo invece che anche in questo caso non mancano i
riscontri
geografici (i quali oltretutto ci confermeranno la collocazione
dell'Eea nell'arcipelago
delle Lofoten).
Seguiamo dunque la nave di Ulisse che, partendo dall'isola di
Circe, procede
"lungo il fluire d'Oceano" (XI, 21) finché "ai confini arrivò
dell'Oceano
corrente profonda;/ là dei Cimmeri è il popolo e le città, di
nebbia e di nube avvolti;
mai su di loro/ il sole splendente guarda coi raggi,/ (...) ma
notte tremenda
grava sui mortali infelici" (Od. XI, 13-15; 19). Notiamo che
costoro
vengono tout court collocati dal Graves nell'estremo nord: "A
questa fredda regione
appartengono anche i Cimmeri, che a giugno possono godere del
sole a
mezzanotte, ma in inverno hanno il buio a mezzogiorno"262. Le
indicazioni
fornite da Omero sono coerenti con il percorso del ramo più
orientale della
Corrente del Golfo, che, dopo aver seguito tutta la costa
norvegese, fino alle
Lofoten e a Capo Nord, successivamente piega verso est,
addentrandosi nel
Mar Glaciale Artico: insomma l'Odissea colloca la terra dei
morti all'estremo
settentrione, cioè nella direzione del flusso della Corrente
verso plaghe deserte
e sempre più inospitali. Di qui la disperazione di Ulisse
allorché Circe gli comunica
la necessità di visitare le "case dell'Ade", prima di poter
tornare ad
Itaca: "...Mi si spezzò il caro cuore;/ piangevo seduto sul
letto e il mio cuore/
non voleva più vivere, vedere luce di sole" (Od. X, 496-498).
Insomma,
l'aver riscontrato, attraverso l'analisi della geografia
omerica,
la provenienza settentrionale degli Achei - peraltro già
sostenuta dal Nilsson
sulla base delle evidenze archeologiche "nordiche" riscontrate
sui siti micenei
- non solo conferma le ipotesi del Tilak sull'origine degli
Arii ma, più in generale,
consente finalmente di gettare una nuova luce anche sull'annosa
questione
della patria primordiale degli altri popoli appartenenti alla
famiglia indoeuropea,
nonché sul motivo che li spinse a migrare verso sedi più
accoglienti:
la poesia di Omero, "incrociata" con le conoscenze attuali
sull'evoluzione
del clima, ci dà la chiave per penetrare in ambiti finora
inaccessibili.
Ma nella memoria storica delle popolazioni indoeuropee è
rimasta qualche
traccia della loro vita precedente e delle ragioni della
diaspora? E su questo
argomento che adesso cercheremo di indagare.
Nella mitologia greca è ben presente il ricordo di un tempo
felice primordiale,
antecedente all'epoca del mondo cantato da Omero: si tratta del
regno
del dio Crono, corrispondente al latino Saturno, signore
dell'età dell'oro
(il cui ritorno è vagheggiato da Virgilio all'inizio della IV
Ecloga: "redeunt
Saturnia regna"). Secondo l'Iliade, Crono venne poi soppiantato
dai suoi tre figli,
che a quel punto si divisero il mondo: a Poseidone "toccò di
vivere nel
mare canuto,/ (...) Ade ebbe l'ombra nebbiosa/ e Zeus si prese
il cielo fra le nuvole
e l'etere" (Il. XV, 190-192). Questi versi sembrano adombrare
gli effetti
dell'affievolirsi dell'optimum climatico", che, dopo aver
raggiunto il culmine
attorno alla metà del III millennio a.C, al tempo dei due poemi
doveva essere
pressoché tramontato: infatti, attorno al 2000 a.C, il mite
periodo atlantico
aveva cominciato a virare verso la fase subboreale, con il
conseguente prevalere
delle tempeste, sia marine che atmosferiche, e con la
desertificazione
delle estreme regioni settentrionali, strette in una morsa di
gelo e di ghiaccio.
Tale situazione è ben rispecchiata nei "connotati" dei tre
figli di Crono, messi in evidenza in entrambi i poemi:
Poseidone imperversa sul mare con le
sue terribili burrasche, Ade, il signore dei morti, dimora in
un desolato contesto
artico e lo stesso Zeus presenta tutte le caratteristiche di un
"dio della tempesta",
con i vari epiteti ad esso connessi: "lanciatore di folgori"
("terpikérau-nos", Il. II, 478), "radunatore di nuvole"
("nephelegerétes", Il. I, 511), "nuvola nera" ("kelainephés",
Il. I, 397), "scagliatore di fulmini" ("asteropétes", Il.
VII, 443), "vasto tuono" ("erìgdoupos", Il. V, 672); quando
nevica fitto, è lui
"che agli uomini mostra quali sono le sue armi"
("piphauskòmenos tà ha kè-la", Il. XII, 280). Inoltre l'Iliade
plasticamente ricorda "la folgore del grande
Zeus/ ed il tuono terribile, quando dal cielo rimbomba" (Il.
XXI, 198-199):
non è quindi un caso che Walter Otto accosti la sua figura a
quella di Tesub, il
dio della tempesta hurrita274.
D'altronde,
"l'intera struttura dell'antica società indiana, e il suo
sistema
di guerreggiare, come li conosciamo attraverso i più antichi
testi in sanscrito,
ricordano spesso in modo singolare i racconti eroici
irlandesi"279: lo afferma il
Piggott, aggiungendo che "il carro da guerra degli Ariani in
India era essenzialmente
uguale al veicolo conosciuto in altre aree di colonizzazione
indoeuropea,
nella Grecia micenea e omerica, o nella Gran Bretagna
celtica"280. E
sempre lo studioso inglese ci dice che "i più antichi popoli di
lingua indoeuropea
in India erano appassionati della corsa col cocchio (...) La
corsa avveniva
lungo una pista fino a un segnale intorno a cui i cocchi
giravano e tornavano
indietro"281: le corrispondenze con il mondo dell'Iliade sono
evidenti.
Pertanto, anche alla luce del fatto che abbiamo trovato tracce
degli Etiopi
omerici, "estremi tra gli uomini" nel punto più settentrionale
della Scandinavia,
cioè nella penisola Nordkinn, non lontana dalla Varanger (il
che quadra perfettamente
con la "terra estrema" del Mahabharata ed il "Pairidaeza"
iranico), dall'insieme
di tutte queste considerazioni - ricordando anche l'ubicazione
della dimora
di Ade, dove Omero evoca gli antichissimi riti comuni al mondo
romano arcaico
ed a quello vedico - emerge che la Urheimat, cioè la sede
primordiale degli
Indoeuropei, come aveva già intuito il Tilak e come ci
confermano tante tradizioni
differenti, era probabilmente una terra artica, la quale ormai
può essere collocata
con precisione sulla carta geografica: si tratta dell'estremità
settentrionale
della Scandinavia, ovvero di quella sorta di "cappello " del
continente europeo,
affacciato sul Mar Glaciale, che va dalle ìsole Vesterålen alla
penisola di Kola ed
al cui vertice troviamo le penisole Porsanger, Nordkinn e
Varanger nonché l'isola
Mageröya e il Tanafjorden; fu qui (e forse anche più a
settentrione, nelle "isole
al nord del mondo " dei miti celtici) che, a partire da cinque
o seimila anni fa,
allorché la costellazione di Orione segnava l'equinozio di
primavera e il Dragone
indicava il Polo Nord, si sviluppò l'originaria civiltà
indoeuropea, nel periodo
climaticamente più favorevole che si sia mai verificato in tale
area.
Successivamente però l'optimum climatico" cominciò a declinare
e questo
segnò la fine del "regno degli dèi" (a cui fanno spesso
riferimento i documenti
egizi; ma ricordiamo che anche i Feaci vivevano accanto agli
dèi prima
di scendere nella Selleria, cioè nella Norvegia meridionale);
l'Edda dì Snorri ce ne dà un resoconto drammatico (del tutto
analogo a quello, riportato in precedenza,
dell'averto, in cui si narrava la distruzione dell'Airyana
Vaèjo, il paradiso
primordiale degli Iranici): "Verrà l'inverno chiamato
Fimbulvetr ('inverno
spaventoso'): la neve cadrà vorticando da tutte le parti; vi
sarà un gran
gelo e venti pungenti; non ci sarà più il sole. Verranno tre
inverni insieme, senza
estati di mezzo" {Gylfaginnìng, 51). Per inciso, questi inverni
ininterrotti
fanno pensare agli anni senza estate provocati da grandi
eruzioni vulcaniche,
anche in tempi recenti: pensiamo a quella del Tambora nel 1815.
I Protoindoeuropei
furono perciò costretti ad emigrare; ed ecco che attorno al
2000 a.C
troviamo la cultura achea attestata sulle sponde del Baltico: è
quella cantata nei
poemi omerici, dove è ancora vivo il ricordo dell'epoca felice
precedente, l'età
di Crono, poi soppiantato da Zeus, il dio della tempesta.
Più in generale, si può ritenere che il tracollo dell'optimum"
con ogni
probabilità abbia coinvolto non soltanto il nord della
Scandinavia, ma anche gli
altri bordi continentali situati tutt'attorno al Mare Artico,
comprendenti le coste
della Siberia, dell'Alaska, del Canada, della Groenlandia,
nonché le innumerevoli
isole ad essi adiacenti: si tratta di milioni di chilometri
quadrati, attualmente
inabitabili ma che fino a quattro o cinquemila anni fa erano
potenzialmente
suscettibili di insediamenti umani anche consistenti. In quel
periodo
eccezionalmente favorevole, durato per millenni, le terre
affacciate tutt'attorno
a quella sorta di "Mediterraneo Artico" che circonda il Polo
Nord, e che
allora era libero dai ghiacci, forse svilupparono una comune
civiltà marinara
ed uno stesso linguaggio, come il mito della Torre di Babele,
diffuso in tutto il
mondo fino alla Polinesia, sembra indicare. Il successivo
raffreddamento del
clima su aree tanto vaste dovette pertanto innescare movimenti
migratori di
immensa portata, provocati da una catastrofe ambientale
inimmaginabile.
Per inciso, "è ragionevole supporre che l'evoluzione climatica
nel corso
dell'Olocene sia stata la stessa per tutto il pianeta"289. Se
venisse dimostrato che
in una remota preistoria anche l'emisfero australe è stato
interessato da un "optimum
climatico", le prospettive per la primitiva storia dell'umanità
sarebbero
a dir poco
sconvolgenti. Tra l'altro si spiegherebbero le carte di Piri
Reis, risalenti all'inizio del XVI secolo ma presumibilmente
ricalcate su modelli assai
più antichi, che mostrano il profilo di un'Antartide libera dai
ghiacci; d'altronde
Dante Alighieri, che non di rado sembra attingere ad antiche
fonti tradizionali,
nel primo canto del Purgatorio, riguardo alle "quattro sante
stelle",
identificabili con la Croce del Sud, enigmaticamente le
definisce "a tutti ignoXefuor
eh 'alla prima gente".
I
corrispondenti di queste straordinarie figure mitiche li
ritroviamo anche
nella letteratura nordica: l'Edda di Snorri infatti si sofferma
a lungo sul
duello del dio Thor con il gigante Hrungnir, nel corso del
quale i due si colpiscono reciprocamente alla testa; nel
seguito della vicenda, Thor racconta di
aver trasportato sulle spalle un certo Aurvandill, sistemato in
una gerla; nel
corso dell'operazione, uno degli alluci dell'uomo si spezzò e
fu scagliato nel
firmamento, dove divenne la stella Aurvandilstà (per
approfondimenti sul rapporto
tra Orione e Aurvandill, che nelle Gesta Dan or um diventa
Horvendillus,
padre di Amleto, rinviamo all'"Appendice 2" del Mulino dì
Amleto): il tema del
duello rimanda al Sir Gawain, il trasporto sulle spalle e la
stella ad Orione,
mentre il tema della ferita alla testa è comune a tutti.
L'insegna dei cavalieri di Artù con ogni probabilità si
identifica anche
con quella descritta nel Beowulf, che il protagonista trova nel
tumulo dove il
dragone custodisce il tesoro: "[/« 'insegna tutta d'oro ("segn
eall-gylden")/ sospesa,
alta sopra il tesoro,/ meraviglia manuale grandissima, tessuta/
a mano
con ingegno" (Beowulf 2161-2169). Anche qui, il dragone sembra
rappresentare
il signore del cielo stellato: dunque il suo "tesoro" potrebbe
essere l'intero
firmamento, e l'"insegna" una particolare stella o
costellazione. Quale? Nelll'Odissea abbiamo già incontrato la
figura di Eracle, in tenuta da cacciatore (accostabile
dunque al personaggio di Orione), la cui cintura è un oggetto
assolutamente
straordinario, singolarmente simile all'insegna custodita dal
drago del Beowulf "Paurosa attorno al petto, a regger la
spada,/ scendeva una cintura
d'oro ("chryseos telamòn") (...)/ nemmeno con tutta l'arte
potrebbe rifarne una
simile/chi quella cintura lavorò con la sua arte" (Od. XI, 609-
610; 613-614).
Ora, in tale meraviglia ancora una volta non è diffìcile
riconoscere la cintura
di Orione, splendente nel cielo notturno: e così si spiega
anche perché la superba
immagine dell'eroe, che Omero ha probabilmente estratto da un
bagaglio
iconografico estremamente arcaico, appaia "simile a notte buia"
("eremnèi
nyktì eoikòs"; Od. XI, 606).
Dunque il Beowulf sembra voler sottolineare il rapporto tra
Orione e il
Dragone: si tratta delle due costellazioni che in quella
primitiva civiltà iperborea
dovevano essere ritenute le più importanti, in quanto a
quell'epoca, tra
il quarto ed il terzo millennio a.C, esse contrassegnavano
rispettivamente l'equinozio
di primavera, ossia l'inizio dell'anno, ed il segno del Polo.
Insomma
la cintura di Orione poteva a buon diritto essere considerata
l'insegna del dragone,
il signore della notte.
A sua volta, il Tilak nell'Orione si sofferma sulle convergenze
tra miti
greci, indiani e iranici riguardo a questa costellazione, e in
particolare
sulla cintura (che si ritrova ad esempio nel "kusti", il sacro
cordone dei Parsi), spiegandole
col fatto che durante il periodo orionico i vari rami della
stirpe indoeuropea
dovevano essere ancora indivisi. Il Tilak accenna anche a certe
mascherate
popolari di fine anno e d'inìzio dell'anno nuovo, attestate in
Inghilterra
e in Germania fino al Medioevo, le quali pure, a suo avviso,
sono riconducibili
alla medesima simbologia306: ora, è interessante osservare che
la vicenda
del Cavaliere Verde si svolge per l'appunto tra due Capodanni,
ad ulteriore
conferma della sua stretta relazione con il mito di Orione.
È
difficile poi sottrarsi alla tentazione di ricondurre alla
stessa tematica anche
altri simboli legati al ciclo arturiano: pensiamo alla colomba,
che appare
(evidentemente librata su nel cielo) nel giorno di Pasqua, cioè
in occasione
dell'equinozio: in effetti Orione ha pressappoco la forma di un
volatile stilizzato,
in cui le stelle della cintura rappresentano il corpo mentre le
altre corrispondono
alle ali spiegate; inoltre, con un po' di fantasia, nei suoi
lineamenti
non è difficile riconoscere anche qualcosa che potrebbe
rassomigliare ad una
coppa, ossia il calice del Graal. Ma pensiamo anche alla Tavola
Rotonda, con
i suoi dodici cavalieri, forse accostabile allo Zodiaco; o,
ancora, alla cerca del
Graal connessa alla "terra desolata": che essa si riferisca
alla corrispondenza
tra Orione ed il punto equinoziale, che in tempi remoti era
visualizzabile nei
santuari megalitici, ed alla sua successiva perdita, in seguito
allo spostamento
causato dal moto di precessione, messa in rapporto con il
contemporaneo abbandono
di una terra divenuta inabitabile a causa del tracollo del
clima? In tale
ottica, anche l'assonanza tra "Graal" e "Agrayana" potrebbe non
essere casuale.
In
ogni caso, la duplice valenza, stellare e solare, di Orione si
spiega proprio
con il fatto che questa costellazione (forse la più bella del
firmamento,
comprendente stelle brillanti come Betelgeuse e Rigel)
contrassegnava l'inizio
dell'anno; e il mito dei suoi amori con l'Aurora, così come ci
viene raccontato
da Omero (Od. V, 121), è in fondo un modo più poetico per
esprimere lo stesso
concetto: naturalmente si trattava di un'"Aurora" molto
particolare, quella
cioè che dava inizio al giorno dell'equinozio durante il
periodo orionico (notiamo
anche che il mitico eroe celtico Cùchulainn aveva una moglie,
chiamata
"Emer", che per alcuni studiosi è riconducibile all'aurora).
A questo punto si comprende come mai al tempo dei poemi omerici
l'Aurora
avesse un altro compagno, Titone (Od. V, 1). Con ogni
probabilità anche
in questo caso si trattava di una stella o una costellazione,
come ci suggerisce
il fatto che il suo nome è riconducibile al sanscrito
"didhyana", cioè "brillante"312.
Ma quale? Essa, a nostro avviso, si potrebbe identificare con
Aldebaran
("Alpha Tauri"), la stella più brillante della porzione di
cielo dove, attorno al
2000 a.C, il sole sorgeva all'equinozio di primavera. Per di
più il suo nome arabo,
che significa "l'inseguitore" o "il pretendente", esprime bene
il ruolo dell'innamorato,
svolto per un periodo molto lungo (il moto di precessione è
lentissimo:
appena un grado ogni 72 anni); e forse è proprio questo il
motivo per
cui la mitologia greca ormai considerava Titone, ossia l'amante
di turno dell'Aurora,
alla stregua di un vecchio decrepito (però immortale, come ben
si addice
ad una stella).
339 Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, pag. 202
340 Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, pag. 201
E che dire del fatto che nel mondo polinesiano si trovi un dio
dal nome
"egizio": Oro? Potremmo considerarlo un caso, però può far
riflettere il fatto
che l'anima dell'uomo e lo spirito degli antenati vengono
chiamati rispettivamente
"ko" e "bao"345, nomi che ricordano da vicino il "ka" ed il
"ba" degli antichi
Egizi. Inoltre, il nome delle piattaforme rituali polinesiane,
"marae" "costruzioni
in pietra più o meno complesse a seconda dell'importanza del
monumento,
il cui elemento essenziale era una piramide tronca"346 -
richiama
"il nome egizio delle piramidi (invece il vocabolo "piramide"
deriva dal
greco). Ancora, "in Polinesia si praticava, in taluni casi, la
mummificazione:
l'operazione veniva effettuata da specialisti e la tecnica
consisteva, dopo aver
estratto le viscere dall'ano e il cervello dalle narici, nel
trattare la pelle con applicazioni
di olio profumato, eliminando la carne e gli umori per favorire
l'essiccazione.
Le mummie si conservavano per molti decenni: a Samoa venivano
chiamate 'gli dèi seccati al sole'"347.
351 Popol Vuh, le antiche storie del Quiché, pag. 110, nota
42
Infine (ma la lista delle corrispondenze potrebbe continuare),
gli Indiani
americani immaginavano che le stelle dell'Orsa Maggiore
disegnassero la figura
di un'orsa352, proprio come facciamo noi. Però la disposizione
di questa
costellazione non rassomiglia nemmeno lontanamente ad alcun
tipo di animale:
pertanto dobbiamo considerare questo fatto - a meno di non
voler credere
ad una improbabilissima combinazione - come un ulteriore
significativo indizio
di antichi legami tra le culture del Vecchio e del Nuovo Mondo.
Nota 2:
Per le citazioni ho fatto ricorso ai testi menzionati in
Bibliografìa. In
particolare per quelle relative ai poemi omerici ho normalmente
seguito l'ottima
traduzione - in cui la numerazione dei versi segue quella del
testo greco
- di Rosa Calzecchi Onesti, che ringrazio sentitamente per la
simpatia dimostrata
nei confronti di questo lavoro, per la sua squisita
disponibilità e per gli
incoraggiamenti ad andare avanti. Per l'interpretazione dei
vocaboli e la traduzione
letterale di alcuni passi mi sono avvalso del Vocabolario
Greco-Italiano di L. Rocci. Faccio inoltre presente che i
corsivi all'interno delle citazioni
sono miei e non degli Autori: tra questi ultimi tengo
particolarmente a ricordare
la Chiesa Isnardi, autrice di lavori fondamentali per
addentrarsi nella letteratura
nordica, tra cui l'eccezionale I miti nordici; il Mastrelli,
autore di una pregevole
traduzione dell'Edda; la Koch e la Cipolla, la cui bellissima
versione
delle Gesta Danorum di Saxo Grammaticus - con le relative note
- mi è stata
di straordinaria utilità; il Pinna, con il suo pregevole saggio
Climatologìa, anch'esso
di basilare importanza per la costruzione della mia teoria.
Purtroppo qui
non mi è possibile ringraziare uno per uno anche gli altri
Autori, Traduttori e
Curatori ai quali ho fatto riferimento, nonché gli amici,
italiani e stranieri, che
mi hanno seguito ed aiutato: a tutti (ed in particolare a
Frederic Jueneman,
"editor" della versione inglese) va la mia grandissima
riconoscenza, perché senza il loro prezioso contributo questo
lavoro non sarebbe mai potuto crescere!
(Quanto ai detrattori, sento di dovere qualcosa anche a loro,
per la motivazione
supplementare che involontariamente mi hanno dato).
APPENDICE FOTOGRAFICA