Geografia
Università degli Studi di Roma La Sapienza
39 pag.
1. Introduzione
L’identità è stata interpretata in molti modi: è stata considerata una condizione, un processo, un diretto
riflesso della condizione sociale, una variabile dipendente della struttura sociale, o, al contrario, totalmente
indipendente da essa; in ogni caso, la sua interpretazione ha risentito dell’atteggiamento riduzionista che
descrive soggetto, oggetto osservato e contesto come entità tra loro effettivamente distinte.
In epoca premoderna, l’identità è eteroreferenziata, per effetto di un banale adattamento a modelli prestabiliti
che, la fanno dipendere dal ruolo assegnato nell’ordine divino. Nell’Illuminismo, Cartesio e Locke
contribuiscono a definire ‘identità come condizione tipica dell’individuo razionale: l’attribuzione e l’auto
attribuzione identitaria incominciano a scaturire non più da un’autorità indiscussa ed esterna al sistema
(legittimazione divina) ma della funzione svolta dall’individuo nella società. In una modernità più matura
(Otto-Novecento), l’identità diventa frutto dell’interazione tra individuo e società ma il processo di co-
evoluzione, banalmente reificato, è ritenuto esistere di per sé, quindi oggettivamente individuabile, definito,
descritto. Un più elevato livello di complessità è rilevabile in alcuni approcci marxisti, secondo i quali
l’identità risente della struttura sociale e la riflette in tutte le sue componenti e contraddizioni e, come per
Lacan, l’unitarietà che viene fatta corrispondere all’individuo è un’illusione: la dipendenza della struttura
sociale è così forte che il processo identitario è lento e sembra una condizione non facilmente modificabile
nel breve.
L’atteggiamento attualmente prevalente è fondato su un riduzionismo che porta con sé la certezza
dell’esistenza di una realtà oggettiva e perfettamente conoscibile da chi disponga degli strumenti adatti a
svelarla. Solo negli approcci sistemici più recenti (detti della seconda cibernetica) l’identità attribuita
all’oggetto osservata è fatta dipendere dalle scelte e dagli obiettivi dell’osservatore. Per la cibernetica si tratta
di una svolta paradigmatica verso un soggettivismo che si sovrappone alla già maturata problematizzazione
del rapporto tra oggetto e contesto.
Il concetto di territorio ha assunto spesso significati circoscrivibili ad ambiti politici o politico-militari,
richiamando forme di dominio o controllo proprie di quella ce per gli etologi è la territorialità animale; meno
frequentemente esso ha assunto significati più pregnanti che lo rendono metafora del processo di
compenetrazione delle dimensioni fisica e sociale della Terra.
Nuove relazioni riducono la rilevanza delle accezioni di territorio riferite alla dimensione del controllo. Le
logiche reticolari potrebbero indurre a ridimensionare l’importanza attribuita ai confini nazionali e con essa
quella attribuita al territorio. Insomma, i territori rappresenterebbero “il vecchio” e le reti “il nuovo”;
tuttavia, nell’onda lunga del post-strutturalismo che ha rivisitato molti dei più utilizzati concetti geografici, il
territorio si ripropone come strumento ancora meritevole di attenzione.
3. Identità territoriale
Per quanto detto, l’osservatore è radicalmente integrato nella propria descrizione e il suo atto di conoscere è
“un’azione che modifica l’oggetto e che non lo raggiunge, dunque, che attraverso le trasformazioni introdotte
da quest’azione […] Il soggetto […] affonda nell’oggetto […] e reagisce sull’oggetto arricchendolo degli
apporto dell’azione”. Insomma, la realtà è sempre più da intendere come costruzione sociale.
Le conseguenze sul modo di interpretare lo spazio sono rilevanti. Lo studio dello spazio si concentra non più
sull’enumerazione die suoi contenuti ma sui rapporti sociali ad esso sottesi, aggiungendo alle sue
rappresentazioni ulteriori livelli (sintattico e simbolico-ideologico), che contribuiscono a rendere
l’oggettività geografica “non solo relativa, ma anche limitata dal continuo mutare dei contesti”.
Una delle più importanti conseguenze della diffusione dei nuovi punti di vista può essere considerata la
convinzione che, come sottolinea Soja, lo spazio sociale incorpori e condizioni tanto lo spazio cognitivo
quando lo spazio naturale.
Nuovi significati di spazio creano le premesse per concepire il territorio come una combinazione della
socializzazione umana con le altre dimensioni “non umane” della Terra; combinazione in cui la dimensione
sociale si profila come prioritaria rispetto alle altre:
La descrizione geografica non è un insieme qualunque di immagini mentali soggettive. La sua soggettività è
sempre collettiva, il suo significato è pubblico. Sono geografiche quelle rappresentazioni in cui la scelta
degli oggetti rappresentati obbedisce a regole implicite, accettate da una comunità, da un gruppo […].
Perciò lo spazio ambiente rappresentato dalla geografia è solo indirettamente lo spazio dei rapporti tra gli
individui e la natura terrestre. Esso è innanzitutto quello dei rapporti degli individui tra loro, rapporto
attraverso i quali essi socialmente intervengono sugli ecosistemi terrestri. La geografia non è la
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L’identità di un territorio è un concetto che si presta a molte interpretazioni e che assume molte accezioni e
varianti, ma dal punto di vista che andiamo definendo, essa dipende dalle caratteristiche organizzative e dalla
funzione che si ritiene il territorio svolga nel sistema generale (lo spazio). L’identità è ridefinita come
processo dipendente dal senso che l’osservatore ha inteso imprimere alla propria osservazione. Il territorio
può essere pensato come una porzione di spazio socialmente prodotto, le cui caratteristiche dipendono dai
criteri che l’osservatore ha scelto per selezionarlo/delimitarlo.
La scelta di una scala ottimale alla quale ancorare la dimensione “territoriale”, quindi, non è un atto banale.
Si attivano meccanismi d’inclusione/esclusione, soggettivamente adottati, che definiscono l’interno e
l’esterno del sistema, la sua organizzazione, i suoi obiettivi, la sua identità. L’oggettività e il successo
attribuiti ai risultati dipenderanno dal grado di consenso che la scala scelta riesce a suscitare.
Agli occhi dell’osservatore, leggi, usi, tradizioni e, in generale, norme di comportamento definiscono
l’organizzazione del sistema e, quindi, la sua identità. Il rispetto di tali regole è solitamente associato a un
senso di appartenenza. La coerenza del comportamento individuale con le regole e le esigenze comunitarie,
se nel breve periodo può essere accidentale, nel lungo non può essere altro che conseguenza di effettiva
condivisione o d’imposizione degli obiettivi scaturiti dal confronto tra ogni soggettiva rappresentazione.
L’identità territoriale è quindi un’organizzazione “finalizzata” che resta relativamente stabile finché i
processi di accomodamento riescono a compensare quelli di assimilazione. Vincoli formali e, soprattutto
informali, sono espressione dei valori localmente condivisi e che, di solito, mutano molto lentamente. La
stabilità o il successo che l’osservatore attribuisce all’identità di un territorio dipendono, nel concreto, da
quanto le scelte operate o le contingenze intervenute risultano coerenti e compatibili con il dominio
cognitivo di quel sistema territoriale.
L’insuccesso di un territorio può attribuirsi a uno scollamento talmente ampio tra le rappresentazioni e gli
obiettivi dei policy makers e quelli del resto della comunità da rendere impossibile la realizzazione delle
“prescrizioni genetiche” del sistema.
L’obiettivo ultimo che in questi casi sembra muovere l’interesse degli studiosi è la ricerca di soluzioni al
dilemma delle differenti capacità territoriali di produrre valore economico, sul modello delle esperienze
ritenute di successo, trascurando l’eventualità che quei modi di produrre ricchezza potrebbero rappresentare
un obiettivo localmente non prioritario. In particolare, la ricerca sui distretti industriali italiani ha impresso
un grande impulso agli studi sull’identità territoriale e ha indotto una dipendenza dal sentiero che non si è
limitata a sollecitare la ricerca su territori “altri” ma, collateralmente, ha finito per precostituire anche le loro
qualità identitarie.
Se l’identità è intesa come una rappresentazione soggettivamente variabile e non necessariamente
condivisibile, non può stupire che, come rileva Pichierri, “la rappresentazione della regione proposta dagli
attori nazionali e dalle élite locali che l’hanno costruita [possa essere] più condivisa all’esterno che
all’interno della regione stessa”
1. Il punto di vista del redattore del progetto non è gerarchicamente sovraimposto o sottoposto ad alcun
altro; vale a dire che ogni osservazione ha una propria fondatezza, compresa quella del progettista;
2. Per quanto possa essere elevato il dettaglio definitorio, è impossibile giungere a una sintesi efficace
e universale dell’identità di un territorio; consegue che l’agire individuale sarà continuamente
accompagnato da confronti e conflitti con rappresentazioni/azioni concorrenti.
5. Considerazioni finali e conclusioni. Identità territoriale nel progetto e identità del progetto
territoriale
Il territorio che si crede di rappresentare è in realtà costruito dall’osservazione stessa.
Se l’identità territoriale non si rappresenta ma si costruisce, sembra rilevante chiedersi non tanto “chi siamo”,
quanto “come siamo stati rappresentati”. La ricerca sui discorsi dello sviluppo indica la necessità non
d’inventariare le identità territoriali ma di interferire con esse.
L’enumerazione e le connessioni dei cespiti territoriali perde d’efficacia nel livello sintattico e si arena di
fronte al livello simbolico ideologico. Essa rischia di rimanere un catalogo di vincoli e possibilità. Si riduce
l’importanza della distinzione tra materiale e immateriale.
L’inventario delle risorse contenuto nelle diagnosi territoriali che solitamente introducono i piani strategici
comunica qualcosa circa il ruolo che il pianificatore ha attribuito a quegli elementi, ma non esprime l’identità
del territorio.
Un modo per liberarsi dalla retorica è rinunciare all’uso del concetto d’identità territoriale.
All’atto pratico, la città ispira all’antropologo un ricorrente disagio di localizzazione. Il luogo sembra non
bastare più. C’è sempre bisogno di circoscrivere. E di riannodare i fili, di allargare gli orizzonti. Se infatti il
nesso tra cultura, identità e luoghi, nel tempo della globalizzazione, sembra impossibile da riproporre anche
in forme deboli, si complica la ricerca di un “noi” che dia consistenza a un “qui”.
Il tema delle identità territoriali è tutt’altro che scomparso dal dibattito pubblico. Circostanza altrettanto
decisiva è che non sono scomparse nemmeno le strategie localizzanti della ricerca etnografica. E oggi più
che mai gli antropologi lavorano nelle città.
Il percorso che si tenterà di abbozzare nelle prossime pagine, punterà, come possibile risposta a questi
problemi, sulle nozioni di luogo, e sul modo in cui nel luogo si addensano significati, memorie e risorse
narrative. Valorizzerà il ruolo della parola e della polifonia, in una strategia di ricerca che chi scrive ha
cercato di sviluppare entro diverse ricerche in Italia nel corso degli anni Duemila. E finirà per sostenere
l’importanza cruciale del concetto di stile per un’antropologia delle identità territoriali.
Tra il 2007 e il 2008 ho lavorato con i miei colleghi di Anthropolis nel rione romano dell’Esquilino. Anne
Marie Seronde Babonaux descrive questa zona mediante un’immagine, quella della piattaforma girevole, che
caratterizza questo terreno come qualcosa che più urbano, fluido e moderno non potrebbe essere. Area di
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“Qui c’era una panetteria”; “è là che abitava la signora Dupuis”. Colpisce qui il fatto che i luoghi vissuto
sono come delle presenze di assenze. Ciò che si mostra disegna ciò che non c’è più: “vedete, qui c’era---“,
ma non si vede più. I dimostrativi dicono le identità invisibili del visibile. La definizione stessa del luogo, in
effetti, consiste in queste serie di spostamenti e di effetti fra gli strati frammentati che lo compongono e nel
giocare su questi spessori mobili. Non c’è luogo che non sia ossessionato da molteplici fantasmi, avvolti nel
silenzio e che si possono evocare o meno. Si abitano solo luoghi popolati da spettri.
Per De Certeau le voci dell’abitare, rispetto all’alienante sistema urbano, costituiscono improvvisati scarti e
resistenze, più che cucire appartenenze, dialoghi e contesti. Ma la precisione con cui è caratterizzata una
dimensione essenziale dell’abitare trova riscontro in quella che è un’esperienza ricorrente dell’etnografo,
nella quale ciò che c’è, lì, è ben visibile, viene curiosamente illustrato attraverso ciò che non c’è più.
Intervista a una donna che ha casa e negozio all’Esquilino e racconta come è cambiato qui, in una modalità
che rende bene la significatività e il livello di elaborazione del luogo:
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L’ipotesi è che in modalità come queste il luogo parli e si possa ascoltare. Anche in mancanza di una “vita di
quartiere” che consideriamo funzionante. Qui c’è un senso del luogo che emerge in connessione con una
pratica etnografica di ascolto, che esclude probabilmente quelli che parcheggiano e vanno a dormire, ma
forse ne trova meno di quanti ci si aspetterebbe. E le suggestioni di De Certeau possono aiutare a introdurre
diverse importanti questioni collegate, anche se qui necessariamente in forma di accenni.
Le identità invisibili del visibile. Sarebbe sbagliato contrapporre le “parole” alle “cose come stanno”, anziché
riconoscere che anche le prime fanno parte delle seconde. Se, come credo, noi siamo fatti delle storie che
raccontiamo e da cui siamo raccontati, possiamo supporre che ciò che rende oggi “raccontabile” in certi
termini un certo luogo, abbia molto a che fare con i modi dello “stare” al suo interno. Tutto ciò è “invisibile”
anche nel senso che può sfuggire a chi voglia pensare, progettare, costruire, riformare, valorizzare i territori.
Ma rientra appunto negli sforzi, presenti, ad esempio, nello stesso dibattito urbanistico, per rendere più aperti
e capaci di ascolto i sistemi, i saperi e i processi progettuali. Come dice Ricoeur “un abisso può separare le
regole di razionalità di un progetto dalle regole di ricezione da parte di un pubblico – cosa valida d’altronde
per ogni politica”. E in questo senso, nell’insieme delle “pratiche”, la voce e la parola i trovano in una
posizione particolare, di snodo fra il livello della vita quotidiana della presa di posizione, per quanto
episodica.
I luoghi vissuti. Il concetto di luogo, da Merleau-Pontu a Heidegger, a Casey, tiene insieme gli aspetti fisici e
simbolici del contesto. È un contesto che si dispiega a partire dall’esperienza corporea, dal movimento,
dall’azione fisica, dalla familiarità con le cose. L’addensarsi, l’avere e il mantenere luogo, di memorie,
racconti, linguaggi, pensieri, conoscenza del luogo e conoscenza locale, significati condivisi e contesti
significativi. È stato proposto da Casey come la dimensione più concreta e universale di ciò che possiamo
chiamare cultura.
Presenza di assenze. L’emplacement di Casey ha a che fare con la dimensione sociale della memoria. Parlare
di racconto del luogo potrebbe essere un modo più flessibile per evidenziare delle risorse condivise, delle
trame ricorrenti, dei passaggi contestati, fra soggetti differenti. Un lavoro di memoria che non ha a che fare
solo col passato, ma anche col presente e il futuro. In particolare certe forme al negativo mi sembrano spesso
impropriamente appiattite su di una concezione “povera” di nostalgia, retrospettiva e sentimentale. Mentre
queste rappresentazioni del luogo in forma di nostalgie possono realizzare diverse operazioni significative.
Individuare un “presente culturale”, che corrisponde un po’ al “cosa sta succedendo qui” geertziano, la
situazione che il contesto sta attraversando. Individuarlo ponendo una frattura nel tempo che lo separino da
una fase precedete, mettendosi più o meno esplicitamente in relazione con il sapere storico in senso stretto.
Al tempo stesso, mostrano la capacità di decontestualizzare frammenti desiderabili del passato,
ricontestualizzandoli in vista del futuro.
Si abitano solo luoghi popolati da spettri. Nel dialogo etnografico e in particolare nell’intervista, il senso del
luogo emerge dall’incrocio di quella che potremmo chiamare “conoscenza del luogo”, da una parte, e
“costruzione della voce”, dall’altra. Il primo è un presupposto metodologico che forse l’antropologo porta
effettivamente con sé dal suo studio nei villaggi: l’idea dell’essere un nuovo arrivato e che l’interlocutore sia
più competente di lui su quel che succede. La seconda ha piuttosto a che fare col perché dirlo. Corrisponde
alla costruzione di un narratore protagonista, o di un narratore- testimone. Un’assunzione di ruolo che forse
quello che parcheggia e se ne va non vorrà fare. Molti altri, invece, si. L’idea è che id un luogo, perché sia
tale, si deve poter raccontare la storia dall’interno.
Giocare su questi spessori mobili. La ridondanza delle risorse narrative che si addensano intorno ai luoghi
permette varietà di percorsi interni, convergenze e divergenze, micro conflitti e polifonie. Simonicca ha
proposto di vedere le identità locali come simbiosi di “internità” ed “esternità”, che si attribuiscono a se
stessi, e ad altri, e reciprocamente, come in una sorta di gioco di specchi. Io aggiungerei che l’ascolto delle
voci locali può far emergere differenti modelli narrativi di internità ed esternità che aiutano probabilmente ad
identificare punti critici e conflitti.
A questo punto sono necessarie due puntualizzazioni. La prima riguarda l’auto-rappresentazione. Si protesta
l’automatismo della sua attribuzione. È azzardato dare per scontato il riferimento a un insieme più o meno
compatto e capace di riproduzione sociale. È anche possibile che si il qui a reggere il noi. La seconda
puntualizzazione è che all’Esquilino la distinzione tra italiani e altri aveva senso dal punto di vista della
ricerca. È estremamente probabile che i nuovi arrivati, da un certo momento assumano anche loro una certa
idea di luogo come un organizzatore di rappresentazioni.
Volendo identificare qualcosa che possa somigliare a un punto d’arrivo, ci troviamo di fronte a un lavoro di
interpretazione e di cittadinanza, agganciato a un luogo. Può essere utile la nozione di stile. Nelson Goodman
ne offre una versione caratterizzata da un’insofferenza verso gli ambiti disciplinari precostituiti che mi
sembra abbastanza compatibile con la vocazione esplorativa dell’antropologia: “una caratteristica complessa
che serve come una firma individuale e collettiva”. Stile può essere la scelta dei fantasmi da evocare, l’uso
più o meno insistito di episodi biografici o la menzione di personaggi famosi. Così si può parlare di una
riconoscibilità sia del racconto del luogo, sia dei modelli diversi e concorrenti in cui si articola, sia delle
peculiarità del singolo testimone.
Lo stile funziona come una firma, ma non lo è. Non è una caratteristica autonoma e assoluta, ma relativa a
obiettivi e percorsi di lettura.
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Il tema dell’identità, così come quello della comunità spesso ad esso connesso, sono temi che da una parte
sono espressione di un bisogno personale e sociale e riflettono la considerazione di un valore molto sentito
rispetto anche alla qualità dell’abitare e alle forme di convivenza, e dall’altra sono fortemente caricati di
idealità così come di aspettative.
La rilevanza della questione che ne consegue, sembra riflettere gli esiti di processi sociali, economici e
culturali che stanno determinando modificazioni profonde nelle nostre società così come delle nostre città.
La rapida innovazione che ha comportato repentini salti generazionali, trasformazioni urbane, sociali e
culturali che hanno travolto completamente tradizioni consolidate e modelli “stabilizzati”.
Pesano sia i cambiamenti, che introducono anche insicurezza, che le modalità con cui avvengono. D’altronde
le identità passate non ci sono veramente più, non ci rappresentano più.
Ma è cambiato anche il modo con cui si forma l’identità. La cultura moderna e l’organizzazione in Stati-
nazione fondava volto l’identità sull’appartenenza ad un certo contesto territoriale e alla comunità politica
che vi era insediata. Peraltro introducendo un elemento di forte rottura rispetto anche alle modalità con cui
precedentemente si formavano le identità.
I temi dell’identità sono difficili da trattare per la complessità dei problemi implicati, perché esiste un
discorso sull’identità a livello personale e uno a livello sociale.
D’altronde sono notevoli i rischi del pensare la “produzione di identità”. La reazione ai processi esistenti ha
spinto qualche volta, se non spesso, a porre l’identità come un obiettivo del progetto e della pianificazione
stessa. L’identità non può essere pianificata. Risulta chiara a tutti la pericolosità di una prospettiva di
pianificazione sociale e culturale.
Intanto, bisogna subito spostarsi da un approccio strettamente “categoriale” ed essenziali sta all’identità, a
una dimensione processuale dell’identità che apre a un’interpretazione plurale, relazione ed evolutiva nel
tempo. L’identità è un prodotto sociale e culturale, l’identità è l’esito di un processo sociale complesso.
Nel ragionare su questi temi, sembra importante un approccio che tenga insieme le diverse dimensioni: una
lettura del reciproco intrecciarsi tra processi sociali ed economici di livello macro nei loro effetti anche a
livello locale, da una parte, e processi di “produzione sociale” dal basso, negli specifici contesti e nelle
condizioni di vita quotidiana, dall’altra; una lettura della stretta connessione tra dimensione materiale, anche
nei suoi aspetti fisici e strutturali, e dimensione immateriale, con il suo portato di vissuti, significati e valori
simbolici.
Un ruolo rilevante giocano infatti i processi di individualizzazione, i modi cioè con cui ogni persona si
rapporta e si definisce rispetto ai processi in cui è immersa.
Agamben spiega bene come i processi di individualizzazione si pongano in una dinamica tra oggettivazione
e assoggettamento, riprendendo il concetto di “dispositivo” di Foucault:
vi propongo nulla di meno che una generale e massiccia partizione dell’esistente in due gruppi o classi: da
una parte gli esseri viventi e dall’altra i dispositivi in cui essi vengono incessantemente catturati […]
chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo capacità di catturare, orientare,
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Allo stesso tempo, sempre Agamben ci mette in guardia da come questi processi si configurano nella
“metropoli” attuale:
Non vi è quindi crescita e sviluppo dell’antico modello di città, ma una sorta di rottura storica e
epistemologica che coincide con l’instaurarsi di un nuovo paradigma, i cui caratteri si tratta di analizzare.
Una prima costatazione è che si assiste qui innanzitutto al progressivo tramonto del modello della polis
incentrato essenzialmente sulla dimensione pubblica e politica. Benché la città abbia cercato di difendere
come ha potuto la sua originaria natura di organismo politico (e questa resistenza ha prodotto ancora in
tempi relativamente recenti episodi di straordinaria intensità politica), è certo però che, nella nuova
spazializzazione metropolitana, è all’opera una tendenza de-politicizzante, il cui esito estremo è la creazione
di una zona di assoluta indifferenza fra privato e pubblico. Questa neutralizzazione dello spazio urbano è
oggi un fatto a tal punto acquisito, che non ci si meraviglia che le piazze e le strade della città siano
trasformate dalle videocamere in interni di un’immensa prigione.
La metropoli è, dunque, lo spazio che risulta da questa serie complessa di dispositivi di controllo e di
governo. Ma ogni dispositivo implica necessariamente un processo di soggettivazione, e ogni processo di
soggettivazione implica una possibile resistenza, un possibile corpo a corpo col dispositivo in cui l’individuo
è stato catturato o si è lasciato catturare. Per questo, se si vuole comprendere una metropoli, accanto
all’analisi dei dispositivi di controllo, di distribuzione e di governo degli spazi, è necessario conoscere e
indagare i processi di soggettivazione che questi dispositivi necessariamente producono. È perché una tale
conoscenza manca p è insufficiente, che i conflitti metropolitani appaiono oggi così enigmatici. Poiché la
possibilità e l’esito di tali conflitti dipenderà, in ultima analisi, dalla capacità di intervenire sui processi di
soggettivazione non meno che sui dispositivi, per portare alla luce quell’Ingovernabile che è l’inizio e,
insieme, il punto di fuga di ogni politica.
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1. Le mappe di comunità
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La mappa di comunità è uno strumento con cui gli abitanti di un determinato luogo hanno la possibilità di
rappresentare il patrimonio, il paesaggio, i saperi in cui si riconoscono e che desiderano trasmettere alle
nuove generazioni. Evidenzia il modo con cui la comunità locale vede, percepisce, attribuisce valore al
proprio territorio, alle sue memorie, alle sue trasformazioni, alla sua realtà attuale e come vorrebbe che
fosse in futuro. Consiste in una rappresentazione cartografica o in un qualsiasi altro prodotto od elaborato
in cui la comunità si può identificare.
Viene in tal modo esplicitato un concetto “nuovo” di territorio, che non è solo il luogo in cui si vive e si
lavora, ma che pure conserva la storia degli uomini che lo hanno abitato e trasformato in passato, i segni
che lo hanno caratterizzato. Vi è la consapevolezza che il territorio, qualunque esso sia, contenga un
patrimonio diffuso, ricco di dettagli e soprattutto di una fittissima rete di rapporti e interrelazioni tra i tanti
elementi che lo contraddistinguono.
La mappa è un processo culturale introdotto in Inghilterra all’inizio degli anni Ottanta e poi ampiamente
sperimentato, tramite il quale una comunità disegna i contorni del proprio patrimonio; è più di un semplice
inventario di beni materiali e immateriali, in quanto include un insieme di relazioni invisibili fra questi
elementi. Deve essere costituita col concorso dei residenti e far emergere tali relazioni. Non si riduce quindi
ad una ‘fotografia’ del territorio ma comprende anche il “processo con cui lo si fotografa”.
Predisporre una mappa di comunità significa avviare un percorso finalizzato ad ottenere un “archivio”
permanente, e ’sempre aggiornabile’, delle persone e dei luoghi di un territorio. Eviterà la perdita delle
conoscenze puntuali dei luoghi, quelle che sono espressione di saggezze sedimentate raggiunte con il
contributo di generazioni e generazioni. Un luogo che include memorie, spesso collettive, azioni e reazioni,
valori e fatti numerosi e complessi che a volte sono più vicini alla gente che non alla geografia, ai sentimenti
che non all’estensione territoriale.
In primo luogo, le origini. Le mappe che, sempre più numerose, si vanno realizzando principalmente in
Europa, trovano la loro genesi in uno strumento concepito negli scorsi anni ’80, dovuto all’intuizione, che
tutte le fonti in materia definiscono “felice”, di Common Ground, charity britannica. L’associazione, si era
data l’obiettivo di promuovere “the common, local and everyday cultural heritage, and to link conservation
and the arts”.
La concezione dei luoghi come specifiche intersezioni di cultura e natura e l’accento posto sulla volontà di
far emergere la local distinctiveness, che rende peculiare ciascun luogo, hanno portato successivamente
all’avvio del progetto “Parish Maps”, dove il qualificativo non pone attenzione a un luogo definito da rigide
delimitazioni amministrative civili o ecclesiastiche, ma punta ad identificare come venga auto riconosciuta
dagli insiders “la più piccola arena in cui la vita è vissuta”.
Nelle intenzioni di Common Ground, il progetto era pensato in funzione di piccole collettività, ma voleva
coinvolgere anche le realtà urbane. Coerentemente con la propria mission, la Charity affidò il compito di
creare le prime mappe ad alcuni artisti che dovevano farsi interpreti del significato del luogo quale emergeva
dalla percezione delle comunità coinvolte.
Quest’esperienza trovò la sua consacrazione pochi anni più tardi, grazie alle celebrazioni del Millennium del
West Sussex, che raccoglieva oltre sessanta parish maps.
Quanto all’Italia, fu l’IRES Piemonte a manifestare il primo interesse per le mappe di comunità. Il medesimo
istituto diede inoltre un impulso decisivo alla nascita di Mondi locali. Tra le principali finalità figurano le
azioni in favore dell’identità locale, che sono portate avanti tramite progetti comuni e mirati. La
Dichiarazione di Trento pone un forte accento sull’importanza del networking a livello nazionale e dalla più
vasta rete europea di cui Mondi locali fa parte: si tratta di un’autentica necessità, perché le attività
ecomuseali sono in genere molto innovative, e dunque, il bagaglio di pratiche sperimentali cui possono
ricorrere è molto ridotto.
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6. Progettazione partecipata: il contributo dei metodi della Psicologia Ambientale alla gestione
ambientale urbana
La città, intesa sia come spazio che come comunità sociale, viene considerata dalla PA quale sede
privilegiata dello sviluppo di identità personali del luogo. Diventa quindi possibile considerare la città come
fonte e fondamento dei processi identitari personali. Tali processi possono diventare particolarmente salienti
e importanti proprio nei processi di trasformazione e riprogettazione della città, ovvero una progettazione sia
architettonica che urbanistica, fondata sulla partecipazione e coinvolgimento dell’utenza.
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1. Premessa
La difficoltà intrinseca di definire i caratteri identitari di un territorio, legata alla stratificazione plurisecolare
delle componenti geostoriche in esso sottese o, per converso, alla loro assenza, è oggi ancor più accentuata
dallo stravolgimento dei generi di vita tradizionali e dalle profonde trasformazioni economico-sociali che,
hanno profondamente modificato i rapporti tra collettività e ambiente, anche dal punto di vista percettivo.
Se i centri collinari sono in gran parte rimesti legati a forme tradizionali di economia e, proprio in virtù del
loro “sottosviluppo”, hanno conservato pressoché intatti legami con le proprie identità culturali, i grandi
centri di inaura si sono invece significativamente trasformati. Solo da qualche decennio, infatti, la cura per
l’ambiente e il paesaggio nonché l’attenzione verso i valori geostorici e identitari dei territori e delle
collettività che li popolano, sono divenuti concetti pienamente legittimati e assurti all’attenzione dei
legislatori e dell’opinione pubblica.
Nell’ambito di tale “campagna” di sensibilizzazione emerge con particolare evidenza il problema di alcune
periferie. La marginalità e la scarsa qualità dei servizi di questi spazi periferici è stata nondimeno per lunghi
anni ritenuta “normale” e niente affatto scandalosa. La distanza dal centro urbano e l’assenza di un’identità
geografica riconoscibile hanno finito spesso con l’indurre nella percezione collettiva dei territori periferici la
convinzione che fossero una sorta di eschatià (terra di nessuno), offrendo più facilmente il fianco a fenomeni
di degrado sociale e culturale.
Si tratta di zone d’ombra, snaturate da alterazioni paesaggistiche che ne hanno occultato il genius loci, la cui
immagine è stata spesso fatta coincidere in toto con fenomeni negativi fortemente connotativi. Tra queste
aree periferiche il quartiere di Scampia è divenuto tristemente famoso presso il grande pubblico; soprattutto
grazie alla spettrale effigie delle Vele. Scampia si è trasformata infatti nel simbolo del profondo degrado
sociale, morale e ambientale di una parte della Campania. Di una visione complessiva di quest’area
periferica, attraverso la riscoperta dei suoi elementi geografici e storici originali, può essere allora un valido
baluardo da contrapporre all’icona negativa che oggi la connota univocamente.
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5. Conclusioni
È ormai palese la necessità di prestare maggiore attenzione alle aree periferiche “al fine di costruire ‘presidi
identitari’. Capaci di fornire un contributo ad un processo di costruzione del legame sociale. Ma perché il
recupero identitario di Scampia sia strettamente collegato alla possibilità di accrescerne durevolmente il
benessere e lo sviluppo, bisogna che al recupero sul piano culturale si affianchi quello materiale. Il recupero
dell’identità territoriale gioca un ruolo fondamentale, perché evidenzia l’esistenza di nuovi rapporto tra centri
e periferie, dove non sempre sono i primi a dare impulso e sviluppo ai secondi.
1. Introduzione
Il concetto di identità territoriale mette in relazione due termini, quello di identità e quello di territorio.
Ancora più complessa è forse la sfida posta dall’operazionalizzazione di tale concetto.
Il contesto da noi scelto per tarare gli strumenti e gli indicatori ritenuti più idonei per la rilevazione delle
identità territoriali è l’ambito urbano proprio perché la crescente complessità delle città ci sollecita ad
elaborare nuovi linguaggi e nuovi strumenti d’analisi che cerchino di catturare i tratti principali di questa
complessità. Il caso di studio è la Marina, uno dei quattro quartieri storici di Cagliari. In esso convivono, in
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5. Conclusioni
La Marina costituisce quello che può essere definito uno spazio “poroso, caotico, locale e imprevedibile”. La
sua stessa identità è multipla, plurale, eppure al tempo stesso coesa e riconoscibile. Si evidenzia così un
curioso paradosso, quello per il quale la riconfigurazione degli spazi non ha cancellato i suoi tratti identitari,
cosicché il quartiere ha saputo conservare la propria identità pur trasformandosi e riconquistandosi. Si
presenta come “uno spazio euristico in grado di produrre conoscenza riguardo ad alcune grandi
trasformazioni di un’epoca”, può essere applicato al quartiere inteso come laboratorio di una nuova
convivenza tra tradizione e novità, identità e cambiamento, passato e presente, nel quale si preannunciano
forse anche futuri assetti territoriali.
Metodi di coinvolgimento attivo della comunità locale: riflessioni a partire dal caso di rigenerazione
urbana di un quartiere periferico di Milano
Davide Boniforti, Ennio Ripamonti e Luca Rossetti
1. Introduzione
Il lavoro di rete incontra il tema dell’identità territoriale come rappresentazione plurale di un territorio
periferico coinvolto in un processo partecipativo scandito da diverse tappe contrassegnate da una progressiva
maggiore integrazione. Il percorso partecipativo è stato portato avanti da membri dell’equipe appartenenti a
diversi discipline.
Il processo partecipativo nel quartiere popolare di San Siro vive grazie al dispositivo legislativo dei Contratti
di Quartiere II che attua un intervento di riqualificazione urbana che origina nel superamento del degrado
fisico urbano.
5. Il ruolo dell’animazione
Animare un territorio comporta la necessità di promuovere e supportare attività volte all’integrazione sociale
e culturale. Tutto questo si traduce in esperienze di condivisione volte ad aumentare l’interazione e la
conoscenza dei diversi abitanti e delle loro provenienze, spesso mirate alla valorizzazione delle risorse
individuali e alla possibilità di considerare l’altro come soggetto in grado di soddisfare bisogni individuali e
collettivi. La gestione e l’intervento rispetto a problemi territoriali presuppone sovente la necessità di
renderli disponibili ed evidenti alla cittadinanza. A tal fine sono state realizzate attività di sensibilizzazioni
attorni a temi specifici, diverse delle quali hanno messo in moto percorsi ed interventi successivi. Si è trattato
di momenti costruiti anche con l’apporto dei soggetti della rete territoriale grazie all’esperienza dei tavoli di
lavoro. Momenti che hanno creato anch’essi le condizioni per sperimentare la possibilità di “mettere in
piazza” problemi, criticità e, nel contempo, attivare risorse, dall’interno e dall’esterno del territorio, per
coordinare azioni e buone pratiche di cittadinanza.
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1. Introduzione
Diversi autori affermano che l’identità territoriale sia un importante strumento per l’azione politica e la
pianificazione, e che esista un rapporto dialettico con lo sviluppo regionale.
Parlare di identità non è affatto semplice perché “è un concetto che si presta a molte interpretazioni e
riflessioni critiche”. Osservare i fenomeni in termini di identità è piuttosto arduo, tuttavia se li intendiamo
“osservare in termini di diversità”, occorrerà porsi dall’esterno, in modo da garantire una certa oggettività,
ma se li osserviamo “in termini di identità”, occorrerà necessariamente porsi dall’interno, ovvero “proporsi
di guardare attraverso gli occhi degli attori, ovvero di leggere i fenomeni dall’interno, e di vivere in un certo
senso tanti punti di vista quanti sono gli attori e quante sono le identità”. Quindi per cogliere “l’essenza delle
cose” occorrerà immergersi in esse.
Dalla nostra seppur parziale ricerca bibliografica emerge una certa ricorrenza definitoria negli autori
considerati. Difatti specifici elementi o condizioni ricorrono con una certa sistematicità quasi a costituire “la
base” dell’identità territoriale. Tra questi elementi e i luoghi si instaurerebbe un legame indissolubile, legame
definito da Paasi coscienza regionale o senso di appartenenza della comunità.
Nello specifico Fiori sostiene che “assumendo l’identità in senso positivo, si riconosce un ‘importanza
cruciale all’inscindibile complesso di risorse umane, istituzionali, economiche e socio-culturali, ovvero alla
specificità propria di ogni comunità a qualunque scala spaziale, più o meno consapevolmente vissuta come
tale dalla popolazione. Quindi l’identità territoriale è un concetto assai complesso e profondo, essa può
essere intesa o ipotizzata come una combinazione di identità e coscienza.
Particolarmente illuminante è poi la distinzione di Paasi tra “l’identità di una regione” e la “coscienza
regionale”. In particolare le caratteristiche naturali, culturali e degli abitanti che contraddistinguono una
regione sono attribuibili all’identità di una regione, mentre l’identità non è altro che l’identificazione di
questi con la regione. A tal proposito Fiori afferma che l’identità regionale può intendersi come “sinonimo
della consapevolezza degli abitanti di far parte, di essere, un a regione” in cui prevale la componente
antropica, in particolare sociale mentre, ci si riferisce all’identità di una regione “la cui dimensione
‘oggettiva’ potrebbe rendersi con la classica definizione di regione geografica di Ranieri ad esempio, e dove
gli elementi fisici e antropici hanno, per così dire, lo stesso peso”. L’identità di una regione indica, dunque, il
complesso di caratteristiche naturali, culturali, sociali, “utilizzate a fini classificatori” dalla scienza, dalla
politica, dal marketing regionale, con finalità vaie.
L’interpretazione del concetto assume particolare rilevanza in quei contesti come la Puglia, in cui all’identità
territoriale è riconosciuto un ruolo chiave per lo sviluppo futuro del sistema regionale.
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Un’analisi integrata quali-quantitativa per rilevare l’identità territoriale dei borghi montani
Emilia Sarno
1. Premessa
I borghi montani, soggetti a rarefazione socio-demografica, si percepiscono come nuclei fantasma a rischio
di estinzione. In questo case rilevare l’identità territoriale significa ricostruire un fenomeno duplice: la
discontinuità tra il passato il presente e il senso di appartenenza messo anch’esso in crisi.
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4. Il percorso metodologico
L’obiettivo di questa ricerca è la rilevazione dell’identità dei borghi montani in quanto luoghi problematici,
secondo le metodologie delle discipline sociali. A tal fine è necessario individuare le proprietà o gli elementi
costituivi che permettano di specificare l’oggetto della ricerca; nel caso dell’identità territoriale, gli elementi
costitutivi secondo quanto detto nel secondo paragrafo sono:
• Attori
• Territorio
• Motivazioni
• Valori
• Interazioni
• Il tempo.
Il rapporto attori – territorio va considerato tanto sul piano materiale quanto su quello socio-emotivo, che si
fonda sulla sfera motivazionale e valoriale, grazie alla quale si realizza il riconoscimento di una comunità e il
senso di appartenenza. Questi elementi si strutturano attraverso interazioni che a loro volta evolvono nel
tempo. Il pino immateriale richiede l’utilizzazione di metodologie qualitative, che permettano di raccogliere
informazioni dalla dimensione cognitiva. Il piano materiale rimanda ad indicatori come l’altitudine. Essi
facilitano la lettura diacronica del processo, ma non sono solo utili indicatori convenzionali, ma anche quelli
non convenzionali. Elementi come motivazioni e valori devono essere invece trattati come tecniche
d’indagine qualitative, in tal caso si ritiene utile il focus group.
Nevralgica è la fase di sintesi volta a comparare i dati quantitativi e qualitativi. L’obiettivo quindi non è la
giustapposizione tra i fatti e gli atteggiamenti, ma l’integrazione dei diversi piani di lettura. Pertanto per
rilevare l’identità territoriale dei borghi montani, appare opportuno seguire una strategia articolata nei
seguenti step:
In relazione ai primi due obiettivi, essi hanno ricostruito le motivazioni dei trasferimenti negli ultimi
decenni: scarsa attenzione per le imprese e per le attività commerciali, possibile occupazione solo nel settore
pubblico. Essi hanno anche individuato negli anni Ottanta del secolo scorso un discrimine tra il passato e il
presente.
Dagli anni Ottanta in poi questa dimensione è andata sfilacciandosi; le partenze unite anche alla diminuzione
delle nascite hanno segnato prima i piccoli comuni, poi i maggiori dell’aria altomolisana, rendendola sempre
più povera nella sua vita sociale. La cultura è stata intesa sia come recupero del proprio patrimonio storico,
sia come ricerca di nuove idee volte ad attivare processi economici incentrati sul turismo. Le diverse
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Progettazione Territoriale Integrata e gestione delle aree protette: esperienze in territorio reatino
Giovanni Piva, Luigi Russo e Maurizio Gallo
4. Il contesto di riferimento
Il territorio della PIT è montano. L’area è annoverata tra le più povere del Lazio. La popolazione dei comuni
è in progressivo invecchiamento. Il problema riguarda soprattutto i comuni interni, ove la popolazione
anziana è pari o superiore al 50%. Per quanto concerne i comuni interni, inoltre, si osserva un diffuso
fenomeno di “residenze fittizie”. Il fenomeno dello spopolamento, per quanto generalizzato, è accentuato nei
comuni distanti dalla città di Rieti e dalle vie di comunicazione.
La presenza immigrata, ha attenuato il fenomeno dello spopolamento e costituisce un consistente segmento
della popolazione. Nel 2002 l’Agenzia Regionale Parchi proponeva uno studio comparativo dello sviluppo
sociale ed economico delle aree naturali protette della Regione Lazio, in cui veniva registrato il primato della
Riserva. Nel citato studio, si affermava che gli interventi di valorizzazione e sviluppo economico potevano
forse avere qualche probabilità di successo solo se accompagnati e integrati da azioni di promozione sociale
della popolazione locale, e da interventi che riuscissero a reinserire i residenti anziani e soprattutto i pochi
giovani rimasti in un circuito di partecipazione e di scambio più ampio di quello minuscolo e isolato
rappresentato dai comuni di residenza. Per la Riserva Naturale tale consapevolezza ha cominciato a maturare
solo vent’anni dopo la sua istituzione.
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6. Conclusioni
La presentazione della PIT RL245 ha determinato da parte delle comunità interessate l’avvio di un percorso
di presa di coscienza identitaria. Proponendo la PIT, la Riserva Naturale Monti Navegna e Cervia ha attivato
un cammino virtuoso di superamento die propri confini proponendosi come possibile partner per l’area vasta
corrispondente. Il percorso di area vasta trova riscontro nelle altre politiche territoriali condotte dalle stesse
riserve ed è destinato a realizzare un’estensione delle rispettive aree di influenza.
Pierpaolo Pasolini, in uno dei suoi ultimi scritti sosteneva che il consumismo ha prodotto più danni del
fascismo. Anche padre Ernesto Balducci si è espresso sullo stesso tema. In particolare, parlando della sua
amata montagna dell’Amiata, ricordava che se la modernità aveva spazzato via il duro lavoro dei minatori, la
globalizzazione e i relativi prodotti avevano distrutto il lavoro artigianale, le tradizioni locali e quindi, in
definitiva l’identità di quei luoghi. In effetti, anche sulle montagne dell’Appennino ormai si sono affermati
stili di vita e comportamenti collettivi, tipici delle aree urbane, che hanno soppiantato i segni della cultura
rurale. Oggi, in questi territori fortemente segnati dal fenomeno della senilizzazione, la distanza tra i pochi
giovani rimasti e i loro nonni è abissale. Purtroppo, in alcuni piccoli borghi sono rimasti solo gli anziani, anzi
le anziane, e si contano sulle dita di una mano. Quanto in Molise, come in Abruzzo, c’è stata la possibilità di
utilizzare i fondi europei per la valorizzazione dei tratturi, per sviluppare il turismo sostenibile e riscoprire le
identità territoriali, ma qualcuno ha pensato bene di finanziarci le strade o di dirottare quei fondi in altri
progetti di minore importanza e ritorno socio-economico.
Come FederTrek, stiamo cercando di dar vita a progettualità innovative che sposino l’antico con il nuovo.
Carlo Levi diceva che il “futuro ha cuore antico”. Luca Nannipieri sottolinea l’importanza dei movimenti che
contrastano i grandi progetti che distruggono interi territori, ma anche dei tanti piccoli comitati che cercano
di difendere la piccola chiesa o le altre preziose presenze locali, che certo non fanno parte dei grandi circuiti
del turismo culturale. Spesso queste testimonianze hanno perso significato, perché, come sostiene Tiziana
Banini, è nella dimensione locale che si gioca il senso di appartenenza più intenso ed è nella dimensione
locale che gli elementi naturali e culturali assumono i significati più profondi, anche se hanno poco valore
ecosistemico o artistico.
Molti giovani si stanno attivando verso questo nuovo modo di vivere il rapporto col territorio. In questi
giorni sono venuti a trovarmi dei giovani imprenditori di Scanno che stanno organizzando, con molto
coraggio, delle attività turistiche ispirate alle caratteristiche del territorio, alla sua bellezza e alla sua
vocazione principale, che è quella di essere situata all’interno di una straordinaria area protetta. A Scanno
sono stati riattivati gli impianti di discesa da poco tempo e certamente, se non si distruggeranno altri spazi,
può andare bene; ma il modello da seguire in futuro non può essere solo questo, bisogna cercare di
valorizzare il turismo escursionistico, l’unico capace di ampliare e diversificare i flussi turistici. I giovani
imprenditori di Scanno, come altri, consapevoli dei limiti di un modello turistico ormai in forte crisi,
vogliono accompagnare le persone in montagna in modo diverso. Vogliono ripartire dall’attività dei genitori
o dei nonni, che possedevano un albergo sul lago di Scanno, per lanciare nuove forme di turismo, legate ad
esempio, alla montagna-terapia. Nel contempo intendono raccordarsi con le scuole le università, per
soggiorni legati alle attività didattiche, in un angolo del Parco d’Abruzzo Lazio e Molise ancora poco
conosciuto e con potenzialità inespresse. Se si vuole dare futuro alle nostre zone marginali bisogna investire
sulla permanenza residenziale e sul ritorno dei giovani, attivando delle effettive politiche di sviluppo
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Sono oltre 8.000 i comuni in Italia, di questi poco più di 1.900 sono sotto la soglia dei 1.000 abitanti: un
numero considerevole. La maggior parte di essi sono nelle Alpi e negli Appennini. L’Abruzzo, è una delle
regioni con il maggior numero di piccoli centri.
Tale precisazione assume rilievo anche alla luce dei provvedimenti normativi assunti del Parlamento italiano
nel 2011, obbligano i piccoli comuni alla gestione associata delle funzioni e dei servizi fondamentali. I
piccoli comuni rappresentano l’identità culturale del nostro paese. Il problema demografico continua però a
sussistere, sia come effetto della forte perdita degli anni passati, sia perché le dinamiche legate alla
formazione e alla ricerca di una attività lavorativa spingono sempre più giovani a cercare soluzioni fuori dai
ristretti ambiti sociali. In Italia, le comunità dell’appennino e delle Alpi hanno garantito con grande difficoltà
la manutenzione di una parte considerevole del territorio nazionale che, a fronte delle politiche macro-
economiche, sarebbero state abbandonate oppure deturpate da interventi poco rispondenti alla tutela del
patrimonio ambientale. Le piccole comunità hanno garantito il governo del territorio e una serie di servizi
essenziali ai cittadini, in particolare gli anziani, a fronte di una diminuzione costante di efficienza da parte
dello Stato, delle Regioni, e della riduzione costante dei trasferimenti.
I piccoli comuni sono un “cuore pulsante”. Uno strumento di democrazia sussidiaria che parte direttamente
dal basso e che nutre la propria fisionomia attorno al concetto di identità territoriale. L’identità territoriale è
la rappresentazione costante del rapporto tra il cittadino, il proprio territorio e gli strumenti di governo dello
stesso; un’identità rafforzata dalla consapevolezza della unicità del territorio e del legame profondo con gli
habitat naturali.
L’area dell’Alta Valle del fiume Sangro, nel comprensorio compreso tra Pescasseroli e Villetta Barrea di cui
Civitella Alfedena, pur essendo con i suoi 315 abitanti il paese più piccolo, è il centro geografico e culturale,
rappresenta un unicum. Si tratta di un’area a forte vocazione turistica e ad alto interesse economico che,
nonostante diverse presenze imprenditoriali rilevanti, non ha perso la propria identità e specificità.
Complessivamente, siamo un’area che ha una rilevante valenza economica all’interno della regione Abruzzo,
ma continuiamo poco, pochissimo in termini politici, molto probabilmente perché non rispondiamo in
termini di numeri alle esigenze proprie della politica, ma anche, io penso, perché spesso chi fa politica dalle
nostre parti lo fa per impegno civile, perché appartiene a questo territorio, perché è la sua terra, perché è una
parte della sua identità, perché di fatto ragioniamo in termini di interessi del territorio e non in termini di
appartenenza a quello o a quell’altro partito, gruppo o lobby.
Civitella Alfedena e Pescasseroli sono ai primi posti della graduatoria regionale per indice di turisticità.
Accanto all’identità rappresentata dalla natura in tutte le sue forme, il legame comunitario è stato rafforzato
attorniato alle specificità culturali. Tradizioni intese non solo come rapporto dinamico come il proprio
passato, ma anche come costruzione di una rete di relazioni sociali che uniscono tradizione e innovazione.
Oggi è sempre più difficile per un piccolo centro affrontare le dinamiche legate ai minori trasferimenti di
risorse, ma distruggere i luoghi, svenderli “per fare cassa” significherebbe annullare se stessi.
Eppure i nostri territori contribuiscono al progresso del sistema Italia: diamo acqua e aria pulita, biodiversità
e specificità culturale che fanno della nostra penisola un unicum internazionale. Un sistema di valori radicato
nella cultura, fortemente identitario, comunitario, solidaristico.
A fronte di questo quadro generale c’è da chiedersi in cosa risieda la nostra identità. Credo non solo nei
paesaggi, nella storia, ma anche nei connotati caratteriali. La nostra è una dimensione collettiva, dove quello
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