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Identità territoriali

Geografia
Università degli Studi di Roma La Sapienza
39 pag.

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Introduzione. Proporre, interpretare, costruire le identità territoriali
Tiziana Banini

Nella pubblicistica geografica recente, il tema dell’identità si trova spesso affrontato


nella prospettiva delle tesi poststrutturaliste e postmoderniste di derivazione
anglosassone. Dunque se ne parla soprattutto in termini di identità sociali o culturali,
ricorrendo ai concetti di spazio e di luogo, la cui semantica sfumata, meglio si presta a
rilevare i modi in cui tali identità prendono forma e interagiscono con geometrie e
strutture di potere. A fronte di relazioni e sollecitazioni che si intersecano e si
combinano continuamente, i luoghi sono intesi come “momenti spazializzati”, e delle
identità sociali e culturali se ne suggerisce una lettura dialettica tra locale e globale, in
termini di connessioni e interrelazioni, influenze e movimenti, sia rispetto ai luoghi che
ai soggetti coinvolti.
Altra geografia, invece, continua a parlare di identità territoriale, anche se non sempre
come categoria concettuale distinta, nell’ambito dei discorsi sulla territorialità, il
paesaggio, lo sviluppo locale e regionale, il patrimonio culturale, l’abitare consapevole,
responsabile e partecipativo. In questo caso, l’identità è concepita pur sempre in
riferimento alla specificità dei territori e dei legami che intercorrono con le collettività
che li vivono o praticano a vario titolo, ma sottolineandone il carattere processuale e
dinamico, le implicazioni polisemiche, la costruzione sociale che ne è alla base,
l’impostazione aperta, complessa, dinamica e transcalare. Vale per tutti la riflessione
di Dematteis e Governa, quando affermano che “i processi di ridefinizione in atto non
portano al superamento dell’identità territoriale, ma piuttosto al cambiamento dei suoi
principi e delle sue logiche, con l’affermarsi di nuove territorialità attraverso cui essa si
costruisce e si rappresenta”.
Il gruppo di ricerca “Identità territoriali” si è costituito qualche anno fa in seno
all’A.Ge.I. (Associazione Geografi Italiani) per ragionare su questo tema. Il gruppo di
ricerca si è orientato sul come rilevare l’identità territoriale a livello locale, cioè in
riferimento ad una scala territoriale ove la prossimità fisica tra abitanti dei luoghi, per
quanto compromessa dalle pratiche di vita contemporanee, può potenzialmente
favorire attività, iniziative e progettualità collettive, divenendo motivo di condivisione
effettiva del territorio.
L’attenzione del gruppo di ricerca si è soffermata sugli ambiti locali del nostro Paese,
emblematici di casistiche ricorrenti, ma tutti rilevanti nella prospettiva dell’identità
territoriale, perché è a questa scala che le priorità programmatiche delineate a livello
internazionale si intrecciano a quell’insieme di vissuti, esperienze e pratiche
quotidiane che fanno del territorio locale un luogo, ovvero uno spazio di significazione
collettiva, potenziale o effettivo.
Sul piano operativo si è suggerito il ricorso a due categorie concettuali della psicologia
ambientale: l’identità del luogo, definita “sulla base delle rappresentazioni o immagini
più condivise, a livello di gruppi e di comunità, relative al luogo in questione” e
l’identità di luogo, intesa come “quella parte dell’identità personale che deriva
dall’abitare in specifici luoghi”. Tali categorie sono state prese in considerazione sia
per il fatto che la psicologia ambientale del radicamento, attaccamento, identità del
luogo e di luogo, esamina i processi psicologici che ne sono alla base, con ricerche sul
campo che costituiscono fonte primaria di riferimento; sia perché esse consentono di
tenere distinti i due piani in cui si articola il discorso identitario, vale a dire quello
individuale e quello collettivo. Tenere distinti i due piani riduce il rischio di attribuire
all’identità territoriale un aprioristico attributo di ‘identificazione del luogo’ da parte di
soggetti e collettività. Al contrario, si tratta di comprendere entro quali margini sia
possibile parlare oggi di senso di luogo collettivamente inteso, così come di coesione
sociale, reti di relazione tra abitanti dei luoghi e progettualità partecipate.
Così intesa, l’identità territoriale induce all’adozione di un’ottica apertamente
relativistica del modo di intenderla, non tanto in riferimento all’identità di luogo,
quanto in relazione all’identità del luogo, che richiede di considerare il territorio nella
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prospettiva di chi lo vive. La differenza tra uno studio che vuole interpretare un dato
territorio e uno che intende rilevarne l’identità sta proprio nel fatto che se il primo può
essere condotto anche senza coinvolgere la collettività locale, il secondo non ne può
prescindere. Si tratta infatti di comprendere quali forme e modi dell’abitare abbiano
segnato quel territorio, di evidenziarne le dinamiche e problematiche, di appurare
quali emozioni esso solleciti, ricorrendo sia alle pratiche discorsive attraverso cui
soggetti si relazionano ai luoghi, sia alle narrazioni che di quel territorio e della
collettività che li abitano sono state fornite.
Il che non significa escludere la lettura del territorio in termini di caratteristiche
ambientali, assetti, trend socio-economici, poiché è anche su questi dati che la
rappresentazione e la percezione del territorio prende forma. L’importante è che tale
lettura territoriale sia intesa come frutto di una delle possibili interpretazioni, che è
data sia dalle caratteristiche di contesto, sia dalle percezioni e dai vissuti delle
popolazioni, sia dalla prospettiva di chi interpreta, in una sorta di triangolo semiotico
ovvero di semiosi illimitata che colloca l’identità territoriale in prospettiva dinamica,
aprendo a sempre nuove possibili interpretazioni, slegandola cioè da ogni
impostazione essenzialista e organicista.
Sul piano della ricerca geografica, ciò si traduce nella possibilità di adottare più
strumenti di indagine: dal rilevamento diretto alle narrazioni letterarie, dagli strumenti
della visual geography ai dati statistici, le carte storiche e tematiche, le elaborazioni
GIS, che restano fondamentali, peraltro, anche ai fini della programmazione
economica e della pianificazione del territorio. Il territorio, oltre che universo di vissuti,
è anche entità concreta da organizzare e gestire, e per fare in modo che uno studio
sull’identità territoriale sia utile al momento decisionale e progettuale è necessario
tenere conto anche di ciò che vi avviene concretamente, pena il rischio, che insistendo
sulle rappresentazioni delle cose ci si dimentichi delle cose stesse. In tal senso, la
tradizionale distinzione tra metodi di ricerca quantitativi e qualitativi, viene a cadere
quando si parta dal presupposto che anche gli strumenti quantitativi contengono una
soggettività e servono a supportare una delle possibili rappresentazioni del territorio e
non una descrizione oggettivamente fondata.

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Identità territoriale e progetti di sviluppo. Un punto di vista cibernetico
Stefano De Rubertis

1. Introduzione
L’identità è stata interpretata in molti modi: è stata considerata una condizione, un processo, un diretto
riflesso della condizione sociale, una variabile dipendente della struttura sociale, o, al contrario, totalmente
indipendente da essa; in ogni caso, la sua interpretazione ha risentito dell’atteggiamento riduzionista che
descrive soggetto, oggetto osservato e contesto come entità tra loro effettivamente distinte.
In epoca premoderna, l’identità è eteroreferenziata, per effetto di un banale adattamento a modelli prestabiliti
che, la fanno dipendere dal ruolo assegnato nell’ordine divino. Nell’Illuminismo, Cartesio e Locke
contribuiscono a definire ‘identità come condizione tipica dell’individuo razionale: l’attribuzione e l’auto
attribuzione identitaria incominciano a scaturire non più da un’autorità indiscussa ed esterna al sistema
(legittimazione divina) ma della funzione svolta dall’individuo nella società. In una modernità più matura
(Otto-Novecento), l’identità diventa frutto dell’interazione tra individuo e società ma il processo di co-
evoluzione, banalmente reificato, è ritenuto esistere di per sé, quindi oggettivamente individuabile, definito,
descritto. Un più elevato livello di complessità è rilevabile in alcuni approcci marxisti, secondo i quali
l’identità risente della struttura sociale e la riflette in tutte le sue componenti e contraddizioni e, come per
Lacan, l’unitarietà che viene fatta corrispondere all’individuo è un’illusione: la dipendenza della struttura
sociale è così forte che il processo identitario è lento e sembra una condizione non facilmente modificabile
nel breve.
L’atteggiamento attualmente prevalente è fondato su un riduzionismo che porta con sé la certezza
dell’esistenza di una realtà oggettiva e perfettamente conoscibile da chi disponga degli strumenti adatti a
svelarla. Solo negli approcci sistemici più recenti (detti della seconda cibernetica) l’identità attribuita
all’oggetto osservata è fatta dipendere dalle scelte e dagli obiettivi dell’osservatore. Per la cibernetica si tratta
di una svolta paradigmatica verso un soggettivismo che si sovrappone alla già maturata problematizzazione
del rapporto tra oggetto e contesto.
Il concetto di territorio ha assunto spesso significati circoscrivibili ad ambiti politici o politico-militari,
richiamando forme di dominio o controllo proprie di quella ce per gli etologi è la territorialità animale; meno
frequentemente esso ha assunto significati più pregnanti che lo rendono metafora del processo di
compenetrazione delle dimensioni fisica e sociale della Terra.
Nuove relazioni riducono la rilevanza delle accezioni di territorio riferite alla dimensione del controllo. Le
logiche reticolari potrebbero indurre a ridimensionare l’importanza attribuita ai confini nazionali e con essa
quella attribuita al territorio. Insomma, i territori rappresenterebbero “il vecchio” e le reti “il nuovo”;
tuttavia, nell’onda lunga del post-strutturalismo che ha rivisitato molti dei più utilizzati concetti geografici, il
territorio si ripropone come strumento ancora meritevole di attenzione.

2. Dalla prima alla seconda cibernetica: organizzazione e/è identità


La consapevolezza dell’impronta riduzionistica che segna le modalità di rappresentazione del rapporto tra
oggetto e contesto è ben presente già nei primi passi mossi dalla cibernetica.
Fino ai primi decenni del Novecento, l’approccio biologico di tipo atomistico è stato contrastato da visioni
vitalistiche le quali ricorrono “a forze metafisiche per spiegare i caratteri specifici dell’universo vivente”. Si
tratta di approcci tendenzialmente complessi. Tale carattere certamente più materialista prende forma attorno
alla crescente evidenza dell’impossibilità di tracciare nette demarcazioni tra un organismo e il proprio
ambiente.
Negli anni ’30 la biologia incomincia a cambiare statuto. Le brusche trasformazioni, le singolarità e i fattori
contingenti non sono più valutati come un’eccezione o una conseguenza trascurabile del fenomeno
principale, ma assurgono al ruolo di principali oggetti di attenzione della ricerca. Il ricorso al concetto di
sistema consente di contemperare l’esigenza di riferire l’osservazione a un oggetto relativamente stabile con
quella di tener conto della “generale variabilità e indeterminabilità dei suoi sottoinsiemi”, ma preclude ogni
capacità esplicativa agli approcci microdeterministici, molto diffusi e basati sul presupposto che sia possibile
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ricostruire una “causalità infinitamente precisa”. Diviene evidente la necessità di ricorrere a scale
d’osservazione molteplici.
La complessità del rapporto tra soggetto e oggetto è affrontata solo nei decenni successivi. Tra gli anni ’40 e
’50, l’epistemologia cibernetica ispira la ricerca che porta alla costruzione dei primi calcolatori basati sul
principio che la computazione è un processo possibile anche a prescindere dal soggetto. Il successo
conseguito ha finito per emarginare punti di vista alternativi. Secondo Wiener, in analogia con i processi
cerebrali, il computer avrebbe dovuto apprendere ed apprendere, simulando il funzionamento dei neuroni e
personalizzando l’apprendimento: la vita stessa è apprendimento e l’apprendimento ha una dimensione
spiccatamente soggettiva.
La pretesa “trasparenza” dello spazio moderno ammette i cambiamenti di prospettiva, ma non ammette la
possibilità che due osservatori possano giungere a risultati differenti osservando lo stesso oggetto dalla stessa
posizione. È la medesima convinzione che anima le conclusioni della prima cibernetica, le tesi di von
Bertalanffy (1969) ne sono un esempio: in presenza di osservatori differenti si ritiene di giungere a
“registrare lo stesso insieme di eventi reali”.
La rivoluzione epistemologica della seconda cibernetica ha conseguenze dirette sul modo in cui si può
intendere l’identità di un sistema vivente. L’organizzazione è definita dalle relazioni che, mettendo in
comunicazione gli elementi di un sistema, ne vincolano il comportamento. Per l’osservatore, l’insieme delle
possibili conseguenze dell’operare dei vincoli (cioè dell’organizzazione) costituisce un insieme di realtà
potenziali: tra l’ampia gamma delle soluzioni possibili se ne verifica solo una, andando a costituire il
sottoinsieme della realtà, vale a dire di ciò che effettivamente esiste. Tutte le potenzialità irrealizzate
potrebbero essere considerate, in effetti, conseguenza dell’incertezza dell’osservatore: a posteriori quella
verificatasi è l’unica realtà possibile. L’ignoranza dell’osservatore può essere non annullata ma ridotta con
idonei salti di scala che muovano da una prospettiva interna al sistema a una esterna ad esso.
Un sistema vivente conserva la propria qualità organizzativa grazie alla capacità di vincolare i cambiamenti
all’obiettivo della propria sopravvivenza. Secondo Piaget, un mutamento del genotipo non può imputarsi
solo alle influenze ambientali (lamarckismo), e non si può ipotizzare che il genotipo abbia una plasticità
infinita; un mutamento del genotipo non può neanche essere attribuito esclusivamente a fenomeni casuali di
mutazioni genetiche. Insomma, per Piaget, in un processo evolutivo, l’adattamento è inteso come “equilibrio
fra assimilazione ed accomodamento”.
Dal punto di vista biologico dell’approccio cibernetico, il vivente assurge a principio ordinatore della realtà,
conferendo senso anche al non-vivente, con cui si compenetra. L’identità attribuita a un sistema dipende dal
persistere, o dal venir meno, della sua tensione verso quello che l’osservatore ha identificato come obiettivo
del sistema l’identità è un processo spaziale; nella simultaneità, varia, al variare del punto di vista e, quindi,
dell’osservatore. È a questa primaria gamma di varietà, ricca quanto i punti di vista possibili, che è
subordinata la variabilità temporale.

3. Identità territoriale
Per quanto detto, l’osservatore è radicalmente integrato nella propria descrizione e il suo atto di conoscere è
“un’azione che modifica l’oggetto e che non lo raggiunge, dunque, che attraverso le trasformazioni introdotte
da quest’azione […] Il soggetto […] affonda nell’oggetto […] e reagisce sull’oggetto arricchendolo degli
apporto dell’azione”. Insomma, la realtà è sempre più da intendere come costruzione sociale.
Le conseguenze sul modo di interpretare lo spazio sono rilevanti. Lo studio dello spazio si concentra non più
sull’enumerazione die suoi contenuti ma sui rapporti sociali ad esso sottesi, aggiungendo alle sue
rappresentazioni ulteriori livelli (sintattico e simbolico-ideologico), che contribuiscono a rendere
l’oggettività geografica “non solo relativa, ma anche limitata dal continuo mutare dei contesti”.
Una delle più importanti conseguenze della diffusione dei nuovi punti di vista può essere considerata la
convinzione che, come sottolinea Soja, lo spazio sociale incorpori e condizioni tanto lo spazio cognitivo
quando lo spazio naturale.
Nuovi significati di spazio creano le premesse per concepire il territorio come una combinazione della
socializzazione umana con le altre dimensioni “non umane” della Terra; combinazione in cui la dimensione
sociale si profila come prioritaria rispetto alle altre:

La descrizione geografica non è un insieme qualunque di immagini mentali soggettive. La sua soggettività è
sempre collettiva, il suo significato è pubblico. Sono geografiche quelle rappresentazioni in cui la scelta
degli oggetti rappresentati obbedisce a regole implicite, accettate da una comunità, da un gruppo […].
Perciò lo spazio ambiente rappresentato dalla geografia è solo indirettamente lo spazio dei rapporti tra gli
individui e la natura terrestre. Esso è innanzitutto quello dei rapporti degli individui tra loro, rapporto
attraverso i quali essi socialmente intervengono sugli ecosistemi terrestri. La geografia non è la
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rappresentazione della Terra, ma delle strutture materiali della socializzazione (comunicazione-produzione),
cioè del territorio.

L’identità di un territorio è un concetto che si presta a molte interpretazioni e che assume molte accezioni e
varianti, ma dal punto di vista che andiamo definendo, essa dipende dalle caratteristiche organizzative e dalla
funzione che si ritiene il territorio svolga nel sistema generale (lo spazio). L’identità è ridefinita come
processo dipendente dal senso che l’osservatore ha inteso imprimere alla propria osservazione. Il territorio
può essere pensato come una porzione di spazio socialmente prodotto, le cui caratteristiche dipendono dai
criteri che l’osservatore ha scelto per selezionarlo/delimitarlo.
La scelta di una scala ottimale alla quale ancorare la dimensione “territoriale”, quindi, non è un atto banale.
Si attivano meccanismi d’inclusione/esclusione, soggettivamente adottati, che definiscono l’interno e
l’esterno del sistema, la sua organizzazione, i suoi obiettivi, la sua identità. L’oggettività e il successo
attribuiti ai risultati dipenderanno dal grado di consenso che la scala scelta riesce a suscitare.
Agli occhi dell’osservatore, leggi, usi, tradizioni e, in generale, norme di comportamento definiscono
l’organizzazione del sistema e, quindi, la sua identità. Il rispetto di tali regole è solitamente associato a un
senso di appartenenza. La coerenza del comportamento individuale con le regole e le esigenze comunitarie,
se nel breve periodo può essere accidentale, nel lungo non può essere altro che conseguenza di effettiva
condivisione o d’imposizione degli obiettivi scaturiti dal confronto tra ogni soggettiva rappresentazione.
L’identità territoriale è quindi un’organizzazione “finalizzata” che resta relativamente stabile finché i
processi di accomodamento riescono a compensare quelli di assimilazione. Vincoli formali e, soprattutto
informali, sono espressione dei valori localmente condivisi e che, di solito, mutano molto lentamente. La
stabilità o il successo che l’osservatore attribuisce all’identità di un territorio dipendono, nel concreto, da
quanto le scelte operate o le contingenze intervenute risultano coerenti e compatibili con il dominio
cognitivo di quel sistema territoriale.
L’insuccesso di un territorio può attribuirsi a uno scollamento talmente ampio tra le rappresentazioni e gli
obiettivi dei policy makers e quelli del resto della comunità da rendere impossibile la realizzazione delle
“prescrizioni genetiche” del sistema.
L’obiettivo ultimo che in questi casi sembra muovere l’interesse degli studiosi è la ricerca di soluzioni al
dilemma delle differenti capacità territoriali di produrre valore economico, sul modello delle esperienze
ritenute di successo, trascurando l’eventualità che quei modi di produrre ricchezza potrebbero rappresentare
un obiettivo localmente non prioritario. In particolare, la ricerca sui distretti industriali italiani ha impresso
un grande impulso agli studi sull’identità territoriale e ha indotto una dipendenza dal sentiero che non si è
limitata a sollecitare la ricerca su territori “altri” ma, collateralmente, ha finito per precostituire anche le loro
qualità identitarie.
Se l’identità è intesa come una rappresentazione soggettivamente variabile e non necessariamente
condivisibile, non può stupire che, come rileva Pichierri, “la rappresentazione della regione proposta dagli
attori nazionali e dalle élite locali che l’hanno costruita [possa essere] più condivisa all’esterno che
all’interno della regione stessa”

4. Identità territoriale e progetti di sviluppo


Rivolgendo l’attenzione ai discorsi dello sviluppo è emerso che il concetto di identità territoriale assume
significati anche molto diversi tra loro. Il valore assiomatico a questi attribuito ha conseguenze drammatiche
sul ruolo della pianificazione e sulla sua coerenza rispetto alla sottesa idea di sviluppo, giacché quest’ultima
non rappresenta altro che la sintesi degli obiettivi del territorio.
L’indagine è stata estesa al Documento Strategico Regionale della Puglia 2007-2013 (DSR) e ai documenti
relativi alla Pianificazione Strategica di Area Vasta (PSAV) delle dieci aree vaste pugliesi, cercando di
cogliere e interpretare il significato attribuito ai concetti di sviluppo e di identità territoriale.
È emersa chiaramente la pervasività del pregiudizio positivista che tratteggia uno sviluppo dei percorsi e
dagli esiti scontati e naturali. I costanti riferimenti all’approccio dello sviluppo locale, se da una parte
esplicitano il meta-discorso di riferimento, dall’altro ne ereditano tutti i limiti e le complicazioni.
L’incremento di complessità che sarebbe potuto derivare da processi di regionalizzazione delle aree vaste
basati su aggregazioni spontanee è stato vanificato da interventi successivi dettati da criteri di “razionalità”
tradizionali: opportunità politica/partitica, contiguità/omogeneità territoriale, vincoli tecnico amministrativi.
Attraverso tali processi, l’identità territoriale avrebbe dovuto assumere grande centralità, sia nel DSR sia
nelle PSAV. Al momento, è difficile determinare come i meccanismi di partecipazione messi in campo
abbiano funzionato, vista la difficoltà che si è incontrata nell’esaminare i relativi documenti e nel ricostruire
l’iter procedurale. Netta è la sensazione che, in ogni area vasta, la preoccupazione più grande sia stata quella

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di mantenere alta la coerenza con la vision e gli obiettivi regionali espressi nel DSR, per non compromettere
l’opportunità di accedere ai finanziamenti, in un momenti di scarsità di risorse finanziarie endogene.
In tutte le diagnosi territoriali che accompagnano i documenti di progettazione esaminati, si rileva il tentativo
di giungere a definizioni identitarie basate sull’inventariazione del “patrimonio” territoriale. Si tratta di
esperienze che rappresenterebbero solo un tentativo di preordinare un punto di vista a tutti gli altri. Invece, si
deve ritenere che non esista un sentiero di sviluppo predeterminato o predeterminabile indipendente dai
desiderata delle comunità e che non esistano strumenti che garantiscono la condivisione effettiva di metodi e
obiettivi. Allora potrebbe essere interessante considerare che oggetto della nostra osservazione siano non più
il progetto di sviluppo e il territorio ma il meta-sistema rappresentato dall’accoppiamento strutturale tra
sistema-progetto e sistema-territorio. In quest’ottica si può affermare che:

1. Il punto di vista del redattore del progetto non è gerarchicamente sovraimposto o sottoposto ad alcun
altro; vale a dire che ogni osservazione ha una propria fondatezza, compresa quella del progettista;
2. Per quanto possa essere elevato il dettaglio definitorio, è impossibile giungere a una sintesi efficace
e universale dell’identità di un territorio; consegue che l’agire individuale sarà continuamente
accompagnato da confronti e conflitti con rappresentazioni/azioni concorrenti.

In conseguenza di quanto detto, sembrerebbero praticabili due linee di ricerca-azione denominabili


“approccio identitario di progetto” e “approccio identitario globale”.
L’approccio identitario di progetto si basa su una disamina del piano strategico inteso come sistema
geneticamente vocato a co-evolvere con il sistema territoriale di riferimento. Interno ed esterno sono
definibili attraverso i meccanismi di partecipazione/esclusione previsti dal progetto stesso. La struttura è
costituita da destinatari, progettisti e loro relazioni con le risorse interne ed esterne. Vi si riconoscono: un
sottosistema di attori/destinatari Attivi (A- progettisti e portatori di interessi) e un sottosistema di destinatari
Passivi (P – che subiscono il progetto). I soggetti attivi sono informati, partecipano e impongono (A1) oppure
si oppongono e resistono (A2) al progetto. I soggetti passivi subiscono il piano perché rinunciano a
partecipare alla definizione della strategia (P1) o perché disinformati e/o inconsapevoli dei propri obiettivi
(P2).
L’organizzazione è rinvenibile nel ruolo di coordinamento in un soggetto predeterminato, nelle regole di
maturazione delle decisioni dei progettisti e dei committenti, nelle modalità di partecipazione dei destinatari
non progettisti e non committenti, nella durata.
L’imposizione di obiettivi e regole etero diretti ha delle conseguenze importanti sui processi di
partecipazione: la loro rigidità impedisce la libera ricerca di soluzioni condivise o compromessi tra le infinite
istanze che possono manifestarsi localmente. Il dominio cognitivo del sistema ne risulta drammaticamente
ridotto e una certa quantità di soluzioni viene esclusa a priori.
L’approccio identitario globale mira ad attivare processi di apprendimento territoriale: educare alla lettura
del territorio, addestrare all’individuazione di obiettivi, educare al confronto e alla gestione dei conflitti che
qualunque progetto di sviluppo porta con sé. Il persistere di strumenti basati sullo sviluppo “dal basso” e
sulla partecipazione esige adeguata preparazione della comunità. Per l’attore mosso da principi di
democrazia ed equità la propria azione dovrebbe favorire o quanto meno non ostacolare la partecipazione,
minimizzando i casi di imposizione di piano e programmi.

5. Considerazioni finali e conclusioni. Identità territoriale nel progetto e identità del progetto
territoriale
Il territorio che si crede di rappresentare è in realtà costruito dall’osservazione stessa.
Se l’identità territoriale non si rappresenta ma si costruisce, sembra rilevante chiedersi non tanto “chi siamo”,
quanto “come siamo stati rappresentati”. La ricerca sui discorsi dello sviluppo indica la necessità non
d’inventariare le identità territoriali ma di interferire con esse.
L’enumerazione e le connessioni dei cespiti territoriali perde d’efficacia nel livello sintattico e si arena di
fronte al livello simbolico ideologico. Essa rischia di rimanere un catalogo di vincoli e possibilità. Si riduce
l’importanza della distinzione tra materiale e immateriale.
L’inventario delle risorse contenuto nelle diagnosi territoriali che solitamente introducono i piani strategici
comunica qualcosa circa il ruolo che il pianificatore ha attribuito a quegli elementi, ma non esprime l’identità
del territorio.
Un modo per liberarsi dalla retorica è rinunciare all’uso del concetto d’identità territoriale.

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Nella logica del meta-sistema osservatore/progetto/territorio, il concetto d’identità perde le sue pretese di
universalità, le sollecitazioni ad adottare pratiche riduzionisti che si attenuano e la ricerca di coordinamento
tra punti di vista diversi, concorrenti e alternativi trae nuovo impulso.
In ottica costruttivista, in qualità di osservatori siamo diventati parte del progetto.
Approcci identitari globali consentirebbero di fornire a ogni individuo più opportunità di scegliere se
partecipare o meno o se opporsi o resistere all’imposizione degli obiettivi da parte degli attivi (A1). Approcci
identitari di progetto interferiscono direttamente con i contenuti.
In generale, nei casi esaminati, gli strumenti di partecipazione hanno funzionato in modo da ottimizzare il
rapporto tra adattamento e assimilazione. In particolare, quest’ultima, sembra essere state rigidamente
controllata, al fine di emarginare gli oppositori (A2) e minimizzare l’efficacia dei meccanismi inclusivi dei
soggetti passivi grazie a strategie opache di informazione e coinvolgimento.
In ultima analisi, in ottica costruttivista, l’identità territoriale sembra proponibile come un pro9ceso
indecidibile, determinato dall’agire, non dal rappresentare, e rispetto allo svolgimento del quale l’osservatore
non è mai estraneo.

Piattaforme girevoli e identità invisibili


Federico Scarpelli

All’atto pratico, la città ispira all’antropologo un ricorrente disagio di localizzazione. Il luogo sembra non
bastare più. C’è sempre bisogno di circoscrivere. E di riannodare i fili, di allargare gli orizzonti. Se infatti il
nesso tra cultura, identità e luoghi, nel tempo della globalizzazione, sembra impossibile da riproporre anche
in forme deboli, si complica la ricerca di un “noi” che dia consistenza a un “qui”.
Il tema delle identità territoriali è tutt’altro che scomparso dal dibattito pubblico. Circostanza altrettanto
decisiva è che non sono scomparse nemmeno le strategie localizzanti della ricerca etnografica. E oggi più
che mai gli antropologi lavorano nelle città.
Il percorso che si tenterà di abbozzare nelle prossime pagine, punterà, come possibile risposta a questi
problemi, sulle nozioni di luogo, e sul modo in cui nel luogo si addensano significati, memorie e risorse
narrative. Valorizzerà il ruolo della parola e della polifonia, in una strategia di ricerca che chi scrive ha
cercato di sviluppare entro diverse ricerche in Italia nel corso degli anni Duemila. E finirà per sostenere
l’importanza cruciale del concetto di stile per un’antropologia delle identità territoriali.
Tra il 2007 e il 2008 ho lavorato con i miei colleghi di Anthropolis nel rione romano dell’Esquilino. Anne
Marie Seronde Babonaux descrive questa zona mediante un’immagine, quella della piattaforma girevole, che
caratterizza questo terreno come qualcosa che più urbano, fluido e moderno non potrebbe essere. Area di
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transito fra il centro e la principale direttrice di espansione urbana, fra l’interno e l’esterno della città, è
storicamente la zona che accoglie il maggior numero di immigrati. Oggi le migrazioni internazionali cui si è
accennato si intrecciano anche col processo di gentrification in corso nel centro di Roma. La dinamica
migratoria sembra aver rallentato quella valorizzazione, lasciando la zona, come sempre, in una situazione
incerta. La ricerca si concentrava sul racconto, da parte die residenti italiani, delle trasformazioni del luogo.
Un recente libro di saggi di antropologia urbana curato da Massimo Bressan e Sabrina Tosi Cambini
recupera il titolo la zona di transizione. Si tratta di qualcosa che funziona come una camera di
compensazione tra il centro degli affari, i quartieri residenziali e quelli produttivi. Un’area che sembra
sempre in una fase di trasformazione, la quale però non si completa mai. In due situazioni, il “Macrolotto 0”
di Prato (zona cinese) e l’Esquilino, emergono micro conflitti territoriali, legati in definitiva al cambiamento
dei contesti della vita quotidiana, più che a posizioni ideologicamente razziste o xenofobe. Le quali posizioni
naturalmente possono esserci ma non sembrano dominare le rappresentazioni locali.
Bressan e Tosi Cambini, nel recuperare la nozione di zona di transizione, intendono mettere in evidenza
anche un’altra delle caratteristiche indicate da Burgess: la penuria di spazio pubblico. Il punto è che la
disponibilità di spazi pubblici è vista dagli autori come una delle condizioni che favoriscono l’emergere di un
bene pubblico di tipo particolare, ossia la comunità locale. Questa idea presenta a mio avviso aspetti positivi
e negativi.
Il lato positivo sta nel non essere riducibile a una versione su piccola scala dell’” illusione della quiddità”,
che scambi i confini tracciati sulle mappe comunali per ambiti “identitari” di riferimento, magari attraverso
un ricorso spericolato alla categoria di vita quotidiana. Dando per scontato che il quartiere sia lo “spazio
naturale” di chi ci vive. L’idea della comunità locale come qualcosa che può emergere o meno suggerisce che
quel quartiere deve essere riconosciuto come riferimento significativo dai soggetti.
Il lato negativo consiste però nel fatto che una cosa come la “comunità locale” dovrà per forza darci quello
che ci aspettiamo da lei. Ossia una “vita di quartiere” capace di animare lo spazio pubblico, di potenziare reti
e frequentazioni e dialogo interculturale. E se invece le cose non stanno così? Potrebbe essere anche questo
a spingere molte etnografie urbane a circoscrivere la propria attenzione ai “gruppi attivi” in un certo
territorio. Fuori da essi, si rischia però di rimanere intrappolati in un lessico negativo. La penuria di spazio
pubblico può già esserne un esempio.
Il rischio è quello di rinunciare ad ascoltare quei micro conflitti quotidiani cui accennavamo, e che, per altro,
sono proprio una delle cose che rendono concreta ciò che per altri versi non è che una partizione puramente
convenzionale dello spazio urbano.
Un’altra delle cose che danno concretezza alle zone è la necessità dell’amministrazione e dell’urbanistica.
Approccio pericolosamente “realistico”. In relazione al progetto architettonico e urbanistico, ad esempio,
Paul Ricoeur si è sentito di riproporre lo schema triplice che in Tempo e racconto aveva attribuito alla
creazione letteraria. La “prefigurazione” stavolta corrisponde a una prima accezione dell’abitare, in quanto
condizione e contesto del costruire medesimo. La “configurazione” al progettare costruire effettivo. L’intera
questione dell’abitare e del costruire si traduce in un lavorio di interpretazioni che danno forma e sostanza
agli spazi, dove le scelte dei progettisti non sono autonome, ma necessariamente intrecciate alla quotidianità
dei luoghi e dei punti di vista dei non esperti. De Certeau fa riferimento a un “discorso utopico e
urbanistico”, razionalista. Ad esso in certa misura riesce a sottrarsi un mobile universo di pratiche spaziali
minute, rispetto alle quali possono applicarsi nozioni come quelle di atto locutorio, di retorica, di stile. Ma le
parole vengono chiamate in causa anche direttamente, e non solo sotto metafora. È in primo luogo la
toponomastica, anche quella vecchia e cancellata che, a volta, non si stanca di riaffiorare. Ma è anche molte
altre cose, all’interno della sfera apparentemente impalpabile e poco pratica del dire e del raccontare.

“Qui c’era una panetteria”; “è là che abitava la signora Dupuis”. Colpisce qui il fatto che i luoghi vissuto
sono come delle presenze di assenze. Ciò che si mostra disegna ciò che non c’è più: “vedete, qui c’era---“,
ma non si vede più. I dimostrativi dicono le identità invisibili del visibile. La definizione stessa del luogo, in
effetti, consiste in queste serie di spostamenti e di effetti fra gli strati frammentati che lo compongono e nel
giocare su questi spessori mobili. Non c’è luogo che non sia ossessionato da molteplici fantasmi, avvolti nel
silenzio e che si possono evocare o meno. Si abitano solo luoghi popolati da spettri.

Per De Certeau le voci dell’abitare, rispetto all’alienante sistema urbano, costituiscono improvvisati scarti e
resistenze, più che cucire appartenenze, dialoghi e contesti. Ma la precisione con cui è caratterizzata una
dimensione essenziale dell’abitare trova riscontro in quella che è un’esperienza ricorrente dell’etnografo,
nella quale ciò che c’è, lì, è ben visibile, viene curiosamente illustrato attraverso ciò che non c’è più.
Intervista a una donna che ha casa e negozio all’Esquilino e racconta come è cambiato qui, in una modalità
che rende bene la significatività e il livello di elaborazione del luogo:
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“Su questo portico chi c’era? C’era un orafo, “Oro ora” e prendeva due negozi, poi c’era un negozio di
foto, macchine fotografiche occhiali qui vicino… e poi MAS e poi c’era un altro negozio di abbigliamento
all’angolo dopo e lì grossomodo è rimasto com’era. Poi c’è Grilli… quello è rimasto com’era. L’ultimo no.
Alla profumeria c’era un altro negozio di Pontecorvo e adesso c’è la profumeria. Dove c’è OVS c’era “Fuso
d’Oro” del gruppo Marzotto… anche quello era un bellissimo negozio. C’era Salustri una bellissima
merceria… quelle di una volta… qui a via Carlo Alberto era bellissima, bellissima veramente bella. Poi a
via Carlo Alberto era pieno di negozi negozietti alimentari gastronomie anche negozi di vestiti da sposa,
quello all’angolo c’era un po’ di tutto. Ecco perché a volte quelli anziani si lamentano che non c‘è più
niente. Rispetto a prima non c’è più niente. Calcolate che per ogni negozio cinese prima c’era un’attività
italiana, sono cinquecento nel rione, sono cinquecento negozianti italiani che non ci sono più.”

L’ipotesi è che in modalità come queste il luogo parli e si possa ascoltare. Anche in mancanza di una “vita di
quartiere” che consideriamo funzionante. Qui c’è un senso del luogo che emerge in connessione con una
pratica etnografica di ascolto, che esclude probabilmente quelli che parcheggiano e vanno a dormire, ma
forse ne trova meno di quanti ci si aspetterebbe. E le suggestioni di De Certeau possono aiutare a introdurre
diverse importanti questioni collegate, anche se qui necessariamente in forma di accenni.

Le identità invisibili del visibile. Sarebbe sbagliato contrapporre le “parole” alle “cose come stanno”, anziché
riconoscere che anche le prime fanno parte delle seconde. Se, come credo, noi siamo fatti delle storie che
raccontiamo e da cui siamo raccontati, possiamo supporre che ciò che rende oggi “raccontabile” in certi
termini un certo luogo, abbia molto a che fare con i modi dello “stare” al suo interno. Tutto ciò è “invisibile”
anche nel senso che può sfuggire a chi voglia pensare, progettare, costruire, riformare, valorizzare i territori.
Ma rientra appunto negli sforzi, presenti, ad esempio, nello stesso dibattito urbanistico, per rendere più aperti
e capaci di ascolto i sistemi, i saperi e i processi progettuali. Come dice Ricoeur “un abisso può separare le
regole di razionalità di un progetto dalle regole di ricezione da parte di un pubblico – cosa valida d’altronde
per ogni politica”. E in questo senso, nell’insieme delle “pratiche”, la voce e la parola i trovano in una
posizione particolare, di snodo fra il livello della vita quotidiana della presa di posizione, per quanto
episodica.

I luoghi vissuti. Il concetto di luogo, da Merleau-Pontu a Heidegger, a Casey, tiene insieme gli aspetti fisici e
simbolici del contesto. È un contesto che si dispiega a partire dall’esperienza corporea, dal movimento,
dall’azione fisica, dalla familiarità con le cose. L’addensarsi, l’avere e il mantenere luogo, di memorie,
racconti, linguaggi, pensieri, conoscenza del luogo e conoscenza locale, significati condivisi e contesti
significativi. È stato proposto da Casey come la dimensione più concreta e universale di ciò che possiamo
chiamare cultura.

Presenza di assenze. L’emplacement di Casey ha a che fare con la dimensione sociale della memoria. Parlare
di racconto del luogo potrebbe essere un modo più flessibile per evidenziare delle risorse condivise, delle
trame ricorrenti, dei passaggi contestati, fra soggetti differenti. Un lavoro di memoria che non ha a che fare
solo col passato, ma anche col presente e il futuro. In particolare certe forme al negativo mi sembrano spesso
impropriamente appiattite su di una concezione “povera” di nostalgia, retrospettiva e sentimentale. Mentre
queste rappresentazioni del luogo in forma di nostalgie possono realizzare diverse operazioni significative.
Individuare un “presente culturale”, che corrisponde un po’ al “cosa sta succedendo qui” geertziano, la
situazione che il contesto sta attraversando. Individuarlo ponendo una frattura nel tempo che lo separino da
una fase precedete, mettendosi più o meno esplicitamente in relazione con il sapere storico in senso stretto.
Al tempo stesso, mostrano la capacità di decontestualizzare frammenti desiderabili del passato,
ricontestualizzandoli in vista del futuro.

Si abitano solo luoghi popolati da spettri. Nel dialogo etnografico e in particolare nell’intervista, il senso del
luogo emerge dall’incrocio di quella che potremmo chiamare “conoscenza del luogo”, da una parte, e
“costruzione della voce”, dall’altra. Il primo è un presupposto metodologico che forse l’antropologo porta
effettivamente con sé dal suo studio nei villaggi: l’idea dell’essere un nuovo arrivato e che l’interlocutore sia
più competente di lui su quel che succede. La seconda ha piuttosto a che fare col perché dirlo. Corrisponde
alla costruzione di un narratore protagonista, o di un narratore- testimone. Un’assunzione di ruolo che forse
quello che parcheggia e se ne va non vorrà fare. Molti altri, invece, si. L’idea è che id un luogo, perché sia
tale, si deve poter raccontare la storia dall’interno.

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Che si possono evocare o meno. La centralità del luogo, e di un certo luogo particolare è quindi certamente
un portato del particolare “setting etnografico” che si stabilisce. Quelli che hanno senso lasciano
probabilmente spazio sufficiente per una ridefinizione del tema o dei suoi caratteri distintivi, a partire da
toponomastica, confini alternativi, o forme impreviste di spazio pubblico. Inoltre, sono vari i fantasmi che
possono essere evocati.

Giocare su questi spessori mobili. La ridondanza delle risorse narrative che si addensano intorno ai luoghi
permette varietà di percorsi interni, convergenze e divergenze, micro conflitti e polifonie. Simonicca ha
proposto di vedere le identità locali come simbiosi di “internità” ed “esternità”, che si attribuiscono a se
stessi, e ad altri, e reciprocamente, come in una sorta di gioco di specchi. Io aggiungerei che l’ascolto delle
voci locali può far emergere differenti modelli narrativi di internità ed esternità che aiutano probabilmente ad
identificare punti critici e conflitti.

A questo punto sono necessarie due puntualizzazioni. La prima riguarda l’auto-rappresentazione. Si protesta
l’automatismo della sua attribuzione. È azzardato dare per scontato il riferimento a un insieme più o meno
compatto e capace di riproduzione sociale. È anche possibile che si il qui a reggere il noi. La seconda
puntualizzazione è che all’Esquilino la distinzione tra italiani e altri aveva senso dal punto di vista della
ricerca. È estremamente probabile che i nuovi arrivati, da un certo momento assumano anche loro una certa
idea di luogo come un organizzatore di rappresentazioni.
Volendo identificare qualcosa che possa somigliare a un punto d’arrivo, ci troviamo di fronte a un lavoro di
interpretazione e di cittadinanza, agganciato a un luogo. Può essere utile la nozione di stile. Nelson Goodman
ne offre una versione caratterizzata da un’insofferenza verso gli ambiti disciplinari precostituiti che mi
sembra abbastanza compatibile con la vocazione esplorativa dell’antropologia: “una caratteristica complessa
che serve come una firma individuale e collettiva”. Stile può essere la scelta dei fantasmi da evocare, l’uso
più o meno insistito di episodi biografici o la menzione di personaggi famosi. Così si può parlare di una
riconoscibilità sia del racconto del luogo, sia dei modelli diversi e concorrenti in cui si articola, sia delle
peculiarità del singolo testimone.
Lo stile funziona come una firma, ma non lo è. Non è una caratteristica autonoma e assoluta, ma relativa a
obiettivi e percorsi di lettura.

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L’identità come espressione del conflitto fra processi di globalizzazione e ri-appropriazione della città
Carlo Cellamare

Il tema dell’identità, così come quello della comunità spesso ad esso connesso, sono temi che da una parte
sono espressione di un bisogno personale e sociale e riflettono la considerazione di un valore molto sentito
rispetto anche alla qualità dell’abitare e alle forme di convivenza, e dall’altra sono fortemente caricati di
idealità così come di aspettative.
La rilevanza della questione che ne consegue, sembra riflettere gli esiti di processi sociali, economici e
culturali che stanno determinando modificazioni profonde nelle nostre società così come delle nostre città.
La rapida innovazione che ha comportato repentini salti generazionali, trasformazioni urbane, sociali e
culturali che hanno travolto completamente tradizioni consolidate e modelli “stabilizzati”.
Pesano sia i cambiamenti, che introducono anche insicurezza, che le modalità con cui avvengono. D’altronde
le identità passate non ci sono veramente più, non ci rappresentano più.
Ma è cambiato anche il modo con cui si forma l’identità. La cultura moderna e l’organizzazione in Stati-
nazione fondava volto l’identità sull’appartenenza ad un certo contesto territoriale e alla comunità politica
che vi era insediata. Peraltro introducendo un elemento di forte rottura rispetto anche alle modalità con cui
precedentemente si formavano le identità.
I temi dell’identità sono difficili da trattare per la complessità dei problemi implicati, perché esiste un
discorso sull’identità a livello personale e uno a livello sociale.
D’altronde sono notevoli i rischi del pensare la “produzione di identità”. La reazione ai processi esistenti ha
spinto qualche volta, se non spesso, a porre l’identità come un obiettivo del progetto e della pianificazione
stessa. L’identità non può essere pianificata. Risulta chiara a tutti la pericolosità di una prospettiva di
pianificazione sociale e culturale.
Intanto, bisogna subito spostarsi da un approccio strettamente “categoriale” ed essenziali sta all’identità, a
una dimensione processuale dell’identità che apre a un’interpretazione plurale, relazione ed evolutiva nel
tempo. L’identità è un prodotto sociale e culturale, l’identità è l’esito di un processo sociale complesso.
Nel ragionare su questi temi, sembra importante un approccio che tenga insieme le diverse dimensioni: una
lettura del reciproco intrecciarsi tra processi sociali ed economici di livello macro nei loro effetti anche a
livello locale, da una parte, e processi di “produzione sociale” dal basso, negli specifici contesti e nelle
condizioni di vita quotidiana, dall’altra; una lettura della stretta connessione tra dimensione materiale, anche
nei suoi aspetti fisici e strutturali, e dimensione immateriale, con il suo portato di vissuti, significati e valori
simbolici.
Un ruolo rilevante giocano infatti i processi di individualizzazione, i modi cioè con cui ogni persona si
rapporta e si definisce rispetto ai processi in cui è immersa.
Agamben spiega bene come i processi di individualizzazione si pongano in una dinamica tra oggettivazione
e assoggettamento, riprendendo il concetto di “dispositivo” di Foucault:

vi propongo nulla di meno che una generale e massiccia partizione dell’esistente in due gruppi o classi: da
una parte gli esseri viventi e dall’altra i dispositivi in cui essi vengono incessantemente catturati […]
chiamerò dispositivo letteralmente qualunque cosa abbia in qualche modo capacità di catturare, orientare,
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determinare, intercettare, modellare, controllare, ed assicurare gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi
degli esseri viventi non soltanto, quindi, le pigioni, i manicomi, il Panopticon, le scuole, la confessione, le
fabbriche, le discipline, le misure giuridiche ecc., la cui connessione con il potere è in un certo senso
evidente, ma anche, la penna, la scrittura, la letteratura, la filosofia, l’agricoltura, la sigaretta, la
navigazione, i computer, i telefoni cellulari.

Allo stesso tempo, sempre Agamben ci mette in guardia da come questi processi si configurano nella
“metropoli” attuale:

Non vi è quindi crescita e sviluppo dell’antico modello di città, ma una sorta di rottura storica e
epistemologica che coincide con l’instaurarsi di un nuovo paradigma, i cui caratteri si tratta di analizzare.
Una prima costatazione è che si assiste qui innanzitutto al progressivo tramonto del modello della polis
incentrato essenzialmente sulla dimensione pubblica e politica. Benché la città abbia cercato di difendere
come ha potuto la sua originaria natura di organismo politico (e questa resistenza ha prodotto ancora in
tempi relativamente recenti episodi di straordinaria intensità politica), è certo però che, nella nuova
spazializzazione metropolitana, è all’opera una tendenza de-politicizzante, il cui esito estremo è la creazione
di una zona di assoluta indifferenza fra privato e pubblico. Questa neutralizzazione dello spazio urbano è
oggi un fatto a tal punto acquisito, che non ci si meraviglia che le piazze e le strade della città siano
trasformate dalle videocamere in interni di un’immensa prigione.

Da queste riflessioni Agamben ne trae un’importante conclusione:

La metropoli è, dunque, lo spazio che risulta da questa serie complessa di dispositivi di controllo e di
governo. Ma ogni dispositivo implica necessariamente un processo di soggettivazione, e ogni processo di
soggettivazione implica una possibile resistenza, un possibile corpo a corpo col dispositivo in cui l’individuo
è stato catturato o si è lasciato catturare. Per questo, se si vuole comprendere una metropoli, accanto
all’analisi dei dispositivi di controllo, di distribuzione e di governo degli spazi, è necessario conoscere e
indagare i processi di soggettivazione che questi dispositivi necessariamente producono. È perché una tale
conoscenza manca p è insufficiente, che i conflitti metropolitani appaiono oggi così enigmatici. Poiché la
possibilità e l’esito di tali conflitti dipenderà, in ultima analisi, dalla capacità di intervenire sui processi di
soggettivazione non meno che sui dispositivi, per portare alla luce quell’Ingovernabile che è l’inizio e,
insieme, il punto di fuga di ogni politica.

2. Gli effetti del mercato e dei processi di globalizzazione


L’individualizzazione, i processi di soggettivazione sono evidentemente molto condizionati dalla
globalizzazione e dall’azione del mercato, sia in una dimensione materiale che in una immateriale; sia
attraverso i potenti strumenti della comunicazione, che attraverso la stessa organizzazione di vita degli
abitanti
Nello studiare una realtà come il quartiere Saxa Rubra a Roma, dove è sorto il centro RAI, questo risulta
molto evidente. Quartiere ex - abusivo formato per lo più da famiglie italiane immigrate dall’Abruzzo e dalle
Marche, Saxa Rubra è stato per tanto tempo una sorta di paesino. L’arrivo della RAI e della relativa
“centralità” urbana e metropolitana, hanno spostato l’attenzione e l’orizzonte di vita e dell’abitare a una scala
decisamente sovra locale. Ne deviano forme dell’abitare molto diverse tra loro. E gli esempi potrebbero
essere tanti,
Il passaggio dall’identità come appartenenza a una comunità territoriale ai condizionamenti di modelli ed
effetti di mercato. Già Lewis Mumford criticava con forza il modello di sviluppo urbano emergente, fondato
su una crescita esponenziale della mobilità veicolare privata. Lefebvre si riferisce ai centri commerciali come
modello di sviluppo urbano e strategia delle classi dominanti fondati sulla logica del “consumo
programmato”.
De Certeau e il suo gruppo di ricerca, nei loro studi sull’abitare la vita quotidiana, sottolineavano la
dimensione dell’adeguatezza nella vita di un quartiere, ovvero della capacità di adattarsi e adeguarsi a quelli
che erano i modelli sociali e culturali prevalenti all’interno del quartiere e che costituivano il riferimento
principale, rispetto al quale valutare l’integrazione e la capacità/possibilità di sentirsi parte di.
Nell’evoluzione della città contemporanea e post-fordista si è passati dall’appartenenza a un contesto urbano
e territoriale, all’adesione a un modello globalizzato del mercato. In questa dinamica gioca un ruolo rilevante
il marketing urbano e territoriale; sia in termini banalmente di capacità attrattiva generata, sia in termini di
affermazione erga omnes e diffusione di un modello urbano e di un modello di abitare. Le pubblicità

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sull’abitare sostenibile che, almeno a Roma, hanno avuto ampia diffusione sono emblematiche in questo
senso.
Si tratta di ceti medi, prevalenti a Roma, che hanno comprato sulla carta un modello di abitare che ricalca “in
piccolo”, modelli di vita di classi più abbienti. La realtà è poi piuttosto diversa, e i conflitti e le mobilitazioni
che pure attraversano questi nuovi quartieri residenziali sono dettati più dalla rabbia e dalla delusione di non
ritrovare nella città costruita il modello che avevano comprato su carta.

3. dimensione immateriale dei processi urbani e identità


L’importanza e il peso della dimensione immateriale sui processi che costituiscono le identità è quindi
evidente. La dimensione immateriale e i suoi condizionamenti aprono d’altronde a forme di ambiguità che
mettono in discussione anche quei processi identitari che vengono caricati di valenze positive.
I quartieri abitati, spesso prevalentemente da immigrati, assumono una connotazione precisa, dove le cultura
importate e “ri-adattate” determinano il fiorire di attività commerciali, la ridefinizione della residenza e delle
forme di convivenza e di vita collettiva, la caratterizzazione degli spazi pubblici in modi specifici e molto
connotati. Se questo crea difficoltà agli autoctoni o addirittura forme di emarginazione, innesca anche
processi di valorizzazione. Questo innesca processi di etnicizzazione, e anche in questo caso l’etnicità può
diventare preda e oggetto strumentale del mercato.
Analogamente alcuni quartieri, come il Pigneto a Roma, diventano oggetto di interesse da parte delle culture
giovanili e/o alternative, o ancora di gruppi sociali più creativi e innovativi. Questo genera una forte capacità
attrattiva e un cambiamento nelle attività che vi vengono svolte, nelle forme di abitare. La nuova identità pur
avendo valenze positive e di interesse, può diventare preda e oggetti di iniziative politiche che poco hanno a
che fare con l’innovazione e l’aperta a culture altre, e molto più con gli interessi economici e le
strumentalizzazioni di mercato. Le stesse politiche pubbliche possono avere effetti indesiderati e
controproducenti.
Ci troviamo di fronte spesso ad un identità che è subita e non certo prodotta. Esito di una manipolazione dei
desideri, di un condizionamento degli immaginari personali e sociali e di un doppio movimento di
promozione/affermazione, da una parte, e di adesione, dall’altra a modelli di vita predefiniti e spesso
strumentalizzati.
Il centro commerciale rappresenta il trait d’union tra la globalizzazione economica e i comportamenti sociali,
il tramite tra la dimensione globale e quella locale della radicale trasformazione economico-sociale che
stiamo vivendo.
Un certo filone culturale e di ricerca arriva ad affermare che l’identità di oggi si definisce solo nel e
attraverso il consumo e che quindi la capacità d’azione delle persone passa solo attraverso il loro essere
consumatori.

4. L’importanza dei luoghi e della dimensione locale della vita quotidiana


Il ruolo che la configurazione spaziale ha nella definizione delle identità è chiaramente indiscutibile. Si tratta
di un rapporto di reciproca influenza tra il territorio e la società insediata che ha un peso e un ruolo
fortemente identificativo, e sui cui si è concentrata un’amplissima letteratura.
Nei contesti urbani la “resistenza” e la “lunga durata” dei valori e delle identità insite nei luoghi, costituisce
ancora un elemento forte, spesso un ancoraggio per gli abitanti. Soprattutto in quei casi in cui quei luoghi
sono esito di una storia significativa o di una lotta che ha permesso di costituirli come tali.
Un altro aspetto del rapporto coi luoghi e col proprio contesto di vita va però sottolineato, ed è la dimensione
di quartiere. È rilevante l’organizzazione della vita quotidiana che ancora sulla dimensione locale si basa,
anche se questa supera, travalica o comunque non asseconda gli esatti confini fisici di un quartiere. Ed è
significativa soprattutto per chi vive più intensamente quella dimensione, come ad esempio i bambini e i
ragazzi, legati alla vita scolastica. Se questo testimonia e problematizza una debolezza culturale e un deficit
di conoscenze tutto da superare, d’altra parte è la testimonianza più radicale del peso che la dimensione
locale ha per queste persone. Ma non è da sottovalutare neanche il valore di “rifugio” e “protezione”, o
anche sfera di solidarietà che un quartiere svolge.

5. Identità prodotta e progettualità


L’identità è l’esito anche di attività intenzionali e di progetti. Non di progetti necessariamente attivati per
costruire identità. Questi progetti hanno permesso di porre l’attenzione sull’emergere di “comunità pratiche”,
gruppi di persone cioè che condividono stili di vita. Non si tratta di comunità nel senso tradizionale del
termine, né di appartenenze dettate dalla collocazione spaziale o dal riferimento di una “comunità politica”,
ma contribuiscono comunque in maniera significativa alla costituzione di identità.

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Analogamente, soprattutto su scala territoriale, si costituiscono reti tra soggetti e “comunità locali” tra coloro
che sviluppano iniziative volte alla valorizzazione o allo sviluppo locale del proprio territorio di riferimento.
Sono “comunità di progetto” che si sviluppano intorno a queste iniziative, a queste reti collaborative, a
queste progettualità. Le identità si ridisegnano attraverso le progettualità condivise.

6. Le ambiguità dei processi di costruzione sociale


Più volte quando si parla di identità, si invocano processi partecipativi che favoriscano o esprimano il
coinvolgimento diretto dei cittadini nella costruzione del proprio contesto di vita, sia dal punto di vista fisico
che dal punto di vista culturale e sociale. È chiaro che la cittadinanza attiva permette di definire identità in
cui ci si riconosce, così come spazi che si ritengono significativi per la propria vita quotidiana e per il proprio
abitare. Ma bisogna segnalare almeno due criticità in questa prospettiva. La prima ci fa riflettere che i
processi partecipativi no risultano spesso significativi nella definizione di identità. Dobbiamo pensare a
processi partecipativi radicali. La seconda criticità è legata all’ambiguità dei processi partecipativi, spesso
legati alla costruzione del consenso o limitati alla dimensione della consultazione o ancora virati sulla
negoziazione. Il peso di queste distorsioni, così come altre criticità reali e potenziali, invitano a molta
prudenza nel considerare questo tipo di processi.

7. Processi di ri-appropriazione della città


Bisogna considerare, anche, i molti processi di appropriazione e ri-appropriazione della città, che
rappresentano anche altrettanti processi di ri-significazione. Siano essi dettati da forme di resistenza
all’omologazione culturale o agli effetti della globalizzazione, oppure privi di qualsiasi portato ideologico.
L’identità viene quindi costruita anche attraverso questi processi di appropriazione e di significazione. Ne
possono essere esempio la notevole diffusione dei GAS, i Gruppi di Acquisto Solidale, e delle iniziative
economiche a KM zero, così come le occupazioni a scopo abitativo. Altrettanti esempi sono costituisti da
tutte le forme di autorganizzazione e dell’abitare informale, così come dal riuso di spazi abbandonati, o dalla
riappropriazione e presa in cura di spazi pubblici e spazi verdi. Il ruolo così importante di questi processi e
delle energie che esprimono queste realtà spinge anche a pensare diversamente le politiche per la
rigenerazione delle periferie stesse, più fondate su un approccio alle “capacitazioni”.

8. Il conflitto come produzione d’identità


Alle identità subite si contrappongono processi di ridefinizione alternativa delle identità, di protagonismo
sociale, o anche semplicemente di sviluppo di comportamenti sociali autonomi e alternativi, spesso scarichi
di ideologie politiche. Su questi terreni si confrontano tendenze contrapposte che danno origine a un conflitto
che a sua volta, anche se non è strettamente finalizzato alla definizione di un’identità intenzionale, pure si
gioca sia sulla volontà di autonomia sia sulla capacità di costruire uno spazio di riconoscimento, che di fatto
costruiscono le identità nel loro farsi.
Si tratta di un conflitto che può essere interpretato come un’evoluzione del conflitto tra forma e vita che
Simmel considera come caratterizzante la civiltà moderna, ma che in questa evoluzione recente assume come
terreno di confronto proprio quello della biopolitica e dei dispositivi in cui siamo continuamente immersi.

Conoscersi, riconoscersi, rappresentarsi: le mappe di comunità


Alma Bianchetti

1. Le mappe di comunità

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Mondi locali è la principale promotrice delle iniziative volte a realizzare in Italia le “mappe di comunità”, un
prodotto culturale per il quale non sussiste un descrittivo più calzante dell’aggettivo “particolare”. Lo è in
senso stretto, sia perché ciascuna di esse è unica e irripetibile, costituendo l’autorappresentazione simbolica
dei luoghi di vita di una peculiare comunità, sia soprattutto perché è espressione non di ricerche
commissionate con modalità top down a un’équipe di specialisti, magari outsiders, ma di un bisogno corale
della popolazione di un preciso territorio, di un’urgenza sotterranea che ha trovato, in questo strumento, la
via per emergere da dimensioni sentimentali, individuali e passive.
Una mappa di comunità ha perciò per suo diretto connotato precipuo il fatto di essere frutto del
coinvolgimento diretto di una popolazione locale, la risultante di un processo partecipato, come si vedrà,
sempre in progress, la concretizzazione di una forma autentica di cittadinanza attiva.

La mappa di comunità è uno strumento con cui gli abitanti di un determinato luogo hanno la possibilità di
rappresentare il patrimonio, il paesaggio, i saperi in cui si riconoscono e che desiderano trasmettere alle
nuove generazioni. Evidenzia il modo con cui la comunità locale vede, percepisce, attribuisce valore al
proprio territorio, alle sue memorie, alle sue trasformazioni, alla sua realtà attuale e come vorrebbe che
fosse in futuro. Consiste in una rappresentazione cartografica o in un qualsiasi altro prodotto od elaborato
in cui la comunità si può identificare.
Viene in tal modo esplicitato un concetto “nuovo” di territorio, che non è solo il luogo in cui si vive e si
lavora, ma che pure conserva la storia degli uomini che lo hanno abitato e trasformato in passato, i segni
che lo hanno caratterizzato. Vi è la consapevolezza che il territorio, qualunque esso sia, contenga un
patrimonio diffuso, ricco di dettagli e soprattutto di una fittissima rete di rapporti e interrelazioni tra i tanti
elementi che lo contraddistinguono.
La mappa è un processo culturale introdotto in Inghilterra all’inizio degli anni Ottanta e poi ampiamente
sperimentato, tramite il quale una comunità disegna i contorni del proprio patrimonio; è più di un semplice
inventario di beni materiali e immateriali, in quanto include un insieme di relazioni invisibili fra questi
elementi. Deve essere costituita col concorso dei residenti e far emergere tali relazioni. Non si riduce quindi
ad una ‘fotografia’ del territorio ma comprende anche il “processo con cui lo si fotografa”.
Predisporre una mappa di comunità significa avviare un percorso finalizzato ad ottenere un “archivio”
permanente, e ’sempre aggiornabile’, delle persone e dei luoghi di un territorio. Eviterà la perdita delle
conoscenze puntuali dei luoghi, quelle che sono espressione di saggezze sedimentate raggiunte con il
contributo di generazioni e generazioni. Un luogo che include memorie, spesso collettive, azioni e reazioni,
valori e fatti numerosi e complessi che a volte sono più vicini alla gente che non alla geografia, ai sentimenti
che non all’estensione territoriale.

In primo luogo, le origini. Le mappe che, sempre più numerose, si vanno realizzando principalmente in
Europa, trovano la loro genesi in uno strumento concepito negli scorsi anni ’80, dovuto all’intuizione, che
tutte le fonti in materia definiscono “felice”, di Common Ground, charity britannica. L’associazione, si era
data l’obiettivo di promuovere “the common, local and everyday cultural heritage, and to link conservation
and the arts”.
La concezione dei luoghi come specifiche intersezioni di cultura e natura e l’accento posto sulla volontà di
far emergere la local distinctiveness, che rende peculiare ciascun luogo, hanno portato successivamente
all’avvio del progetto “Parish Maps”, dove il qualificativo non pone attenzione a un luogo definito da rigide
delimitazioni amministrative civili o ecclesiastiche, ma punta ad identificare come venga auto riconosciuta
dagli insiders “la più piccola arena in cui la vita è vissuta”.
Nelle intenzioni di Common Ground, il progetto era pensato in funzione di piccole collettività, ma voleva
coinvolgere anche le realtà urbane. Coerentemente con la propria mission, la Charity affidò il compito di
creare le prime mappe ad alcuni artisti che dovevano farsi interpreti del significato del luogo quale emergeva
dalla percezione delle comunità coinvolte.
Quest’esperienza trovò la sua consacrazione pochi anni più tardi, grazie alle celebrazioni del Millennium del
West Sussex, che raccoglieva oltre sessanta parish maps.
Quanto all’Italia, fu l’IRES Piemonte a manifestare il primo interesse per le mappe di comunità. Il medesimo
istituto diede inoltre un impulso decisivo alla nascita di Mondi locali. Tra le principali finalità figurano le
azioni in favore dell’identità locale, che sono portate avanti tramite progetti comuni e mirati. La
Dichiarazione di Trento pone un forte accento sull’importanza del networking a livello nazionale e dalla più
vasta rete europea di cui Mondi locali fa parte: si tratta di un’autentica necessità, perché le attività
ecomuseali sono in genere molto innovative, e dunque, il bagaglio di pratiche sperimentali cui possono
ricorrere è molto ridotto.

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Un breve inciso per convenire con T. Banini sulla pregiudizialità dell’opinione, per cui, con la rivoluzione
digitale ha facilitato l’elaborazione e la produzione di un’enorme molte di informazioni alla scala medio-
piccola, mettendo in secondo piano la conoscenza dei singoli luoghi. Infatti, negli ultimi vent’anni circa,
sono venuti fenomeni incontrovertibili, la spinta e l’ascesa dell’interesse per la conoscenza dei singoli
luoghi. Ancora prima che si definissero più chiaramente nella loro natura e nelle loro sfaccettate declinazioni
i contorni della globalizzazione e le sue ricadute a largo spettro, già Huntington aveva dato conto nel suo
discusso saggio sullo scontro delle civiltà e dell’insofferenza all’egemonia politico-economica e culturale
occidentale incarnata dagli Stati Uniti da parte di ciò che definiva “The Rest”, il fenomeno generazionale
della “indigenizzazione delle culture”. Rilevava cioè il ritorno alle tradizioni locali da parte delle nuove élite
al potere. Il nuovo successo dei micro nazionalismi delle “piccole patrie”. Il modello neoliberista di matrice
statunitense-britannico ha grande rilevanza, considerando che uno dei bracci più efficaci della sua
affermazione è costituito dall’industria culturale e da quei comparti produttivi collaterali, che, con l’ossessiva
e martellante nuova proposta di beni non primari alimentano la società dei consumi e dello spreco.
In questa direzione, la Conferenza di Rio è stata un motore potente per saldare, e favorirne una spinta
diffusiva crescente, la presa di coscienza dell’incompatibilità ambientale del modello su cui si regge la
globalizzazione con quella della sua iniquità sociale intra- ed inter-generazionale, nonché del suo pesante
effetto sulla diversità culturale, poiché mette a rischio ovunque si diffonde lingue, sapere e tradizioni locali.
Da qui, quella ricerca, di un ritorno alle origini e di un loro recupero. Da qui, anche la nuova percezione del
valore unico e imperdibile delle culture locale e, a cascata, del territorio come portatore di simboli e segni,
dei segni specifici di ognuna di esse. Quelle singole storie incarnate nelle fattezze del territorio e del
paesaggio costituiscono una potenziale risorsa per il loro sviluppo. Una risorsa da gestire e governare
secondo il principio di sostenibilità, il principio di opzione. Questo si giustifica con il fatto che di questo
crescente bisogno di ritorno alle radici e della loro rifunzionalizzazione e rivitalizzazione si è fatto interprete
il turismo culturale nelle sue declinazioni più recenti. I risultati non sono molto spesso all’altezza.
Se la globalizzazione attraverso la società dei consumi ha trovato il modo di mercificare e rendere oggetto di
consumo effimero anche le specificità culturali, bisogna tuttavia osservare che essa stessa offre al suo interno
qualche anticorpo a contrastare i processi deterritorializzanti e omologativi. Non per nulla, la identifica il
neologismo glocal, che ne esplicita la natura duale: il globale esiste solo in funzione del locale. In breve, il
globale incorpora in sé anche i geni anti-omologazione. Lo evidenzia banalmente il successo di paesi oggetto
dei primi processi delocalizzativi ad opera degli stati di antica industrializzazione, i quali hanno saputo
diventare potenze mondiali di prima grandezza, riprendendo in mano il timone della loro economia e
assumendo nuovi e rilevanti ruoli nel quadro geopolitico internazionale.
Ma, ritornando alle ricadute dell’Earth Summit del ’92, Rio, diffondendo al livello internazionale il concetto
di sviluppo sostenibile e i suoi principi, ha contemporaneamente indicato gli strumenti per la loro
promozione. Si allude all’Agenda 21. Lo strumento è importantissimo. Al di là dell’efficace pressione delle
associazioni ambientaliste che hanno indotto ad aderirvi, se non altro per una questione di immagine, anche
amministrazioni recalcitranti, l’attivazione di un’Agenda 21 locale implica non solo la chiamata diretta di
responsabilità dei decisori pubblici, ma anche quella della cittadinanza alle iniziative promosse nel suo
ambito, poiché contempla il ricorso a processi partecipativi, da cui oggi comunque, soprattutto per il livello
di sensibilizzazione sempre più elevato della popolazione è impossibile prescindere.
La “cittadinanza attiva” perciò sta divenendo un fenomeno sociale di crescente spessore che è in grado di
dare vita ad azioni di difesa anche efficaci contro decisioni non condivise prese dall’alto e/o espressioni di
interessi particolari. Molte di tali decisioni pur attenendo al locale, si rinsaldano alle logiche del sistema
dominante, e comportano molteplici ricadute che finiscono col riverberarsi in ambito socio-culturale. Al di là
dell’enorme consumo di suolo, dei devastanti fenomeni di soil sealing, delle nuove forme di urbanizzazioni,
il nuovo sistema terziario-distributivo ha evaporato i confini tra le città e le non-città, ha mutato l’uso dei
luoghi. Da qui lo spaesamento e il desiderio di ri-identificarsi con i propri luoghi.
Da un tale sfaccettato contesto di trasformazione trae le ragioni l’interesse per le mappe di comunità come
strumento per conoscere, riconoscere, rappresentare i luoghi di esistenza di una collettività. La condivisione
della conoscenza del proprio specifico patrimonio materiale e immateriale, è in grado di promuovere il
recupero di tradizioni produttive dimenticate. Queste mappe, sono il prodotto esplicito di una soggettività
collettiva. E, proprio per la modalità bottom up partecipata, hanno incontrato la positiva attenzione degli
esponenti della critica radicale ai metodi e alle ideologie sottese alla pratica della cartografia ufficiale.
Se la posta in gioco è preservare l’identità locale, una delle strutture che sono sorte prefissandosi tale
obiettivo è rappresentata dagli ecomusei, che si auto-qualificano come “processo dinamico con il quale le
comunità conservano, interpretano e valorizzano il proprio patrimonio in funzione dello sviluppo sostenibile.
Un ecomuseo è basato su un patto di comunità”. Un ecomuseo “investe un territorio omogeneo, estendendo
i suoi confini oltre le mura dei singoli edifici fino a comprendere paesaggi, panorami, aspetti fisici e
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biologici, manufatti, in breve tutti gli elementi che insistono su quel territorio, caratterizzandolo e
qualificandolo”.
Concretamente, una mappa di comunità è “uno strumento attraverso cui la collettività locale acquisisce
consapevolezza circa la specificità del luogo in cui risiede, mette a frutto i propri saperi, le proprie capacità,
memorie, conoscenze in un processo collettivo orientato a prendersi cura del territorio”. L’opera grafica che
abitualmente ne corona la conclusione esprime l’immagine del territorio quale emerge dall’insieme di
informazioni e documenti di varia natura raccolti con diverse modalità, tutti puntualmente schedati e
organizzati in un archivio affinché non vadano dispersi; e in funzione degli obiettivi individuati a monte,
nella fase iniziale del processo di elaborazione.

2. La Mappa di Comunità di Godo


Agli inizi del 2012 è stata pubblicata la Mappa di Comunità di Godo, oggi frazione del comuni di Gemona,
divenuta tristemente nota come “capitale del terremoto” del Friuli (1976). Un’esperienza, questa,
drammatica in sé, ma anche acceleratrice dei processi che avrebbero portato alla completa modernizzazione
della regione, con la fine id un ciclo storico marcato da un’organizzazione socio-territoriale tradizionale di
carattere agro-rurale. Le trasformazioni potenti indotte da questi due fattori, l’autentico e rapidissimo strappo
tra due mondi verificatosi nel volgere di qualche anno, con i forti cambiamenti dei paesaggi in senso
materiale e sotto il profilo socio-economico e psicologico, costituiscono comprensibilmente le ragioni per cui
la collettività locale ha accolto con favore la proposta dell’Ecomuseo delle Acque del Gemonese di realizzare
la propria mappa di comunità.
Il prodotto è stato edito in formato poster, come è consuetudine per le parish maps, e lo accompagna un
volume, dallo stesso titolo, che comprende tre saggi. Il primo è un accurato e documentatissimo studio di
taglio geostorico su Godo; il secondo di I. Londero, evoca un epos, legato al periodo subito successivo al
terremoto, e dell’ormai mitico “Coordinamento delle tendopoli”.
Di più stretto interesse è il contributo in cui M. Tondolo presenta la mappa. Pur rispecchiando interamente i
contenuti del documento trascritto in apertura, alcuni punti dello scritto di Tondolo vanno ripresi, perché
aprono a ulteriori riflessioni, a partire dall’esplicitazione dei fini peculiari della rappresentazione.
Riconducendo l’iniziativa della mappa tra le attività ecomuseali volte a rendere ricettive le comunità con cui
la struttura si rapporta alle trasformazioni positive del territorio, Tondolo sottolinea quanto sia importante far
emergere i tratti distintivi che rendono riconoscibile l’area di riferimento scongiurando ogni sentimento di
chiusa e animosa autoreferenzialità, fornendo invece una corretta impostazione al tema dell’identità locale,
“che deve assumere una declinazione equilibrata, trovando una sintesi tra integrazione e individualità, senso
di appartenenza a un contesto più ampio e necessità di autoaffermazione della propria specificità; la necessità
di far nascere, attivare e consolidare forse locali” in grado di assumere ruoli attivi nei processi di sviluppo
del territorio, facendo ricorso alle molteplici risorse del patrimonio culturale disponibile.
Ne discende che la mappa debba tradursi in uno sforzo anche creativo se si vuol far in modo che abbia
successo l’intento primo, ossia che la diversità di un territorio continui ad esistere, rinsaldando e ricostruendo
i legami tra persone e luoghi: il nodo consiste nel fatto che il territorio non è una mera superficie ma una
costruzione storica. È bene culturale diffuso e relazionale. Qui l’opzione è secca tra scomparire o vivere.
Perciò poiché la diversità comprende anche aspetti soggettivamente sgradevoli, è comprensibilmente
decisione delicata stabilire la selezione delle qualità che si aspira a mantenere.
La diversità è prodotto di processi che creano o appiattiscono le differenze, e, al riguardo, sono possibili due
atteggiamenti: l’uno, sostanzialmente passivo, di timore, difesa contro le dinamiche uniformanti; l’altro
guarda oppostamente alle dinamiche creative, si configura come proattivo e dunque l’elemento della
partecipazione appare fondamentale. Dunque la mappa, negli auspici vuole contenere in sé una valenza
progettuale, non limitarsi a fotografare e rappresentare l’esistente, ma, esprimendo giudizi, sottolineando
problemi, urgenze e priorità, avanzando proposte per la conservazione e il recupero del patrimonio locale,
prospettarsi come un vero piano d’azione. Si tratterà di saper inverare tale potenzialità riuscendo a trovare un
collegamento con le strutture e gli strumenti istituzionali, in modo da mettere in dialogo i risultati di un
processo partecipato, di un’azione di base, e lo strumento di pianificazione ufficiale, ricordandoli sotto il
segno di una logica di condivisione delle risorse locali e delle regole della loro gestione.
Nella rappresentazione grafica è ben leggibile la morfologia del territorio di Godo, posto ai piedi delle prime
propaggini prealpine friulane nella piana del fiume Tagliamento, dove prende evidenza simbolica l’altura che
ospita l’antico castello di Gemona, il centro storicamente dominante su questi luoghi. E lo sono egualmente
i caratteri dell’uso del suolo e del paesaggio. Lo sguardo si sofferma sull’abitato di Godo: vi si riconoscono
due abitati. Il confronto toglie subito ogni dubbio che si tratti di due centri diversi, è sempre Godo,
sdoppiato. La spiegazione di questa duplice presenza risiede in quel muro merlato che taglia il rettangolo
della rappresentazione e separa i due insediamenti: vuol simbolicamente rappresentare due fasi distinte della
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storia di Godo, materializza la netta cesura nella vita della comunità rappresentata dal terremoto. La doppia
rappresentazione dell’abitato non è però il solo modo di dare visibilità agli esiti materiali e psicologici di un
evento spartiacque tra due monti, risponde infatti a una scelta precisa del gruppo di lavoro, rimarcare la
propria appartenenza a entrambe le fasi della vita del paese. Questa mappa riflette essenzialmente il sentire
delle generazioni che hanno vissuto il terremoto in prima persona.

Immagini, identità, reputazione dei luoghi urbani:


Per un approccio partecipativo alla progettazione e gestione ambientale
Mirilla Bonnes, Renato Troffa, Erica Molinaro, Giulia Radi e Marino Bonaiuto

1. L’immagine dei luoghi e delle città nella Psicologia Ambientale


Lo studio delle immagini dei luoghi si è sviluppato all’interno della Psicologia Ambientale, pone al centro
della progettazione e della pianificazione urbanistico territoriale l’esperienza percettivo-sensibile degli
utenti/abitanti, cioè l’esperienza che, attraverso la visione e gli altri sensi, porta alla costruzione di immagini
mentali dell’ambiente.
In psicologia l’immagine può essere definita come una costruzione mentale basata su informazioni percettive
che la persona ha sull’oggetto, in grado di influenzare la percezione dell’oggetto stesso, nonché gli
atteggiamenti e le azioni dell’individuo al riguardo. Si tratta di un prodotto mentale frutto di un processo
costruttivo in cui operano memoria e forme simboliche. Tale immagine è frutto dell’elaborazione e selezione,
da parte della mente, delle caratteristiche distintive del luogo.
Secondo Lynch, l’immagine che gli individue utilizzano come quadro mentale della realtà e il prodotto sia
della percezione e della relativa sensazione immediata, che della memoria di esperienze passate, viene usata
per interpretare le informazioni e per guidare il comportamento. Nei suoi studi Lynch è andato oltre le
immagini individuali, concentrandosi soprattutto sulle immagini collettive o pubbliche. Secondo Lynch
l’immagine ambientale è costituita da identità, struttura e significato. L’immagine richiede la distinzione e
identificazione di un oggetto, cioè il suo riconoscimento rispetto ad altri oggetti, grazie alle sue
caratteristiche distintive. La capacità del luogo di far sviluppare nella mete dell’individuo delle immagini
mentali è determinata dalla sua “leggibilità”, cioè dalla facilità con cui le persone “leggono”, sviluppando
immagini mentali dalle quali prendono forma le mappe mentali dei luoghi che sono rappresentazioni degli
elementi che costituiscono la città e delle relazioni tra di essi.

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2. Identità e distintività del luogo
Le caratteristiche del luogo sono essenziali per la costruzione dell’immagine del luogo stesso. Il luogo infatti
ha una specifica identità, distintività, basata su alcune caratteristiche fisiche, umano-sociali e socio-culturali,
e su rappresentazioni/immagini.
L’identità del luogo si costruisce attraverso le rappresentazioni o immagini maggiormente condivise relative
al luogo in questione. I processi di attaccamento di luogo sono interconnessi con l’identità del luogo.
La formazione dell’identità individuale a livello personale, è considerata parte del processo di costruzione
del Sé; questo è visto come risultato di un processo di differenziazione sociale, che permette alla persona di
distinguere tra se stesso, l’ambiente e le altre persone. Secondo la Teoria del Processo di Identità, l’identità
appare come un prodotto sociale dinamico dell’interazione tra caratteristiche individuali e strutture fisiche e
sociali, in relazione al contesto sociale di riferimento.
Grazie agi studi di Proshansky sulle città, si è giunti alla definizione dell’identità di luogo come quella parte
dell’identità personale definita in relazione all’ambiente fisico in cui le persone vivono. Il processo di
formazione di una “identità personale di luogo” è stato definito come una parte essenziale dell’identità
personale che, attraverso l’interazione con gli spazi, permette ai soggetti di descriversi in termini di
appartenenza ad un determinato luogo.
Lalli ha sviluppato il concetto di “identità urbana” come una concezione localmente più specifica di identità
di luogo. Questo processo fa dunque riferimento, nello specifico, al luogo “città”, con particolare riferimento
alle caratteristiche specifiche e distintive di una città che vanno a influenzare l’identità urbana delle persone
che ne fanno parte.
L’identità urbana di luogo è quindi un processo integrato, dell’interazione di vari processi identitari di luogo
che si distribuiscono su diversi livelli, in base al ruolo assunto dalla persona in relazione alla specificità dei
luoghi urbani implicati. L’ambiente urbano si configura in realtà come un “sistema di luoghi”, la cui
principale relazione è espressa dai criteri di inclusione/esclusione e vicinanza/lontananza, in coerenza con la
“prospettiva multi-luogo”.
L’identità urbana, come parte dell’identità più completa di una persona, è il risultato di una complessa
relazione tra il Sé e l’ambiente urbano; la città diventa un riferimento generale della serie di esperienze
personali di un individuo, capace anche di fornire alla persona un importante senso di continuità temporale.

3. Dall’immagine alla reputazione dei luoghi


L’economista K.E. Boulding pone al centro della sua opera The Image l’idea che il comportamento di
acquisto o consumo di un prodotto dipenda dall’immagine che il possibile acquirente ha del prodotto stesso
o di chi produce o propone tale prodotto. Dunque l’immagine di un oggetto viene considerata come uno
strumento capace di influenzare la percezione. Lo sviluppo delle immagini, secondo Boulding dipende
dall’impatto esercitato dai messaggi comunicativi e informativi sul consumatore.
Ciò che viene illustrato da Boulding sull’immagine di un oggetto prodotto in ambito economico è stato più
recentemente applicato anche ai luoghi. Gli studi del Marketing del Turismo e della Psicologia del Turismo
si focalizzano infatti sull’immagine del luogo come strumento capace di aumentare il valore economico, essa
si basa su simboli visivi o su flagship project che rappresentano il territorio e ne costituiscono elementi di
richiamo. All’interno di questo stesso ambito economico, il termine di immagine è stato più recentemente
affiancato da quello di reputazione.

4. La reputazione: dalle persone all’organizzazione, ai paesi, ai luoghi


Nel suo articolo A Social Psychology of Reputation, Elmer fa notare come l’osservazione e l’imitazione,
rappresentino un fonte limitata di “conoscenza sociale”. Elmer evidenzia come l’essere umano sia in grado di
conoscere “l’altro” attraverso l’intermediazione delle informazioni riferite da terzi, quello che è definito
come reputazione sociale. La reputazione è una forma di conoscenza del mondo sociale, mediata
dall’interazione sociale e dall’esperienza degli altri.
Secondo Elmer e Reicher, affinché un individuo abbia una propria reputazione sono necessari i seguenti
requisiti: che appartenga ad una comunità formata da membri relativamente stabili; che l’oggetto di
conversazione di tali membri siano i comportamenti e le qualità altrui e che gli individui siano connessi tra di
loro in una rete, che collega in modo indiretto gli individui che non si conoscono direttamente. La
reputazione si forma attorno a qualità umane variabili.
La reputazione è l’esito di un processo di lungo periodo. L’esito finale di tale processo non è controllato
esclusivamente dall’individuo. Il concetto di reputazione può essere riferito anche alle organizzazione. In
questo caso, la reputazione delle organizzazioni è definita come l’insieme delle percezioni e delle opinioni
che gli stakeholder si creano, in base alle caratteristiche e ai comportamenti nel tempo dell’organizzazione
stessa. Le organizzazioni si pongono l’obiettivo di migliorare la propria reputazione attraverso strategie di
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corporate communication, ovvero attraverso la comunicazione verso l’esterno delle attività che esse
svolgono. Il concetto di reputazione si differenzia da quello di immagine per vari aspetti. In primo luogo, la
reputazione si basa su ciò che gli altri dicono sui comportamenti e sulle azioni messe in atto
dall’organizzazione. Tale giudizio sui comportamenti attuati può avere valenza positiva o negativa.
L’immagine, invece, si basa su esperienze sensoriali visive e non ha attributi valoriali; essa può essere
considerata una proprietà che sintetizza le caratteristiche peculiari dell’oggetto. La reputazione, inoltre, si
forma con il passare del tempo e non è rapidamente modificabile.

4.1. La Corporate Reputation


La corporate reputation si è affermata come risorsa strategica per l’azienda in quanto costituita da un
giudizio socialmente condiviso espresso dagli stakeholder, riferito all’azienda nella sua globalità. Il
mantenimento di una reputazione positiva si traduce in un miglioramento dei risultati economico-finanziari,
competitivi e sociali dell’azienda nel lungo periodo. Fombrun descrive la corporate reputation come una
costruzione sociale, derivata da una pluralità di stakeholder, intesa come risultante delle comunicazioni
strategiche create dall’organizzazione e riflesse dai media e dagli analisti.

4.2. Nation branding


Il costrutto di reputazione è stato applicato anche alle nazioni, Simon Anholt ha coniato l’espressione nation
brandig. In generale il concetto di branding fa riferimento all’insieme di attività strategiche e operative
relative alla costruzione e alla gestione di un “brand”, ovvero le strategie che creano l’identità e l’immagine
aziendale attraverso le attività promozionali. Anholt invece specifica la definizione di branding facendo
riferimento ai luoghi, intendendo così per nation branding una strategia di comunicazione e un insieme di
iniziative che permettano ai governi di gestire e controllare meglio l’immagine che proiettano verso il
mondo, in modo tale da attirare il successo in un contesto altamente competitivo qual è il mercato globale.

5. La reputazione di luogo e di quartiere


L’importanza e le caratteristiche della reputazione di luogo, possono essere comprese grazie alla Psicologia
Ambientale, spostando l’attenzione dalle componenti tangibili del luogo a quelle intangibili. Il luogo è
definito come “unità d’esperienza ambientale”, rilevando il ruolo attivo e intenzionale del comportamento
umano nell’ambiente, ed anche la continua integrazione tra aspetti cognitivi ed affettivi, nonché tra aspetti
individuali e aspetti condivisi, che tale comportamento assume continuamente.
Uno dei primi autori a studiare il concetto di reputazione di quartiere è W. Firey, riconoscendo che una zona
spaziale può agire come un simbolo per certi valori culturali che risultano essere associati ad esso.
Hortolanus rappresenta l’eccezione, affermando che il quartiere è visto come un simbolo della posizione che
la famiglia occupa all’interno della società, inoltre rispecchia le preferenze e lo stile di vita della famiglia
stessa; la reputazione fa quindi riferimento al significato e alla valutazione del quartiere conferita dai
residenti e dai non residenti.
Il sociologo Giandomenico Amendola ha identificato le possibili “domande” di utenza che una città può
soddisfare, sintetizzate in dieci modelli ideali di città, per ognuno di quali si evince sia la dimensione del
dover essere che la dimensione di desiderabilità della città stessa. Gli idealtipi di domanda di città proposti
da Amendola possono essere interpretati in termini di possibili dimensioni su cui viene costruita a livello
collettivo la reputazione del luogo, quindi come possibili dimensioni di una reputazione positiva di città.

6. Progettazione partecipata: il contributo dei metodi della Psicologia Ambientale alla gestione
ambientale urbana
La città, intesa sia come spazio che come comunità sociale, viene considerata dalla PA quale sede
privilegiata dello sviluppo di identità personali del luogo. Diventa quindi possibile considerare la città come
fonte e fondamento dei processi identitari personali. Tali processi possono diventare particolarmente salienti
e importanti proprio nei processi di trasformazione e riprogettazione della città, ovvero una progettazione sia
architettonica che urbanistica, fondata sulla partecipazione e coinvolgimento dell’utenza.

6.1. Studiare e vivere la città: metodi e applicazioni


Le cosiddette mappe cognitive sono diventate uno dei metodi più utilizzati dalla PA impegnata a collaborare
con il versante progettuale e gestionale dell’ambiente urbano. Tale metodo si basa sull’analisi e raccolta delle
rappresentazioni grafiche delle città, da parte degli abitanti. Consente quindi di indagare diversi aspetti della
transazione persona-ambiente attraverso un’ottica che includa non tanto, o non solo, lo sguardo esperto ma
anche, e soprattutto, quello degli abitanti. Tale analisi è infatti in grado di mettere in luce la natura “mentale
e culturale ad un tempo” di tali rappresentazioni.
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Nenci ha utilizzato questo metodo di studio per mettere in luce le modalità attraverso le quali gli abitanti
della città di Cagliari immaginano il proprio quartiere. Una simile applicazione di tale metodo consente di
mostrare in che modo la complessità dell’ambiente urbano venga concettualizzata dagli abitanti, e quale sia
la pregnante influenza delle componenti psicologico-ambientali nella percezione dell’esperienza ambientale
dei residenti. Essa può rappresentare un vero e proprio database informativo in grado di costituire un
importante punto di partenza per chi voglia affrontare il tema della ‘progettazione sociale’ o partecipata. Lo
studio appena citato ha rappresentato il punto di partenza per l’intervento di progettazione partecipata che ha
vinto il premio Paesaggio della Regione Sardegna. Il progetto partiva infatti dall’esigenza di recuperare alla
rappresentazione della cittadinanza una zona che, era emersa come sottorappresentata nella restituzione degli
abitanti, a causa della quasi assente possibilità di fruizione.
Quando si chiede alle persone di rappresentare graficamente il proprio ambiente urbano, si elicita una
risposta che include anche l’insieme di vincoli identitari e affettivi che si sviluppano nel rapporto con tali
luoghi. Come emerso nel lavoro di Nenci e Troffa, la presenza di elementi (landmarks) a forte connotazione
identitaria è in grado di interagire con le caratteristiche configurazionali dell’ambiente e di influenzare le
scelte che gli abitanti fanno quando devono muoversi nello spazio urbano. L’utilizzo delle sketch maps per
studiare gli ambienti di vita ha consentito, in letteratura, di evidenziare come l’identificazione sia in grado
anche di influenzare il livello di dettaglio nella trascrizione della rappresentazione grafica. Nel caso dei
luoghi di larga scala come città, regioni o nazioni, le persone fanno ricorso, per sviluppare l’immagine del
luogo a diverse fonti.
Uno studio di Pinheiro, che ha chiesto a un campione di studenti di realizzare una mappa grafica del mondo,
ha dimostrato come la frequenza di rappresentazione e la dimensione degli stati rappresentati fosse
profondamente influenzata da variabili sociali e geopolitiche quali il potere economico e militare e, in
maniera minore, l’affinità culturale. Altri studi hanno dimostrato che la dimensione affettiva influisce sulla
presenza o meno di elementi ambientali nelle mappe.
Tale sovrapposizione tra identità di luogo e identità personale è in grado di influenzare le relazioni con i
luoghi urbani a diversi livelli. Ne sono un esempio gli spunti forniti dai risultati degli studi sulle capacità
rigenerative dei luoghi a livello urbano. Se è apparso chiaro, negli anni, come gli ambienti naturali siano
tendenzialmente più rigenerativi rispetto a quelli costruiti, il numero crescente di persone che vivono nelle
città ha spinto a studiare in maniera sempre più approfondita l’influenza delle diverse tipologie di ambienti
urbani.
Recenti studi hanno messo in evidenza come i luoghi rappresentativi della storia architettonica e culturale di
una città possano avere un potenziale rigenerativo simile a quelli naturali, ed essere percepiti dagli abitanti in
maniera più positiva rispetto al altri luoghi urbani meno connotati dal punto di vista storico identitario.
Il concetto di identità dei luoghi, a livello urbano, va inteso, come detto, non solo in relazione alla misura in
cui i luoghi possano essere capaci o meno di interagire con lo sviluppo dell’identità individuale o sociale
delle persone, ma, anche, di quanto i luoghi stessi siano, nella percezione degli abitanti, connotati da una
precisa identità o distintività. La PA ha incluso nell’ambito dell’oggetto di studio anche il concetto di
paesaggio, inteso come elemento ambientale che influisce sulla formazione delle culture e identità
territoriali. La percezione del paesaggio include elementi connessi all’identità, che possono andare anche
oltre l’esperienza diretta dell’individuo. Studi recenti hanno infatti mostrato che sembra esistere una identità
del luogo che può portare le persone a esprimere un sentimento di identificazione non solo per i propri
ambienti di vita, ma anche per luoghi e paesaggi che, pur non appartenendo alla loro sfera di esperienza
diretta richiamino, nella propria configurazione e nella propria immagine, elementi che siano percepiti come
pertinenti all’identità dei luoghi da cui i cittadini provengono.

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L’identità capovolta: il caso di Scampia
Silvia Siniscalchi

1. Premessa
La difficoltà intrinseca di definire i caratteri identitari di un territorio, legata alla stratificazione plurisecolare
delle componenti geostoriche in esso sottese o, per converso, alla loro assenza, è oggi ancor più accentuata
dallo stravolgimento dei generi di vita tradizionali e dalle profonde trasformazioni economico-sociali che,
hanno profondamente modificato i rapporti tra collettività e ambiente, anche dal punto di vista percettivo.
Se i centri collinari sono in gran parte rimesti legati a forme tradizionali di economia e, proprio in virtù del
loro “sottosviluppo”, hanno conservato pressoché intatti legami con le proprie identità culturali, i grandi
centri di inaura si sono invece significativamente trasformati. Solo da qualche decennio, infatti, la cura per
l’ambiente e il paesaggio nonché l’attenzione verso i valori geostorici e identitari dei territori e delle
collettività che li popolano, sono divenuti concetti pienamente legittimati e assurti all’attenzione dei
legislatori e dell’opinione pubblica.
Nell’ambito di tale “campagna” di sensibilizzazione emerge con particolare evidenza il problema di alcune
periferie. La marginalità e la scarsa qualità dei servizi di questi spazi periferici è stata nondimeno per lunghi
anni ritenuta “normale” e niente affatto scandalosa. La distanza dal centro urbano e l’assenza di un’identità
geografica riconoscibile hanno finito spesso con l’indurre nella percezione collettiva dei territori periferici la
convinzione che fossero una sorta di eschatià (terra di nessuno), offrendo più facilmente il fianco a fenomeni
di degrado sociale e culturale.
Si tratta di zone d’ombra, snaturate da alterazioni paesaggistiche che ne hanno occultato il genius loci, la cui
immagine è stata spesso fatta coincidere in toto con fenomeni negativi fortemente connotativi. Tra queste
aree periferiche il quartiere di Scampia è divenuto tristemente famoso presso il grande pubblico; soprattutto
grazie alla spettrale effigie delle Vele. Scampia si è trasformata infatti nel simbolo del profondo degrado
sociale, morale e ambientale di una parte della Campania. Di una visione complessiva di quest’area
periferica, attraverso la riscoperta dei suoi elementi geografici e storici originali, può essere allora un valido
baluardo da contrapporre all’icona negativa che oggi la connota univocamente.

2. Sulle possibili definizioni del concetto di “identità” geografica


Il “principio di identità” denota nella logica classica l’uguaglianza di un elemento rispetto a sé stesso in un
determinato tempo. Il senso logico-etimologico del termine non ne ha però limitato la diffusione,
trasformandolo in un concetto trasversale. In assenza di una definizione rigorosa il vocabolo si è così
progressivamente “usurato” e svuotato di significato al cospetto di contesti multiculturali sempre più
relativisti, oppure è stato svalutato da un certo “establishment” scientifico. Ma se anche molti geografi hanno
iniziato a mettere da parte l’argomento, il concetto di identità deve avere per davvero perso qualcosa in
“appeal” e credibilità dal punto di vista speculativo. Eppure si tratta di un principio gnoseologico
fondamentale. Non si può infatti rinunciare al valore teoretico del concetto di identità, quale forma di
autocoscienza necessaria e preliminare per ogni tipo di conoscenza né, di conseguenza, si può negare il suo
valore etico, fondativo di ogni forma di convivenza sociale, ancorò più in una prospettiva di integrazione
multiculturale. La questione non è solo di carattere teoretico, ma “pratico” come emerge subito dalla
constatazione che l’odierno contatto interculturale “non appare solamente il frutto del traffico di merci, beni
e tecnologie, ma anche della circolazione di persone e significati in un’ottica di definizione delle nozioni di
“società” e “cultura” sicuramente più problematica rispetto a quanto lo fosse in passato”.
Il concetto di identità territoriale non può quindi essere inteso staticamente come qualcosa di stratificato,
immutabile e permanente, perché, pur fondato su valori condivisi, è in costante mutamento. I geografi
possono così discutere compiutamente di identità solo “in senso dinamico e suscettibile di continua
ridefinizione, ed anzi è necessario che ne parlino, quanto meno perché essa continua ad essere praticata e
disegnata nelle stanze dei bottoni, finendo col ripercuotersi su collettività e territori, a prescindere dagli
scetticismi postmoderni”. Intesa come processo collettivo continuativo, l’identità territoriale si configura così

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non solo come pre-requisito dello sviluppo locale, ma anche come produzione di una specificità che è al
tempo stesso diversità culturale, sociale, territoriale ovvero patrimonio di validità globale”.
Aversano considera l’identità territoriale in termini sistemici e crono-spaziali come una sommatoria dialettica
di molteplici frammenti: “paesaggi rurali e urbani, generi e stili di vita, ideali condivisi, strutture sociali ed
economiche, in sintesi caratteri culturali che nella storia si sono accavallati, fusi o sostituiti a seconda
appunto dei rapporti dinamici tra società e contesto naturale originario”. Balestrino ritiene che il termini
denoti in un “territorio delle caratteristiche fisiche particolari, che ospita un popolazione omogenea per
genere e tenore di vita, cultura, tradizioni” e che può essere distinto in vari tipi, in relazione alle diversità
ambientali, storiche, economiche, culturali, etniche.
Grillotti Di Giacomo che prende in esame separatamente i termini “identità” e “territorio”, per poi riflettere
sulla loro congiunzione, che “esprime dunque e innanzitutto, un rapporto: quello tra soggetto e oggetto, tra
uomo e ambiente, tra sfera privata e collettiva di un sentimento di appartenenza, tra dimensione reale di uno
spazio definito/delimitato e capacità/volontà di riconoscersi in esso”.
Se l’identità territoriale è frutto di uno studio approfondito di natura trasversale, non se ne può allora ridurre
la portata ai discorsi sulle identità locali promossi da iniziative di stampo politico o amministrativo. Non di
rati, infatti, le operazioni di branding territoriale sono sottovalutate e si risolvono in un’azione di marketing.
Se si rivelano fasulle le pseudo-identità di luoghi contraddistinti da immagini artefatte, costruite a tavolino e
propagandate mediaticamente a fini per lo più turistico-divulgativi, altrettanto fasulli si rivelano i cliché
identitari negativi sostenuti dai mass-media a proposito di realtà urbane particolarmente degradate e
abbandonate a sé stesse. In simili circostanze capita che “le identità urbane siano attribuite soprattutto
dall’esterno e per l’esterno, sostenute magari da rappresentazioni cinematografiche, musicali, letterarie e
artistiche”, fornendo un’immagine alterata e riduttiva dell’identità di un luogo, senza le necessarie distinzioni
e sfumature che ne fanno parte.

3. Il quartiere di Scampia fra storia e originaria identità territoriale


Se l’attuale notorietà di Scampia si lega all’immagine delle Vele e del loro degrado, la storia del quartiere è
inserita, molto più ordinariamente nella scia di profondi mutamenti provocati dal processo di
industrializzazione e urbanizzazione iniziato negli anni ’50, con lo spostamento di grandi flussi di
popolazione, e il conseguente sviluppo delle periferie, ampliato dalla crescita demografica e dai progetti
dell’edilizia popolare. L’intera area settentrionale di Napoli mostra i segni di un pauroso degrado, disagio
abitativo e marginalità urbana, nella progressiva concentrazione di flussi insediativi a basso reddito in un
tessuto edilizio dove antichi casali coesistono con abitazioni “popolari”, insediamenti di prefabbricati pesanti
del post-terremoto e fenomeni di abusivismo.
In questo caotico stravolgimento degli assetti territoriali preesistenti rientra anche la costruzione del quartiere
di Scampia, realizzato nella seconda metà degli anni Settanta nell’area Nord di Napoli, attraverso la
sottrazione di molti ettari di terreno alla campagna coltivata, in una zona gravitante verso il Piano Campano.
Ai primi dell’Ottocento il toponimo “Scampia” denotava infatti, una distesa ordinata di casali e terreni
coltivati, “luogo piano, aperto e poco coltivato”, “scampagnata”.
Dopo la distruzione delle tracce lineari del primitivo territorio rurale l’unico riferimento identitario originario
è proprio nel nome stesso. Il quartiere, divenuto circoscrizione solo nel 1985 e sorto a ridosso di altri
quartieri limitrofi, è frutto di un piano progettuale via via modificato, integrato con una serie di affidamenti a
diverse cooperative edili, risultando quindi disorganico. Scampia appare come un’area residenziale
monofunzionale, priva di luoghi che favoriscono occasioni di scambio e incontro tra gli abitanti, che vino un
senso di disgregazione senza potersi sentire parte di una comunità di quartiere.
La situazione appare tanto più paradossale e perversa se si riflette sulla circostanza che il progetto
dell’architetto Franz Di Salvo per la costruzione delle famose sette “Vele”, approvato nel 1972 e realizzato
tra il ’75 e il 1981, era ispirato ai principi architettonici più avanzati, e aveva proprio l’obiettivo di riportare
la tradizione “del vicolo” all’interno della megastruttura, con un insediamento ad alta densità abitativa
sviluppato in altezza che potesse favorire i contatti sociali. Vi si aggiungeva l’abbondanza di spazi verdi. Il
terremoto del 1980, però, avrebbe determinato lo stravolgimento delle finalità di questo avveniristico
progetto. Ai regolari assegnatari degli alloggi si sarebbero aggiunti molti inquilini abusivi. L’occupazione
illegale e precoce degli alloggi ha così contribuito al fallimento del progetto e delle politiche urbane,
condannando al degrado le case occupate. Mentre in assenza di attività commerciali e artigianali, Scampia è
diventato un “quartiere dormitorio”. A causa della povertà economica degli abitanti delle Vele, la camorra ha
quindi gioco facile nel reclutare giovani leve, trasformando Scampia in un “vero e proprio centro direzionale
dell’imprenditorialità mafiosa” e facendo vivere i residenti in un clima di circospezione e diffidenza,
esasperata dal senso di esclusione e disparità sociale che provano quotidianamente. Scampia è così diventato
un “quartiere bunker” dove tutti sanno di tutti.
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4. L’identità di Scampia attraverso le interviste ad alcuni abitanti del quartiere
Tuttavia un ruolo fondamentale per il sostegno e per il recupero della popolazione è svolto dalle associazioni
laiche e dalla chiesa cattolica, “vero e proprio stakeholder, dotata sia di strutture che di disponibilità
economiche per poter portare avanti forme di intervento sul territorio”. Importante la figura di don Aniello
Manganiello, padre guanelliano e parroco di Scampia dal 1994 al 2010, tuttora impegnato in coraggiose
azioni di contrasto contro la camorra e nel sostegno spirituale e materiale delle famiglie povere del quartiere.
Proprio grazie all’intermediazione di don Aniello è stato possibile incontrare e rivolgere qualche domanda ad
alcuni degli abitanti di Scampia, per cercare di verificare, in via del tutto sperimentale, l’esistenza di un loro
possibile senso di appartenenza al territorio.
Dalle interviste è emerso che il rapporto tra collettività e quartiere è abbastanza diversificato, soprattutto in
relazione all’età e alla diversa tipologia dei suoi abitanti. Per quanto riguarda i residenti delle “Vele” il senso
d’identità e appartenenza a Scampia è pressoché inesistente. Nemmeno creano relazioni autentiche e
profonde tra loro. I loro limitati riferimenti spaziali sono le aree verdi, dal punto di vista geografico-naturale,
e, dal punto di vista delle relazioni e interazioni sociali l’Oratorio Don Guanella e “la villa”, a suo tempo
inaugurata da Papa Giovanni Paolo II. Affermano però che la loro prospettiva cambierebbe se esistessero
possibilità di lavoro e se non ci fosse l’opprimente presenza della camorra sul territorio.
Per converso, alcuni cinquantenni del quartiere sono irritati dall’immagine negativa diffusa dai mezzi di
comunicazione. Replicano polemicamente alle domande sulla criticità della realtà territoriale in cui vivono
con affermazioni deliberatamente provocatorie e surrettizie. Presentano Scampia come una parte di Napoli
ordinata e tranquilla, come una realtà che nessuno conosce veramente, già a partire dal significato del nome,
e contestano la convinzione diffusa dai media sulla presunta pericolosità e sull’identificazione con le Vele.
Respingono il cliché affibbiato a Scampia di luogo del degrado e di spaccio della droga. Le Vele, poi,
originariamente bellissime, sono state trasformate in un simbolo di degenerazione a causa di scelte politiche
sbagliate.
La situazione cambia nel caso di giovani di età compresa fra i trenta e i quarant’anni, nati o trasferitisi a
Scampia durante l’infanzia. Questi ragazzi conoscono bene le dinamiche e la storia del quartiere, non ne
negano la criticità, ma il loro senso di appartenenza al territorio è radicato e fondato sulla consapevolezza
della storicità delle sue vicende recenti e sulla possibilità di superarle.
L’ultima intervista è stata rivolta a un gruppo di ragazzi poco più che ventenni, che girano tranquillamente
per il quartiere, sapendo perfettamente come comportarsi in relazione alle varie situazioni che lo connotano.
Hanno una visione lucida della realtà: sanno che Scampia è una piazza di vendita della droga, ma sanno
anche che ad acquistarla non sono gli abitanti del quartiere. La loro conoscenza della zona è completa.
Nell’osservarli viene spontaneo chiedersi se gli abitanti di una qualsiasi altra città siano così ben preparati
sulla conoscenza topografica delle sue strade. I ragazzi di Scampia, dimostrano di conoscerla ed amarla. Non
condividono le iniziative promozionali e le campagne mediatiche elettorali volte a illudere i residenti ma
apprezzano alcuni dei progetti avviati per la riqualificazione del quartiere. Sono dubbiosi sulla reale
attuazione di questi progetti.

5. Conclusioni
È ormai palese la necessità di prestare maggiore attenzione alle aree periferiche “al fine di costruire ‘presidi
identitari’. Capaci di fornire un contributo ad un processo di costruzione del legame sociale. Ma perché il
recupero identitario di Scampia sia strettamente collegato alla possibilità di accrescerne durevolmente il
benessere e lo sviluppo, bisogna che al recupero sul piano culturale si affianchi quello materiale. Il recupero
dell’identità territoriale gioca un ruolo fondamentale, perché evidenzia l’esistenza di nuovi rapporto tra centri
e periferie, dove non sempre sono i primi a dare impulso e sviluppo ai secondi.

Identità urbane e comunità immigrate. Il quartiere Marina di Cagliari


Silvia Aru e Marcello Tanca

1. Introduzione
Il concetto di identità territoriale mette in relazione due termini, quello di identità e quello di territorio.
Ancora più complessa è forse la sfida posta dall’operazionalizzazione di tale concetto.
Il contesto da noi scelto per tarare gli strumenti e gli indicatori ritenuti più idonei per la rilevazione delle
identità territoriali è l’ambito urbano proprio perché la crescente complessità delle città ci sollecita ad
elaborare nuovi linguaggi e nuovi strumenti d’analisi che cerchino di catturare i tratti principali di questa
complessità. Il caso di studio è la Marina, uno dei quattro quartieri storici di Cagliari. In esso convivono, in
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un interessante rapporto dialettico, pratiche e usi del territorio molteplici, frutto dell’azione territoriale dei
differenti attori che forgiano la storia e la fisionomia tanto fisica quanto sociale della sua trama urbana.
La capillare diffusione di attività legate all’imprenditoria straniera crea, quello che in ambito geografico si
definisce ethnoscape ben definito, frutto del fenomeno noto come etnich business. Marina diventa un varco
di visibilità delle varie comunità immigrate all’interno della società di insediamento.
Indagare l’identità territoriale del quartiere Marina fa interagire inevitabilmente il concetto di identità
territoriale anche con il fenomeno del mutamento; mutamento insito non soltanto nello scorrere naturale del
tempo, ma anche ni processi di cambiamento sociale e paesaggistico legati al più ampio fenomeno
migratorio.

2. Rilevare le identità territoriali di Marin: metodi e strumenti d’indagine


Partiamo dalla distinzione proposta da Tiziana Banini tra identità del luogo e identità di luogo per
schematizzare, il modo da noi scelto per operazionalizzare il concetto di identità territoriale nel quartiere di
Marina e le metodologie di analisi che stanno orientando la ricerca attualmente in fieri.
Per identità del luogo abbiamo inteso gli aspetti materiali ed immateriali che connotano un territorio. Ci
siamo soffermati sulla sua memoria storica intendendo sia il paesaggio come si presenta sia l’agire dei
differenti attori sociali.
L’identità di luogo è stata definita come il senso di appartenenza individuale e collettivo al territorio.
Abbiamo dato ampio spazio alle interviste che catturano meglio la narrazione identitaria. Accanto alle
interviste si sono utilizzati altri due indicatori di identità di luogo. Il primo riguarda la presenza di esplicite
reazioni di gruppo rispetto a decisioni di intervento “top-down” del Comune sul quartiere. Per individuare
questo tipo di indicatore è stato utile tornare ad un concetto elaborato in ambito geografico all’interno di
studi non specificatamente dedicati al concetto di identità, ma fortemente connessi ad esso.
Il geografo Ola Soderstrom utilizza il concetto di semiofora per individuare il punto critico in cui un oggetto
al di là delle sue caratteristiche materiali e stilistiche diviene patrimonio, ovvero bene culturale, nella valenza
più ampia possibile attribuibile al termine “cultura”. Una tale azione dal basso spingeva dunque Soderstrom
ad interrogarsi sul processo di attribuzione da parte dei residenti di un particolare significato e valore a certi
elementi del territorio: “per il geografo mi pare più interessante il compito di considerare la maniera in cui
gli attori territoriali si muovono, al fine di far parlare i beni culturali, cioè di analizzare come essi vengono
inseriti in trame progettuali”.

3. L’identità del luogo tra paesaggi migratori ed ethnoscapes

3.1. Profilo insediativo e identitario della Marina


Tradizionalmente la Marina presenta un preciso profilo insediativo e identitario, legato principalmente al
porto, al quale è spazialmente contiguo, e fortemente intrecciato allo sviluppo economico e sociale della
città. Qui risiedevano le maestranze addette al suo funzionamento e si teneva il mercato del sale, ma il
quartiere fungeva al tempo stesso da appendice commerciale del quartiere di Castello, sede del potere
politico e civico. Questa forte identità e il suo carattere pluristratificato si sono potuti conservare anche
grazie alla compattezza spaziale e morfologica del quartiere. Non è particolarmente difficile individuare e
circoscriverne i contorni. Si può pertanto parlare di “apparente semplicità planimetrica” della Marina, sia per
la sua figura, che ricorda un quadrilatero, sia per la sua struttura. L’identità commerciale della Marina ha
subito una fase di decadenza e degrado nel secondo dopoguerra che è culminata negli anni ’90; a questi
fenomeni si è accompagnata, in parallelo, un decremento della popolazione residente che ha prodotto un calo
vertiginoso della popolazione.
Tra le trasformazioni materiali e/o di senso disegnano oggi il nuovo quartiere un posto a parte meritano
quelle che sono strettamente legate alla presenza degli immigrati extracomunitari. Secondo le stime ufficiali
le prime tre comunità straniere più rappresentate nel quartiere sono quella senegalese, con 82 presenze,
quella pakistana con 78 e quella bengalese con 58.

3.2. Paesaggi migratori ed ethnoscapes


Ciò che questi dati ci comunicano forse un po’ troppo aridamente è che siamo in presenza di un vero e
proprio paesaggio migratorio prodotto da quelli attori locali che sono gli immigrati e di cui riflette in un
certo qual modo i “pluralismi identitari”. La nozione di “paesaggio migratorio” non sembra allontanarsi
troppo dal dettato della Convenzione Europea del Paesaggio, là dove questa definisce all’art. 1 il paesaggio
come “una determinata parte del territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva
dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Alla percezione del territorio da parte dei
residenti la decodificazione del paesaggio migratorio affianca dunque lo studio delle modalità attraverso le
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quali i luoghi assumono nuove connotazioni “etniche”. I tratti tipici della quotidianità e dei contesti di vita,
disegnano delle sensuous geographies per dirla con Rodaway, e ci permettono un ulteriore passaggio: quello
che dal paesaggio migratorio ci conduce agli ethnoscapes o paesaggi etnici. Questa nozione deve la sua
origine ad Arjun Appadurai il quale in Modernità in polvere ne parla come di “quel paesaggio di persone che
costituisce il mondo mutevole in cui viviamo”. L’ethnoscape, in quanto componente dell’identità del luogo
comprende, oltre alle pratiche abitative e insediative, lo sviluppo del cosiddetto commercio etnico che nella
Marina si inserisce in un quadro che risente della chiusura dei piccoli esercizi commerciali tradizionali e
della dislocazione suburbana dei luoghi del commercio. Si può notare che le attività artigianali e commerciali
promosse da imprenditori di origine straniera ha potuto svilupparsi su un terreno ricettivo e “molle”, dal
quale ha ereditato sia la stratificazione sociale “popolare” che certe tradizioni commerciali. Il commercio
etnico, infatti, che “ripropone inaspettatamente alcuni tratti dello spazio commerciale tradizionale, quasi
premoderno” si riallaccia alle forme della vita commerciale che contraddistingueva la Marina anche nel
passato. Ad esso va affiancato il commercio ambulante.

4. Dal senso di appartenenza alle marche di identità territoriale

4.1. L’identità di luogo


L’indagine empirica si basa in buona parte su interviste e sui questionari semi strutturati che stiamo
conducendo sia tra coloro che abitano a Marina, sia tra gli outsiders. La categoria degli outsiders è stata
compresa perché aiuterà a rilevare, in fase di analisi dei dati, sia l’identità del luogo del quartiere sia i
sentimenti di appartenenza ad esso rivolti.
I dati dei questionari semi strutturati e delle interviste verranno dunque analizzati cercando di far emergere
gli elementi ricorrenti attraverso cui si struttura il senso di appartenenza degli insider, l’identità attribuita alla
Marina dagli outsider ed eventuali sentimenti di appartenenza proiettata in questo quartiere che, per motivi
che andranno appunto chiariti in dettaglio colta per volta, potrebbero investire anche quest’ultima categoria.
Tra gli aspetti che emergono, figurano, ad esempio:
1. La memoria storica del quartiere che trascende l’ambito ristretto dei suoi confini per porsi come
emblema della Cagliari più popolare e verace: “Ci sono radici nostre e della nostra storia” (insider,
M, 61 anni); “Marina mi fa pensare al passato, per la storia. Stare qui è un tuffo nel passato che non
ho conosciuto. Quando sono lì penso c he Cagliari fosse così quando io non ero nata” (Outsider, F,
56 anni);
2. Gli odori;
3. La morfologia (strade strette e vista sul mare);
4. L’inclusività sociale del quartiere
L’inclusività è un aspetto decisivo che emerge, in particolare, dall’analisi delle interviste degli immigrati.
Uno dei motivi per cui tale quartiere e la sua fisionomia vengono associati all’inclusività è legato anche al
fatto che in esso operino un gran numero di associazioni, rivolte nello specifico all’accoglienza dei migranti.

4.2. Le semiofore del quartiere: il parroco e il carnevale “non si toccano!”


La chiesa di Sant’Eulalia rappresenta, al di là delle funzioni più prettamente legate al culto, uno dei
principali luoghi di aggregazione per i cattolici, italiani e stranieri, del quartiere e non solo.
Il giorno 17 luglio 2010 si è avuto un duro scontro tra la comunità parrocchiale della chiesa e l’allora
Arcivescovo di Cagliari Mani. Numero si fedeli erano accorsi per protestare contro il trasferimento del
sacerdote del quartiere di Marina. La frase pronunciata dal vescovo “Questa non è una chiesa. Questa è
baracca” ha alzato la tensione già presente in sala. Il nodo conflittuale che ha alimentato la rivolta è stato
proprio il diritto negato di autogestione della comunità cattolica sulla chiesa simbolo del quartiere.
Un altro momento significativo di forte coesione comunitaria è rappresentato dalla festa del Carnevale. Nel
2009 le tre associazioni che storicamente curano l’organizzazione del Carnevale cagliaritano sono state
estromesse dal Comune dalla gestione a favore di un’altra associazione. La reazione non si è fatta attendere.
La mobilitazione cittadina ha permesso la realizzazione di due sfilate alternative. È da notare che al centro
della polemica vi sia l’idea che la base della legittimità sia proprio il continuare il carnevale secondo
tradizione, là dove tale termine non rimanda solo alle forme del carnevale, ma alla stessa organizzazione.

4.3. La “messa in scena di Marina: dai Lapola al Marina Cafè Noir


A Cagliari il quartiere di Marina è emerso anche come palco di interessanti progetti culturali di respiro
regionale e non solo. In questo caso non è semplice chiarire la distinzione tra identità del luogo e identità di
luogo. Si tratta però di due esperienze che agiscono in maniera decisiva nella costruzione della complessa
identità territoriale di Marina, pertanto non possiamo non citarle. Esse sono: il gruppo teatrale Lapola e il
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festival letterario Marina Cafè Noir. Il fenomeno Lapola nasce nel 1990. La forza del gruppo sempre
risiedere proprio nello “scaraventare sul palco personaggi e dizionario di una città nascosta. Il Marina Cafè
Noir è un festival di letterature e saperi, cinema e teatro, musica e arti visive organizzato a Cagliari dal 2003,
nel mese di settembre nel quartiere di Marina dall’Associazione Culturale Chourmo. La cornice del centro
storico e la usa popolarità garantisce quello scambio e quella partecipazione tra artisti e spettatori che è parte
stessa del MCN, vista la sua vocazione inclusiva e gratuita.

5. Conclusioni
La Marina costituisce quello che può essere definito uno spazio “poroso, caotico, locale e imprevedibile”. La
sua stessa identità è multipla, plurale, eppure al tempo stesso coesa e riconoscibile. Si evidenzia così un
curioso paradosso, quello per il quale la riconfigurazione degli spazi non ha cancellato i suoi tratti identitari,
cosicché il quartiere ha saputo conservare la propria identità pur trasformandosi e riconquistandosi. Si
presenta come “uno spazio euristico in grado di produrre conoscenza riguardo ad alcune grandi
trasformazioni di un’epoca”, può essere applicato al quartiere inteso come laboratorio di una nuova
convivenza tra tradizione e novità, identità e cambiamento, passato e presente, nel quale si preannunciano
forse anche futuri assetti territoriali.

Metodi di coinvolgimento attivo della comunità locale: riflessioni a partire dal caso di rigenerazione
urbana di un quartiere periferico di Milano
Davide Boniforti, Ennio Ripamonti e Luca Rossetti

1. Introduzione
Il lavoro di rete incontra il tema dell’identità territoriale come rappresentazione plurale di un territorio
periferico coinvolto in un processo partecipativo scandito da diverse tappe contrassegnate da una progressiva
maggiore integrazione. Il percorso partecipativo è stato portato avanti da membri dell’equipe appartenenti a
diversi discipline.
Il processo partecipativo nel quartiere popolare di San Siro vive grazie al dispositivo legislativo dei Contratti
di Quartiere II che attua un intervento di riqualificazione urbana che origina nel superamento del degrado
fisico urbano.

2. Il contesto locale di riferimento


Il quartiere San Siro a Milano è un quartiere popolare confinante con una zona residenziale di pregio vicina
al noto stadio. Questo quartiere è costituito da un quadrilatero di abitazioni realizzate a partire fagli anni ’30.
La zona popolare del quartiere, edificata nell’epoca fascista, ha subito profonde modificazioni nel corso di
questi ultimi venti anni. In particolare i flussi demografici hanno visto crescere, a fronte di una popolazione
originaria di nuclei familiari milanesi e di emigrati provenienti dal Sud, nuove ondate migratorie
prevalentemente di origine magrebina. Nel quartiere operano diverse organizzazioni, attive nel far fronte alle
molteplici esigenze degli abitanti. Le persone anziane vivono problemi economici, di solitudine, di salute,
accompagnati da una difficoltà di mobilità. Nel quartiere sono stati inoltre evidenziati disagi collegati
all’integrazione delle famiglie straniere.
Nel quartiere risulta inoltre significativo il numero di persone assegnatarie di alloggi con problemi psichici a
fronte di un presidio sanitario territoriale. Con le nuove ondate migratorie diverse attività commerciali gestite
da italiani si sono riconvertite in macellerie islamiche.

3. L’operatività dell’accompagnamento sociale


Il dispositivo ministeriale del bando dei Contratti di Quartiere, prevede la nascita e l’operatività di un
Laboratorio di Quartiere. Il Laboratorio si occupa di una serie di azioni di relazione e facilitazione incentrate
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sull’ascolto, l’informazione e la comunicazione realizzate mediante l’apertura di uno sportello per i cittadini,
ma anche momenti di incontro e progettazione. Il Laboratorio coordina e sostiene la rete di relazioni tra le
associazioni e i gruppi. Si tratta di una scelta finalizzata anzitutto, nelle sue prime fasi, alla realizzazione di
un calendario delle attività di animazione degli spazi pubblici. In particolare il Laboratorio si occupa
concretamente di informare sui lavori, curare la relazione con ALER (Azienda Lombarda Edilizia
Residenziale) per gli interventi in atto nella logica della gestione delle informazioni e del confronto con le
istituzioni finalizzata alla soluzione del problemi. Il laboratorio costituisce anche uno sportello di
orientamento per i problemi del vivere quotidiano, un riferimento di “filtro” e indirizzo delle domande
sociali ad altri servizi e delle realtà locali e metropolitane. Molte delle proposte attive ed emerse non sempre
possono essere riproposte in contesti differenti; costituiscono metaforicamente un “abito” che necessita di
adattamenti sulle caratteristiche peculiari del territorio, calate in un particolare momento storico e sociale.

4. Il coinvolgimento: un percorso a tappe


Dapprima è stata realizzata un’azione di mappatura finalizzata al contatto e alla conoscenza con alcuni
“testimoni privilegiati” del quartiere. Successivamente sono state messe in atto occasioni e “procedure” più
incisive per rafforzare la conoscenza reciproca. L’accompagnamento sociale mediante il lavoro di rete ha
costituito nel suo complesso occasioni e percorsi di facilitazione a tappe realizzate con strumenti quali tavoli
di lavoro. Si sono create così le condizioni per dare vita ad un sistema di partenariato tra le varie realtà
associative locali. Il Laboratorio ha cercato di portare il proprio contributo alla soluzione di problemi che
sorgono nei luoghi dell’abitare.
Uno dei principali ingredienti dell’attività quotidiana del Laboratorio è fornire informazione sui lavori di
riqualificazione dei caseggiati, delle abitazioni e dei luoghi pubblici. Una delle funzioni relazionali più
rilevanti del Laboratorio è quella di comunicare direttamente con i cittadini. Talvolta l’intervento del
Laboratorio si è inserito in processi che hanno previsto un esercizio diretto di potere delegato da parte delle
realtà della rete territoriale o di cittadini. Un altro importante versante di mediazione è stato quello relativo
alla gestione dei processi di mobilità per un intervento di ristrutturazione che ha comportato la necessità di
trasferire gli abitanti per realizzare i lavori.
La frequentazione dei luoghi di aggregazione in maniera costante e l’instaurazione di un dialogo permettono
di conoscersi e ascoltarsi facendo crescere, passo dopo passo, una relazione di fiducia. La dimensione
dell’ascolto attivo, è stata fondamentale per costruire una relazione significativa con i destinatari
dell’intervento, implicando il passaggio da un atteggiamento del tipo “giusto-sbagliato”, ad un altro in cui si
assume il punto di vista dell’interlocutore per comprendere la ragionevolezza dei comportamenti.

5. Il ruolo dell’animazione
Animare un territorio comporta la necessità di promuovere e supportare attività volte all’integrazione sociale
e culturale. Tutto questo si traduce in esperienze di condivisione volte ad aumentare l’interazione e la
conoscenza dei diversi abitanti e delle loro provenienze, spesso mirate alla valorizzazione delle risorse
individuali e alla possibilità di considerare l’altro come soggetto in grado di soddisfare bisogni individuali e
collettivi. La gestione e l’intervento rispetto a problemi territoriali presuppone sovente la necessità di
renderli disponibili ed evidenti alla cittadinanza. A tal fine sono state realizzate attività di sensibilizzazioni
attorni a temi specifici, diverse delle quali hanno messo in moto percorsi ed interventi successivi. Si è trattato
di momenti costruiti anche con l’apporto dei soggetti della rete territoriale grazie all’esperienza dei tavoli di
lavoro. Momenti che hanno creato anch’essi le condizioni per sperimentare la possibilità di “mettere in
piazza” problemi, criticità e, nel contempo, attivare risorse, dall’interno e dall’esterno del territorio, per
coordinare azioni e buone pratiche di cittadinanza.

6. La partecipazione: un concetto articolato


Ragionare e pianificare interventi in un contesto territoriale come quello di San Siro richiama la necessità di
progettare interventi di partecipazione che coinvolgono gli attori locali attorno a questioni affrontabili; il
lavoro sociale di rete si configura come una modalità operativa in una situazione caratterizzata da elevata
complessità. Prendendo in considerazione il tema dei lavori di riqualificazione delle case e dei luoghi,
autentico “core business” del Contratto di Quartiere, guardiamo più da vicino i processi partecipativi per
evitare di definire in maniera troppo generica e mitizzante la partecipazione quando, nei fatti, si ha a che fare
con l’attivazione di una varietà di dinamiche e pratiche di coinvolgimento: informazione, comunicazione,
consultazione mediazione di conflitti, potere delegato; questa scala è quella elaborata da Arnstein e che, in
tempi più recenti è stata riformulata da Wilcox.

7. La specificità dell’operare nei luoghi dell’abitare


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Le condizioni dell’abitare costituiscono un campo delicato nelle relazioni con le persone ei nuclei famigliari.
Una serie di elementi che conducono a leggere e considerare il territorio riferendosi al concetto di sense of
place che interpella le dimensioni cognitive, affettive e conative di un individuo. I luoghi sono talvolta
espressione dell’abbandono di un altro quartiere, a volte incarnano la speranza di mettere nuove radici. Il
consolidamento e la costruzione del tessuto sociale locale è avvenuto tra una “maggioranza silenziosa” e
diversi gruppi di “minoranze attive” in un territorio dove erano scarsamente presenti proposte di animazione
sociale. Si è passati da una tendenziale competizione a una condizione di cooperazione progettuale. La
proposta metodologica ha cercato di promuovere connessione emotiva, influenza, rafforzare il senso di
appartenenza, soddisfazione dei bisogni sollecitando l’interazione con le persone e la condivisione di eventi,
componenti interconnesse e costituenti il costrutto di senso di comunità teorizzato da Chavis e McMillan.

8. Alcuni strumenti del percorso comune


L’operatività dei tavoli di lavoro è stata strutturata con incontri tematici periodici realizzati in armonia con le
esigenze, le tempistiche e le urgenze emergenti. Ciò ha consentito al Laboratorio di facilitare i processi
offrendo spazi di progettazione e luoghi di confronto tra diversi soggetti. L’operatività dei tavoli di lavoro,
facilitata dall’equipe del Laboratorio di quartiere, si è mossa secondo logiche e metodologie improntate alla
progettazione partecipata.

9. La generatività sociale: alcuni spunti


Il Laboratorio trova diverse dimensioni dell’agire; alcune inserite nel quadro degli obiettivi prefissati dal
dispositivo e dall’attività di rendicontazione e programmazione e altre impreviste ed aperte alle dinamiche
partecipative che sono appunto il frutto della generatività del lavoro sociale di comunità. Va segnalato il
fenomeno di risultanza di questi processi il generarsi dell’apprendimento dall’esperienza; un apprendimento
che riguarda i soggetti territoriali e la stessa equipe del laboratorio di quartiere. Un apprendimento
considerabile allo stesso tempo come elemento prezioso della e nella valutazione del lavoro sociale di rete.

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Una valutazione dell’identità territoriale nella pianificazione strategica pugliese
Marilena Labianca

1. Introduzione
Diversi autori affermano che l’identità territoriale sia un importante strumento per l’azione politica e la
pianificazione, e che esista un rapporto dialettico con lo sviluppo regionale.
Parlare di identità non è affatto semplice perché “è un concetto che si presta a molte interpretazioni e
riflessioni critiche”. Osservare i fenomeni in termini di identità è piuttosto arduo, tuttavia se li intendiamo
“osservare in termini di diversità”, occorrerà porsi dall’esterno, in modo da garantire una certa oggettività,
ma se li osserviamo “in termini di identità”, occorrerà necessariamente porsi dall’interno, ovvero “proporsi
di guardare attraverso gli occhi degli attori, ovvero di leggere i fenomeni dall’interno, e di vivere in un certo
senso tanti punti di vista quanti sono gli attori e quante sono le identità”. Quindi per cogliere “l’essenza delle
cose” occorrerà immergersi in esse.
Dalla nostra seppur parziale ricerca bibliografica emerge una certa ricorrenza definitoria negli autori
considerati. Difatti specifici elementi o condizioni ricorrono con una certa sistematicità quasi a costituire “la
base” dell’identità territoriale. Tra questi elementi e i luoghi si instaurerebbe un legame indissolubile, legame
definito da Paasi coscienza regionale o senso di appartenenza della comunità.
Nello specifico Fiori sostiene che “assumendo l’identità in senso positivo, si riconosce un ‘importanza
cruciale all’inscindibile complesso di risorse umane, istituzionali, economiche e socio-culturali, ovvero alla
specificità propria di ogni comunità a qualunque scala spaziale, più o meno consapevolmente vissuta come
tale dalla popolazione. Quindi l’identità territoriale è un concetto assai complesso e profondo, essa può
essere intesa o ipotizzata come una combinazione di identità e coscienza.
Particolarmente illuminante è poi la distinzione di Paasi tra “l’identità di una regione” e la “coscienza
regionale”. In particolare le caratteristiche naturali, culturali e degli abitanti che contraddistinguono una
regione sono attribuibili all’identità di una regione, mentre l’identità non è altro che l’identificazione di
questi con la regione. A tal proposito Fiori afferma che l’identità regionale può intendersi come “sinonimo
della consapevolezza degli abitanti di far parte, di essere, un a regione” in cui prevale la componente
antropica, in particolare sociale mentre, ci si riferisce all’identità di una regione “la cui dimensione
‘oggettiva’ potrebbe rendersi con la classica definizione di regione geografica di Ranieri ad esempio, e dove
gli elementi fisici e antropici hanno, per così dire, lo stesso peso”. L’identità di una regione indica, dunque, il
complesso di caratteristiche naturali, culturali, sociali, “utilizzate a fini classificatori” dalla scienza, dalla
politica, dal marketing regionale, con finalità vaie.
L’interpretazione del concetto assume particolare rilevanza in quei contesti come la Puglia, in cui all’identità
territoriale è riconosciuto un ruolo chiave per lo sviluppo futuro del sistema regionale.

2. La pianificazione strategica pugliese


Nel passaggio dalle politiche di sviluppo tradizionali (top down), in cu rientra la pianificazione razionale
comprensiva, alle attuali politiche di sviluppo dal basso (bottom up), a cui fa riferimento la pianificazione
strategica, “specificità locali e attori locali” sono considerati “ingredienti centrali dei processi di
trasformazione territoriale e di sviluppo. Il territorio non più inteso come mero supporto passivo su cui
“applicare esogenamente pacchetti standardizzati di interventi di tipo infrastrutturale e/o industriale”, è
inteso invece come “patrimonio comune da valorizzare”.
Il riferimento alla multidimensionalità, all’intersettorialità, all’integrazione delle politiche bottom up
sottolinea dunque il “ruolo dei soggetti come attori territoriali poiché è attraverso la loro azione che tale
connessione si realizza”. D’altra parte la crescente attenzione alle risorse e agli attori locali come “base per
lo sviluppo” richiede riflessioni sul piano sia teorico, sia empirico ovvero “sugli ambiti territoriali entro cui
si esercitano tali processi”. Tutto ciò pone due ordini di problemi: quello della delimitazione del territorio,
dei suoi confini entro cui si manifestano i processi dello sviluppo locale e quello delle modalità con cui
individuare e interpretare le specificità e le caratteristiche territoriali.
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Nella logica di rete, acquistano rilevanza le potenzialità dei milieu locali; queste ultime difatti, possono
essere “pienamente espresse, soltanto attraverso una regia cooperativa ad alta intensità di concertazione che
sia in grado di adattare gli stimoli provenienti dalla rete di complementarietà o di sinergia alle risorse
disponibili o mobilitabili all’interno di ogni singolo centro”. In tale contesto s’inserisce il percorso di
pianificazione strategica avviato nel 2005 in Puglia. La Regione ha sollecitato la costituzione di
“aggregazioni di comuni”, accompagnando di fatto “il territorio in un percorso di auto-organizzazione in
dieci aree vaste”. L’esperienza pugliese presenta particolare interesse per “l’innovazione di metodo adottata
per la qualità dei risultati che ci si attende, ma rischia di pagare il prezzo proprio dell’assunzione di iniziative
ad alto tasso di sperimentazione, dovendo affrontare rischi e cogliere opportunità spesso del tutto inediti”.

3. L’identità nel Documento Strategico della Regione Puglia 2007-2013


La programmazione regionale per il periodo 2007-2013 ha adottato un innovativo approccio in cui,
auspicando “un nuovo modello di sviluppo del territorio” ha sancito la rilevanza e il pieno riconoscimento
dei valori identitari che caratterizzano e differenziano le 10 aree vaste pugliesi.
Per la nostra analisi consideriamo il Documento Strategico della Regione Puglia 2007-2013, le Linee guida
per la pianificazione strategica territoriale di Area Vasta e i Piani Strategici delle 10 Aree Vaste.
Secondo Fiori è possibile affermare che “in qualunque modo siano derivati, i valori possono essere
riscontrati, del tutto o in parte, nei programmi e nelle normative di indirizzo. Da qui assumiamo che nei
documenti strategici regionali siano contenuti specifici valori espressi esplicitamente o implicitamente da
coloro che hanno provveduto ad elaborarli.
Da una prima lettura emergono tre aspetti significativi. Il primo è rappresentato da una interessante
ricorrenza nell’utilizzo di concetti, particolarmente rilevanti per la geografia, come territorio, regione,
sviluppo, scala, ambiente, identità, il secondo aspetto è che l’utilizzo di tali concetti è spesso ridondante,
ambiguo, il terno è che intorno a tali concetti gravita l’intero corpus dei documenti regionali, sia
funzionalmente che sostanzialmente. Il concetto di identità affatto menzionato nelle Linee guida acquista
invece un certo rilievo nel DSR. Per l’analisi dei documenti di programmazione ci avvaliamo del metodo
utilizzato da Fiori per individuare implicitamente o esplicitamente i valori espressi nei programmi e nelle
normative di indirizzo.
Riepilogando i risultati ottenuti dall’analisi, tutte le volte in cui il redattore da esplicito riferimento
all’identità riconosce ad essa una funzione essenziale per favorire la valorizzazione dei territori, la coesione
sociale, la costituzione e il consolidamento di reti fra diversi attori, la partecipazione della comunità,
l’attaccamento ai luoghi, il rinnovamento della politica, del modello di governance e di sviluppo del
territorio. Infine una considerazione: leggendo i descrittori dell’identità è possibile notare come essi
coincidano con quelle che sono ampliamente ritenute le determinanti chiave del successo delle esperienze di
pianificazione strategica. Questo ci permette di avanzare l’ipotesi che l’identità territoriale contiene in nuce
le condizioni di successo della pianificazione strategica e quindi del progetto di sviluppo locale.

4. L’identità territoriale nei piani strategici. Proposta per una valutazione


Dalla preliminare lettura del DSR si è scelto di procedere in maniera più analitica, considerando cioè i piani
strategici delle 10 Aree Vaste pugliesi. Questi ultimi difatti sono fondamentali in quanto contenendo la
vision, rappresentano i veri e propri “strumenti operativi” per la concreta realizzazione della medesima.
Da una prima lettura emerge che l’identità territoriale acquista particolare rilevanza ricorrendo
sistematicamente come asse strategico nella costruzione della vision. L’errata o ambigua interpretazione del
concetto potrebbe comportare l’inefficacia o la parziale efficacia del progetto di sviluppo locale. Cerchiamo
di individuare due livelli di identità: materiale/oggettiva, immateriale/soggettiva, nelle varie selezioni.
Secondo le indicazioni delle Linee Guida, “l’analisi di contesto deve essere finalizzata all’acquisizione di
dati, informazioni e indicatori” in modo da fornire un quadro esauriente e completo della situazione sociale,
ambientale, economica del territorio di riferimento rilevandone gli aspetti vocazionali e caratterizzanti. Sarà
possibile evidenziare le variabili che possono agevolare od ostacolare il raggiungimento degli obiettivi ed il
disegno di sviluppo del Piano Strategico di Area Vasta, distinguendo tra fattori legati all’ambiente esterno e
fattori legati invece alla struttura interna dell’Area Vasta, consentendo così di orientare in modo più efficace
le successive scelte strategiche ed operative.
Al fine di estrapolare dai testi le espressioni più significative, si utilizza, con opportuni adattamenti, il
metodo dei descrittori. In particolare, si riportano gli stralci dei testi in cui vi è un chiaro riferimento alla
parola chiave identità a cui vanno ad aggiungersi parole chiave specifiche che confluiscono nel primo e nel
secondo livello di identità. Per il primo livello le parole chiave sono: identità, carattere, caratteristico,
vocazione, tipico nonché denominazioni di siti e fenomeni espressamente menzionati e definiti dal redattore

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come caratteristici o identitari. Per il secondo il vello le parole chiave sono: identità, senso/sentimento di
appartenenza.

5. L’interpretazione dell’identità nei piani strategici


Nell’analisi dei piani si rileva una particolare comunanza di certi tratti o interpretazioni del concetto.
L’identità è difatti più volte intesa come: strategica per lo sviluppo e l’attrattiva del territorio in termini
turistici, per cui va necessariamente costruita o ricostruita attraverso uno specifico brand o di investimenti di
capitali esteri. L’identità assume connotazione negativa quando viene usata in maniera semplicistica per
giustificare fenomeni di degrado o di emarginazione sociale.
Un altro aspetto che emerge dall’analisi è che i diversi territori si auto percepiscono come contesti isolati e
fortemente competitivi, anche al loro interno, e non invece come sistemi integrati complementari, come
peraltro auspicato dal DSR. Il milieu e il relativo substrato rappresentano i presupposto, ma per l’avvio del
processo di sviluppo è indispensabile che alla base ci sia una “logica unitaria e condivisa”.
Proseguendo con l’analisi documentale emerge poi, una sistematica coincidenza tra l’interpretazione
dell’identità territoriale, la priorità e le linee di intervento con quanto già disposto nel DSR. Il carattere rigido
e vincolante di quest’ultimo, crediamo abbia condizionato ab origine, tra gli altri, anche l’interpretazione del
concetto, non lasciando margini di creatività o discrezionalità ai singoli redattori.
Nel complesso emerge che il primo livello di identità di tipo classificatorio prevarrebbe rispetto al secondo, il
che ci induce a ritenere che i redattori abbiano inteso parlare più di identità territoriale che di identità di una
regione. L’ulteriore criticità riguarda il contenuto del quadro conoscitivo. Esso difatti privilegia i caratteri di
determinati territori che dunque inevitabilmente assumono un ruolo centrale nella programmazione degli
interventi e di conseguenza nella destinazione delle risorse.
Crediamo che alla base vi sia un vizio non soltanto formale, ma sostanziale, e questo perché dall’analisi di
contesto dipendono funzionalmente gli interventi progettuali che saranno concretamente avviati. In tal senso
potrebbero ben perpetuarsi modelli di sviluppo top down anziché bottom up.

Un’analisi integrata quali-quantitativa per rilevare l’identità territoriale dei borghi montani
Emilia Sarno

1. Premessa
I borghi montani, soggetti a rarefazione socio-demografica, si percepiscono come nuclei fantasma a rischio
di estinzione. In questo case rilevare l’identità territoriale significa ricostruire un fenomeno duplice: la
discontinuità tra il passato il presente e il senso di appartenenza messo anch’esso in crisi.

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2. Una visione dinamica e processale dell’identità territoriale
L’identità, individuale, politica o territoriale, è un percorso esperienziale che si trasforma nel tempo.
Raffestin conferma che l’identità non sia uno stato ma un processo che si manifesta “attraverso le immagini
prese a prestito dal mondo rurale”. L’identità territoriale, a sua volta, si concretizza in un processo dialettico
che coniuga i due termini – identità e territorio appunto – dal momento che “il concetto esprime innanzi tutto
un rapporto: quello tra soggetto e oggetto, tra uomo e ambiente. In quest’ottica, per mettere a fuoco il
concetto di identità territoriale, si devono ricercare gli elementi fondanti del territorio stesso.
Non è quindi sufficiente il riconoscimento delle compartimentazioni ambientali, ma diventa fondamentale
“cogliere, attraverso l’analisi documentaria, i caratteri strutturali di una collettività locale, seguendone
l’evoluzione sul lungo periodo e verificandone orizzontalmente le relazione”.
L’identità di una comunità è quindi l’esito sempre in fieri di più aspetti, per cui devono esserne presi in
considerazione i quadri ambientali e gli attori, ma anche il patrimonio esperienziale, i segni e i valori.
Peraltro, come chiarisce Tiziana Banini, la psicologia ambientale invita a distinguere l’identità di luogo da
l’identità del luogo.

3. Le problematiche socio-demografiche dei borghi montani


I territori coincidono nella gran parte con i cosiddetti comuni polvere, con meno di mille abitanti. Ubicati in
aree interessanti dal punto di vista paesaggistico, sono generalmente fondazioni medievali e conservano
emergenze architettoniche. Il problema deve essere considerato su scala europea. Zone montane, tanto nel
Nord Europa che nel Sud, conoscono una diminuzione costante della popolazione e nodi di attenzione dal
punto di vista socio-economico. Proprio in relazione alla loro valorizzazione, decisori politici ed esperti della
pianificazione fanno riferimento all’identità territoriale come fattore decisivo da riscoprire o rivitalizzare.

4. Il percorso metodologico
L’obiettivo di questa ricerca è la rilevazione dell’identità dei borghi montani in quanto luoghi problematici,
secondo le metodologie delle discipline sociali. A tal fine è necessario individuare le proprietà o gli elementi
costituivi che permettano di specificare l’oggetto della ricerca; nel caso dell’identità territoriale, gli elementi
costitutivi secondo quanto detto nel secondo paragrafo sono:

• Attori
• Territorio
• Motivazioni
• Valori
• Interazioni
• Il tempo.

Il rapporto attori – territorio va considerato tanto sul piano materiale quanto su quello socio-emotivo, che si
fonda sulla sfera motivazionale e valoriale, grazie alla quale si realizza il riconoscimento di una comunità e il
senso di appartenenza. Questi elementi si strutturano attraverso interazioni che a loro volta evolvono nel
tempo. Il pino immateriale richiede l’utilizzazione di metodologie qualitative, che permettano di raccogliere
informazioni dalla dimensione cognitiva. Il piano materiale rimanda ad indicatori come l’altitudine. Essi
facilitano la lettura diacronica del processo, ma non sono solo utili indicatori convenzionali, ma anche quelli
non convenzionali. Elementi come motivazioni e valori devono essere invece trattati come tecniche
d’indagine qualitative, in tal caso si ritiene utile il focus group.
Nevralgica è la fase di sintesi volta a comparare i dati quantitativi e qualitativi. L’obiettivo quindi non è la
giustapposizione tra i fatti e gli atteggiamenti, ma l’integrazione dei diversi piani di lettura. Pertanto per
rilevare l’identità territoriale dei borghi montani, appare opportuno seguire una strategia articolata nei
seguenti step:

1. Raccolta e trattamento statistico di dati per misurare il trend socio-demografico;


2. Raccolta delle informazioni fenomenologiche tramite la metodica del focus-group somministrato a
testimoni privilegiati;
3. Analisi e discussione dei risultati emersi dall’applicazione dei punti 1 e 2 individuandone la
complementarità.

5. La struttura del focus-group


Il focus-group è un metodo della ricerca qualitativa che consente di avere indicazioni su temi precisi fornite
dai partecipanti in qualità di esperti. Questo dà spazio ai punti di vista di ogni partecipante. Le dinamiche id
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gruppo stimolano le riflessioni e i contributi dei partecipanti. Il focus-group permette così di mettere a fuoco
valori e motivazioni, criticità ma anche potenzialità.
Dal punto di vista operativo è necessario individuare gli obiettivi su cui fondare il confronto. Perché le
informazioni raccolte possano essere processate, si può chiedere ai partecipanti di manifestare i loro
orientamenti compilando brevi elenchi.

6. Il caso di studio: l’ambito territoriale e la rilevazione quantitativa


La denominazione alto Molise è discussa dalla Simoncelli che riferisce della visione spaziale dei molisani di
dividere la propria regione in due parti, indicando con “Alto Molise” l’area di montagna e con “Basso
Molise” la rimanente parte collinare. La Prezioso successivamente, chiarisce che l’Alto Molise è la sezione
confinante con l’Abruzzo e formata da dodici comuni. Agnone è il comune più significativo per estensione e
per storia, quasi la piccola ‘capitale’ dell’Alto Molise secondo la suggestione di Fondi mentre piccoli borghi
la circondano. La transumanza ha dato un’identità peculiare a quest’area dal punto di vista economico e
umano. Tale sistema socio-economico però non ha retto ai cambiamenti imposti dall’Unità e al confronto con
il mercato nazionale o internazionale, per cui proprio da Anone è iniziata la diaspora molisana. L’Alto
Molise si è persino distinto per la precocità e l’intensità del fenomeno migratorio. La diminuzione della
popolazione qui è stata continua. Infatti, è resa evidente dai dati dei residenti dei dodici comuni altomolisani.
La flessione è tale che le presenze registrate nel 2011 siano solo 12.646, quasi un terzo rispetto a
centocinquanta anni prima.
Il complessivo trend negativo indica bene la discontinuità nell’interazione attori/territorio per i continui
trasferimenti di giovani famiglie, nonché per l’abbandono di mestieri e attività come l’agricoltura o
l’allevamento. La persistenza del fenomeno negli ultimi decenni non è dovuta solo alla generalizzata messa
in crisi della montagna, ma anche dalla diminuzione delle assunzioni nel settore pubblico.
La crisi socio-economica si può leggere anche tramite altri indicatori come le utenze telefoniche fisse
business della Telecom. Le utenze business rappresentano un settore della telefonia particolarmente utile dal
punto di vista geografico, e sono un medium necessario alle unità locali pubbliche e private.
Se i dati ISTAT sui residenti permettono di ricostruire il trend demografico complessivamente negativo,
l’indicatore non convenzionale della telefonia consente di leggere in modo puntuale la criticità di queste
comunità che si concretizzano nella rarefazioni di istituzioni e attività economiche. I tanti borghi che
circondano Agnone risultano insomma svuotati della risorsa umana e depravati della loro vitalità sociale.

7. I testimoni privilegiati e l’indagine qualitativa


La raccolta delle informazioni fenomenologiche è stata realizzata coinvolgendo i rappresentanti del Centro
Studi Alto Molise “Luigi Gamberale”. Gli obiettivi sono stati individuati secondo i criteri prima discussi:

• Riconoscimento dell’attuale situazione;


• La discontinuità tra passato e presente;
• Le aspettative;
• Le azioni messe in campo;
• La specificità dell’Alto Molise come ambito territoriale costituito da piccoli borghi e un centro
maggiore quale Agnone.

In relazione ai primi due obiettivi, essi hanno ricostruito le motivazioni dei trasferimenti negli ultimi
decenni: scarsa attenzione per le imprese e per le attività commerciali, possibile occupazione solo nel settore
pubblico. Essi hanno anche individuato negli anni Ottanta del secolo scorso un discrimine tra il passato e il
presente.
Dagli anni Ottanta in poi questa dimensione è andata sfilacciandosi; le partenze unite anche alla diminuzione
delle nascite hanno segnato prima i piccoli comuni, poi i maggiori dell’aria altomolisana, rendendola sempre
più povera nella sua vita sociale. La cultura è stata intesa sia come recupero del proprio patrimonio storico,
sia come ricerca di nuove idee volte ad attivare processi economici incentrati sul turismo. Le diverse
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iniziative hanno coagulato l’interesse dei singolo o di gruppi. È emerso però ini filigrana anche il
comportamento dell’intera comunità: attenta alle iniziative ma non sempre protagonista perché ripiegata in
posizione di attesa o di sfiducia.

8. Gli esiti della sperimentazione: l’Alto Molise in mezzo al guado


Se si pongono a confronto i dati quantitativi e quelli qualitativi da un verso essi si confermano
reciprocamente, dall’altro i testimoni hanno dato corpo ai dati demografici, individuando con chiarezza la
discontinuità tra la dimensione sociale fino agli anni Ottanta e quella attuale. Dalla loro ricostruzione è
emerso che la comunità altomolisana è stata infatti solida e vitale fin quando la vita sociale, le tradizioni e la
ritualità hanno conservato una certa consistenza, pur in compresenza dei flussi migratori.
Il focus-group è stato quindi molto utile per chiarire cosa essi considerassero per identità di luogo e come
fosse la situazione attuale. Il rapporto attori-territorio si è incrinato non tanto per i continui trasferimenti, ma
quando si è spenta una vision scandita da consuetudini che affondavano le loro radici nella civiltà contadina.
Il dinamismo, sia pure parziale dei processi culturali messi in atto dal Centro Studi trova riscontro in una
recente ricerca che mostra come l’Altro Molise, pure depauperato, è oggi attraversato da presenze pendolari,
generalmente turisti, che lo rendono meno rarefatto.
Nel complesso dunque lo status quo è disarticolato. Il fatto che l’Alto Molise sia in mezzo al guado è
confermato da una riflessione molto interessante: la comunità ha chiaro il senso di appartenenza ma non è in
grado di progettare il suo presente e il suo futuro.

9. Per concludere dal punto di vista metodologico


I risultato mettono in crisi il leitmotiv dei decisori politici nel rispolverare l’identità territoriale per
rivitalizzare borghi e comunità: è necessario invece prendere coscienza delle difficoltà nel dare corpo al
passato e delle criticità del presente.

Progettazione Territoriale Integrata e gestione delle aree protette: esperienze in territorio reatino
Giovanni Piva, Luigi Russo e Maurizio Gallo

1. La PIT, strumento del Piano di Sviluppo Rurale della Regione Lazio


Il PSR del Lazio 2007-2013 prevede l’attivazione della “progettazione integrata” ovvero l’utilizzo, nei piani
e programmi di sviluppo rurale, di modalità operative, tali per cui il singolo progetto di miglioramento
aziendale non si esaurisca in se stesso. La costruzione delle progettazioni integrate prevede che con
approccio del tipo “dal basso verso l’alto” i soggetti rappresentati vi delle esigenze dei cittadini e le imprese
costituiscano “partenariati locali” che, ufficializzati attraverso “formali accordi”, divengano i soggetti
deputati a pianificare le iniziative e gli investimenti in linea con uno o più temi prioritari individuai nel PSR
e coerenti con i fabbisogni previsti dalla zonizzazione per l’area omogenea di riferimento.
Nel PSR sono previste più forme di progettazione integrata: di filiera, aziendale, territoriale. La prima fa
riferimento a filiere di settore o di prodotto e riguarda misure prevalentemente destinate al miglioramento
della competitività delle filiere agro-alimentari; la seconda fa riferimento alle singole aziende e alle
dinamiche evolutive delle stesse; la terza fa riferimento al complesso del territorio, alle identità e agli effetti
sinergici e/o di leva che si possono ottenere attraverso la concentrazione delle risorse e del investimenti da
parte dei portatori di interessi afferenti ad un determinato territorio.

2. La Riserva Naturale Monti Navegna e Cervia: “confine” o “area vasta”?


Nel 2009 la Riserva Naturale Monti Navegna e Cervia decise di proporre al territorio la presentazione di una
Progettazione Integrata Territoriale. Tale scelta destò inizialmente numerose perplessità e fu aspramente
criticata a livello locale. Nei fatti il bando regionale per la presentazione delle proposte di progettazione
integrata territoriale faceva coincidere la popolazione minima richiesta e l’ammontare minimo delle risorse
autoctone con il cluster territoriale “Valli del Salto e del Turano” ovvero con un territorio molto vasto e
disgregato. Dal lato “Riserva” ciò implicò la necessità di superare il paradigma della “sottrazione” del bene
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tutelato dal contesto territoriale di riferimento, per cui sovente la gestione “speciale e separata” tende a
trasformarsi in un governo autoreferenziale e il limite (amministrativo) dell’area naturale protetta diventa un
confine invalicabile. Dal lato “Territorio” si è ravvisata la necessità di superare il particolarismo e la
frammentazione dei piccoli paese e di riconoscere all’ente gestore dell’area protetta la funzione e gli scopi
che ne hanno determinato l’istituzione, riconoscendo all’ente la funzione di promuovere la valorizzazione
delle attività produttive (eco)compatibili e la salvaguardai delle attività agro-silvo-pastorali.

3. Il superamento del “confine”: individuazione degli attori sociali


Il superamento del “confine” da parte dell’Ente Riserva è avvenuto dapprima attraverso l’analisi del contesto
interno, poi attraverso l’individuazione dei “portatori di interessi” presenti sul territori e/o interagenti con
esso. Si è così ottenuta una prima matrice ti stakeholder che è poi servita a individuare i referenti della PIT
(tab. 1, pagina 196).

4. Il contesto di riferimento
Il territorio della PIT è montano. L’area è annoverata tra le più povere del Lazio. La popolazione dei comuni
è in progressivo invecchiamento. Il problema riguarda soprattutto i comuni interni, ove la popolazione
anziana è pari o superiore al 50%. Per quanto concerne i comuni interni, inoltre, si osserva un diffuso
fenomeno di “residenze fittizie”. Il fenomeno dello spopolamento, per quanto generalizzato, è accentuato nei
comuni distanti dalla città di Rieti e dalle vie di comunicazione.
La presenza immigrata, ha attenuato il fenomeno dello spopolamento e costituisce un consistente segmento
della popolazione. Nel 2002 l’Agenzia Regionale Parchi proponeva uno studio comparativo dello sviluppo
sociale ed economico delle aree naturali protette della Regione Lazio, in cui veniva registrato il primato della
Riserva. Nel citato studio, si affermava che gli interventi di valorizzazione e sviluppo economico potevano
forse avere qualche probabilità di successo solo se accompagnati e integrati da azioni di promozione sociale
della popolazione locale, e da interventi che riuscissero a reinserire i residenti anziani e soprattutto i pochi
giovani rimasti in un circuito di partecipazione e di scambio più ampio di quello minuscolo e isolato
rappresentato dai comuni di residenza. Per la Riserva Naturale tale consapevolezza ha cominciato a maturare
solo vent’anni dopo la sua istituzione.

5. La PIT RL245: costruzione, obiettivi finalità


In data 15 giugno 2009, la Regione Lazio ha emanato il bando per la presentazione di manifestazioni di
interesse finalizzate alla Progettazione Integrata Territoriale. Facendo seguito a tale bando sono state
prodotto quattro manifestazioni di interesse, da parte della Riserva Naturale Montagne della Duchessa, della
Riserva Naturale Monti Navegna e Cervia, dell’Associazione Generale delle Cooperative Italiane e della
Camera di Commercio Industria e Agricoltura della Provincia di Rieti.
La proposta della PIT della RN Monti Navegna e Cervia limitava al territorio dei nove comuni, con
l’aggiunta della Valle del Salto e della Valle del Turano. La RN Montagne della Duchessa, individuava come
territorio da includere nella propria proposta di PIT l’interno comune di Borgorose. La locale Camera di
Commercio presentava una propria proposta di PIT alla quale avevano aderito il comune di Ascrea e alcuni
comuni della Valle del Velino. Dal fronte privato veniva presentata un’altra PIT da parte dell’AGCI, che
interessava il territorio di Pescorocchiano e Petrella Salto.
Le quattro manifestazioni individuavano correttamente un unico riferimento territoriale omogeneo, ma,
facendo riferimento a reti di relazioni limitate, nessuna delle proposte raggiungeva i requisiti minimi. Le aree
naturali protette si sono così proposte come soggetti di “area vasta” e hanno avviato sul territorio il processo
di partecipazione e di concertazione rendendosi interlocutori credibili.
I soggetti promotori di Riserva Naturale Montagne della Duchessa, Riserva Naturale Monti Navegna e
Cervia e AGCI hanno ritenuto di avviare un processo di concertazione e di partecipazione tale da consentire
il superamento dei reciproci punti di debolezza ovvero: scarsa rappresentatività territoriale iniziale; scarsa
partecipazione di capitale privato; scarsa partecipazione degli operatori pubblici. Il partenariato ha visto
svolgersi le seguenti attività: ricognizione socio-economica del territorio; attività di sensibilizzazione e di
animazione territoriale con numerose e frequenti riunioni tecnico-informative con soggetti istituzionali;
redazione e presentazione del progetto preliminare; animazione sul territorio in vista della costituzione del
partenariato; redazione del progetto definitivo; ottimizzazione delle richieste di finanziamento per rientrare
nei parametri previsti dal bando PIT.
Le due proposte preliminari (Riserve + AGCI e CCIAA) sono state unificate attraverso un processo di
“ottimizzazione” che ha visto l’attuazione di un percorso partecipato di valutazione critica dei progetti sia
pubblici che privati.

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Il percorso di integrazione condotto dai promotori si è concluso con la presentazione di un’unica PIT che ha
coinvolto 19 Comuni; due aree naturali protette; la CCIAA di Rieti; tre Amministrazioni Separate di Beni ad
Uso Civico, riguardanti comuni di Corvaro e S. Stefano, S. Anatolia, S. Lucia; un istituto scolastico; 25
operatori privati.

6. Conclusioni
La presentazione della PIT RL245 ha determinato da parte delle comunità interessate l’avvio di un percorso
di presa di coscienza identitaria. Proponendo la PIT, la Riserva Naturale Monti Navegna e Cervia ha attivato
un cammino virtuoso di superamento die propri confini proponendosi come possibile partner per l’area vasta
corrispondente. Il percorso di area vasta trova riscontro nelle altre politiche territoriali condotte dalle stesse
riserve ed è destinato a realizzare un’estensione delle rispettive aree di influenza.

Esperienze di valorizzazione identitaria in area appenninica


Paolo Piacentini

Pierpaolo Pasolini, in uno dei suoi ultimi scritti sosteneva che il consumismo ha prodotto più danni del
fascismo. Anche padre Ernesto Balducci si è espresso sullo stesso tema. In particolare, parlando della sua
amata montagna dell’Amiata, ricordava che se la modernità aveva spazzato via il duro lavoro dei minatori, la
globalizzazione e i relativi prodotti avevano distrutto il lavoro artigianale, le tradizioni locali e quindi, in
definitiva l’identità di quei luoghi. In effetti, anche sulle montagne dell’Appennino ormai si sono affermati
stili di vita e comportamenti collettivi, tipici delle aree urbane, che hanno soppiantato i segni della cultura
rurale. Oggi, in questi territori fortemente segnati dal fenomeno della senilizzazione, la distanza tra i pochi
giovani rimasti e i loro nonni è abissale. Purtroppo, in alcuni piccoli borghi sono rimasti solo gli anziani, anzi
le anziane, e si contano sulle dita di una mano. Quanto in Molise, come in Abruzzo, c’è stata la possibilità di
utilizzare i fondi europei per la valorizzazione dei tratturi, per sviluppare il turismo sostenibile e riscoprire le
identità territoriali, ma qualcuno ha pensato bene di finanziarci le strade o di dirottare quei fondi in altri
progetti di minore importanza e ritorno socio-economico.
Come FederTrek, stiamo cercando di dar vita a progettualità innovative che sposino l’antico con il nuovo.
Carlo Levi diceva che il “futuro ha cuore antico”. Luca Nannipieri sottolinea l’importanza dei movimenti che
contrastano i grandi progetti che distruggono interi territori, ma anche dei tanti piccoli comitati che cercano
di difendere la piccola chiesa o le altre preziose presenze locali, che certo non fanno parte dei grandi circuiti
del turismo culturale. Spesso queste testimonianze hanno perso significato, perché, come sostiene Tiziana
Banini, è nella dimensione locale che si gioca il senso di appartenenza più intenso ed è nella dimensione
locale che gli elementi naturali e culturali assumono i significati più profondi, anche se hanno poco valore
ecosistemico o artistico.
Molti giovani si stanno attivando verso questo nuovo modo di vivere il rapporto col territorio. In questi
giorni sono venuti a trovarmi dei giovani imprenditori di Scanno che stanno organizzando, con molto
coraggio, delle attività turistiche ispirate alle caratteristiche del territorio, alla sua bellezza e alla sua
vocazione principale, che è quella di essere situata all’interno di una straordinaria area protetta. A Scanno
sono stati riattivati gli impianti di discesa da poco tempo e certamente, se non si distruggeranno altri spazi,
può andare bene; ma il modello da seguire in futuro non può essere solo questo, bisogna cercare di
valorizzare il turismo escursionistico, l’unico capace di ampliare e diversificare i flussi turistici. I giovani
imprenditori di Scanno, come altri, consapevoli dei limiti di un modello turistico ormai in forte crisi,
vogliono accompagnare le persone in montagna in modo diverso. Vogliono ripartire dall’attività dei genitori
o dei nonni, che possedevano un albergo sul lago di Scanno, per lanciare nuove forme di turismo, legate ad
esempio, alla montagna-terapia. Nel contempo intendono raccordarsi con le scuole le università, per
soggiorni legati alle attività didattiche, in un angolo del Parco d’Abruzzo Lazio e Molise ancora poco
conosciuto e con potenzialità inespresse. Se si vuole dare futuro alle nostre zone marginali bisogna investire
sulla permanenza residenziale e sul ritorno dei giovani, attivando delle effettive politiche di sviluppo
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sostenibile. La tutela del territorio va effettuata attraverso il rapporto quotidiano con esso e deve esprimersi
nella manutenzione ordinaria, nella valorizzazione dei servizi ecosistemici, nell’organizzazione di attività
economiche basate sui connotati locali: solo così è possibile continuare a produrre quelle specificità
territoriali che costituiscono valore effettivo per l’intera comunità.

Percorsi di consapevolezza identitaria nell’Alta Val di Sangro


Flora Viola

Sono oltre 8.000 i comuni in Italia, di questi poco più di 1.900 sono sotto la soglia dei 1.000 abitanti: un
numero considerevole. La maggior parte di essi sono nelle Alpi e negli Appennini. L’Abruzzo, è una delle
regioni con il maggior numero di piccoli centri.
Tale precisazione assume rilievo anche alla luce dei provvedimenti normativi assunti del Parlamento italiano
nel 2011, obbligano i piccoli comuni alla gestione associata delle funzioni e dei servizi fondamentali. I
piccoli comuni rappresentano l’identità culturale del nostro paese. Il problema demografico continua però a
sussistere, sia come effetto della forte perdita degli anni passati, sia perché le dinamiche legate alla
formazione e alla ricerca di una attività lavorativa spingono sempre più giovani a cercare soluzioni fuori dai
ristretti ambiti sociali. In Italia, le comunità dell’appennino e delle Alpi hanno garantito con grande difficoltà
la manutenzione di una parte considerevole del territorio nazionale che, a fronte delle politiche macro-
economiche, sarebbero state abbandonate oppure deturpate da interventi poco rispondenti alla tutela del
patrimonio ambientale. Le piccole comunità hanno garantito il governo del territorio e una serie di servizi
essenziali ai cittadini, in particolare gli anziani, a fronte di una diminuzione costante di efficienza da parte
dello Stato, delle Regioni, e della riduzione costante dei trasferimenti.
I piccoli comuni sono un “cuore pulsante”. Uno strumento di democrazia sussidiaria che parte direttamente
dal basso e che nutre la propria fisionomia attorno al concetto di identità territoriale. L’identità territoriale è
la rappresentazione costante del rapporto tra il cittadino, il proprio territorio e gli strumenti di governo dello
stesso; un’identità rafforzata dalla consapevolezza della unicità del territorio e del legame profondo con gli
habitat naturali.
L’area dell’Alta Valle del fiume Sangro, nel comprensorio compreso tra Pescasseroli e Villetta Barrea di cui
Civitella Alfedena, pur essendo con i suoi 315 abitanti il paese più piccolo, è il centro geografico e culturale,
rappresenta un unicum. Si tratta di un’area a forte vocazione turistica e ad alto interesse economico che,
nonostante diverse presenze imprenditoriali rilevanti, non ha perso la propria identità e specificità.
Complessivamente, siamo un’area che ha una rilevante valenza economica all’interno della regione Abruzzo,
ma continuiamo poco, pochissimo in termini politici, molto probabilmente perché non rispondiamo in
termini di numeri alle esigenze proprie della politica, ma anche, io penso, perché spesso chi fa politica dalle
nostre parti lo fa per impegno civile, perché appartiene a questo territorio, perché è la sua terra, perché è una
parte della sua identità, perché di fatto ragioniamo in termini di interessi del territorio e non in termini di
appartenenza a quello o a quell’altro partito, gruppo o lobby.
Civitella Alfedena e Pescasseroli sono ai primi posti della graduatoria regionale per indice di turisticità.
Accanto all’identità rappresentata dalla natura in tutte le sue forme, il legame comunitario è stato rafforzato
attorniato alle specificità culturali. Tradizioni intese non solo come rapporto dinamico come il proprio
passato, ma anche come costruzione di una rete di relazioni sociali che uniscono tradizione e innovazione.
Oggi è sempre più difficile per un piccolo centro affrontare le dinamiche legate ai minori trasferimenti di
risorse, ma distruggere i luoghi, svenderli “per fare cassa” significherebbe annullare se stessi.
Eppure i nostri territori contribuiscono al progresso del sistema Italia: diamo acqua e aria pulita, biodiversità
e specificità culturale che fanno della nostra penisola un unicum internazionale. Un sistema di valori radicato
nella cultura, fortemente identitario, comunitario, solidaristico.
A fronte di questo quadro generale c’è da chiedersi in cosa risieda la nostra identità. Credo non solo nei
paesaggi, nella storia, ma anche nei connotati caratteriali. La nostra è una dimensione collettiva, dove quello
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che unisce le persone è il senso di appartenenza ad una comunità collettiva riconosciuta e riconoscibile. Ed è
difficile oggi restare in questi piccoli paesi se non ci sono servizi e possibilità. Insomma, abbiamo bisogno di
strumenti per poter continuare a vivere nei nostri territori, siamo consapevoli che molto lo dobbiamo fare da
soli e lo facciamo quotidianamente, i nostri comuni hanno una vivacità imprenditoriale notevole e rivestono
a proprio rischio. C’è stato un periodo in cui si ricevevano notevoli risorse pubbliche, ma da molto tempo è
la gente del luogo che investe sulle proprie idee.

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