La Collezione Whitaker
Direzione scientifica
di
VINCENZO TUSA
a cura di
ROSSANA DE SIMONE e MARIA PAMELA TOTI
VOLUME I
PALERMO 2008
© Fondazione Whitaker 2008
web-http: //web.tiscalinet.it/fondazionewhitaker/
museo.g.whitaker@tiscali.it
Fotocomposizione:
COMPOSTAMPA di Michele Savasta - Palermo
Stampa:
PUNTO GRAFICA - Palermo
Foto in copertina:
Giuseppe e Delia Whitaker assistono con amici agli scavi nella necropoli. Anni 1910-1915.
Per Antonella
Ad altri più appropriati studiosi è riservata la legittimazione e assegnato il corrispondente compito di
presentare e illustrare la Collezione archeologica Whitaker.
A me, nella veste formale di Presidente dell’Istituzione, compete soltanto di formalizzarne la paterni-
tà in capo alla Fondazione, per la migliore conoscenza dell’insieme dei reperti di cui è formata la raccolta
che porta e perpetua il nome del suo primo fondatore.
L’unico dato che trascende la sfera formale è costituito dal richiamo della voce “Mozia” contenuta
nell’Enciclopedia dell’Arte antica classica e orientale curata dalla Treccani. In essa si rende giustizia al ruolo VII
di Giuseppe Whitaker quale il vero iniziatore degli scavi dell’isola e si rende anche giustizia all’importanza
dei reperti, pubblicando il torso di una statua in pietra del luogo.
Desidero esprimere in queste righe introduttive la mia gratitudine, alla memoria di Giuseppe Whitaker
anzitutto, ed a quanti, a cominciare dall’impareggiabile Vincenzo Tusa, hanno dedicato la loro esperienza e
la propria cultura alla valorizzazione di tante ineguagliate testimonianze di un passato già appartenente al
patrimonio fruibile dell’umanità.
INDICE
VINCENZO TUSA
Già dopo l’istituzione della Fondazione Whitaker erano stati più volte avanzati progetti di pubbli-
cazione della ‘Collezione Whitaker’, in vista della quale si era avviato un programma di catalogazione
che aveva portato all’edizione di alcuni gruppi di materiali.
In anni recenti, la cura dell’opera era stata affidata alla professoressa Antonella Spanò Giammellaro,
docente di Archeologia fenicio-punica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi
di Palermo.
Era già conclusa la stesura del Piano dell’Opera, quando un triste ed ineluttabile destino la strap-
pava all’affetto e alla stima degli amici e della comunità scientifica tutta: certamente avrebbe portato a 3
termine l’impresa, non solo in considerazione delle specifiche competenze, che l’avevano portata ad esse-
re considerata il referente principale a livello internazionale dell’Archeologia fenicio-punica in Sicilia, ma
anche tenuto conto dell’impegno e della tenacia profusi in ogni attività intrapresa, ben noti a quanti la
conobbero.
L’attività di Antonella nel campo dell’Archeologia fenicio-punica ebbe inizio oltre trent’anni fa
quando, giovane studentessa universitaria, cominciava a frequentare le lezioni di Antichità Puniche che
tenevo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo: in questa disciplina aveva con-
seguito la Laurea, presentando una ottima dissertazione finale che lasciava intravedere i segni dell’estre-
mo rigore metodologico che avrebbe caratterizzato tanti successivi lavori.
I nostri rapporti sono stati sempre cordiali, assolutamente onesti e sinceri: la Cattedra di Antichità
Punica di quegli anni le fu debitrice di un lavoro assiduo e faticoso, sia per quanto riguarda l’attività
didattica, sia in relazione alle ricerche sul campo condotte a Mozia.
Gli anni che seguirono videro i suoi interessi scientifici volgersi a molteplici e variegati aspetti della
civiltà fenicia, con particolare riferimento alla Sicilia: numerosi lavori sono dedicati a diverse produzio-
V. Tusa
ni artigianali di tradizione fenicio-punica, vetri, gioielli, amuleti, uova di struzzo (in massima parte edi-
zioni di materiali inediti); per quanto riguarda la scultura, vari articoli hanno indagato la complessa pro-
blematica relativa al “Giovane di Mozia”, ai sarcofagi antropoidi e a produzioni scultoree nordafrica-
ne. Si aggiungono studi recenti di carattere storico-topografico sui centri di fondazione fenicia della
Sicilia, con particolare riferimento alle modalità insediamentali, all’urbanistica, alle necropoli (presen-
tati nell’ambito di Congressi Internazionali tematici). L’edizione di materiali inediti rientra sovente in
Cataloghi di Musei o esposizioni temporanee, in Italia e all’estero, delle quali ha curato anche l’appa-
rato didattico.
Dicendo ora della pubblicazione della Collezione Whitaker, Antonella, come sopra dicevo, stilava
il progetto: profonda conoscitrice dell’archeologia moziese, aveva elaborato una pubblicazione dei
reperti distinti per classi di materiali, curate da numerosi studiosi, indicati sulla base delle specifiche
competenze.
Per ragioni strettamente connesse ai finanziamenti necessari alla pubblicazione, il programma ini-
ziale, che prevedeva l’edizione di due volumi, ha dovuto subire una modifica sostanziale: data la grande
quantità e l’altrettanta varietà dei reperti verrà infatti pubblicata una serie di volumi distinti per classi di
4 materiali, editi in tempi diversi, come da Piano dell’Opera qui di seguito presentato.
Quale responsabile scientifico della pubblicazione designato dalla Fondazione Whitaker, ho incari-
cato della cura dell’edizione dei volumi Maria Pamela Toti, allieva di Antonia Ciasca, archeologa respon-
sabile, per conto della Fondazione Whitaker, dell’Isola di Mozia e Rossana De Simone, allieva di
Antonella, nel segno di una continuità che intende rendere omaggio a due indimenticabili figure di
donne e di studiose, protagoniste per lunghi anni dell’archeologia moziese.
Nell’auspicio di un felice raggiungimento dei nostri intenti, fidando nella collaborazione dei nume-
rosi studiosi invitati a partecipare all’edizione dei materiali, siamo certi che la pubblicazione della
Collezione Whitaker costituirà un contributo importante per la conoscenza della civiltà fenicia e punica
in Occidente, della quale Mozia costituisce oggi testimonianza intatta, scrigno da salvaguardare per le
generazioni future.
LA COLLEZIONE WHITAKER
PIANO DELL’OPERA
VINCENZO TUSA
VOLUME I
VOLUME II
VOLUME III
Gioielli ROSSANA DE SIMONE
Amuleti ADRIANA FRESINA
Scarabei e ushabti GABRIELLA MATTHIAE SCANDONE
Oggetti in osso lavorato, uova di struzzo GIOVANNA PISANO
VOLUME IV
VOLUME V
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Ceramica a v.n. MARIA GRAZIA GRIFFO
Ceramica acroma di età ellenistica ROSSELLA GIGLIO
VOLUME VI
VOLUME VII
VOLUME VIII
Arule ALESSIA TERMINI
Bordi di louteria NUNZIO ALLEGRO
Maschere e protomi MARIA PAMELA TOTI
Pesi da telaio FRANCESCA OLIVERI
VOLUME IX
VOLUME X
VOLUME XI
VOLUME XII
VOLUME XIII
Monete ALDINA CUTRONI TUSA
GIUSEPPINA MAMMINA
VOLUME XIV
VOLUME XV
VOLUME XVI
ROSSELLA GIGLIO
Il Museo intitolato a Giuseppe Whitaker occupa un’ala del pianterreno della Palazzina, che, dagli
inizi del Novecento, fu residenza della famiglia sull’isola di Mozia.
Lo spazio espositivo nasce come “ricovero” immediato del nucleo primigenio dei reperti archeolo-
gici rinvenuti in occasione delle prime ricerche promosse dal Whitaker sull’isola e posti all’interno delle
grandi vetrine bianche realizzate da maestranze locali, come risulta dalla documentazione d’archivio.
L’impronta del collezionismo dei primi anni ha naturalmente subito una evoluzione: nel corso della
sua lunga vita il Museo è cresciuto seguendo i cambiamenti avvenuti nella scienza della museologia, for-
nendo sempre un’immagine completa ed esaustiva della civiltà fenicio punica sviluppatasi sull’isola. 9
I mutamenti espositivi che sono stati realizzati nel tempo hanno lasciato traccia di sé e, come in uno
scavo archeologico, è possibile individuare oggi nel Museo una “stratigrafia” espositiva, dove ogni attivi-
tà, per continuare con la metafora archeologica, è chiaramente identificabile e racconta la propria storia.
La fase più antica, il momento della nascita, è la Collezione Whitaker, raccolta da un grande non
archeologo che, forse proprio perché spinto dalla passione e non da criteri solamente scientifici, riuscì
a trasmettere all’esposizione la capacità di essere senza tempo, quindi attuale anche oggi e forse per
sempre.
Gli oggetti, non solo archeologici, poiché sono custoditi nelle vetrine anche reperti malacologici e
faunistici dello Stagnone, raccontano la storia del territorio e illustrano la figura di studioso a tutto tondo
di Giuseppe Whitaker.
Con i materiali di Mozia sono presentati anche reperti provenienti da Birgi, la contrada sita sull’an-
tistante terraferma, dove sorge l’area archeologica allora ritenuta la necropoli di Mozia; non mancano i
ritrovamenti da Lilibeo, costituiti da numerosi reperti di varia cronologia provenienti dalla città che ere-
ditò il ruolo di Mozia nella Sicilia punica. Gli oggetti sono disposti per categorie e nella maggioranza dei
casi sono rigorosamente integri e ben conservati.
R. Giglio
Forse proprio in questa integrità dei materiali esposti può essere individuata l’unica pecca ascrivi-
bile a Whitaker: l’aver privilegiato il vaso intero senza tener conto dell’importanza anche dei singoli
frammenti utili per la ricostruzione della vita della città. Tuttavia, si può considerare questo aspetto pret-
tamente collezionistico un peccato veniale, riscattato dall’aver creato una delle prime raccolte archeolo-
giche museali legate al territorio ed all’ambiente circostante.
Ed è da sottolineare inoltre l’intuizione di Giuseppe Whitaker, avveniristica per i suoi tempi, nel-
l’aver consentito da subito l’immediata fruizione degli esiti delle sue ricerche, compiutamente studiate e
pubblicate nel 1921.
Negli anni intorno al 1960, per volere della figlia Delia, i reperti degli scavi più recenti (Missione
dell’Università di Leeds con il Prof. Isserlin e Missione congiunta della Soprintendenza alle Antichità
della Sicilia Occidentale insieme all’Istituto per la Civiltà Fenicio Punica del CNR e all’Università di
Roma ‘La Sapienza’) furono esposti nelle grandi vetrine che avevano ospitato la collezione ornitologica
del Whitaker (ora a Belfast ed a Edimburgo). Venne conservata la vecchia esposizione ma i materiali
degli scavi moderni furono presentati per contesti topografici, necropoli e tofet, e fu riproposta, in una
vetrina, una sepoltura in cista della necropoli.
10 Un’ulteriore crescita si ebbe nel 1988 quando, con l’istituzione della Soprintendenza per i Beni
Culturali ed Ambientali di Trapani, si procedette ad una revisione scientifica dell’esposizione, nella
quale, pur restando immutato lo spazio espositivo, si dotarono di didascalie gli oggetti e soprattutto
venne esposta la celebre statua del Giovane di Mozia, ritrovata nel 1979 a seguito di scavi condotti dalla
Soprintendenza Archeologica della Sicilia Occidentale insieme con l’Università di Palermo.
La maturità espositiva è stata raggiunta con l’allestimento eseguito tra il 1999 e il 2001, grazie ad un
progetto, finanziato dall’Unione Europea, volto al miglioramento della fruizione turistica degli immobi-
li storici dell’isola di Mozia, per mezzo del quale si è potuto coniugare il mantenimento dell’identità sto-
rica della vecchia collezione con una moderna esposizione dei materiali provenienti dagli scavi recenti.
Infatti lo spazio occupato dal Museo venne ampliato, accorpando tutti gli ambienti del pianoterra
della Palazzina, la residenza moziese dei Whitaker, per poter esporre una selezione dei materiali riguar-
danti i rinvenimenti effettuati tra il 1960 e il 1996 dalla Soprintendenza e da istituti universitari italiani
e stranieri che svolgevano sull’isola attività di ricerca scientifica.
L’esposizione comprende la sala didattica con il plastico dell’isola, recante l’indicazione delle zone
archeologiche con la evidenziazione delle strutture messe in luce e numerosi pannelli illustrati riguardan-
ti la storia dei Fenici e la loro civiltà.
Mozia. Una realtà museale
Dalla sala centrale, il vecchio cortile di servizio della Palazzina Whitaker chiuso con il lucernario,
dove è esposto il “Giovane di Mozia”, attraverso due porte si passa alla nuova ala espositiva.
La grande sala dal tetto a capriate, l’antica cucina Whitaker, ospita le vetrine e i pannelli relativi ai
ritrovamenti di epoca preistorica, ai materiali delle fortificazioni e a quelli provenienti dalle diverse zone
dell’abitato della città antica.
Le attività industriali svolte sull’isola, consistenti soprattutto nella realizzazione di vasi, sono illustra-
te dagli oggetti provenienti dalla ‘Zona Industriale a Sud della necropoli’ e dalla ‘Zona K/K Est’.
La sala posta in fondo è interamente dedicata all’esposizione dei materiali del Tofet, il tipico santua-
rio delle città fenicie di Occidente, studiato da Antonia Ciasca. Sono presenti le grandi stele iscritte, le
protomi e la maschera, le numerose statuette greche e puniche, oltre ai molteplici vasi relativi alla lunga
vita del santuario.
Infine tre vetrine sono riservate all’esposizione dei corredi della necropoli arcaica di Mozia, mate-
riali sia fenici che greci datati dalla fine dell’VIII al V sec. a.C. Sono pure presentati alcuni corredi di
sepolture della necropoli di Birgi, rinvenuti in scavi di emergenza effettuati dalla Soprintendenza di
Trapani nel novembre 1996.
Un grande pannello bianco costituisce un divisorio tra la nuova esposizione e l’ala Whitaker, la gran- 11
de sala dove si è mantenuta l’esposizione del nucleo primitivo della Collezione Whitaker, oggi tappa fina-
le dell’itinerario nel nuovo museo.
Ma come ogni cosa, anche quest’ultimo percorso museale sarà destinato a mutare, sia per le nuove
esigenze di fruizione da parte del pubblico, sia per le nuove scoperte effettuate nell’isola, che sono sen-
z’altro meritevoli di essere conosciute ed apprezzate.
Proprio per questo, alla luce della stretta connessione tra l’essenza di questo museo, nato specifica-
tamente per i ritrovamenti moziesi, e la ricerca archeologica sempre vitale e in continuo progresso, si ren-
derà presto necessaria una inevitabile e dovuta modifica di ciò che, solo pochi anni fa, sembrava essere
un punto fermo nella costituzione del Museo.
Poiché la Collezione è stata e rimarrà sempre il nucleo immutabile di questa realtà museale, in
questo contesto appare opportuno presentare una rapida rassegna dei materiali esposti nelle vetrine
storiche.
Attenzione particolare meritano gli splendidi vetri, con colorazioni blu e decorazioni policrome, in
piccole forme quali alabastra, aryballoi, amphoriskoi, oinochoai; questa produzione iniziò a partire dal
VII-VI secolo a.C. nel Mediterraneo orientale e continuò almeno fino al I secolo a.C., cioé fino alla
R. Giglio
invenzione della soffiatura. Sono presenti anche pendenti di collana configurati a testa umana; un esem-
plare, in particolare, riproduce una testa femminile bifronte. Numerosi sono i vaghi di collana, di forma
globulare o cilindrica, con decorazioni diverse; oggi sono esposti riuniti in collane, in alcuni casi rico-
struite arbitrariamente agli inizi del Novecento.
Pur se limitata quantitativamente è molto interessante la serie di gioielli esposti, che, insieme a moni-
li d’argento, provengono generalmente dalle necropoli di Mozia e Birgi; fra gli altri, un pendente d’oro
a disco, orecchini, anelli e pendenti d’argento (VII-VI sec. a.C.).
Particolare importanza rivestono gli amuleti, i cui soggetti trovano riscontro nella cultura egiziana;
le iconografie più frequenti sono riconducibili alle figure di Ptah, nano deforme, di Anubis con testa di
sciacallo, di Horus-Ra con testa di falco, di Khnum con testa di ariete (VII-IV sec. a.C.).
Anche alcuni degli scarabei (in steatite, pasta silicea o diaspro verde) sono in prevalenza di origine
egiziana; gli esemplari di Mozia sono incastonati in anelli digitali o utilizzati come pendenti o come ele-
menti di collane (VII-VI sec. a.C.).
Fra questi reperti ornamentali, un cenno particolare merita un gruppo di fibule bronzee, importate
dall’Italia centro-settentrionale (VII-VI sec. a.C.).
12 Di diversa tipologia sono i numerosi pesi da telaio, che testimonierebbero la fiorente attività di tes-
situra delle stoffe; sono esposti inoltre pesi da rete e oscilla, oggetti di bronzo (punte di freccia), armi di
ferro (lance, spade), reperti malacologici, ossei e fossili, fra cui anche zanne di elefante.
Per quanto riguarda la ceramica, oltre a quella di importazione corinzia e attica, sono esposti nume-
rosi esemplari, per lo più provenienti dalla necropoli, riconducibili ai consueti tipi fenici: brocche bico-
niche con orlo trilobato, bottiglie con orlo svasato a fungo, piatti, lucerne.
Merita particolare attenzione la scultura costituita da due grossi blocchi di calcare, che raffigura due
leoni che azzannano un toro; arule fittili decorate e il noto pavimento a ciottoli bianchi e neri attestano
a Mozia lo stesso tema iconografico.
Cronologicamente più recenti sono i numerosi reperti archeologici provenienti dall’antica città di
Lilibeo, si tratta perlopiù di corredi funerari, purtroppo smembrati, estremamente eterogenei, che offro-
no una panoramica varia ed interessante costituita da terracotte figurate e forme vascolari ben attestate.
A conclusione di questo rapido excursus non si può fare a meno di ricordare l’esistenza di una con-
sistente raccolta numismatica composta da esemplari di vario metallo e di varie epoche, provenienti da
Mozia e dal territorio lilibetano; una parte cospicua è costituita da materiale vario, acquistato dal
Whitaker nel mercato antiquario. Questo medagliere, recentemente schedato a cura della
Mozia. Una realtà museale
13
Giuseppe e Delia Whitaker in barca al molo di Mozia.
J. WHITAKER E MOZIA
VINCENZO TUSA
Già da tempo è nota l’attività della Fondazione Whitaker, creata e voluta da questa famiglia al fine
di una continua attenzione e valorizzazione del grande contributo dato all’archeologia siciliana soprat-
tutto per quanto attiene alla conoscenza della cultura fenicio-punica nell’isola e nel Mediterraneo.
La Collezione della Fondazione1 è il risultato, in massima parte, degli scavi condotti, tra il 1906 ed
il 1927, da Joseph Whitaker, la persona più rappresentativa di questa famiglia2.
Nato a Palermo nel 1850, dopo alcuni decenni ritornò dall’Inghilterra, dove aveva trascorso gli anni
dell’infanzia e della giovinezza, per recarsi a Marsala come collaboratore di Beniamino Ingham, suo
parente, che, come è noto, fin dagli inizi dell’800 praticava con molto successo l’industria ed il commer- 17
cio del vino “Marsala”.
Joseph non aveva attitudini specificatamente mercantilistiche come i suoi parenti; era portato agli
studi e alle ricerche nei campi più vari.
Occupandosi, ad esempio, dei suoi affari in Tunisia ne aveva approfittato per organizzare e condur-
re spedizioni di studio sugli uccelli di quella regione, il cui frutto più significativo era stato il volume The
Birds of Tunisia, pubblicato a Londra nel 1905, che a giudizio degli esperti ancora oggi conserva intatto
il suo valore scientifico.
Quando un contadino cominciò a portargli alcuni reperti archeologici provenienti da un’isoletta nei
pressi di Marsala, denominata San Pantaleo, rinvenuti dissodando il terreno per la preparazione dei
vigneti, Whitaker volle recarsi nell’isola, spinto da un interesse che aveva già manifestato in occasione di
altri scavi nel territorio di Marsala. C’è da ritenere che in queste gite fosse accompagnato da un fedele
collaboratore, il cavaliere Giuseppe Lipari Cascio, un vecchio garibaldino, persona molto nota e stima-
ta nel Marsalese.
1 2
FAMÀ 1990. TUSA 1988.
V. Tusa
Whitaker fu attratto da quest’isola anche per la sua posizione geografica – una zolla di terra emer-
gente in quel tratto di mare, non lontano da Marsala, che forma quasi un lago sbarrato ad Occidente
dall’Isola Lunga, una sorta di diga naturale. Tra le testimonianze archeologiche qualcuna, come la Porta
Nord, era ben visibile, per non dire imponente. Decise quindi di dedicare il suo tempo libero all’isola pro-
muovendo scavi e facendola conoscere al mondo delle persone colte: vi rimase fino alla fine della sua vita3.
L’isola era già relativamente nota agli specialisti sin dal Cinquecento, grazie al ritrovamento di alcu-
ni reperti che gli studiosi locali avevano fatto conoscere ai loro colleghi. Viaggiatori e geografi stranieri,
quali Cluverio e Houël, ne avevano descritto alcuni aspetti nelle loro opere, in particolar modo il secon-
do, che aveva illustrato la Porta Nord. Qualche scavo regolare era stato eseguito nella seconda metà
dell’Ottocento: nel 1875 era venuto nell’isola a condurvi una breve campagna di ricerche lo scopritore
di Troia, Tirinto e Micene, il famoso Schliemann.
Per condurre regolari campagne di scavi era necessario disporre del terreno. Whitaker, dunque, fu
costretto ad acquistare tutta l’isola, impresa non facile perché numerosi erano i piccoli proprietari che
da oltre un secolo ne possedevano gli appezzamenti, coltivati a vigneto. Ma Whitaker, aiutato da Lipari
Cascio, vi riuscì.
18 Un discendente di quest’ultimo, il colonnello Giulio Lipari, persona devota alla famiglia Whitaker,
mi raccontava che soltanto uno dei contadini non volle vendere la sua proprietà all’ “inglese” (in realtà
Whitaker era nato ed in parte cresciuto a Palermo). Il Lipari Cascio comprò allora a suo nome la pro-
prietà contesa e la rivendette poi al “Commendatore” (così era chiamato Whitaker).
Portata a compimento la lunga operazione di acquisto, Whitaker promosse varie campagne di scavo
che, iniziate nel 1906, proseguirono con interruzioni, dovute soprattutto alla guerra 1915-18, fino al 1927
mettendo in luce vari aspetti del passato dell’isola che, fino ai nostri giorni, hanno costituito la base delle
ricerche.
Furono scoperte la necropoli arcaica, la casa dei mosaici, abitazione di tipo ellenistico con il pavi-
mento del peristilio formato da ciottoli di fiume bianchi e neri levigati dall’acqua, la casa delle anfore e
infine alcuni tratti della cinta muraria, lungo il percorso dell’isola. Va menzionato anche un santuario di
tipo fenicio-punico, unico in Occidente (che ha riscontro soltanto a Cipro nel tempio di Aphrodite
Paphia), ubicato in una località detta “Cappiddazzu” a causa di un largo cappello che, messo in cima ad
3
TUSA 1988.
J. Whitaker e Mozia
un bastone tra le vigne, fungeva da spaventapasseri. Tra i vari saggi, va ricordato anche quello del tophet,
il famoso luogo sacro dove si deponevano le ceneri dei bambini consacrati alla divinità: di questo però
Whitaker non comprese la vera natura e poiché, a differenza della necropoli, non vi fu rinvenuto mate-
riale interessante, interruppe lo scavo: così mi fu detto dalla figlia Delia, che per un certo periodo ho
conosciuto e frequentato. I materiali di questi scavi, insieme a quelli acquistati altrove, provenienti
soprattutto da Marsala, si trovano ora nel Museo sito nell’isola, ideato e realizzato dallo stesso Whitaker,
Museo che costituisce una delle raccolte più importanti per la conoscenza della civiltà fenicio-punica del
Mediterraneo.
Whitaker descrisse in un volume, pubblicato a Londra nel 1921, i risultati degli scavi ed i materiali
conservati nel Museo, aggiungendo un’ampia introduzione di carattere storico; il volume è considerato
ancora oggi il punto di partenza per gli studi su Mozia e sulla civiltà fenicio-punica del Mediterraneo4.
In sostanza egli realizzò un’opera che è giudicata come un modello di intervento per una zona archeo-
logica, intervento articolato in quattro fasi. In primo luogo l’acquisizione di tutta l’isola, premessa che,
nata come si è detto per esigenze di studio, ha potuto rivelare appieno la sua importanza ai nostri gior-
ni, quando le zone archeologiche rimaste in mano ai privati sono state oggetto di scempi edilizi che cer-
tamente non avrebbero risparmiato l’indifesa isoletta. In secondo luogo la programmazione degli scavi 19
fu eseguita “sotto la supervisione dello Stato – come egli dice – nella persona del professor Antonino
Salinas, l’ultimo direttore del Museo Nazionale di Palermo”.
In terzo luogo la costituzione di un Museo sul posto stesso degli scavi perché chiunque potesse
vederne i reperti nel contesto di provenienza. Infine la pubblicazione dei risultati della ricerca storico-
archeologica allo stato compiuto.
L’impresa di Whitaker a Mozia richiamò numerose personalità sia italiane che straniere: il successo-
re di Salinas, Ettore Gabrici, Thomas Ashby direttore della Scuola britannica di Archeologia di Roma,
G.F. Hill, il noto numismatico del British Museum, sir Flinders Petrie, il famoso egittologo che regalò a
Whitaker un amuleto egiziano conservato nel museo di Mozia, e molti altri studiosi.
In conclusione il lavoro archeologico svolto da Whitaker a Mozia permise all’Italia di far sentire la
propria voce nel campo delle ricerche fenicio-puniche nel Mediterraneo; voce che ha aperto e spianato
la via alla continuazione di questi studi.
4
WHITAKER 1921.
V. Tusa
Biagio Pace, che a Mozia dedicò due dei suoi primi studi, parlando di Whitaker diceva che le più
grandi scoperte in questo campo sono avvenute ad opera di non archeologi.
Naturalmente, prima di ogni altro, si riferiva a Schliemann. Whitaker appartiene certamente a
questa schiera di pionieri (ed oggi penso a Ventris, il giovane architetto inglese che interpretò la
lineare B) che con la loro passione e la loro azione illuminata hanno contribuito al progresso degli
studi archeologici.
20
ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE
FAMÀ 1990 M.L. FAMÀ, La Collezione Whitaker: storia e prospettive future: AA. VV., Da Mozia a
Marsala. Un crocevia della civiltà mediterranea. Atti convegno, Marsala 4-5 aprile 1987,
Roma s.d.[1990], pp. 145-148.
TUSA 1988 V. TUSA, Joseph Whitaker e Mozia: R. Trevelyan, La storia dei Whitaker, Palermo 1988,
pp. 147-152.
WHITAKER 1921 J.I.S. WHITAKER, Motya. A phoenician colony in Sicily. London 1921.
Mozia. Biagio Pace e la Famiglia Whitaker ritratti di fronte all’ingresso della Palazzina Whitaker. Sono riconoscibili da sini-
stra Giuseppe Lipari Cascio, Giuseppe Whitaker, seduti Antonino Di Giorgio e Tina Whitaker, seduta in terra Delia
Whitaker.
BIAGIO PACE, LA FAMIGLIA WHITAKER E I PRIMI PASSI DELLA RICERCA
ARCHEOLOGICA A MOZIA*
PIETRO GIAMMELLARO
La storia della moderna ricerca scientifica su Mozia1 si apre con una breve nota pubblicata nelle
Notizie degli Scavi di Antichità, ad opera di un giovane archeologo siciliano, poco più che venticinquen-
ne. Si tratta di una prima, embrionale interpretazione dei risultati delle campagne di scavo condotte da
Joseph Whitaker tra il 1906 e il 1914, e ne è autore Biagio Pace, destinato a diventare in capo a pochi
anni una delle figure più rappresentative dell’archeologia italiana nella prima metà del Novecento.
Il primo incontro di Biagio Pace con la famiglia Whitaker va fatto risalire al 1914.
Il giovane archeologo era appena rientrato dalla Grecia, dove aveva frequentato per due anni la 23
Scuola Italiana di Atene sotto la guida di Luigi Pernier e di Roberto Paribeni. Aveva già al suo attivo
diverse pubblicazioni2 e una notevole esperienza di scavo, maturata prima in Sicilia (a Camarina con
2
* Desidero ringraziare Rossana De Simone e Maria Pamela Ben due monografie, una del 1908 (Contributi cama-
Toti per aver condiviso con me informazioni, materiali e rife- rinesi) e una del 1911 (I Barbari e i Bizantini in Sicilia) e
rimenti; il Prof. Vincenzo Tusa per la generosità con cui ha poco più di una decina di articoli; si tratta di saggi su temi
messo a mia disposizione il suo straordinario patrimonio di vari di filologia classica (I gioielli nel nuovo Menandro, in
conoscenze e ricordi; la Prof. ssa Gaetana Maria Rinaldi e il Römisches Mitteilungen XXV, 1910; plastai = trichopla-
Dott. Matteo Di Figlia per i preziosi suggerimenti e le rigoro- stai? Plut. Dion., in Bullettino di Filologia Classica 1913)
se indicazioni di metodo. di storia e archeologia siciliana (La poetessa siciliana
Dedico questo lavoro alla memoria di mia madre, Antonella Elpide, in ASSO 1912; Perillo agrigentino e il toro di
Spanò Giammellaro, che ha legato gran parte del suo percorso Falaride, in Bulletino di Filologia Classica 1913;
umano e professionale a Mozia, trasmettendo a tutta la sua fami- Archaiologikà. Notizie di scoperte e studi che riguardano la
glia e a coloro che l’hanno conosciuta il suo amore sviscerato per Sicilia, in ASSO XXXVIII-XL; Ceramiche ellenistiche sice-
quest’isola e per i suoi abitanti, antichi e moderni. liote, in Ausonia 1913), oltreché di numerosi contributi
1
Per tutti gli studi precedenti rimando all’ancora valida relativi agli scavi effettuati dalla Scuola Archeologica
history of research di ISSERLIN – DU PLAT TAYLOR 1974, Italiana di Atene a Rodi, Gortina, Patmos e in Asia
pp. 3-16. Minore.
P. Giammellaro
Paolo Orsi)3, poi a Creta, a Rodi e in Asia Minore (come allievo della Scuola di Atene, al seguito di
Paribeni)4.
L’incontro avvenne nel corso di una visita a Mozia, organizzata in occasione della presenza in Sicilia
dell’archeologo Antonio Taramelli e del Direttore della British School di Roma Thomas Ashby e guida-
ta da Pip Whitaker che aveva appena portato a termine la sua nona campagna di scavo e si accingeva a
pubblicare in un volume i risultati delle sue prime ricerche sull’isola5. Tra le ragioni della visita, va cer-
tamente individuata la necessità da parte di Whitaker di guadagnare credibilità agli occhi di un gruppo
di noti specialisti, in considerazione dei recenti contrasti con il nuovo Direttore del Museo Archeologico
di Palermo nonché Soprintendente agli scavi per la Sicilia Occidentale Ettore Gabrici.
L’avvicendamento di Gabrici ad Antonio Salinas, con cui Whitaker aveva sempre intrattenuto rapporti
di amicizia e collaborazione scientifica6, aveva costituito una vera e propria iattura per la prosecuzione
delle ricerche sull’isola. Il nuovo Soprintendente infatti, intuite l’importanza e le potenzialità del sito,
sosteneva che la responsabilità degli scavi dovesse essere affidata ad archeologi italiani7.
24 3
Nella ricostruzione della formazione scientifica di b, pp. 15-16), particolarmente interessante appare in questo
Biagio Pace, proprio a Paolo Orsi spetta una parte di rilievo, senso un documento recentemente edito dagli Archivi della
sia come modello e punto di riferimento per lo studio della Fondazione G. Whitaker: si tratta di una lettera di G. Lipari
Preistoria siciliana, sia soprattutto come primo maestro di Cascio datata al 27 Giugno del 1908 e indirizzata a Pip
“archeologia militante”. Sull’esperienza camarinese di Pace e Whitaker, dalla quale emerge con chiarezza il grado di coin-
sui suoi rapporti con Paolo Orsi cfr. CAPUTO 1955, p. 84; volgimento del Salinas non solo nella conduzione degli scavi
ARIAS 1955/56, pp. 5-7; RIZZA 1971, p. 346. di Mozia ma anche nelle scelte di musealizzazione dei reperti
4
Sulla frequenza della Scuola di Specializzazione in più significativi. Pare, per esempio, che proprio all’illustre
Archeologia di Atene e le campagne di scavo in Asia Minore archeologo si debba il suggerimento di collocare il monumen-
cfr. GIAMMELLARO C.D.S. b. tale gruppo dei due leoni che azzannano un toro all’ingresso
5
Il volume, preceduto da un breve articolo pubblicato del Museo dell’isola. Cfr. ACQUARO-SAVIO 2004, pp. 25-27.
7
sulla rivista Man nel 1920 (WHITAKER 1920), vedrà la luce nel Sulla questione cfr. TREVELYAN 1977, p. 330 e Doc. 2.
1921, col titolo Motya, a phoenician colony in Sicily. Nelle Con la campagna del 1914 si concludeva la prima fase delle
pagine successive farò riferimento alla traduzione italiana ricerche di Pip Whitaker a Mozia, interrotte a causa dell’or-
dell’opera, edita a Palermo nel 1991 e arricchita da tre inte- mai esplicito ostruzionismo di Gabrici e poi cessate in consi-
ressanti appendici, in una delle quali (GIUFFRIDA 1991) sono derazione dello scoppio della I Guerra Mondiale. La secon-
pubblicati i carteggi relativi alle campagne di scavo condotte da fase delle ricerche archeologiche sul campo di Whitaker
a Mozia da una missione dell’Università di Oxford e guidate (anni 1923-1927) è stata illustrata da FALSONE 1995.
da J. B. Isserlin nel 1955. È forse possibile riconoscere un documento della visita in
6
Le testimonianze di tali relazioni si trovano nei resocon- questione nella foto 2, risalente agli anni 1914-1915, che
ti di molti degli archeologi che a vario titolo lavorarono a ritrae da destra B. Pace, P. Whitaker, G. Lipari Cascio, T.
Mozia in quegli anni; oltre alle voci di B. Pace (cfr. infra Ashby e un quinto personaggio, presumibilmente identifica-
Appendice, Documento 2, pp. 35-36) e di V. Tusa (TUSA 1981 bile con A. Taramelli.
Biagio Pace, la famiglia Whitaker e i primi passi della ricerca archeologica a Mozia
Alla visita prese parte anche il giovane Biagio Pace che, in forza delle sue esperienze di scavo in
Levante, comprese subito la straordinaria importanza delle scoperte, che avrebbero potuto gettare
nuova luce sulla cronologia della prima colonizzazione fenicia in Occidente. Dopo lunghe discussioni,
Whitaker e Ashby chiesero a Pace di cimentarsi in un saggio di interpretazione: si tratta di quella breve
nota menzionata sopra, che costituisce, a detta dello stesso autore, uno dei suoi lavori migliori8.
La collaborazione scientifica con Pip Whitaker si trasformò in breve tempo in amicizia; Pace
cominciò a frequentare la famiglia al di fuori del ristretto ambito archeologico, accompagnandosi alle
due figlie di Pip, Delia e Norina, anche in circostanze più mondane9. In Tina (nata Scalia Anichini) potè
trovare non solo una valida interlocutrice su temi di storia moderna e contemporanea, ma anche,
soprattutto, un rapporto affettivo che egli stesso definisce «di tipo materno»10. Alla moglie di Pip
Whitaker, una donna dai molti e variegati interessi11, vengono attribuiti da Pace «un ingegno di vigore
maschile, un temperamento politico di prim’ordine»12. E in effetti non è difficile immaginare come la
spiccata attitudine alla “politica militante” di Tina dovesse suscitare lo stupore e l’ammirazione del gio-
vane archeologo, specie in considerazione delle idee da lei espresse pubblicamente in merito alla figu-
ra di Mussolini: mi riferisco al celebre manifesto propagandistico per le elezioni politiche del 1924,
destinato Al Popolo Siciliano da un anonimo (che sono io Tina Whitaker), in cui la Whitaker, parago-
nando la “rivoluzione fascista” a quella bolscevica, lodava Mussolini per aver «capito subito che distrug- 25
gere il ricco vuol dire distruggere il lavoro» e auspicava dunque che al Duce fosse concesso più tempo
per portare a termine il suo progetto politico13.
Questo appoggio iniziale dei Whitaker al fascismo dovette certamente cementare l’amicizia di Pace
con la famiglia inglese: con ogni probabilità proprio Pace svolse il ruolo di trait d’union tra il Gen.
Antonino Di Giorgio (che aveva sposato Norina Whitaker nel 1921) e i maggiorenti del partito fascista
siciliano, di cui egli stesso rappresentava un personaggio di spicco, nonostante la decisa estraneità alle
piccole faide e alle lotte tra correnti all’interno del partito14.
8 Cfr.
infra, Appendice, Documento 2, pp. 35-36. che documentano le discussioni tra l’archeologo e l’aristo-
9
Cfr. infra, Appendice, Documento 2, pp. 35-36 e Tusa cratica anglo-siciliana a proposito della suddetta pubblica-
1981 a, pp. 9-10. zione: cfr. fig. 3.
10 Cfr. infra, Appendice, Documento 2, pp. 35-36. Non a 11 Tra l’altro una passione per la musica, e in particolare
caso fu proprio Biagio Pace a caldeggiare la pubblicazione per il canto, che le valsero l’ammirazione di Richard Wagner.
della traduzione italiana del volume di Tina Whitaker Sicily Su questo aspetto della personalità di Tina Whitaker cfr.
and England, comparsa nel 1948 con una prefazione dello GIGLIO 1995.
stesso Pace. 12 Cfr. infra, Appendice, Documento 2, pp. 35-36.
Presso l’Archivio della Famiglia Pace è conservata 13 Cfr. RICCOBONO 1995, pp. 314-315.
un’interessante serie di lettere di Tina Whitaker, del 1947, 14 Cfr. DE STEFANI 1995, pp. 107-110.
P. Giammellaro
La acquisita parentela con Antonino Di Giorgio era destinata a condizionare in maniera determinan-
te la posizione dei Whitaker nei confronti della politica di Mussolini; una posizione che continuò a oscil-
lare, in concomitanza con le alterne fortune dello stesso Di Giorgio presso le alte sfere dell’apparato mili-
tare fascista. Questo mutato atteggiamento dei Whitaker, tuttavia, non influì in alcun modo nei rapporti
con Pace, che si mantennero più che amichevoli per tutto il corso della guerra: nelle sue Memorie egli
ricorda di aver ottenuto da Mussolini che le tre donne – Pip Whitaker era morto nel 1936 – non fossero
in alcun modo disturbate15. A mettere a repentaglio la tranquilità di Tina, Delia e Norina doveva tuttavia
concorrere, il 19 Novembre del 1941, l’arresto di Manfred Pedicini, figlio di Audrey Whitaker, per sup-
posti rapporti con l’antifascismo16. Nel menzionare questo episodio, Pace coglie l’occasione per sottoli-
neare la coerenza e la fermezza di Tina Whitaker, che scelse di non incontrare più il giovane Pedicini per
il resto della sua vita, convinta che «un gentleman non dovrebbe infrangere le leggi dell’ospitalità di un
paese il cui regime è stato tanto generoso con sua madre e con sua nonna, entrambe inglesi»17.
Le divergenze in materia politica, lungi dal rappresentare un motivo di rancore, sembra che costi-
tuissero piuttosto un interessante argomento per appassionate discussioni con Norina; quelle discussio-
ni che si concludevano sempre, afferma ancora Pace nelle sue Memorie, «con un accenno ad un attacco
26 d’asma della mia cara interlocutrice»18.
Anche dopo la guerra i rapporti tra Pace e le Whitaker si mantennero frequenti e intensi; dopo
lunghe insistenze, nel 1948 fu pubblicata la traduzione italiana del libro di Tina Whitaker, Sicilia e
Inghilterra, e fu proprio Pace a curarne l’edizione. Nelle premesse al volume egli ricorda le ragioni di
una così lunga amicizia, esprimendo tutta la sua ammirazione per una famiglia che aveva saputo coniu-
gare la fedeltà all’ideale di appartenenza alla nazionalità britannica con un amore sviscerato per la
Sicilia:
L’accogliente Villa Malfitano di Palermo parve al mio animo, volto ad un nazionalismo cui non ho mai rinunziato, un
esempio ammirabile del come si possa pervenire alla concomitanza delle passioni politiche dei vari paesi. Quella fedel-
tà a caratteristiche mentali e formali, tipica degli inglesi, in qualunque parte del mondo essi risiedano, si completa nei
Whitaker nel più schietto amore per la nostra terra. L’una e l’altro mostrano la medesima tenacia di ciò che è nutrito
da profonde radici19.
15
Cfr. infra, Appendice, Documento 2, pp. 35-36. TREVELYAN 1977, p. 375.
16 18
Su tutta la vicenda cfr. TREVELYAN 1977, pp. 374-377 e Cfr. infra, Appendice, Documento 2, pp. 35-36.
19
Documento 2, pp. 35-36. PACE 1948, pp. 5-6.
17
Dal diario di Tina Whitaker, Roma, 12 Maggio 1942.
Biagio Pace, la famiglia Whitaker e i primi passi della ricerca archeologica a Mozia
Biagio Pace continuò a frequentare l’isola di Mozia fino alla fine della sua vita. Si ha notizia di una
visita da lui condotta sul sito il 15 Maggio del 1950, con Giulio Quirino Giglioli, Pietro Griffo, Vincenzo
e Aldina Tusa e una comitiva di studenti della Scuola Superiore di Archeologia dell’Università di Roma20.
Infine va attribuita proprio a Biagio Pace l’idea della costituzione della Fondazione Whitaker, con
lo scopo di raccogliere l’eredità di Pip Whitaker sia dal punto di vista della ricerca archeologica sul
campo sia sul versante della salvaguardia, della conservazione e della valorizzazione del patrimonio natu-
rale e storico-artistico conservato a Mozia. Gli interventi in questo senso dell’archeologo siciliano sono
documentati ampiamente nell’epistolario di Delia Whitaker e soprattutto nei numerosi e appassionati
ricordi, orali e scritti, di Vincenzo Tusa21.
Il saggio del 1915 citato in apertura non è che il primo dei numerosi studi dedicati da Biagio Pace
alla civiltà fenicia e punica nel Mediterraneo22. I risultati degli scavi di Whitaker a Mozia aprivano nuovi 27
problemi e offrivano alla comunità scientifica nuovi dati e nuove prospettive, specie sul terreno della
comparazione: gli altri siti fenicio punici del Mediterraneo – e in particolare Cartagine – fino ad allora
considerati soltanto da un punto di vista “interno” o, peggio, con una prospettiva ellenocentrica, con-
sentivano ora, grazie alle importanti scoperte moziesi, uno studio complessivo del fenomeno coloniale
fenicio e punico e Biagio Pace, forte della sua straordinaria conoscenza di tutto il materiale documenta-
rio relativo alla sua esperienza sul campo in contesti di scavo nordafricani, si fece convinto promotore di
questo genere di studi “comparativi”, sottolineando in più di un’occasione la necessità di abbandonare
un approccio “classicistico” a favore di un’ottica “panmediterranea”23.
Tre sono i nodi attorno ai quali si addensa l’interesse di Biagio Pace in relazione alla civiltà fenicio-
punica.
Il primo è costituito dai tempi e dai modi della colonizzazione: un problema, questo, che aveva atti-
rato l’attenzione di tutti gli studiosi italiani o stranieri che prima di Pace a vario titolo si erano occupati
della Sicilia antica24. La cronologia dell’espansione coloniale fenicia nel Mediterraneo occidentale aveva
costituto tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento una questione centrale per la ricostru-
zione della più antica storia d’Europa, una questione non scevra da istanze ideologiche, connesse con
ogni evidenza all’ascendenza razziale della componente fenicio-punica e alla conseguente necessità di
minimizzare l’apporto semitico alla costruzione dell’identità etnica europea.
Se Adolf Holm ed Edward Augustus Freeman, nelle monumentali opere sulla Sicilia antica, aveva-
no superato il problema, accettando la priorità cronologica fenicia rispetto alla prima colonizzazione
ellenica – come peraltro indicato dalle fonti antiche – e collocando su un altro piano la “superiorità aria-
na”, gli studiosi italiani di poco successivi si erano invece sforzati, con argomenti scientifici decisamen-
te deboli, di ricostruire un quadro storiografico che vedeva i Greci come i primi veri “civilizzatori” del-
l’isola, relegando l’elemento semitico ad una posizione del tutto marginale, sia sul versante cronologico
28 sia dal punto di vista della cultura e della civiltà.
A seguito delle importanti scoperte di Mozia, Biagio Pace può riprendere in mano tutta la proble-
matica e, attraverso un attento esame dei materiali rinvenuti da Whitaker e dei loro contesti, formula una
nuova ipotesi che concilia il dato testuale fornito dalle fonti antiche con i risultati della ricerca archeolo-
gica sul campo in Sicilia e in Nord Africa. Sulla base degli studi di Beloch, Pace rifiuta la teoria di Gsell
secondo cui i Fenici sarebbero arrivati nella Sicilia occidentale percorrendo la costa meridionale dell’iso-
la, da Pachino a Lilibeo; si sarebbe trattato in questo caso di una navigazione d’alto mare, impensabile,
secondo lo studioso, per un’epoca così arcaica. Egli preferisce pertanto ipotizzare una navigazione di
abituali e più facili indagini nel campo puramente ellenico, grati dall’esame di antichi e nuovi materiali archeologici messi
costituisce uno dei problemi più interessanti ed uno studio dei in giusta luce. PACE 1919, pp. 85-86 e PACE 1925, coll. 179-
più proficui per la nostra archeologia. Perché se la potente 180.
24
superiorità dell’arte greca livellò molte apparenze, e fece Mi riferisco in particolare agli studi di Adolf Holm,
diventare quasi assolutamente greche le città puniche della Edward Augustus Freeman, Ettore Pais, Julius Beloch ed
Sicilia sovratutto nella loro monetazione, abbiamo nei testi Emanuele Ciaceri. Sul problema della presenza fenicia in
molti documenti della peculiarità della vita antica, nella Sicilia nella riflessione di questi autori mi permetto di rinviare
Sicilia occidentale, paese di specialissime condizioni geografi- a due miei recenti studi: GIAMMELLARO 2005 e GIAMMELLARO
che ed etnografiche, che aspettano di essere lumeggiati ed inte- c.d.s. a.
Biagio Pace, la famiglia Whitaker e i primi passi della ricerca archeologica a Mozia
cabotaggio dalla costa nordafricana, con un conseguente, notevole ribassamento della cronologia.
Quanto poi alla testimonianza tucididea, che consegna un’immagine della Sicilia come tutta circondata
da stabilimenti coloniali fenici, Pace prospetta in proposito una rigida dicotomia nella tipologia colonia-
le, tra colonie “commerciali” (quelle fenicie) e colonie “territoriali” (quelle greche e ancor più quelle
romane)25.
Questo modello di colonizzazione territoriale si contrapponeva decisamente al coevo modello colonia-
le inglese, percepito dalle altre nazioni europee come una mera operazione di sfruttamento, senza alcun
intento di civilizzazione. Una considerazione che Pace non manca di sottolineare in più di un’occasione:
«Occorre in proposito notare che i primitivi stabilimenti Fenici d’occidente altro non potevano essere […] che degli
scali marittimi lungo la grande traversata, agenzie commerciali, uffici di corrispondenza per acquisto o collocamento
di merci. Poche persone viventi in seno a villaggi indigeni, riunite se mai in quartieri speciali con privilegi di diritto
e di fatto, ma senza sovranità territoriale, simili a coloni moderni, secondo l’accezione che diamo alla parola quando
la riferiamo ad un nucleo di cittadini di un paese, stanziati in località straniera […]. Questo tipo di colonia dobbia-
mo immaginare che esistesse anche nell’antichità, là dove il fatto coloniale, prescindendo da possessi territoriali, mira-
va al puro esercizio del commercio. È facile comprendere come di questi stabilimenti si siano facilmente perdute le
tracce, non rilevabili per nulla dall’indagine archeologica; […] E si comprende anche come abbiano dovuto cedere e
ritirarsi, senza resistenza alcuna, davanti al progredire della colonizzazione dei Greci, i quali apparivano desiderosi di
stabilire un dominio politico e territoriale. I nuovi padroni non erano più, come gli indigeni, dei clienti. Commercianti 29
essi stessi, i Greci non lasciavano posto all’attività commerciale di altri forestieri. È forse la prima volta che viene docu-
mentato nella storia il conflitto tra l’attività coloniale di forma puramente economica e quella di diretto dominio, con-
flitto nel quale era ovvio dovesse prevalere quest’ultima.
25
La questione è in realtà più complessa: se già in occa- dei possedimenti sia riguardo ai rapporti più o meno stretti
sione delle avventure coloniali africane dell’Italia liberale con la madrepatria. Su tutta questa problematica cfr.
nazionalista il mito di Roma aveva sostenuto e legittimato CAGNETTA 1979, passim. Occorre sottolineare come questa
una politica espansionistica nel Mediterraneo, durante il ven- rappresentazione della colonizzazione fenicia come un feno-
tennio fascista l’imperialismo romano era diventato una vera meno di mero sfruttamento economico, seppur sfrondata
e propria bandiera ideologica della politica estera di dalle “scorie ideologiche” della prima metà del Novecento, è
Mussolini; la propaganda di regime, sostenuta dagli autore- giunta quasi fino a noi, se uno dei padri della moderna
voli interventi di storici e archeologi anche al di fuori del archeologia fenicio-punica, Sabatino Moscati, arriva a defini-
ristretto ambito accademico, aveva così veicolato un’immagi- re le colonie fenicie in Sicilia «monadi autosufficienti» (cfr.
ne della colonizzazione romana come della più capillare MOSCATI 1984, p. 16). Per una recente riconsiderazione di
opera di civilizzazione dell’antichità, superiore nelle forme e tutta la questione alla luce degli ultimi apporti dell’archeolo-
negli intenti persino al modello delle apoikiai greche. La gia, cfr. SPANÒ GIAMMELLARO 2000, che propende per una
tipologia coloniale greca rappresentava, in altre parole, un visione più equilibrata attribuendo ai Fenici di Sicilia non
passaggio intermedio fra l’estremo negativo delle colonie solo rapporti con le civiltà indigene ma anche un moderato
fenicie, basate sul commercio e sullo sfruttamento del terri- ma significativo interesse per la chora relativa alle proprie
torio, e il modello positivo romano, sia in termini di gestione fondazioni.
P. Giammellaro
A questi Fenici, agenti di commercio in Sicilia, deve essere avvenuto quel che tante volte in seguito hanno sofferto
quei loro affini e discendenti, che tenevano il campo in città dell’Oriente, e da queste hanno dovuto sloggiare al
sopraggiungere di un nuovo stato, dominatore e concorrente»26.
Si tratta, con ogni evidenza, di un netto giudizio di valore, che coinvolge, oltre ad istanze di ordine
etico-politico, anche la cosiddetta “civiltà artistica”. Giungiamo così al secondo nodo di interesse
mostrato da Pace nei confronti dell’elemento fenicio punico, e illuminato in maniera determinante dalle
scoperte di Mozia: mi riferisco al problema delle “attitudini artistiche” dei Fenici, che lo studioso ravvi-
sa come tendenzialmente assenti o, nella migliore delle ipotesi, decisamente evanescenti.
Già nel saggio del 1915 l’arte fenicia è definita come «un puro riflesso di quella dei popoli con cui
venivano in contatto»27. Dieci anni più tardi, in una sede altrettanto prestigiosa, Pace approfondisce la
questione, proprio a partire dai materiali della necropoli arcaica di Mozia: essi non presentano, a detta
dello studioso, «alcun carattere artistico che possa rilevarne comunque l’origine fenicia»28; la tradizione
orientale sarebbe cioè presente più negli schemi e nel contenuto che nella forma e i segni più tipicamen-
te fenici si limiterebbero ai simboli religiosi delle stele:
30 È vero che tale assenza di caratteri è dovuta anche alla vicinanza di una civiltà artistica di superiorità potente, come
la greca, la quale rapidamente si espande anche nel territorio fenicio della Sicilia. Ma questo mirabile processo di con-
quista culturale non potrebbe spiegarsi senza una scarsa resistenza delle caratteristiche fenicie.
Se queste sono le condizioni dei secoli e dei luoghi nei quali più s’affermava la potenza civile dei Fenici, come Mozia
[…], non potremo giudicare altrimenti pei secoli anteriori e, tanto più, in località nelle quali la loro presenza era sol-
tanto determinata da ragioni di commerci.
È intuitivo che altra cosa è essere commercianti, altra industriali ed artigiani; i Fenici furono ottimi commercianti, e
poco o niente industriali e artigiani29.
Gli unici elementi “artistici” presenti in Sicilia e Nord Africa la cui origine andrebbe indubbiamen-
te cercata in luoghi di civiltà orientale si riducono a tre soluzioni che oggi definiremmo meramente “tec-
nologiche”: il capitello eolico30, il cosiddetto “muro a telaio”31 e l’ingubbiatura rossa di alcune forme
ceramiche.
26 29
PACE 1925, col. 150; PACE s.d., p. 97; PACE 1935-1949, PACE 1925, col. 153; PACE 1935-1949, Vol. I, p.
Vol. I, pp. 231-233. 234.
27 30
PACE 1915, p. 455, n. 1. PACE 1925, col. 162.
28 31
PACE 1925, col. 153. PACE 1925, coll. 162-163.
Biagio Pace, la famiglia Whitaker e i primi passi della ricerca archeologica a Mozia
L’ultima questione su cui si concentra l’attenzione di Pace ha a che fare, e non a caso, col celebre
quanto discusso rituale semitico del sacrificio dei fanciulli. Anche a questo riguardo, i rinvenimenti
moziesi offrono allo studioso buon gioco per istituire una comparazione tra la realtà siciliana e quella
cartaginese, affermando tra le righe la «potente superiorità» della civiltà greca non solo dal punto di vista
dell’arte ma anche sul piano civile, morale e religioso.
Nel corso di una campagna di scavo condotta da Whitaker nel 1919 a ovest della Necropoli di
Mozia, erano state rinvenute infatti alcune stele accompagnate da vasi funerari contenenti ossa di uccel-
li, piccoli roditori, cani, gatti e anche rarissimi elementi di scheletri umani infantili. Due anni dopo, nel
1921, un santuario analogo era stato rinvenuto a Cartagine, presso il villaggio di Salambò; il contenuto
dei cinerari era stavolta costituito prevalentemente da resti di ossa di bambini appena nati32. Queste due
importanti scoperte costituivano la conferma dell’esistenza anche in occidente del «vecchio ed orribile
rito siro-palestinese del sacrifizio del primo nato, che i Cartaginesi praticavano certamente»33.
Attraverso un confronto incrociato tra la ceramica di Mozia e quella di Cartagine, Pace poté offri-
re agli scavatori di Salambò il suo contributo alla datazione degli strati del santuario. E tuttavia restava
da spiegare la discrepanza, significativamente definita «sostanziale»34, tra il contenuto dei cinerari mozie-
si e quello delle urne cartaginesi35. Un problema a cui Pace tentò di dare soluzione richiamando ancora 31
una volta l’apporto fondamentale della civiltà ellenica siceliota: basandosi sulla testimonianza delle fonti
antiche, lo studioso ipotizzò cioè che a seguito della vittoria siracusana a Imera nel 480 a.C., il sovrano
Gelone imponesse ai Moziesi l’abolizione di questi sacrifici umani introducendo questa «umanitaria
clausola»36 nei trattati di pace.
Come si evince da queste brevi riflessioni, l’approccio di Pace al complesso della civiltà fenicia e
punica in Sicilia e nel Mediterraneo non fu scevro da pregiudizi di ordine ideologico e razziale, come del
resto era stato per tutti gli studiosi che lo avevano preceduto. Tuttavia spetta proprio a Biagio Pace il
merito di aver richiamato l’attenzione e l’interesse della comunità scientifica su un patrimonio storico di
incalcolabile valore, conferendo ai resti della civiltà fenicia e punica di Sicilia una “dignità scientifica”
che tardava ad arrivare e contribuendo in maniera determinante alla formazione dei giovani archeologi
che a questo patrimonio avrebbero dedicato tutta la loro attività negli anni successivi.
32 35
PACE 1925, coll. 155-161. Una discrepanza che oggi si ravvisa dovuta allo stato anco-
33
PACE 1925, col. 157. ra embrionale delle ricerche di Whitaker nel tofet di Mozia.
34 36
PACE 1925, col. 160. PACE 1925, col. 160. Cfr. PACE 1921, p. 15.
P. Giammellaro
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Internacional sobre Temas Fenicios, Alicante 2000, pp. 295-327.
TREVELYAN 1977 R. TREVELYAN, Principi sotto il vulcano. Storia e leggenda di una dinastia di gattopardi anglo-
siciliani dai Borboni a Mussolini, Milano 1977 (London 1972).
TUSA 1963 V. TUSA, Un secolo di studi e di ricerche archeologiche in Sicilia, in La Sicilia e l’Unità
d’Italia, Milano 1962, pp. 955-980.
P. Giammellaro
TUSA 1981 A V. TUSA, Incontri con Delia: Nuove Pagine di lettere, scienze e arti 1 (1981), pp. 9-11.
TUSA 1981 B V. TUSA, Scavi a Mozia: Nuove Pagine di lettere, scienze e arti 1 (1981), pp. 11-20.
WHITAKER 1920 J. WHITAKER, Recent Archaeological Research at Motya: Man 20 (1920), pp. 177-180.
WHITAKER 1991 J. WHITAKER, Mozia. Una colonia fenicia in Sicilia, Palermo 1991.
34
Biagio Pace, la famiglia Whitaker e i primi passi della ricerca archeologica a Mozia
APPENDICE*
Documento 1 (Fig. 7)
CARTOLINA DI NORINA WHITAKER A BIAGIO PACE
ARCHIVIO PACE, Serie VII, vol. XXIX.
Prof. Biagio Pace
Presso il Museo delle Terme
Roma
Grazie della sua lettera. Penso che coi nuovi avvenimenti lei resterà al suo posto, è vero? La nostra amica ha fatto
ritorno da Roma alla fine della settimana scorsa e l’indomani, Domenica, è venuta a trovarci. Cordiali saluti da noi
tutti.
Norina Whitaker
Documento 2 35
ESTRATTO DALLE MEMORIE DI BIAGIO PACE
pp. 69-73.
Bozza dattiloscritta riveduta dall’Autore, che vi apporta di suo pugno numerose correzioni e segnala (anche con
annotazioni in margine) la necessità di spostarne alcuni segmenti. Del testo si fornisce la trascrizione, seguendo le
correzioni e le indicazioni autoriali.
In Italia un interessante argomento nuovo mi si offriva, con lo studio degli scavi di Mozia, il quale mi dava agio di por-
tare la mia attenzione su un coefficiente generalmente trascurato dell’antica civiltà siceliota, quello dovuto all’interven-
to cartaginese; considerazione che ha costituito un aspetto nuovo della mia interpretazione dell’antica civiltà dell’Isola.
La colonia fenicia di Mozia era stata riconosciuta già dal Cluverio nell’isoletta di S. Pantaleo, nel cosiddetto
“Stagnone” di Marsala. I suoi avanzi archeologici erano superficialmente noti, quando negli anni del secondo decen-
nio del secolo trovavano il loro Schliemann nel comm. Giuseppe Whitaker: questi apparteneva ad una nota famiglia
*
Si presentano qui per la prima volta due documenti Giacomo Pace, per avere messo a mia disposizione con
provenienti dall’Archivio Pace Gravina, custodito presso la liberalità le carte personali di Biagio Pace, contenute nella
residenza della Famiglia Pace, a Caltagirone (PA). Desidero Serie VII dell’Archivio, ancora pressoché integralmente
ringraziare la Famiglia Pace, e in particolare il Prof. inedite.
P. Giammellaro
inglese, fissata in Sicilia nell’età napoleonica, richiamata da un congiunto, quel Beniamino Ingham, che era stato uno
dei primi ad avvalorare il vino di Marsala. Giuseppe Whitaker era un tipo classico d’inglese, che aveva saputo conser-
vare le caratteristiche nazionali, pur essendo un appassionato siciliano. I suoi primi interessi scientifici furono rivolti
alle scienze naturali; raccolse un museo – destinandolo per testamento all’Università di Palermo – compì lunghi viag-
gi in Africa, e scrisse un’opera sugli uccelli della Tunisia che fa testo37. Nella sua vecchiaia si volse all’archeologia e,
riscattata l’isoletta di S. Pantaleo da una ventina di piccoli proprietari, iniziò la sua esplorazione, creando sul posto
un decoroso museo. Quando tornai dalla Grecia egli attendeva al completamento degli scavi e alla loro illustrazione,
che diede poi materia ad un suo eccellente volume38. Lo incontrai in occasione di un viaggio a Palermo dell’archeolo-
go Antonio Taramelli, il noto esploratore della Sardegna, e venni invitato a visitare le scoperte. M’era compagno il
dott. Thomas Ahsby, allora Direttore della Scuola britannica di Roma.
La morte del Salinas, amico dell’Whitaker, aveva interrotto una proficua collaborazione; il nuovo Soprintendente agli
scavi, prof. Ettore Gabrici, ignaro d’uomini e d’ambiente, dominato da mentalità gretta, aveva concepito ridicoli
sospetti su “questo inglese che faceva scavi”, ed inaugurato una politica di diffidenza e ostruzionismo.
La mia conoscenza degli scavi del Levante, gli insegnamenti di Pernier, mi diedero la possibilità di veder chiaro in
quello che pareva un groviglio di avanzi incomprensibili. Lo scavo offriva tutto un complesso di problemi nuovi. Le
necropoli consentivano risultati definitivi per la cronologia della colonizzazione fenicia in Occidente39. Al termine di
lunghe discussioni Whitaker ed Ahsby mi chiesero di dare un saggio delle mie interpretazioni e deduzioni. Le poche
pagine delle Notizie degli scavi, nelle quali delineai le idee fondamentali suggeritemi dagli scavi di Mozia, sono fra le
cose migliori che io abbia prodotto40. Quelle mie idee, accolte subito dallo Gsell, nella sua Storia antica dell’Africa
36 del nord41, sono ormai acquisite nel campo dell’archeologia del Mediterraneo; qualche riserva di Luigi Pareti, in una
mediocre rimasticazione dei miei articoli, non è altro che il tentativo di dar un qualche aspetto di novità ad uno scrit-
to che, onestamente, avrebbe potuto essere nulla più che una recensione espositiva42. Ma i quattro quinti dell’opera
di questo erudito sono di tal natura. Il mio articolo richiamò anche l’attenzione su Mozia del Dir. Gen. delle Belle
Arti, Corrado Ricci, il quale mi diede mano libera perché le nuove ricerche avessero luogo non ostante Gabrici43. La
consuetudine con Giuseppe Whitaker per ragioni di studio, si trasformò ben presto in amicizia cordiale con l’intera
famiglia. La signora Tina, nata Scalia Anichini, ingegno di vigore maschile, temperamento politico di prim’ordine –
ne ho scritto nella prefazione alla edizione italiana del suo libro Sicilia e Inghilterra – con un cuore italiano di figlia
di patrioti, divenne per me un sostegno di tipo materno; con le “ragazze”, Norina e Delia, stringemmo un’amicizia
37 41
Si tratta del volume The birds of Tunisia, London Si tratta della monumentale opera di S. GSELL, Histoire
1905. ancienne de l’Afrique du Nord. Tome IV La civilisation cartha-
38
J. Whitaker, Motya, a phoenician colony in Sicily, ginoise, Paris 1920, passim.
42
London 1921. L’autore si riferisce qui con ogni probabilità al saggio di
39
Questa frase è collocata nel dattiloscritto alcune righe Luigi Pareti, Sui primi commerci e stanziamenti fenici nei
più sopra. L’autore segnala tuttavia, con un’annotazione a paesi mediterranei e specialmente in Sicilia, in ASSO II Serie
mano, di spostarla in questo punto. X (1934), pp. 3-28.
40 43
L’autore si riferisce qui al suo saggio Prime note sugli Questo periodo è annotato integralmente a mano.
scavi di Mozia, in NSc (1915), pp. 431-446.
Biagio Pace, la famiglia Whitaker e i primi passi della ricerca archeologica a Mozia
calorosa e sincera, che ha resistito al tempo e agli eventi. Le settimane di maggio annualmente trascorse a Mozia, i
garden party a Villa Malfitano, gli incontri frequentissimi in riunioni e balli, nei comitati più o meno mondani, e le
belle gite, si colorano nel mio ricordo dei riflessi della più gioiosa giovinezza.
Agli amici Whitaker debbo sovratutto la conoscenza dello spirito inglese. Come in ogni luogo e in ogni tempo – forza
di quel popolo maledetto – quella famiglia residente in Sicilia da un secolo e mezzo italiana di sangue, era rimasta
integralmente inglese. Per molto tempo fu facile per essa una sintesi tra il fanatismo per il paese di origine, e l’amo-
re per l’Italia, ospite generosa. Con la guerra del ’40-43 la situazione mutò. Ma non ebbi a dolermi d’aver mantenu-
to l’amicizia, né di aver ottenuto da Mussolini, per tramite di Buffarini44 e di Bocchini45, che non fossero disturbate
le tre donne – il vecchio commendatore era morto nel [spazio vuoto nel dattiloscritto]46 – perché non ascoltai mai da
loro una parola che non fosse corretta; magari in ogni casa d’Italia si fosse pensato e parlato come presso i Whitaker!
Era in essi come un doloroso stupore per l’amicizia fra i due Paesi infranta; ma un rispetto assoluto del mio fervore
d’italiano combattente. Quando un loro pronipote, figliuolo di un generale italiano, si macchiò d’intelligenza col
nemico, in quella fangosa atmosfera di tradimento creata dall’antifascismo, la signora Tina ne fu indignata: né quan-
do, dopo l’infausto armistizio, il giovincello divenne eroe per il suo tradimento, la vecchia signora volle mai vederlo;
il suo sangue di figliuola di artieri del Risorgimento italiano, ribolliva di sdegno47. Nondimeno è al contatto con que-
sta eccezionale famiglia che ho potuto capire veramente cosa sia la convinzione messianica che ha costruito la politi-
ca di grandezza dell’Inghilterra; quel trovar lecito, giusto e nobile tutto ciò che riguarda il proprio paese, illecita, ingiu-
sta e indegna la medesima cosa, ove riguardi gli altri; quell’atteggiamento che da lontano sembra ipocrisia, e da vici-
no si scorge essere una deformazione mentale, che induce con spontaneità e convinzione gli inglesi a quel loro abo-
minevole modo di pensare e di agire. Nessuno vorrà trovar strano che io traessi siffatti insegnamenti da una cara ami- 37
cizia; era questione di temperamento critico. Le mie discussioni in proposito con la signora Norina, la più inglese dei
Whitaker nonostante il suo aspetto italiano, finivano sempre con un accenno ad un attacco d’asma della mia cara
interlocutrice.
44 46
Guido Buffarini Guidi fu Sottosegretario agli Interni J. Whitaker era morto nel 1936, all’età di 86 anni.
47
tra il 1933 e il 1943. L’autore si riferisce qui alla vicenda biografica e politi-
45
Arturo Bocchini fu Capo della Polizia dal 1926 al 1940. ca di Manfred Pedicini Whitaker. Cfr. supra p. 26, nn. 16-17.
P. Giammellaro
38
Fig. 1 - Mozia. Davanti ai Magazzini Enologici. Da destra: B. Pace, J. Whitaker, G. Lipari Cascio, T. Ashby e A. Taramelli (?).
Anni 1910-1915.
Biagio Pace, la famiglia Whitaker e i primi passi della ricerca archeologica a Mozia
39
40
Fig. 3 - Visita a Mozia di B. Pace con gli studenti della Scuola Superiore di Archeologia dell’Università di Roma (15 Maggio
1950). Al centro, Aldina e Vincenzo Tusa; a destra Biagio Pace.
Biagio Pace, la famiglia Whitaker e i primi passi della ricerca archeologica a Mozia
41
Fig. 4 - Visita a Mozia di Biagio Pace con gli studenti della Scuola Superiore di Archeologia dell’Università di Roma (15
Maggio 1950). Foto di gruppo di fronte all’ingresso del Museo.
P. Giammellaro
42
Figg. 5-6 - Mozia. Registro delle presenze sull’isola (15 Maggio 1950).
Biagio Pace, la famiglia Whitaker e i primi passi della ricerca archeologica a Mozia
43
La Collezione Whitaker consta di circa settemila pezzi, tra materiali integri e frammenti, conserva-
ti nella maggior parte nel Museo di Mozia ma anche esposti nel Museo Archeologico Regionale Baglio
Anselmi di Marsala e nella Villa Malfitano, sede della Fondazione Whitaker, a Palermo.
Giuseppe Whitaker, con grande sensibilità archeologica, radunò ed inserì nella sua Collezione tutti
gli oggetti provenienti dagli scavi di Mozia, Lilibeo e Birgi. Sono quindi presenti: vasellame fenicio e
greco, ornamenti personali, armi, monete, utensili metallici per i più diversi usi, elementi architettonici,
frammenti di statuaria greca e fenicia, reperti malacologici, reperti osteologici umani, provenienti da
sepolture, ed anche animali, come il cranio di un delfino o le zanne di un elefante. 47
Un inventario, c.d. “Registro di Entrata”, nel quale sono registrati poco più di quattromila pezzi, fu
redatto1 (Fig. 1), mano a mano che i materiali entravano a far parte della Collezione, da Giuseppe Lipari
Cascio, notabile marsalese che divenne il primo amministratore di Mozia.
Il “Registro di Entrata” disponeva di diverse voci: il numero di ordine, la data, l’oggetto, la prove-
nienza e località e le osservazioni2.
Soprattutto nel caso di acquisizioni di monete o comunque di oggetti appartenenti alla stessa cate-
goria tipologica, viene utilizzato un unico numero di inventario per individuare un lotto composto di più
esemplari (“n. 46 monete di bronzo provenienti da scavi nell’isola”). Non è infrequente inoltre che la
descrizione dell’oggetto sia molto generica e si attagli a più di un vaso, come nel caso delle anfore.
1
È chiaramente distinguibile la grafia di Giuseppe Lipari riferisce a quello del Registro di Entrata, mentre la sigla N.I.
Cascio da quella, molto più “calligrafica”, di Whitaker che fa riferimento al moderno inventario, redatto a partire dal
solo occasionalmente redige le voci del Registro. 1988, data della risistemazione e riapertura al pubblico del
2
Gli oggetti della Collezione possono essere identificati Museo Whitaker, curata dalla Soprintendenza ai BB.CC.AA.
da due numeri; se preceduto dalla sigla N.I.W. il numero si di Trapani. FAMÀ-TOTI 2005 con bibliografia precedente.
M.P. Toti
L’inventariazione dei materiali prevedeva l’apposizione di un cartellino sul quale era vergato il
numero di inventario, ma su buona parte dei vasi questa etichetta si è staccata, impedendo così il rico-
noscimento della provenienza dell’oggetto. Altre volte, invece, il numero scritto a matita direttamente
sul pezzo si è conservato, consentendo l’utilizzazione dei dati riportati sul Registro di Entrata per unifi-
care corredi tombali o comunque individuare contesti di appartenenza.
Nel campo delle Osservazioni si trovano le notizie più interessanti, come i commenti di altri studio-
si, ad esempio quello di C. Albizzati riguardo ad un’applique di bronzo proveniente da Lilibeo (N.I.W.
3350), per la quale suggerisce l’attribuzione al XVIII secolo e non al periodo romano. O anche la segna-
lazione dell’acquisto dell’oggetto su mercato antiquario, vedi il caso del canopo e dell’antefissa (N.I.W.
750 e 752), comprati da Antonio Fragola.
Questo campo può inoltre servire a segnalare la presenza di personalità all’atto del ritrovamen-
to dell’oggetto, ad esempio l’archeologo sardo Antonio Taramelli, in visita a Mozia, trova il 22
marzo 1915 presso Porta Nord due armille di argento (N.I.W. 3345), il Commendator Whitaker nel
1911 assiste al rinvenimento della lekythos a figure nere con la lotta tra Eracle ed il leone di Nemea
(N.I.W. 2417), proveniente da un sarcofago situato sotto le mura nella zona nord e la signorina Delia
48 Whitaker nelle sue passeggiate intorno all’isola trova monete di bronzo, vaghi di collana e una
lucerna araba.
Non mancano infine le annotazioni di Whitaker su confronti da lui riscontrati o sulla collocazione
degli oggetti all’interno delle vetrine del Museo.
Non è fuori luogo ricordare in questa sede l’esistenza di un ricco Archivio fotografico3, nel quale
oltre ad immagini riguardanti la vita per così dire “mondana” di Mozia (visite di parenti, amici, studio-
si) sono presenti immagini della vita archeologica moziese: foto di scavo, oggetti fotografati sul campo
(Fig. 2-3) e su improvvisati set (Fig. 4).
Le fotografie sono scattate da Whitaker con l’aiuto degli archeologi che visitavano Mozia, come
Antonino Salinas “moziese fin dal 1855”4 (Fig. 5), Biagio Pace o Thomas Ashby5. Proprio l’aver ripreso gli
oggetti al momento del rinvenimento o isolatamente ma con il cartellino recante il numero di inventario appe-
na apposto, ha consentito ulteriori identificazioni di vasi singoli e la ricomposizione di corredi tombali.
I primi materiali acquisiti per la Collezione sono quelli ritrovati negli scavi di Lilibeo (Marsala), pro-
venienti prevalentemente dall’area della necropoli6, frutto di scavi forse in parte condotti dallo stesso
Whitaker7 tra l’ottobre 1902 e il settembre 1903, ai quali sono da aggiungere altri oggetti acquisiti nel
corso di circa un ventennio8, per un totale di oltre duemilatrecento reperti.
Tra questi ultimi ci sono anche rinvenimenti effettuati nel corso di scavi eseguiti dal Comune di
Marsala ed in seguito acquistati o donati a Whitaker ed altri provenienti da collezioni private, come la
Cammareri Scurti o la Clark9.
Oltre ai materiali ceramici e metallici vengono puntualmente inseriti nell’inventario, e fotografati,
anche reperti osteologici, crani umani e le cassette litiche utilizzate come urne cinerarie, per le quali viene
annotato che sono in “pietra detta Argentiera”, proveniente dalla zona di Erice.
Dopo i reperti di Lilibeo sono registrati, in ordine cronologico, quelli ritrovati negli scavi della 49
necropoli di Birgi, situata sulle rive della laguna dello Stagnone, là dove arrivava un’estremità della stra-
da che univa Mozia (Porta Nord) alla terraferma10.
4 Marsala, tra via degli Atleti e Via Dante Alighieri. Per una
Secondo un’annotazione riportata sul “Visitor’s Book”
conservato nella Palazzina Whitaker a Mozia. In questo disamina sulle necropoli di Marsala CARUSO 2000.
7
libro, rilegato in pelle con la soprascritta in oro, era usanza Secondo DE GREGORIO 1917, p. 5, “...Lipari Cascio inca-
far apporre una firma ai visitatori e gli stessi Whitaker aveva- ricato dal commendator Whitaker, da tempo si è interessato a
no l’abitudine di annotare la loro presenza, facendo seguire tale necropoli, che ha grandi relazioni con quella di Mozia…”.
8
a volte la firma da un commento. L’ultimo oggetto registrato proveniente da Lilibeo è il
5 N.I.W. 4052, nel 1925, un lotto di tredici reperti appartenen-
È da sottolineare che questi illustri archeologi, oltre alle
foto più strettamente archeologiche, scattarono anche imma- ti alla Collezione Clark.
9
gini al paesaggio dalle quali emana tutto il fascino di Mozia. Si hanno notizie di altre raccolte private, appartenenti per-
6 lopiù ad inglesi, composte di materiali provenienti e da Lilibeo
I rinvenimenti risultano essere in maggior parte prove-
nienti da sepolture; è indicata la contrada ed il nome del pro- e da Mozia, vedi DE GREGORIO 1921, p. 5, e GIUFFRIDA 1992,
prietario del terreno dove è avvenuto il ritrovamento. Due p. 50.
10
sono le zone, ormai completamente assorbite dalla città Per la storia degli scavi e una presentazione di materia-
moderna, interessate: Contrada Cappuccini e Contrada San li provenienti dagli scavi antichi da ultimo GRIFFO 2005, per
Carlo. La prima ricadeva grosso modo nell’area dell’attuale un inquadramento del sito nell’ambito delle necropoli feni-
Corso Gramsci, l’altra è situata nella zona nord-est di cio-puniche del Mediterraneo SPANÒ GIAMMELLARO 2004.
M.P. Toti
Il primo rinvenimento, settembre 1903, di questa grande e ricca necropoli è una testina muliebre in
marmo bianco (N.I.W. 1372), ma è dall’aprile del 1905 che sembra si proceda a scavi sistematici che
fanno confluire nella Collezione materiali ceramici e metallici di qualità eccellente.
In tutto sono indicati come provenienti da Birgi quasi seicento oggetti, acquisiti in varie riprese:
aprile 1905, marzo 1906, ottobre 1907 e dal 1908 fino al settembre 1914.
Come nel caso di Lilibeo, anche per i ritrovamenti di Birgi è specificata la proprietà del terreno in
cui è stato eseguito lo scavo11.
Poiché per sei anni, dal 1907 al 1913 furono effettuati scavi a Birgi e a Mozia in compartecipazione
con il Museo di Palermo, sul Registro di Entrata gli oggetti affidati a Whitaker sono riportati in un set-
tore a parte, intitolato: “Copia del Giornale degli oggetti rinvenuti negli scavi di Antichità a Birgi e Motya,
negli anni 1907-1908 al 1913 con l’assistenza del personale del Museo Nazionale di Palermo, redatto per
ordine del Commendator Salinas e firmato dal soprastante A. Damiani. Fatto a Motya il 10 novembre 1913
(il verbale trovasi al Museo di Palermo)”. Per questi oggetti è adottata una doppia numerazione: si pro-
segue con l’ordine del Registro di Entrata, ma sui pezzi è riportato a matita un numero da 1 a 373. Di
questi poco meno di duecento risultano provenienti da Birgi.
50 Infine sembra che anche il Comune di Marsala fosse entrato in possesso di materiali rinvenuti a
Birgi, poiché nel marzo 1919 un lotto di poco più di venti oggetti viene acquisito e registrato come pro-
veniente da Birgi; nelle Osservazioni è riportato: “Dal Comune di Marsala, dalla Collezione Lipari Cascio”
o “Dal Comune di Marsala, dalla Collezione Cammareri Scurti”.
Così come per la necropoli di Lilibeo, anche per la necropoli di Birgi sono acquisiti alla
Collezione alcuni sarcofagi in calcarenite che sono attualmente posti nello spazio antistante il Museo
di Mozia (Fig. 6).
Nell’aprile del 1905 si trova registrato il primo ritrovamento di Mozia, un peso da telaio, rinvenuto
“nelle terre di Motya”.
A proposito delle provenienze moziesi è da sottolineare che non sempre è riportata l’indicazione del
luogo esatto di ritrovamento, ma si indica genericamente “Terre di Motya” o “Scavi di Motya” o ancora
“fra i ruderi”, “fra le pietre dei muri interni”.
11
Sarebbe interessante, utilizzando il catasto dell’epoca, legami con gli scavi effettuati nell’area della necropoli alla
attraverso i nominativi pervenutici, controllare eventuali fine del Ventesimo secolo.
Dallo scavo al Museo: la formazione della Collezione Whitaker
Questo fatto impedisce l’esatta collocazione del rinvenimento di oggetti di una certa importanza
come ad esempio la statuetta in calcare raffigurante la dea Cibele in trono tra i leoni (N.I.W. 1898).
Nella primavera del 1907 iniziano ufficialmente gli scavi a Mozia12 e sono registrati circa una deci-
na di oggetti, ritrovati “nelle terre di Motya”, fra i quali spicca una testina muliebre in marmo, rinvenu-
ta sulla spiaggia.
I ritrovamenti del 1908 sono più numerosi: è stata individuata la necropoli, quindi sono registrati i
primi corredi o vasi cinerari, e “nel fare il vigneto nella parte interna del muro di cinta che guarda nord”
si trovano una ventina di stele, forse il primo indizio della presenza del Tofet a Mozia.
Inoltre sono inventariati i capitelli dorici provenienti dalla “Casa dei Capitelli” (Casa dei Mosaici).
La maggior parte degli oggetti registrati nel 1909 proviene dalla necropoli e dalle sepolture sulle
quali sono state costruite le fortificazioni, come un’olla con coperchio, ritrovata “sotto le mura, lato est”
(N.I.W. 1941). Tra i materiali, oltre a quelli dalle “Terre di Motya”, continuano le testimonianze prove-
nienti dalla “Casa dei Capitelli”.
Nel 1910 aumentano gli oggetti provenienti dalla necropoli; per quel che riguarda le altre località
dell’isola, oltre alla “Casa dei Capitelli”, abbiamo un oggetto di bronzo proveniente dalla “Casa dietro la
piccola scala” (la Casermetta), un piatto da pesce rinvenuto “sul pavimento della casa dietro la grande 51
scala” (Torre Orientale), alcuni materiali provenienti da “Casa Nuova” (di incerta localizzazione, forse
nella zona nord) ed un anello con candelabro a sette braccia, ritrovato negli“scavi di Motya, sul lato di
ovest”.
I materiali del 1911 provengono come sempre dalla necropoli ma anche dagli scavi effettuati nella
zona di Porta Nord, dalla “Casa del Pollaio” (situata presso gli odierni Magazzini Enologici), ancora dalla
“Casa dietro la Grande Scala” e appare nominato per la prima volta “Cappiddazzu” come luogo di pro-
venienza di carboni rinvenuti in un pozzo13.
In questi anni i visitatori di Mozia appartengono perlopiù alla cerchia degli amici della famiglia
Whitaker e sono spesso fotografati durante la visita agli scavi, accompagnati dal padrone di
casa (Fig. 7).
12 Come ricordato dal promemoria alla nota 3. un “terreno vicino Porta Nord, per un mese, esteso per circa
13 Dai documenti di archivio, CXII B 19, sembra che solo 100 m2”. Nel maggio 1929 il permesso viene concesso e sono
nell’aprile del 1929 Whitaker abbia fatto domanda al condotti scavi regolari “con mezzi elargiti dal Comm.
Soprintendente Pirro Marconi per poter effettuare scavi in Whitaker”.
M.P. Toti
Nel 1912 la “Casa dei Capitelli” è menzionata per la prima volta con il nome di “Casa dei Mosaici”,
anche se nel corso degli anni successivi i due nomi vengono utilizzati indifferentemente. Sono riportati
ritrovamenti effettuati nelle acque dello Stagnone e come sempre continuano i rinvenimenti dalla necro-
poli, anche se in misura minore.
Gli anni 1914 e 1915 non sono molto ricchi di ritrovamenti, proprio in questo periodo è comunque
effettuata l’indagine sulla costa davanti Mozia, nella zona della Salina Anfersa (Infersa), nel corso della
quale sono trovate le testimonianze della frequentazione preistorica del sito. Come prevedibile nulla è
inventariato nel 1916 e solo cinque oggetti tra il 1917 e il 1918. Nel marzo 1919 sono acquisiti materia-
li provenienti sì da Mozia, ma di proprietà del Comune di Marsala. Nel maggio del 1919 continuano gli
scavi alla necropoli e iniziano i ritrovamenti di quella che inizialmente viene definita “nuova necropoli”
o “seconda necropoli” e che solo in un secondo tempo fu correttamente interpretata come l’area del
Tofet14. Gli oggetti registrati nel 1920 e 1921 provengono quasi esclusivamente dalla necropoli e dal
Tofet. Nel 1922 sono inventariati materiali ritrovati a “Cappiddazzu” e un nutrito lotto di oggetti è detto
proveniente dal “Ventennale Lipari” ovvero un terreno affidato ai fratelli Lipari, figli del primo ammi-
nistratore G. Lipari Cascio. Purtroppo non esistono mappe con l’indicazione esatta di questo terreno, si
52 è potuto solo genericamente situarlo nella zona centrale dell’isola. Alcuni dei materiali identificati sono
di ottima qualità come il vaso bronzeo a doppia testa femminile (N.I.W. 4031,4032). Dopo il 1922 le regi-
strazioni di ritrovamenti si fanno sempre più sporadiche per terminare del tutto nel 192915.
I materiali sono tutti collocati nel “piccolo museo, istituito dal Comm. Whitaker sull’isola stessa, onde
meglio conservare gli oggetti mobili rinvenuti, il quale Museo già incomincia ad essere interessante, non
forse per il valore intrinseco del contenuto, ma per la sua grande importanza storica”16.
Lo stesso Whitaker, in una lettera del 1932, rispondendo ad una lettera inviata da “L’Ospitalità
Italiana”17 con richiesta di informazioni sul Museo, afferma che “il Museo di San Pantaleo è fondato nel
1906, è privato, ma può essere liberamente visitato dagli studiosi… è piccolo ma interessante”.
La Collezione è attualmente esposta nelle stesse vetrine di legno verniciate di bianco realizzate ai
primi del ’900 e i materiali sono rimasti, nella maggior parte dei casi, disposti così come erano stati col-
locati, sotto la supervisione di Antonino Salinas, secondo una lettera del 1908 di Giuseppe Lipari
Cascio18, e come ci testimoniano fotografie dell’epoca (Figg. 8-9).
Sempre dalle fotografie d’epoca, si nota come non fossero state redatte didascalie per ogni oggetto,
ma si era preferito porre sopra la vetrina, a volte, solo l’indicazione generica della provenienza: Mozia,
Lilibeo, Birgi19 (Fig. 10). Le poche didascalie esistenti, ancora conservate, riguardano oggetti forse con-
siderati particolari: la foglia ritrovata da Whitaker dentro una tomba20 e accuratamente riposta in una
scatolina di latta di sigarette egiziane (Figg. 11-12), gli oggetti della Collezione Clark (Fig. 13)21, la punta
di freccia dono di Sebastiano Cammareri Scurti, notabile marsalese (Fig. 14), o ancora l’amuleto regala-
to a Whitaker dall’egittologo Petrie (Figg. 15-16)22.
Giuseppe Whitaker muore all’età di 86 anni nel novembre del 1936; la sua ultima visita a Mozia risa-
le al maggio 1933, come si evince dal Visitor’s Book.
Da allora il suo “piccolo ma interessante museo” è stato ampliato, sono aumentati gli oggetti in esposi-
zione, tra i quali spicca un capolavoro della statuaria greca, “Il giovane di Mozia”, ma la sala della Collezione
con le vetrine verniciate di bianco, continua ad emanare un fascino ammaliatore, immutato nel tempo.
53
18 Archivio Whitaker, C XII, B11, riportata anche in 27.V.25” 13 oggetti antichi ricevuti in dono dal Sig. Enrico
ACQUARO-SAVIO 2004. Clark di Marsala. Provengono, si dice, dalle terre vicino
19 Solo con la risistemazione della Collezione effettuata all’ospizio di mendicità di Marsala.”
22 “Dono del Prof. Flinders Petrie 1920. Terracotta da uno
nel 1988 vennero redatte didascalie per gli oggetti.
20 N.I. 4051, 24 maggio 1924: una foglia di pianta tuttavia dei templi di Abydos in Egitto, che forse sarà servita come una
abbastanza conservata per poter distinguere bene le venature. rappresentazione convenzionale di offerta ad una Divinità
Trovata in un vasetto intorno ad un’urna cineraria nella necro- come per esempio le due gambe anteriori di un montone o
poli antica di Mozia. qualche altro animale. p.c.f. Prof. F. Petrie/Abydos ii. 9, c.f.
21 “NI. 4052. Sezione Lilibeo 28 maggio 1925. Inventario Whitaker Motya p. 258”.
M.P. Toti
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WHITAKER 1921 J.I.S. WHITAKER, Motya. A Phoenician Colony in Sicily, London 1921.
Dallo scavo al Museo: la formazione della Collezione Whitaker
55
Fig. 1 - Pagina del Registro di Entrata: le prime due voci sono redatte da Lipari Cascio, le altre da G. Whitaker.
M.P. Toti
56
2 3
57
Fig. 5 - A. Salinas a Porta Sud: merlo fenicio e merlo palermitano (la didascalia è vergata da A. Salinas).
M.P. Toti
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Fig. 9 - Museo di Mozia: vista della parte sud dell’esposizione negli anni Venti del Novecento.
M.P. Toti
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Fig. 15 - Appunto di G. Whitaker sull’amuleto (?) ricevuto da Sir F. Petrie.
Fig. 16 - Amuleto (?) in terracotta donato da Sir F. Petrie.
Mozia. Set fotografico. Materiali preistorici.
GLI ELEMENTI DI INTERESSE PALETNOLOGICO
NELLA COLLEZIONE WHITAKER E LA PREISTORIA MOZIESE
SEBASTIANO TUSA
Pochi sono i reperti certamente attribuibili ad epoca preistorica presenti nella Collezione Whitaker
di Mozia. Ciò pregiudica la possibilità di poter trarre utili deduzioni al fine di delineare la più antica sto-
ria della piccola isola lagunare. Tale difficoltà viene accresciuta dalla mancanza di contesti preistorici
certi nell’immediato circondario. Tutte le presenze segnalate lungo l’antistante costa siciliana tra Marsala
e Trapani si riducono a rinvenimenti sporadici spesso privi di sufficienti notizie. Ad Erice, Paceco,
Marsala si attestano rinvenimenti che vanno dal Neolitico all’Eneolitico, ma privi di alcuna contestualiz-
zazione o certezza topografica. Anche la vicina Favignana offre interessanti indizi di presenza preistori- 67
ca a partire dal Paleolitico superiore, ma pur sempre privi di completezza.
Tuttavia se colleghiamo quanto conservato nella Collezione Whitaker con quanto desumibile dalle
ricerche che nei decenni hanno accresciuto le conoscenze sulla più antica storia di Mozia, il tentativo di
delineare la pre- e protostoria moziese, seppur arduo, diventa possibile. Anzi da tale confronto se ne
deduce qualcosa di originale che certamente migliora il livello delle nostre conoscenze finora controver-
samente interpretate.
Com’è noto Whitaker era convinto che quando i Fenici giunsero su Mozia l’isola fosse già abitata e
che indigeni e nuovi venuti realizzarono una pacifica coesistenza1. Anche Pace ipotizza l’esistenza di
indigeni a contatto con i coloni fenici, ma li attribuisce al neolitico2 e, pertanto, inconsapevolmente si
contraddice. Anche Whitaker attribuiva ai neolitici le ceramiche fatte a mano comprendenti pentole e
tegami che oggi sappiamo essere con certezza di epoca punica ed appartenere alla classe della c.d. cera-
mica da fuoco o da cucina. Si trattava, pertanto, di una doppia contraddizione poiché, da un lato rife-
1 2
WHITAKER 1921, pp. 227-228. PACE 1915; PACE 1935, p. 216.
S. Tusa
rendosi ad una sommaria conoscenza della preistoria, giudicava il neolitico estemporaneamente allunga-
to cronologicamente fino alle soglie della storia, dall’altro la presunta prova di tale presenza pre-fenicia
era in realtà basata su materiali pienamente punici.
In tempi più recenti la stessa idea del contatto tra Fenici ed indigeni è stata ripresa sia da Vincenzo
Tusa3 che da Bondì4. Entrambi basano la loro convinzione su elementi desunti sia dagli scavi inglesi
presso le Porte Sud e Nord, che da quelli del tophet. In effetti tra le tante ceramiche rinvenute ve n’era-
no alcune che potevano essere riferibili genericamente all’Età del bronzo. In più dagli scavi inglesi di
Porta Sud era pervenuto un frammento inequivocabilmente attribuibile alla facies del Milazzese della
Media Età del Bronzo. In maniera alquanto imprecisa e vaga veniva, quindi, ipotizzata una generica
presenza sull’isola di non meglio definiti indigeni dall’Età del Bronzo fino all’epoca della colonizzazio-
ne fenicia.
Tale ipotesi, come giustamente metteva in evidenza Falsone5, risultava alquanto vaga ed inaccetta-
bile poiché l’effettiva presenza di un livello attribuibile al Milazzese a Porta Sud non poteva presuppor-
re l’esistenza ininterrotta di un insediamento da quel periodo (XIII sec. a.C.) fino all’epoca della prima
presenza fenicia che, com’è noto, è stata posta tra il 720 ed il 710 a.C. a giudicare dai materiali rinvenu-
68 ti soprattutto nella necropoli arcaica e nell’area industriale. Ed anche se antedatiamo la frequentazione
fenicia di circa mezzo secolo o poco più (come proporremo più avanti sulla base di un reperto estrema-
mente significativo), tuttavia il margine di distanza tra l’attestata presenza preistorica e l’avvio della colo-
nia fenicia è talmente grande che, al momento, non possiamo che registrare l’assenza di alcun contatto
con insediamenti preesistenti sull’isola. Sulla base dei dati summenzionati e di quelli che analizzeremo
in seguito non possiamo che registrare la presenza di un periodo di circa quattro secoli o poco più di
totale assenza di occupazione su Mozia (dal XIII all’VIII sec. a.C.).
Ma vediamo con ordine quali sono le testimonianze preistoriche verisimilmente presenti sull’isola
sia sulla base dei dati della Collezione Whitaker che di ricerche successive. Whitaker, come dicevamo,
menziona un gruppo di quattro frammenti considerati neolitici6. La Bovio Marconi li identifica come
appartenenti all’Età del Rame (cultura della Conca d’Oro), ma uno con motivo ad X puntinato lo attri-
buisce addirittura alla facies del Bicchiere Campaniforme7. Falsone pur evidenziando larvate somiglian-
3 TUSA 1973, p. 32; TUSA 1979, p. 148. 6 WHITAKER 1921, pp. 261-265, fig. 42.
4 BONDÌ 1979, pp. 173-174. 7 BOVIO MARCONI 1944, p. 81; BOVIO MARCONI 1963, p.
5 FALSONE 1988. 99, 123.
Gli elementi di interesse paletnologico nella Collezione Whitaker e la preistoria moziese
ze con elementi di facies stentinelliana, ne giudica due8 pertinenti a tegole puniche del VI-V sec. a.C., il
terzo con scanalature parallele attribuibile ad epoca romano imperiale9, il quarto, già ai tempi dell’arti-
colo di Falsone, non era più rintracciabile nel museo di Mozia.
In realtà dal tipo di tecnica decorativa ed impasto mi parrebbe che i primi due frammenti siano per-
tinenti a ceramiche c.d. indigene di attribuzione elima databili tra l’VIII ed il VII sec. a.C.
Anche il frammento identificato dal Whitaker come crogiolo preistorico10 è da Falsone identificato
come ceramica punica di V sec. a.C., così come la ceramica da cucina fatta a mano che correttamente
Falsone indica come pertinente la produzione punica moziese11.
Da ciò che Whitaker attribuiva alla preistoria Falsone salva soltanto alcune fuseruole, gli utensili in
selce ed ossidiana ed un vaso conservato al Museo di Siracusa indicato come proveniente da Mozia che
è pubblicato dal Tinè come tipico della facies della Conca d’Oro12. Ma la provenienza di tale vasetto
potrebbe essere dubbia poiché probabilmente raccolto tra i resti di un insediamento preistorico nell’an-
tistante costa nei pressi della Salina Infersa.
La Bovio Marconi, nella sua opera di sintesi sull’Età del rame nella Sicilia occidentale, menziona
alcuni oggetti interpretabili come preistorici. Si tratta di “tre ciotole cilindroidi-tondeggianti” con prese,
già illustrate dal Whitaker13, che sono, invece da giudicare come pertinenti la classe di ceramiche d’im- 69
pasto da fuoco di epoca punica. Menziona poi il frammento già ricordato che giudica appartenente ad
un bicchiere campaniforme, i tre cucchiai fittili che associa a simili manufatti di Villafrati e Castelluccio,
varie fuseruole e l’idoletto di terracotta che descriveremo in seguito. Descrive poi oggetti in selce ed ossi-
diana tra cui la punta di freccia peduncolata, la cuspide a foglia e la lunga lama in selce a sezione trape-
zoidale14.
Nel suo dettagliato saggio Falsone giudica di incerta attribuzione preistorica altri tre oggetti. Si trat-
ta della figurina dal contorno a losanga15, giudicata dalla Bovio Marconi come assomigliante a tipi tessa-
lici (Dimini) e agli idoletti di Piazza Leoni (Palermo)16, un frammento di orlo di ciotola con bugna17 e la
parte inferiore di un vaso a clessidra in argilla grigia18.
8 14
FALSONE 1988, fig. 2 a-b; Pl. Ib. BOVIO MARCONI 1944: coll. 81-82.
9 15
FALSONE 1988, fig. 2 c. FALSONE 1988, fig. 4 a.
10 16
WHITAKER 1921, fig. 43; FALSONE 1988, fig. 2 d; Pl. I a. BOVIO MARCONI 1944, pp. 5-6.
11 17
FALSONE 1988, p. 33. FALSONE 1988, Fig. 4 b.
12 18
TINÈ 1961, p. 131, Pl. VI:3. FALSONE 1988, Pl. I d.
13
WHITAKER 1921, p. 262, fig. 44.
S. Tusa
Ovviamente preistorici vengono, come dicevamo, definiti dal Falsone gli utensili in selce19. Egli
menziona la lunga lama a sezione trapezoidale20 (n. 4), un raschiatoio21, una punta di freccia peduncola-
ta22 ed una punta foliata23.
Dall’esame dell’evidenza passata e dai risultati di scavi più recenti Falsone arriva alla conclusione
che a Mozia esisteva un insediamento databile tra l’Antica e la Media Età del Bronzo seguito da un perio-
do di assenza insediamentale prima della fondazione fenicia.
In realtà le uniche testimonianze effettivamente preistoriche, parzialmente corroborate da evidenze
stratigrafiche certe e da contesti sicuri, accertano la presenza di insediamenti databili tra l’Antica e la
Media Età del Bronzo (tra il XVIII ed il XIII sec. a.C.). Tali contesti furono rinvenuti nel corso delle
ricerche effettuate dalla missione inglese diretta da Isserlin e di quella dell’Università di Palermo diretta
da Vincenzo Tusa.
Presso la Porta Nord gli scavi inglesi misero in luce sulla riva del mare un preciso contesto consi-
stente in un livello nerastro sul suolo vergine, sottostante i livelli fenici. In tale livello furono rinvenuti
tre travi in legno appartenenti ad una struttura preistorica e una deposizione funeraria in pessime con-
dizioni con scarsi resti umani, un vaso frammentario e tracce di una spada in ferro del tipo Naue II24.
70 Presso la Porta Sud John D. Evans identifica due classi ceramiche fatte a mano interpretate come appar-
tenenti “ad una tradizione che va indietro all’età del rame anche se attribuibili cronologicamente ad epoca
pre-fenicia”25. Si tratta evidentemente di una attribuzione estremamente vaga e, pertanto, discutibile.
Ben identificabile con sicurezza è, invece, il ben noto e menzionato frammento con la tipica deco-
razione puntinata in registro su ansa a sezione piano convessa, attribuibile senza ombra di dubbio al
Milazzese26.
Ceramiche attribuite ad una fase pre-fenicia sono state menzionate nei resoconti di scavo del
tophet27. Tuttavia la loro attribuzione è tutt’altro che chiara. In altre sedi tali ceramiche, seguendo il
discutibile parere di Evans, vengono classificate come pertinenti la medesima facies di tradizione del
Milazzese28.
19 24
FALSONE 1988, p. 34, fig. 3 a-d. COLDSTREAM 1964.
20 25
FALSONE 1988, fig. 3d. EVANS 1964, p. 123.
21 26
FALSONE 1988, fig. 3c. ISSERLIN ET ALII 1964, p. 123, fig. 8,1, Pl.XIV a.
22 27
FALSONE 1988, fig. 3a. Mozia I, p. 57; II, pp. 44-45; III, pp. 19-23; IV:33.
23 28
FALSONE 1988, fig. 3b. BONDÌ 1979, pp. 173-174.
Gli elementi di interesse paletnologico nella Collezione Whitaker e la preistoria moziese
La vaga presenza di ceramiche preistoriche viene registrata anche all’interno di una torre delle fortifica-
zioni29. A tal proposito Falsone menziona la presenza di parte di una struttura a perimetro circolare al di sotto
di una torre della cinta muraria punica che a suo parere, potrebbe essere stata genericamente preistorica30.
Nell’area nord-orientale dell’isola, a Nord dell’edificio di “Cappiddazzu”, poco distante dalle fortifica-
zioni, nella zona K, dove Whitaker aveva eseguito scavi rimasti inediti, si è trovata traccia di un insediamen-
to dell’Età del Bronzo. Tali tracce sono definite dalla ceramica raccolta fuori contesto, insieme a materiali
più tardi di epoca arcaica, per effetto del taglio di buche per il vigneto. Secondo gli scavatori si tratta di cera-
miche della Media Età del Bronzo attribuibili alla facies del Milazzese (decorazione a nervature, coppe su
alto piede e tazze attingitoio) e dell’Antica Età del Bronzo, attribuibili alla c.d. facies di Rodì Tindari
Vallelunga (anse piano-convesse, fruttiere), simili a quelle rinvenute in un pozzo nell’area industriale31.
Lo stesso Falsone menziona quella che sembrerebbe essere l’evidenza preistorica più consistente
dell’isola di Mozia. Si tratta dei resti di un villaggio con capanne circolari con basamento litico in un
livello con ceramiche attribuibili alla c.d. facies di Rodì Tindari Vallelunga (anse ad orecchie equine)32.
Tale presenza, localizzata nell’area ove insistono le case moderne, appare essere la più consistente
prova dell’esistenza di un insediamento preistorico su Mozia33. Essa, infatti, si collega a quella identifica-
ta nell’area dei c.d. magazzini enologici dove è attestato un livello distinto con ceramiche inquadrabili in
71
una fase antica della cultura di Thapsos – Milazzese34. È, pertanto, plausibile pensare alla presenza di un
vasto villaggio capannicolo nella parte più alta dell’isola che visse durante quel lungo processo che vide la
cultura castellucciana lentamente trasformarsi in quella thapsiana attraverso quelle metamorfosi tipologi-
che che sono state definite di Rodì Tindari Vallelunga con chiari addentellati alla facies di Mursia.
Inequivocabilmente appartenenti alla c.d. facies di Rodì Tindari Vallelunga (che recentemente
abbiamo proposto di integrare parzialmente o nella facies di Castelluccio o in quella di Thapsos-
Milazzese a seconda delle caratteristiche tipologiche) con elementi di chiara assimilazione con la facies
ampiamente evidenziata attraverso gli scavi recenti dell’insediamento di Mursia a Pantelleria35, sono i
vasi rinvenuti al fondo di una cisterna nella c.d. area industriale36.
Sintetizzando appare certa la presenza a Mozia di chiare prove della presenza di insediamenti data-
bili tra l’Antica e la Media Età del Bronzo (XVIII-XIII sec. a.C.). Tuttavia, proprio nella Collezione
Whitaker registriamo la presenza di due piccoli vasetti piriformi (nn. 5-6), dei quali uno con decorazione
dipinta policroma, che possono essere, sia per la forma che per la decorazione, attribuibili alla facies di
Malpasso-Sant’Ippolito (fine dell’Età del Rame). Tali vasi potrebbero confortare l’ipotetica presenza del
citato vasetto eneolitico conservato a Siracusa. Pertanto dall’esame da noi effettuato risulterebbe l’indizio
di una presenza nell’Età del rame precedente quella ampiamente attestata dell’Antica Età del Bronzo.
Ed anche per il periodo posteriore alla Media Età del Bronzo riscontriamo la presenza di due ele-
menti della Collezione Whitaker che contribuiscono a colmare quel presunto periodo di assenza di trac-
ce insediamentali asserito da Falsone per la Tarda Età del Bronzo e gli inizi dell’Età del Ferro (anche i
materiali summenzionati rinvenuti dagli Inglesi a Porta Nord vanno ridimensionati ed attribuiti alla
Media Età del Bronzo. Cito, a tal proposito, la notizia che anche l’originale attribuzione ad una spada in
ferro del tipo Naue II sia stata dagli stessi studiosi inglesi messa in dubbio).
Si tratta della fibula ad arco semplice da attribuire alla facies di Pantalica sud (n. 8) e, soprattutto, del
frammento di brocca askoide nuragica (n. 10) (purtroppo il secondo frammento ad esso pertinente visto
dalla Ferrarese Ceruti non è più riscontrabile) che contribuisce a riproporre il tema della prima frequenta-
zione fenicia di Mozia, soprattutto per quanto attiene alla sua connotazione mediterranea ed alla cronolo-
gia. Tale approfondimento è possibile poiché disponiamo dell’eccellente saggio della Lo Schiavo che inqua-
72
dra in maniera precisa il frammento in questione37 datandolo tra la metà del IX e la metà dell’VIII sec. a.C.
Pur non colmando interamente il vuoto tra il XIII sec. a.C. e la fondazione di Mozia (720-710 a.C. sulla
base delle importazioni greche), tuttavia contribuisce da un lato a ipotizzare la presenza di un insediamen-
to più antico di quasi un secolo rispetto a quello tradizionalmente indicato e dall’altro a riaprire il dibatti-
to sulle frequentazioni fenicie precedenti la colonizzazione greca avvalorando il noto passo tucidideo. La
presenza del frammento nuragico potrebbe, infatti, insieme a quelli presenti nei contesti ausoni alle Eolie,
essere attribuita a frequentazioni fenicie delle coste sarde e delle coste siciliane già nel IX sec. a.C.
A tale evidenza dobbiamo collegare la presenza di alcuni indizi (ceramiche) che potrebbero far pen-
sare all’esistenza nella zona delle case moderne (Magazzini enologici) di un insediamento attribuibile
all’Età del Bronzo finale38.
Tale possibile frequentazione fenicia dalla metà del IX sec. a.C., ipotizzabile sia grazie al succitato fram-
mento che a considerazioni di carattere storico-archeologico generali (si ricordano i materiali d’importazio-
ne fenicia a Monte Finestrelle ed in molteplici necropoli dell’Età del ferro della Sicilia centro-orientale),
37 38
LO SCHIAVO 2005. SPATAFORA 2000.
Gli elementi di interesse paletnologico nella Collezione Whitaker e la preistoria moziese
potrebbe trovare conferma anche nella presenza di altri potenziali oggetti di origine nuragica. Tali sono i tre
cucchiai (nn. 16-18) definiti da Bartoloni “piccole lucerne di matrice nuragica” datati dallo stesso, però,
come il frammento di brocca askoide nuragica, al periodo finale dell’VIII sec. a.C. in relazione alla fonda-
zione di Mozia39. Tale datazione risulta, a mio avviso, estremamente bassa anche in considerazione dell’otti-
mo inquadramento fatto dalla Lo Schiavo sia per la brocca che per i cucchiai tra la fine dell’Età del bronzo
e gli inizi del ferro40. Tuttavia oltre alla datazione anche tale “matrice” nuragica risulta opinabile sia per l’as-
senza di precisi confronti che di tracce di bruciatura da fuoco sui tre cucchiai. Bartoloni asserisce che a Sulky
tali cucchiai-lucerne sono stati trovati nel tophet. È per questo che riteniamo, in linea con una vasta fenome-
nologia riscontrabile in molteplici siti siciliani, che si tratta di oggetti rituali collegati con i culti ctoni.
Consultando il catalogo Whitaker abbiamo trovato alcune voci inventariali che potrebbero essere pertinenti ad oggetti di epoca prei-
storica o protostorica che elenchiamo di seguito per completezza. Di tali voci inventariali non abbiamo trovato alcun riscontro tra
gli oggetti analizzati.
N.I.W. 2485, 2486: schegge di selce tra le ossa cremate. Mozia, necropoli 1911.
N.I.W. 3338: freccia di selce, Motya, settembre 1914.
N.I.W. 3339: coltello di selce e coltelli di ossidiana nei diversi scavi di Motya nello strato neolitico.
N.I.W. 3639: scheggia di selce. Porta Nord 1907-1913.
Per i due cucchiai in terracotta che si elencano di seguito non si è trovato alcun riscontro. Ma risulta probabile che siano i due
oggetti elencati dai quali è scomparso il numero inventariale originale. 73
N.I.W. 2127: cucchiaio di terracotta. Mozia 1910.
N.I.W. 2130: cucchiaio di terracotta. Mozia 1910.
Infine è interessante riportare quanto scritto dal Whitaker a proposito di sue ricerche sull’antistante costa nei pressi della Salina
Infersa o Anfersa. Da ciò che si evince risulterebbe certa l’esistenza di un insediamento costiero di tipo lagunare databile tra il
mesolitico ed il neolitico.
N.I.W. 3342-3344: Scheggia o raschiatoio in ossidiana e di altra selce con quantità di ossa di animali o avanzi di cucina … un mascel-
lare delle ossa rinvenute.
Spiaggia di Canale Anfersa, nel canale delle Saline del Senatore D’Alì a metri 15 delle scale che porta ai 3 Pini (forse stazione
di lavorazione delle pietre di epoca neolitica. Si avevano (?) avanzi di mattoni di terra cruda, come nelle capanne che si rinven-
gono a Motya, di cui si conservano i campioni. Durante la visita del Prof. Taramelli si è tornati a scavare sul posto e si è trova-
to il pavimento delle capanne ed altre schegge di ossidiana ed avanzi di cucina (22 maggio 1915).
N.I.W. 3932, 28 maggio 1919. Contrada San Leonardo, spiaggia Infersa, Canale delle Saline del Comm. D’Alì.
Esiste uno strato di terra nera friabilissimo che rimane in media 1 m. sotto il livello della Via Comunale.
La stratificazione è la seguente:
M. 1, terra e pietrame con ceramica greca, a volte con ceramica posteriore.
Segue lo strato di terra nera che è in media cm 45, in essa si raccoglie ceramica di impasto primitivo, ossi di animali e frammen-
ti di ossidiana.
Sotto lo strato nero comincia lo strato naturale della marna. Tale saggio fu fatto alla presenza del Sig. E. Gabrici, Direttore del
Museo Nazionale di Palermo.
39 40
BARTOLONI 2005, p. 570. LO SCHIAVO 2003, p. 109-111.
S. Tusa
Modellato a mano e malcotto. durante gli scavi della necropoli, composto da un vaso
Impasto rossiccio. cinerario (lasciato in situ), da un unguentario pirifor-
Cucchiaio con manico cilindrico rastremato e vasca me, da una bottiglia con orlo a fungo, da un attingito-
con versatoio con orlo distale abbassato. io e da una brocchetta con decorazione lineare oltre
Età del Ferro. all’anforetta in questione.
BARTOLONI 2005, p. 570. Integra. Lievemente abrasa in superficie.
Modellata alla ruota lenta.
Argilla grigia.
17. Cucchiaio in terracotta (Tav. III) Anforetta globulare schiacciata con fondo curveggian-
N.I. 3894.
te, spalla lineare, orlo distinto estroflesso ed anse a
Provenienza sconosciuta.
sezione circolare tra l’orlo e la spalla. Decorazione
Lungh. cons. 7; largh. 4,6.
dipinta in bruno consistente in una banda orizzontale
Frammentario del manico e di parte dell’orlo. campita da zig-zag poco al di sopra della massima
Modellato a mano e malcotto. espansione del corpo, da un elemento orizzontale a zig
Impasto bruno. zag non campito nella parte alta del corpo e da seg-
Cucchiaio con manico cilindrico e vasca con bordi menti paralleli sulle anse e sull’orlo.
omogenei. Età del Ferro.
Età del Ferro.
BARTOLONI 2005, p. 570.
20. Brocca con orlo trilobato (Tav. IV) 77
N.I. 2218.
18. Cucchiaio in terracotta (Tav. III) Provenienza sconosciuta.
N.I. 3893. H. 10.
Provenienza sconosciuta. Lacunosa nell’orlo.
Lungh. cons. 8; largh. cons. 4,5. Modellata al tornio.
Mancante di parte del manico e dell’orlo. Argilla rossa.
Modellato a mano e malcotto. Brocca globulare schiacciata su base a disco con orlo
Impasto rossiccio. distinto trilobato con versatoio ed ansa a sezione circolare.
Cucchiaio con manico cilindrico e vasca con bordi Età del Ferro.
omogenei.
Età del Ferro.
BARTOLONI 2005, p. 570.
21. Coperchio con presa (Tav. V)
N.I. 6586 (N.I.W. 4005).
Dal tophet.
19. Anforetta dipinta (Tav. IV) ø 22,5; H. presa 6.
N.I. 4391 (N.I.W. 3997). Ricomposto.
Necropoli arcaica. Modellato a mano.
H. 15; ø 15,2; ø orlo 5. Argilla rossiccia.
Fa parte del corredo di una tomba rinvenuta nel 1921 Coperchio a disco piatto con bordo indistinto squadra-
S. Tusa
78
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1 2
81
4
Tav. I
S. Tusa
5
82
6 8
Tav. II
Gli elementi di interesse paletnologico nella Collezione Whitaker e la preistoria moziese
10
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11-15 16-18
Tav. III
S. Tusa
84
19
20
Tav. IV
Gli elementi di interesse paletnologico nella Collezione Whitaker e la preistoria moziese
21 85
22
Tav. V
Mozia. Foto acquarellata. Vetri policromi.
I VETRI PREROMANI
Nel Museo G. Whitaker di Mozia si conserva una significativa raccolta di vetri provenienti dalla
necropoli arcaica dell’Isola, dalla necropoli di Birgi e da quella di Lilibeo. Per quanto pertinenti a cor-
redi funerari smembrati, essi vengono ad arricchire il quadro conoscitivo della documentazione vetraria
della Sicilia punica.
Le categorie in cui si esplica sostanzialmente la documentazione qui presentata, sono quelle dei bal-
samari in vetro policromo e degli oggetti d’ornamento (pendenti, collane e vaghi di collana) policromi o
monocromi che ripropongono tipi e forme ampiamente attestati in contesti culturali diversi dell’intero
bacino del Mediterraneo. 89
Essi si inquadrano in una produzione riconducibile ad una tradizione artigianale di origine vicino-
orientale1, che affonda le sue radici nel III Millennio a.C., e che si sviluppa nel corso del I Millennio
secondo gli stessi metodi di fabbricazione già noti in Mesopotamia e in Egitto nel II Millennio a.C.2
Si tratta, per quanto riguarda i balsamari, della tecnica c.d. “su nucleo”3: un nucleo costituito da un
amalgama di argilla, sabbia e leganti organici di grandezza proporzionale al vaso che si intendeva otte-
nere, veniva fissato all’estremità di una verga metallica e ricoperto più volte con vetro fuso prelevato da
crogiolo fino ad ottenere la forma desiderata; tra una fase e l’altra di questa operazione, l’oggetto in fieri
veniva introdotto nel forno ad altissima temperatura, per far sì che il vetro si solidificasse, aderendo stra-
to su strato. Ottenuta la forma prevista ed eseguiti i necessari ritocchi, si procedeva alla lisciatura su un
piano rigido e quindi alla decorazione, effettuata avvolgendo attorno al piccolo vaso filamenti vitrei dai
1 Per una trattazione compendiaria sul vetro nell’antichi- 3Sulle tecniche di fabbricazione del vetro preromano cfr.
tà cfr. WEDEPOHL 2003. STERNINI 1995, passim.
2 Sulla produzione vetraria nel Mediterraneo orientale nel Per una revisione aggiornata dell’intera problematica cfr.
corso del II Millennio cfr., da ultimo, SCHWEIZER 2003. SPANÒ GIAMMELLARO c.d.s.
A. Spanò Giammellaro
colori contrastanti rispetto a quello di fondo, che venivano disposti secondo il motivo decorativo desi-
derato (zig-zag, festoni, piume) con l’aiuto di un apposito strumento a pettine o a punta. Alla fine veni-
vano applicati bocca, anse e piede. Il vasetto veniva allora raffreddato lentamente, la verga metallica sulla
quale il nucleo era fissato veniva estratta e il nucleo stesso raschiato via.
Sostanzialmente uguale era il procedimento per la fabbricazione dei pendenti, i quali venivano
modellati direttamente su un’asta metallica, ricoperta tutt’al più da un sottile strato di argilla; per alcu-
ni tipi di questi pendenti, poi, era necessario ricorrere all’uso di stampi.
Quanto all’uso di queste due principali classi di oggetti vitrei, i balsamari venivano utilizzati come
contenitori di unguenti, profumi o cosmetici, da sospendere per le piccole anse al braccio o alla cintura
o da poggiare su piccoli supporti vitrei o aurei, e non è da escludere che fossero posti in commercio
colmi del loro contenuto prezioso.
Per i pendenti configurati a testa umana, destinati ad essere sospesi al collo, ne è evidente, oltre
all’intento ornamentale, la valenza magico-religiosa.
Anche per gli esemplari della Collezione Whitaker si pone una serie di interrogativi - riguardanti la
90 classe nel suo complesso - relativi alla localizzazione delle officine, all’individuazione dei canali di distri-
buzione dei prodotti e dei circuiti mercantili (che sembrano coincidere, in determinati periodi, con quel-
li di altri materiali provenienti dal Mediterraneo orientale e dall’area egea), alla funzione e al significato
sul piano sociale e culturale di questi oggetti di prestigio.
Non esistono elementi che, specificamente per i centri di Mozia, Birgi e Lilibeo, siano indicativi
delle possibili vie di arrivo dei prodotti vetrari, delle modalità di diffusione, dell’identità etnica degli
agenti commerciali; e se questi problemi risultano di assai difficile risoluzione in altre regioni
dell’Occidente punico, ancor più lo sono in un ambiente come quello siciliano dove il quadro storico è
“complicato” dalla prevalente presenza greca4.
Quanto a Mozia, una serie di indizi, già segnalati da A. Ciasca5 - frammenti di un quadro di assetti
e di rapporti ancora non ben delineato - induce a riflettere non solo sul probabile inserimento di Mozia
nella rotta che collegava i mercati del Mediterraneo orientale con il Tirreno attraverso le coste settentrio-
4
La questione è ampiamente discussa in SPANÒ 5 CIASCA 1988-89, pp. 82-83.
GIAMMELLARO c.d.s.
I vetri preromani
nali della Sicilia6, ma anche sulla eterogeneità di composizione dei gruppi “fenici” che percorrevano que-
sta rotta toccando la Sicilia, e su quelli che in Sicilia si fermarono7, fra i quali non è escluso che potesse-
ro annoverarsi anche componenti egee, e rodie in particolare. È stato notato8, inoltre, come alcuni ele-
menti di cultura materiale, già a partire dal VII sec. a.C. inducono ad ipotizzare un rapporto privilegia-
to con alcune delle realtà culturali indigene della Sicilia centro-meridionale che ricadono nell’orbita cul-
turale e politica rodio-cretese e con ogni probabilità con la stessa Gela.
I BALSAMARI
I balsamari conservati nella Collezione Whitaker si inquadrano nell’ambito della produzione medi-
terranea, sostanzialmente omogenea dal punto di vista tecnico e funzionale.
Grazie agli studi sistematici di D.B. Harden, M.C. McClellan e D. Grose9 si sono individuati tre
grandi “gruppi”, distinti cronologicamente e in relazione alle forme, ai colori e alle decorazioni utilizza-
ti, tenendo conto che, sostanzialmente, l’evoluzione morfologica di questi contenitori segue quella della
coeva produzione ceramica greca, di piccolo o grande modulo. 91
Soltanto i primi due gruppi sono rappresentati nella Collezione, con una prevalenza degli esempla-
ri del I raggruppamento, coerentemente con lo sviluppo e la consistenza numerica verificati nella classe,
nel generale ambito di attestazione10.
6 SPANÒ GIAMMELLARO 2001, p. 196. Il recente studio un’eventuale precoce identificazione Eracle/Melqart (cfr.
sulla documentazione di ceramica attica dai centri di ambito BONNET 1988, pp. 267-278), non resta tuttavia concreta trac-
fenicio e punico siciliano sembra rafforzare tale ipotesi: cia sul piano monumentale; né, come già segnalato, si eviden-
GRECO-TARDO 2003, pp. 109-110. Del percorso che doveva ziano consistenti indizi sul piano della cultura materiale,
collegare Mozia alla costa nord-occidentale della Sicilia, fino almeno per l’epoca alto-arcaica. Altrettanto lacunosa e tardi-
ad Himera, sembra rimanere, come sottolinea DE VIDO va è, peraltro, la documentazione relativa al culto di Astarte
1997, pp. 159-171, un’eco significativa nella “geografia” di Erice. Cfr. DE VIDO 1997, pp. 400-407.
7
delle mitiche imprese di Eracle nell’Isola. Il racconto di tali CIASCA 1994, p. 373; CIASCA 1988-89, p. 88.
8
imprese, che secondo la studiosa sarebbe riduttivo conside- SPANÒ GIAMMELLARO 2000 b, p. 314.
9 HARDEN 1981; MCCLELLAN 1984; GROSE 1989. La clas-
rare soltanto come indicatore di una delle vie di ellenizzazio-
ne, lascia intravvedere entità etniche “barbare” non meglio sificazione di Grose sarà quella di riferimento, nel corso della
qualificate, suggerendone ampie zone di interferenza e/o trattazione.
10 Va sottolineato come non siano finora documentate,
commistione con l’ambiente greco. Di queste commistioni,
che almeno dal punto di vista mitico-religioso potrebbero nei centri di fondazione fenicia della Sicilia, le forme che
essersi delineate già nella prima età coloniale, così come di caratterizzano il III Gruppo Mediterraneo; queste, piuttosto,
A. Spanò Giammellaro
I Gruppo Mediterraneo
I balsamari afferenti al I Gruppo Mediterraneo, datato tra la seconda metà del VI e la prima metà
del IV sec. a.C., sono stati suddivisi da Grose, che utilizza le sequenze morfologiche elaborate da
Harden, in otto classi differenziate dal punto di vista cronologico o per le caratteristiche tecniche, tal-
volta indicative di probabili, specifici, centri di produzione11. I vasetti hanno generalmente fondo blu e
sono decorati con linee, motivi a zig-zag marginati da linee, festoni o motivi a piume di colore turchese,
giallo o bianco; ma tra i più antichi del gruppo si distingue una classe caratterizzata da fondo bianco latte
e decorazione bruno-violacea, mentre alla fase centrale della produzione è da riferire un’altra classe di
balsamari connotata dal fondo di colore nocciola o bruno-rossastro o verde scuro e da una decorazione
con motivo a zig-zag fitto e continuo giallo e turchese o più raramente lineare. Queste ultime due clas-
si, tuttavia, non risultano rappresentate nella Collezione.
Rodi12 viene indicata come il principale centro di produzione di questi vasetti, senza escludere la pos-
sibilità che altre fabbriche siano sorte sulle coste della Ionia e della Siria-Palestina. Il recente rinvenimen-
to, nell’isola dell’Egeo, di scarti di lavorazione testimonia una produzione locale di vetro nel V sec. a.C.
92 Questa scoperta, unitamente con la considerevole documentazione di balsamari e oggetti d’ornamento
vitrei offerta dalle necropoli, avvalora l’ipotesi dell’esistenza di una industria del vetro già dalla fine del
VI sec. a.C. : l’atélier tardo-arcaico sarebbe sorto nella zona portuale dell’antica Camiros13, ricca di sab-
bia adatta per la vetrificazione.
La dispersione areale dei vetri del I Gruppo Mediterraneo è assai ampia e va dall’estremo Occidente
mediterraneo14 fino al Mar Nero15, “accompagnando” - pare ormai chiaro - prodotti ceramici attici, sia
in aree di cultura greca, sia in centri di fondazione fenicia.
La produzione subisce una battuta d’arresto tra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C., forse in con-
nessione con le vicende politiche del periodo, e solo intorno alla metà del IV sec. nuovi centri di produ-
sono attestate a Cefalù, Erice, Butera, Agrigento, Montagna cazioni Harden e McClellan).
di Marzo, centri nei quali l’impegno politico e militare profu- 12 HARDEN 1981, pp. 52-53, 60; Mc CLELLAN 1984,
so da Cartagine nell’età dell’eparchia si riflette, sul piano della pp. 37, 321-322; GROSE 1989, p. 110; STERN 1999, p. 37;
cultura materiale, nell’evidenza di elementi di “influenza” SCHLICK-NOLTE 2002 a, pp. 43-44; TRIANTAFYLLIDIS 2003.
punica che la ricerca archeologica va progressivamente met- 13 Ipotesi di G. Weinberg condivisa da TRIANTAFYLLIDIS
tendo in luce. Cfr., per esempio, AMATA - GUZZARDI 2005; 2003, p. 132.
TULLIO 2005. 14 CARRERAS - VIVES 2003.
11 GROSE 1989, pp. 110-115 (con riferimenti alle classifi- 15 Mc CLELLAN 1984, pp. 37-75.
I vetri preromani
zione vengono attivati in aree geografiche e in forme nuove16. Le forme che caratterizzano questo grup-
po sono quelle dell’alabastron, dell’amphoriskos, dell’aryballos, dell’oinochoe.
Le necropoli di Mozia e Birgi hanno restituito sei esemplari (quattro balsamari integri o lacunosi e
due frammenti) che documentano la forma dell’alabastron; cinque di questi sono conservati nella
Collezione Whitaker17 e attestano alcune delle forme e dei tipi decorativi classificati da Harden e Grose.
Purtroppo la perdita di riferimenti inventariali precisi non consente una esatta attribuzione all’una
o all’altra necropoli; tuttavia per due esemplari (nn. 2-3) si può abbastanza verosimilmente ipotizzare la
provenienza dalla necropoli sul litorale siciliano, sulla base del riscontro di precise indicazioni contenu-
te nel Registro di entrata del Museo.
Tra gli esemplari più antichi della serie moziese, il n. 1 ripropone una forma e un tipo decorativo
abbastanza comuni18: ha corpo a configurazione cilindrica, con lieve rastremazione verso l’alto e deco-
razione realizzata con sottili filamenti bianchi e strisce turchese. Un esemplare analogo, di ambito sici-
liano, proviene da una tomba di Megara Hyblaea19 contenente due lekythoi attiche a f.n. ed un altro, di
provenienza sconosciuta, è conservato presso il Museo Archeologico Regionale A. Salinas di Palermo20.
Per i balsamari di questa classe è stata proposta una datazione generica al V sec. a.C., ma un possibile 93
riferimento alla fine del VI – inizi del V sec. a.C. è confermato dal recente rinvenimento di un esempla-
re imerese21 in una tomba della necropoli di Pestavecchia contenente tre lekythoi attiche e una kotyle
tardo-corinzia a v.n.22
Allo stesso periodo si ritiene si possa ricondurre il n. 2, per il quale si può ragionevolmente ipotiz-
zare una provenienza dalla necropoli di Birgi23, caratterizzato da corpo ovoide fortemente rastremato
verso l’alto e da una accurata decorazione a spina di pesce bianca che ricopre l’intera superficie, produ-
cendo un gradevole effetto di profonde pseudo-baccellature. Questo esemplare non trova riscontro pre-
ciso nelle serie illustrate da Harden e Grose24, né sui cataloghi delle principali collezioni pubbliche e pri-
vate; tuttavia sembra riconoscibile una certa analogia, sia per la forma del corpo (si ricordi che nell’esem-
plare moziese la bocca è di restauro), sia per la decorazione, con un esemplare, conservato a Cipro25, con
uno da Çandarli26, con un altro rinvenuto nella tomba 38 della necropoli Bonjoan di Ampurias insieme
con due lekythoi attiche datate al 500-475 a.C.27 e, per l’organizzazione dell’apparato decorativo, con un
balsamario che fa parte della Collezione Borowski28.
Agli inizi del V sec. e ad una classe abbastanza comune nei diversi ambiti culturali mediterranei29
appartiene il n. 3 caratterizzato da fondo blu medio e decorazione gialla e turchese, lineare nella parte
superiore e inferiore del corpo, a zig-zag nella zona mediana; in particolare il balsamario, molto verisi-
milmente proveniente dalla necropoli di Birgi30, trova riscontro in diversi esemplari di provenienza
diversa: è affine ad un alabastron dalla necropoli di S. Sperate, a Cagliari31, ad uno32 rinvenuto nella
94 tomba 12 della necropoli punica di Sant’Antioco33 e ad altri provenienti dalla necropoli Bonjoan di
Ampurias34. La tomba sulcitana, dal contesto piuttosto omogeneo, conteneva, oltre alle tipiche forme
ceramiche di tradizione fenicia e ad un pendente d’oro, due lekythoi attiche che hanno consentito una
puntuale datazione tra il 500 e il 490 a.C.; i corredi delle sepolture ampuritane constavano di ceramiche
23 Si tratta dell’unico balsamario in vetro blu con decora- 26 ATIK 1990, n. 4, p. 22, tav. 17.
zione bianca conservato nel Museo di Mozia e l’unico balsa- 27 CARRERAS 1985, n. 28, p. 273, figg. 1, 6.
mario con le stesse caratteristiche, inventariato sul registro di 28 SCHLICH-NOLTE 2002 a, n. V-7, pp. 53-54.
Entrata dello stesso Museo, è preso in carico al n. 2416 con 29 Classe I B della classificazione Grose: cfr. GROSE 1989,
la seguente annotazione: “Vasetto di pasta vitrea blu con pp. 112-113, nn. 69-76, pp. 135-137.
disegni bianchi. Necropoli di Birgi”. 30 Questo esemplare sembrerebbe riconoscibile nell’ «ala-
24 L’alabastron non può essere ascritto alla classe I D della bastron di pasta vitrea blu a disegni gialli e verdi. Necropoli
classificazione Grose, cui sono pertinenti esemplari caratte- di Birgi» menzionato nel Registro d’Entrata del Museo
rizzati da fondo blu e decorazione bianca, perché negli esem- Whitaker, al n. 2413.
plari pertinenti a detta classe l’apparato decorativo è realiz- 31 UBERTI 1993, n. 4. p. 89, tav. I.
zato con filamenti molto più sottili e organizzati in maniera 32 Ibid., p. 34, fig. 1,4.
diversa rispetto al nostro esemplare. Cfr. GROSE 1989, 33 TRONCHETTI 1997, pp. 115-116.
pp. 114-115. 34 FEUGERE 1989, nn. 9,50-9,53, pp. 36-37, fig. 4. GROSE
25 SEEFRIED 1974, n. 2, p. 149. 1989, n. 78, p. 137.
I vetri preromani
corinzie e attiche datate tra il 500 e il 450 a.C. circa35. Ancora una decorazione gialla e turchese contrad-
distingue un esemplare da Birgi conservato nel Museo Archeologico A. Salinas di Palermo, di poco più
recente rispetto all’esemplare precedente, caratterizzato dal corpo cilindrico e dalla decorazione che
occupa senza soluzione di continuità i tre quarti superiori del corpo36.
Nella necropoli di Ampurias si sono rinvenuti diversi alabastra di questa classe, uno dei quali in
associazione con una lekythos attica del secondo quarto del V sec. a.C.37 Tra il secondo e il terzo quarto
del V sec. a.C. si data un alabastron dall’ipogeo 26 della necropoli di Ibiza scavato da C. Román Ferrer,
contenente anche due lucerne attiche. Una generica datazione al V sec. a.C. è attribuita ad un vasetto di
questo tipo rinvenuto ad Aleria38. Un altro proviene dalla necropoli nord del Ceramico di Atene, da un
contesto datato tra il 450 e il 425 a.C.39 Il tipo in esame è esemplificato, poi, anche nella ricca collezio-
ne di vetri preromani del Louvre40.
In ambito siciliano, un puntuale parallelo è offerto da un esemplare, di probabile provenienza cama-
rinese, della Collezione Collisani41.
Allo stesso tipo di alabastron è pertinente il frammento n. 4, relativo alla zona centrale del corpo;
non si può invece riconoscere la forma originaria dell’alabastron, a fondo blu e decorazione gialla e tur-
chese, del quale si conserva il frammento n. 5, comprendente una piccola parte del corpo e un’ansa a S 95
con occhiello.
Passando agli amphoriskoi, sono numerosi quelli a fondo blu del I gruppo mediterraneo attraverso
i quali si può seguire l’evoluzione della forma.
35 nn. 97-110, pp. 64-66, pl. VIII). Propende per una fabbri-
In particolare, la tomba 69 conteneva, oltre all’alaba-
stron, un anello d’oro, una terracotta figurata, due kotylai cazione rodia B. Schlick-Nolte (STERN - SCHLICK-NOLTE
corinzie e vasi attici, alcuni dei quali a f.n., databili al 500 1994, n. 43, pp. 204-205; SCHLICK-NOLTE 2002 a, n. V-5,
a.C. circa: cfr. CARRERAS 1985, n. 30, p. 274, fig. 6. Numerosi pp. 51-52). Un esemplare analogo, conservato nel Museo
alabastra analoghi al nostro sono stati censiti da M. Feugère: archeologico di Bologna, per esempio, offre un preciso rife-
si segnalano, in particolare tre esemplari uno dei quali prove- rimento cronologico (FERRARI 1990, nn. 1, p. 96, tav. I, fig.
nienti dalla tomba 77 della necropoli Marti, rinvenuto insie- I) per la sua provenienza da un contesto chiuso, degli inizi
me ad una lekythos attica del secondo quarto del V sec. a.C. del V sec. a.C.
37
Cfr. FEUGERE 1989, nn.9, 35-365, 43, pp. 33- 36, fig. 3. FEUGERE 1989, nn. 35-36, 43-44, pp. 33-35, fig. 3.
36 Cfr. SPANÒ GIAMMELLARO c.d.s. La classe cui è perti- 38
JEHASSE 2001, n. 2886, pp. 167, 383, tav. 94.
nente l’alabastron (Grose 1989, classe I:B, forma I:3A, pp. 39
Mc CLELLAN 1992, n. 8, p. 82.
112-113, 126, 130; nn. 72-73, 75-76, pp. 155-137) conta 40
ARVEILLER - NENNA 2000, nn. 12, 21, pp. 42, 46.
numerosi esemplari, con un’ampia dispersione areale, ma 41
S PANÒ G IAMMELLARO 2004 a, n. 63, pp. 31, 67,
con una sensibile concentrazione a Rodi (HARDEN 1981, tav. XVI.
A. Spanò Giammellaro
La varietà più antica, caratterizzata dal corpo ovoidale allungato, dal collo cilindrico piuttosto lungo
e dalle anse impostate tra le spalle e la bocca, è documentata nella Collezione dal frammento n. 15 con
decorazione gialla. Questa varietà42 trova ampio riscontro in Sicilia, in contesti greci o ellenizzati datati
alla fine del VI sec. a.C.43
Nel corso dei primi decenni del V sec. a.C. la forma si evolve: gli esemplari databili al primo quar-
to del secolo sono ridotti in altezza rispetto ai precedenti, ma il diametro massimo è maggiore, sicché
alcuni assumono un caratteristico profilo “a trottola”; le anse si fermano sul collo, notevolmente più
corto. La decorazione copre la zona superiore del corpo e raramente interessa il collo. Rientra in questa
varietà l’esemplare n. 6 dalla necropoli di Birgi.
Durante la prima metà del V sec. a.C. la forma si evolve ancora: il corpo va via via assottigliandosi
fino ad assumere un profilo perfettamente ovoidale, le anse raggiungono la bocca o si fermano sul corto
collo cilindrico assumendo una forma ad occhiello. Di questo gruppo fanno parte gli esemplari nn. 7, 8-
14 e 16-18 provenienti da Mozia o Birgi: per tutti questi esemplari, privi di riferimento a contesti certi,
non può essere che generico il riferimento cronologico al V sec. a.C.
96 Quanto poi agli aryballoi, anche di questi balsamari si registra nella Collezione una discreta docu-
mentazione (nn. 19-25) che rappresenta le due più comuni varietà della forma44: quella a corpo perfet-
tamente globulare e quella con spalle oblique e corpo sferico allungato; ma ancora una volta si dovrà
lamentare l’impossibilità di precisi inquadramenti cronologici per la mancanza di sicuri dati di contesto
e l’articolazione della forma in due varietà non implica necessariamente uno scarto cronologico, come
42
GROSE 1989, forma I:1, pp. 112-113, 126-127, 130; n. tomo II, tav. CCLXVII, n. 1; ARVEILLER - NENNA 2000, n.
106, pp. 147-148. 83, p. 80; FONTAN 2004, scheda n. 84, p. 77; p. 68); nell’am-
43 Da Palermo proviene un esemplare rinvenuto entro bito dell’ampia documentazione della forma, anche da con-
una tomba a camera datata alla fine del VI sec. a.C. Cfr. testi non punici, numerose sono le attestazioni rodie (cfr.,
SPANÒ GIAMMELLARO 1998, n. G 84, p. 405, ill. alle pp. per esempio, HARDEN 1981, n. 170, p. 80, tav. XI;
391, 395. La medesima datazione è proposta per le attesta- ARVEILLER - NENNA 2000, nn. 82, 85, pp. 80-81); si segna-
zioni puniche non siciliane fornite di dati contestuali pro- lano inoltre, a mo’ d’esempio, un amphoriskos dall’antica
banti. Si segnalano, per esempio, tre esemplari sardi, due Pitane (FREYER SCHAUENBURG 1973, nn. 7-8, pp. 145-146,
da Tharros, l’altro da Sulcis (UBERTI 1993, n. 16, p. 91, tav. tavv. XI, XIV) e uno da Eretria datati tra il 500 e il 475 (Mc
III; nn. 2, 6, p. 34, fig. 2), un esemplare da Cartagine pro- CLELLAN 1992, n. 14, pp. 84-85) e un esemplare da
veniente dalla tomba 199 di Dermech datata al 500 ca. Ampurias (FEUGERE 1989, n. 75, p. 41, fig. 7).
(GAUCKLER 1915, tomo I, p. 84, tav. CXLVII), uno dalla 44
GROSE 1989, classe I:B, forma I:1 e I:2, pp. 112-113,
necropoli di Gunugus presso Gouraya (GAUCKLER 1915, 127, 130.
I vetri preromani
dimostra la documentazione certamente datata, da ambiti culturali diversi. La prudenza, dunque sugge-
risce una generica datazione al V sec. a.C.45
Le oinochoai del I gruppo mediterraneo sono rappresentate, nella Collezione, da un solo frammento (n.
26), riferibile alla forma I:2 della classificazione Grose46. Gli esemplari di questa classe sono caratterizzati
dalla bocca trilobata, dal breve collo che s’innesta sulla spalla arrotondata formando un angolo ottuso, dal
corpo ovoidale con piede slargato cavo all’interno, da un’alta ansa flessa sormontante l’orlo. Oltre ad esem-
plari analoghi provenienti dalla necropoli di Palermo47, la forma è nota in Sicilia, da contesti di cultura
greca48 ed è altresì attestata in Sardegna49 e ad Ibiza50. Si segnala inoltre il rinvenimento, nella necropoli di
Birgi, di un frammento di ansa, di vetro blu scuro con un cerchiello giallo alla base conservato al Museo
Archeologico Regionale A. Salinas di Palermo, appartenente a una specifica classe della forma in esame51.
II Gruppo Mediterraneo
Inferiori numericamente rispetto ai vasetti del I Gruppo Mediterraneo, i nuovi balsamari si rinven-
gono numerosi nella Penisola Italica, con una spiccata concentrazione al Centro-Sud, ma anche in 97
Tessaglia, in Macedonia e in Bulgaria52. Le nuove fabbriche, ipoteticamente localizzate, sulla base della
frequenza di rinvenimento, sia nella zona centrale della penisola italica sia in area macedone53, introduco-
l’area del tofet. Altri due esemplari provengono da Ibiza, da che caratterizza diversi vasetti costituirebbe, secondo T. E.
contesti ben datati (FERNÁNDEZ 1992, vol. II, n. 251, p. 140, Haevernick (HAEVERNICK 1981, pp. 88-89) una sorta di mar-
fig. 68, tav. LXIII; FERNANDEZ-MEZQUIDA 1997, n. 5, p. 44, chio di una o più fabbriche rodie e imiterebbe i chiodi ribat-
tav. II). tuti dei recipienti metallici. Cfr. per esempio GROSE 1989,
46 GROSE 1989, p. 127; nn. 114-117, pp. 150-151. n. 114, p. 149; Mc CLELLAN 1992, n. 22, p. 88; DUNCAN
47 Uno rivenuto nel corso degli scavi del 1928 in una JONES 1995, p. 26; STERN - SCHLICK-NOLTE 1994, n. 47,
tomba a camera datata al 500 a.C. ca. (MARCONI 1928, pp. 212-213; SCHLICH-NOLTE 2002 a, n. V-14, pp. 61-62.
p. 484, fig. 3; SPANÒ GIAMMELLARO 1998, n. G 86, p. 406); 52
Cfr. da ultimo SCHLICK-NOLTE 2002 a, p. 45.
l’altro, entro il sarcofago di un’altra tomba a camera, coeva 53
GROSE 1989, pp. 115-122 (con riferimenti alle classifi-
alla precedente, esplorata nel 1973 (SPANÒ GIAMMELLARO cazioni Harden e McClellan); UBERTI 1993, p. 38; SCHLICK-
1998, n. G 87, p. 406). NOLTE 2002 a, p. 67. Accanto alle nuove botteghe continua
A. Spanò Giammellaro
no, tra la metà del IV e la fine del III o gli inizi del II sec. a.C., nuove forme quali lo stamnos, l’hydria,
l’unguentario e modificano, nei singoli elementi strutturali o nelle dimensioni, le morfologie già note; le
forme più attestate sono quelle dell’alabastron e dell’oinochoe, con una tendenza alla miniaturizzazione
per alcune varietà o con un appesantimento del profilo, per altre. Si modifica anche l’apparato decorati-
vo e così il motivo a zig-zag, prevalente nella produzione precedente, diventa secondario rispetto al moti-
vo a piume o a festoni e si combina spesso con semplici linee, in una resa piuttosto corsiva; il colore di
fondo varia dal blu scuro al nero, al marrone giallastro, mentre i colori usati per la decorazione sono il
giallo, il bianco, il turchese.
È con la metà del IV secolo a.C. che coincide l’apparizione anche nella Sicilia punica dei balsamari
del II gruppo mediterraneo dei quali sono documentate le forme dell’alabastron, dell’aryballos, dell’oi-
nochoe e dell’unguentario a testimonianza di una vivace e articolata circolazione di vetri policromi anco-
ra tra il IV e III sec. a.C.
Alla forma II:3 della classificazione Grose54 appartiene l’alabastron n. 27, caratterizzato da un corpo
campanato su base piana, largo collo cilindrico e ampia e spessa bocca discoidale che nell’esemplare
98 moziese assume una conformazione “a fungo”; le anse, sproporzionatamente ridotte, sono nastriformi,
con occhiello e applicate al di sotto delle spalle. La decorazione a piume larghe e regolari si sviluppa su
tutto il corpo. L’esemplare trova puntuale riscontro, per la forma, in un balsamario da Cartagine55; il tipo
è inoltre documentato in area italica56.
Non sono noti, finora, dai centri punici della Sicilia, amphoriskoi di questo gruppo e del resto la
scarna attestazione nell’intero ambito isolano57 riflette la generalizzata rarefazione della forma in questa
seconda fase della produzione.
È invece ben documentata la forma dell’oinochoe in tre varietà: tra le oinochoai di grande modulo
la n. 28, proveniente forse da Birgi, è caratterizzata da un’ampia bocca trilobata, collo che s’innesta quasi
l’attività delle vetrerie rodie, che riforniscono i mercati Preneste (UBERTI 1988, p. 477) e uno da Capua (HARDEN
dell’Asia Minore. Cfr. DUNCAN JONES 1995, p. 33. 1981, n. 271, p. 105, tav. XV). Nel Museo archeologico di
54 Atene (MC CLELLAN 1992, n. 29, p. 91) sono poi conservati
GROSE 1989, pp. 117, 127, 131, figg. 70-71.
55 altri due vasetti analoghi, di provenienza sconosciuta.
HATTLER 2004.
56 57
Si tratta di un alabastron dalla Tomba Barberini di SPANÒ GIAMMELLARO c.d.s.
I vetri preromani
ad angolo retto sul corpo cilindrico rastremato verso il basso, bassa e ampia base a cuscinetto, ansa a
nastro costolata sormontante l’orlo58. Una decorazione a fitti motivi piumati regolari scandisce l’intera
superficie del corpo. In ambito punico, la forma è ben nota fuori dalla Sicilia59.
La seconda varietà60 è rappresentata, oltre che dai frammenti n. 30, dall’esemplare n. 29, provenien-
te da Birgi, mutilo del collo e della bocca, con corpo ovoidale e decorazione, assai poco accurata, a linee
orizzontali sulla spalla e nella zona inferiore del corpo e stretta fascia a zig-zag nella zona superiore. Un
puntuale raffronto sia per la forma del corpo che per la sintassi decorativa è offerto da un esemplare pur-
troppo privo di dati di contesto della collezione Wolf61.
Da Lilibeo e Birgi provengono due esemplari (nn. 31 e 32), in frammenti, di oinochoai miniaturisti-
che a corpo ovoide e semplice decorazione lineare sul collo e nelle zone superiore e inferiore del corpo,
databili tra la metà del IV e l’inizio del III sec. a.C.62
È ancora Lilibeo che ci fornisce una relativamente discreta documentazione della forma dell’un-
guentario a corpo ovoidale, con collo e piede cilindrici, più o meno lunghi, per la quale l’inserimento nel
II o nel III gruppo mediterraneo è controversa nel confronto scientifico tra specialisti63.
99
58
Corrisponde alla forma II:1 della classe II:A di Grose. (JEHASSE 2001, n. 3338, pp. 82, 395, tavv. 200-201); l’altra
Cfr. GROSE 1989, pp. 117-119, 127-128, 131; nn. 147-149, presenta, nella zona centrale del corpo, una inedita (e piutto-
pp. 161-162. sto naif) raffigurazione di due quadrupedi affrontati davanti
59 Per la Sardegna si ricorda un esemplare da Nora ad un elemento fitomorfo, tardiva attestazione – sembrereb-
(UBERTI 1993, n. 37, pp. 38, 94, tav. VII) e frammenti di una be - di un ben noto motivo iconografico di tradizione vicino-
oinochoe di questo tipo dall’area del Nuraghe Nurdòle orientale (Ibid., n. 2666, pp. 82, 395, tav. 201). Entrambe le
(MADAU 1991, pp. 124-125, tav. XVII, 5). Un esemplare da varietà sono poi attestate a Cuma (GABRICI 1913, coll. 597-
Cartagine è conservato nel Museo locale (I FENICI, n. 337, p. 598, tav. XCVII, nn. 7-8).
62
240). Intorno al 300 a.C. sono poi datate, sulla base di conte- GROSE 1989, classe II:A, forma II:8, pp. 117-118, 128, 131.
63
sti, due oinochoai di questo tipo rinvenute nella necropoli di HARDEN 1981, p. 124 sostiene che gli unguentari deb-
Aleria (JEHASSE 2001, nn. 3983-3984, pp. 82, 395, tav. 200). bano ascriversi al III gruppo mediterraneo; MC CLELLAN
60 GROSE 1989, classe II:A, forma II:3, pp. 118-119, 127- 1984, pp. 123-126 suggerisce la possibilità di assegnare
128, 131; n. 146, p. 161. alcuni unguentari al II gruppo mediterraneo e altri al III;
61 STERN - SCHLICK-NOLTE 1994, n. 53, pp. 224-225. GROSE 1989, p. 116, ritiene che possano rientrare tutti nel
Anche di questo tipo si è rinvenuto ad Aleria un esemplare II gruppo in quanto databili, nella maggior parte dei casi, al
(JEHASSE 2001, n. 3338, pp. 82, 395, tavv. 200-201), i cui III sec. a.C.; DUNCAN JONES 1995, pp. 21-22, 29-32, sugge-
antecedenti, nello stesso sito, sono rappresentati da due oino- risce la possibilità di enucleare, grazie alla documentazione
choai della stessa forma, ma di modulo maggiore: una ha anatolica, un gruppo ellenistico transizionale tra i gruppi II
sulla spalla un motivo decorativo continuo a onde e riccioli e III della classificazione Grose.
A. Spanò Giammellaro
Il n. 3364 attesta la variante con lungo collo cilindrico e ampio corpo ovoidale appuntito che poggia su
uno stelo cilindrico slargato alla base; le piccole anse sono configurate a dischetto appiattito e applicate a
bottone sul corpo e la decorazione a zig-zag gialla e bianca si sviluppa nella zona mediana del corpo. Di
modulo ridotto, ma ancora riferibili alla stessa forma sono i nn. 34-35, caratterizzati da presine ad occhiello.
Alla forma II:2 della classificazione Grose65, caratterizzata da piccolo corpo ovoide che poggia su
un tozzo stelo cilindrico sono riferibili i frammenti di un altro unguentario (n. 36), forse da Lilibeo. Tre
esemplari analoghi, di ambito siciliano, databili alla metà del III sec. a.C. provengono da Agrigento66 e
da una tomba della necropoli di Piano della Fiera, a Butera67, mentre fuori dalla Sicilia, unguentari di
questo tipo vengono da contesti tombali ibicenchi68 e algerini69.
La serie degli unguentari è completata dai frammenti (n. 37) di un esemplare della forma II:3
Grose70, con lungo collo cilindrico, spalle oblique, corpo conico, piccola base discoidale e con decora-
zione a festoni rovesciati bianchi e gialli.
Più puntualmente inquadrabili dal punto di vista della qualificazione etnica, per quanto attiene
all’origine del tipo di manufatto, sono i pendenti configurati a testa umana o demoniaca e quelli zoomor-
fi, la cui paternità è tradizionalmente riconosciuta all’artigianato fenicio e punico.
Gli studi sistematici di questa produzione, condotti da T. E. Haevernick71 che ha censito 779 esem-
plari e da M. Seefried72 che ne ha presi in esame 850, se hanno evidenziato una capillarità di diffusione
in ambito mediterraneo, che in qualche modo coincide con quella dei balsamari, hanno anche dimostra-
64 67
GROSE 1989, classe II:G, Forma II:1, pp. 121-122, SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 33, pp. 33, 61, tav. VIII.
68
128, 131. FERNANDEZ 1992, tomo II, nn. 173, 481, p. 142, figg.
65
Ibid., classe II:G, forma II:2, pp. 121-122, 128, 131. 55, 104, tavv. L, LXXXVIII.
66 69
Un esemplare agrigentino, inedito, è conservato nel KITOUNI-DAHO 2003, n. 23, p. 42.
70
Museo P. Orsi di Siracusa; per l’altro che fa parte di una col- GROSE 1989, classe II:G, forma II:3, pp. 121-122, 131.
71
lezione privata cfr. SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 78, pp. HAEVERNICK 1977.
72
33, 70, tav. XX. SEEFRIED 1982.
I vetri preromani
to come l’articolazione geografica, in senso diacronico, delle due classi della produzione non sempre sia
univoca. Sulla base della mappa di distribuzione dei pendenti elaborata da M. Seefried73, si può verifi-
care come i pendenti più antichi databili fra la fine dell’VIII e la fine del VII sec. a.C. siano concentrati
nel loro alveo d’origine, le coste del Mediterraneo orientale, cioè, con qualche presenza a Cartagine nel
corso del VII sec. a.C.; tra la fine del VI e gli inizi del IV sec. a.C., i pendenti sono ancora numerosi in
Oriente, di contro ad una più rara attestazione, nella stessa area, di balsamari del I gruppo mediterra-
neo, prevalentemente concentrati, invece, come già detto, nell’Egeo e nelle regioni che rientrano nella
rete dell’espansione territoriale e commerciale greca74. Una significativa contemporaneità (inizi del V
sec. a.C.) nell’apparizione di balsamari e pendenti è stata di recente segnalata per la regione del Mar
Nero75; inoltre, come è stato giustamente sottolineato, in questo periodo «le coincidenze sono localizza-
te solo nei siti fenici e punici»76.
Nella fase centrale della produzione, IV-III sec. a.C., che corrisponde cronologicamente alla dif-
fusione dei balsamari del II gruppo mediterraneo, la documentazione più corposa di pendenti pro-
viene dal Mediterraneo centrale e fa capo a Cartagine77, dove certamente sorsero fabbriche specia-
lizzate nella realizzazione di tipi specifici di mascherine; né si può escludere che officine periferiche
fossero localizzate in altri centri punici. È questo il periodo in cui, come già detto, si suppone che 101
atéliers dell’Italia centro-meridionale, della Macedonia, di Alessandria siano deputati alla fabbrica-
zione dei balsamari78.
Nella tarda età ellenistica si incrementa di nuovo la presenza di pendenti in area vicino-orientale,
sicché le fabbriche attive in questo periodo sembrano doversi localizzare, oltre che a Rodi, in area egi-
ziana e cipriota; è questo il periodo (II-I sec. a.C.) in cui alla tardiva produzione di manufatti realizzati
su asta si affianca una nuova serie di pendenti modellati con matrice doppia79 che trovano diffusione sia
nel Mediterraneo orientale che nelle aree occidentali interessate dalla cultura punica80; contemporanea-
mente, il Mediterraneo orientale è pure protagonista della produzione dei tipi più tardi di balsamari su
nucleo81.
73 77
SEEFRIED 1982, fig. 45. SEEFRIED 1982, p. 40, fig. 45.
74 78
ARVEILLER - NENNA 2000, pp. 14-15; SCHLICH-NOLTE SCHLICK-NOLTE 2002 a, p. 45.
79
2002 a, p. 45. SPAER 2001, p. 162;
75 80
GOROKHOSKAIA - TSIRKIN 2005. Cfr. SPANÒ GIAMMELLARO c.d.s.
76 81
FERRARI 1996, p. 10. NENNA 1999, pp. 31-33.
A. Spanò Giammellaro
Per quanto attiene alla Sicilia, la documentazione nota si scagliona nell’arco cronologico compreso
tra il VI e il I sec. a.C. (cioè lo stesso coperto dalla serie dei balsamari), con una buona articolazione tipo-
logica e con una distribuzione che interessa ambiti geografici e culturali diversi.
La serie siciliana di pendenti modellati su nucleo annovera tutti e sei i tipi principali individuati in
ambito mediterraneo da M. Seefried82; di questi, solo tre sono rappresentati nella Collezione: mancano
infatti esemplari riconducibili al tipo A (maschera demoniaca), al tipo D (maschera femminile) e al tipo
F, nel quale sono compresi pendenti di forme diverse.
Il n. 3883 rientra nel gruppo delle testine maschili con barba e capelli lisci (tipo B Seefried), nella
variante che presenta una benda ritorta poggiata sulla fronte84. Di forma pressoché cilindrica e di dimen-
sioni ridotte rispetto agli altri, questo pendente presenta volto ovale, spesse sopracciglia e ampie arcate
orbitali; trova un preciso confronto in un esemplare rinvenuto a Erice85, oltre che in reperti provenien-
ti da Siria, Palestina, Cipro, Olbia sul Mar Nero, Cartagine, Sardegna e Abruzzo ed è databile tra il 500
e il 400 a.C.86
Il tipo della testa maschile con barba e capelli ricci87, più tardo rispetto ai precedenti, comincia ad
apparire a Cartagine e nelle altre regioni del Mediterraneo88 a partire dalla metà del IV sec. a.C. ed è pre-
102 sente nelle necropoli puniche fino al III. Si distingue dai tipi precedenti per le accresciute dimensioni ed
è caratterizzato dai folti riccioli spiraliformi applicati singolarmente sulla calotta cranica e sulla barba. Le
sopracciglia ben evidenziate si congiungono sul naso a bulbo, i grandi occhi sono resi come nei tipi pre-
cedenti; tre piccole protuberanze sui due lati del volto indicano orecchie e orecchini applicati sia al lobo
che al padiglione; la bocca è applicata sulla barba. Tre sono gli esemplari siciliani che propongono questa
iconografia, uno dei quali appartenente alla Collezione; si tratta del n. 39, da Birgi89, che fa parte di una
collana registrata sul G.E. del Museo Whitaker di Mozia come proveniente da un sarcofago della necro-
82 Nonostante sia stata elaborata da chi scrive una seria- 84 SEEFRIED 1982, tipo B III, pp. 94-99.
zione tipologica specifica per la Sicilia, si preferisce segui- 85 SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 86, pp. 36, 72, tav.
re la successiva classificazione della Seefried che, dispo- XXII.
86 SCHLICK-NOLTE 2002 b, nn. P 20-25, pp. 189-191 con
nendo dell’intero repertorio della categoria in esame,
supera i confini regionali e costituisce dunque la tipologia ampia bibliografia.
di riferimento univocamente utilizzata nella letteratura 87 SEEFRIED 1982, tipo C III, pp. 105-116.
specifica. Per una disamina completa dell’intero corpus dei 88 SCHLICK-NOLTE 2002 b, nn. P 33-34, pp. 195-197 con
poli di Birgi, con la dicitura «ricostruita secondo l’illustrazione di una tale collana nella collezione del
Louvre a Parigi, per cui cfr. Pierrot-Chipiez». Della stessa collana fanno parte anche il pendente n. 38, più
antico, e il pendente n. 40, che potrebbe essere coevo o di poco anteriore: non sappiamo se l’arbitraria
ricostruzione del monile abbia comportato un’altrettanto arbitraria intrusione di pezzi spurii, ma se ipo-
tizziamo che effettivamente i due pendenti facciano parte dello stesso contesto, quello più antico potreb-
be costituire un esempio di “tesaurizzazione” di un “gioiello di famiglia”; un caso analogo sembra quello
di due pendenti da una tomba di Penna di Sant’Andrea, in Abruzzo, uno dei quali, con barba e capelli a
riccioli è datato al IV sec. a.C., mentre l’altro è di un tipo assegnato al V sec.90 Gli altri due esemplari sici-
liani del medesimo tipo provengono dalla contrada Predio Mattina a Gela91 e da Caltagirone92.
Quanto poi ai pendenti zoomorfi, a fronte di un’evidenza documentaria che indica nella testa d’arie-
te il tipo più diffuso93, la Collezione conserva un esemplare che raffigura una testa di babbuino (n. 40).
Il tipo della scimmia è documentato in Sicilia dalle due versioni note, quella in cui è rappresentata la sola
testa e quella che riproduce l’intero animale94. Il nostro pendente, del primo tipo, ha forma cilindrica e
riproduce i tratti di un volto con muso rincagnato in cui non si distingue la bocca, grandi occhi, cranio
arrotondato; al di sopra degli occhi e ai lati del volto restano tracce di elementi applicati, ora perduti; 103
l’anello per la sospensione, anch’esso mancante, doveva essere fissato sulla sommità del capo. Questo
tipo di pendente conta pochissime attestazioni, tanto da non essere considerato nella classificazione
Seefried che invece censisce 15 pendenti riproducenti l’intero animale. Genericamente assimilabili al
pendente siciliano sono due esemplari, conservati nel Museo archeologico di Cagliari95 e al British
Museum96, che comunque differiscono dal nostro per la forma più tondeggiante del cranio e per le
dimensioni ridotte. Il pendente siciliano proviene da Birgi ed è associato, nell’esposizione attuale, con i
due pendenti nn. 38 e 39 che farebbero parte della stessa collana: abbiamo già detto che i pendenti si
90
SCHLICK-NOLTE 2002 b, pp. 196-197 ritiene che la quali provenienti dalla necropoli di Birgi e conservati presso
contestualità di rinvenimento dei pendenti dovrebbe il Museo Archeologico Regionale A. Salinas di Palermo. Cfr.
indurre a rivedere la cronologia del tipo di pendente con SPANÒ GIAMMELLARO c.d.s.
94 L’esemplare, di provenienza sconosciuta, è conservato
barba e capelli a riccioli, che potrebbe risalire agli inizi del
IV sec. a.C. presso il Museo Archeologico regionale P. Orsi di Siracusa.
91
SPANÓ GIAMMELLARO 2004 a, n. 87, pp. 37, 72, tav. Cfr. SPANÒ GIAMMELLARO c.d.s.
95
XXII. UBERTI 1993, n. 90, pp. 44, 101, tav. XII.
92 96
AMATA 1989. TATTON-B ROWN 1981, n. 444, p. 153, tav. XXIX,
93
In Sicilia ne sono stati censiti sette esemplari, due dei fig. 16.
A. Spanò Giammellaro
datano rispettivamente al V sec. a.C. e al IV-III e ancora al V è forse da datare la testa di scimmia se,
come sembra verosimile, è coeva ai pendenti che raffigurano l’intero animale.
Va infine segnalato un pendente di forma circolare con quattro protuberanze lungo la circonferen-
za e un umbone centrale (n. 41) per il quale una nuova, suggestiva interpretazione si deve a
P. Bartoloni97. Il manufatto, secondo lo studioso, riprodurrebbe, in forma miniaturistica, una “fiasca da
pellegrino” e costituirebbe la trasposizione in vetro di analoghi pendenti di ambiente nuragico, a con-
ferma di contatti tra l’isola siciliana e la Sardegna.
Il pendente potrebbe, in alternativa, essere interpretato come la rappresentazione stilizzata di una tar-
taruga: in questo caso, la divergenza delle due protuberanze superiori rispetto a quelle inferiori potrebbe
essere letto come un tentativo di resa naturalistica della posizione delle zampe dell’animale, mentre i centri
concentrici e l’“umbone” centrale potrebbero voler rendere prospetticamente la convessità del carapace98.
Pendenti monocromi
104 Diversi da quelli fin qui illustrati, sia dal punto di vista tecnico, sia per lo stile e l’iconografia propo-
sta, sono due pendenti (nn. 42 e 43) di vetro blu traslucido, monocromi, configurati a testina femminile
bifronte. Realizzati su un’asta, solitamente piuttosto sottile (come si evidenzia dal foro residuo, generalmen-
te di altezza corrispondente a quella del collo), e con l’utilizzo di due stampi, queste testine presentano due
facce di solito molto simili, ma non identiche, quasi mai perfettamente allineate; i volti sono ovali, con i trat-
ti somatici ben evidenziati, incorniciati da una ricca acconciatura a riccioli che si dispongono ordinatamen-
te sulla fronte formando un motivo a fiore e ricadono poi ai lati del collo, spesso adorno di una collana;
negli esemplari noti del tipo99 è talvolta presente un globetto al centro della fronte. L’appiccagnolo è appli-
cato alla sommità di una delle facce, ma alcuni esemplari, come il n. 43, ne sono privi sicché si è ipotizza-
to che potessero fungere da testa di spillone100. Generalmente il punto di sutura della due facce è eviden-
ziato da un bordo largo 2-3 mm prodotto dal vetro pressato tra le due valve dello stampo.
97
Ringrazio l’amico Piero Bartoloni per avermi fornito DI SALVO-CASTELLINO-DI PATTI 1996, pp. 329, 345; sono atte-
questi dati interpretativi prima della loro edizione: cfr. state inoltre raffigurazioni fittili miniaturistiche dell’animale:
BARTOLONI 2005, p. 571, fig. 32. cfr., per esempio, ALLEGRO 1998, n. T11, pp. 345, 347.
98 99
Non si dimentichi che la tartaruga è ben nota nel mondo SPANÒ GIAMMELLARO c.d.s.
100
punico; se ne sono rinvenuti resti nel tofet di Mozia: cfr. CIASCA- SPAER 2001, p. 161.
I vetri preromani
L’iconografia di questi pendenti riprende modelli attestati in epoca anteriore sia nella produzione di
maschere e protomi fittili sia nella gioielleria; non è escluso anzi che le matrici adoperate derivino da
quelle usate per i pendenti in metallo a soggetto analogo.
La presenza di pendenti di questo tipo, oltre che in Oriente, in molti centri di tradizione fenicia,
soprattutto in Occidente101, con un’alta concentrazione a Cartagine102, ha generato l’opinione che la
metropoli africana ne fosse il principale luogo di produzione; ma secondo un’altra ipotesi, questi manu-
fatti potrebbero essere attribuiti ad atéliers del Mediterraneo orientale attivi tra il IV e il III sec. a.C. e,
più specificamente, ad Alessandria103. Quanto alla cronologia, gli esemplari rinvenuti a Cartagine e altro-
ve sembrano doversi assegnare al IV-III sec. a.C.104, grazie anche al confronto con alcuni anelli d’oro car-
taginesi che presentano la stessa iconografia105: una datazione che può essere accettata anche per i nostri
pendenti.
Il n. 42 proviene con certezza da Birgi e faceva parte della collana n. 52 che si può datare al IV sec.
a.C.; per il n. 43 la stessa provenienza sembra assai verosimile. Quest’ultimo presenta una benda sulla
fronte con una piccola cavità circolare al centro e si discosta dagli altri esemplari siciliani per lo schema
più chiaramente egittizzante cui è improntato, oltre che per le dimensioni ridotte e potrebbe essere inter-
pretato, come già detto, come testa di spillone.
Ancora da Birgi proviene un pendente color miele scuro (n. 44), realizzato a stampo, di forma pri- 105
smatica con una estremità appuntita. Il pendente, che riprende un tipo amuletico ben noto106, con atte-
stazioni - o meglio trasposizioni107 - anche nella gioielleria in metallo prezioso o in pietra semipreziosa,
trova puntuali riscontri in analoghi manufatti nord-africani108 e sardi109.
101 UBERTI 1993, nn. 74-76, pp. 42, 99-100, tav. XI (con simbolo fallico: cfr. per esempio TORE 1972; ACQUARO 1975,
riferimento agli altri esemplari rinvenuti in Sardegna); n. C6, p. 75, tav. XXVII.
FERNÁNDEZ 1992, vol. II, nn. 81, 447, pp. 156-157, figg. 42, 107
UBERTI 1975, n. D 23, pp. 91, 107, tav. XXXII;
99, tavv. XXXVII, LXXXIV. QUILLARD 1987, pp. 86-88 con ampia bibliografia di riferi-
102
HAEVERNICK 1968. mento agli esemplari rinvenuti nel Mediterraneo occidentale
103
UBERTI 1993, p. 80. fenicio e non; BARTOLONI 1990, nn. 128-129.
104 108
Una testina dello stesso tipo, con un solo volto raffigu- Per alcuni esemplari da Cartagine, cfr. GAUCKLER
rato, proviene da una tomba di Ibiza dell’ultimo quarto del 1915, pp. 21, 50, 56, tavv. XXXIX, XLVIII, CXXXIX, CXL.
V sec. a.C., mentre una bifronte manca di un contesto data- Un esemplare in vetro blu fa parte di una collana provenien-
bile: cfr. FERNANDEZ 1992, pp. 156-157. te da Utica, datata al VI sec. a.C.: cfr. BEN TAHER 2003.
105 109
QUILLARD 1987, nn. 285-288, pp. 53-55, 211-213 BARTOLONI 1990, n. 130; BARNETT-MENDLESON 1987,
106 L’amuleto viene interpretato come obelisco, cippo, nn. 6/30, p. 49, tav. 84; 13/17, pp. 112-113, tav. 176.
A. Spanò Giammellaro
Non è possibile elaborare una rassegna organica delle “collane” conservate nella Collezione: esse
costituiscono, nella stragrande maggioranza dei casi, il risultato della combinazione di diversi elementi,
spesso eterogenei per tipo, per cronologia, per contesto di pertinenza.
Valga, uno per tutti, l’esempio delle collane nn. 47 e 51 che, come già detto, sono manifestamente
frutto di arbitrarie ricostruzioni110.
Conviene, dunque, passare in rassegna non tanto le “collane” rinvenute in ciascun contesto, quan-
to, piuttosto, i tipi cui afferiscono i singoli elementi che le compongono, nel loro complesso.
I vaghi più comuni sono quelli anulari e quelli di forma sferica, più o meno regolare, con superficie
liscia o baccellata111, monocromi o ornati da una o più semplici linee che ne sottolineano il diametro112.
Prevale comunque il tipo a “occhi” nelle sue varietà di forme, di colori e di organizzazione dello sche-
ma decorativo: la forma, infatti, può essere anulare, globulare, globulare schiacciata e si può osservare in
alcuni casi un vago “doppio” costituito dalla fusione, forse preterintenzionale, di due vaghi uguali; i
colori prevalenti per la superficie sono il blu, il turchese, il giallo, mentre la decorazione è generalmen-
106 te eseguita in bianco e blu, anche se non mancano esemplari realizzati con l’uso del giallo o del bianco
e marrone. Quanto al numero di “occhi” impressi, esso varia in relazione alle dimensioni del vago, così
come varia il numero di cerchielli che compongono l’ “occhio” stesso.
Nella Collezione sono attestati vaghi con tre o quattro “occhi” disposti su una sola fila, perpendi-
colarmente al foro passante, ma più numerosi sono quelli con “occhi” disposti su due file; generalmen-
te, i vaghi di questo tipo presentano, dunque, quattro paia di occhi, ma non manca la variante con tre
paia di “occhi” associati ad uno, più grande, isolato. Più rari, ma documentati, sono vaghi con cinque
“occhi”, tre su una fila, due sull’altra.
La frequenza di rinvenimento nei più disparati contesti geografici, culturali, cronologici consente di
affermare che il tipo a “occhi” è il vago decorato di gran lunga più comune nel mondo antico e gli studi
specifici condotti da G. Eisen113, Th.E. Haevernick114, N. Venclova115, K. Kunter116, E. Ruano Ruiz117,
M. Spaer118, attraverso sistematici censimenti di alcuni repertori regionali, confermano come esso, noto
già nel XIV sec. in Mesopotamia e in Egitto, conosca, nel corso del I millennio, una diffusione capillare
e ad ampio raggio, non solo nelle regioni rivierasche del bacino mediterraneo, ma anche in aree
dell’Europa interna, in Russia meridionale e perfino in Cina119.
È poi documentato dal frammento n. 67 il tipo di vago cilindrico decorato solitamente con una o
più file di occhi rilevati, nella zona mediana; una o più file parallele di globetti, di colore contrastante
rispetto al fondo, applicati a rilievo, sottolineano inoltre gli orifizi del largo foro passante. Questo tipo
di vago, generalmente di grandi dimensioni, condivide con quelli prima illustrati un’ampia dispersione
mediterranea, con una discreta attestazione nelle aree di cultura punica, da Cartagine alla Sardegna, alla
penisola iberica, alle Baleari120; la sua consistente presenza nella regione del Mar Nero ha fatto ipotizza-
re l’esistenza, nella zona, di officine specializzate che avrebbero affiancato i centri di produzione vicino-
orientali e cartaginesi. Posto in connessione con i vaghi configurati a volto umano121, il tipo viene data-
to tra il V e il II sec. a.C.
Assimilabile al tipo definito da Th. E. Haevernick “Filottranoperlen”122, abbastanza noto in conte-
sti del Mediterraneo centrale123, è il vago n. 68, rinvenuto a Mozia, biconico, con il diametro massimo
sottolineato da due linee bianche inframmezzate da una fascetta gialla e grossi punti gialli e bianchi alter- 107
nati che sottolineano gli orifizi del foro passante.
Tra i vaghi cilindrici, oltre ai numerosi tubetti monocromi di piccole dimensioni, alcuni esemplari
di medio modulo presentano una decorazione piumata irregolare124. Sono ben attestati poi i lunghi vaghi
cilindrici o fusiformi (nn. 69-73) a fondo blu scurissimo o nerastro variegato di bianco, nella zona media-
na, con effetto “marmorizzato”, e linee bianche che sottolineano gli orifizi del foro passante: assai comu-
ni nei contesti funerari di cultura punica125, questi vaghi cominciano a diffondersi a partire dalla fine del
118 122
SPAER 2001. HAEVERNICK 1970.
119 123
MARKOE 2000. Cfr., per esempio, UBERTI 1993, nn. 100, 104, pp. 102-
120
Cfr. per esempio VENCLOVA 1983, pp. 12-13, figg. 2,3; 103, tavv. XIII-XIV; SCHLICK-NOLTE 2002 b, n. P55, p. 214.
124
4,1; 4,2; UBERTI 1988, ill. a p. 489; UBERTI 1993, nn. 107-108, RUANO RUIZ 1996, p. 63; NENNA 1999, nn. 183-188, p.
p. 64; KUNTER 1995, tavv. 4-7, 19; STERN - SCHLICK-NOLTE 144, tav. 54: SPAER 2001, pp. 100-103; CARRERAS - VIVES
1994, n. 39, p. 195; RUANO RUIZ 1996, pp. 40-41, 59-61; 2003, n. 27, p. 42.
125
SPAER 2001, pp. 86-87; SCHLICK-NOLTE 2002 b, nn. P53- GAUCKLER 1915, pp. 18-19, tav. CXXVI; UBERTI 1993,
P54, pp. 212-213; CARRERAS-VIVES 2003, n. 42, p. 49. Cfr. nn. 94-98, 109-111, 113, pp. 30, 44, 64, tavv. XII-XIII, XV-
inoltre SPANÒ GIAMMELLARO c.d.s. XVI; RUANO RUIZ 1996, pp. 65-66; COSTA - FERNANDEZ
121
SCHLICK-NOLTE 2002 b, pp. 212-213. 2004, n. 47, p. 281.
A. Spanò Giammellaro
VI sec. a.C. e restano in uso almeno fino al II126. Meno numerosi sono gli elementi di collana di forma
biconica o lenticolare (n. 47), quelli ellissoidali (n. 76), quelli poliedrici: tale tipo, che abbraccia anch’es-
so un ampio arco cronologico, perdura pressoché invariato fino alla piena età romana127. Infine un solo
vago (n. 53) esemplifica il tipo “a fusaiola” conica128.
108
AVVERTENZA AL CATALOGO
I materiali sono raggruppati nell’ambito della sequenza tipologica e cronologica presentata nel testo; vengono prima
presentati gli esemplari integri, poi i frammenti. Le schede comprendono, nell’ordine, i seguenti dati essenziali: luogo di con-
servazione, inventari, provenienza, dimensioni espresse in centimetri, stato di conservazione, tecnica e materiale, descrizione,
eventuali tipologie di riferimento, datazione, bibliografia relativa alla più recente edizione scientifica.
Per le collane che comprendono elementi di materiali diversi, vengono segnalate soltanto le dimensioni dei vaghi vitrei.
Nell’indicazione del materiale, il primo colore riportato è quello di base per la realizzazione sia dei balsamari che dei
pendenti.
La terminologia adottata nella descrizione dei reperti è quella di FERRARI ET ALII 1998.
I tipi indicati fanno riferimento alle seriazioni elaborate da GROSE 1989 e HARDEN 1981 per i balsamari, da SPANÒ
GIAMMELLARO 1979, SEEFRIED 1982 e UBERTI 1993 per i pendenti.
126 SPAER 2001, pp. 100-101. stazioni in altre regioni del Mediterraneo cfr. AUBET –
127 RUANO RUIZ 1996, pp. 67-68. MARTÍN RUIZ 1995, p. 151; RUANO RUIZ 1997, pp. 23-26;
128 Il tipo trova un preciso confronto siciliano in un esem- CAMPANELLA 2000, n. 206, pp. 122-123, tav. XXXVIII, a;
plare da Palermo: cfr. SPANÒ GIAMMELLARO c.d.s. Per le atte- CARRERAS - VIVES 2003, n. 24, p. 39.
I vetri preromani
12. Frammento di amphoriskos (Tav. III) 16. Frammento di amphoriskos (Tav. III)
N.I. 823. N.I. 826.
Mozia o Birgi, necropoli. Mozia o Birgi, necropoli.
H. 2,2; largh. 2,8. H. 2,6; largh. 3,1.
Modellazione su nucleo. Vetro blu e giallo. Modellazione su nucleo. Vetro blu, giallo, bianco.
Frammento pertinente alla bocca con orlo imbutifor- Frammento pertinente a parte della spalla e della zona
me filettato in giallo, al collo cilindrico e alle anse a superiore del corpo con decorazione a zig-zag di colo-
occhiello. re giallo e bianco, marginata in alto da una fascetta gial-
V sec. a.C. la che si allarga in una macchia di colore in corrispon-
denza di uno dei punti di frattura.
13. Frammento di amphoriskos (Tav. III) V sec. a.C.
N.I. 834.
Mozia o Birgi, necropoli. 17. Frammento di amphoriskos (Tav. III)
ø bocca 2,8. N.I. 825.
Modellazione su nucleo. Vetro blu e turchese. Mozia o Birgi, necropoli.
Frammento pertinente alla bocca con orlo imbutifor- H. 2,7; largh. 2,4.
me filettato in turchese. Modellazione su nucleo. Vetro blu, giallo, turchese.
V sec. a.C. Frammento pertinente alla zona mediana del corpo
con decorazione a zig-zag di colore turchese e giallo, 111
14. Frammento di amphoriskos (Tav. III) marginata in alto e in basso da linee gialle.
N.I. 836. V sec. a.C.
Mozia o Birgi, necropoli.
ø bocca 2,2. 18. Frammento di amphoriskos (Tav. III)
Modellazione su nucleo. Vetro blu e turchese. N.I. 820.
Frammento pertinente alla bocca con orlo imbutifor- Mozia o Birgi, necropoli.
me filettato in turchese. H. 3,5; largh. 2,6.
V sec. a.C. Modellazione su nucleo. Vetro blu, giallo, turchese.
Frammento pertinente alla zona inferiore del corpo
15. Frammento di amphoriskos (Tav. III) con decorazione a zig-zag di colore turchese e giallo,
N.I. 830. marginata in basso da due linee degli stessi colori.
Mozia o Birgi, necropoli. V sec. a.C.
H. 3,1; largh. 2,8.
Modellazione su nucleo. Vetro blu e giallo. 19. Aryballos (Tav. IV)
Frammento pertinente ad un tratto della spalla, decora- N.I. 810 (N.I.W. 2625).
ta con linee gialle, al collo e ad un’ansa verticale a Birgi, necropoli (?)
nastro. H. 5,9; ø 4,5; ø bocca 2,4.
V sec. a.C. Superficie alterata.
A. Spanò Giammellaro
Modellazione su nucleo. Vetro blu chiaro, giallo, tur- Grose classe I:B; forma I:2.
chese. Intorno alla metà del V sec. a.C.
Bocca con orlo imbutiforme filettato in giallo, collo SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 46, pp. 32, 64, tav. XII.
cilindrico; corpo globulare con decorazione a zig-zag
di colore giallo e turchese nella zona mediana, margi-
22. Aryballos (Tav. IV)
nata in alto da linee gialle; sottili anse ad “S” con
N.I. 809.
occhiello.
Birgi, necropoli.
Grose classe I:B; forma I:2.
H. 4,6; ø 3,3; ø bocca 2,4.
V sec. a.C.
WHITAKER 1921, p. 331, fig. 107. Manca un frammento dell’orlo; delle anse resta soltan-
to un piccolo apice.
Modellazione su nucleo. Vetro azzurro carico, giallo,
20. Aryballos (Tav. IV) turchese.
N.I. 808. Bocca con orlo imbutiforme filettato in turchese,
Birgi, necropoli. breve collo cilindrico con linee gialle; corpo ovoida-
H. 6,5; ø 5; ø bocca 2,9.
le decorato nella zona mediana con un motivo a zig-
Lacune alla bocca e sul corpo. zag giallo e turchese, marginato in alto da linee gial-
Modellazione su nucleo. Vetro blu giallo, turchese.
le e in basso da linee turchese; anse a “S” con
Bocca con orlo imbutiforme filettato in giallo, collo
occhiello.
112 cilindrico, corpo globulare lievemente appiattito, deco-
Grose classe I:B; forma I:2.
rato nella zona mediana con un motivo a zig-zag giallo
V sec. a.C.
e turchese marginato in alto e in basso da linee gialle;
SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 47, pp. 32, 64, tav. XII.
anse ad “S” con occhiello.
Grose classe I:B; forma I:2.
Prima metà del V sec. a.C. 23. Aryballos (Tav. IV)
SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 45, pp. 32, 63, tav. XI. N.I. 829.
Birgi. necropoli (?)
21. Aryballos (Tav. IV) Fr. corpo: H. 4,2; ø 4,9; fr. bocca: ø 2,8.
N.I. 807. Frammentario. Superficie alterata.
Birgi, necropoli. Modellazione su nucleo. Vetro blu chiaro, giallo, tur-
H. 5,4; ø 4,1; ø bocca 2,8. chese.
Scheggiature sulla bocca, colori abrasi. Bocca con orlo imbutiforme filettato in giallo, tozzo
Modellazione su nucleo. Vetro blu, giallo, turchese. collo cilindrico; corpo globulare con decorazione a zig-
Bocca con orlo imbutiforme filettato in giallo, breve collo zag di colore giallo e turchese nella zona mediana, mar-
cilindrico con filamenti gialli, corpo globulare decorato ginata in basso da linee turchese; anse ad “S” con
nella zona mediana con un motivo a zig-zag giallo e tur- occhiello.
chese marginato in alto da linee gialle, in basso da linee Grose classe I:B; forma I:2.
gialle e turchese; anse ad “S” con occhiello. V sec. a.C.
I vetri preromani
Grose classe II:A; forma II:3. Modellazione su nucleo. Vetro blu chiaro e giallo
Metà IV – inizi III a.C. chiaro.
SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 49, pp. 33, 64, tav. XII. Frammenti pertinenti alla bocca trilobata, al collo,
all’ansa verticale a nastro, soprelevata e a piccola parte
della spalla, al piede discoidale; la decorazione, costi-
30. Frammenti di oinochoe (Tav. V)
tuita da sottili filamenti gialli applicati a rilievo, sottoli-
N.I. 822.
nea l’orlo della bocca, il collo e la costa del piede.
Birgi, necropoli.
Harden gruppo II, forma 6; Grose classe II: A; forma
a) H. 3,2; largh, 3,2;
II:8.
b) H. 3,1; largh. 3,2.
Metà IV- inizi III sec. a.C.
Distorti per combustione.
Modellazione su nucleo. Vetro blu e bianco.
Frammenti pertinenti alla bocca e alla zona inferiore 33. Unguentario (Tav. VI)
del corpo con decorazione a linee bianche. N.I. 817.
Grose classe II:A; forma II:3. Lilibeo (?).
Metà IV – inizi III a.C. H. 11,1; ø 5,2; ø bocca 2,2; ø piede 2,2.
Ricomposto da più frammenti. Superficie corrosa.
Modellazione su nucleo. Vetro blu, giallo e bianco.
31. Oinochoe (Tav. V) Bocca con orlo a disco orizzontale; alto collo cilindrico
114 N.I. 813. con linee bianche, spalle oblique; corpo ovoidale
Birgi, necropoli. appuntito decorato con motivo a zig-zag giallo e bian-
H. 4,2; ø 3,7; bocca 2,00 x 2,1. co, scandito da pseudo-baccellature, marginato in alto
Parzialmente ricomposta da più frammenti. e in basso da linee gialle; alto stelo cilindrico che si
Modellazione su nucleo. Vetro blu e giallo. allarga verso la base a disco, presine configurate a disco
Bocca con orlo trilobato filettato in giallo, corto collo appiattito.
cilindrico filettato in giallo, corpo ovoidale con sottili fila- Grose classe II:G; forma II:1.
menti gialli paralleli applicati a rilievo; bassa e ampia base III – II sec. a.C.
a cuscinetto con filamenti gialli, ansa verticale a nastro. SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 51, pp. 33, 65, tav. XIII.
Harden gruppo II, forma 6; Grose classe II: A; forma
II:8.
Metà IV - inizi III sec. a.C.
34. Unguentario (Tav. VI)
N.I. 815 (N.I.W. 2623).
SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 48, pp. 33, 64, tav. XII.
Lilibeo, necropoli (?).
H. 8,4; ø 4,00; ø bocca 2,1; ø piede 2,4.
32. Frammenti di oinochoe (Tav. V) Manca un frammento di un’ansa.
N.I. 827. Modellazione su nucleo. Vetro blu scuro, giallo limone,
Lilibeo, necropoli (?). turchese.
a) bocca 1,8 x 1,8. Bocca con orlo a disco orizzontale; alto collo cilindrico
b) piede largh. 1,7 decorato con linee turchese; spalle oblique con linee
I vetri preromani
gialle; corpo ovoidale decorato nella zona mediana con 37. Frammenti di unguentario (Tav. VI)
un motivo a zig-zag giallo e turchese, scandito da pseu- N.I.W. 2950.
do-baccellature, marginato in basso da linee gialle; Lilibeo, necropoli (?).
stelo cilindrico che si allarga verso la base a disco; pre- H. 1,8/ 3,5; largh. 1,4/3,00; ø collo 1,8.
sine a occhiello impostate obliquamente sulle spalle. Modellazione su nucleo. Vetro blu nerastro, bianco e
Grose classe II:G; forma II:1. giallo.
III – II sec. a.C. Frammenti pertinenti al lungo collo cilindrico, alla
SPANÒ GIAMMELLARO 1990 a, p. 69, tav. II, 2. zona mediana e inferiore del corpo ovoidale decorato
nella zona mediana con un motivo a festoni rovesciati
35. Unguentario (Tav. VI) bianchi e gialli, al piede a bottoncino.
N.I. 816 (N.I.W. 2635). Grose classe II:G; forma II:3.
Birgi, necropoli (?). III - II sec. a.C.
H. 6,4; ø 4,00; ø bocca 1,9.
Mancano il piede e un frammento della bocca; superfi-
cie alterata e corrosa; decorazione in parte scrostata.
Modellazione su nucleo. Vetro blu, giallo e turchese.
Bocca con orlo a disco orizzontale; alto collo cilindri- PENDENTI
co; spalle oblique con linee gialle e turchese; corpo
ovoidale decorato nella zona mediana con un motivo Pendenti policromi 115
a zig-zag giallo e turchese, scandito da pseudo-baccel-
lature, marginato in basso da linee gialle; presine a 38. Pendente a testa maschile (Tavv. VII, XV)
bottoncino appiattito impostate obliquamente sulle N.I. 1832.
spalle. Birgi, necropoli.
Grose classe II:G; forma II:1. H. 1,7; ø 1,2; spess. 1,1.
III – II sec. a.C. Un’ampia lacuna interessa il naso, l’occhio sinistro e la
parte inferiore del volto; mancano l’anello per la
36. Frammenti di unguentario (Tav. VI) sospensione e gli occhi; mal conservati le orecchie e gli
N.I.W. 2950. orecchini; qualche scheggiatura.
Lilibeo, necropoli (?). Modellazione su nucleo. Vetro nero e giallo.
a) H. 2,7; largh. 3,00; Volto ovale giallo con barba e capelli lisci neri; benda
b) H. 2,5; largh. 1,6. ritorta gialla e nera; spesse sopracciglie nere che si
Modellazione su nucleo. Vetro blu scuro e giallo. dipartono dalle orecchie per congiungersi sul naso;
Frammenti del corpo ovoidale decorato nella zona ampie arcate orbitali nere; ai lati del volto, tre piccole
mediana con un motivo a zig-zag giallo, scandito da protuberanze gialle ai lati del volto. Anello per la
pseudo-baccellature. sospensione applicato sulla testa, perpendicolarmente
Grose classe II:G; forma II:2. al volto.
III - II sec. a.C. Fa parte della Collana n. 47.
A. Spanò Giammellaro
Spanò Giammellaro, tipo C; Seefried tipo B III; e dal mento alquanto pronunziato; grandi orbite ocula-
Uberti, tipo B,b. ri bianche; tracce di elementi applicati ai lati del volto,
V – IV sec. a.C. forse sopracciglia e orecchie.
SPANÒ GIAMMELLARO 1979, n. 8, p. 33, fig. I, tav. I, III. Fa parte della Collana n. 47.
Spanò Giammellaro, tipo H; Seefried, tipo E V; Uberti,
tipo D,c.
39. Pendente a testa maschile (Tavv. VII, XV)
V – fine IV sec. a.C.
N.I. 1814.
SPANÒ GIAMMELLARO 1979, n. 24, p. 39, fig. IV, tav. VII.
Necropoli di Birgi.
H. 4,4; largh. 5,5; spess. 2,1.
Mancano alcuni riccioli dei capelli, le orecchie, le 41. Pendente (Tavv. VII, XV)
sopracciglia; della barba resta un solo boccolo intero e N.I. 6093 (N.I.W. 2261).
tracce degli altri. Birgi, necropoli.
Modellazione su nucleo. Vetro blu, turchese, nocciola ø 4,4; spess. 2,2.
chiaro, vetro bianco. Discreto; manca metà dell’anello per la sospensione;
Volto ovale turchese con barba e capelli a riccioli color una lacuna, qualche scheggiatura e piccoli fori di cor-
nocciola chiaro su base blu, sopracciglia bianche, ben rosione; i colori hanno perduto la lucentezza.
evidenziate che si congiungono alla sommità del naso Modellazione a stampo; vetro blu, bianco e giallo.
turchese a bulbo, occhi con contorno e pupille blu, Pendente a medaglione circolare blu con quattro pro-
116 cornea bianca; labbra bianche carnose; tre piccole pro- tuberanze gialle lungo la circonferenza; al centro, pic-
tuberanze ai lati del volto riproducono le orecchie gial- colo umbone giallo sottolineato da una fascetta circola-
le e gli orecchini bianchi. Anello per la sospensione blu re gialla. Intorno, motivi a spirale bianchi. Anello per
applicato sulla testa, perpendicolarmente al volto. la sospensione applicato alla sommità.
Fa parte della Collana n. 47. VI - IV sec. a.C.
Spanò Giammellaro, tipo D; Seefried, tipo C III; SPANÒ GIAMMELLARO 2004 A, n. 96, p. 75, tav. XXV.
Uberti, tipo B,d.
Fine V - IV sec. a.C.
SPANÒ GIAMMELLARO 1979, p. 35, n. 10, fig. I, tavv. I, IV.
Pendenti monocromi
40. Pendente a testa di babbuino (Tavv. VII, XV) 42. Pendente a testa femminile bifronte (Tavv. VIII, XV)
N.I. 1833. N.I. 1829 (N.I.W. 2240).
Birgi, necropoli. Birgi, necropoli.
H. 2,6; largh. 1,6; spess. 1,7. H. 2,7; largh. 2,4; spess. 1,4.
Mancano il bulbo dell’occhio destro, le orecchie e Lieve scheggiatura sull’orlo; incrostazioni superficiali.
l’anello per la sospensione; tracce di elementi applicati Modellazione su asta, con doppio stampo. Vetro blu
sulla fronte ai lati del volto. cobalto traslucido.
Modellazione su asta. Vetro nerastro e bianco. Volti pressoché identici, non allineati, ovali e con tratti
Volto caratterizzato dalla bocca notevolmente incavata somatici ben evidenziati; capelli acconciati con una dop-
I vetri preromani
pia fila di riccioli che formano un motivo a fiore sulla COLLANE ED ELEMENTI DI COLLANE
fronte e scendono in due bande simmetriche ai lati del
collo adorno di una collana a due fili; anello per la sospen-
sione applicato alla sommità di una delle due facce. 45. Collana (Tav. IX)
Sutura delle due facce evidenziata da un bordo largo pro- Marsala, Museo Archeologico Regionale, N.I. MR 4193.
dotto dal vetro pressato tra le due valve dello stampo. Mozia, necropoli arcaica.
Fa parte della collana n. 52. Lungh. vaghi di vetro: ø 0,3; spess. 0,1.
Spanò Giammellaro, tipo F; Uberti, tipo B, l. Modellazione su asta. Vetro nero e bianco.
IV - III sec. a.C. Collana costituita da minuscoli vaghi cilindrici e anulari
SPANÒ GIAMMELLARO 1979, n. 16, p. 37, fig. III, tav. II,V. di vetro bianco e nero e da un vago globulare d’argento.
Whitaker 1921, p. 334, f.
43. Pendente a testa femminile bifronte (Tavv. VIII, XV)
N.I. 1816. 46. Collana (Tav. IX)
Birgi, necropoli (?). N.I. 947.
H. 1,5; largh. 1,3; spess. 0,8. Vaghi di vetro: tubetti lungh. 1,1/1,7, diam. 0,5; biconici diam.
Consunta; ampia scheggiatura in corrispondenza del 0,8; globulari: diam. 0,9/1,5.
foro di lavorazione e di parte dell’acconciatura; manca Modellazione su asta. Vetro nerastro, dorato, perlaceo,
l’anello per la sospensione. turchese, nocciola. Osso. Pasta silicea. Pietra dura.
Modellazione su asta, con doppio stampo. Vetro blu Corallo. Collana composta da quarantadue vaghi di vetro,
cobalto traslucido. 117
due cilindretti di pasta silicea turchese, tre anelli e due
Volti, pressochè identici, ovali e con tratti somatici ben
astragali d’osso, un lungo osso cilindrico a puntini incisi e
evidenziati; capelli acconciati con riccioli che scendono
con un foro circolare sulla superficie, un anello di pietra
in due bande simmetriche ai lati del collo; sulla fronte,
dura nera, un frammento di rametto di corallo rosso.
benda con piccola cavità centrale; anello per la sospen-
Vaghi di vetro: nove tubetti di vetro nerastro, un tubet-
sione applicato alla sommità di una delle due facce.
Spanò Giammellaro, tipo F; Uberti, tipo B, l. to di vetro perlaceo, un tubetto di vetro turchese, un
IV- III sec. a.C.
tubetto di vetro dorato, un frammento di grosso tubet-
SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 95, pp. 38, 74, tav. XXIV.
to nerastro con filamenti bianchi a festone, diciassette
biconici blu-nerastro con patina biancastra, sei irrego-
larmente globulari e anulari blu, uno globulare blu con
44. Pendente a prisma appuntito (Tavv. VIII, XV) filamenti bianchi che sottolineano il diametro, tre glo-
N.I. 950 (N.I.W. 3964).
bulari nerastri con decorazione a “occhi” bianca, due
Birgi, Necropoli; Terre di Sanges (Collezione Cammareri).
globulari bianco-verdognoli con costolature saldati.
H. 4,2; ø 0,7.
VI – IV sec. a.C.
Superficie alterata.
Modellazione a stampo. Vetro color miele scuro.
Pendente a forma di prisma esagonale desinente a punta. 47. Collana (Tav. IX)
VI - V sec. a.C. N.I. 910 (N.I.W. 2241).
SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 106, p. 76, tav.XXVII. Birgi, necropoli (?).
A. Spanò Giammellaro
Vaghi di vetro: globulari: ø 0,7/2,2; anulari: ø 0,7/1,4; biconici: 49. Collana (Tav. X)
ø 1,1/1,9; cordiforme: H. 1,7, largh. 1,5; tubetti: lungh. 0,7/3,1; N.I. 907.
ø 0,4/0,9. Birgi. Necropoli (?).
Modellazione su asta. Vetro blu, nero, bianco, verde Vaghi: ø 0,8/1,4.
chiaro, verde scuro, blu, azzurro, nocciola. Pietra dura Vaghi con superficie a tratti alterata o corrosa.
nerastra. Pasta silicea. Corniola. Modellazione su asta. Vetro bianco, nero, blu, turche-
Collana ricomposta con trentasei vaghi di vetro, sei se, giallo.
vaghi di pasta silicea smaltata; tre vaghi di corniola; una Collana ricomposta con trentuno vaghi globulari
conchiglia;un vago in osso; un amuleto in pasta silicea di vetro: due monocromi, uno turchese, uno blu;
smaltata; un amuleto in osso; tre pendenti in vetro poli- ventitré turchese con decorazione a “occhi” bian-
cromo (nn. 38, 39, 40). ca e blu; tre gialli di cui due con decorazione a
Vaghi di vetro: sei vaghi globulari monocromi verde “occhi” bianca e blu, uno con decorazione a
chiaro, blu e neri; dodici vaghi globulari con decorazio- “occhi” bianchi e blu con contorno marrone; uno
ne impressa a “occhi”; tre vaghi globulari baccellati; nero con decorazione a “occhi” gialla; uno blu
quattro vaghi anulari blu, nero, verde scuro traslucido; costolato, con filamenti bianchi nel senso dalla lar-
due vaghi anulari con decorazione a “occhi”, con orifizi ghezza, uno turchese con due motivi a zig-zag
sottolineati da globetti applicati a rilievo; cinque vaghi bianchi e pois gialli.
biconici di colore marrone chiaro, verde, bianco; un VI - IV sec. a.C.
118 vago cordiforme; un tubetto fusiforme, rotto in due SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 107, p. 76, tav. XXVII.
parti, con decorazione a linee ondulate con effetto di
venature marmoree; due piccoli vaghi tubolari nocciola.
50. Collana (Tav. X)
VI - III sec. a.C.
N.I. 909 (N.I.W. 1608, 1653).
WHITAKER 1921, fig. 107.
Vaghi di vetro: globulari ø 0,8/1,1; anulare ø 1,7; bitronco-
conico ø 1,1.
48. Collana (Tav. X) Modellazione su asta. Vetro blu, bianco, turchese,
N.I. 950 (N.I.W. 3964). nero.
Birgi, necropoli; Terre di Sanges (Collezione Cammareri). Collana ricomposta da nove vaghi d’osso, quattordici
Vaghi: lungh. 4,00/5,5; ø 0,8/1,1; Pendente: lungh. 4,2, ø 0,7. amuleti in corniola, pasta silicea smaltata, osso, otto sca-
Corrosioni; rotti due vaghi, superficie del pendente rabei in diaspro verde, corniola e pasta silicea smaltata,
alterata. uno scaraboide, cinque vaghi in pasta silicea smaltata,
Modellazione su asta; uso di stampo. Vetro nerastro, uno in corniola, uno in cristallo di rocca, uno in coral-
bianco e miele scuro. lo, quattro in bronzo.
Collana composta da sette lunghi vaghi a fondo nera- Vaghi di vetro: due vaghi globulari turchese blu con
stro variegato di bianco. Al centro, tra due vaghi anu- occhi bianchi e blu, uno anulare nero con decorazione
lari, pendente n. 44. a “occhi” scrostata, tre turchese, uno anulare blu, uno
VI - V sec. a.C. bitroncoconico nero.
SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 106, p. 76, tav. XXVII. VI - IV sec. a. C.
I vetri preromani
51. Collana (Tav. XI) razione a “occhi”; un vago anulare baccellato; due
N.I. 913 (N.I.W. 2505). vaghi biconici marrone chiaro, uno verde chiaro;
Mozia – Sarcofago presso la Porta Nord. tre vaghi di vetro nero di forma bi-troncoconica
Vaghi di vetro: lungh. 0,2/2,2; ø 0,3/0,7; pendente: H. 1,7; ø 1,4. sfaccettati; un vago a oliva con linea impressa che
Modellazione su asta. Vetro bianco e nero; diaspro sottolinea il diametro.
verde e steatite. IV sec. a.C.
Collana ricomposta con centosettantasei vaghi di vetro WHITAKER 1921, p. 334, c, fig. 107.
bianchi e neri a tubetto, a piccole perline pressoché
cilindriche o sferiche, a goccia; due scarabei, uno in 53. Collana (Tav. XI)
diaspro verde e uno in steatite; pendente costituito da N.I. 908 (N.I.W. 2504).
una piccola brocca miniaturistica. Sul fondo nerastro Mozia, necropoli di Porta Nord (dentro un sarcofago). Scavi
motivi a zig-zag in rilievo; sull’orlo della bocca filamen- Whitaker 1911.
to bianco. Vaghi di vetro: globulari ø 0,8/1,5; anulare: ø 0,9;
V sec. a.C. - V sec. d.C. fusaiola: H. 1,4, ø 2,00; tubetti: lungh. 1,5/1,9, ø 0,5/0,7.
SPANÒ GIAMMELLARO 2004 a, n. 108, p. 77, tav.XXVIII. Vetro turchese degradato in bianco.
Modellazione su asta. Vetro nero, blu nerastro,turche-
se, giallo e bianco. Ambra. Bronzo.
52. Collana (Tav. XI)
Collana ricomposta con nove vaghi di vetro, un vago di
N.I. 912 (N.I.W. 2240). 119
bronzo, quarantatré vaghi d’ambra.
Necropoli di Birgi.
Vaghi di vetro: due globulari turchese, due globulari di
Vaghi di vetro: globulari: ø 0,6/0,9; anulari: ø 0,9/1,4; biconici:
vetro nerastro con decorazione a macchie bianche, uno
ø 0,7/1,3; bi-tronoconici: H. 0,6, ø1,00; a oliva: H. 1,7 ø 0,9.
globulare nerastro con decorazione impressa a “X” uniti
Tracce di combustione; vetro blu talora degradato in
a formare losanghe entro le quali campeggiano occhi
bianco.
gialli con iride nera, uno a fusaiola nerastro con patina
Modellazione su asta. Vetro nero, verde chiaro, verde
dorata, uno anulare blu/nerastro, due tubetti neri, qua-
scuro, blu, azzurro, marrone. Pietra dura nerastra.
rantatré vaghi d’ambra sfaccettati, un vago di bronzo.
Argento. Bronzo. Pasta silicea. Corniola.
Età tardo-ellenistica.
Collana ricomposta con ventisette vaghi di vetro, due
vaghi di corniola, un vago di bronzo, tre vaghi d’ar-
gento, due vaghi di pasta silicea smaltata, due penden- 54. Elementi di collana (Tav. XII)
ti d’argento a cestello parallelepipedo sormontato da Senza N.I.
una piccola piramide a granulazione, un pendente di ø 0, 9/0,11.
vetro (n. 42). Modellazione su asta; vetro nero e bianco.
Vaghi di vetro: tre vaghi globulari monocromi blu e Quattro vaghi di vetro di forma globulare: tre neri, uno
neri; sei vaghi globulari con decorazione impressa a bianco.
“occhi”; otto vaghi anulari blu, marrone, nero, Rinvenuti insieme ad un frammento osseo e ad un vago
verde scuro traslucido; un vago anulare con deco- d’argento.
A. Spanò Giammellaro
55. Elemento di collana (Tav. XII) 60. Elemento di collana (Tav. XII)
N.I. 938. N.I. 866.
H. 1,00; ø cons. 2,2. ø 2,4.
Modellazione su asta; vetro blu. Modellazione su asta; vetro marrone scuro, bianco e
Manca la metà. nero.
Mezzo vago globulare. Vago globulare marrone scuro decorato con tre ampi
tondelli bianchi, in ciascuno dei quali sono inseriti
56. Elemento di collana (Tav. XII) quattro punti neri.
N.I. 884.
H. 1,5; ø 1,6. 61. Elemento di collana (Tav. XII)
Superficie corrosa. N.I. 936.
Modellazione su asta; vetro blu scuro, rosso scuro, bianco. H. 1,2; ø 3,4.
Vago irregolarmente globulare blu scuro con macchie Rotto in due parti.
multicolori poco leggibili. Modellazione su asta; vetro blu e bianco.
Grosso vago anulare blu con motivo a grandi occhi
57. Elemento di collana (Tav. XII) bianchi e blu applicati a rilievo.
N.I. 926.
ø 1,00.
120 62. Elemento di collana (Tav. XIII)
Modellazione su asta; vetro blu, turchese e bianco.
N.I. 949 (N.I.W. 1688).
Vago globulare turchese con motivi a “occhi” di colo-
H. 1,3; ø cons. 2,1.
re blu e bianco.
Modellazione su asta; vetro verde translucido.
Vago globulare baccellato.
58. Elemento di collana (Tav. XII)
N.I. 877.
H. 1,00; ø cons. 2,2.
63. Elemento di collana (Tav. XIII)
Schiacciato e deformato dal fuoco. N.I. 875.
Modellazione su asta; vetro blu, bianco e nero. H. 1,7; ø cons. 1,9.
Vago globulare blu con motivi a “occhi” bianchi e neri. Manca un frammento.
Modellazione su asta; vetro blu translucido.
Vago globulare baccellato.
59. Elemento di collana (Tav. XII)
N.I. 882.
H. 1,2; ø cons. 1,8. 64. Elemento di collana (Tav. XIII)
Modellazione su asta; vetro blu, nero e bianco. N.I. 872.
Manca la metà. H. 1,3; ø cons. 1,9.
Mezzo vago blu anulare con motivi a “occhi” di colore Modellazione su asta; vetro blu translucido.
nero e bianco. Mezzo vago baccellato.
I vetri preromani
65. Elemento di collana (Tav. XIII) Frammento di vago cilindrico nerastro con decorazio-
N.I. 874. ne piumata bianca marginata da linee bianche alle
H. 1,5; ø cons. 2,1. estremità.
Manca la metà.
Modellazione su asta; vetro verde translucido.
Vago globulare baccellato. 70. Elemento di collana (Tav. XIV)
N.I. 934.
H. 3,5; ø cons. 1,1.
66. Elemento di collana (Tav. XIII) Decorazione a tratti scrostata.
N.I. 881. Modellazione su asta; vetro nerastro e bianco.
H. 0,4; ø cons. 1,4. Vago a tubetto nerastro con decorazione piumata bian-
Modellazione su asta; vetro nerastro translucido. ca marginata da linee bianche alle estremità.
Vago anulare.
74. Elemento di collana (Tav. XIV) 75. Elemento di collana (Tav. XIV)
N.I. 898. N.I. 1815.
Lungh. 2,5; ø 1,00. H. 1,6; ø cons. 1,1.
Modellazione su asta e a stampo. Vetro blu. Rotto ad una estremità.
Lungo vago poliedrico con foro passante nel senso Modellazione su asta; vetro turchese.
della lunghezza. Vago ellissoidale schiacciato.
122
I vetri preromani
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130
Gli esemplari nn. 27-30 e 38-39, illustrati nelle tavv. V e VII, sono riprodotti in scala 2:1.
Foto di:
I. Giammellaro
A. Spanò Giammellaro
Disegni di:
M. Schiera (nn. 41, 44)
A. Spanò Giammellaro (nn. 38-40, 42-43)
I vetri preromani
131
Tav. I
A. Spanò Giammellaro
6
7
132
Tav. II
I vetri preromani
9 10 11 12
15 133
13 14
17
16 18
Tav. III
A. Spanò Giammellaro
19 20 21
134
22 23 24 25 26
Tav. IV
I vetri preromani
135
27 28 29
30 31 32
Tav. V
A. Spanò Giammellaro
35
136 36
33
37
34
Tav. VI
I vetri preromani
38
39 137
40
41
Tav. VII
A. Spanò Giammellaro
42
138
44
43
Tav. VIII
I vetri preromani
139
45 46
47
Tav. IX
A. Spanò Giammellaro
140
50
48
49
Tav. X
I vetri preromani
51
53
141
52
Tav. XI
A. Spanò Giammellaro
56
55
54
57
142
58
59 60
61
Tav. XII
I vetri preromani
62 63 64
143
65 66
67 68
Tav. XIII
A. Spanò Giammellaro
70
69
71
144
73
75
72
74
Tav. XIV
I vetri preromani
38
40
39
42 145
41
43
44
Tav. XV
Finito di stampare
PALERMO, SETTEMBRE 2008