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Legami ed Evoluzione
ASPETTI E CARATTERI
DEI TRAPPETI IPOGEI IN PUGLIA
Copyright 2007
Redattori:
Michele DE MARCO, Gian Claudio SANNICOLA.
RINGRAZIAMENTI
Per la realizzazione di questo lavoro si ringraziano tutti coloro che hanno
collaborato alla sua realizzazione, ed in modo particolare:
- i Soci dello Speleo Club Criptae Aliae di Grottaglie;
- il Sig. Vincenzo Manghisi, curatore del Catasto delle Cavit artificiali
della Puglia della Societ Speleologica Italiana, per aver messo a
disposizione i dati aggiornati relativi ai frantoi ipogei;
- i Sig.ri Cataldo Brittannico, Ciro Dal e Antonio La Corte per i preziosi e
dettagliati resoconti storici sui processi di lavorazione delle olive;
- i Sig.ri Michele Trani ed Eligio Alabrese per le ricostruzioni storiche sui
mastri falegnami;
- la Dott.sa Silvia De Vitis per il contributo sulla Bottega Dormiente;
- il Sig. Ciro Ligorio per la documentazione storica sulla concessione della
sansa ai figuli;
- tutti i proprietari dei frantoi per la pazienza e la disponibilit dimostrata
nellaverci dato accesso.
- i Sig.ri A. V. Greco, C. Quaranta ed il Gruppo Speleologico
LecceseNdronico per le immagini gentilmente concesse.
1. LE ORIGINI DELLINDUSTRIA MOLITORIA
Fig.4. Lucernario e torchio gigante allinterno del frantoio S. Elia nel rione dei
Paolotti in Grottaglie (TA).
Foto: P. Carbotti.
Questultima, antica Gravina di San Giorgio (da una chiesetta una volta
sita nei pressi), raccoglieva le acque di scolo della parte alta della citt,
fungendo da ideale approvvigionamento idrico per quelle lavorazioni
sporche nella produzione dellolio e delle pelli, che avvenivano nella parte
bassa del rione.
Non un caso che lattuale quartiere delle ceramiche si sia integrato
anticamente con i frantoi ipogei in funzione del risparmio economico legato,
alla produzione passiva della sansa da parte dei frantoi e al consumo della
stessa per la cottura dei manufatti in ceramica allinterno dei forni a legna.
Infatti da documenti storici si riscontra che nel corso dellottocento le pi
grandi botteghe figule si accaparravano il nocciolo di oliva con dei contratti
regolarmente registrati.
In un documento, tratto dallArchivio di Stato di Taranto del Notaio
Manigrasso Domenico stilato nel 1841, i fratelli Papocchia (figuli)
acquistarono tutto il Nocciolo delle olive mulite nel corso di un sessennio
(1841 1847) dal trappeto del signor Serio, situato in contrada i Camini
(Quartiere delle Ceramiche).
Tale contratto era regolato da diversi patti:
1. i fratelli Papocchia erano tenuti a pagare grana cinquantatre
dargento per ogni macina dolive (pari a 20 tomola, circa 800 kg);
2. a garantire il necessario alla giurma dei trappitari secondo luso
patrio e la consuetudine locale;
3. ad ogni messa in furina (in funzione) del fattajo (trappeto) i due
fratelli dovevano dare un anticipo di 20 ducati (pari a circa 38 macine) in
conto del prezzo delle macine da scomputare nellultimo bimestre di ogni
anno;
4. durante lapertura del fattajo ogni due mesi, a partire dal primo
giorno, i Papocchia dovevano fare i conti col fattajano (capo del trappeto)
per le macine mulite;
5. terminata la molitura e chiuso il trappeto le chiavi venivano
consegnate ai due fratelli che potevano accedere ogni volta lo volevano per
poter rilevare il nocciuolo e le chiavi rilasciate in settembre dellultimo
anno. Se nel penultimo anno la raccolta delle olive sar scarsa le chiavi
saranno restituite al proprietario;
6. si doveva redigere un inventario in doppia copia degli oggetti e
legnami esistenti nel trappeto ;
7. infine viene precisato che i Papocchia non potevano utilizzare i locali
ad uso di magazzino per i propri manufatti.
I contratti di prelievo della sansa non erano tutti condizionati alla stessa
maniera, potevano variare gli anni di concessione, il prezzo, il poter o non
potere utilizzare i locali ad uso di magazzino, generalmente si confacevano
al contratto su descritto.
3. LIMPIANTO DEL FRANTOIO SOTTERRANEO
Fig.5. Lu Zuccatore.
Foto: G.C.Sannicola.
Sia nel tessuto urbano che nei territori extra-urbani i trappeti sono stati
scavati in maggioranza nelle rocce calcarenitiche, volgarmente dette: tufo,
pietra mazzara o carparo e pietra leccese o biancone; queste pi tenere e
quindi pi facilmente scavabili le rinveniamo pi diffuse nei territori del
tarantino, brindisino e leccese.
Lo scavo, sia che si procedesse in orizzontale che in verticale allinterno
della bancata rocciosa, lo si operava con un attrezzo chiamato zuecco
(piccone rudimentale dalla lunga penna), procedendo in funzione della
compattezza della pietra o ad intacchi paralleli e trasversali, sia verticali che
orizzontali (fig.7) sul fronte di scavo, rimuovendo poi mediante colpi di
mazza, cunei di legno o ferro e scalpelli, i blocchi da riutilizzare
successivamente, oppure a tufu muertu (roccia asportata senza alcun
riutilizzo); le pareti venivano poi rifinite, il tutto procedendo man mano
dall'esterno verso l'interno.
Se si operava nel carparo, la cosiddetta pietra mazzara (come nel caso
del frantoio Cortemaggiore a Grottaglie), venivano aperte delle fosse nel
terreno, in cui si procedeva dall'alto verso il basso, sempre con scavi a solchi
paralleli e trasversali con il successivo recupero dei blocchi, con i quali si
andava poi a costruire il soffitto costituito generalmente da volte a botte.
Nel calcare detta anche pietra viva, i frantoi ipogei si riscontrano in
numero pi esiguo, ivi essendo la pietra particolarmente dura e compatta, si
utilizzavano maggiormente le grotte (fig.8), sfruttando la loro ampiezza e le
forme interne, onde scavare il meno possibile la roccia e quindi sistemando
al meglio quelle che erano le varie attrezzature (macine, torchi, ecc.).
Fig.13. Macina a tre ruote nel frantoio (semipogeo) Cavallo in Grottaglie (TA).
Una volta avvenuta la prima molitura, la pasta delle olive era prelevata
dalla macina e deposta su di una vasca ricavata nella roccia o fatta di legno
con i bordi rialzati e chiamata mattra o madia. Da qui veniva poi sistemata
nei fiscoli, a forma di canestro per il torchio alla calabrese e
successivamente su dischi con il torchio alla genovese. Poggiati uno
sull'altro, intercalandoli a gruppi da dischi semiimpermeabili (onde favorire
la fuoriuscita dellolio dalle parti pi interne dei fiscoli) sulla grossa pietra
basale del torchio, si operava una prima pressatura o strizzatura.
Il torchio alla Calabrese (dal latino torculum, tradotto in strettoio), era
usato in tutto il regno di Napoli sino ai primi anni dellottocento ed
identificava gli stessi trappeti (trappeto alla Calabrese), questo costituito da
due vitoni fissi verticali poggianti su blocchi di pietra dura ed in alto
incastrati nel soffitto roccioso, sui quali vitoni scorreva il travone di
pressaggio dei fiscoli. Successivamente si passati al torchio alla
Genovese (fig.14), formato da un castello di legno o di muratura e costituito
da due assi verticali forniti di due guide entro cui scorreva il disco pressante
sui fiscoli, questo era solidale alla testa di un unico vitone girevole
imperniato in una vite madre (la scrofula) bloccata al castello superiore in
legno o in pietra (lu cuenzo), il tutto appoggiava su basamenti di pietra dura
(pietra mazzara o calcare) anchesso chiamato cuenzo. Nei quattro fori
laterali alla base del vitone, i trappetari infilavano un'asta, detta bardasciola,
per produrre la stretta necessaria alla fuoriuscita dellolio dalla pasta.
Fig.14. Torchio alla Calabrese (disegno da A.Monte 1995) ed alla Genovese nella
Bottega Dormiente in Grottaglie (foto di G.C.Sannicola).
Lintroduzione del nuovo tipo di spremitoio dai primi anni del secolo
scorso, fu dovuto anche al D.A. Tupputi, che nel suo Rejlexion succintes
scrive: Il funzionamento del torchio (alla calabrese n.d.r.) pieno di difetti
dal momento che esso non agisce perpendicolarmente sui canestri che
contengono la pasta. Mi sembra che il torchio adottato a Genova e
Marsiglia meriti di essere preferito a quello usato nel regno di Napoli.
Il Moschettini, prima citato, ci annota sul torchio: Quello, che oggi in
uso, o ad una, o a due viti. In Francia, nel Genovesato, in Toscana, ed
altrove si servono del torchio ad una vite, che in Calabria colla nuova
manifattura dellolio fu introdotto dal Marchese Grimaldi.
Con il nuovo tipo di torchio, per alleviare la fatica nell'esercitare le
strette necessarie si usava ad una certa distanza dai torchi, un argano
chiamato in gergo la ciuccia o lu ciuccio ed era costituito da un tronco
girevole di legno verticalmente fissato al suolo ed al soffitto (fig.15).
Fig.17. Pozzo per la raccolta della moria nella Bottega Dormiente in Grottaglie (TA)
Foto: G.C.Sannicola.
Lorganizzazione gerarchica dei trappetari, prevedeva generalmente
quattro figure fondamentali: lu nagghiro o l'anichirio, il pi esperto tra di
loro e che quindi assolveva le funzioni di capo del trappeto; lu
sottanagghiro, con funzioni di sostituto e collaboratore del primo; i
trappetari propriamente detti che svolgevano le normali attivit lavorative;
ed infine lu turlicchio, ragazzino di bottega che svolgeva tutte le attivit
collaterali di aiuto ai grandi.
I lavoranti erano contadini, ma anche probabilmente marinai o
pescatori che, durante il periodo di esercizio dei frantoi e cio linverno,
essendo il mare pi pericoloso, si riciclavano in trappetari, considerazione
avvalorata da numerosi termini in uso nel mondo dei frantoiani: nagghiro
come nocchiero, cuenzo come sistema di pesca, ciurma come squadra di
lavoro, ecc.. Tale ipotesi sarebbe da confermare tramite una ricerca mirata, a
documenti storici di ingaggio di squadre marinaresche, come lavoranti
allinterno dei trappeti.
Per il lavoro a ciclo continuo che si svolgeva, non difficile trovare
allinterno dei frantoi: cucine con camini (anche di notevoli dimensioni)
utilizzati sia per cucinare che per scaldare lacqua usata onde facilitare la
separazione dei vari componenti dellolio, sale mensa e stanze da letto (i
cui tavoli, sedili e giacigli erano spesso ricavati nella roccia) ove a turno i
trappetari mangiavano e riposavano; mentre per gli animali ritroviamo:
stalle e mangiatoie, anche queste scavate nella pietra (fig.18).
Foto: M. De Marco.
Purtroppo ambienti tutti a contatto diretto tra di loro e che quindi
decretavano la poca igienicit di tutto il sistema sotterraneo di produzione
dellolio. Tanto che, dopo il 1800 con vari editti si comincia ad esigere
nuove norme allinterno dei frantoi per la corretta lavorazione delle olive.
Fig.19. Colonne murarie per i torchi alla genovese ed il lucernario nel frantoio
Lamastuola a Crispiano (TA)
Foto: A. V. Greco.
Foto: A. V. Greco
Fig.21. Vitone, assieme scrofula cuenzo e colonne di torchio alla genovese nel
frantoio Paolotti 2 in Grottaglie (TA).
Foto: M. De Marco.
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