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SOCIOLOGIA ECONOMICA (sintesi del Trigilia - Vol.

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Le scienze sociali non possono aspirare a produrre teorie a elevata generalizzazione, ma sviluppano modelli
storicamente orientati, con coordinate limitate nello spazio e nel tempo, largamente basati sul metodo comparativo.

INTRODUZIONE che cosa è la sociologia economica


La sociologia economica è l’insieme di studi e ricerche volti ad approfondire i rapporti di interdipendenza
tra fenomeni economici e sociali.

Definizioni di ECONOMIA:
1) «Insieme delle attività stabilmente intraprese dai membri di una società per produrre, distribuire e
scambiare beni e servizi» (Polanyi, ‘77); Riguarda cioè il processo istituzionalizzato di interazione
tra gli uomini e la natura per il soddisfacimento dei bisogni di una società;
2) «Attività che hanno a che fare con la scelta individuale di impiego di risorse scarse, che potrebbero
avere usi alternativi, al fine di ottenere il massimo dai propri mezzi» (allocazione delle risorse). La
quantità effettiva di beni che saranno prodotti e il loro prezzo dipenderà dall’incontro della domanda
dei consumatori e dell’offerta dei produttori sul mercato. Lo stesso meccanismo vale per le quote di
reddito distribuite tra i vari soggetti economici (per esempio se l’offerta di lavoro cresce rispetto alla
domanda, il salario tende a sua volta a scendere).
Le definizioni richiamate non devono essere considerate come alternative: la prima è più generale e
consente di valutare come il soddisfacimento dei bisogni e il comportamento economico possano assumere
forme diverse, condizionate dal modo in cui è organizzata la società; la seconda apre maggiormente allo
studio dell’interazione tra economia e società. E per questo motivo sembra più adatta alla prospettiva con
cui la sociologia economica guarda all’economia.
Un elemento che può accomunare diversi approcci teorici o discipline come la sociologia, l’antropologia e
la storia economica è l’ottica che guarda all’attività economica come processo istituzionalizzato. Non si
parte cioè dal singolo individuo isolato cui vengono imputate motivazioni utilitaristiche per poi ricostruirne
gli effetti aggregati sul piano della produzione e distribuzione di beni e servizi, ma dalle ISTITUZIONI.

Definizioni di ISTITUZIONI:
 «Complesso di norme sociali che orientano e regolano il comportamento e si basano su sanzioni
che tendono a garantirne il rispetto da parte dei singoli soggetti». In ambito sociologico si parla di
istituzioni con riferimento a quelle pubbliche (politiche, giudiziarie, militari). Include anche il
sistema di regole che fondano tali collettività e rendono possibile il loro funzionamento, per
esempio norme che regolano il diritto di proprietà o i rapporti di lavoro.

Definizione di ORGANIZZAZIONI:
 «Collettività concrete che coordinano un insieme di risorse umane e materiali per il raggiungimento
di un determinato fine». A differenza delle istituzioni, le organizzazioni compiono azioni.

Definizione di SISTEMA ECONOMICO:


 «Diverse modalità nello spazio e nel tempo, attraverso le quali le istituzioni orientano e regolano
le attività economiche ».

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La sociologia economica secondo SHUMPETER e WEBER
SCHUMPETER attribuisce alla sociologia economica il compito di spiegare >«come le persone sono giunte
a comportarsi in un certo modo», specificando che le azioni devono essere messe in rapporto con le
istituzioni che sono rilevanti per il comportamento economico, come lo stato o la proprietà privata e i
contratti. Il sociologo dell’economia non si sofferma solo sull’influenza del contesto istituzionale
sull’economia; tenderà anche a prendere in esame anche il condizionamento inverso (bidirezionalità).
WEBER dice che una scienza «economico sociale» studia i rapporti di interdipendenza tra fenomeni
economici e sociali (l’economia si concentra invece soprattutto sulla formazione del mercato). Egli
distingue tra fenomeni:
 ECONOMICAMENTE RILEVANTI (riguardano l’influenza esercitata da istituzioni non economiche (es.
quelle religiose o politiche) sul funzionamento dell’economia.
 ECONOMICAMENTE CONDIZIONATI: mettono in evidenza come anche gli aspetti non economici della
vita sociale, come quelli estetici o religiosi, siano influenzati da fattori economici.
Anche in questo caso emerge la bidirezionalità. Inoltre Weber dice che in nessun caso la tendenza della
sociologia deve condurre alla ricerca di leggi generali. Incoraggi l’uso limitato nel tempo degli ideal-tipi.
Lo studio di questi due fenomeni porta alla ricerca di regolarità e di nessi causali tra i fenomeni stessi.

SOCIOLOGIA, ANTROPOLOGIA e STORIA ECONOMICA


Le differenze tra queste discipline sono relative e spesso su determinate tematiche concrete, sfumano fino a
lasciare il posto a pratiche di ricerca simili, che a volte si estendono anche agli economisti meno ortodossi.
o ANTROPOLOGIA ECONOMICA: studia le strutture economiche delle società primitive; tra gli
strumenti utilizzati particolare rilievo ha l’osservazione partecipante. Tende a ricostruire i caratteri
di una società concreta vista nella sua totalità.
o STORIA ECONOMICA: si concentra sul passato; ha un orientamento individualizzante volto a
costruire fenomeni concreti servendosi dell’analisi documentaria. Le generalizzazioni teoriche
sono limitate e viste con diffidenza.
o SOCIOLOGIA ECONOMICA: l’oggetto di indagine prevalente è costituito dalle società
contemporanee. Strumenti: analisi documentaria, indagine empirica basata su interviste o sulla
raccolta diretta di informazioni trattabili quantitativamente. Ha un’ottica più generalizzante
rispetto alla storia economica. Punta maggiormente ad elaborare generalizzazioni teoriche sui
rapporti tra fenomeni economici e non economici, o sui rapporti tra industrializzazione e conflitto
sociale, tra strutture economiche e urbanizzazione. Si pone in posizione intermedia tre l’ottica
generalizzante dell’economia e quella più individualizzante della storia, secondo modelli teorici
limitati a particolari contesti spazio-temporali.

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LO STATUS SCIENTIFICO DELLA DISCIPLINA
L’economia privilegia modelli analitico–deduttivi in cui è possibile determinare a priori il comportamento
dell’attore. La sociologia economica privilegia un approccio più induttivo, con l’attore che non agisce solo
in base a semplici motivazioni utilitaristiche (da qui la tendenza a limitare le generalizzazioni e ad
ancorarle a confini spaziali e temporali più definiti)1. Per questi motivi, le connessioni causali, oltre ad
essere limitate, saranno più empiricamente fondate.
In sociologia se si segue l’individualismo metodologico si sottolinea in genere l’influenza dei fattori sociali
(valori, norme, rapporti di potere) sull’azione individuale, mentre in economia prevale di solito una
concezione più atomistica dell’attore che prescinde da fattori extraindividuali; si insiste maggiormente sul
perseguimento razionale dell’interesse individuale da parte dei singoli soggetti.
Le scienze sociali possono aspirare alla formulazione di modelli; costruzioni ideali di situazioni particolari
(la legge ha invece una pretesa di applicabilità generale), definite da specifiche condizioni che ne limitano
la validità nel tempo e nello spazio.
La linea di frattura tra individualismo metodologico (che cerca di spiegare i fenomeni sociali partendo dalle
motivazioni individuali) e olismo metodologico o collettivismo (per i quale l’azione degli individui è ricondotta alle
condizioni che la influenzano) alimenta il cosiddetto PLURALISMO INTERPRETATIVO, cioè la coesistenza di
diversi modelli interpretativi in concorrenza tra loro.
IL PLURALISMO INTERPRETATIVO: SCIENZA E VALORI
L’obiettivo dello studio scientifico dei fenomeni sociali consiste nel ricostruire l’interazione tra condizioni
esterne dell’azioni e motivazioni degli attori. Si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere e che si
presta a diverse soluzioni. Per due motivi:
 La complessità dell’oggetto su cui si indaga. Le condizioni e le motivazioni che influenzano l’azione
sono molteplici e variano nel tempo e nello spazio. Il risultato di questi vincoli è una maggiore
discrezionalità dell’interprete nel selezionare alcune condizioni e motivazioni e nel metterle in
rapporto;
 La rilevanza dei valori del ricercatore (legati all’ampio margine di discrezionalità), dal momento che
egli stesso è parte della società in cui studia, ed ha a sua volta preferenze e criteri di orientamento che
lo guidano nello studio.
Il pluralismo interpretativo è una caratteristica ineliminabile, intrinsecamente legato alla storicità della
società stessa. In quest’ambito, WEBER distingue tra:
 RELAZIONE AI VALORI, per cui nella selezione del tema di ricerca e nell’individuazione delle
connessioni causali tra fenomeni, il ricercatore non può non essere guidato dai suoi valori, e
 GIUDIZI DI VALORE , riferiti invece alla desiderabilità di determinati fini, e quindi non giustificabili su
base scientifica.
La scienza deve essere al servizio della chiarezza dice Weber.

1
Si colloca, in questo senso, in una posizione intermedia tra l'ottica generalizzante dell'economia e quella più individualizzante
della storia.

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CAP. 1 Economia e istituzioni nella formazione dell’economia classica
QUANDO NASCE L’ECONOMIA
L’economia come disciplina nasce quando le attività economiche si emancipano da controlli e vincoli
sociali (religiosi e/o politici) e sono regolate dal mercato: produzione e distribuzione dipendono dal gioco
della domanda e dell’offerta sul mercato, con i soggetti coinvolti impegnati a massimizzare le possibilità di
guadagno individuale.
Nelle SOCIETÀ ARCAICHE E PRIMITIVE le attività economiche erano incorporate in un sistema di istituzioni
non economiche. La produzione e lo scambio possono essere organizzati sulla base del principio di
“reciprocità” o di quello di “redistribuzione”, ma non dello “scambio di mercato”.
 RECIPROCITA’ – Si producono e distribuiscono beni e servizi sulla base di obblighi di solidarietà
condivisi nei riguardi degli altri membri del gruppo (parentale o della tribù); tali obblighi sono di
solito legati alle prescrizioni di una religione, con un flusso di doni e controdoni, dove il
comportamento economico dei singoli non è motivato dal guadagno individuale. Non è altresì
influenzata dal libero gioco della domanda e dell’offerta sul mercato neanche la quantità dei beni
prodotti e distribuiti;
 REDISTRIBUZIONE – le norme sociali prevalenti prescrivono che determinati prodotti vengano
consegnati al capo del villaggio o della tribù per essere successivamente redistribuiti, in occasioni
cerimoniali particolari, secondo regole diverse, comunque basate su diversi gradi di disuguaglianza.
È una forma di organizzazione che consente una divisione del lavoro specializzata su scala
territoriale più vasta della precedente, e ha per questo bisogno di strutture politiche differenziate,
con un “centro” che stabilisce diritti e doveri dei sudditi con riferimento all’economia. Si amplia il
volume delle attività economiche e si comincia a far uso della moneta. Il comportamento
economico non è più definito solo da obblighi sociali condivisi, ma da specifiche regole formali
fatte valere dal potere politico (di solito legittimato in termini religiosi);
 SCAMBIO di MERCATO – modo relativamente pacifico per acquisire beni non immediatamente
disponibili attraverso un rapporto bilaterale, che può essere sotto forma di:
 Scambio di doni (tipico di una relazione di reciprocità regolata da norme condivise),
 Scambio amministrato (transazioni rigidamente controllate dal potere politico),
 Mercati autoregolati (mercati che determinano i prezzi attraverso il gioco della domanda/offerta;
il comportamento economico non è più condizionato da obblighi sociali o politici e risponde
alla “speranza di guadagno” o al “timore della fame”; l’ordinamento politico si limita a
garantire dall’esterno i diritti di proprietà e la libera contrattazione, mentre la possibilità di vita
dei singoli dipendono in misura crescente dalla vendita delle risorse di cui dispongono sul
mercato.
Solo l’emancipazione delle attività economiche dai condizionamenti sociali e politici può, quindi, rendere
possibile l’economia come scienza.

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LA GRANDE SINTESI DI ADAM SMITH
Smith critica l’idea che il libero perseguimento dell’interesse individuale sia in grado di conciliare
"naturalmente", per mezzo del mercato, benessere individuale e collettivo. Infatti il benessere collettivo è
favorito solo se il mercato e la ricerca dell’interesse sono controllati da precise regole istituzionali.
I FONDAMENTI SOCIALI DELL’AZIONE ECONOMICA
L’azione umana è influenzata dalle norme sociali, e il guadagno individuale non deve essere considerato
un fine in sé, come un obiettivo naturale dell’uomo, ma è piuttosto uno strumento per ottenere
approvazione sociale. Il desiderio di migliorare le proprie condizioni appare come un dato permanente del
comportamento umano, ma non sempre questo si esprimerà nella ricerca della ricchezza, che avviene
tipicamente in una “società commerciale”. In altre situazioni il desiderio di affermazione individuale si
esprime in forme diverse, definite dai valori dominanti (forza fisica, potere politico, capacità militare ecc.).
Vi sono quattro stadi dello sviluppo storico che si succedono nel tempo, ciascuno caratterizzato da un tipo
di organizzazione economica prevalente, istituzioni e costumi diversi: caccia, pastorizia, agricoltura e
commercio. A ognuno di questi stadi corrispondono istituzioni diverse: le istituzioni che governano la
società cambiano, infatti, storicamente, come pure cambia l’azione economica che viene da queste variata
e socialmente determinata.
Dopo aver definito una teoria generale del comportamento individuale come socialmente condizionato (nel
quale trova spazio anche l’azione economica come influenzata e vincolata dalle istituzioni), Smith esplora
le conseguenze economiche che discendono dal diffondersi dei nuovi comportamenti attraverso due modi:
 Il primo riguarda le modalità secondo cui avviene la produzione dei beni e la distribuzione dei redditi
in una società capitalistica. Qui prevale una prospettiva di STATICA ECONOMICA: si suppone che non si
crei nuova ricchezza, ma che si usi quella esistente per soddisfare i bisogni. Le istituzioni capitalistiche
sono considerate come date;
 Il secondo riguarda la DINAMICA DELL’ECONOMIA, ovvero la creazione di nuova ricchezza, con il
problema dello sviluppo. In questo caso, per Smith le istituzioni capitalistiche sono considerate delle
variabili.

PRODUZIONE DI BENI e DISTRIBUZIONE DEI REDDITI in una "SOCIETÀ COMMERCIALE"


In una «società commerciale» l’attività economica non è più regolata in maniera prevalente dalla
reciprocità e dalla redistribuzione, ma dallo scambio di mercato. In questo senso, Smith distingue tra:
 Prezzo di mercato, che riflette le oscillazioni di breve periodo della domanda e dell’offerta, e
 Prezzo naturale, che si afferma nel lungo periodo e che riflette il costo della produzione. Il prezzo
naturale di una merce è ciò che è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti
dei fondi impiegati per coltivare, preparare e portare sul mercato la merce stessa
Nel lungo periodo la quantità di beni prodotti sarà pari al livello della domanda che rende possibile
remunerare il costo di produzione. La quantità di beni prodotti è strettamente collegata ai meccanismi di
distribuzione del reddito tra coloro che partecipano all’attività economica.
Anche per la distribuzione del reddito si suppone l’esistenza di un prezzo definito dal mercato per salari,
profitti e rendite. Il SALARIO si forma nel mercato del lavoro, con dei meccanismi che spingono verso il

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prezzo naturale, che corrisponde al minimo necessario perché i lavoratori possano riprodursi. Di questi
meccanismi, Smith ne individua in particolare due:
 La capacità di organizzazione dei lavoratori e dei datori di lavoro, per cui i primi si coalizzano per
elevare il salario, mentre i secondi per diminuirlo. Questi ultimi sono favoriti perché in numero minore
e perché la legge non proibisce loro di coalizzarsi (e possono quindi resistere più a lungo);
 I movimenti demografici: se i salari diminuiscono troppo, s’innesca una reazione che porta, attraverso
il calo delle nascite, alla riduzione quantitativa della forza lavoro e quindi al ristabilimento
dell’equilibrio.
In generale Smith ritiene che i salari siano destinati a crescere per effetto dello sviluppo economico, che fa
aumentare la domanda di lavoro. Quindi anche i lavoratori sono interessati oggettivamente all’aumento
della ricchezza della società.
Il PROFITTO invece non cresce con la prosperità e non diminuisce con il declino della società, come
avviene per la rendita e per i salari. Al contrario esso è naturalmente basso nei paesi ricchi ed è alto in
quelli poveri: infatti, se nella produzione di un determinato bene, vi è poca concorrenza, il profitto tenderà
a salire, ma al crescere della concorrenza, con l’entrata di nuovi investitori, si verificherà l’opposto. Con lo
sviluppo delle attività economiche diventa più difficile trovare impieghi redditizi per gli investimenti2.
Smith non è comunque pessimista e ritiene che un basso tasso di profitto sia un ingrediente necessario per
stimolare la ricerca di nuovi impieghi e la crescita della produttività.
La RENDITA è indirettamente influenzata dalla crescita economica. Il prezzo pagato per l’uso della terra
tenderà infatti a corrispondere a quella parte del valore del prodotto che eccede i salari e i profitti necessari
per produrlo ai saggi medi fissati per i rispettivi mercati. Salari e profitti alti o bassi sono le cause del
livello dei prezzi; una rendita alta o bassa è l’effetto di tale livello. In una società che si sviluppa la rendita
tenderà pertanto a crescere.
Per Smith, affinché i meccanismi di distribuzione del reddito ed i legami con la produzione (e quindi il
mercato) possano funzionare nella maniera indicata, occorrono nuove regole che definiscano il
comportamento degli attori, e cioè:
a) Che in seguito al processo di espropriazione dei contadini si formi una classe di lavoratori salariati
le cui condizioni di vita dipendano dalla vendita del loro lavoro sul mercato;
b) Che si affermi una classe di capitalisti che concentrano nelle loro mani le risorse necessarie ad
avviare e condurre il processo produttivo, e le cui condizioni di vita dipendano dal profitto
conseguito con l’investimento del capitale;
c) Che i proprietari terrieri traggano a loro volta il sostentamento dalla possibilità di affittare la terra ai
capitalisti agrari, che la coltivano pagando loro una rendita.
Queste innovazioni configurano l’emergere di una società capitalistica, dotata di proprie istituzioni che
spingono l’economia a emanciparsi da controlli sociali e politici, e di nuove classi che su tali istituzioni si
fondano.
Smith afferma inoltre che il costo di produzione non si esaurisce nel costo del lavoro necessario a produrre
una determinata merce: se nelle società precedenti il valore del lavoro incorporato in una merce equivaleva

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Vedi la variabilità dei mercati e la veloce obsolescenza di categorie di investimento.

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al suo valore di scambio, in un contesto istituzionale in cui si siano consolidate l’accumulazione di fondi
e l’appropriazione della terra (quindi in un contesto capitalistico), il prezzo naturale delle merci viene
determinato da una calcolo dei costi più complesso, che oltre al salario del lavoro deve includere anche il
profitto e la rendita.
Smith ha una visione ottimistica dell’economia capitalistica e ritiene che a certe condizioni, le istituzioni
capitalistiche siano le più appropriate per garantire assieme benessere ed equità, efficienza economica e
consenso. Egli ritiene inoltre che non vi sia contraddizione tra il fatto che il lavoro è la fonte originaria
della ricchezza e che da esso siano anche dedotte le quote di reddito dei capitalisti e dei proprietari terrieri.

LO SVILUPPO ECONOMICO E LE ISTITUZIONI


La concorrenza determina un’allocazione efficiente delle risorse all’interno di una determinata attività,
perché spinge i prezzi ad avvicinarsi ai costi di produzione, e fra le diverse attività, perché spinge capitale
e lavoro a spostarsi verso gli impieghi più vantaggiosi, riducendo così le differenze di rendimento. In
questo modo il mercato concorrenziale assicura ciò che è più domandato ai prezzi più bassi possibili.
Gli economisti sono stati affascinati dalle capacità ordinatrici di questa macchina per cui ogni individuo
perseguendo il suo interesse, spesso persegue l’interesse della stessa società in modo molto più efficace di
quanto intende effettivamente perseguirlo.
Smith, però, era interessato all’efficienza dinamica, più che a quella statica, del mercato: in questo senso,
nell’analisi dinamica sulle cause della ricchezza delle nazioni, le istituzioni diventano delle variabili ed il
mercato può avere una funzione dinamica e sostenere lo sviluppo economico se regolato da istituzioni
appropriate. Ne discendono queste conseguenze:
a) Nell’analisi del processo di sviluppo economico, i fattori non economici come le istituzioni hanno
un ruolo esplicativo essenziale, sono le variabili indipendenti;
b) Per Smith le istituzioni capitalistiche sono tanto più appropriate a sostenere lo sviluppo economico,
tanto più si avvicinano a quelle del «capitalismo concorrenziale»;
c) Lo sviluppo economico, è lo strumento principale che consente al capitalismo concorrenziale di
evitare le tensioni tra economia e società, di tenere assieme efficienza economica e consenso sociale.
Per Smith, molto importante per la crescita della produttività – e quindi della ricchezza – è la DIVISIONE
DEL LAVORO. L’aumento della produttività (cioè la quantità di lavoro che lo stesso numero di persone può
svolgere) ha tre ragioni:
 Perché accresce l’abilità di ogni singolo operaio che si può così specializzare in una mansione;
 Per il risparmio di tempo che si perde passando da un lavoro ad un altro;
 Perché viene facilitata l’invenzione di macchine che riducono il tempo di lavoro;
Per quanto riguarda le condizioni da cui dipende la divisione del lavoro, Smith afferma che essa «è limitata
dall’ampiezza del mercato». Essendo quest’ampiezza e il volume degli scambi a loro volta funzione della
quantità di fondi impiegati, si può affermare che la divisione del lavoro varia con l’entità degli investimenti.
Quanto più questi cresceranno, tanto più, attraverso la concorrenza verrà incoraggiata la specializzazione
produttiva, e di conseguenza la divisione del lavoro all’interno delle singole unità produttive.
L’accumulazione del capitale è dunque una condizione necessaria per la crescita della produttività, perché
favorisce l’allargamento del mercato e la divisione del lavoro. Necessaria ma non è sufficiente, perché per
Smith occorre che l’accumulazione sia stimolata e regolata da istituzioni appropriate.

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 VANTAGGI DEL CAPITALISMO CONCORRENZIALE SU QUELLO MONOPOLISTICO
In ogni attività produttiva è opportuno che vi sia un numero elevato di capitalisti che investono fondi, in
concorrenza tra loro, senza essere in grado di manipolare le quantità offerte e i prezzi. Ciò è possibile
fondamentalmente in presenza di scelte politiche opportune, che eliminino gli ostacoli istituzionali alla
mobilità del capitale e del lavoro. Smith critica in questo senso le politiche protezionistiche e di
incentivazione del mercantilismo, proponendo un limitato intervento dello stato nell’economia: una volta
eliminate le barriere istituzionali dovute a politiche errate, la società civile si avvierà spontaneamente verso
un’imprenditorialità diffusa in grado di alimentare mercati concorrenziali.
Le condizioni di monopolio non sono invece vantaggiose, perché alterano i prezzi e le quantità, in modo
tale che ciò che viene domandato sia ottenuto in modo più costoso dai consumatori. L’interesse del
capitalista «è sempre di allargare il mercato e restringere la concorrenza», ma in realtà sono più
vantaggiose, per lo sviluppo economico, le difficoltà a ottenere o mantenere il profitto, perché stimolano
l’imprenditorialità del singolo capitalista e favoriscono la crescita della produttività.
Per Smith un alto tasso di profitto è deleterio, perché distrugge la parsimonia, virtù connaturata al carattere
del mercante, e spinge verso un lusso dispendioso, che influenzerà i costumi di tutta la parte attiva della
popolazione.
Due sono le condizioni istituzionali che definiscono l’assetto del capitalismo concorrenziale:
 L’impegno diretto del capitalista come imprenditore nella gestione dell’impresa – Smith è contrario
alle società per azioni, perché i manager, per il fatto di amministrare denaro non proprio, hanno meno
incentivi a comportarsi in modo efficiente di quanto non possa fare il proprietario. Lo stimolo a reagire
alla concorrenza e ad accrescere la produttività sarà più elevato nelle imprese gestite direttamente dal
proprietario;
 Norme di comportamento che limitino gli effetti della concorrenza sul salario dei lavoratori – Smith
considerava negativamente le organizzazioni sindacali, per i rischi di distorsione del mercato del
lavoro. Riteneva invece opportuna, per migliorare la produttività, una politica unilaterale da parte degli
imprenditori di alti salari, che avrebbero indotto gli operai ad essere più attivi, più diligenti e svelti di
quando i salari sono bassi, e incoraggiato la produttività in caso di più elevate possibilità di mobilità
sociale.

 RUOLO DELLO STATO NELLO SVILUPPO ECONOMICO


Smith considerava positive per lo sviluppo economico tutte quelle condizioni istituzionali che potevano
favorire la combinazione di bassi profitti e alti salari. Lo stato doveva quindi restare fuori dall’economia e
limitarsi ad assolvere queste tre funzioni:
 Assicurare la difesa nazionale
 Garantire l’amministrazione della giustizia
 Provvedere a opere pubbliche necessarie alle attività economiche e all’istruzione
Tutte attività di estrema importanza per la società che non possono essere svolte adeguatamente dal settore
privato. Il capitalismo concorrenziale può assicurare più sviluppo se anche le attività statali sono permeate
da quei principi di responsabilizzazione e impegno personale che sono presenti nella società civile, dove
sono stimolate dal mercato.
Le istituzioni sono in grado di conciliare efficienza economica e consenso per due ragioni:

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 Perché producono più sviluppo (e con lo sviluppo aumenta il benessere di tutte le classi sociali);
 Perché il mercato concorrenziale riduce le disuguaglianze (porta a bassi profitti e alti salari) di quella
misura giudicata necessaria affinché il desiderio di migliorare la propria condizione possa produrre
insieme un impegno maggiore ed un beneficio collettivo.

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CAP.2 La svolta economicista e i suoi critici: storicismo e marxismo
LA CRITICA DI MARX
Marx condivide la visione più pessimistica dello sviluppo che si era fatta strada con Malthus e Ricardo, ma
mentre questi ultimi parlavano di limiti naturali allo sviluppo, per Marx esistono vincoli sociali legati alle
istituzioni fondamentali dell’economia capitalistica, cioè la proprietà privata dei mezzi di produzione e il
lavoro salariato come strumenti che regolano la produzione dei beni e la distribuzione dei redditi.
Alla visione armonica di Smith, Marx contrappone una visione dialettica, influenzata dalla filosofia
idealistica tedesca. Il capitalismo genera una polarizzazione crescente delle classi sociali, e ciò porta ad
una progressiva intensificazione del conflitto, che a sua volta determina il superamento delle vecchie forme
di organizzazione economica.
Mentre lo storicismo insiste sulle differenze nazionali che si accompagnano allo sviluppo, Marx guarda a
quelle di classe. Lo storicismo resta legato alla visione idealistica dello sviluppo storico, in cui
l’evoluzione culturale condiziona l’organizzazione economica, mentre Marx ribalta il rapporto tra gli
aspetti culturali ed economico-sociali, individuando in questi ultimi il motore dello sviluppo storico. Marx
non si propone di mostrare una generica interconnessione tra i diversi aspetti della realtà sociale, vuole
piuttosto formulare una teoria generale dello sviluppo storico.
L’obiettivo di Marx non è ne sviluppare l’indagine economica in senso stretto, né di fondare una sociologia
economica, ma gettare le basi per una scienza complessiva della società in cui aspetti economici e aspetti
istituzionali sono strettamente collegati e non separabili. In tal modo sarà anche possibile prevedere lo sviluppo
storico e fondare scientificamente una guida per l’azione politica. Da qui l’impegno di Marx e Engels non
solo sul terreno scientifico, ma anche su quello politico come organizzatori del movimento dei lavoratori.
LA TEORIA DELO SVILUPPO STORICO
Marx imputa ai classici di considerare naturale la divisione di classe che regola le modalità di produzione
dei beni e distribuzione dei redditi proprie dell’economia capitalistica, e quindi di non valutare
adeguatamente le differenze storiche nelle forme di organizzazione economica. I classici non ritenevano
che lo sviluppo dovesse portare inevitabilmente al conflitto di classe e che tale conflitto dovesse a sua volta
generare un superamento dell’economia capitalistica3 . Marx invece si pone due obiettivi
 Storicizzare l’analisi economica, individuando sia forme di organizzazione corrispondenti a società
diverse, a stadi differenti dello sviluppo, sia meccanismi di passaggio tra stadi.
 Mettere in evidenza il ruolo del conflitto di classe nell’economia capitalistica e il mutamento che esso
imprime all’intera società.
Per Marx non è possibile studiare l’economia prescindendo dalle istituzioni che la regolano, perché la
produzione è sempre un processo sociale e non solo economico. Da ciò discendono una serie di
conseguenze, tra loro collegate.
I RAPPORTI SOCIALI DI PRODUZIONE, cioè i rapporti sociali entro i quali gli individui producono, sono per
Marx l’elemento essenziale. Essi fondano la divisione in classi, nel senso che i membri di una determinata
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Per Smith, lo sviluppo capitalistico avrebbe favorito cooperazione ed integrazione sociale. Per Malthus e Ricardo, vincoli
naturali legati alla dinamica demografica e alla scarsa disponibilità di terre avrebbe costretto la classe operaia a livello di
sussistenza, impedendole di organizzarsi per mutare le proprie condizioni.

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società si dividono a seconda del modo in cui partecipano alla produzione. I rapporti di proprietà sono la
forma giuridica dei rapporti di produzione. La distribuzione del prodotto, e quindi la disuguaglianza
sociale, saranno condizionate dalla posizione di classe. Marx insiste sul fatto che la società capitalistica
non può essere concepita secondo il modello individualistico–utilitaristico dell’economia classica.
Essa non è costituita da un insieme di individui isolati, con pari opportunità, che si scambiano beni e
servizi cercando di massimizzare il loro interesse. Coloro che dispongono solo della propria capacità di
lavoro sono costretti ad accettare le condizioni di scambio imposte da chi controlla i mezzi di produzione,
cioè dai capitalisti. L’ordine sociale si basa dunque, sulla coercizione esercitata dalle classi dominanti.
I rapporti di produzione e le relative classi, non variano accidentalmente: essi corrispondono ad un
determinato grado di sviluppo delle forze produttive, cioè l’insieme dei mezzi materiali di produzione.
I rapporti di produzione corrispondenti a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive
costituiscono la “struttura” della società. La struttura economica condiziona a sua volta l’organizzazione
sociale e politica, l’ordinamento giuridico e le forme di sviluppo culturale, religioso e artistico. L’insieme
di questi aspetti rappresenta la “sovrastruttura” della società.
L’ordine sociale si mantiene fino a quando lo sviluppo delle forze produttive non è ostacolato dal modo di
produzione, con i suoi specifici rapporti e le sue classi. In questa situazione permane la congruenza tra
struttura e sovrastruttura. I valori della classe che controlla i mezzi di produzione riescono a imporsi e sono
condivisi anche dalla classe dominata. Anche le forme della politica sono congruenti con il modo di
produzione, perché riflettono gli interessi della classe dominante e contribuiscono a rafforzarla. L’ordine
sociale non si mantiene perciò solo sulla coercizione, che sarebbe costosa, ma sul consenso.
La società caratterizzata da un determinato modo di produzione è destinata a cambiare, perché viene messa
in discussione quando lo sviluppo delle forze produttive non può più essere contenuto nel precedente modo
di produzione e trova in esso dei vincoli crescenti. La nuova classe emergente lotta contro la vecchia classe
dominante e i vecchi rapporti di produzione che costituiscono ora un vincolo per le forze produttive. Nel
corso del conflitto viene meno la congruenza tra struttura e sovrastruttura. Le stesse istituzioni politiche
non riescono più a difendere adeguatamente la classe dominante e i preesistenti rapporti di produzione.
Alla fine del processo un nuovo modo di produzione si afferma. L’affermazione di una nuova classe, e il
conflitto di classe, non possono essere accidentali, ma sono fondamentalmente ancorati alla relazione tra
forze produttive e rapporti di produzione. Marx non rinnega mai il ruolo attivo nel processo storico della
coscienza di classe e dell’azione politica, ma questi fattori possono esplicarsi pienamente solo quando si
danno le condizioni economiche favorevoli.
Vengono individuati quattro tipi di società, ciascuna si basa su un modo di produzione dominante
 Antica  schiavitù
 Feudale  servitù della gleba
 Borghese  lavoro salariato

 Asiatica  subordinazione dei lavoratori agricoli allo stato


Le prime tre si sono succedute nella storia occidentale, mentre quella asiatica si riferisce alla specifica
esperienza di paesi come India e Cina.
In Europa, l’espropriazione dei contadini, e la successiva appropriazione da parte della nascente borghesia
dei possedimenti ecclesiastici, sono alla base della formazione del capitale e del lavoro salariato, cioè dei
rapporti di produzione necessari per l’economia capitalistica. Marx però, sottolineando il ruolo della
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violenza e del conflitto politico, lascia intravedere una dinamica del processo che non è congruente con la
sua teoria generale dello sviluppo storico. Non è, infatti, la crescita economica della borghesia a generare
le modificazioni del quadro istituzionale necessarie per il funzionamento del capitalismo, ma è piuttosto un
processo politico che crea i presupposti per la crescita della borghesia.
LO SVILUPPO CAPITALISTICO
Marx vuole dimostrare che lo sviluppo capitalistico crea, nel corso della sua evoluzione, le condizioni
economiche per il rafforzamento della classe operaia. In un’economia capitalistica, basata sulla proprietà
privata dei mezzi di produzione, non ci può essere produzione di beni se non c’è profitto per i detentori del
capitale. Nello stesso tempo però il valore di scambio delle merci riflette la quantità di lavoro in esse
incorporata.
Marx riprende la teoria del valore–lavoro di Ricardo, per cui la forza lavoro è una merce con una
caratteristica particolare, nel momento in cui è utilizzata nel processo produttivo crea un valore aggiuntivo
rispetto a quello necessario a produrla, e quindi ad acquistarla sul mercato. Il valore della forza lavoro, cioè
il salario, è fissato dalla quantità di lavoro incorporata nelle merci necessarie ad assicurare la
sopravvivenza e la riproduzione dei lavoratori e delle loro famiglie.
A differenza delle altre merci però, la forza lavoro crea più valore di quello necessario ad acquistarla, cioè
il salario con cui viene retribuita. Il tempo di lavoro dell’operaio salariato è, infatti, superiore a quello
necessario per produrre un valore corrispondente al suo salario. Questa differenza costituisce un pluslavoro
che è fonte di plusvalore. L’entità del plusvalore rispetto al salario anticipato dal capitalista dà la misura
del tasso di sfruttamento.
Sarà interesse del capitalista aumentare tale tasso allungando la giornata lavorativa o riducendo il salario a
parità di orario. Il progresso tecnico nella misura in cui accresce la produttività del lavoro, si risolve in un
aumento del plusvalore prodotto. Posto che:
 Per CAPITALE VARIABILE s’intendono le anticipazioni salariali, e che
 Il CAPITALE COSTANTE è quello rappresentato dagli impianti e dalle materie necessari per la
produzione,
Secondo Marx il capitale costante non crea valore aggiuntivo (solo il lavoro ha questa qualità), perciò il
tasso di profitto diminuirà al crescere della «composizione organica del capitale», cioè il rapporto tra il
valore del capitale costante e quello del capitale variabile.
In una situazione di concorrenza, i singoli capitalisti–imprenditori sono forzati ad introdurre nuove
macchine e quindi ad aumentare il capitale fisso a spese del lavoro, così riducono il costo del lavoro e
godono di maggior profitti fino a quando anche gli altri capitalisti non saranno spinti ad introdurre le stesse
innovazioni e questo ha due conseguenze fondamentali:
 Fa aumentare la disoccupazione e peggiora le condizioni della classe operaia;
 Determina una caduta tendenziale del saggio di profitto che riduce lo stimolo alla produzione.
Il livello dei salari dipende dall’entità della disoccupazione, cioè da quello che viene chiamato «esercito
industriale di riserva»: quando cresce la domanda di lavoro, tale esercito si riduce e i salari aumentano,
determinando una diminuzione del saggio di profitto e quindi un successivo calo della domanda di lavoro e
un abbassamento del salario.

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Un’eventuale crescita dei salari costituisce inoltre un incentivo alla sostituzione di lavoro con macchinario.
Secondo Marx, quindi, la tendenza alla meccanizzazione determina nel lungo periodo un ingrossamento
dell’esercito industriale. Solo le imprese più grandi riescono a mantenersi nel mercato, facendo crescenti
investimenti in capitale fisso. Si determina così una proletarizzazione dei piccoli produttori. La
disoccupazione non è dunque per Marx dovuta alla pressione demografica, ma al funzionamento
stesso dell’accumulazione capitalistica.
L’introduzione di nuove macchine si accompagna inoltre al processo di “alienazione” dei lavoratori,
ridotti ad insignificante appendice della macchina.
L’accumulazione capitalistica ha inoltre conseguenze sociali negative per i capitalisti, visto che quando le
innovazioni si sono diffuse, si determina un abbassamento complessivo del saggio di profitto dovuto al
maggior peso del capitale costante rispetto a quello variabile, e quindi al minor plusvalore.
I limiti dell’economia capitalistica non sono più naturali, come per Malthus e Ricardo, ma sociali:
sono legati ai rapporti di classe che connotano il processo produttivo.
Le contraddizioni però non portano automaticamente alla crisi e al suo superamento, ma costituiscono le
premesse che determinano la progressiva trasformazione della classe operaia da un aggregato di individui
in concorrenza tra loro sul mercato del lavoro, ad un gruppo sociale coeso, attore storico. Solamente
quando questo processo si compie, e la classe operaia si organizza politicamente si determina la
trasformazione del vecchio modo di produzione.
IL CIRCOLO VIZIOSO DELLA SOCIOLOGIA ECONOMICA DI MARX
L’esigenza di non separare l’analisi economica dal contesto istituzionale ha innanzitutto portato Marx a
una teoria dei diversi modi di produzione e della loro evoluzione nel tempo, e ad analizzare un classico
problema della sociologia economica, in genere tralasciato dagli economisti, eccetto Smith, cioè le origini
dell’economia capitalistica.
Tra i punti di forza dell’interpretazione marxiana del capitalismo, va annoverata la capacità di render
conto degli aspetti dinamici dell’economia e degli effetti di destabilizzazione sociale e di conflittualità, che
non trovano adeguato posto negli schemi degli economisti classici.
Il CIRCOLO VIZIOSO è questo: la crisi economica dipende dal conflitto di classe, che porta alla crisi
economica.
Un punto critico è che l’introduzione di nuove tecniche fa in genere aumentare la produttività del lavoro, e
se i salari non salgono più della produttività, ciò non determina un calo, ma una crescita de i profitti.
Questi possono essere destinati a nuovi investimenti e quindi ad una nuova domanda di lavoro che
compensa quella eliminata dalla meccanizzazione.

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Il conflitto di classe invece viene sopravvalutato per due motivi:
1. Al mancato realizzarsi di quelle previsioni pessimistiche sull’andamento dell’economia che
Marx pensava di stabilire con precisione da scienze naturali
2. La maggiore rilevanza delle determinazioni “sovrastrutturali” delle classi, cioè all’influenza
autonoma di fattori socio–culturali e politici.
La forte sottovalutazione dello stato, che riflette l’immagine del capitalismo liberale di tipo inglese,
impediva a Marx di prevedere come il conflitto potesse essere attenuato o controllato dal sistema politico,
ponendo pochi vincoli all’organizzazione della classe operaia e accogliendo le domande economiche,
sociali e politiche delle organizzazioni di rappresentanza.
Gli esiti rivoluzionari si sono avuti in paesi come la Russia e la Cina dove le forze produttive erano più
arretrate, e non laddove maggiore era il loro sviluppo, come la teoria suggeriva.
Marx era convinto sin dalla gioventù della necessità della rivoluzione e tutta la sua analisi spinge a
ricercare delle leggi che mostrassero l’inevitabilità (non solo la necessità) di questa. La soluzione viene
trovata nelle leggi dell’economia classica, modificate con l’innesto dell’elemento storico costituito dal
conflitto di classe.
Ciò richiedeva però di ridurre drasticamente la variabilità del comportamento umano, facendolo dipendere
in ultima istanza dalle istituzione economiche, conducendo ad una teoria troppo rigida, in cui poco peso
hanno le istituzioni non economiche.

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CAP. 3 Economia neoclassica e sociologia economica (omissis)
CAP. 4 Origini e sviluppo del capitalismo: SIMMEL e SOMBART
IL CAPITALISMO COME PROBLEMA
L’economia classica teneva conto del capitalismo in termini di proprietà privata, mezzi si produzione,
lavoro salariato, ruolo del mercato e dello stato, senza però preoccuparsi di indagare sulle origini e
sull’evoluzione del capitalismo come fenomeno storico.
LA FILOSOFIA DEL DENARO DI SIMMEL
L’obiettivo di Simmel è quello di chiarire la genesi e i caratteri della società moderna, e di valutare il senso,
il significato ultimo che essa assume per la vita degli uomini. La società non è per lui un sistema, un
organismo costituito da varie parti tra loro funzionalmente collegate; è piuttosto formata da un insieme di
istituzioni che nascono dall’interazione tra gli uomini e, una volta consolidatesi, ne condizionano il
comportamento. Simmel parla in proposito di forme pure. La sociologia studia le origini e i caratteri di tali
forma, ovvero dei modelli di comportamento istituzionalizzati.
IL DENARO È UNA DI QUESTE ISTITUZIONI, ma per Simmel ha un’importanza cruciale, nel senso che
condiziona sempre più estesamente e profondamente le relazioni tra gli uomini nella società moderna.
Chiarire le origini e le conseguenze dell’uso del denaro, ovvero dell’economia monetaria, è essenziale per
comprendere la società moderna. In questo, Simmel presenta somiglianze con Marx, Weber e Sombart:
 L’insistenza sui presupposti culturali e istituzionali dell’economia monetaria e del capitalismo;
 Il riconoscimento del fatto che alcuni soggetti (stranieri, ebrei), in virtù della loro condizione sociale di
marginalità, esercitano un ruolo primario per la diffusione dell’economia monetaria;
 L’immagine delle conseguenze sociali dell’economia monetaria in termini di crescente
spersonalizzazione e razionalizzazione delle relazioni sociali e degli ambiti di vita;
 L’immagine del socialismo, in contrasto con quella di Marx, come ulteriore sviluppo della
razionalizzazione delle relazioni sociali e degli ambiti di vita.
LE CONDIZIONI NON ECONOMICHE DEL DENARO
Il capitalismo come sistema economico presuppone:
 Accumulazione privata del capitale la quale, a sua volta, richiede che
 Il denaro si diffonda come strumento degli scambi e si allarghi dunque la cerchia dei soggetti coinvolti
nell’economia monetaria; serve però una condizione non economica:
 Occorre che cresca la fiducia nel denaro come aspettativa che il suo impiego possa sempre disporre di
una contropartita in beni concreti.
L’accumulazione del capitale presuppone dunque un’accumulazione di fiducia, e questa condizione
culturale è a sua volta sostenuta da fattori istituzionali:
 La legittimazione e l’efficacia del potere politico e le garanzie fornite dall’ordinamento giuridico.
Il denaro diventa così un’istituzione pubblica.

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Tra l’economia monetaria e lo stato centralizzato e il sistema giuridico, si stabilisce un rapporto di
interdipendenza. La prima cresce grazie ai secondi che la garantiscono, ma questi a loro volta si rafforzano
in relazione agli effetti indotti dalla diffusione del denaro come mezzo di scambio.
L’economia monetaria è stata un fattore di dissoluzione dell’economia naturale basata sull’autoconsumo,
favorendo in tal modo la formazione dello stato centralizzato, che doveva svolgere la funzione di controllo
della moneta.
I protagonisti della diffusione del denaro e degli scambi sono soprattutto gli individui e i gruppi sociali
esclusi dal pieno godimento dei diritti vigenti in una determinata società, che si dedicano più facilmente
all’accumulazione di denaro come strumento per il conseguimento di posizioni sociali che non possono
raggiungere con i mezzi tradizionali. Nei riguardi di questi non valgono le sanzioni giuridiche che nella
società tradizionale dell’economia naturale allontanano dall’uso del denaro.
La marginalità sociale alimenta lo sviluppo di attività commerciali e finanziarie negli stranieri e negli
ebrei, nei moriscos in Spagna, i paria in India, e nei quaccheri in Inghilterra. Sono questi i principali
agenti del mutamento che prepara le condizioni per lo sviluppo del capitalismo.
LE CONSEGUENZE DELL’ECONOMIA MONETARIA
Da questo punto di vista, Simmel mette in luce l’ambivalenza del fenomeno, che presenta aspetti positivi e
negativi:
 Il denaro favorisce la crescita della libertà individuale. L’economia monetaria rende sostituibili i
rapporti sociali nella sfera dello scambio come nella sfera della produzione, attenuando la dipendenza;
è possibile scegliere tra fornitori diversi e questo spersonalizza le relazioni tra chi compra e vende e
aumenta l’indipendenza reciproca di entrambi. La libertà si accresce anche nei riguardi degli oggetti,
rompendo la fissità e la ritualità delle forme di consumo tradizionali;
 Nella sfera della produzione, al rapporto di dipendenza totale del servo della gleba nei riguardi del
signore subentra uno specifico e determinato contratto di lavoro, che spersonalizza il rapporto, lo
lega al perseguimento di un obiettivo limitato che non include la sfera extralavorativa, e soprattutto lo
rende sostituibile da una parte e dall’altra;
 Peggiorano le condizioni dei lavoratori rispetto all’economia naturale, in cui vi era l’obbligo di
protezione sociale dei subalterni da parte dei signori (ma questo è il prezzo della libertà). Per Simmel è
un prezzo che vale la pena pagare, per acquisire la consapevolezza di sé e per fornire solo una
prestazione che vale precisamente il suo equivalente in denaro;
 La caratterizzazione tecnico-funzionale delle prestazioni lavorative favorisce l’accettazione delle
posizioni di superiorità e di subordinazione tra i lavoratori, in un’organizzazione che rende risultati
vantaggiosi.
 L’allargamento e la pluralizzazione delle cerchie sociali in cui il singoli s’inserisce per sua scelta è
l’espressione e lo strumento attraverso cui si forma la personalità individuale.
Simmel non condivide i giudizi di Marx sul carattere problematico dei rapporti di produzione.
 Il denaro aumenta la libertà individuale, ma da mezzo per il raggiungimento di determinati scopi tende
a trasformarsi in fine esso stesso. L’economia monetaria viene a condizionare sempre più il
comportamento individuale con le sue esigenze, ma gli uomini perdono il controllo sui fini ai quali il
denaro piega l’organizzazione sociale. Non solo i mezzi tendono a trasformarsi in fini, ma anche la vita
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quotidiana è caratterizzata dalla perdita di qualità dei rapporti sociali, con una spersonalizzazione
crescente di questi. Si diffondono la razionalizzazione e il calcolo in tutti gli ambiti di vita: la
calcolabilità diventa l’essenza dell’epoca moderna.
 I valori qualitativi si trasformano in quantitativi; l’uso del tempo e dello spazio sono sempre più
piegati alle esigenze dell’economia monetaria che dissolve le vecchie solidarietà tradizionali. Gli
uomini acquistano maggiore libertà individuale, ma si ritrovano anche più soli e più incapaci di
definire le loro mete collettive.
CAPITALISMO E SOCIALISMO
Simmel non vede nel socialismo una soluzione per le conseguenze dell’economia monetaria. Per lui il
socialismo è nello stesso tempo razionalismo e reazione al razionalismo, reazione alla perdita dei vecchi
legami collettivi tradizionali e il tentativo di ricostruire nuove solidarietà collettive.
Ma la reazione è destinata ad accentuare le caratteristiche costrittive, perché la centralizzazione assoluta
dei mezzi di produzione nelle mani della società porterebbe inevitabilmente ad un socialismo di stato, ben
lontano dagli ideali di nuova solidarietà.
Il cambiamento del capitalismo dovrebbe per Simmel seguire due direzioni:
 Le istituzioni dell’economia capitalistica troverebbero maggiore legittimazione quanto più fossero
fondate su motivi tecnico-funzionali, cioè sulla valorizzazione delle competenze e dei meriti, senza
alimentare stabili e ingiustificate disuguaglianze sociali.
 Ridurre l’umana tragedia della concorrenza, attraverso lo sviluppo tecnico finalizzato a mettere a
disposizione nuove risorse della natura per ridurre la concorrenza degli uomini per l’acquisizione di
beni scarsi; e attraverso la crescita dei beni collettivi, cioè la capacità di ridurre di produrre risorse la
cui fruibilità da parte di alcuni non va a scapito di altri.

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IL CAPITALISMO MODERNO DI SOMBART
Per Sombart è centrale l’obiettivo della costruzione consapevole di una sociologia economica. La nuova
«scienza sociale della vita economica» ha obiettivi teorici, vuole contribuire alla spiegazione scientifica dei
fenomeni economici, ma in un quadro storico, nell’ambito di coordinate spaziali e temporali ben definite
(distinguendosi dall’economia politica e dallo storicismo).
ELEMENTI DI SOCIOLOGIA ECONOMICA
Per Sombart l’economia è «l’attività umana volta alla ricerca dei mezzi di sussistenza». I bisogni umani
variano nel tempo e accanto a quelli relativi alla sopravvivenza fisica si aggiungono nel corso dello
sviluppo storico nuovi bisogni culturali, ma è sempre necessario produrre dei beni e dei servizi che
vengono distribuiti e consumati secondo alcune regole condivise.
 La mentalità economica o spirito economico, l’insieme dei valori e delle norme che orientano il
comportamento dei soggetti economici
 L’organizzazione economica, complesso di norme formali e informali che nell’ambito di una società
regolano l’esercizio delle attività economiche da parte dei soggetti
 La tecnica, riguarda le conoscenze e i procedimenti utilizzati per produrre beni e servizi e soddisfare i
bisogni degli individui
Questi tre aspetti variano nel tempo e nello spazio, nel loro insieme consentono di individuare un SISTEMA
ECONOMICO, «una forma particolare di economia, una determinata organizzazione della vita economica
nel cui ambito regna una determinata mentalità economica e si applica una determinata tecnica».
Il concetto di sistema economico riassume il carattere tipicamente storico della vita economica.
Relativamente allo SPIRITO ECONOMICO, Sombart distingue tra:
 Orientamento volto alla copertura del fabbisogno, dove il comportamento economico è solo rivolto
al soddisfacimento di bisogni naturali e culturali, la produzione è orientata al consumo;
 Orientamento di tipo acquisitivo, che comporta il fatto che l’attività economica sia sottoposta alla
ricerca di maggiori guadagni monetari e orientata al mercato.
Lo SPIRITO TRADIZIONALISTICO, si basa sull’obbedienza passiva a regole tramandate, mentre lo SPIRITO
RAZIONALISTICO ricerca sistematicamente i mezzi più adeguati allo scopo, è disposto all’innovazione ed è
aperto a nuove tecniche.
La mentalità economica può infine essere di tipo solidaristico o avere orientamento individualistico.
Per l’ORGANIZZAZIONE vengono considerati diversi aspetti:
 Carattere vincolato dell’attività economica, legato a norme che ne regolano il funzionamento;
 L’esistenza di una sfera di libertà economica riconosciuta giuridicamente;
 Proprietà pubblica o privata dei mezzi di produzione;
 L’orientamento al consumo o allo scambio attraverso il mercato;
 Organizzazione aziendale basata sulla piccola impresa familiare o grande impresa con lavoro salariato.
La TECNICA può essere basata su procedimenti empirici, se si fonda su conoscenze tramandate e accettate
passivamente, o su procedimenti scientifici, che consentono una spiegazione scientifica dei fenomeni e
un’applicazione razionale delle conoscenze.

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Il sistema economico capitalistico è quindi caratterizzato da una mentalità acquisitiva, razionalistica e
individualistica, che si esercita nell’ambito dell’organizzazione economica libera, basata sulla proprietà
privata dei mezzi di produzione e su aziende che utilizzano il lavoro salariato. Sombart distingue questo
sistema da altri due tipi: l’economia diretta, nella doppia forma di diretta contadina e del proprietario
terriero, e l’economia artigianale.
Per ogni sistema si possono individuare tre periodi: gli albori, la maturità, e il tramonto. Questo fa sì che
un sistema all’inizio conviva con altri in fase di transizione. Per il capitalismo Sombart considera il primo
capitalismo quello che si conclude alla fine del ‘700 ed il capitalismo maturo quello che diventa
dominante, contrassegnando l’epoca economica che abbraccia tutto il XIX secolo e si conclude con la
prima guerra mondiale.
LE ORIGINI DEL CAPITALISMO
Sombart vuole dare una spiegazione del mutamento a partire dalle specifiche motivazioni individuali dei
soggetti e dalle conseguenze delle loro azioni. Le forze motrici dello sviluppo vanno cercate in quei
soggetti, gli imprenditori, che all’interno del vecchio sistema pre–capitalistico si fanno portatori di una
nuova mentalità economica e introducono dei cambiamenti nel modo in cui vengono combinati i fattori
produttivi e viene organizzata l’economia.
Le innovazioni dapprima sono limitate, perché i soggetti coinvolti sono pochi e la loro azione non riesce ad
incidere in profondità sull’organizzazione del vecchio sistema economico; nel tempo però la nuova
mentalità economica si diffonde e porta ad un cambiamento delle istituzioni.

 LO SPIRITO CAPITALISTICO
Lo spirito capitalistico è uno stato d’animo risultante dalla fusione in un tutto unico dello spirito
imprenditoriale e dello spirito borghese. Lo SPIRITO DI INTRAPRESA è aspirazione di potere, intesa come
volontà di affermazione e di riconoscimento sociale che spinge gli uomini a rompere la tradizione e a
cercare nuove strade.
Questo processo si manifesta dapprima nella politica, con la costruzione dello stato moderno, e nella
conoscenza scientifica.
Solo più tardi lo spirito di intrapresa si estende anche all’economia e s’identifica con una ricerca di
guadagno, che si esercita in modo sistematico all’interno dell’organizzazione dell’attività produttiva, e non
più nella conquista, avventura o ricerca di metalli preziosi. Perché possa nascere il sistema economico
capitalistico è necessario che lo spirito di intrapresa si fonda con quello borghese. L’acquisività si deve
combinare con la razionalità con un’ordinata e disciplinata amministrazione del capitale.
Le origini di questi tratti sono per Sombart strettamente legati alla matrice religiosa cristiana-ebraica e
prendono forma soprattutto nelle città europee.

 LA FORMAZIONE DELL’IMPRENDITORIALITA’
Per Sombart non bastano la matrice cristiana e l’ambiente urbano per spiegare la formazione
dell’imprenditorialità borghese. L’attenzione è posta su tre gruppi: gli eretici, gli stranieri e gli ebrei.
Gli eretici sono i non appartenenti alla chiesa di stato, come i cattolici nei paesi protestanti o il contrario e
soprattutto gli ebrei. Il loro status è quello di semicittadini, cui sono preclusi l’accesso ai pubblici uffici, o
altri riconoscimenti sociali e professionali. Esclusi dalla vita pubblica non potevano che estrinsecare la loro
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forza vitale nell’economia, che era l’unica che poteva offrire la possibilità di procurarsi quella posizione di
rilievo nella comunità che lo stato negava loro.
Gli stranieri. Le migrazioni implicano sempre una selezione che fa compiere la scelta di partire ai più
intraprendenti, audaci e determinati. Questi, una volta diventati stranieri in un paese diverso dalla loro
origine, sono portati a rompere con le vecchie abitudini e con le relazioni sociali tradizionali. Il guadagno
diventa l’unica cosa importante, l’unico mezzo con il quale costruire il futuro, visto che la mobilità sociale
è molto limitata in settori diversi dall’attività economica.
Gli ebrei hanno dato un contributo rilevante allo sviluppo capitalistico. La situazione di marginalità sociale
in cui si trovano come stranieri è rafforzata dall’attitudine stessa a isolarsi, a non identificarsi in una
determinata nazionalità e a mantenere legami internazionali nell’ambito della comunità ebraica. Questo
fattore alimenta i rapporti fiduciari che facilitano le attività economiche nel mercato internazionale.

 IL MODELLO DELLO SVILUPPO CAPITALISTICO


Sombart dà dunque particolare importanza all'imprenditorialità per spiegare lo sviluppo capitalistico. Essa
è caratterizzata da una determinata mentalità economica, che è alimentata dalla religione cristiana e dalla
città occidentale ed è stimolata in particolar modo dalla condizione di marginalità sociale in cui si trovano
determinati gruppi.
La mentalità capitalistica si afferma, infatti, in stretta interdipendenza con un complesso di fattori
istituzionali che contribuiscono alla sua formazione e ne sono a loro volta condizionati. In questo senso si
può dire che per Sombart gli imprenditori sono l'elemento catalizzante «che fa scoccare la scintilla» dello
sviluppo capitalistico:
1. Sombart, come Simmel, considera anzitutto cruciale il contributo dello STATO. Nella costruzione
dello stato moderno si esprime, originariamente, lo spirito di intrapresa occidentale. Lo stato
stimola a sua volta lo sviluppo tecnico, che è essenziale per aumentare l'efficienza militare e quindi
per il suo rafforzamento. Alla lotta per la supremazia tra i vari stati è anche legato il sostegno alla
politica di conquista e alle intraprese coloniali, e in genere l'orientamento mercantilista. L'obiettivo
è quello di accrescere la disponibilità di metalli preziosi, che aumentano le risorse della finanza
pubblica e quindi la potenza militare;
2. L'interdipendenza che si stabilisce tra stato, sviluppo tecnico e politica di acquisizione dei metalli
preziosi ha influenze sia dirette che indirette sullo sviluppo capitalistico. Per quel che riguarda le
prime, gli aspetti principali sono i seguenti:
a) Lo stato influisce sull'imprenditorialità di origine politica attraverso le politiche
mercantiliste (protezione tariffaria, politiche coloniali, ecc.), ma influenza anche
l’imprenditorialità dal basso, in particolare, contribuendo a creare la situazione sociale degli
eretici, estranei alla chiesa di stato, che attraverso le migrazioni alimentano anche
l’imprenditorialità degli stranieri. Inoltre, con le sue commesse militari, lo stato contribuisce
a allargare il mercato perla nascente industria;
b) La nuova tecnica razionale, basata sul progresso delle conoscenze scientifiche, è importante
per lo sviluppo capitalistico soprattutto perché facilita, a sua volta, la crescita dell'industria
e migliora le condizioni di trasporto dei beni;

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c) Le politiche coloniali e di conquista, che incrementano la disponibilità di metalli preziosi,
favoriscono la crescita dei consumi e l'allargamento del mercato.
Le influenze indirette della costruzione dello stato si esercitano soprattutto nel processo di
formazione della ricchezza borghese:
a) L’interdipendenza tra stato, tecnica e afflusso dei metalli preziosi alimenta anzitutto la
formazione del capitale privato, che è un presupposto essenziale dello sviluppo. Il
mercantilismo stimola cioè, secondo Sombart, l'accumulazione del capitale;
b) La formazione della ricchezza borghese porta a nuovi bisogni, specie negli strati sociali più
ricchi. In questo modo si allarga ulteriormente il mercato, perché una domanda privata di
beni si aggiunge a quella statale.
3. Il fattore decisivo che consente di sfruttare il capitale, il mercato e le nuove tecniche produttive e di
trasporto è per Sombart l'IMPRENDITORIALITÀ “dal basso”, con il decisivo incontro tra spirito di
intrapresa e spirito borghese. Lo spirito borghese ha un'origine indipendente dallo stato. Si forma
infatti sotto l'influenza culturale della religione cristiana e nell'ambiente particolare delle città
europee, segnate dall'esperienza dei comuni. Lo stato entra in questo processo contribuendo a
creare quelle condizioni di esclusione dalla cittadinanza che rendono eretici, stranieri e ebrei più
sensibili di altri gruppi sociali alla formazione della mentalità capitalistica;
4. Una volta che l'imprenditorialità borghese ha fatto scoccare la scintilla dello sviluppo capitalistico,
si determina un vasto processo di dissolvimento degli antichi ordinamenti economici. Sombart si
riferisce alla dissoluzione delle forme tradizionali di economia agricola, del lavoro a domicilio
nelle campagne e dell’artigianato. Per effetto di questi cambiamenti economici e politici si
determina un processo di proletarizzazione del lavoro agricolo e di crisi dell’organizzazione
artigianale, che libera forza lavoro per la nascente industria moderna;
5. Nel tempo lo sviluppo capitalistico contribuisce al mutamento dell’ordinamento giuridico e delle
politiche statali: aumentano le spinte per un orientamento più liberista dello stato in economia e per
il riconoscimento di un’ampia sfera di libertà economica in cui si possono ora muovere le imprese.
Si accresce inoltre la sicurezza del processo economico, sia attraverso l'azione repressiva dello
stato, che favorisce la sicurezza dei traffici, sia con l'introduzione di un sistema monetario razionale
che facilita a sua volta gli scambi. Si afferma così, nel XIX secolo, il capitalismo maturo.

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Fig. 4.1. Il modello dello sviluppo capitalistico di Sombart.

IL CAPITALISMO MATURO
Per Sombart, i cambiamenti intervenuti nella fase di piena maturità del capitalismo, che si conclude con la
prima guerra mondiale, si possono tutti ricollegare al processo di razionalizzazione che investe l’economia
e si esprime nella tendenza a ricercare e applicare i mezzi più adatti al perseguimento del profitto di impresa.
Questo principio condiziona sempre più la produzione, la distribuzione e il consumo dei beni. Possiamo
valutare gli effetti della razionalizzazione considerando le diverse componenti del sistema economico.

 LO SPIRITO CAPITALISTICO
Anzitutto, per quel che riguarda lo spirito capitalistico, esso cresce di intensità e si estende a gruppi sociali
più larghi e a nuove aree geografiche. Il processo è dovuto sia a un cambiamento interno che a fattori esterni.
Quello interno è legato alla trasformazione ideologica della mentalità imprenditoriale che porta alla
secolarizzazione dello spirito capitalistico: le motivazioni religiose che sostenevano il comportamento
degli imprenditori lasciano il posto a un credo più laico, che porta a valutare l'impegno nel lavoro e il
rendimento come fonte primaria del benessere economico e del riconoscimento sociale. Si sviluppa così un
«amore della propria attività» che spinge gli imprenditori a trascurare interessi diversi dal lavoro (per
esempio, l'arte, la politica, le amicizie, ecc.) e ad a intensificare rispetto al passato le energie vitali che
vengono incanalate nell'attività economica.
Tra i fattori esterni c’è la spinta verso la maggiore specializzazione della funzione imprenditoriale, che
consente di delegare a altri dipendenti una serie di compiti prima poco differenziati, e permette quindi
all'imprenditore di concentrare il suo impegno in alcune funzioni di direzione strategica.

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In tal modo Sombart lascia intravedere - pur se implicitamente - un cambiamento importante nella
formazione dell'imprenditorialità: se alle origini del capitalismo le componenti normative4 erano più
importanti delle componenti cognitive (es. le conoscenze produttive e commerciali), con il maturare del
capitalismo, in una situazione in cui l’innovazione economica non è più ostacolata ed è anzi socialmente
legittimata, l’equilibrio si inverte.
In questo quadro si afferma una democratizzazione dell'imprenditorialità, per cui è più facile accedere al
ruolo di imprenditore da tutti i gruppi sociali. Ciò che più conta è ora disporre delle conoscenze adeguate.
Le istituzioni creditizie giocano un ruolo importante in questo processo di maggiore apertura, poiché
mettono a disposizione di chi ha buone idee i capitali necessari per la loro realizzazione (un tema che sarà
ampiamente ripreso anche da Schumpeter).
Vi sono poi altri fattori di contesto che si aggiungono alla secolarizzazione e alla specializzazione nel
favorire l'intensificazione dello spirito capitalistico. Tra questi vanno considerati alcuni stimoli negativi:
L’inasprimento della concorrenza sul mercato dei beni, e del rafforzamento del movimento operaio, che
condiziona il mercato del lavoro, Per quel che riguarda in particolare quest'ultimo aspetto, è da notare
come Sombart, a differenza degli economisti, sottolinea i positivi contributi che ne possono discendere per
lo sviluppo economico dalla distorsione del funzionamento del mercato del lavoro che il movimento
operaio può comportare. Con le rivendicazioni sindacali e politiche del movimento operaio, infatti,
migliora l’integrazione sociale dei lavoratori, mentre gli imprenditori sono spinti a innovare continuamente
per aumentare la produttività e compensare così i maggiori costi del lavoro.
Accanto a quelli negativi vi è poi un potente stimolo positivo all'intensificazione e all'estensione dello
spirito capitalistico. Si tratta degli effetti che discendono dall'evoluzione della tecnica, che genera continue
occasioni per modificare le condizioni di concorrenza. Ne discende anche una spinta alla razionalizzazione
dello sviluppo tecnologico, che si manifesta attraverso una maggiore istituzionalizzazione della ricerca
applicata e della formazione, e una crescente incorporazione di queste attività all'interno stesso delle
imprese, soprattutto delle più grandi.

4
I valori che sono stati importanti nella formazione dei primi imprenditori, e cioè lo spirito borghese alimentato dal retroterra
religioso e stimolato dalle condizioni di marginalità sociale.

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L’ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA ECONOMICO
Il rafforzamento dell’imprenditorialità capitalistica spinge sia indirettamente, sul piano politico che
direttamente sul piano economico, verso una razionalizzazione dei meccanismi regolativi, in modo da
aumentare le possibilità di profitto delle imprese. Un primo ambito riguarda l’ordinamento giuridico e
l’intervento dello stato in campo economico.
Si afferma altresì la razionalizzazione del lavoro, del consumo e dell’azienda, di cui si fanno portatori gli
imprenditori stessi.
L’esodo dalla campagne verso le grandi città industriali assicura forza lavoro per le nuove attività
industriali, ma si poneva il problema di adattare i lavoratori dal punto di vista culturale e professionale al
lavoro di fabbrica (un aiuto importante è venuto in questo senso dalla religione protestante).
La scarsa disponibilità di operai qualificati rendeva poi più elevato il costo del lavoro. Da qui la spinta alla
decomposizione del lavoro: le mansioni complesse vengono scomposte in una pluralità di compiti più
accessibili anche agli operai meno qualificati. In questo senso Sombart, come aveva fatto Marx, percepisce
la subordinazione del lavoratore alla macchina.
La razionalizzazione tende ad estendersi anche all’azienda nel suo complesso, e porta, come conseguenza
ad una spersonalizzazione dell’azienda, dal momento che si riduce lo spazio per quegli elementi della
conduzione dell’impresa legati alla personalità dell’imprenditore e ai rapporti tra questi e i dipendenti.
L’azienda comincia a burocratizzarsi, con procedure e gerarchie dei ruoli.
Altro aspetto della razionalizzazione interna è costituito dalla condensazione aziendale, ovvero lo
sfruttamento intensivo di economie di spazio, di materia e di tempo (= crescente concentrazione di
macchine e uomini all’interno dell’azienda per aumentare la capacità produttiva).
Nel capitalismo maturo, le imprese si fanno più grandi per sfruttare le economie di scala e controllano
maggiormente l’offerta. Influenzando l’andamento della moda l’industria può accelerare il ritmo di
introduzione di nuovi prodotti, ma ha anche maggiore possibilità di standardizzare i bisogni creando un
mercato di massa. Quest’ultima tendenza si realizza creando beni di qualità inferiore che imitano i modelli
d’élite imposti dalla moda e richiesti ora da un largo pubblico di consumatori.

24
IL FUTURO DEL CAPITALISMO
Nel capitalismo maturo e nella sua razionalizzazione sono già insiti i germi che porteranno al declino
questo sistema economico. Sombart non si aspetta il crollo come Marx: lo sviluppo tecnico e l’aumento del
capitale fisso non comportano necessariamente una caduta del saggio di profitto e una crescente
disoccupazione. Le nuove tecniche aumentano la produttività e – se i salari non crescono più di
quest’ultima – consente di aumentare i profitti e di destinarli a nuovi investimenti che possono compensare
e assorbire la disoccupazione, che è per Sombart congiunturale, generata dalla continua ristrutturazione
produttiva, ma non destinata a crescere strutturalmente fino ad alimentare un processo rivoluzionario.
I sistemi economici si fondano su economie di piano, con un maggior intervento dello stato nell’economia.
Si va insomma verso un capitalismo stabilizzato e regolato.
Il sistema economico capitalistico s’indebolisce dal suo interno stesso. La mentalità economica vede
attenuarsi lo spirito di intrapresa a spese della componente del razionalismo dello spirito borghese.
L’organizzazione del sistema economico capitalistico è caratterizzata da crescenti restrizioni alla libera
ricerca del massimo profitto, alcune di queste autoimposte.
Altre forme di regolazione sono invece imposte dall’esterno (lo stato), legate alla legislazione sociale e del
lavoro, sollecitata anche dal movimento operaio, o a controlli sui prezzi o sulle modalità del processo
produttivo.

25
CAP. 5 Capitalismo e civiltà occidentale: Max Weber
La sociologia dell’economia di Weber si articola e arricchisce, in un percorso ricco, articolato e ambizioso
sino a divenire una sociologia della storia dell’Occidente moderno. La ricerca sulle origini del capitalismo
diventa una ricerca sulle origini del razionalismo occidentale.
LE PRIME RICERCHE SULLA SOCIETÀ TEDESCA
Weber rimase colpito dalla tendenza dei lavoratori impegnati nelle tenute dei grandi proprietari (Junker) a
lasciare la condizione di contadini fissi, legati più stabilmente all’azienda, per quella di salariati, o
addirittura ad emigrare. I lavoratori volevano liberarsi dai pesanti rapporti di dipendenza nei riguardi degli
Junker, nonostante la perdita di sicurezza economica che ciò comportava nell’immediato. Anche il
comportamento degli operatori di borsa tedeschi, che Weber considera nel suo studio su La borsa, non è
comprensibile in termini strettamente utilitaristici, secondo gli schemi della teoria economica. In GB e
USA le borse sono dei club riservate ai soli commercianti di professione, istituzioni autogestite che
decidono autonomamente i loro criteri di ammissione.
I posti si tramandano e se si acquistano è necessaria una consistente cauzione. Questo non avviene in
Germania, dive il quadro istituzionale è più esposto ai rischi di comportamenti non corretti. Le ricerche di
Weber sollevano importanti interrogativi e attirano l’attenzione sul ruolo cruciale di condizioni non
economiche di natura culturale e istituzionale per comprendere il comportamento economico.
L’attività imprenditoriale non è considerata una costante ma una variabile che dipende dal contesto
istituzionale in cui i soggetti sono inseriti. Ne consegue che come per il lavoro e per la finanza (mercato
dei fattori), anche per la produzione (mercato dei beni) è essenziale un appropriato quadro istituzionale.
Solo se esso sostiene la crescita dell’imprenditorialità si può generare lo sviluppo economico.
LO SPIRITO DEL CAPITALISMO (per Weber)
Non s’identifica affatto con l’impulso acquisitivo e l’avidità di denaro, sempre esistite in tutte le epoche e
società, dove la ricerca del profitto può essere ancor più spregiudicata perché non vincolata da norme etiche.
L’orientamento economico tradizionalistico appare contraddistinto da due aspetti principali:
 Profitto non giustificato dal punto di vista etico, ma tollerato. La ricerca avviene con gli estranei alla
comunità, stranieri;
 Acquisività nel commercio, ma non nella sfera della produzione governata da routine tradizionali.
Weber critica Sombart per non aver riconosciuto che il carattere tradizionalistico dello spirito economico
può essere proprio anche di una economia già organizzata in forma capitalistica, con imprenditori
dall’atteggiamento statico, che si accontentano del solito livello di profitto e si muovono sui binari di
tradizioni consolidate. Anche gli operai non sono spinti a lavorare di più.
Lo spirito del capitalismo si differenzia nelle due dimensioni dell’orientamento tradizionalistico:
 Profitto non solo tollerato ma sollecitato sul piano etico. L’impegno nel lavoro diventa impegno etico
e viene condannato ogni godimento spensierato o finalità edonistica nell’impiego dei guadagni. Il
profitto deve essere fatto fruttare reinvestendo il capitale in attività produttive e non impiegandolo solo
per accrescere il patrimonio familiare.

26
 Ricerca del profitto basata sul calcolo razionale del rendimento del capitale, nella sfera della
produzione; l’acquisività si esprime nell’organizzazione razionale del processo produttivo, rompendo
la staticità dell’economia tradizionale.
Il tradizionalismo viene travolto da una nuova imprenditorialità fortemente motivata a combinare in modo
più efficiente i fattori produttivi. Gli imprenditori modificano i prodotti, i metodi di produzione, i rapporti
con i fornitori e con il mercato, alla ricerca del massimo profitto.
Non dispongono di molto capitale, ma di qualità etiche che alimentano l’energia e l’impegno nel lavoro
che caratterizzano i nuovi soggetti economici.
L’ETICA ECONOMICA DEL PROTESTANTESIMO
La diffusione dello spirito del capitalismo è vista da Weber come conseguenza inintenzionale dell’etica
economica della componente calvinista del protestantesimo (calvinismo, metodismo, pietismo e sette
battiste). Gli eletti sono predestinati, scelti da Dio al momento della creazione. Il loro destino non può
essere modificato, né con le proprie azioni né con mezzi ecclesiastici
Vediamo quindi rigettati come superstizione e empietà tutti i mezzi magici di ricerca della salvezza. Il
calvinismo determina anche profonda solitudine nel credente. L’idea di predestinazione genera angoscia e
bisogno psicologico di rassicurazione. Il credente deve comportarsi come se fosse eletto e impegnarsi in
modo rigoroso nel mondo, con il proprio lavoro.
Il successo della sua attività professionale viene interpretato come un segno della sua elezione e ciò spinge
ad impegnarsi ancor di più per mantenere e rafforzare tale condizione. Non solo ricerca del profitto come
dovere etico, ma anche impegno a un impiego produttivo e condanna del consumo di lusso e dei piaceri.
Il risultato della combinazione tra spinta all’impegno rigoroso nel lavoro e restrizione del consumo è un
orientamento verso l’attività economica che favorisce la formazione del capitale attraverso la costrizione
ascetica al risparmio.
Vi è profonda differenza per il comportamento individuale tra l’essere membro di una chiesa o di una setta.
CHIESA - associazione che amministra la grazia (beni religiosi che garantiscono la salvezza) e pretende
obbligatorietà per tutti.
SETTA - associazione volontaria che raggruppa coloro che per la loro condotta appaiono qualificati
eticamente.
Nella chiesa si nasce, nella setta si è ammessi, ma per diventare membri occorre mostrare di essere
osservanti di determinate norme e una volta ammessi, occorre confermare la propria qualificazione etico–
religiosa con i comportamenti successivi.
Si determina quindi anche un interesse materiale a mantenere un comportamento eticamente qualificato,
interesse che acquista via via maggior rilievo con l’attenuarsi delle originarie motivazioni religiose. Le
sette hanno una forma organizzativa che tende a stimolare un comportamento più rigoroso di quanto non
accada con la chiesa.

27
CARATTERI E ORIGINI DEL CAPITALISMO MODERNO
LA DEFINIZIONE DEL CAPITALISMO MODERNO
Per capitalismo moderno s’intende «una forma di organizzazione economica che consente il soddisfacimento
dei bisogni attraverso imprese private che producono beni per il mercato sulla base di un calcolo di
redditività del capitale da investire (cioè delle aspettative di profitto), e che impiegano forza lavoro
salariata formalmente libera»
Questa definizione contiene tre elementi che sono per Weber rilevanti per distinguere il capitalismo
moderno sia da forme di organizzazione economica non capitalistiche, che da altri tipi di capitalismo più
tradizionali.
 Il primo è il SODDISFACIMENTO DEI BISOGNI TRAMITE IL MERCATO, che distingue il capitalismo
moderno dall’«economia domestica», in cui la produzione di beni è volta in misura prevalente
all’autoconsumo, ovvero alla copertura del fabbisogno di una famiglia o di una comunità locale;
 Il secondo è la RAZIONALIZZAZIONE DEL CALCOLO DEL CAPITALE grazie ad accorgimenti contabili e
organizzativi (come la tenuta razionale dei conti e la separazione giuridica tra impresa e patrimonio
familiare dell’imprenditore). Questa è a sua volta favorita, sempre secondo Weber, da una terza
condizione, assente nell’economia domestica e nel capitalismo tradizionale:
 L’ORGANIZZAZIONE RAZIONALE DEL LAVORO SALARIATO FORMALMENTE LIBERO: solo sulla base del
lavoro libero (governato da accordi salariali) è, infatti, possibile un calcolo razionale del capitale.
Per Weber, invece, le forme tradizionali si manifestavano:
– Nel commercio di beni e nel credito (specie con gli stranieri), quando orientate dalle
opportunità di profitto offerte dal mercato (opportunità economiche);
– Oppure concentrate in attività che sfruttano opportunità politiche.
Per Weber, se si eccettuano il commercio e il credito, le forme tradizionali sono soprattutto di tipo politico,
ovvero si basano sull’uso della forza come nel caso del capitalismo predatorio e d’avventura (guerre, pirateria,
ecc.), o sull’uso di risorse garantite politicamente, cioè dallo stato (come nel caso di appalto di imposte,
acquisto di uffici pubblici da parte di privati, monopoli di commercio coloniale concessi dallo stato, ecc.).
TAB.5.1. Capitalismo politico ed economico
SFERA DELLA CIRCOLAZIONE SFERA DELLA PRODUZIONE
Capitalismo di guerra e di Capitalismo industriale con lavoro
avventura. Pirateria servile
RISORSE POLITICHE
Capitalismo coloniale e di appalto
fiscale. Usura
Capitalismo commerciale, Capitalismo industriale con lavoro
RISORSE ECONOMICHE
creditizio, di borsa formalmente libero

Alla distinzione tra capitalismo economico e politico corrisponde quella tra imprenditorialità economica e
politica.

28
Per Weber, quindi, il vero tratto distintivo del capitalismo moderno è il capitalismo industriale; una forma
di organizzazione economica che sfrutta opportunità di profitto determinatesi nel mercato dei beni con
attività che si localizzano nella sfera della produzione5.
In questo senso, ed in sostanziale accordo con Marx su questo punto, Weber ritiene che non ci può essere
capitalismo moderno senza classe operaia, e che i passaggi preliminari essenziali di questa forma di
organizzazione (che quando si diffonde connota un’intera «epoca economica») sono:
1. L’appropriazione dei mezzi di produzione da parte dei capitalisti,
2. La formazione del lavoro salariato.
Per Weber, il capitalismo moderno è proprio solo dell’Occidente, e per dimostrare ciò imposta un’imponente
indagine comparata con lo scopo di individuare i fattori causali cruciali presenti nell’esperienza oc-
cidentale, e assenti, o presenti solo in parte, altrove. In pratica si tratta delle condizioni che rendono
possibile il soddisfacimento dei bisogni con imprese private che operano sulla base del calcolo del capitale,
producendo per il mercato con capitale fisso e forza lavoro libera:
 La prima condizione è che vi sia APPROPRIAZIONE DEI MEZZI DI PRODUZIONE DA PARTE
DELL’IMPRENDITORE e l’assenza di vincoli alla loro commerciabilità;

 La seconda condizione è che vi sia LIBERTÀ DI MERCATO, ovvero che non operino vincoli di natura
culturale e politica sia al consumo di determinati beni che all’impiego dei fattori di produzione (terra,
capitale, lavoro);
 La terza condizione è l’ESISTENZA DI FORZA LAVORO LIBERA (contrapposta a forme di organizzazione
che si basano su schiavi o servi), in quanto consente di anticipare con precisione il costo del lavoro
necessario per determinati investimenti e riduce i costi fissi;
 La quarta condizione è la TECNICA RAZIONALE, in particolare la disponibilità di una tecnologia
meccanica che consente di calcolare con esattezza i costi di fabbricazione dei beni e, inoltre, permette
un abbassamento significativo dei costi, e quindi una produzione per il consumo di massa;
 La quinta condizione è la COMMERCIALIZZAZIONE DELL’ECONOMIA, ovvero la disponibilità di strumenti
giuridici come le azioni e i titoli di credito, che da un lato facilitano la separazione tra patrimonio
familiare e patrimonio dell’impresa – e quindi di nuovo il calcolo più razionale dell’impresa – e
dall’altro favoriscono la trasferibilità del capitale e rendono anche possibile un collegamento più
razionale tra risparmio e investimento (per arrivare alla creazione della borsa);
 La sesta e ultima condizione è l’esistenza di uno STATO CHE SOSTENGA IL DIRITTO RAZIONALE , ovvero di
un ordinamento giuridico che riduca i rischi e renda più prevedibili le relazioni tra privati, e tra questi e
la pubblica amministrazione.

5
E non solo in quella della circolazione, come per il capitalismo commerciale e finanziario.

29
LE CONDIZIONI DEL CAPITALISMO MODERNO
Tra i motivi per i quali il capitalismo moderno si sono affermati in Occidente, Weber distingue:
 Un complesso di condizioni che egli considera SPECIFICAMENTE OCCIDENTALI, essenzialmente di due tipi:
 Quelle culturali, che riguardano l’influenza dell’etica economica di origine religiosa sulla
formazione dell’imprenditorialità;
 Quelle istituzionali fanno invece riferimento soprattutto a tre fattori: la città occidentale, lo stato
razionale e la scienza razionale.
 Altri fattori complementari, NON NECESSARIAMENTE OCCIDENTALI, ai quali non viene però attribuito
un molo decisivo. Ne vengono menzionati, in particolare, quattro:
 Le vicende belliche,
 Le conquiste coloniali e l’afflusso di metalli preziosi,
 La domanda di beni di lusso delle corti,
 Le condizioni geografiche favorevoli.

L’etica economica
Le condizioni culturali sono centrate sull’etica economica. Questo aspetto è stato messo in luce da Weber
nei suoi studi sui rapporti tra etica protestante e spirito del capitalismo. Con studi successivi, l’autore
integra e ridefinisce la prospettiva originaria in più direzioni:
 In primo luogo, conferma il RUOLO ESSENZIALE DELL’ETICA ECONOMICA per lo sviluppo capitalistico
occidentale, mostrando come le religioni non cristiane prevalenti altrove avessero alimentato un
orientamento economico sfavorevole al capitalismo moderno;
 In secondo luogo, ATTENUA IL PESO ATTRIBUITO ALL’IDEA DI PREDESTINAZIONE rispetto a quella di
vocazione–professione, enfatizzando soprattutto il ruolo delle sette protestanti. Inoltre, più in generale,
accanto al contributo dato dal cristianesimo al processo di demagizzazione e alla razionalizzazione
della condotta di vita, Weber accentua l’importanza della tradizione religiosa occidentale per il su-
peramento del dualismo tra etica dei virtuosi e delle masse, che si affermerà in forma radicale con il
protestantesimo.
Tutte le etiche economiche sono state a lungo caratterizzate dal tradizionalismo (rispetto per le pratiche
produttive e commerciali tramandatesi nel tempo), anche per l’interesse materiale di coloro che sarebbero
stati colpiti dall’innovazione economica (principi, burocrati, proprietari terrieri, mercanti, ecc.), che spesso
utilizzavano la magia per legittimare la tradizione. Credere, infatti, che il mondo sia dominato da potenze
soprannaturali, scoraggiava qualsiasi innovazione per il timore di una reazione degli spiriti.
Questa situazione cominciò a mutare con il superamento delle società primitive frammentate e l’emergere
delle religioni mondiali6 , che portò alla separazione tra mondo naturale e soprannaturale: il destino
individuale è non più affidato al capriccio degli spiriti da propiziarsi con pratiche magiche, ma dipende
dalla capacità degli uomini di conformarsi ai precetti morali imposti dalle divinità che vivono nel mondo
soprannaturale. Per motivare il comportamento terreno e di razionalizzare la condotta di vita, assume
quindi particolare importanza la salvezza nell’aldilà.

6
A partire dal V secolo A.C. con il confucianesimo, il buddismo, la filosofia etica greca e l'ebraismo, e più tardi il cattolicesimo e
l'islamismo

30
Le grandi religioni hanno due importanti conseguenze:
 Contribuiscono alla riduzione dell’influenza della magia (demagizzazione), ponendo quindi i presupposti
per una spiegazione razionale del mondo naturale sulla quale potrà crescere la scienza e la tecnica;
 In secondo luogo, esse, tendendo al monopolio del rapporto con le divinità e, considerando le proprie
come le uniche degne di venerazione, sono più universalistiche delle religioni primitive a connotazione
magica. Queste ultime erano, infatti, confinate ai gruppi sociali ristretti (famiglia, tribù, stirpe),
ciascuno dei quali con le proprie divinità.
Dal punto di vista economico, quest’ultimo aspetto ha importanti implicazioni perché incide sulle
possibilità di superamento del dualismo etico, ovvero di quella doppia morale legata all’esistenza di
 Un’ETICA INTERNA, valida per i membri della famiglia, del gruppo parentale, della tribù, che esclude il
perseguimento del profitto e si basa invece sulla reciprocità, l’aiuto fraterno, il prestito gratuito, e
 Un’ETICA ESTERNA, da applicarsi nei confronti degli estranei alla solidarietà primaria, sancita
religiosamente, che prevede invece la possibilità di ricercare il profitto nelle transazioni economiche
senza alcun vincolo etico.
Per Weber non ci può essere uno sviluppo del capitalismo moderno senza un superamento di questo dualismo
etico tipico del tradizionalismo, dal momento che la ricerca del profitto, peraltro eticamente vincolata, deve
accompagnarsi ad un allargamento delle relazioni sociali all’interno delle quali tale ricerca può esercitarsi.
Non tutte le religioni contribuiscono però allo stesso modo al processo di riduzione della magia e del
dualismo etico. Ciò si può comprendere se si tiene conto che esistono due tipi essenziali di profezia:
– Quella esemplare, ove il profeta non si presenta come mediatore di Dio, ma indica con l’esempio la
via della salvezza e non pretende obbedienza dalle masse7;
– Quella etica, tipica dell’ebraismo e del cristianesimo, nella quale il profeta si presenta come mandato
da Dio a predicare dei comandamenti per i quali richiede a tutti (intellettuali e masse) obbedienza come
un dovere morale. Solo seguendo l’etica prescritta si può accedere alla salvezza nell’aldilà.
Weber, opera dunque una prima importante distinzione tra le grandi religioni universali dell’India e della
Cina, dove la profezia etica non aveva attecchito, e il ceppo ebraico–cristiano nell’ambito del quale essa si
era invece maggiormente sviluppata. Le prime danno un contributo limitato al processo di demagizzazione
e al superamento del dualismo etico8.
È invece in Israele che si afferma la profezia etica: i profeti richiedono obbedienza in nome di un Dio
trascendente e interpretano fortune e sventure del popolo in relazione alla fedeltà a una divinità che è però

7
Tipico è il caso del profeta Buddha in India. Egli indica con il suo esempio che chi vuole salvarsi deve uscire dalla vita
mondana e dedicarsi alla vita contemplativa. Ma ciò è il frutto di una libera scelta: non tutti devono accedere al Nirvana dopo
la morte. Ne discende che solo nuclei limitati di intellettuali religiosamente qualificati seguono la strada indicata facendosi
monaci ed eremiti, mentre le masse rimangono in preda alla magia e al tradizionalismo.
8
In India, si afferma la profezia esemplare che porta le élite intellettuali verso il disimpegno dalla vita attiva e lascia le masse in
preda alla magia e agli effetti paralizzanti del sistema castuale. Secondo la dottrina indù della reincarnazione, infatti, soltanto il
rispetto rigoroso degli obblighi di casta, che scoraggiano qualsiasi innovazione economica, permette dì reincarnarsi in una posizione
migliore. In Cina, manca una vera e propria profezia; il confucianesimo non è, infatti, una religione di redenzione che prevede
la salvezza nell'aldilà. Si tratta essenzialmente di un insieme di precetti etici che prescrivono il rispetto della tradizione, e
lasciano intatte una serie di credenze magiche con effetti scoraggiami sulla razionalizzazione del comportamento economico.

31
ancora presentata come il Dio d’Israele. Ciò porta al superamento della magia, ma non a quello del
dualismo etico: anche dopo la diaspora, infatti, gli Ebrei, per il fatto di essere considerati un popolo–paria,
al di fuori della comunità politica, pratica sì attività economiche, ma sempre su basi rigidamente
tradizionalistiche (attività commerciali e finanziarie – credito, usura – nei riguardi dei privati e degli stati,
cioè di estranei, che escludono il formarsi di quello spinto del capitalismo eticamente vincolato che è alla
base del capitalismo moderno, in particolare di quello industriale).
Con il Cristianesimo, tutti gli uomini diventano fratelli in quanto figli di Dio, ed in tal modo vengono rotti
i confini ristretti dell’identità religiosa ebraica e poste le basi di una prospettiva etica universalistica. La
religione cristiana può così diffondersi e unificare il mondo occidentale.
La religione cristiana, per Weber, porta l’individuo ad avere un rapporto con Dio non più collettivo e
tribale, ma personale ed individuale, con una rottura sempre più marcata dei rapporti di solidarietà interni
alla propria comunità.
Tuttavia, sia la riduzione della magia che quella del dualismo etico trovano ancora dei limiti nell’esperienza
della chiesa cattolica. Quest’ultima, infatti, attraverso i sacramenti 9, continua ad creare nell’immaginario
dei fedeli una sorta di atmosfera magica che attenua la responsabilità individuale e la razionalizzazione
della condotta. Nello stesso tempo, la chiesa mantiene una differenziazione tra etica dei virtuosi (es. i
monaci) e etica delle masse, che comporta una forma, seppure attenuata, di dualismo etico.
Per Weber questi limiti vengono definitivamente superati solo con la Riforma, soprattutto con il
Calvinismo protestante, la cui etica rifiuta ogni mediazione tra il credente e Dio; quest’individualismo crea
le condizioni per legare il successo nell’attività mondana e nei propri affari (e quindi il primato all’interno
della propria comunità) alla benevolenza divina.
Fig. 5.1. Il modello dello sviluppo capitalistico di Weber

9
In particolare la confessione e la comunione, attraverso le quali si può riacquistare lo stato di grazia perduto con i peccati.

32
CAP. 6 Le conseguenze sociali del capitalismo: Durkheim e Veblen
LE CONSEGUENZE SOCIALI DELLA DIVISIONE DEL LAVORO
Durkheim è nel complesso ottimista circa le capacità di una società a elevata divisione del lavoro di
generare quella solidarietà di cui ha bisogno, anche se si rende conto che tale esito non è scontato, dal
momento che, in realtà, lo sviluppo della divisione del lavoro si accompagna in realtà a tensioni e conflitti
sociali.
Durkheim affronta il problema degli effetti socialmente destabilizzanti della divisione del lavoro,
considerando, in prima approssimazione, come «eccezionali» e «anomale» le situazioni in cui la
specializzazione non si accompagna alla crescita della solidarietà. Egli distingue tra due modalità
prevalenti attraverso le quali la divisione del lavoro produce effetti socialmente destabilizzanti:
 Quando essa TENDE A CRESCERE PIÙ RAPIDAMENTE RISPETTO ALLE REGOLE ISTITUZIONALI: si
determina dunque una situazione di «anomia» (carenza di norme);
 Quando LE REGOLE CI SONO MA SONO INADEGUATE RISPETTO AI PROBLEMI: la divisione dei compiti
assume allora un carattere «coercitivo»,
LA DIVISIONE ANOMICA
Per Durkheim, la principale fonte di anomia nelle società moderne è il forte sviluppo delle attività
economiche, non perché esso si è accompagnato a una crescita della divisione del lavoro, ma perché questo
processo si è affermato senza un’adeguata istituzionalizzazione.
Due forme tipiche attraverso le quali si manifesta l’anomia sono le crisi industriali e commerciali e l’anta-
gonismo tra capitale e lavoro.

 LE CRISI ECONOMICHE
Divenute più frequenti, sono dovute all’espandersi del mercato come meccanismo di regolazione delle
attività economiche: la crescita della divisione del lavoro e della produzione per il mercato comportano,
infatti, la possibilità che si determini uno scarto tra produzione e consumo – tra offerta e domanda – che
genera crisi ricorrenti (di sovrapproduzione o dì sottoconsumo).
La conseguenza è che ogni industria produce per consumatori che sono dispersi su tutta la superficie del
paese o anche del mondo intero. Il contatto non è quindi più sufficiente, dal momento che il produttore non
può più avere sotto gli occhi tutto il mercato né immaginarselo. Alla produzione mancano così sia i freni,
sia le regole; da qui le crisi che turbano periodicamente le funzioni economiche.
Durkheim non nega la tendenza del mercato all’equilibrio tra produzione e consumo, ma afferma che ad
esso si arriva attraverso continue e prolungate destabilizzazioni delle relazioni sociali, di cui i fallimenti e
la disoccupazione sono un pesante segno.

33
 ANTAGONISMO TRA CAPITALE E LAVORO
Un fenomeno di anomia molto simile si manifesta nei rapporti tra capitale e lavoro. Esso riguarda sia il
mercato che l’organizzazione del lavoro. Sotto il primo profilo Durkheim nota che la diffusione
dell’occupazione industriale è avvenuta senza un’adeguata regolamentazione (e quindi tutela) giuridica del
rapporto di lavoro, specie in relazione alle variazioni dell’andamento del mercato.
Sotto il profilo della divisione del lavoro all’interno della fabbrica, una parcellizzazione dei compiti, una
routinizzazione e una perdita di qualità del lavoro che riducono l’operaio ad appendice di una macchina.
Tutto ciò, secondo Durkheim – qui vicino all’analisi dell’alienazione svolta da Marx –, entra in contrasto
con gli ideali di arricchimento e perfezionamento individuale che sono alla base della coscienza collettiva
nella società moderna, e produce, oltre ai conflitti sociali, anche una difficoltà di integrazione dei singoli
individui nell’ordine sociale.
LA DIVISIONE COERCITIVA
Il disordine sociale che si accompagna alla diffusione delle moderne attività industriali è anche da
collegare alle regole che presiedono alla distribuzione del lavoro che generano una divisione coercitiva del
lavoro. Tutto questo va letto in un duplice senso: nell’assegnazione dei singoli individui ai ruoli
specializzati e nella regolazione delle ricompense del lavoro che viene prestato in tali ruoli.

 ASSEGNAZIONE DEI SINGOLI INDIVIDUI AI RUOLI SPECIALIZZATI


Una società basata su un’elevata divisione del lavoro presuppone un allentamento della coscienza collettiva,
che lascia ora più spazio alle scelte individuali. Si affermano così ideali che assegnano un valore morale al
perfezionamento e alla realizzazione della personalità individuale ed un «culto dell’individuo», per il
quale «ognuno è destinato alla funzione che può adempiere meglio e riceve la giusta remunerazione per le
sue prestazioni».
Questi ideali entrano però in contrasto con un insieme di regole10 (spesso frutto di una fase precedente
della società), che ne limitano la piena attuazione. L’assegnazione dei singoli ai compiti specializzati
finisce per essere imposta piuttosto che scelta, dal momento che non corrisponde più alle vocazioni
individuali, ma ai condizionamenti esercitati dalla classe sociale di origine.
Perché gli effetti negativi di fattori istituzionali di questo tipo non si verifichino è allora necessario che si
modifichino queste regole e che nuove norme garantiscano che nessun ostacolo impedisca agli individui di
occupare nei quadri sociali il posto che più risponde alle loro facoltà. Solo in condizioni di questo tipo la
concorrenza tra i singoli individui può generare solidarietà.

10
Esempi di regole (giuridiche e morali) che producono effetti di questo tipo si possono riscontrare nel diritto ereditario, che
altera la concorrenza tra gli individui per assumere determinati ruoli sulla base delle loro capacità; o ancora nelle regole che
limitano l'accesso ai ruoli pubblici su basi di classe.

34
 REGOLAZIONE DELLE RICOMPENSE DEL LAVORO
Questa seconda forma di divisione coercitiva del lavoro è relativa alle ricompense da assegnare ai compiti
divisi. Perché una società basata sulla divisione del lavoro generi solidarietà è necessario che tali
ricompense corrispondano all’effettiva utilità per la società dei servizi prestati, ovvero al «valore sociale»
che ne discende.
La stima del valore da assegnare alle diverse attività lavorative non è però molto chiaro. La Teoria
neoclassica della distribuzione del reddito, in condizioni di mercato concorrenziale, vuole il compenso dei
fattori produttivi, tra cui il lavoro, determinato dal contributo da essi dato al valore della produzione (teoria
della produttività marginale).
Durkheim non contesta, in linea di principio, che il mercato possa essere uno strumento efficace per
stabilire la corrispondenza tra valore di scambio di un bene, o anche del lavoro, e utilità sociale; evidenzia
però il fatto che il valore assegnato attraverso il mercato alle diverse attività lavorative, può nascondere uno
squilibrio di potere tra i contraenti che porta ad allontanare la ricompensa dall’effettiva utilità sociale e
impedisce ai meccanismi di mercato di stabilire l’effettiva equivalenza tra i due fenomeni11.
Si verifica così secondo Durkheim una «violenza» che finisce per minare la legittimità dei contratti e per
generare disordine e conflitti sociali.
Anche in questo caso, come già per l’accesso ai ruoli specializzati, la condizione necessaria per contratti
giusti è costituita dal fatto che «i contraenti si trovino in condizioni esteriori uguali». Occorre dunque
fare in modo che le remunerazioni siano determinate dal «merito sociale» e non da altri criteri. Solo questa
situazione può far accettare la disuguaglianza in una situazione di elevata divisione del lavoro.
Durkheim si preoccupa quindi delle «condizioni morali dello scambio», normalmente trascurate dagli
economisti. Ciò richiede una regolazione del mercato che non si limiti soltanto a perseguire le frodi e a far
rispettare i contratti, ma incida efficacemente su quegli squilibri di risorse che possono portare a uno
scambio ingiusto e quindi generare conflitti che mettono a repentaglio le stesse attività economiche.

11
L'esempio che Durkheim porta è quello del mercato del lavoro: se una classe della società è obbligata per vivere ad accettare
qualsiasi prezzo per i suoi servizi, mentre un'altra può farne a meno grazie alle risorse di cui dispone, non necessariamente
dovute ad una superiorità sociale, la seconda impone ingiustamente la sua legge alla prima. In altri termini non possono esservi
ricchi e poveri di nascita senza che vi siano contratti ingiusti.

35
CORPORAZIONI E SOCIALISMO
Due aspetti particolari del contributo di Durkheim alla sociologia economica riguardano:
– I rimedi ai quali egli pensava per far fronte ai problemi sociali posti dalla divisione del lavoro e
– I rapporti tra tale prospettiva e quella di Marx e quella del socialismo non marxista.
Durkheim, riconosce che gli effetti socialmente destabilizzanti indotti dalla divisione del lavoro sono molto
diffusi e strutturali (fino a costituire una caratteristica essenziale della società moderna) e propone una
nuova regolamentazione, sia giuridica che morale, delle attività economiche che definisca i diritti e i
doveri dei datori di lavoro e dei lavoratori, la «quantità del lavoro» e la «giusta remunerazione».
In particolare, Durkheim concentra la sua attenzione sui soggetti istituzionali che dovrebbero realizzare
questo nuovo tipo di regolamentazione dei mercato. Egli ritiene che un compito di questo genere non
dovrebbe essere affidato esclusivamente allo stato, troppo rigido e troppo lontano dai bisogni e dalle
esigenze specifiche dei diversi settori di attività economica. Lo stato dovrebbe invece limitarsi a fissare i
principi generali, lasciando alle corporazioni il compito di adattarli alle esigenze specifiche dei diversi
settori di attività.
Le CORPORAZIONI sono istituzioni costituite da rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori di
ogni settore. Come concepite da Durkheim, le corporazioni sono «istituzioni pubbliche» obbligatorie (e
non volontarie), organizzate in modo gerarchico sul territorio (dal centro alla periferia), con funzioni di:
 Rappresentanza congiunta dei diversi interessi,
 Soluzione di controversie economiche e di lavoro (attraverso «tribunali» costituiti dalle
rappresentanze congiunte di lavoratori e datori di lavoro).
Accanto a queste funzioni, specificamente economiche, esse avrebbero dovuto svolgere anche compiti
collaterali di:
 Assistenza sociale,
 Formazione tecnica e professionale,
 Organizzazione di attività culturali e ricreative.
Durkheim poneva sicuramente una fiducia eccessiva nelle corporazioni, senza rendersi conto che problemi
come la regolazione del ciclo economico, del conflitto tra capitale e lavoro, e più in generale delle
disuguaglianze sociali, si sarebbero dimostrati al di là della loro portata.
La forma pubblica obbligatoria e gerarchica, poi, ne avrebbe ancor di più limitato il possibile contributo
integrativo e le avrebbe fatte diventare uno strumento di regimi autoritari o totalitari per cercare di
controllare dall’alto la società, (come fecero il fascismo e il nazismo tra le due guerre, o come
successivamente avvenne, per esempio, in America Latina).
Spogliata di tali limiti, l’analisi di Durkheim anticipa comunque alcune importanti tendenze delle società
più sviluppate dell’Occidente, ossia il passaggio da un sistema politico liberale ad uno di tipo pluralista,
caratterizzato dal peso crescente di gruppi di interesse organizzati (associazioni sindacali, imprenditoriali, di
categoria) nel processo politico. A partire dalla prima guerra mondiale questo processo si sarebbe intensificato,
portando in alcuni casi verso quelle forme di «corporativismo autoritario» e «dall’alto» cui prima si
accennava, mentre in altri si ponevano invece le basi per un «corporativismo societario» o «dal basso»
(basato sulla collaborazione volontaria tra grandi gruppi di interesse organizzati quali quelli di

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imprenditoriali e sindacali). In questo senso più limitato dunque – come anticipazione del ruolo crescente
delle associazioni degli interessi nella regolazione dell’economia – l’analisi di Durkheim resta di notevole
interesse.
REGOLAZIONE DEL MERCATO DI DURKHEIM E PROSPETTIVA SOCIALISTA
Entrambi gli autori riconoscono che la divisione del lavoro è un fattore che se da una parte contribuisce
notevolmente all’aumento della produttività del lavoro e alla crescita della ricchezza, dall’altra ha come
risvolti negativi:
 Una crescita della disuguaglianza tra capitalisti e lavoratori, che Marx definisce alienazione dei
lavoratori dal loro prodotto (crescita dello sfruttamento) e Durkheim divisione anomica e coercitiva;
 Una parcellizzazione e dequalificazione del lavoro operaio, che Marx definisce alienazione nei
processo lavorativo e Durkheim ancora una forma di divisione anomica.
A questo punto, però, cominciano le divergenze. Esse si manifestano in particolare su due aspetti:
1. MARX riteneva che lo sviluppo ulteriore della divisione del lavoro avrebbe inevitabilmente aggravato le
diverse forme di alienazione, innescando un conflitto sociale sempre più dirompente che alla fine
avrebbe travolto le stesse istituzioni capitalistiche.
Per DURKHEIM, invece, il disordine sociale e la crescita della conflittualità sono dei fenomeni
transitori, dovuti non tanto alla divisione del lavoro in quanto tale, quanto all’assenza o alla carenza di regole
istituzionali.
2. DURKHEIM, in contrasto con Marx, riteneva però che le società sviluppate non potessero fare a meno
della divisione del lavoro, pena la regressione e l’incapacità di soddisfare la quantità e la qualità dei
bisogni individuali in esse presenti. In questo senso la specializzazione diventa un dovere morale da
perseguire, perché corrisponde alle esigenze funzionali della società moderna (anche se le sue forme
concrete devono essere adeguatamente regolate).
MARX riteneva invece che il problema delle disuguaglianze fosse risolvibile solo eliminando la stessa
divisione del lavoro, anche se egli collocava in un futuro indefinito questa possibilità e la legava al
massimo sviluppo delle forze produttive (in particolare nell’Ideologia tedesca).
Occorre però notare che queste divergenze con Marx non sono sottolineate da Durkheim, che cerca invece
di distinguere la dottrina del comunismo dalle idee del socialismo.
 Per Durkheim, la dottrina del comunismo è apparsa più volte nei corso della storia e assume sempre un
carattere utopistico (v. Platone, Moore, Campanella). L’idea di fondo è che «la ricchezza è nociva e
occorre estrometterla dalla società». Di conseguenza i sostenitori di questa prospettiva si pongono tutti
l’obiettivo di limitare fortemente la divisione del lavoro e di mettere in comune il prodotto del lavoro.
Si tratta insomma di una specie di impossibile ritorno alla società primitiva;
 Ben diverso è il caso del socialismo (nel cui alveo Durkheim colloca lo stesso Marx), definito un
fenomeno tipicamente moderno, che presuppone la crescita della divisione del lavoro ed esprime
l’obiettivo di porre rimedio ai problemi sociali che questo fenomeno ha prodotto tra la fine del ‘700 e il
secolo successivo. Il socialismo quindi non vuole limitare la divisione del lavoro e ridurre la ricchezza,
ma si pone l’obiettivo di sfruttare al massimo la divisione del lavoro per rendere possibile un maggior
grado di soddisfacimento dei bisogni da parte di tutti gli individui e per controllare quindi le

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disuguaglianze. Ciò richiede una maggiore regolamentazione delle attività economiche da parte dello
stato.
Durkheim è dunque certamente più vicino alla prospettiva socialista, perché ritiene necessaria una
regolamentazione della divisione del lavoro, ma se ne distanzia perché è convinto che il socialismo
trascuri la dimensione morale (ovvero la solidarietà, sottoforma di legami morali che si sostituissero a
quelli della solidarietà meccanica).
Ciò che è necessario perché l’ordine sociale regni è che la maggior parte degli uomini si accontenti della
propria sorte; ma ciò che è necessario perché se ne accontentino non è che posseggano di più o di meno,
ma che siano convinti di non aver diritto ad aver di più. È perciò indispensabile che vi sia un’autorità di
cui venga riconosciuta la superiorità e che decida i diritti degli uni e degli altri (senza quest’autorità,
l’individuo, abbandonato alla sola esigenza dei propri bisogni, non ammetterà mai di essere arrivato al
limite estremo dei suoi diritti).
È in questa prospettiva che Durkheim concepisce il ruolo delle corporazioni, più adatte dello stato a
svolgere un ruolo di regolazione morale oltre che economica, «quella funzione di freno senza il quale non
si potrebbe avere la stabilità economica».
Nei suoi lavori non usa il termine capitalismo, anche se le sue analisi si possono anche considerare come
una critica (sociale, non economica) al capitalismo liberale, cioè a quella specifica forma di capitalismo in
cui il mercato ha un ruolo preminente nella regolazione delle attività produttive e nella distribuzione del
reddito.
In conclusione, per Durkheim, affinché il mercato possa essere un efficace strumento di regolazione delle
attività economiche specializzate, è necessario:
 Che ci siano alcune regole giuridiche e morali che diano stabilità ai contratti facendoli rispettare e
perseguendo le frodi;
 Che s’intervenga sulle risorse dei soggetti che si confrontano nel mercato, riducendo gli squilibri di
potere, ad esempio, attraverso legislazioni antimonopolistiche, sul lavoro o mediante la
contrattazione tra associazioni degli interessi;
 Che, soprattutto, l’accesso ai diversi ruoli si avvicini alle effettive vocazioni e capacità dei
soggetti, con le remunerazioni congruenti al «merito sociale». In questi casi si svilupperebbe una
forte coesione sociale che da un lato porterebbe gli individui a impegnarsi maggiormente nei
compiti specializzati e dall’altro ridurrebbe i conflitti, a beneficio dello sviluppo economico.

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CAP. 7 La Grande Crisi e il tramonto del capitalismo liberale:
Polanyi e Schumpeter
L’800 fu il secolo d’oro del capitalismo liberale: senza grandi guerre per circa cento anni, l’Europa vide il
mercato affermarsi come principio regolatore dell’economia interna e internazionale, assicurando una forte
crescita della produzione e degli scambi.
Col tempo emersero però le tensioni sociali e politiche legate, in particolare, alle nuove domande di
riconoscimento sociale e di integrazione politica della classe operaia, che cresceva insieme con
l’impetuoso sviluppo delle attività industriali. Già negli ultimi decenni del secolo cominciano a
manifestarsi più distintamente le difficoltà del capitalismo liberale a tenere insieme crescita economica,
integrazione sociale e rapporti pacifici tra gli stati.
Il primo conflitto mondiale comportò costi economici e sociali altissimi e accelerò il mutamento
istituzionale. Nonostante i tentativi di ricostituire l’ordine prebellico, nulla tornò più come prima e le
condizioni economiche e sociali restarono estremamente instabili. Malgrado gli ingenti prestiti forniti dagli
Stati Uniti, In Europa la ripresa economica è lenta e la disoccupazione resta elevata; Il commercio
internazionale stenta a riprendersi e a tornare ai livelli prebellici, anche se la produzione di manufatti
cresce a ritmi elevati, grazie alle innovazioni tecnologiche e organizzative ed al formarsi di grandi imprese.
Si trattava di una situazione ad alto rischio, perché l’interruzione dei flussi creditizi americani, legata a
motivi interni di quel paese, avrebbe potuto avere effetti a catena disastrosi sull’economia europea e
mondiale. Ed è proprio questo che si verificò in seguito al crollo della Borsa di New York nel ‘29. La
Grande Crisi trascinò tutta l’economia dei paesi sviluppati in una gravissima e prolungata depressione, con
crollo della produzione, fallimenti a catena delle imprese e picchi di disoccupazione mai raggiunti in
precedenza.
Il capitalismo liberale, già stato minato dalla grande guerra e dagli eventi successivi, viene progressivamente
sostituito, in forme diverse, da un nuovo quadro istituzionale nel quale rilevante importanza andava ad
assumere il ruolo dello stato.
È su questo sfondo che si colloca la riflessione di Karl Polanyi e Joseph Schumpeter. Mentre Durkheim e
Veblen contribuirono a mettere a fuoco le conseguenze sociali del capitalismo liberale, Polanyi e
Schumpeter si concentrarono sulla crisi di questa forma di organizzazione economica.
Essi cercano di dare una risposta, dal punto di vista della sociologia economica, agli interrogativi sulle
cause del declino, e insieme delineano i processi che, a partire dagli anni ‘30, porteranno alla formazione
di un capitalismo più regolato, in cui lo spazio del mercato si riduce e l’economia viene «reincorporata
nella società» (Polanyi).

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DOMINIO DEL MERCATO E AUTO DIFESA DELLA SOCIETÀ
L’ECONOMIA COME PROCESSO ISTITUZIONALE
Karl Polanyi è un istituzionalista – di matrice socialista riformista – che ritiene che l’azione economica sia
influenzata dalle istituzioni sociali (e quindi non comprensibile in termini individualistici), e che vuole
dimostrare, con i suoi studi, che la ricerca del guadagno è una motivazione che non è stata sempre alla base
del comportamento economico.
Solo negli ultimi secoli, con il crescere dell’economia di mercato, il perseguimento del guadagno è
diventato rilevante. Ciò è avvenuto perché l’economia ha cominciato a essere sempre più regolata dal
mercato, cioè da un’istituzione che favorisce e incentiva un’azione economica improntata alla ricerca del
guadagno.
Critica, quindi, l’idea di Adam Smith di una propensione naturale dell’uomo al commercio (da cui doveva
nascere il concetto di «uomo economico») ed afferma che l’indagine economica non può essere separata
dal contesto storico.
Polanyi individua tre principi fondamentali di regolazione delle attività di produzione, distribuzione e
scambio dei beni, che egli chiama «forme di integrazione» dell’economia, ciascuna delle quali si
differenzia dalle altre sia per l’organizzazione delle attività economiche che per i rapporti tra tali attività e
le altre sfere della vita sociale (la famiglia, la politica, la religione, ecc.):
 RECIPROCITÀ,
 REDISTRIBUZIONE
 SCAMBIO DI MERCATO.

Fig. 7.1. Rappresentazione grafica delle forme d’integrazione secondo le indicazioni di Polanyi
Quando prevale la RECIPROCITÀ, come nelle componenti primitive, beni e servizi vengono prodotti e
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scambiati sulla base di aspettative di ricevere altri beni o servizi secondo modalità e tempi fissati da norme
sociali condivise. Tali norme di reciprocità si fondano su specifiche istituzioni (in particolare famiglia e
parentela) che la sostengono e sanzionano in varie forme coloro che non le rispettano. Gli scambi di beni e
servizi non avvengono necessariamente tra gli stessi gruppi ma sono, comunque, sempre simmetrici:
l’economia delle società primitive si basa, infatti, su complessi flussi di doni e “controdoni” regolati da
norme sociali condivise, che sanciscono obblighi nei riguardi dei diversi gruppi parentali.
In queste situazioni diventa fuorviante voler vedere la ricerca del guadagno individuale come motivazione
delle azioni economiche. La reciprocità, peraltro, continua a regolare, attraverso la famiglia e la parentela,
aree consistenti delle relazioni economiche anche nelle società sviluppate, dove non è più la forma di
integrazione prevalente (es. Sostegno economico dei genitori ai figli giovani o dei figli nei riguardi dei
genitori anziani, o, ancora, scambi di aiuto tra familiari e parenti).
Quando prevale la REDISTRIBUZIONE, come nelle società più evolute dell’antichità con dimensioni
territoriali ed unità politiche più ampie (es. i grandi imperi dell’antichità – Mesopotamia, Egitto dei
faraoni, Impero romano – o anche il feudalesimo europeo), i beni e servizi vengono prodotti e allocati sulla
base di norme che stabiliscono le modalità delle prestazioni lavorative, l’entità delle risorse che devono
essere trasferite a un capo politico – un capo tribù, o un signore con un apparato amministrativo – il quale a
sua volta le redistribuisce ai membri della società secondo determinate regole.
I meccanismi di redistribuzione possono essere egualitari o comportare forti disuguaglianze tra i gruppi
sociali. Perché funzioni questa forma, deve esistere un «centro» politico, che disponga del potere
necessario per fare accettare le complesse modalità di redistribuzione dei beni. Le istituzioni politiche
diventano quindi più importanti di quelle familiari e parentali, mentre prendono forma embrioni di
organizzazione statuale e di centralizzazione amministrativa, appunto per regolare le attività economiche e
far rispettare, anche con la coercizione, gli obblighi di fedeltà politica, di solito giustificati su base
religiosa.
Per la redistribuzione, come per la reciprocità, non si può ancora parlare di ricerca del guadagno come
motivazione dell’azione economica, che in questo caso traggono invece origine da obbligazioni di tipo politico.
La redistribuzione può persistere nelle società più evolute (Polanyi interpreta come una ripresa di forme di
redistribuzione, con il declino del capitalismo liberale, anche il nuovo stato sociale, che attraverso la spesa
sociale redistribuisce12 le risorse acquisite attraverso la tassazione risorse).
Lo SCAMBIO DI MERCATO è una forma di integrazione dell’economia che appare solo di recente nella
storia dell’umanità e raggiunge il suo culmine nel corso del XIX secolo. Lo scambio dei beni avviene solo
attraverso il commercio, regolato dal mercato sulla base del meccanismo dell’incontro tra domanda e offerta.
Il mercato, attraverso i prezzi, regola anche la produzione dei beni e servizi e la distribuzione dei redditi (si
decide di produrre sulla base dei prezzi per determinati beni e si remunera il lavoro sulla base di prezzi che
si formano anch’ essi all’incrocio tra domanda e offerta).
L’ascesa del mercato a forza determinante nell’economia può essere ricostruita osservando la misura in cui
la terra e il cibo venivano mobilizzati mediante lo scambio e il lavoro trasformato in una merce
liberamente acquistabile sul mercato.
In questo caso è quindi essenziale l’esistenza di mercati regolatori dei prezzi (o «MERCATI AUTOREGOLATI »).

12
Potere d'acquisto dai gruppi più ricchi a quelli più poveri

41
Ciò comporta anche che siano presenti quei prerequisiti istituzionali dei mercati autoregolati, già indicati
da altri autori, da Marx a Weber:
– La proprietà privata dei mezzi di produzione (capitale, terra, lavoro),
– Il lavoro salariato,
– La piena commerciabilità di tutti i fattori produttivi.
È solo in questo quadro che secondo Polanyi si può propriamente parlare di motivazioni utilitaristiche
dell’azione economica.
Vi sono due aspetti della riflessione metodologica di Polanyi da tenere presente:
1. L’IDEA DI SISTEMA ECONOMICO. Tale concetto, tipico della tradizione della sociologia economica,
viene utilizzato legandolo a quello di forma di integrazione. Quest’ultima acquista un carattere
prevalente in una determinata economia – e quindi definisce un sistema economico – nella misura
in cui si estende alla sfera produttiva e in particolare quando regola l’uso della terra e del lavoro.
Ciò vale anche per la reciprocità e la redistribuzione;
2. Per Polanyi, le FORME DI INTEGRAZIONE NON RAPPRESENTANO «STADI» DELLO SVILUPPO. Non vi è
una sequenza temporale necessaria lungo la quale esse si avvicendano, e di solito più forme si
combinano in un sistema economico in cui una è prevalente (ad es. i mercati sono stati spesso
importanti, anche se non prevalenti, nell’antichità, mentre le altre forme sono a volte ricomparse
anche nell’epoca dello scambio di mercato, soprattutto nei momenti di crisi di tale modello). Per
questo motivo, soprattutto studiando il sistema economico basato sullo scambio di mercato, occorre
tenere conto della situazione storica nel corso della quale si sviluppa l’economia. È quindi un errore
stabilire un’uguaglianza fra l’economia umana in generale e le sue forme di mercato. In questo senso
Polanyi parla di «fallacia economicistica».
È per evitare questo errore che egli introduce la distinzione tra significato formale e sostanziale di
economia:
 Nel SIGNIFICATO FORMALE, economia è sinonimo di economizzare, ovvero il processo razionale di
allocazione di risorse scarse (definizione tipica dell’economia neoclassica);
 Il SIGNIFICATO SOSTANZIALE di economia fa invece riferimento alla sussistenza umana, e sottolinea il fatto
che l’uomo dipende per la sua sopravvivenza dalla natura e dagli altri uomini (il suo ambiente
naturale).
La fallacia economicistica tende a legare la sussistenza all’allocazione razionale di risorse scarse da parte
di soggetti che cercano di ottenere il massimo reddito dai mezzi di cui dispongono, cosa che, nella realtà,
avviene effettivamente solo dove si è affermato lo scambio di mercato. In altri sistemi economici il
soddisfacimento dei bisogni e la sussistenza dell’uomo avvengono in base a regole che non coincidono con
quelle della massimizzazione dell’interesse individuale in un contesto di mercato.
Per questo egli ritiene importante per le scienze sociali – storia, antropologia, sociologia economica – un
concetto più ampio di economia che può permettere lo studio, e la comparazione nel tempo e nello spazio,
di sistemi economici diversi.

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LA GRANDE TRASFORMAZIONE
La grande trasformazione è quella che investe le società occidentali a partire dagli anni ‘30, quando:
 Viene superato il capitalismo liberale affermatosi nel XIX secolo,
 Viene ridimensionato lo spazio del mercato come forma di integrazione dell’economia,
 Lo stato assume un ruolo più rilevante per la regolazione dell’economia e della società (con la diffu-
sione di forme moderne di redistribuzione).
Gli interrogativi ai quali Polanyi cerca di dare una risposta sono due:
1. Quali sono le origini storiche del mercato autoregolato (e come si è affermata questa forma di
integrazione);
2. Quali sono le conseguenze sociali del mercato autoregolato e gli effetti che ne derivano per il
funzionamento dell’economia, dagli ultimi decenni dell’800 alla Grande Crisi del 1929 dalla quale
si avvierà la grande trasformazione.
ORIGINI STORICHE DEL MERCATO AUTOREGOLATO
Per Polanyi un’economia di mercato è un sistema economico controllato, regolato e diretto soltanto dai
mercati; l’ordine nella produzione e distribuzione delle merci è affidato a questo meccanismo di
autoregolazione per il quale tutta la produzione è in vendita sul mercato e che tutti i redditi derivano da
queste vendite.
Si produrrà, quindi, solo se c’è una domanda e dei prezzi tali da garantire un profitto, e si guadagnerà un
reddito che dipende dal valore del proprio lavoro sul mercato.
Tra i fattori che hanno contribuito a questa modalità di organizzazione delle attività economiche, uno appare
decisivo: l’invenzione e la realizzazione di macchinari complessi e costosi che rivoluzionano il modo di
produrre. Queste macchine, che consentono di abbassare i costi di produzione, possono essere utilizzate
con profitto solo se è possibile smerciare il più gran numero di beni che con esse si fabbricano in modo
regolare; e solo se è possibile alimentarle stabilmente con le materie prime e il lavoro che sono necessari.
Deve quindi esserci un mercato ampio, e tutti i fattori produttivi devono essere disponibili; se queste
condizioni non ci sono, l’investimento nelle nuove macchine diventa troppo rischioso.
Qui l’analisi di Polanyi si avvicina a quella di Weber, come pure quando individua la figura sociale del
mercante che, grazie alle macchine, avvia le nuove forme di produzione per il mercato e diventa
imprenditore capitalistico.
Il commerciante, che prima acquistava le materie prime e le faceva lavorare da altri, per esempio con il
lavoro a domicilio nel tessile, a un certo punto, investe il suo capitale nelle nuove macchine disponibili, si
trasforma in imprenditore e crea la fabbrica moderna impiegandovi lavoro salariato.
Tutto ciò è però possibile, però, solo se si hanno dei mercati sia per le merci da vendere che per le materie
prime e il lavoro da acquistare. Le motivazioni all’azione economica passano dalla sussistenza al guadagno
individuale (è questo il motivo per cui, secondo Polanyi, il passaggio dalla sussistenza al guadagno non è
naturale, ma storico).
In particolare, la formazione dei mercati per i fattori produttivi (la terra e il lavoro) avviene come
conseguenza di interventi politici, di misure amministrative (a volte di vere e proprie forme di violenza
privata).

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Per quel che riguarda la TERRA, tutto ciò portò all’eliminazione del controllo feudale, alla secolarizzazione
delle proprietà della chiesa, fino al pieno riconoscimento giuridico della commerciabilità dei diritti di
proprietà. Con la crescita delle città, e con le esigenze di mantenimento della popolazione urbana, si
sviluppò inoltre la piena commercializzazione dei beni stessi prodotti dalla terra, a partire dal grano, e i
proprietari terrieri furono spinti a incrementare la produzione per la vendita sul mercato, mentre venivano
eliminate le restrizioni di natura giuridica o consuetudinaria che limitavano in passato la quota di
produzione commercializzabile, garantendo il soddisfacimento delle esigenze di auto–consumo locale.
Relativamente alla formazione del MERCATO DEL LAVORO fu necessario eliminare le forme di controllo
sociale e giuridico che regolavano i rapporti di lavoro (derivanti dalle corporazioni di origine medievale).
In particolare, in Inghilterra, la persistenza di salari bassi portò all’erogazione di sussidi ai lavoratori che
ricevevano un salario inferiore ad livello previsto (che teneva conto del carico familiare), introducendo, di
fatto, un reddito minimo garantito. Questo sistema determinò un abbassamento dei salari e una crescita
consistente dei sussidi, dal momento che i lavoratori preferivano i sussidi al lavoro (anche se ciò li teneva
in condizioni di vita degradate), con il conseguente peggioramento delle finanze. Fu così che, sotto la
pressione degli imprenditori e della classe media, si arrivò nel 1834 all’abolizione del sistema dei sussidi.
Da quel momento cominciò a funzionare pienamente in Inghilterra un mercato del lavoro concorrenziale.
CONSEGUENZE SOCIALI DELL’AFFERMAZIONE DELLO SCAMBIO DI MERCATO
Le conseguenze sociali della piena affermazione del sistema economico basato sullo scambio di mercato,
porteranno alla Grande Crisi della fine degli anni ‘20.
Il lavoro, la terra e la moneta sono dunque trasformati in merci, cioè in beni prodotti per essere comprati e
venduti sul mercato. Queste merci non sono, però, come tutte le altre, perché:
– Il lavoro è legato alla vita umana che non è prodotta per essere venduta,
– La terra è un aspetto della natura, che non è prodotta dall’uomo,
– La stessa moneta è un simbolo del potere di acquisto e non un prodotto.
Non si tratta dunque di vere merci ma di «merci fittizie»; tuttavia, trattarle come tali, come è richiesto dal
sistema economico basato sui mercati autoregolati, porta a conseguenze distruttive per la società:
 Per Polanyi, la RIDUZIONE DEL LAVORO A MERCE, il cui valore è fissato dalla domanda e dall’offerta sul
mercato, ha pesanti conseguenze sulle condizioni di vita di masse crescenti di popolazione:
 Prende avvio una progressiva distruzione delle forme di protezione tradizionale, sia quelle legate
alle strutture della parentela, del vicinato, della professione, che quelle dipendenti dal potere politico;
 Gli individui e le loro famiglie sono così sradicati dal contesto ambientale e sociale in cui vivono
e costretti a spostarsi per ricercare occasioni di lavoro. Le loro condizioni di vita vengono così a
dipendere esclusivamente dagli alti e bassi del mercato;
 Specie nella fase iniziale della rivoluzione industriale, a ciò si accompagna una forte INSTABILITÀ
DEI GUADAGNI, la formazione di sacche di disoccupazione e di nuova povertà nelle periferie delle
città industriali, condizioni di lavoro e di vita degradate.
Insomma, con il mercato del lavoro si crea anche una miseria moderna, fino ad allora sconosciuta alle
società tradizionali, dove la sussistenza era sempre stata garantita dal modo in cui le istituzioni sociali e
politiche incorporavano e regolavano l’economia.
 Dal punto di vista della NATURA, la piena commercializzazione del fattore terra e l’abolizione di
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restrizioni istituzionali al commercio dei beni agricoli (ovvero il libero scambio dei prodotti),
accompagnato dal miglioramento dei trasporti, mise in crisi quote crescenti di produttori agricoli,
specie in Europa, presto inondato dal grano americano. I contadini dovettero abbandonare le campagne
alla ricerca di un lavoro e si determinò la «distruzione della società rurale», con conseguenze
dirompenti sull’ambiente, in particolare sull’integrità del suolo e delle sue risorse e sul clima del paese
a causa della spoliazione di foreste, con erosioni e formazioni di deserti (tutti fenomeni che dipendono
tutti dal fattore terra);
 Anche la RIDUZIONE DELLA MONETA A MERCE acquistata e venduta sul mercato determina conseguenze
sociali dirompenti. Nei mercati autoregolati dell’800, la moneta diventa un mezzo di scambio legato
all’oro. In questo modo venivano a essere incoraggiati gli scambi internazionali, perché si garantiva la
stabilità del cambio, ma crescevano i rischi per l’economia interna:
Ad una crescita delle importazioni, corrispondeva un deflusso di oro e quindi una riduzione della
quantità di moneta circolante in un paese e, di conseguenza, una diminuzione della moneta disponibile
per i pagamenti interni e quindi un calo delle vendite, con danni alle attività produttive ed
all’occupazione. È vero che l’abbassamento dei prezzi, col tempo, determina un aggiustamento
dell’economia interna che avvantaggia le imprese esportatrici ristabilendo l’equilibrio dei conti con
l’estero. Tuttavia, nel frattempo, i costi della deflazione per l’economia e per la società sono molto alti.
Se, quindi, è vero che i mercati del lavoro, della terra e della moneta sono essenziali per un’economia di
mercato, è anche vero che la società non può a lungo sopportare i costi che le vengono imposti da tali
modalità di funzionamento dell’economia.
Per questo motivo la SOCIETÀ mette in atto dei MECCANISMI DI «AUTODIFESA», attraverso provvedimenti e
misure politiche destinate a controllare l’azione del mercato relativamente al lavoro, alla terra e alla
moneta:
 Protezionismo del lavoro: la reazione si esprime con lo sviluppo del movimento operaio, la crescita
delle organizzazioni sindacali e dei partiti socialisti. A ciò si accompagna a una nuova legislazione nel
campo sociale e del lavoro (regolamentazione dell’orario di lavoro, del lavoro minorile e femminile,
forme di assicurazione contro gli infortuni, le malattie, la disoccupazione, la vecchiaia, ecc.);
 Protezionismo agrario: a partire dal 1870, si diffondono interventi di protezione tariffaria e di sostegno
all’agricoltura. Contadini e proprietari terrieri si alleano per difendere la società tradizionale minacciata
dal mercato;
 Protezionismo del mercato della moneta: la centralizzazione ed il controllo dell’offerta di credito ad
opera delle banche centrali nei vari paesi permetteva di mitigare gli eventuali effetti negativi derivanti
dalle transazioni internazionali (in particolare, gli effetti deflattivi della riduzione di moneta dovuta a
pagamenti internazionali potevano essere attutiti attraverso la crescita dei prestiti).
Tuttavia, il nuovo protezionismo se dal lato della società, attenua i costi e le tensioni legate al diffondersi
dal mercato, dal lato dell’economia genera vincoli crescenti che intralciano il funzionamento dei mercati
autoregolati nel campo dei fattori produttivi. Si riduce la flessibilità e cresce il costo del lavoro, mentre le
tariffe doganali limitano gli scambi commerciali (oltretutto, le diverse forme di protezionismo
s’influenzano a vicenda).

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L’effetto di tutto ciò, nota Polanyi, è un restringimento del commercio e degli scambi internazionali, che
limita le possibilità di smercio dei beni proprio nel momento in cui il progresso delle tecniche aumenta la
produttività delle imprese.
Per combattere le crisi di sovrapproduzione, si gli stati si muovono lungo due direttive:
1. Attuando politiche coloniali e di «imperialismo economico», per procurarsi materie prime a più
basso costo e possibili mercati in regioni politicamente non protette (queste strategie, però, anche
per il nazionalismo politico sempre più diffuso ed estremizzato che le accompagnava, finiranno per
preparare quel clima economico–politico che sfocerà nel primo conflitto mondiale);
2. Attraverso la diffusione dei prestiti e del credito a livello internazionale, che effettivamente
riuscirono ad evitare la crisi economica, specie negli anni successivi alla prima guerra mondiale Il
continuo ricorso al credito per alimentare le imprese e sostenere la bilancia dei pagamenti dei vari
paesi però, a lungo non poteva reggere, ed alla fine i nodi giungeranno al pettine con la Grande
Crisi del ‘29, che per Polanyi segna il tramonto del sistema economico basato sui mercati autorego-
lati e porta al superamento del «capitalismo liberale».
Insomma, per lo studioso ungherese, la fine della civiltà del XIX secolo che s’incarnava nel capitalismo
liberale non fu dovuta alle conseguenze della grande guerra, né all’avvento del socialismo in Russia e dei
regimi fascisti in Europa. Piuttosto, questi fenomeni ne aggravarono la crisi, furono più dei sintomi che
delle cause profonde della malattia. È il conflitto di fondo tra il funzionamento del mercato e le esigenze
della vita sociale a generare le tensioni che portarono alla fine della società del capitalismo liberale.
Le nuove forme di regolazione sociale e politica che si sperimentano con l’avvio della grande trasformazione
sono soluzioni di segno diverso al problema di sottrarre il lavoro, la terra e la moneta ai mercati.
Per Polanyi, questi esperimenti possono essere comunque compatibili con la persistenza del mercato e con
quella della libertà:
 Relativamente al primo punto, egli sostiene che «la fine della società di mercato non significa in
alcun modo l’assenza di mercati»; questo vuol dire che i mercati concorrenziali possono continuare
a funzionare per la produzione di beni e servizi, assicurando la libertà del consumatore, influendo sul
reddito dei produttori e in ultima analisi agendo come strumento di calcolo per il soddisfacimento più
efficiente dei bisogni della popolazione. Il mercato, infatti, non è necessariamente in contraddizione
con gli obiettivi e gli strumenti di programmazione economica necessari allo sviluppo
dell’industria;
 La reincorporazione dell’economia nella società non sarebbe parimenti per la libertà: il collasso del
capitalismo liberale metterebbe, infatti, a repentaglio solo la libertà di sfruttare gli altri uomini, o
quella di realizzare guadagni non commisurati ai benefici collettivi che discendono dalla propria
azione; resterebbero invece valide quelle libertà di elevato valore (di coscienza, di parola, di
riunione, di associazione, di scelta del proprio lavoro) che, cresciute insieme al mercato, in realtà
non dipendono solo dall’esistenza di mercati autoregolati.
La fine del capitalismo liberale, quindi, non comporta necessariamente quella del mercato e della libertà.

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DECLINO DELLA BORGHESIA E POLITICHE ANTI-CAPITALISTICHE
Joseph Schumpeter (più economista che sociologo) analizzò in modo particolare la dinamica storica e
l’influenza delle istituzioni, ponendo al centro dell’analisi il cambiamento economico. Tale prospettiva lo
spinge inevitabilmente a misurarsi con il ruolo delle istituzioni.
ECONOMIA E SOCIOLOGIA ECONOMICA
Schumpeter diede particolare importanza, fin dai suoi primi lavori, al problema della definizione dei
confini tra «teoria economica», «storia economica» e «sociologia economica», senza trascurare la
conoscenza della storia e del ruolo delle istituzioni.
Egli difende, infatti, la validità dell’economia neo classica, sottolineando però che per analizzare le attività
economiche concrete occorre tenere conto della loro collocazione nel processo storico. Da qui
l’importanza della storia economica, perché per il suo tramite è possibile comprendere come i fatti
economici e quelli non–economici si combinino tra loro nell’esperienza concreta, e come tale combina-
zione cambi nel tempo.
D’altra parte, l’importanza che assumono i fattori non economici, cioè gli aspetti istituzionali, nel
condizionare le attività economiche e la loro variazione nel tempo e nello spazio fa sì che si debba anche
prendere in considerazione il contributo della sociologia economica.
IMPRENDITORIALITÀ E SVILUPPO ECONOMICO
Schumpeter, più interessato alla teoria piuttosto che alla sociologia economica, ritiene necessario separare
nettamente i due approcci, che devono essere combinati solo nelle analisi di taglio storico–empirico. Punto
di partenza della sua analisi è l’insoddisfazione per i limiti della prospettiva economica tradizionale,
giudicata incapace di uscire da una visione statica dell’equilibrio economico.
Per questo motivo, egli distingue la crescita dallo sviluppo:
 La CRESCITA è un fenomeno graduale, fatto di continui aggiustamenti:
 Lo SVILUPPO è invece una discontinuità ed è caratterizzato dall’«introduzione di nuove
combinazioni». La novità può riguardare cinque dimensioni:
– La creazione di prodotti,
– L’introduzione di metodi di produzione,
– L’apertura di mercati,
– La scoperta di fonti di approvvigionamento di materie prime o semilavorati,
– La riorganizzazione di un’industria (es. con la creazione o la distruzione di un monopolio).
Schumpeter è quindi interessato alle cause endogene dello sviluppo. Egli riconosce che la discontinuità ri-
spetto alla routine del «flusso circolare» – che corrisponde ad un’economia che si perpetua senza
sostanziali variazioni nei modi di produrre e nei rapporti tra consumatori e produttori –, può derivare da
motivi extraeconomici, come la crescita della popolazione, o da improvvisi rivolgimenti sociali e politici.
Il suo interesse si concentra però sullo sviluppo legato all’azione degli IMPRENDITORI, singoli individui
che introducono nuove combinazioni dei mezzi di produzione, realizzano un’innovazione in una o in più
delle dimensioni prima indicate, che riguardano i prodotti, i metodi di produzione e i mercati.

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Per Schumpeter, non basta, infatti, differenziare tra il capitalista, proprietario dei mezzi di produzione o
del capitale, e l’imprenditore, dirigente di un’impresa che può non esserne proprietario: occorre di-
stinguere quando le attività di direzione e gestione delle imprese (cioè di management) hanno un carattere
di routine e quando portano all’innovazione, a «realizzare cose nuove»; è a queste ultime che va collegato
in senso specifico il concetto di imprenditore.
Da quest’impostazione discendono una serie di conseguenze.
a) L’imprenditore può essere sia il classico uomo d’affari autonomo, sia un lavoratore dipendente (manager);
b) Non è necessario un rapporto continuativo con una singola impresa;
c) Gli imprenditori non appartengono a una specifica classe sociale. Per effetto della loro attività possono
conseguire un successo economico che li trasforma in proprietari dei mezzi di produzione o del
capitale, cioè li fa diventare «capitalisti». Non è tuttavia necessario che essi lo siano quando svolgono
la loro attività innovativa, dal momento che spesso, in questa fase, gli imprenditori attingono al credito
per introdurre le nuove combinazioni di mezzi di produzione.
Schumpeter sottolinea dunque il LEGAME TRA CREDITO E INNOVAZIONE, anche se è ben conscio del fatto
che per utilizzare concretamente il capitale a fini di sviluppo innovativo l’imprenditore deve essere dotato
di rare e particolari qualità di leadership (poco diffuse tra i membri di una determinata società). Un
soggetto che voglia realizzare un’innovazione, infatti, deve essere in grado di:
 Misurarsi con carenze di informazioni, con condizioni di maggiore incertezza di quando si opera in un
contesto di operazioni tradizionali e consolidate;
 Combattere e vincere i propri schemi mentali già consolidati (che possono essere un ostacolo);
 Superare le resistenze dell’ambiente sociale, che si possono presentare come «impedimenti giuridici e
politici», o come disapprovazione sociale per pratiche che fuoriescono dai canali della tradizione o,
ancora, come resistenze legate a vari fattori (gruppi minacciati dall’innovazione, difficoltà di trovare la
cooperazione necessaria o di convincere i consumatori a cambiare prodotti...).
Questi ostacoli fanno sì che l’imprenditore che vuole introdurre con successo l’innovazione deve
combinare un insieme di qualità e andare oltre il puro calcolo razionale.
Schumpeter, per questo, introduce dei requisiti di tipo psicologico, legati alla personalità individuale, ma
lascia anche intravedere i possibili collegamenti con il retroterra sociale e istituzionale, accennando
inoltre anche alla marginalità sociale come possibile fonte di imprenditorialità.
In un successivo testo, sulla base dei legami dell’imprenditore-innovatore con il suo contesto sociale, lo
studioso austriaco distingue quattro tipi di imprenditore:
 Il «padrone di fabbrica», figura che prevale nella fase iniziale dell’economia di mercato e che
unisce insieme compiti amministrativi, tecnici, commerciali. Egli è anche proprietario dei mezzi di
produzione, pur se di solito la proprietà è una conseguenza della capacità di innovazione;
 Il «capitano d’industria», o il manager di formazione tecnica (nella fase più evoluta del
capitalismo), a seconda che l’imprenditore innovatore sia proprietario del capitale azionario, o che
sia distaccato dagli interessi capitalistici e spinto a innovare dal suo orientamento alla buona
prestazione professionale;
 Il «fondatore di imprese», ovvero l’imprenditore puro, che ha con esse solo rapporti temporanei.

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In ultima analisi, per Schumpeter il profitto è il guadagno dell’imprenditore legato al successo della sua
innovazione (che fa crescere le entrate rispetto alle spese); si tratta quindi di una temporanea rendita di tipo
monopolistico, che si mantiene fino a quando l’innovazione non riesce ad essere imitata anche dagli altri
concorrenti.
L’innovazione consente a Schumpeter di affrontare meglio il problema, irrisolto nell’economia
neoclassica, dei CICLI ECONOMICI:
 La fase espansiva del ciclo è collegata all’introduzione dell’innovazione e alla sua prima
diffusione, che aumenta la domanda di beni di produzione e di consumo;
 Successivamente, le vecchie unità produttive, sempre più aggredite dalla concorrenza delle imprese
innovative, sono costrette a imitare le prime o ad uscire dal mercato, con effetti recessivi
sull’economia;
 Si entra così nella fase discendente del ciclo, fino a quando non si ristabilisce un nuovo equilibrio
temporaneo che verrà poi alterato da un nuovo ciclo di innovazione.
La teoria di Schumpeter, pur presentandosi come un tentativo di dare una spiegazione endogena (interna
all’economia) dello sviluppo economico, ha quindi, a differenza della teoria economica neoclassica,
evidenti collegamenti con il contesto sociale e istituzionale, in particolare sotto il profilo dell’influenza di
quest’ultimo sull’imprenditorialità.
PUÒ SOPRAVVIVERE IL CAPITALISMO?
Il funzionamento dell’economia capitalistica ha determinato un cambiamento della cultura e delle
istituzioni che, a sua volta, ha fatto inceppare i meccanismi di autoregolazione dei mercati. Si è passati
quindi da un capitalismo «non regolato» a uno «regolato», che secondo Schumpeter avrebbe dovuto
preparare gradualmente la strada al socialismo. Era questo un esito che egli peraltro non auspicava, ma che
riteneva inevitabile, anche se per motivi diversi da quelli previsti da Marx: il capitalismo non sarebbe
sopravvissuto, non per fattori di natura economica13, bensì per le reazioni culturali e sociali che il suo
funzionamento provocava.
 PERCHÉ IL DECLINO NON HA CAUSE ECONOMICHE?
Schumpeter inizia con il contestare la tesi che vuole l’evoluzione del capitalismo implichi un aumento
della disoccupazione: la crescita dei disoccupati negli anni ‘30 è risultata sì «anormalmente elevata», ma si
è trattato di un fenomeno temporaneo, legato alla fase di recessione che di solito segue, nel ciclo
economico, una fase di prosperità legata a un periodo di innovazione.
Insomma, la crisi del ‘29 è il frutto di un insieme di cause che aggravano gli effetti di una fase discendente
particolarmente acuta del ciclo. Tali fattori si collocano però tutti sullo sfondo di un irrigidimento comples-
sivo dei meccanismi di autoregolazione dei mercati per effetto di quelle che Schumpeter chiama le
«politiche anticapitalistiche», e che Polanyi chiamava invece nuovo protezionismo sociale.

In realtà, secondo Schumpeter, se il sistema economico guidato dal mercato fosse stato lasciato libero di
funzionare e di riequilibrarsi autonomamente, avrebbe potuto assicurare un tasso di sviluppo tale da ridurre

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Per Schumpeter, dal punto di vista economico il capitalismo liberale, basato sul ruolo preminente del mercato, avrebbe potuto
continuare ad assicurare dinamismo e sviluppo.

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i problemi di povertà. La disoccupazione non sarebbe stata eliminata del tutto (perché legata al
meccanismo dell’innovazione e del ciclo economico che ne segue), ma si potrebbero però creare le risorse
necessarie per attenuare il problema della mancanza temporanea di lavoro dei disoccupati per evitare loro
le conseguenze in termini di povertà.
In ultima analisi, quindi, non è stato il capitalismo di mercato a creare meno sviluppo, ma altri fattori di
natura istituzionale, come le politiche anticapitalistiche, che hanno portato il capitalismo ad operare con
sempre minore efficienza.
Anche l’idea che il passaggio a una fase in cui prevalgono aziende monopolistiche e oligopolistiche
implichi di per sé minore efficienza e minor dinamismo, per Schumpeter, non è condivisibile, in quanto
l’effetto frenante sullo sviluppo indotto da fenomeni di oligopolio o di monopolio, con prezzi più alti e
restrizioni della produzione, è limitato al breve periodo; a medio e lungo termine si diffondono invece
vantaggi legati alla qualità e ai costi, che migliorano per effetto dell’innovazione.
Dal punto di vista dinamico, la concorrenza di tipo oligopolistico o monopolistico, quindi, creando nuovi
beni, nuove tecniche, nuove fonti di approvvigionamento e metodi di organizzazione a lungo andare
espande la produzione e riduce i prezzi.
Infine, Schumpeter passa a confutare la tesi del «declino delle opportunità di investimento». A suo avviso,
al contrario delle idee dell’economista inglese Keynes, le potenzialità di innovazione e quindi di sviluppo
del capitalismo non sono affatto esaurite: sono state le politiche governative, che con la leva fiscale e della
spesa dovrebbero sostenere la domanda e gli investimenti per contrastare il ristagno, ad aggravare il male
che vorrebbero curare. Fattori come la più alta pressione fiscale sulle imprese o le politiche di protezione
del lavoro hanno avuto l’effetto di frenare le aspettative di profitto e gli investimenti.
Per questo motivo, secondo Schumpeter, occorre trovare una diagnosi diversa per il ristagno. Esso non ha
motivi economici, ma socioculturali e politici, nella fattispecie l’atmosfera ostile che, col tempo, lo
sviluppo del capitalismo ha alimentato spingendo verso politiche anticapitalistiche.

 LE CAUSE CULTURALI E SOCIALI DEL DECLINO


Per Schumpeter, quindi, le cause del declino del capitalismo liberale sono culturali e sociali. Gli aspetti sui
quali si concentra l’attenzione sono essenzialmente tre: l’indebolimento sociale e politico della borghesia,
la distruzione degli strati sociali che sostenevano la borghesia stessa, il diffondersi di un’atmosfera ostile
al capitalismo.
1. L’INDEBOLIMENTO DELLA BORGHESIA è a un processo complesso che, sua volta, dipende da vari
fattori, legati alle trasformazioni economiche e alle loro conseguenze sociali e politiche;
a) La decadenza della funzione imprenditoriale, per il fatto che le grandi imprese burocratizzate
soppiantano sempre più le piccole e medie aziende. L’innovazione, tende a spersonalizzarsi e
ad automatizzarsi, mentre gli imprenditori perdono la funzione sociale di motori
dell’innovazione per diventare amministratori di possessi ereditati;
b) La «disintegrazione della famiglia borghese», che viene sostituita da uno spirito utilitaristico,
che si manifesta anche in una spinta a mettere al mondo meno figli e nel guardare ad un futuro
sempre più prossimo. Ciò, scoraggia il risparmio e gli investimenti a più lungo termine,
influenzando anche il comportamento politico: la borghesia crede più nei suoi ideali di vita, e
quindi non si batte più con forza contro quelle politiche anticapitalistiche (specialmente nel
50
campo fiscale e della legislazione sociale) che indeboliscono le imprese private.
2. La DISTRUZIONE DEGLI STRATI SOCIALI CHE SOSTENEVANO LA BORGHESIA:
a) In particolare l’aristocrazia, che nei paesi europei aveva assumendo un ruolo essenziale per la
formazione della classe dirigente. L’esaurirsi del ruolo storico dell’aristocrazia priva la
borghesia di una risorsa importante per affrontare quei problemi politici interni e internazionali
che essa, per le sue attitudini e la sua storia, non è in grado di governare da sola;
b) Un mutamento sociale di rilievo è poi legato anche alla «distruzione dell’impalcatura di
istituzioni della società capitalistica», per la progressiva eliminazione di piccole imprese
agricole, artigianali, industriali e commerciali. Ciò ha rilevanti conseguenze politiche, perché
priva la borghesia dei suoi tradizionali alleati sociali, non rimpiazzati dalla nuova classe
manageriale e amministrativa delle grandi imprese burocratizzate che, non essendo interessata
alla proprietà, non è motivava a difendere efficacemente il capitalismo liberale dagli attacchi
dei suoi nemici.
3. Questo progressivo indebolimento sociale e politico della borghesia favorisce l’instaurarsi di
un’«ATMOSFERA SOCIALE» OSTILE AL CAPITALISMO LIBERALE, soprattutto per l’attività degli
intellettuali che fomentano ed organizzano il risentimento popolare dovuto alle crisi cicliche ed alla
disoccupazione legati all’economia capitalistica; questi “intellettuali”, in realtà, sono professionisti
della parola, (giornalisti, avvocati, leader politici…), e hanno in comune l’attitudine a criticare con
lo scopo di mettersi in mostra e costruire il loro status sociale. Essi riescono, in questo modo, ad
influenzare la politica e le sue decisioni (ad esempio radicalizzano il movimento operaio – anche al
di là delle richieste dei sindacati);
4. L’elemento decisivo che porta all’indebolimento del capitalismo liberale è costituito dalle
«POLITICHE ANTICAPITALISTICHE», ovvero da quel complesso di misure legislative e
amministrative14 che si vanno diffondendo nei vari paesi, parallelamente all’indebolimento della
borghesia e alla crescita del malcontento fomentato dagli intellettuali. Tutte queste politiche, che
hanno avuto un’accelerazione dopo la Grande Crisi del ‘29, pongono vincoli crescenti al
funzionamento delle imprese private e introducono un graduale spostamento dei principi di
regolazione dell’economia dai mercati autoregolati a forme di pianificazione socialista.

14
Si tratta di tutti quegli interventi che estendono il ruolo dello stato o della contrattazione collettiva: le politiche della spesa
pubblica in deficit per sostenere la domanda e ovviare alle crisi cicliche; le politiche redistributive, volte a realizzare una
maggiore uguaglianza sociale, in particolare attraverso una crescita della pressione fiscale; strumenti regolativi come quelli
legati alle misure antitrust per contrastare le imprese monopolistiche, e al controllo per via amministrativa dei prezzi; la
diffusione di imprese pubbliche; la legislazione assistenziale e del lavoro e la crescita della contrattazione sindacale nel
mercato del lavoro.

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Fig. 7.2. Le cause culturali e sociali del declino del capitalismo liberale secondo Schumpeter.

Schumpeter vede nel capitalismo americano del New Deal, e poi in quello che si sarebbe affermato dopo la
guerra in America e in Europa, una sorta di «capitalismo laburista», in cui le imprese private sono
sottoposte a oneri fiscali e regolativi crescenti. Schumpeter è più scettico sul fatto che questa forma di
capitalismo più regolato politicamente possa sopravvivere a lungo; il capitalismo è per lui legato è, infatti,
una specifica struttura istituzionale e uno schema di valori: è una civiltà. Gli risulta quindi difficile credere
che un capitalismo che abbia eroso le basi istituzionali su cui poggiava possa continuare ad esprimere un
elevato dinamismo economico.
Per Schumpeter, il declino del capitalismo liberale prepara gradualmente il passaggio al socialismo, inteso
come forma di organizzazione della società in cui i mezzi di produzione sono controllati dall’autorità
pubblica (responsabile anche delle scelte relative alla produzione dei beni e alla distribuzione dei redditi)
che egli ritiene sia efficiente sul piano economico, sia compatibile con la permanenza della democrazia po-
litica15.

15
Questa tesi, sebbene formulata con cautela, avrebbe trovato delle chiare smentite nella successiva esperienza storica dei paesi
socialisti.

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CONVERGENZE ANALITICHE E DIVERGENZE POUTICHE
Polanyi e Schumpeter sono due autori che non appartengono allo stesso ambiente culturale e non hanno
interazioni tra loro, anche se furono entrambi segnati dal clima della Vienna di inizio secolo. L’uno era un
socialista laburista e gildista, l’altro un liberista conservatore. Nonostante queste differenze, entrambi
contribuiscano sul piano analitico a mettere a fuoco secondo linee convergenti il problema del declino del
capitalismo liberale e della grande trasformazione che si avvia dopo la crisi degli anni ‘30.
Polanyi è un istituzionalista, Schumpeter è un economista che esce dagli schemi tradizionali della
disciplina e riconosce l’importanza delle istituzioni per comprendere il cambiamento dell’economia.
Polanyi limita drasticamente la validità scientifica dell’economia e ne storicizza i risultati. Gli strumenti
della disciplina servono per comprendere il funzionamento dell’economia solo quando questa è dominata
dai mercati autoregolati. La sua efficacia è dunque ristretta al secolo nel quale trionfa il capitalismo
liberale: l’800. Estenderne la portata all’indietro nel tempo significa cadere nella «fallacia economicistica».
Da questo punto di vista, Polanyi è dunque più vicino a Durkheim e soprattutto a Veblen: il suo è un
istituzionalismo più alternativo che integrativo rispetto all’economia di tipo neoclassico.
Per Schumpeter l’economia teorica è una disciplina analitica, e come tale non fonda la sua scientificità
sulla verifica empirica dei suoi schemi e non richiede pertanto di essere storicizzata. Tuttavia, nell’ambito
dell’economia deve esservi spazio sia per la componente teorica, di taglio analitico, che per quella storico–
empirica. Quest’ultima prende in esame il rapporto tra fenomeni economici e contesto istituzionale,
basandosi sul contributo della storia e della sociologia economica. Ed è proprio alla sociologia economica
che Schumpeter fa ricorso quando s’interroga sul cambiamento del capitalismo e sul suo futuro. Da questo
punto di vista, egli si avvicina, di fatto, a un tipo di indagine simile a quella condotta da Polanyi.
Quanto alle cause del declino, essi convergono in sostanza nel sottolineare che le conseguenze sociali
innescate dal prevalere dei mercati autoregolati nell’organizzazione economica scatenino delle reazioni
sociali e politiche le quali, a loro volta, inceppano progressivamente il funzionamento dei mercati stessi, la
loro capacità di riequilibrarsi. Contrariamente quindi a quanto pensava Marx, le cause del declino sono
sociali prima che economiche, anche se esse si ripercuotono poi sul funzionamento dell’economia.
Si potrebbe dire che in un certo senso viene ribaltata l’enfasi di Marx sulle crisi economiche come
fenomeni di accelerazione del cambiamento sociale e politico: per i nostri due autori è vero il contrario.
Polanyi parla in proposito di «autodifesa della società», un processo che si esprime con la diffusione di
varie forme di protezionismo (sociale e del lavoro, agrario, creditizio). Schumpeter fa invece riferimento
alle «politiche anticapitalistiche» che vedono un’accelerazione dopo la Grande Crisi, ma trovano un
terreno favorevole nell’indebolimento del quadro culturale e istituzionale del capitalismo liberale e nella
crescita del malcontento sociale. Polanyi vede già avviati alla fine dell’800 i processi di cambiamento
istituzionale che preparano il declino e raggiungono l’apice nella crisi del 1929, mentre Schumpeter tende
a spostare più in avanti i fenomeni di irrigidimento dei mercati autoregolati, considerando tali fenomeni
più come una conseguenza delle reazioni istituzionali alla crisi del ‘29 che come fattore che prepara la crisi
stessa.
Ma è soprattutto una questione di enfasi. Anch’egli, infatti, vede negli anni ‘30 uno spartiacque che separa
l’epoca del capitalismo non regolato da quella del capitalismo regolato; un fenomeno che prepara, in una
prospettiva più lunga e più incerta, l’avvento del socialismo.

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È poi significativo che entrambi gli autori arrivino a conclusioni simili sui requisiti non economici per il
funzionamento del mercato: si tratta di un giudizio che acquista un rilievo particolare per l’analisi storico–
empirica, perché sottolinea come il funzionamento dei mercati concreti non sia comprensibile senza
prendere in esame come essi siano integrati nella società, cioè in che modo si combinino con un contesto
istituzionale che fornisce le risorse per motivare gli attori a un comportamento economico congruente, e
per far loro accettare le conseguenze sociali che discendono, dall’operare dei mercati. Questi ultimi non
possono dunque esistere in concreto senza un adeguato supporto istituzionale.
Seguendo questa prospettiva, Polanyi e Schumpeter mostrano sul piano storico come l’affermarsi del
mercato eroda le vecchie istituzioni, generi instabilità sociale e politica, e porti alla sperimentazione di
nuove istituzioni.
Anche sul terreno dell’analisi del processo di trasformazione del capitalismo vi è poi una convergenza
significativa tra i due autori, pur se essi divergono nettamente nella valutazione politica di tale fenomeno.
La direzione di marcia che entrambi tratteggiano è, infatti, quella del passaggio a un capitalismo in cui il
ruolo del mercato è più limitato e più regolato socialmente e politicamente. È questa la «grande
trasformazione» di Polanyi, mentre Schumpeter parla di un «capitalismo laburista» che avrebbe preparato
un probabile passaggio a una forma di organizzazione economica di tipo socialista.
Tuttavia, Schumpeter non giudica favorevolmente il processo in corso, egli resta legato ai valori della
civiltà capitalistica che vorrebbe difendere, ma che gli sembra in un declino difficilmente arginabile.
Polanyi ritiene invece che il passaggio ad un’economia più reincorporata nella società, più regolata so-
cialmente e politicamente, sia non solo inevitabile, ma anche auspicabile, sia per il futuro dei paesi
occidentali che per i nuovi paesi sottosviluppati che si andavano affacciando sulla scena della storia, e che
non avrebbero necessariamente dovuto sostenere i costi sociali del mercato.

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