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Touch this earth lightly1

Cultura aborigena e forma costruita


In Glen Murcutt. Otto case, Clean edizioni, Napoli, 2000

Tradizione costruttiva e tradizione abitativa2


Il rapporto dialettico tra forma costruita e comportamento è già da tempo oggetto di studio di
specialisti appartenenti a diverse discipline; semiotici, geografi, etnografi, antropologi, architetti,
archeologi, psicologi del comportamento e molti altri studiosi si occupano dell’ambiente costruito,
cercando di far luce sulle relazioni che intercorrono tra spazio domestico e abitudini dei suoi
fruitori. Tali studi evidenziano come le decisioni e i comportamenti dei singoli individui - che più in
generale riflettono i valori culturali del gruppo sociale a cui appartengono - siano contenuti e
materializzati nell’organizzazione e nell’uso dell’ambiente costruito e, in modo particolare, dello
spazio domestico che di quest’ultimo rappresenta l’espressione più emblematica e significativa. Per
questo motivo l’architettura rappresenta uno dei principali manufatti dell’uomo attraverso cui di
poter risalire ai sistemi di valori che, nelle diverse epoche e nei diversi luoghi, ne hanno
caratterizzato la cultura, quasi si trattasse di frammenti di una sorta di DNA capaci di conservare, da
soli, la memoria dell’intero processo evolutivo di cui sono parte.
Uno dei modelli di studio maggiormente adoperato per le ricerche cross-culturali che hanno come
oggetto il rapporto ambiente costruito - comportamento umano, è quello socio-ecologico che
considera interdipendenti e mutualmente determinanti i due poli, ponendo l’accento sull’interazione
dinamica esistente all’interno di ogni sistema ambientale e, in ultima analisi, di ogni gruppo sociale
per cui è costruito. Più in generale gli studi che si occupano di interpretare le forme e gli usi dello
spazio domestico dell’architettura, utilizzando archeologia, antropologia e analisi comportamentali,
individuano una pluralità limitata di fattori che concorrono e contribuiscono a determinare quei
manufatti architettonici. Clima e topografia rappresentano le qualità geografiche specifiche e
inalterabili di un luogo e possono essere considerate in tal senso “invarianti”, poiché non sono
soggette a mutazioni consistenti nell’arco di tempo in cui si svolge l’analisi dei singoli manufatti,
sui quali esercitano una notevole influenza, in termini di condizionamenti che il luogo impone alla
forma costruita. Materiali reperibili, livello di tecnologia posseduto e risorse economiche disponibili
costituiscono gli aspetti “mutevoli”, funzione soprattutto del tempo che può rendere tali fattori
indipendenti dal luogo, per l’evoluzione che una cultura può avere, in termini di conoscenza e di
economia, col trascorrere degli anni. Attività e abitudini sociali individuano infine gli aspetti
“culturalmente determinati” che, poiché risultano condizionati esclusivamente da fattori culturali
sono come i precedenti funzione del tempo. Nel considerare un determinato gruppo sociale, però,
anche le attività e le abitudini sociali possono essere intese come invarianti, soprattutto se lette
come elemento di permanenza e di identità dei valori culturali specifici individuati all’interno del
percorso evolutivo che ne caratterizza lo sviluppo.
Ne consegue - per quanto concerne le costruzioni tradizionali e vernacolari - un tipo di architettura
dal “costo ecologico” molto basso; le risorse economiche sono di solito scarse, come pure le
conoscenze tecnologiche, e ciò impone ai costruttori/abitatori di inserirsi all’interno del sistema
ambientale con grande cautela e rispetto, con l’attenzione, che è anche frutto di una necessità, di
sfruttarne tutte le risorse e le potenzialità “fisiche”. In questo modo si ottimizza il rapporto tra
bisogni e strutture necessarie per il loro soddisfacimento, senza dimenticare però che l’ambiente

1
Touch this earth lightly (tocca questa terra con leggerezza) è un’espressione attribuita al popolo aborigeno che
sintetizza il rispetto di questo popolo verso la terra.
2
Sull’argomento affrontato nel presente paragrafo si vedano: A. Rapoport, House form and Culture, 1969; A. Rapoport,
Australian aborigines and the definition of place, in W. M. Mitchell, a cura di, “Environmental design”, 1972; A.
Rapoport, a cura di, The mutual interaction of people and their built environment, 1976; R. Lawrence, The
interpretation of vernacular architecture, in “Vernacular Architecture” n. 14/1983; S. Kent, a cura di, Domestic
architecture and the use of space, 1990
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costruito ha come suo fine principale quello dell’abitare3, una attività che implica anche lo
svolgimento di alcune funzioni, ma che interessa soprattutto la sfera esistenziale dell’uomo, quella
dell’essere, poiché come ricorda Heidegger “...poeticamente abita l’uomo...”4.
I materiali in genere sono quelli del luogo e le tecnologie sono quelle che coniugano al meglio – in
termini di economia – le caratteristiche del sito con le risorse e le conoscenze disponibili.
L’ambiente costruito, dunque, benché determinato da sequenze di decisioni progettuali prese da un
“professionista” o da un semplice abitante/costruttore, riveste un ruolo cruciale nel suggerire
comportamenti sociali, rappresentando la visione del mondo e il sistema di valori culturali non solo
dei suoi abitanti e costruttori, ma di tutto il gruppo sociale cui essi appartengono. Ciò induce a
considerare l’architettura come un manufatto indispensabile al mantenimento e alla conservazione
delle abitudini sociali di una determinata cultura, poiché le abitudini sociali vengono materializzate
all’interno dell’ambiente costruito, nella struttura stessa della sua forma e della sua organizzazione,
nei modi del suo uso. Questa intima connessione enfatizza l’interattività riconosciuta al rapporto tra
la forma costruita e la capacità dell’uomo di abitare, suggerendo legami tra attitudini culturali,
comportamento e architettura.
Per chi la abita, la casa dunque fornisce non solo un riparo, ma una memoria, un ricordo concreto
delle convenzioni e delle regole socioculturali specifiche del gruppo sociale a cui appartiene, e in
cui si riconosce: l’architettura diviene in questo modo uno strumento per rinforzarle e renderle più
immediatamente percepibili, fornendo incessanti suggerimenti di comportamenti corretti. Poiché ciò
riguarda non solo l’uso dello spazio domestico, ma in generale i valori culturali specifici di un
determinato gruppo sociale, ne deriva che l’architettura non solo condiziona e guida i
comportamenti sociali tra i membri dello stesso gruppo, ma anche quelli relativi al rapporto
dell’uomo e del suo ambiente costruito con la natura. “Buidings and settings are ways of ordering
behavior by placing it into discrete and distinguishable places and settings, each with known and
expected rules, behaviors and like... Built environments thus communicate meanings to help serv
social and cultural purposes; they provide frameworks, or systems of settings, for human action and
appropriate behavior”5.
Tutto ciò è particolarmente vero se riferito a strutture architettoniche appartenenti alla tradizione, a
quella che generalmente viene definita architettura vernacolare, dove ancora il rapporto tra le
variabili in campo resta pressappoco quello fin qui descritto, non subentrando quegli elementi di
conoscenza che hanno reso l’azione dell’uomo capace di liberarsi dai vincoli del luogo e da tutti gli
altri fattori che rendono l’ambiente costruito funzione diretta dell’ambiente naturale in cui si
inserisce, senza per questo diminuirne il valore culturale e sociale. Tutte le strutture infatti – viventi
e non, fatta eccezione per l’uomo che è un essere senziente cosciente – seguono un medesimo
principio di economia e, soprattutto, partecipano alla “vita” dell’ambiente di cui fanno parte,
confortando la tesi dell’esistenza di un macro eco-sistema in cui tutto è in relazione e in cui ogni
gesto, ogni azione, s’inserisce e innesca, una serie di altri avvenimenti. L’uomo, sviluppando nel
corso del tempo la coscienza del sé, ha potuto affrancarsi dall’ossequiare pedissequamente tale
sistema e, sfruttando le conoscenze e le ricchezze accumulate, è potuto intervenire per modificare a
proprio piacimento quei fattori invarianti che sono alla base dell’organizzazione della forma
costruita negli insediamenti tradizionali. Come conseguenza, gli aspetti culturali hanno preso il
sopravvento non solo sull’organizzazione e sull’uso dello spazio, come è naturale che fosse, ma
hanno anche trasformato i rapporti tra gli altri fattori coinvolti nella realizzazione dell’ambiente
costruito, stravolgendo l’equilibrio della forma e quello del macro eco-sistema di cui anche l’uomo
è parte. Si è innestato lentamente, in questo modo, quel processo di “sfruttamento incondizionato”

3
Cfr.: C. Norberg-Schulz, L’abitare, Milano 1985
4
“Il poetare edifica l’essenza dell’abitare. Non solo poetare e abitare non si escludono reciprocamente. Essi sono anzi in
una connessione inscindibile, si richiedano reciprocamente”. In M. Heidegger, Poeticamente abita l’uomo, in Saggi e
discorsi, Milano 1976, p. 136
5
A. Rapoport, Vernacular architecture and the cultural determinants form, in Buidings and Society, A. D. King, a cura
di, London 1980, p. 300
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delle risorse che ha condotto al collasso, tipico della cultura moderna, del rapporto uomo-natura,
che ha imposto proprio all’uomo di rivedere totalmente le sue posizioni, perché ormai consapevole
che le sorti del “sistema terra” coinvolgono indissolubilmente anche le sue. Per questo motivo gli
studi cross-culturali che si rivolgono all’ambiente costruito del passato hanno conosciuto una
insolita fortuna proprio negli ultimi anni; questi studi infatti hanno consentito di riscoprire i
contenuti culturali e ambientali che da sempre caratterizzano la costruzione del riparo,
affrancandolo dall’essere puro prodotto di moda o di stile, come invece è accaduto nella più recente
storia dell’architettura. Nel recuperare i sensi e i significati che accompagnano la forma costruita
nelle espressioni più tradizionali, si è anche scoperta l’elevata “sostenibilità” che caratterizzava
quelle realizzazioni, frutto di una sapienza costruttiva formatasi - come già sottolineato
precedentemente - all’insegna dell’ottimizzazione delle risorse e delle tecnologie, sempre molto
limitate. L’indagine sulle esperienze del passato ha anche portato una nuova dimensione nel fare
architettura, affermando il principio che - usando le parole di T. S. Eliot - “[...] il passato è passato,
ma anche presente [...]. Il possesso del senso storico, che è senso dell’a-temporale come del
temporale, e dell’a-temporale e del temporale insieme: ecco quello che rende tradizionale uno
scrittore (un architetto, NdR). Ed è nello stesso tempo ciò che lo rende più acutamente consapevole
del suo posto nel tempo, della sua contemporaneità.
Nessun poeta, nessun artista di nessun arte, preso di per sé solo, ha un significato compiuto”6.
In questo modo si vuole affermare la necessità, dell’architettura contemporanea, di ricercare le
proprie origini, caso per caso, riscoprendo valori e significati contenuti nelle diverse e specifiche
tradizioni costruttive e tradizioni abitative. La prima - la tradizione costruttiva -, a cui fanno capo
quei fattori definiti precedentemente “mutevoli”, fa luce sulla fenomenologia della forma costruita,
relativamente a un tempo e a un luogo, stabilendo un rapporto rigoroso tra risorse e bisogni,
tecniche e tecnologie. Dall’altra parte, la tradizione abitativa, a cui fanno capo i fattori invariabili
definiti “naturali” e “culturali”, informa la costruzione di quei valori che incarnano la visione del
mondo del gruppo sociale a cui l’abitante/costruttore appartiene. Ne consegue che la tradizione
costruttiva, che pur costituisce un prezioso bagaglio di conoscenze e di informazioni utili alla
realizzazione dell’ambiente costruito, è incapace di risolvere da sola tutti quei problemi dell’abitare
contemporaneo posti dal sempre più rapido evolversi delle vicende umane. All’opposto, la
tradizione abitativa consente, al mutare dei tempi - e in certa misura anche dei luoghi -, di poter fare
affidamento su un bagaglio di informazioni che, attingendo direttamente alla sfera dei valori
culturali, riguardano un insieme ristretto di comportamenti “invarianti”, indispensabili all’abitare7.

Tocca questa terra con leggerezza


Seguire le vie dei canti8, andare alla ricerca delle proprie origini percorrendo le orme tracciate dagli
antenati, è il legame che unisce da millenni i popoli aborigeni alla loro terra, l’Australia. Terra
lasciata in eredità dai propri antenati che nel “loro viaggio per tutto il paese, hanno sparso sulle
proprie orme una scia di parole e di note musicali, le piste del Sogno, rimaste sulla terra come ‘vie’
di comunicazione fra le tribù più lontane9”. Terra espropriata dalla violenza della colonizzazione
europea che l’ha privata del suo Tempo del Sogno, dei suoi miti, dei suoi abitanti, trasformandola in
una gigantesca tabula rasa su cui costruire e fondare nuove comunità, nuovi tempi di civiltà e
progresso.
Il mito dell’Australia come territorio vergine e incontaminato, selvaggio e incivile, creato alla fine
del ‘700 e alimentato nell’800 a sostegno della supremazia imperiale britannica, ha contribuito alla

6
T. S. Eliot, Tradizione e talento individuale, in Il bosco sacro, Milano 1995, p. 69 (orig. In Critical Essays, London
1932, pp. 14-15)
7
Cfr.: G. Postiglione, Il progetto della casa razionale in Norvegia tra Zeitgeist e genius loci, in G. Postiglione, a cura
di, Funzionalismo norvegese, Roma 1996
8
Le vie dei canti è il titolo del libro di Bruce Chatwin.
9
B. Chatwin, Le vie dei canti, Milano, Adelphi, 1996, p.25
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stesura delle grandi narrazioni10 di colonialismo, razzismo, espropriazione ed espulsione dei popoli
nativi dai loro territori, inscritte nelle pagine della storia della modernità occidentale. Questa
sconfinata distesa di terra nell’Oceano Pacifico era diventata, alla metà del XVIII secolo, la
destinazione di viaggi compiuti da disegnatori di mappe, studiosi di botanica11, naturalisti attirati
dall’insolita vegetazione, dalla fauna straordinaria, nonché dalle strane specie di umanità primitive
che in essa dimoravano. L’Australia, con i suoi apparenti spazi vuoti e inviolati, abitati da
popolazioni indigene ferme all’età della pietra, risultava l’unico grande vuoto della carta geografica,
su cui bisognava erigere i segni della presenza europea, instaurare i legami con la grande Storia
occidentale nel segno del progresso e della civiltà.
In una prima suddivisione degli sterminati e caotici spazi australiani, era necessario stabilire
l’ordine, imporre una visione che permettesse di controllare ciò che risultava incontenibile, secondo
una gerarchia dello spazio che rifletteva una gerarchia sociale e razziale12. La comparsa delle
edificazioni cittadine, dei luoghi dell’architettura moderna ha avuto come effetto la sparizione di
altri luoghi, i luoghi invisibili e sacri del popolo aborigeno, vero “proprietario” e abitatore di queste
terre da millenni. La memoria monumentale lasciata in eredità dal dominio coloniale come segno
del passaggio della storia, della civiltà, per il popolo aborigeno è un’eredità di esilio, di confisca, di
violazione della terra e del patrimonio sacro che in esso è testualizzato13.
Lo spazio, dunque, non è mai stato vuoto come si ha avuto bisogno di credere e inventare a
sostegno della colonizzazione, piuttosto è stato svuotato in seguito alle migrazioni dei popoli
indigeni verso la zona settentrionale del paese, lì dove ha inizio lo sconfinato deserto australiano.
Anche lo spazio in apparenza più desolato, come quello del deserto, in cui non sono tracciate zone
di confine, né edificate costruzioni abitative stabili, nasconde in sé i segni dell’abitare,
dell’appartenenza a una comunità. Nella vastità della superficie australiana sono disseminati segni,
tracce di memoria labile, che non hanno necessariamente la medesima radicalità nel suolo, né la
medesima ambizione di immortalità dei monumenti. Persino le divinità totemiche venerate dagli
aborigeni prendono vita dalla terra, sono create dalla sostanza leggera e peritura come l’argilla,
rispondendo alla loro filosofia secondo cui tutto ciò che viene dalla terra, dagli elementi terreni ai
manufatti realizzati dall’uomo, nonché l’uomo stesso, è sacro, ma non immortale, e alla terra deve
essere restituito.
“La filosofia degli aborigeni” – scrive Chatwin – “era legata alla terra. Era la terra che dava vita
all’uomo; gli dava il nutrimento, il linguaggio e l’intelligenza, e quando lui moriva se lo riprendeva.
La patria di un uomo […] era un’icona sacra che non doveva essere sfregiata […]. Ferire la terra è
ferire te stesso, e se gli altri feriscono la terra, feriscono te. La terra deve rimanere intatta, com’era
al Tempo del Sogno, quando gli Antenati col loro canto crearono il mondo”14.
Questo rapporto sacro con il territorio, questo senso della cura rivelato attraverso un transito lieve,
che salva la terra, non la padroneggia e non l’assoggetta15, definisce una modalità di abitare e di
essere sulla terra, e sotto il cielo, che non può non richiamare al senso di responsabilità che investe
qualunque gesto di fondazione, di costruzione che, come sostiene Heidegger, è l’unica via per
pervenire all’abitare.

10
L’analisi dei concetti storici quali colonialismo, razzismo, nazionalismo come forme di narrazione e mito è affrontata
in particolare da E. Said, Cultura e Imperialismo, Roma, Gamberetti, 1998 e H.Bhabha (ed.), Nazione e Narrazione,
Roma, Meltemi, 1997.
11
La costa australiana fu nominata Botany Bay dal capitano Cook che per primo ne disegnò la mappa.
12
La costruzione della città di Sidney, fondata nel 1788 come colonia penale britannica in cui deportare quell’eccesso
di popolazione criminale, seguiva un’organizzazione benthemiana dello spazio. Si veda M.Foucault, Il panoptismo in
Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi, 1993.
13
Il concetto di terra come testo sottende a qualunque tipo di produzione artistica aborigena, dalla letteratura, alla
pittura, alla musica. Si veda Benterrak et al., Reading the Country: Introduction to Nomadology, Fremantle,
W.A:Fremantle Arts Press, 1984.
14
B.Chatwin, op.cit., p.23.
15
M.Heidegger, Costruire Abitare Pensare, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia,1976, p.100.
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Se l’atto di calpestare la terra è un atto di violenza per gli aborigeni che - continua Chatwin –
“percorrevano la terra con passo leggero”16, edificare, erigere intere città equivale a far sparire un
luogo, significa violare e smarrire le tracce poetiche disegnate dagli Antenati, che avevano creato il
mondo cantandolo, recuperando il significato di “creazione” come poiesis.
Toccare la terra con leggerezza, riconoscere nel movimento la direzione della vita dell’uomo e
delle cose, costituiscono il senso dell’abitare per la cultura aborigena, la cui tradizione abitativa non
trova radici nel suolo, nella stanzialità, ma nel transito, nella migrazione. In un paesaggio come
quello del deserto australiano, alle soglie dell’equatore, costituito da aride distese di arbusti o da
superfici sabbiose, da un clima variabile in cui a periodi di precipitazioni irregolari seguono periodi
di siccità, abitare diventa una modalità di essere strettamente legata al territorio, alle condizioni del
suolo, al soffiare dei venti, alle modifiche operate dai cambiamenti di stagione. Abitare per il
popolo aborigeno significa avere un rapporto di dipendenza dalla terra che non rientra nella logica
del possesso e dello sfruttamento incondizionato delle sue risorse, ma nella libertà e necessità di
poterla lasciare, giacché “in un paesaggio simile “ – descrive ancora Chatwin -, “muoversi vuol
dire sopravvivere; rimanere nello stesso posto vuol dire suicidarsi”…Sentirsi a casa in quel paese
dipendeva dalla possibilità di lasciarlo”17. Il nomadismo come modalità di abitare lo spazio senza
stabilità, invita a pensare alla terra non come “il luogo delle dimore stabili, ma come il luogo delle
tracce, dei passaggi, delle abitazioni transitorie”18.
La tradizione abitativa aborigena, che non erige monumenti, né edifica case stabili che non
corrispondano ai principi di transitorietà della propria cultura e all’utilizzo di materiali capaci di
ritornare alla terra, trova la sua realizzazione proprio nel transito19. Nel riconoscimento della sua
temporalità, essa impone non solo dei quesiti alla grande tradizione architettonica e alle sue
ambizioni di eternità attraverso costruzioni monumentali, ma induce a ripensare il rapporto tra il
costruire, l’abitare e l’essere. La transitorietà dell’ambiente costruito, la sua adattabilità al luogo
resiste al senso dell’appropriazione, del possesso materiale, suggerendo una sfida alla memoria
intesa come commemorazione e rende vulnerabile il suo legame con un preciso luogo.

L’architettura di Glenn Murcutt20

Da considerazioni del tutto simili a quelle fin qui proposte si sviluppa il pensiero, e il metodo,
progettuale dell’architetto australiano Glenn Murcutt, le cui realizzazioni sembrano essere la
trasposizione nella “contemporaneità” della tradizione abitativa aborigena. “La presenza umana è
transitoria”, afferma Murcutt riprendendo un pensiero che appartiene agli aborigeni, per cui l’uomo
non è assolutamente proprietario della terra che abita, ma al limite ne è guardiano e tutore; per
questo motivo l’ambiente costruito deve essere assolutamente rispettoso del luogo in cui si inserisce
e l’architetto deve assumere consapevolezza del delicato ruolo che riveste. Touch this earth lightly è
una delle affermazioni più ricorrenti dell’architetto che, facendo propria una tipica - come si è più
volte sottolineato - espressione aborigena, ben riassume il suo atteggiamento progettuale. Le sue
architetture – prevalentemente residenze domestiche – rivelano con immediatezza lo spirito che le
anima, dietro una figurazione astratta e la scelta di materiali insoliti, si scopre una linea di ricerca
che si collega in maniera radicale con i valori della cultura abitativa tipici della tradizione
australiana. Già dalla tipologia edilizia ricorrente nella sua opera, la casa unifamiliare isolata,
perché immersa in una qualche sperduta regione dell’immenso territorio australiano, l’architetto

16
B.Chatwin, op.cit, p. 21.
17
B.Chatwin, idem, p.80.
18
cfr. I.Chambers, Architecture, amnesia and the emergent archaic in I.Borden et al. The Unknown City, London, John
Wiley, 1998, (traduzione mia).
19
Ho mutuato il concetto di tradizione come transito da I.Chambers, Paesaggi migratori, Genova, Costa & Nolan,
1997.
20
Per una più esaustiva presentazione dell’opera dell’architetto australiano si veda F. Fromonot, Glenn Murcutt. Opere
e progetti, Milano 1995
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conferma la sua posizione all’interno di una tradizione del fare che trova le proprie origini nei valori
culturali connessi all’abitare nomade del popolo aborigeno.
Lontane dall’adozione di “stili”, o di forme fini a se stesse, le case di Murcutt riflettono in pieno
quei caratteri riconosciuti dagli studiosi all’architettura tradizionale: l’adozione di un’estetica della
necessità che rifiuta sterili storicismi o sofisticate tecnologie, in favore di “buon senso e di soluzioni
semplici”, e la capacità di materializzare - sub specie architectonica - la visione del mondo dei suoi
abitanti/costruttori. Le sue architetture risultano “informate”, sin nella fase progettuale, dal luogo
scelto per la loro realizzazione e hanno la rara capacità di insediarvisi senza contraddirne le leggi,
anzi ad esse Murcutt affida il delicato compito di aiutare l’uomo a comprendere il paesaggio che lo
circonda, rendendolo più direttamente percepibile, in modo da favorire la nascita e lo sviluppo di un
rapporto armonico tra l’uomo, il suo ambiente costruito e la natura di cui fa parte. Per questo
motivo l’architetto australiano esige dalle sue realizzazioni, o anche semplicemente dai suoi
progetti, un “rendimento massimo” – in termini di efficacia e di economia – facendo emergere la
presenza, nella sua opera, di un principio “etico-estetico” quale matrice del suo “fare” che, per certi
versi, ne garantisce la sostenibilità. Le sue opere infatti sono pensate e realizzate per inserirsi, senza
alterarne l’equilibrio, nell’eco-sistema che caratterizza di volta in volta il luogo scelto per la
costruzione, divenendone immediatamente parte. Ecco uno dei tratti più originali e personali del
lavoro di Murcutt, una paziente ricerca, fatta di calcolatissime alchimie, della “forma
indispensabile” e, allo stesso tempo, “sostenibile”, in cui quei valori di transitorietà tipici della
cultura indigena non solo non vengono negati, ma trovano una insolita e inaspettata espressione di
contemporaneità. Archetipe, per tutti quei valori appartenenti alla cultura abitativa che la buona
architettura è capace di incarnare, le case progettate dall’architetto australiano non concedono nulla
al vernacolo dimostrando la sua capacità di saper realizzare il nuovo innestandolo profondamente
nel passato, senza per questo fare alcun tipo di concessione nostalgica alle forme e ai materiali della
tradizione, stabilendo invece solo un legame con i contenuti e l'identità della propria cultura
abitativa21. Le sue case si possono interpretare come parte di una lunga catena costituita dalle
metamorfosi e dalle trasformazioni subite dall'originaria abitazione aborigena, nel corso del tempo,
per adattarsi alle diverse contingenze fisiche e storiche nelle quali sono venute a concretizzarsi. In
questa sua ricerca l’architetto però non è solo, G. Poole, R. Leplastrier, P. Myers, per citare solo le
figure principali, sono tutti architetti che hanno contribuito in maniera decisiva in Australia al
recupero dei valori della tradizione, senza rinunziare ad essere per questo progettisti del proprio
tempo, rifuggendo qualsiasi atteggiamento progettuale nostalgico o sentimentale e affermando,
attraverso le loro opere, l'esistenza di un "nuovo regionalismo", di un metodo progettuale capace di
coniugare, senza generare contrasti, il nuovo con l’antico. Questi architetti, come molti altri in
luoghi diversi, hanno sperimentato la possibilità di superare la contrapposizione classica tra
tradizione e modernità, attraverso la ricerca costante di un'interpretazione critica del passato22.
“Murcutt spiega anche in quale modo procede. La geologia, l’idrografia, il clima della regione, la
direzione dei venti dominanti contribuiscono a decidere sulla scelta del luogo in cui far sorgere
l’edificio, della sua struttura, della porosità più o meno accentuata delle facciate che captano le
brezze necessarie alla ventilazione. L’angolo di incidenza del sole a seconda delle stagioni
determina la dimensione del bordo del tetto, che taglia il sole verticalmente d’estate per impedirgli

21
[...] Le prime costruzioni "archetipe" erano state adottate nella tradizione culturale con destinazioni d'uso molto
generiche. Col tempo, questi primitivi "tipi" furono modificati per assolvere le specifiche necessità sviluppatesi
all'interno della cultura formando un “building pattern". In C. Alexander, A Pattern Language, Berkeley 1968
22
Cfr.: G. Postiglione, Arne Korsmo eget hjem, in N. Flora, P. Giardiello, G. Postiglione, a cura di, Arne Korsmo - Knut
Knutsen. Due maestri del nord, Roma 1999. Nel testo si fa esplicito riferimento alla consolidata tradizione nordica che
vede, quali personaggi principali, il danese J. Utzon, il finlandese R. Pietila, lo svedese P. Celsing, il norvegese S. Fehn,
per citare gli architetti appartenenti alla seconda generazione dei moderni, maggiormente impegnati nell’elaborare il
progetto di architettura all’interno della tradizione. Ma lo stesso può dirsi anche di alcuni autori appartenenti alla
generazione precedente, si pensi ad A. Aalto, a S. Lewerentz e a E. G. Asplund, per citare solo alcuni di quelli che
hanno contribuito in maniera sostanziale allo sviluppo e alla diffusione di un certo tipo di architettura moderna in
Scandinavia, così attenta ai valori della cultura tradizionale e del passato.
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di penetrare nella casa, e l’altezza delle imposte a vetri nella facciata, che lasciano penetrare il basso
sole invernale nel cuore dell’abitazione. Aperture o verande sono sistemate in funzione delle vedute
e dei venti”23.
La composizione non è il risultato di astratte teorie della forma, ma scaturisce direttamente
dall’analisi fenomenologica del luogo, da una parte, e, dall’altra, dalla volontà di continuare a
materializzare quei valori positivi specifici della cultura aborigena e della loro visione del mondo,
indispensabili - come si è riconosciuto - alla sopravvivenza della identità di ogni gruppo sociale con
lo scopo principale di rendere possibile all’uomo “l’abitare”, senza però che l’architetto per questo
rinunci alla tradizione del moderno e ai valori di cui la contemporanea cultura del progetto è
portatrice. Le architetture di Murcutt infatti appartengono al proprio tempo e riflettono in maniera
inequivocabile la formazione e le “simpatie” dell’australiano per certa cultura architettonica non
solo occidentale. Sicuramente Mies, ma anche Chareau e Eames, Aalto e molta architettura nordica
- da sempre attenta ai valori del luogo e al rapporto che l’ambiente costruito instaura con la natura
in cui si inserisce e di cui è parte24 -, sembrano emergere in filigrana ad una analisi attenta
dell’opera di Murcutt, che peraltro non nasconde la sua passione e la sua curiosità verso questi
mondi così lontani dai luoghi in cui è cresciuto e si è formato. Ed è proprio la sua abilità
progettuale, capace di muoversi con estremo equilibrio in campi tra loro così diversi - cultura
aborigena, da una parte, tradizione del moderno, dall’altra - che stupisce e meraviglia nelle opere
realizzate. Nulla è frutto del caso, o di semplici capricci formali, ogni elemento manifesta con
consapevolezza il proprio significato e il proprio ruolo, la propria appartenenza ad una storia che ha
le sue origini in un passato molto lontano, privo di testimonianze “concrete” così come la cultura
occidentale è abituata a possedere, ma ugualmente capace ancora di farsi ogni volta presente.
Eppure, al di là di semplici, quanto efficaci, paralleli con certa “architettura povera” coloniale, come
i capannoni in legno e metallo per ricoverare le greggi o la lana - woolsheds -25 , nulla viene
concesso alla nostalgia della citazione vernacolare.
Il metodo di Murcutt consiste nel vagliare e selezionare con estrema accuratezza materiali e
soluzioni formali, scegliendo di volta in volta quelli più adeguati al luogo e al programma
funzionale. I materiali infatti vegono scelti in funzione di una gamma molto ampia di parametri, che
tendono a limitare il danno ambientale della nuova costruzione, sia in termini di micro eco-sistema
sia in termini di macro eco-sistema, prendendo in considerazione non solo le proprietà fisiche e
meccaniche, ma anche i processi esterni che li caratterizzano, come usura, manutenzione,
sostenibilità della produzione, distanza di provenienza, fino a giungere a considerare parte
integrante del progetto lo stesso “ciclo di vita”26. Anche in questa attenzione quasi ossessiva a
considerare nella maniera più estensiva possibile i rischi e le interferenze che la nuova costruzione
comporta per il paesaggio in cui si inserisce emerge il profondo senso etico del suo lavoro e il
rispetto ancestrale per l’ambiente naturale e i valori culturali che esso rappresenta per le popolazioni

23
F. Fromonot, Glenn Murcutt. Opere e progetti, op. cit., p. 35
24
“Caratterizzato, dunque, il territorio nordico dalla presenza di piccoli raggruppamenti sociali sparsi su una superficie
davvero molto estesa, avendo rifiutato l’opportunità di raccogliersi in comunità concentrate - per difendersi o
semplicemente per favorire gli scambi -, questi popoli hanno sviluppato una originale capacità di convivenza con la
natura, assolutamente sconosciuta agli altri popoli europei, basata non tanto sulle abilità acquisite nel tempo per
dominarla - cosa alquanto impossibile -, quanto piuttosto sull’intuizione che solo attraverso una rapporto armonico
l’uomo può riuscire a evitarne le durezze, senza tuttavia dover rinunciare ai benefici”. In G. Postiglione, La natura
come paradigma. Architettura e paesaggio nei Paesi Nordici, in “Ananke” n. 44/1999
25
“Per quanto derivato da modelli europei, il woolshed è stato per necessità rapidamente adattato al contesto
australiano. E’ un’architettura legata a una produzione calcolata in modo che funzioni efficacemente, integrando le
condizioni geografiche e climatiche. La sua forma traduce le attività che vi si svolgono e lo spazio interno è diviso in
bassi box (...). La sua lunghezza è proporzionale all’importanza dell’azienda; la sua altezza è appena sufficiente perché
l’aria calda possa innalzarsi e raffreddare l’interno per convezione. L’inclinazione del tetto è calcolata in modo che la
condensa scorra lateralmente attraverso la sua faccia inferiore, guidata dalle ondulazioni della lamiera, senza gocciolare
all’interno. Il pavimento è sopraelevato per isolare l’edificio dall’umidità del terreno, ventilarlo e offrire un riparo alle
greggi”. In F. Fromonot, Glenn Murcutt. Opere e progetti, op. cit., p. 28
26
Cfr.: N. Flora, Casa Meagher, in “Area” n. 39/1999
Marinelli/Postiglione - Touch this earth lightly. Cultura aborigena e forma costruita - aprile 1999 - 7
aborigene. Ciò può comportare talvolta l’impiego ricorrente di alcuni materiali - quali ad esempio la
lamiera ondulata - o la ripetizione di alcune soluzioni tipologiche - come ad esempio la falda
aggettante del tetto o le verande -. Ma nel lavoro di Murcutt le ripetizioni non sono mai né celate né
rappresentano una griffe, esse sono invece la logica conseguenza delle premesse che sostanziano e
precedono la redazione del progetto, perché - come afferma F. Fromonot - “la bellezza è per lui la
conseguenza logica di risposte giuste a domande ben poste”27.
Tutte queste considerazioni rafforzano il carattere di continuità che l’opera dell’architetto
australiano è capace di instaurare con la più schietta tradizione abitativa del luogo, riprendendo quei
criteri e quei principi insediativi riconosciuti essere specifici delle costruzioni vernacolari: clima e
topografia; materiali reperibili, livello di tecnologia posseduto e risorse economiche disponibili;
attività e abitudini sociali. Per questo motivo non meraviglia il fatto che l’esempio più significativo
di abitazione prefabbricata realizzata dal governo australiano come sostegno alle famiglie degli
aborigeni, abitanti e “guardiani” di questo immenso territorio ben prima dell’invasione coloniale
britannica, sia stato firmato da Murcutt. La casa, progettata per la famiglia di artisti aborigeni
Marika-Alderton28, è pensata all’insegna del più rigoroso “funzionalismo ecologico”, riconosciuto
come una delle cifre dell’opera dell’architetto, a causa della estrema ristrettezza del budget messo a
disposizione dal governo e della assoluta mancanza di maestranze adeguate nel territorio di
Yirrkala, nel Northern Territory, dove la casa è stata realizzata. Ciò ha comportato un progetto che
tenesse conto delle difficoltà derivanti da un trasporto troppo ingombrante e, soprattutto, di una
estrema semplicità della fase di montaggio, realizzato alla fine in poche settimane solo da due
operai inviati sul posto insieme all’imballaggio della casa.
“La casa si presenta come un volume allungato completamente sollevato da terra, caratterizzato da
una battuta ritmica di aperture lungo tutto il perimetro dell’edificio che ne palesa anche l’impianto
modulare. Alla chiusura delle bucature, provvedono altrettanti pannelli a ribalta che si differenziano
l’uno dall’altro in relazione alle attività che si svolgono negli ambienti che servono e alla loro
esposizione […]. Ciò consente di ottenere l’indispensabile ventilazione interna anche durante la
notte, preservando allo stesso tempo la necessaria privacy dell’interno. I pannelli a ribalta restano
aperti durante il giorno e lasciano la casa completamente permeabile all’ambiente naturale che la
circonda, proponendo l’idea primordiale della dimora come di un luogo individuato principalmente
attraverso la sua copertura”.
Questo lavoro presenta anche un ulteriore elemento di originalità, poiché sia Murcutt sia la ditta
che ha fornito tutta la carpenteria metallica per le strutture hanno dato gratuitamente lavoro e
materiali, entrambi per appoggiare un progetto governativo che rappresenta una valida alternativa
alla tipica edilizia squallida e senza qualità che contraddistingue di solito gli interventi pubblici in
favore degli aborigeni.

27
F. Fromonot, Glenn Murcutt. Opere e progetti, op. cit., p. 33
28
G. Postiglione, Casa Marika-Alderton, in “Area” n. 34/1997, p.
Marinelli/Postiglione - Touch this earth lightly. Cultura aborigena e forma costruita - aprile 1999 - 8

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