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MATERIALI DI LETTERATURE NORDICHE I

A.A. 2007-08

Prof. Massimo Ciaravolo

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Principali periodi, correnti e scrittori delle letterature scandinave dalle origini


fino alla fine dell’Ottocento, con commenti alla selezione antologica dei testi
(fotocopie).

LETTERATURA D’EPOCA VICHINGA E LETTERATURA NORRENA

Le prime, dirette testimonianze scritte risalenti all’epoca vichinga sono date dalle numerose, ma in
genere brevi iscrizioni in alfabeto runico, quello che i germani e gli scandinavi usavano prima della
loro conversione al cristianesimo. Il cosiddetto fuþark (dalle lettere iniziali dell’alfabeto, come dire:
“ABC”) è conosciuto in una versione più antica di 24 caratteri, comune a tutta l’area germanica e
usato fino a circa l’VIII sec. d.C., e in una versione più nuova di 16 caratteri, specificamente
scandinava, in uso dal IX fino al XIII sec. Le iscrizioni runiche sono state trovate in tutta la
Scandinavia, specialmente in Danimarca e Svezia, ma anche nelle aree colonizzate dai vichinghi,
come l’Irlanda. Gli oggetti più frequenti sui quali si incidevano le iscrizioni erano di materia dura
(probabilmente anche per questo i caratteri presentano poche linee tondeggianti e molte rette e
spigoli): steli di pietra, ossa di animali, oggetti di metallo e di legno. Le brevi iscrizioni sono
generalmente epigrafi: formulano il ricordo di un’impresa, di un caro scomparso, o semplicemente
il ricordo di sé nell’atto di erigere la stele o di produrre l’oggetto su cui si incide l’iscrizione. Le
rune hanno esercitato sui posteri un fascino arcano e hanno una grande importanza simbolica, a
partire da quella che è considerata la più antica iscrizione, ritrovata su uno di due corni d’oro a
Gallehus, presso l’odierno confine tra Danimarca e Germania, e risalente a circa il V sec. d.C.
Traslitterata in caratteri latini, l’iscrizione dice:

ek hlewagastiR holtijaR horna tawido

ovvero: “io Hlewagastir [figlio] di Holt/[proveniente] da Holt feci il corno”. Saranno questi corni
d’oro e le vicende a loro connesse a fornire lo spunto per la poesia che è giustamente considerata il
manifesto del Romanticismo danese e scandinavo, Guldhornene (I corni d’oro), scritta da Adam
Oehlenschläger nel 1803.
Le rune hanno un grande significato storico, linguistico, archeologico ed etnografico. Non si
può tuttavia affermare che esse costituiscano l’inizio di una tradizione letteraria, perché per parlare
di letteratura abbiamo bisogno di libri, di codici e di alfabeto latino, e dunque di cristianizzazione.

Possiamo dire sinteticamente che la grande cultura letteraria norrena, sviluppatasi in Islanda dal XII
fino al XIV sec., sia il risultato di due fattori che si sono felicemente combinati: la colonizzazione
norvegese dell’Islanda e la cristianizzazione del Nord; da una parte c’è la tenace volontà di
preservare con la memoria le proprie tradizioni e i propri racconti pagani, legati alla “madrepatria”
Norvegia, dall’altra la cristianizzazione tarda arriva per fissare quel patrimonio, e non per
cancellarlo. In questa estrema periferia settentrionale dell’area germanica i miti pagani e le vicende
eroiche, tramandate oralmente di generazione in generazione, possono resistere più a lungo rispetto
a quei territori germanici a più stretto contatto con il mondo latino e cristiano. È vero che i “barbari”
invadono e abbattono l’impero romano, ma è altrettanto vero che essi vengono presto conquistati
dalla cultura superiore. La Ravenna dell’ostrogoto Teodorico (fine V – inizio VI sec.) è ancora oggi
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una delle più straordinarie testimonianze di quell’ibrido “romano-barbarico”. Quando invece il


cristianesimo arriva in Islanda – e con esso la scrittura – arriva per salvare un ricchissimo
patrimonio di racconti e miti che era sopravvissuto oralmente. La letteratura norrena ci ha così
trasmesso, tra l’altro, quasi tutto quello che sappiamo sulla religione, i miti e gli eroi degli antichi
germani, di tutti i germani. È probabile, anzi, che al momento della redazione scritta (il secolo d’oro
è il XIII) prevalga negli autori/compilatori, ormai cristiani, uno spirito “antiquario” e nostalgico
verso la cultura delle origini. Anche questa fu una forma di sincretismo religioso, di (felice) fusione
di elementi pagani e cristiani.
I tre grandi generi in cui comunemente si suddivide la letteratura norrena sono: 1) la poesia
eddica, dell’Edda: una serie di poemi (o carmi) anonimi che narrano le vicende degli dei e degli eroi
germanici; 2) la poesia scaldica, degli scaldi (skald è “poeta” nelle lingue scandinave), che nasce
nell’ambito della corte vichinga, al seguito del re o del signore, e in cui il poeta – noto con nome e
cognome – esalta in versi volutamente difficili le doti e le imprese del suo capo: una poesia
encomiastica e d’autore; 3) le saghe: racconti in prosa più o meno lunghi sulle vicende familiari e
individuali dei coloni islandesi, o sulla vita dei re medievali norvegesi, oppure, anche, racconti più
leggendari e fantastici, meno legati a una cronologia storica e a una cornice “reale”.
Questo notevole insieme di testi presenta nel suo complesso diversi problemi filologici
aperti, relativi alla loro genesi e al rapporto tra oralità e scrittura. Dobbiamo tenere presente che gli
autori e/o compilatori tanto dell’Edda quanto delle saghe sono ecclesiastici o individui ricchi di
cultura cristiana, che a partire dal XII sec. fino al XIV sec. redigono i loro testi. Se ricordiamo
inoltre i confini temporali dell’epoca vichinga (ca. 800-1050) e della civiltà medievale islandese
(ca. 870-1260), capiamo che i manoscritti sopravvissuti fino a noi sono di epoca tarda, e che si
collocano sul finire, se non addirittura oltre sia l’epopea vichinga sia la grande fioritura
dell’indipendente civiltà islandese (l’Islanda viene sottomessa alla corona norvegese nel 1262). C’è
uno scarto di qualche secolo tra la presunta origine di questi testi e la loro redazione scritta. Le
poesie degli scaldi, ad esempio, sono tutte di epoca vichinga, poiché gli scaldi erano poeti della
corte vichinga, operanti già nel X e XI sec. Ma tutte le poesie scaldiche a noi pervenute sono
contenute nelle saghe dedicate alla vita e alle imprese dei poeti (personaggi in vista), pure
ambientate nell’Islanda e nella Norvegia del X e XI sec., ma scritte almeno due secoli dopo. Che
cosa c’era prima dei codici scritti a noi pervenuti? Quale fu il rapporto tra oralità e scrittura? La
memoria fu così tenace da riuscire a tramandare inalterati i racconti e le poesie per secoli? O i
manoscritti a noi pervenuti sono copie tarde di originali andati perduti? E “quanta” componente
cristiana c’è in questi testi che rappresentano una realtà e una civiltà pagana germanica?
Vediamo più in dettaglio le caratteristiche di questi tre generi letterari.
Per Edda intendiamo due cose distinte ma strettamente correlate. La cosiddetta “Edda
poetica” è un manoscritto che raduna 29 carmi, dei quali 10 mitici, dedicati agli dei e all’universo
dei germani, e 19 eroici, che presentano vicende memorabili di uomini e guerrieri; qui, 15 carmi
costituiscono un unico ciclo, legato al più memorabile di tutti gli eroi germanici, Sigurðr. La
cosiddetta “Edda in prosa” è invece un manuale di versificazione destinato agli scaldi e scritto da
Snorri Sturluson (ca. 1178-1241), il più importante autore della letteratura norrena. Attorno al
1220/1230 Snorri compone la sua Edda, che possiamo definire un commento in prosa, sotto forma
di racconti dialogati, a numerose strofe di poemi di argomento sia mitico sia eroico. Snorri cita i
brani in versi e poi rinarra, chiarisce, spiega in forma più discorsiva e logica ciò che i poemi
evocano in modo oscuro e rapsodico, a lampi e visioni. Snorri attinge dunque al patrimonio antico
germanico e lo commenta in quanto materia che i poeti a lui contemporanei, gli scaldi, devono
conoscere. Questo testo è intitolato da Snorri stesso Edda (il significato del termine è tuttora
piuttosto oscuro), ed è noto e tramandato dalle origini. Solo nel 1643, invece, viene ritrovato in
Islanda il manoscritto anonimo contenente i suddetti 29 carmi. Si nota che i passi citati da Snorri
nella sua Edda sono tratti dai carmi, che per la prima volta si possono leggere integralmente.
Dunque si giudica “falsa” e posteriore l’Edda di Snorri, si trasferisce il nome Edda ai 29 carmi e si
dà al manoscritto ritrovato il nome di Codex Regius, poiché viene donato al re di Danimarca che era
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allora anche il re dell’Islanda. Probabilmente il Codex Regius è un manoscritto della seconda metà
del XIII sec., dunque leggermente posteriore all’Edda di Snorri. Non conosciamo esattamente la
relazione tra i due testi. Certamente Snorri fa riferimento a quelle poesie (che dunque sono
indubbiamente precedenti); ma forse non le riprende proprio da quel manoscritto. Può darsi (è
questa l’ipotesi più accreditata ora) che i carmi siano stati compilati e ordinati sulla scia dell’opera
di Snorri. Anche per quanto riguarda la genesi dei carmi le nostre conoscenze sono approssimative.
Attraverso l’analisi della lingua i filologi hanno ipotizzato che i carmi siano stati composti tra il IX
e il XII sec., ma per quanto riguarda il “ponte” tra quella ipotetica genesi e la redazione scritta del
Codex Regius i filologi si trovano di fronte ai problemi di scarto temporale cui si accennava sopra.
Che cosa troviamo nei primi dieci carmi mitici dell’Edda poetica? Storie di dei (mitologia),
la genesi del cosmo (cosmogonia), la sua struttura (cosmologia) e la visione delle cose ultime
(escatologia). Questi momenti si compenetrano e si implicano a vicenda in tutti e dieci i carmi. Gli
dei germanici sono suddivisi in due famiglie, gli Asi (tra cui Odino e Þorr) e i Vani (tra cui Njorðr,
Freyr e Freyja). Nell’Edda essi abitano sostanzialmente insieme, senza particolari differenze tra loro
(anche se nel primo carme si menziona a un certo punto un’antica guerra tra Asi e Vani). Da altre
fonti sappiamo che gli Asi erano più legati alle attività belliche e alla sfera “virile”, mentre i Vani
erano connessi alla terra, alla fertilità e fecondità (Freyja è, similmente a Venere, una dea
dell’amore, da cui le parole che nelle lingue germaniche indicano il “venerdì”). Secondo l’Edda
l’universo consta di nove mondi, tra i quali Asgarðr (la sede degli dei) e Miðgarðr (la “terra di
mezzo” abitata dagli uomini), e poi, tra gli altri, i mondi dei giganti e degli elfi e anche il mondo di
Hel, ovvero dei morti. Le storie narrate si basano spesso sulla lotta tra gli dei e i loro pericolosi
rivali quali i giganti, gli elfi cattivi e i nani. Gli dei difendono se stessi e gli uomini dalle continue
insidie di questi esseri altri, esterni. L’immagine è quella di un mondo in equilibrio provvisorio e
assai precario, minacciato da forze che sfuggono al controllo, e un giorno destinato a soccombere. I
mondi dell’universo sono tenuti assieme da un grande albero, il frassino Yggdrasill. Presso questo
frassino tre divinità femminili dette Norne stabiliscono, similmente alle Parche, i destini degli
uomini, il filo concesso alla loro vita. Presso Yggdrasill anche gli dei si riuniscono per deliberare.
Su Yggdrasill, che “ora” tiene assieme il mondo, si vedono però già le tracce della decomposizione
e della futura fine.
Una prima grande visione introduttiva di ciò che è stato, è e sarà (ci muoviamo nel “tempo
assoluto” del mito, oltre la normale durata temporale) si trova nel carme introduttivo, il Völospá
(Profezia della veggente). Ci viene detto della genesi del cosmo, di una mitica età dell’oro in cui
l’armonia regnava tra gli dei, di Yggdrasill, di una guerra tra Asi e Vani, del finale crepuscolo degli
dei, il ragnarök, in cui le forze del male sconfiggeranno gli dei, Odino sarà ucciso e il lupo Fenrir,
fino ad allora tenuto a bada dagli dei, si libererà e inghiottirà il sole. In seguito ci sarà una rinascita
e un ritrovamento dell’antica età dell’oro. Sebbene, nell’ultima strofa, un drago volante annunci una
possibile nuova sventura… Già da questo primo carme emerge il carattere rapsodico, evocativo e
spesso oscuro delle strofe dell’Edda poetica, che procede a visioni più che essere compiutamente
narrativa e logica. È, questo, un elemento di enorme suggestione; “riassumere” l’Edda vuol dire in
primo luogo impoverirla (solo Snorri riesce a ricrearla in prosa).
Tra gli dei, Odino è il più saggio e misterioso. Ha un occhio solo, perché l’altro lo ha
sacrificato presso la sorgente del gigante Mímir (memoria) per acquisire la conoscenza (in tutte le
culture orali la memoria è il presupposto della sapienza). Anche i giganti e i nani (e spesso la loro
manifestazione sensibile prescinde dall’altezza o bassezza) sono sapienti, poiché nati col mondo,
vecchi come il mondo, legati alla terra e alle forze ctonie. Una situazione ricorrente è la gara di
sapienza tra loro e gli dei. Odino inoltre possiede il sapere magico; tramite un sacrificio di sé egli
“colse le rune” (dove le rune, oltre a essere normali segni alfabetici, acquistano il valore aggiuntivo
di segni magici, portatori di sapere iniziatico). Di questo si racconta nel secondo carme, Hávamál
(La canzone dell’eccelso), che oltre a contenere una lunga serie di massime di vita e regole di
comportamento formulate da Odino in prima persona, raccontano anche del suo sacrificio (una
autoimpiccagione) e delle rune da lui tratte, e di un altro importante episodio che lo vede
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protagonista: il furto dell’idromele, bevanda alcolica dell’ispirazione poetica. Odino ruba l’idromele
ai giganti per poi donarlo agli uomini. Oltre a essere dio della guerra, egli è dunque anche il nume
tutelare della poesia, dispensatore della poesia agli uomini. La poesia è un dono di dio. Come re
della guerra Odino decide gli esiti delle battaglie e sceglie per sé i guerrieri caduti, tramite delle sue
“ancelle” dette valchirie (“coloro che scelgono i guerrieri”). Questi guerrieri caduti e scelti vengono
portati in un aldilà particolare detto Valhalla, fatto di soli guerrieri. Qui gli scelti si allenano,
preparandosi allo scontro finale con le forze del male. Certo, si sa già che il ragnarök decreterà la
sconfitta degli dei e la fine del mondo; ma eroico è proprio questo: andare coraggiosamente
incontro a un destino già scritto. Il motivo del fato ineluttabile percorre tutti i carmi dell’Edda, sia
mitici sia eroici. Chi non muore in battaglia, ma di vecchiaia o d’altro, va a finire a Hel. Odino non
è affatto “buono”, quanto misterioso, astuto e proteiforme. Appare sotto mille nomi e mille
travestimenti, spesso come viandante, in incognito.
Diversamente da Odino, Thorr è impulsivo e focoso. Il suo attributo è la forza, rappresentata
dal suo magico martello Mjollnir, che torna indietro come un boomerang quando viene scagliato. È
il più schietto difensore degli uomini, anche se perde nelle gare di astuzia con Odino. Tuttavia anche
lui sa ingannare, come vediamo dalla lettura di Álvísmál (Canzone del nano onnisciente).
Prima di commentare l’Álvísmál, due parole su Loki, che ritroveremo all’opera in un altro
carme. Loki è singolare perché vive con gli dei, è imparentato con loro (addirittura unito da un patto
di sangue con Odino stesso), partecipa alle loro vicende e avventure; ma nel contempo è il principio
negatore, ed è il principio del male che porterà al crepuscolo finale. Solitamente le sue bravate
mettono nei guai gli dei, ma le sue trovate sanno anche trarli d’impaccio. Loki è il padre del lupo
Fenrir che inghiottirà il sole.
Álvísmál (fot. 1-2) è il decimo carme, quello che chiude, con una sorta di “scherzo”, la parte
mitica dell’Edda. Il filo narrativo dell’episodio si basa su un fatto implicito, una conoscenza previa
da parte del lettore: cioè che i nani vivono nella terra e non sopportano la luce del sole. Avviene che
il sapientissimo nano Álvís va da Thorr per prendersi in sposa la figlia, a lui promessa. Thorr si
oppone, e per ingannare il nano deve sottoporlo a un serrato interrogatorio sui nomi che nei diversi
mondi dell’universo si danno a svariati elementi dell’universo stesso. Álvís fa sfoggio della sua
memoria, e della sua competenza orale, dunque della sua sapienza. Ma il brano è inoltre
un’esaltazione della capacità di creare linguaggio, di fare poesia attraverso immagini, similitudini,
perifrasi, metafore: il mondo ha molte lingue, ed esistono molti modi possibili per designare la
stessa cosa. Il nano, grande poeta, è alla fine ingannato: il dio è riuscito a prolungare l’interrogatorio
fino allo spuntare del sole, che pietrificherà Álvís. Il pericolo è scampato.
Sia nella parte mitica sia in quella eroica l’Edda, è importante sottolinearlo, non forma un
unico racconto compiuto. Si tratta piuttosto di una sequenza di carmi indipendenti che vanno a
costituire una certa organicità, non priva di lacune e contraddizioni. Non c’è la compiutezza
narrativa dell’epica omerica o di quella cortese.
I carmi eroici dell’Edda trattano, come detto, di vicende umane. Sarebbe tuttavia sbagliato
tracciare una così netta linea di demarcazione tra carmi “mitici” ed “eroici”: nel primo gruppo
troviamo sempre figure e comportamenti antropomorfi, anche se si narra di dei e giganti; e il
secondo gruppo è comunque pervaso dal soprannaturale e non esclude la presenza e l’intervento
degli dei. Il Völundarkviða (Carme di Völunðr) parla di un fabbro, ed è una cupa storia di oro e di
vendetta; di seguito, tre carmi dedicati al guerriero Helgi presentano ricorrenti situazioni di battaglie
e di prove virili. Emerge chiaro il motivo del fato ineluttabile: il destino è già scritto e non si vince.
Il grande guerriero assume statura eroica e fama immortale proprio per il suo coraggio che non
indietreggia di fronte a niente. Questi quattro carmi (belli di per sé) “preparano” in un certo senso
anche il ciclo dei restanti 15, tutti legati da un unico racconto (sebbene in più punti lacunoso e
contraddittorio) – il racconto che parte dal grande eroe Sigurðr e dal suo possesso di un tesoro
maledetto. La conquista e il possesso dell’oro innesca una catena di passioni e sventure, anch’esse
in qualche modo annunciate dal principio.
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Il Reginsmál (Carme di Reginn) (fot. 2-4) ci narra dell’origine della maledizione su


quell’oro, su cui Sigurðr sta per mettere le mani. Al proprio “figlio adottivo” Sigurðr, il nano
Reginn racconta retrospettivamente la storia dell’oro, che parte da un intervento di una triade di dei.
È Loki a creare il pasticcio, ed è lui a trovare una via d’uscita. La lontra uccisa e scuoiata è in realtà
figlio di Hreiðmarr, e fratello di Reginn e Fafnir. Il delitto impone un riscatto, ed ecco che Loki
scova l’immenso tesoro del luccio Andvari e glielo prende. Da Andvari parte così la maledizione, e
Loki la “trasferisce” subito, assieme all’oro, a Hreiðmarr. Infatti Hreiðmarr viene ucciso da Fafnir
che si impossessa del tesoro. Arriviamo così al tempo presente; capiamo perché Reginn sta
allevando il grande guerriero Sigurðr: vuole che lo aiuti a impossessarsi del tesoro a sua volta,
eliminando Fafnir. Reginn, nano e abile fabbro, fabbrica per Sigurðr una spada speciale e
affilatissima; e notiamo la collocazione geografica – germanica ma non nordica – dell’episodio:
presso il Reno. Nella strofa 14 Reginn esalta la statura eroica, e addirittura la discendenza divina (da
Yngvi Freyr) del suo pupillo Sigurðr. Prima però di aiutare Reginn a prendere l’oro, Sigurðr ha un
altro dovere: vendicare la morte di suo padre uccidendo i suoi assassini. Nel procedere a questa
prova di passaggio, che suggella la sua maturità e virilità, egli ha la “benedizione” di Odino, che
appare come misterioso viandante e lascia intendere, attraverso i suoi consigli sulla condotta di
guerra e sul comportamento onorevole, che Sigurðr è sotto la sua protezione. Il carme si conclude
con Sigurðr vittorioso vendicatore.
Qualche osservazione formale (che ci tornerà utile) su questo testo: c’è un gusto tipico della
perifrasi, di un parlare indiretto e metaforico, quasi cifrato. Una di queste perifrasi è “fiamma della
sorgente” (strofa 1), a indicare il grande tesoro sommerso; si tratta oltretutto di un ossimoro, figura
logica che accosta due termini di senso opposto (fuoco/acqua). Similmente, nella strofa 16 appaiono
diverse di queste metafore perifrastiche, dette kenningar, per indicare le navi: tipicamente, “cavalli
del mare”.
La continuazione della fabula1 del ciclo di Sigurðr è – a grandi linee – questa: dopo avere
ucciso Fafnir, che aveva assunto forma di drago, ed essersi impossessato del tesoro, Sigurðr capisce
che Reginn vuole eliminarlo dopo averlo “usato”. Sigurðr uccide così anche il nano Reginn e se ne
va, con tutto l’oro, verso il regno di Gjuki presso il Reno, detto anche regno dei Nibelunghi. Sulla
strada, prima di arrivare, egli libera dall’incantesimo una valchiria punita da Odino, rinchiusa in un
castello di scudi in fiamme, chiamata prima Sigrdrifa, poi Brunilde (è una delle contraddizioni del
codice, che consta di diversi carmi di origine evidentemente diversa; l’episodio di Brunilde è reso
poi ancora più oscuro da una lacuna del Codex Regius). Arrivato da re Gjuki, Sigurðr stringe un
patto di amicizia con i suoi figli Gunnar e Hogni, e diventa promesso sposo della loro sorella
Guðrun. Sigurðr e Gunnar vanno a liberare Brunilde dal castello di fiamme; ma per fare questo
devono “scambiarsi le sembianze”: sarà Sigurðr a salvare Brunilde (perché solo lui ne ha le doti),
ma con le sembianze di Gunnar (perché Gunnar vuole sposarla). Così avviene e si celebrano le
doppie nozze. Finché Guðrun, durante un litigio, non racconta a Brunilde la verità, dunque
l’inganno di cui questa è stata vittima. Brunilde istiga il marito e il cognato Hogni a uccidere
Sigurðr. I due ci fanno un pensierino, anche per il movente dell’oro (maledetto). Sigurðr viene
ucciso a tradimento e Brunilde disperata si uccide, perché almeno nella morte possa essere unita al
suo amato di sempre. Ora è Guðrun a disperarsi. Le viene somministrata una pozione dell’oblio e
viene data in sposa ad Attila, che nell’Edda risulta essere anche il fratello di Brunilde. Attila vuole
vendicare la sorella e, già che si trova, impossessarsi dell’oro. Invita Gunnar e Hogni alla corte
unna. Guðrun cerca di dissuadere i fratelli in tutti i modi, ma il suo messaggio non arriva. Hogni e
Gunnar vanno incontro al loro ineluttabile destino, da veri eroi: al primo Attila fa strappare il cuore,
il secondo è gettato nella fossa dei serpenti. Ma il loro oro Attila non lo avrà; l’oro è stato affondato
nel Reno (fuoco che ritorna dunque all’acqua da dove era partito, a riformare l’ossimoro) e il suo

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Nello studio delle forme del racconto (la narratologia) è ormai uso comune distinguere tra “fabula” e “intreccio”. La
fabula indica le unità del racconto “riordinate” cronologicamente; l’intreccio rispetta invece l’ordine che il racconto
effettivamente utilizza, e che non corrisponde all’ordine normale: spesso quello che avviene prima viene raccontato
dopo.
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segreto non viene svelato. Conclude tutto la furiosa vendetta di Guðrun, che stermina Attila e la
corte unna per vendicare la morte dei fratelli (in realtà il ciclo prosegue con un paio di altri carmi
che raccontano di altre vendette, questa volta dei figli di Guðrun…).
Il ciclo di Sigurðr dell’Edda rielabora in forma epica il passato comune delle popolazioni
germaniche, delle loro guerre e delle loro migrazioni, e del potente movente dell’oro. È una storia
cupa e tragica, scritta con un “linguaggio di ferro”, come osserva Claudio Magris in un bel passo
del suo libro Danubio (fot. 6). Qui Magris chiarisce anche la differenza tra questa versione norrena
del principale epos germanico e la sua contemporanea versione meridionale, il poema anonimo
Nibelungenlied (Canzone dei Nibelunghi), scritta in medio alto tedesco e trovata agli antipodi
(rispetto all’Islanda) del territorio germanico, nella Germania meridionale. Oltre all’importante
divergenza dei finali descritta da Magris (da cui conseguono due diverse etiche, una che privilegia il
legame di sangue, l’altra il legame di elezione), possiamo aggiungere che il Nibelungenlied è un
testo più ricco e con più narrazione, anche influenzato dalla letteratura cortese europea. La nudità
“barbara” dell’Edda affascinerà Wagner, che vedrà in essa i “veri”, incorrotti caratteri germanici
(una visione che non prometteva niente di buono, come sappiamo). Infine, a titolo di curiosità,
un’ultima discrepanza: nel Nibelungenlied, i Nibelunghi sono una stirpe di nani.
Per capire in modo concreto come Snorri, nella sua Edda in prosa, operi nei confronti della
materia narrata nei carmi, analizziamo (fot. 4) il segmento di racconto che corrisponde al “riscatto
della lontra” delle fot. 2-4. A un’attenta lettura comparativa emergeranno chiaramente i nessi e le
differenze. Snorri riordina, rinarra in modo discorsivo quello che nei versi è evocato in modo
talvolta oscuro. Il contenuto è lo stesso (con alcune interessanti varianti, funzionali alla coerenza
logica), ma la forma è profondamente diversa. L’opera di Snorri aveva, come detto, un valore anche
“strumentale”: doveva spiegare agli scaldi l’origine di certe espressioni tramandate, evidentemente
perché i più avevano perso la conoscenza della loro origine. Gli scaldi, come vedremo, amavano
usare il linguaggio cifrato, ma questo era talmente codificato che non si sapeva più perché mai il
tesoro dovesse chiamarsi “fuoco dell’onda” o “riscatto della lontra” (da qui il senso del procedere
“pedagogico” di Snorri, a domande e risposte). Il miracolo è che Snorri è un grande narratore, e che
nel compiere la sua opera esplicativa, egli ricrea, fa a sua volta poesia. Una conoscenza complessiva
di ciò che chiamiamo “Edda” non può dunque prescindere dalla lettura comparata di questi due
testi, uno principalmente in versi e l’altro principalmente in prosa.

Gli scaldi sono prestigiose figure intellettuali della corte vichinga. Sono vicini al re, i loro
consiglieri e amici. L’arte della parola è, da sempre, anche un potere. Pare che proprio Harald
Hárfagri (Araldo Bellachioma) inauguri questa tradizione, e gli scaldi sono dapprima norvegesi. Il
primo nome noto è quello dello scaldo norvegese Bragi Boddason, che opera ancora nel IX sec.
Quest’arte diventa successivamente sempre più prerogativa degli islandesi. Gli scaldi islandesi sono
ricercati e ospitati in tutte le corti vichinghe del Nord e delle zone colonizzate o frequentate dai
vichinghi (ad esempio le isole britanniche). Un documento chiamato Skáldatal (Elenco degli scaldi)
ci fornisce i nomi di 110 scaldi, e dei rispettivi mecenati, vissuti dal 950 al 1300.
La relazione privilegiata tra lo scaldo e il suo signore si riflette sui contenuti di questa
poesia, che è quasi sempre di encomio: si celebrano le gesta del re, spesso con dei riferimenti a
battaglie o imprese, o si narra la sua genealogia o si descrivono il suo aspetto e la sua persona. Il re
ricompensa l’encomio con la protezione personale e, soprattutto, con l’oro. Ecco perché la poesia
scaldica contiene sempre un momento metapoetico, che descrive le condizioni e le motivazioni
stesse in cui essa si produce; il re viene spesso chiamato “signore degli anelli”, “colui che dona
anelli” ecc.
Il contesto storico in cui nasce la poesia scaldica è quello vichingo, ma, come detto, gli
stilemi tipici di questo genere poetico continuano a dominare anche molto dopo la fine della fase
vichinga, fino al XIV sec. La poesia scaldica più antica, quella d’età vichinga, pone i maggiori
problemi di interpretazione. I riferimenti a certe battaglie sono spesso l’unica fonte esistente relativa
a dati eventi. Quale attendibilità storica possono avere? Già Snorri, nel XIII sec., era
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nell’imbarazzo. Secondo lui però quei riferimenti devono essere attendibili, altrimenti l’encomio
dello scaldo sarebbe risultato un scherno davanti al re. Dobbiamo però tenere presente che l’evento
storico diventa comunque letteratura, viene iscritto in un genere poetico elaboratissimo, con ferree
regole retoriche e stilistiche e rigide convenzioni formali. Se pure abbiamo delle informazioni,
queste sono comunque indirette, filtrate attraverso le forme poetiche.
La poesia scaldica è volutamente difficile, è un’esibizione e una prestazione pubblica e orale
da parte dello scaldo, presso la corte o presso il þing. È oscura e da decifrare. La bravura richiesta
riguarda sia chi la produce, sia l’auditorio “iniziato” che deve recepirla. Ludovica Koch scrive: “la
poesia scaldica è una sfida intellettuale, una tempesta di enigmi.” La poesia scaldica è sì una poesia
individuale, d’autore, ma non corrisponde quasi mai a quella espressione intima e soggettiva che
comunemente attribuiamo al genere “poesia”. La perizia verbale, retorica e sintattica è
assolutamente al centro. Fino al punto che la poesia scaldica può diventare un gioco fine a se stesso,
un prezioso ornamento, un’arte del cesello verbale che finisce per non dire niente, anche se in modo
molto elegante e complicato.
I fattori della complessità della poesia scaldica sono essenzialmente due: 1) la sintassi
comune viene scardinata all’interno della strofa. Le parole vengono disposte in una sequenza che va
riordinata per essere intelligibile; 2) le kenningar vengono abbondantemente usate e abusate. Questi
caratteristici tropi (figure semantiche) della poesia eddica e scaldica forniscono la materia prima del
parlare indiretto e cifrato. Possiamo distinguere due principali tipologie di kenning: a) le metafore
perifrastiche, come “albero della battaglia” (per guerriero), o “destriero dell’onda” (per nave): b) il
riferimento ai miti e alle leggende: “fuoco dell’onda” per l’oro; “furto di Odino” per l’idromele ecc.
O una combinazione delle due: “gioia di Huginn” per “battaglia”; dove Huginn è uno dei corvi di
Odino, e “la gioia del corvo” sono i cadaveri di cui l’uccello si può cibare dopo la strage. E così via,
fino a un proliferare quasi parossistico di kenningar multiple: “pelle della casa della balena” per
“ghiaccio” (ossia mare ghiacciato).
Proprio per il suo carattere cifrato e iniziatico, la poesia scaldica è molto consapevole di sé e
dei propri procedimenti, sempre molto esibiti. Ecco a titolo di esempio una strofa di Bragi
Boddason, il primo scaldo conosciuto:

Scaldo mi chiamano:
fabbro del liquore di Viðurr,*
scopritore del dono di Gautr,*
poeta senza avarizie,
dispensatore della birra di Yggr,*
Moði** per natura dell’ispirazione,
abile fabbro di versi.
Se non è questo, che cos’è un poeta?

Dove i nomi (*) sono tutti appellativi di Odino, e dunque ritorna l’obbligato riferimento al mito del
furto dell’idromele dell’ispirazione, poi dispensato dal dio agli uomini (mica a tutti: agli scaldi!); e
dove (**) equivale a “dio”. Notiamo infine l’accento su un sapere tecnico-artigianale, la metafora
dell’arte del verso come fine oreficeria, le parole come materia dura da plasmare per creare
gioielli…
Uno scaldo, il più grande, si distingue però dagli altri: è l’islandese Egill Skallagrimsson (ca.
910-990). Di lui si narrano la vita e le opere in una delle più belle saghe, la Saga di Egill
Skallagrimsson della prima metà del XIII sec., anonima, ma da diversi studiosi attribuita a Snorri
Sturluson. All’interno di questo manoscritto del 1200, dunque, sono contenute tutte le poesie e le
strofe che conosciamo di Egill (e quale fu il loro passaggio dal X al XIII sec.? mistero aperto. Il
dato di fatto è che tutte le poesie scaldiche che conosciamo sono contenute all’interno delle saghe;
manoscritti di sola poesia non ce ne sono). Di Egill ricordiamo due poesie: “Il riscatto della testa” e
“La perdita dei figli”. Nella prima il poeta e vichingo riutilizza in modo personalissimo e geniale il
genere codificato dell’encomio al proprio signore – con la differenza che questa volta il “proprio
signore” è il suo peggior nemico! La saga narra infatti che Egill ha subito un naufragio al largo delle
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coste del Northumbria, proprio presso York, dove regna Erik Asciasanguinosa (figlio di Araldo
Bellachioma, che Egill – islandese – ovviamente odia). Egill viene catturato e imprigionato. Un
consigliere di Erik, vecchio amico di Egill, fa da mediatore, consigliando al poeta di comporre un
grande encomio per il signore, e avere salva la testa (molto meglio dell’oro). Egill si presta, e
l’encomio, fatto controvoglia, è soprattutto l’esaltazione della propria capacità di fare poesia. Chi lo
dice che la poesia non serve a niente? A Egill salva la vita. La seconda poesia è il Sonatorrek,
comunemente tradotto come “La perdita dei figli”, ma che la Koch traduce come “La vendetta
impossibile per i figli” (fot. 7-9). Data la complessità e la densità di questo testo, non possiamo fare
a meno delle preziose note redatte dalla curatrice. È una poesia che si stacca dal resto della
tradizione scaldica proprio in quanto dolorosa confessione di sé, del proprio male di vivere e della
propria disperazione – il tutto, beninteso, entro le ferree regole formali della poesia scaldica. Egill,
ormai vecchio, si racconta; vede davanti a sé solo la morte, e attorno a sé un campo di rovine:
parenti – e soprattutto: i figli amatissimi – morti, scomparsi. La saga racconta dell’ultimo lutto: il
naufragio in cui muore il giovane figlio Boðvar. Egill vorrebbe lasciarsi morire, ma sua figlia lo
convince a comporre una poesia al fine di oggettivare il suo dolore, per liberarsene. Pure in questa
grande devastazione interiore il poeta – nel momento in cui decide, faticosamente, di esprimersi in
poesia – si risolleva, raggiunge una forma, una grande forma che lo riempie di orgoglio. Abbiamo
dunque, ancora una volta, una poesia che parla del poetare. A legare il tutto, le sconsolate
considerazioni finali dell’autore sul suo rapporto col dio che lo proteggeva, Odino. Ora Egill non
crede più in quella protezione, se non fosse che il grande dono della poesia proviene pur sempre da
Odino… Il soggetto lirico è in questa poesia prepotentemente al centro e questo, commenta la
Koch, “nella storia della letteratura segna una svolta di portata europea”.

La definizione di “saga” copre un corpus molto vasto e composito di testi islandesi, per lo più
anonimi, scritti soprattutto nel XIII e XIV sec. Tradizionalmente si distinguono diversi sottogruppi;
si tratta di una suddivisione fatta a posteriori dagli studiosi, ma ormai d’uso comune: saghe
islandesi, saghe dei re, saghe del tempo antico e saghe dei cavalieri.
Le saghe islandesi, cioè di ambientazione e di materia islandese (altrimenti tutte le saghe
sono scritte in Islanda), sono circa 40; narrano vicende familiari e individuali legate alla
colonizzazione dell’Islanda da parte degli emigrati norvegesi, e dei loro discendenti. I personaggi
descritti sono quelli in vista (spesso degli scaldi, ad esempio); ma in queste cronache familiari i
personaggi, anche secondari, sono sempre molti; c’è sempre una dimensione collettiva del racconto,
che coinvolge un intero popolo. A volte si narra di viaggi e di spedizioni, tra cui la (mancata)
“scoperta dell’America”. Il “tempo della saga” ha precisi limiti temporali, ossia dei riferimenti
storici che determinano l’inizio, lo sviluppo e la conclusione della narrazione. Macrostoria e
microstoria (o se vogliamo: history and story) si implicano a vicenda. Lo sfondo è sempre: la presa
di potere di Araldo Bellachioma in Norvegia, la conseguente emigrazione verso l’Islanda, la
fondazione di Alþingi nel 930, l’introduzione del cristianesimo nel 1000, e la sua lenta
affermazione. Lo scenario degli eventi non è però solo l’Islanda. L’Islanda è il fulcro, ma da qui si
parte per descrivere tutti i territori del nord Europa. Le saghe seguono i loro personaggi, che sono
coloni e contadini quando sono a casa, ma che si trasformano in vichinghi e viaggiatori, coprendo
distanze vastissime. Dunque troviamo la Norvegia, la Danimarca e la Svezia; il misterioso mondo
dei Finni e dei Lapponi; la Russia; le isole britanniche grandi e piccole, fino alla Groenlandia e
all’America. Questi vasti spazi geografici, inclusi nei racconti, danno il senso del dinamismo e della
velocità, ma anche della precarietà della vita dei vichinghi. La Saga di Egill Skallagrimsson è
esemplare da questo punto di vista. Egill vive e opera dal 910 al 990, ma la saga parte da prima:
dalla genealogia di Egill, dagli antefatti connessi alla rivalità tra la sua famiglia (norvegese) e il
nuovo sovrano Araldo Bellachioma. Dunque sono spiegati motivi e modalità del trasferimento dalla
Norvegia all’Islanda. E poi Egill: grande vichingo da subito (debutta col suo primo omicidio a sette
anni!), ma anche grande poeta. Vive in Islanda, ma spazia pure con le sue spedizioni. E alla fine,
9

come sappiamo, muore pagano (o addirittura ateo), poco prima dell’arrivo del cristianesimo,
quando la saga su di lui si conclude.
La Saga di Njáll (fot. 10-11), che comprende diversi nuclei narrativi inseriti in un unico,
grandioso disegno, è – assieme alla Saga di Egill Skallagrimsson – il capolavoro di questo genere.
Gli eventi includono circa 600 personaggi, ma il nucleo della storia riguarda l’amicizia impossibile
tra Gunnar e Njáll. Il primo concentra in sé la somma delle doti fisiche e morali di un uomo; egli è
nel contempo contadino islandese e vittorioso vichingo; il secondo, suo caro amico, è fisicamente
meno prestante, ma moralmente altrettanto nobile e soprattutto di intelletto fine, un imbattibile
esperto di legge. Il loro rapporto di elezione, l’amicizia, è reso impossibile dalla faida che, lenta ma
inesorabile, monta opponendo le rispettive famiglie. È dunque drammaticamente rappresentata in
questa saga la collisione tra due etiche profondamente diverse: una, quella tradizionale germanica,
privilegia il rapporto di sangue, la stirpe e la vendetta; l’altra preferisce il rapporto di elezione, la
riconciliazione e il compromesso per appianare i contrasti, anche attraverso il procedimento
giuridico del risarcimento in soldi per un torto subito. Al centro di questa rappresentazione non ci
sono solo le persone, ma anche la principale istituzione dell’indipendente Islanda medievale,
l’Alþingi, l’assemblea insieme legislativa e giuridica. Le sedute estive dell’assemblea sono l’evento
sociale e collettivo che scandisce gli eventi pluriennali della cronaca; è all’assemblea che la
sapienza e l’abilità dell’uomo di legge Njáll sa farsi valere. Ma sull’assemblea, col suo principio
dell’accordo giuridico, avrà la meglio lo scontro violento, il principio della vendetta. La catena di
violenze e sventure, originata dall’inimicizia tra le due mogli dei nostri eroi, Hallgerðr moglie di
Gunnar e Bergþora moglie di Njáll (ma soprattutto dalla natura malvagia della bellissima
Hallgerðr), si protrae alla generazione successiva, quella dei figli, finché due ultimi discendenti
superstiti, ognuno convertitosi intimamente al cristianesimo e dedicatosi a un pellegrinaggio in
luoghi santi, non sanciscono la definitiva rappacificazione. Gunnar e Njáll, vissuti in un tempo
ancora pagano, devono soccombere all’etica della stirpe e della vendetta; ma un più umano tempo
successivo, quello cristiano, darà ragione ai loro sforzi. Ecco che, in uno straordinario disegno
narrativo, storie individuali e Storia si compenetrano.
Tre racconti introduttivi servono da premessa e anticipazione del racconto principale: in tutti
e tre un nobile uomo conclude un cattivo affare matrimoniale (il matrimonio implica sempre
un’alleanza tra due famiglie, decisa dagli uomini); nel secondo e terzo racconto la protagonista
negativa è proprio la perfida Hallgerðr, che quando si sposerà con Gunnar (anche il più nobile si fa
accecare dall’amore…) avrà già due matrimoni alle spalle. Il racconto principale narra le imprese di
Gunnar (con un percorso già anticipato da uno dei personaggi dei racconti introduttivi: fama
attraverso i viaggi nel vasto mondo, ma ritorno a casa per la nostalgia d’Islanda), l’amicizia con
Njáll e l’escalation di vendette tra le due famiglie, che li mette duramente alla prova. Questa parte
finisce con la condanna all’esilio, e poi con l’uccisione di Gunnar da parte dei suoi nemici. Il
secondo grande racconto è incentrato sui figli di Njáll, ormai adulti e forti, e sulla faida che
continua a coinvolgerli, fino allo sterminio di Njáll, dei suoi figli e di tutta la sua famiglia, bruciati
vivi nel loro podere. Intanto l’Islanda viene cristianizzata. E l’ultimo racconto riguarda Kare e
Flose, rappresentanti sopravvissuti delle due stirpi che infine si riconciliano.
La lettura attenta anche di un solo brano della Saga di Njáll ci insegna i tratti stilistici della
prosa delle saghe islandesi: la voce narrante procede con un tono asciutto, impassibile, quasi
laconico, da “cronaca”, evitando qualsiasi enfasi emotiva o qualsiasi giudizio dall’esterno, ma bene
attenta a mettere in evidenza la drammaticità oggettiva degli eventi e i conflitti psicologici. La
drammaticità appare data tutta dalle cose. La voce narrante non entra nei pensieri e nelle emozioni
dei personaggi; rileva solo ciò che un qualunque osservatore può notare dall’esterno (questa
narrazione è stata perciò definita “behavioristica”, attenta alle reazioni e ai comportamenti esterni).
Di Gunnar non si dirà mai “provò rabbia”, ma semmai “si fece tutto rosso”. Dunque tutto avviene
nei dialoghi e nei gesti. Non ci sono descrizioni inessenziali: se ci viene detto che Njáll non aveva la
barba, questo particolare risulterà fondamentale per la trama. Così come gli incantevoli, lunghi
capelli biondi di Hallgerðr giocheranno un ruolo fondamentale nella morte di suo marito Gunnar.
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Due parole anche sulla Saga di Eirík il Rosso, nota perché narra la più affascinante delle
spedizioni vichinghe, quella che arrivò sulle coste americane partendo dalla colonia formatasi in
Groenlandia (tutta la saga è il racconto della colonia groenlandese). Una parte della spedizione
verso il “Vinland” (paese della vite) è riportata dalla fot. 9. Gli islandesi-groenlandesi chiamano
così la terra americana perché trovano che lì vite e grano crescono spontaneamente. Nell’episodio
narrato troviamo, oltre al fascino della scoperta del nuovo mondo, il tema del conflitto tra fede
pagana e fede cristiana: è Thorr o Cristo a proteggere meglio quei viaggiatori? È difficile dire
quanta attendibilità storica abbia questo brano con tutti i suoi dettagli narrativi (in fondo anche le
saghe storiche sono racconti, “romanzi storici”, potremmo forse dire con un anacronismo). Lo
stanziamento vichingo in America è però un dato certo, suffragato da prove archeologiche oltre che
da fonti scritte. Tale stanziamento, come narra anche la saga, non durò però che qualche anno, dopo
di che il Vinland fu abbandonato.
Le saghe dei re sono biografie dei re medievali norvegesi, composte con caratteristiche
stilistiche simili a quelle descritte per le saghe islandesi. Sono circa 25. E 16 di queste sono riunite
in un unico, straordinario ciclo composto da Snorri Sturluson (sempre lui). Il titolo di questo ciclo
di 16 saghe è Heimskringla (La circonferenza terrestre). Non è in realtà il titolo dato dall’autore,
quanto la ripresa delle prime parole dell’incipit. Queste saghe fanno la storia della Norvegia
attraverso i suoi re, dalle origini mitiche che si perdono nella notte dei tempi (Ynglingasaga),
passando per la Saga di Araldo Bellachioma, fino alle saghe dedicate ai due re cristianizzatori, la
Saga di Olav Tryggvasson e la Saga di Olav Haraldsson il Santo (di cui un piccolo brano è stato
menzionato nel 1° modulo, a proposito dell’elezione del re all’assemblea) e fin quasi ai re
contemporanei all’autore Snorri. Le saghe scritte dal più grande autore islandese e dedicate ai re
norvegesi stanno a indicare il legame forte che gli islandesi indipendenti comunque intrattengono
con la madre patria (Snorri e la sua potente famiglia saranno tra l’altro coinvolti nei burrascosi
eventi che riporteranno l’Islanda sotto la corona norvegese nel 1262). Ma questo gruppo di saghe
giocherà un ruolo fondamentale anche nella storia culturale e letteraria norvegese, poiché in esse si
identificherà il grande patrimonio del glorioso passato, la Norvegia in quanto regno libero e forte. In
tutti i momenti di prostrazione e di ricostruzione nazionale della Norvegia (il Cinquecento,
l’Ottocento) si tornerà allo Heimskringla.
Le saghe del tempo antico si chiamano così perché si collocano in un tempo precedente
all’inizio del “tempo storico”, ovvero agli eventi connessi alla colonizzazione dell’Islanda.
L’ambientazione rimane vichinga, anche se la materia è spesso tratta da leggende germaniche più
antiche. Qui c’è meno cronaca storica, meno realismo, e più fantasia, più eventi fantastici, più
presenza del magico. Minori sono anche i vincoli spazio-temporali. Tra le numerose saghe del
tempo antico menzioniamo solo la Saga dei Volsunghi, anonima, che ci fornisce la terza versione
norrena della storia di Sigurðr. Alle fot. 5-6 troviamo, quale ulteriore termine di confronto, lo stesso
segmento narrativo letto nelle due versioni dell’Edda, cioè il riscatto della lontra e la maledizione
dell’oro.
Infine le saghe dei cavalieri sono, similmente a quelle del tempo antico, più fantastiche e
leggendarie; ma rispetto a queste ultime c’è in più l’influsso dei romanzi cortesi francesi. Sappiamo
che nella Norvegia del XIII sec., alla corte di re Håkon Håkonsson, si cominciano a tradurre alcuni
romanzi cavallereschi francesi, e le saghe dei cavalieri rivelano una maggiore contaminazione con
altre tradizioni narrative europee, o anche extraeuropee, come quella orientale. La libertà nel trattare
il tempo e lo spazio è ancora più accentuata; la fantasia, l’invenzione e il gusto fiabesco dominano.
Il corpus delle saghe, per concludere, comprende testi delle più svariate origini. Nell’Islanda
medievale si scriveva, traduceva e ricopiava di tutto. Esiste anche un gruppo di “saghe” dedicate
alla vite dei santi, saghe agiografiche. Per la cronaca, esiste anche una Saga di Sant’Ambrogio, in
norreno! La produzione di saghe è forse l’evidenza più macroscopica della grande cultura letteraria
che si sviluppa in Islanda nel medioevo, un genere che quasi anticipa il moderno romanzo europeo,
e che ancora pochi conoscono. Tradizionalmente, si consideravano le saghe islandesi e dei re i
maggiori capolavori, proprio per il loro contenuto storico, il loro realismo, la loro capacità di
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renderci vicino e palpabile un mondo remoto nello spazio e nel tempo, nato da particolarissime
circostanze storiche. Per lo stesso motivo, si tendeva invece a svalutare le saghe del tempo antico e
dei cavalieri, addirittura considerate “menzognere” rispetto alle “vere” saghe islandesi e dei re. Ora
la prospettiva è mutata. Si vede nelle saghe islandesi e dei re soprattutto dei grandi racconti; si mette
in risalto anche qui l’aspetto della costruzione fictional, il loro essere più letteratura che cronaca
storica, per quanto sicuramente quei racconti si basino su nuclei di fatti accaduti, tramandati perché
memorabili. D’altro canto anche nelle saghe più fantastiche è sempre possibile ricavare tutta una
serie di informazioni sulla cultura materiale e spirituale della civiltà norrena.
Non è un’esagerazione affermare che la letteratura medievale islandese è la più ricca
d’Europa. E la sua fioritura ha, al di là di tutte le circostanze storiche, qualcosa di inspiegabile e
quasi miracoloso. Sappiamo che l’Islanda comincia una lunga fase di sottomissione e decadenza a
partire dal XIII-XIV sec. La rinascita nazionale avverrà solo a partire dal XIX e XX sec. Eppure per
ogni islandese di media cultura questi testi e i personaggi che li popolano sono un patrimonio ovvio
e familiare, così come la lingua in cui essi sono scritti si è conservata praticamente immutata: è
l’odierno islandese. Così non sarà invece per la Norvegia, dove il decadimento del XIV e XV sec.
vuole anche dire la progressiva e definitiva perdita del norreno, l’antica lingua della gloriosa
tradizione scritta medievale.
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LETTERATURA MEDIEVALE IN DANIMARCA, NORVEGIA E SVEZIA

Il primo dato da rilevare è che i paesi scandinavi non conoscono nel medioevo la stessa fioritura
letteraria che caratterizza la “colonia” islandese. Norvegia, Danimarca e Svezia possono ad esempio
essere teatro degli avvenimenti delle saghe, che sono però sempre di matrice islandese. Sappiamo
che quando gli scandinavi parlano di “medioevo” indicano il periodo che va dalla cristianizzazione
alla riforma protestante (ca. 1050-1520). Sono secoli di grande letteratura e cultura anche in altri
paesi d’Europa, ad esempio in Italia. Non si può dire lo stesso della Scandinavia, che sta emergendo
dal passato pagano e vichingo e sta costruendo i suoi primi nuclei statali. In Danimarca, Svezia e
Norvegia è anche meno sviluppato l’uso del volgare a favore di una maggiore presenza del latino.
Troviamo tuttavia in questo periodo i primi documenti scritti in svedese e danese antico, oltre
naturalmente a testi norreni norvegesi, un fatto di per sé significativo.
Il maggiore monumento in latino della letteratura scandinava medievale è Gesta Danorum
del danese Saxo Grammaticus (ca. 1140-1210). Saxo è un intellettuale che opera all’interno della
alleanza tra corona e chiesa, che è alla base degli stati medievali scandinavi. Egli lavora infatti come
segretario del vescovo Absalon (il fondatore di Copenaghen) e come ministro del re Valdemar I.
Gesta Danorum è l’opera di tutta una vita, composta da 16 libri che, in un latino prezioso,
raccontano la “storia” della Danimarca dalle origini mitiche e leggendarie (ca. 800 a.C.) fino agli
eventi quasi contemporanei all’autore (1185). L’opera, commissionata da Absalon, riflette nel suo
impianto l’alleanza tra chiesa e corona. Essa culmina con l’affermazione del Regno nazionale e del
Cristianesimo. Il progetto di Saxo è ambizioso: presentare la Danimarca al mondo latino e cristiano;
inserire la “barbara” storia danese nel grande filone della cultura europea; dire: ci siamo anche noi.
Già altre popolazioni germaniche, cristianizzate nel medioevo, avevano prodotto simili origines,
cioè storie nazionali che si inserivano nella universale storia cristiana: Beda aveva scritto la storia
degli Angli (ca. 730) e Paolo Diacono aveva scritto la storia dei Longobardi (ca. fine del 700).
Similmente a queste, anche Gesta Danorum combina mito, leggenda e cronaca storica. Nei primi 8
libri dominano fatti favolosi e mitologici, e infatti Gesta Danorum è anche una rielaborazione in
latino del patrimonio che abbiamo trovato nell’Edda norrena (anche se non ci sono corrispondenze
esatte). La nascita del Salvatore è nel X libro, e la seconda parte dell’opera tende a diventare più
storica. Siamo ancora di fronte a una complessa compresenza di cultura antico-nordica e di
cristianesimo. La particolarità è che il latino di Saxo non è quello “internazionale” medievale, ma si
rifà direttamente ai modelli della poesia e della prosa latina classica.
La perizia retorica e metrica di Saxo rendeva il suo testo troppo difficile ai contemporanei.
Infatti la fortuna di Gesta Danorum è una storia successiva: appartiene al Cinquecento. Nell’ambito
della cultura umanistica e rinascimentale il latino classico dell’opera può essere apprezzato. La
diffusione avviene grazie all’edizione a stampa prodotta a Parigi nel 1514, su iniziativa
dell’umanista e riformatore danese Christiern Pedersen (che ritroveremo come traduttore della
Bibbia). È così che Gesta Danorum viene conosciuta in tutta Europa. Da questo punto di partenza la
storia di Amleto principe di Danimarca, contenuta tra i libri III e IV di Gesta Danorum, arriva (non
si sa se direttamente in latino o attraverso una traduzione francese) a William Shakespeare, che nel
1600 pubblica The Tragedy of Hamlet. In Gesta Danorum la vicenda del principe che vendica il
padre si esaurisce in una ventina di pagine. E il passaggio da questo scarno scheletro “barbaro” al
capolavoro della letteratura universale è opera del genio. Il passaggio ci illustra comunque un modo
di procedere tipico di Shakespeare, che raramente inventava di sana pianta i suoi soggetti, ma
attingeva da storie già esistenti, di varia provenienza. Fot. 12 contiene alcuni passi dell’Amleto di
Saxo, con alcuni nuclei fondamentali del racconto su cui Shakespeare costruirà la sua tragedia.
Amleto vuole vendicare l’omicidio del padre Horvendil da parte del fratello di costui, suo zio
Fengone. A differenza della tragedia di Shakespeare, lo zio non fa mistero del suo omicidio,
giustificandolo con i maltrattamenti del re alla moglie. In realtà il suo scopo è prendersi il regno e la
moglie del fratello (Gerutha). Amleto vuole vendicarsi ma con astuzia e lentezza. Si finge pazzo,
parla in modo sibillino. La corte si inquieta e si allarma: che il giovane stia tramando qualcosa?
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Cercano di smascherarlo, con tre tentativi che falliscono: 1) si cerca di prendere Amleto con
l’amore: “l’esca” è una bella ragazza sua amica: se si innamorerà, si rivelerà sano. Amleto astuto fa
in modo di apparire sempre stordito, ma intanto si allea con la ragazza e ottiene i suoi favori. 2) Si
cerca di spiare Amleto mentre parla con la madre: anche lì, se non è pazzo si confesserà. Amleto
scova lo spione e lo fa “follemente” a pezzi. 3) Si manda Amleto in Inghilterra con due vecchi
amici, che portano al re inglese l’ordine di uccidere Amleto. Amleto scopre il messaggio, lo
contraffà (farà uccidere i due accompagnatori), sposa la figlia del re d’Inghilterra. Infine torna in
Danimarca il giorno in cui aveva pregato la madre di celebrare il suo funerale. Fa ubriacare i
commensali e fa strage con un grande incendio. Racconta al popolo la sua storia e viene acclamato
re.
Le somiglianze con la tragedia di Shakespeare sono la storia del fratricidio, l’usurpazione e
l’incesto; la finta pazzia e il fine uso del linguaggio come strategie di una lenta vendetta. I tre
episodi-nucleo vengono sviluppati da Shakespeare. Soprattutto la parte relativa ad Amleto e la
ragazza. L’anonima ragazza diventa Ofelia, colei che Amleto ama eppure maltratta (dove non si
capisce se stia fingendo di essere pazzo o se la respinga per paura). Lo “spione” sotto la paglia
diventa in Shakespeare Polonio, ciambellano di corte e padre di Ofelia, trafitto da Amleto dietro la
tenda. E i due sventurati accompagnatori del principe sono in Shakespeare Rosencrantz e
Guilderstern. Un altro particolare è che la storia di Saxo ha luogo nello Jylland, mentre quella di
Shakespeare al castello di Elsinore, che altro non è che Helsingør, dove da poco (nel Cinquecento)
era stato costruito il castello presso cui le navi mercantili si fermavano a pagare il dazio di ingresso
nel Baltico (molte navi inglesi: quel castello era certamente noto nella Londra di Shakespeare). Ma
la differenza più sostanziale è che con Shakespeare, Amleto diventa il moderno eroe del dubbio e
dell’incertezza. Vuole vendicarsi e non vuole. Più intelligente e sensibile di altri, egli è corroso e
paralizzato dal suo stesso pensiero. Finge la pazzia, ma poi si fa misteriosamente irretire dalla sua
finzione. L’Amleto di Saxo sa invece unire la forza brutale e la decisione all’astuzia e al calcolo
paziente. La sua lentezza è tutta studiata, ed egli attua la sua vendetta senza esitare, punto per punto,
fino a diventare re. Quella di Shakespeare è una tragedia: Amleto non diventa re; lui e tutti i suoi
rivali muoiono. Per Saxo la storia della Danimarca è la storia dei suoi re legittimi. L’acclamazione
finale da parte del popolo sancisce questa legittimità anche per Amleto.
Gesta Danorum è stata letta almeno fino al Seicento come storia attendibile; poi sempre più
come monumento della letteratura danese, un tesoro di antichi racconti su cui fondare l’identità
nazionale. Le sue pubblicazioni a stampa e traduzioni in danese segnano sempre momenti
importanti della vita culturale. Una nuova prestigiosa edizione in danese è stata pubblicata pochi
anni fa.
Una storia nazionale in latino, di inferiore valore letterario rispetto a Gesta Danorum, è scritta in
Norvegia, ad opera di un certo monaco Teodorico: Historia de antiquitate regum
norwagensium (ca. 1180). Copre all’incirca lo stesso periodo raccontato in norreno da Snorri
con lo Heimskringla. E si discute se lo scritto latino possa essere stato una fonte per Snorri.
Nella povera letteratura medievale scandinava troviamo diverse espressioni di poesia religiosa.
L’arcivescovo danese Andreas Sunesen scrive in latino Hexaëmeron (ca. 1200), che si rifà
all’opera dei sei giorni, ovvero alla creazione del mondo da parte di Dio. È un sunto in 8.000
esametri della religiosità medievale: la mente rivolta all’aldilà, l’attesa dell’Apocalisse; la vita
terrena come attimo fuggente rispetto alla dimensione eterna. Alcune interessanti visioni
cristiane dell’aldilà si trovano anche in lingua volgare: la poesia anonima islandese Sólarljóð
(Carme del sole, ca. 1300) riprende lo stile scaldico, ma con un contenuto cristiano; la poesia
norvegese Draumkvæde (Canto del sogno), scoperta nell’Ottocento ma risalente al 1250 ca.,
combina invece la visione escatologica alla forma scandinava “classica” della ballata (che
incontreremo fra breve).
In Svezia, dove il paganesimo resiste più a lungo, le prime testimonianze della tradizione
scritta (sebbene non si tratti di letteratura) sono le leggi provinciali, le cosiddette landskapslagar,
redatte in antico svedese. Abbiamo già visto, parlando di storia delle istituzioni, perché a un certo
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punto si rende necessaria la scrittura. Il dato interessante è l’abbondanza delle leggi svedesi. La più
antica è la Västgötalagen (Legge del Västergötland) dell’inizio del XIII secolo, poi diverse altre
seguiranno nel corso del secolo, fino a confluire nella unitaria legge nazionale (landslagen) redatta
da re Magnus Eriksson nel 1347 – indice di un processo di unificazione e di organizzazione
amministrativo-giuridica del regno nel corso del medioevo. Dal punto di vista culturale, questi
scritti ci aprono una finestra sulla società del medioevo, attraverso la descrizione dei casi giuridici.
Lo stile è fresco e popolare; la scrittura fa uso di cosiddette “mnemotecniche”: modi per aiutare la
memoria attraverso ripetizioni, assonanze, allitterazioni (eco della tradizione giuridica orale). Gli
autori sono anonimi, ma sicuramente provenienti dagli ambienti colti di origine nobile o
ecclesiastica. Simili leggi si trovano anche in Danimarca: la Jyske Lov (Legge dello Jylland, 1241) e
la Skånske Lov (Legge della Scania, all’incirca contemporanea alla prima). In Norvegia si ha
un’unica legge nazionale già nel 1274, con re Magnus Håkonsson.
L’aristocrazia politica ed ecclesiale che sta dietro la redazione delle leggi è anche quella che
studia in Europa. Scandinavi cominciano a formarsi, nel XIII e XIV sec., alle università del tempo:
Parigi, Bologna e Praga. Intanto gli ordini mendicanti, i francescani e i domenicani, che operano
nelle città costruiscono chiese e conventi anche nel Nord. L’esempio più stupefacente è la ricca città
hanseatica di Visby, sull’isola di Gotland, al centro del Baltico e in posizione strategica per i
commerci nord-sud ed est-ovest. Un domenicano di Visby, Petrus de Dacia, scrive nel XIII sec.
un’agiografia in latino su una santa tedesca, Kristina von Stummeln: Vita Christinae Stumbelensis –
timida traccia svedese di un genere diffuso nella letteratura latina medievale.
La più grande personalità religiosa e culturale del medioevo svedese è una donna: Birgitta,
poi beatificata; dunque: Santa Brigida (1303-1373). È la prima grande visionaria della letteratura
svedese, ma anche una figura orientata all’azione, a un cristianesimo pratico, all’opera per la
moralizzazione dei costumi nella chiesa. Di origine aristocratiche e imparentata con la stirpe reale
dei Folkungar, si dedica alla vita religiosa dopo essere rimasta vedova, con molti figli, nel 1349. Va
in pellegrinaggio a Roma e vi resta fino alla morte. Qui si prodiga per riportare il papa a Roma
(siamo nel periodo della “cattività avignonese”: 1308-77); per mettere fine alla lunga guerra “dei
cent’anni” tra Francia e Inghilterra (a più riprese, 1337-1453); e, infine, per fondare un proprio
ordine. Le sue visioni mistiche, scritte originariamente in svedese antico, ma andate per lo più
perdute (danno enorme per la cultura svedese), ci sono note attraverso le trascrizioni in latino fatte
dai suoi confessori. L’opera è nota come Revelationes Celeste, e l’edizione a stampa è del 1492.
Birgitta vede Gesù e Maria, parla con loro, ha un filo diretto con l’aldilà; d’altra parte osserva il
mondo contemporaneo e lo critica, attacca i potenti e i corrotti, fuori e dentro la chiesa, ha un
intento morale e civile oltre che religioso.
Birgitta sarà canonizzata nel 1391 e l’ordine brigidino nasce per opera di sua figlia Katarina:
l’Ordine di Santo Salvatore, che è l’originale contributo scandinavo alla cultura monastica
medievale europea. Grande importanza religiosa e culturale riveste il monastero di Vadstena, presso
il lago Vättern, che diventa il grande centro irradiatore di fede e di cultura, e meta dei pellegrini
nordici. Qui si produce una grande quantità di manoscritti, tra cui le traduzioni in svedese di alcuni
libri della Vulgata, la versione ufficiale cattolica in latino della Bibbia. Purtroppo questa ricchezza
culturale sarà devastata dalla Riforma protestante, che sentirà il bisogno di cancellare le tracce del
cattolicesimo in Svezia. Ma la figura di Santa Brigida è un’eredità viva della cultura svedese, anche
se luterana. Diversi scrittori moderni, convertiti al cattolicesimo o meno, torneranno a lei.
Anche la letteratura cavalleresca e cortese ha un certo sviluppo in Scandinavia, soprattutto in
Norvegia, alla corte del re Håkon Håkonsson, che regna lungamente dal 1217 al 1263. Il re
promuove la traduzione in prosa norrena di alcuni epos cavallereschi francesi medievali (che invece
erano scritti in versi), tratti ad esempio dal cosiddetto “ciclo bretone” (le storie di re Artù e dei
Cavalieri della Tavola Rotonda). Significativamente, in norreno queste traduzioni assumono il titolo
di saga. Il frate Roberto firma, nel 1226, la traduzione di Tristano e Isotta: Tristrams saga ok
Ísondar. Seguono poi anonime traduzioni di opere di Chrétien de Troyes (attivo tra il 1160 e il
1190, il maggiore poeta medievale dopo Dante), come il romanzo di Ivano (Ívens saga) e il
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romanzo di Parcival (Percevals saga). È un’attività che indica un respiro cosmopolita ed europeo
della corte norvegese. Questi testi vengono poi trascritti anche in Islanda, dove fungono da
ispirazione per le saghe (più “fantasiose”) dei cavalieri. Nell’ambito della cultura cortese norvegese
del XIII sec. va anche ricordato un testo originale in norreno, Kunungs skuggsjá (Lo specchio del
re), di autore anonimo. Qui un padre dialoga con un figlio e lo istruisce sulle cose del mondo e sulla
diplomazia: geografia, astronomia, Norvegia, paesi stranieri; il re, la vita di corte, le leggi, i modi
cortesi, la fede in Dio.
Queste traduzioni di letteratura cavalleresca hanno anche un riflesso in Svezia, ma sempre su
iniziativa norvegese. All’inizio del XIV sec. una regina norvegese, Eufemia, dona ai regnanti
svedesi tre romanzi cavallereschi tradotti in svedese, che rappresentano assieme alle “leggi
provinciali” i più importanti testi in svedese antico. I tre romanzi (Fiorio e Biancofiore, Duca
Federico e Ivano) portano il titolo collettivo di Eufemiavisor (canti di E.). La particolarità è che
questi romanzi-“canti” sono tradotti in versi, utilizzando un verso di origine tedesca, il knittel,
abbastanza libero e duttile da adattarsi alla narrazione, un verso molto usato in Svezia.
In versi knittel viene coltivato in Svezia anche un genere (sempre anonimo) tra letteratura e
storia: la “cronaca”. Fatti storici nazionali del XIV e XV secolo vengono narrati in modo epico,
spesso con fini propagandistici (dunque si è molto prudenti sulla loro attendibilità). La più famosa è
Erikskrönikan (ca. 1330), che esalta i regni dei re Folkungar, descrivendo battaglie e lotte
dinastiche. C’è un chiaro influsso letterario dell’epica cavalleresca; ma si narrano anche una serie di
fatti storici che, attendibili o meno, diventano fondanti nella storiografia e nella coscienza di sé
degli svedesi: ad esempio la crociata con cui Birger Jarl, il fondatore di Stoccolma e primo re dei
Folkungar, cristianizza (leggi: conquista) la Finlandia alla metà del XIII sec. Altre cronache svedesi,
riferite ai burrascosi e cruenti eventi dell’unione di Kalmar (dunque nel XV sec.), sono
Karlskrönikan e Sturekrönikan. Una simile cronaca storica danese è Rimkrønicke, il primo libro
stampato in Danimarca, nel 1495.
Il genere letterario più originale prodotto dalla letteratura scandinava medievale sono le
ballate, o canti popolari (nelle lingue scandinave: d./n.: folkevise, s.: folkvisa). Si ipotizza che la loro
fioritura avvenga tra il 1200 e il 1350, probabilmente prima in Danimarca, poi in Svezia e Norvegia
e in tutta l’area nordica (anche Fær Øer e Islanda). Abbiamo la stessa ballata che, con una serie di
varianti, circola in Danimarca, Norvegia e Svezia; dunque un’unica tradizione scandinava. Anche
qui, similmente alla letteratura norrena, va sottolineata la discrepanza tra la presunta genesi
medievale e la trascrizione, che fu tarda. Nessun testo originale ci è pervenuto. Alcune trascrizioni
risalgono al XVI e XVII sec. in Danimarca e Svezia. Ma la raccolta sistematica di questo
patrimonio, che circolava oralmente, avviene grazie al Romanticismo nella prima metà del XIX sec.
Ci sono dunque problemi aperti di datazione delle ballate e di determinazione della loro origine.
A dispetto della loro definizione, le ballate non sono “popolari”, quanto piuttosto di origine
dotta e aristocratica. Probabilmente non sono neanche originariamente scandinave, ma importate
dalla Francia, negli ambiti della cultura di corte. Viene fatta notare la somiglianza con tradizioni
francesi simili, come quella della “canzone a ballo” (carole), dove si uniscono il testo, la musica e
la danza. Ma le ballate scandinave sono “popolari” nel senso della loro diffusione e della loro
trasmissione nei secoli. Dalla probabile origine dotta esse “scendono” al popolo, ai contadini, anche
grazie alle note figure dei giullari viandanti e dei cantastorie. E come sappiamo, le società
scandinave restano stabilmente contadine fino a Ottocento inoltrato. In questo senso le ballate
costituiscono un filo secolare ininterrotto nella fantasia popolare nordica. Forse questo genere
straniero attecchisce su un terreno favorevole: la tradizione di racconto (l’Edda, le saghe, le
leggende); un senso della natura misteriosa e animata di soprannaturale. L’incrocio produce in ogni
caso un risultato originale, connotato in senso nordico.
Si può comprendere perché questa materia eserciti un fascino profondo sui romantici,
secondo i quali la “vera” poesia è un prodotto organico (quasi biologico), nascendo già perfetta e
compiuta nell’animo popolare, senza bisogno di regole e tecniche. Per questo può essere anonima,
orale e collettiva. Sono in particolare le ballate e le fiabe a costituire per i romantici il materiale di
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raccolta e di studio della “poesia popolare”. Il primo grande studioso dei canti popolari è il tedesco
Johann Gottfried Herder, maestro di Goethe, già sul finire del Settecento. Herder pubblica
Volkslieder (Canti popolari) nel 1778/79 e Stimmen der Völker in Liedern (Voci dei popoli in canti)
nel 1808, dove raccoglie materiale di tutti i popoli europei, tradotti in tedesco. Anche ballate
scandinave, un fatto che incoraggerà poi i romantici scandinavi a proseguire l’opera.
Gli studiosi scandinavi dell’Ottocento hanno distinto a posteriori una serie di sottogruppi
delle ballate: historiske viser, canti che riportano fatti storici variamente elaborati; ridderviser (canti
cavallereschi), per la presenza di motivi e ambienti cortesi; trylleviser (canti magici); kæmpeviser
(canti dei guerrieri), dove ritornano temi eroici germanici; e skæmteviser (canti scherzosi), più
plebei e caricaturali. Questi sottogruppi non vanno visti come una divisione rigida e normativa, ma
più come un indizio dei possibili contenuti che troviamo nelle ballate. Una ballate può presentare
allo stesso tempo un tipico carattere magico e un’ambientazione cortese, come è il caso della ballata
danese Elverskud (Il colpo degli elfi) (fot. 13).
Dal punto di vista formale troviamo strofe di carattere epico-narrativo, che portano avanti la
vicenda in modo semplice ed evocativo, spesso attraverso dialoghi; a queste si alternano strofe con
la funzione di ritornello e ripetizione, una specie di cantato che lega gli episodi. Il lessico è
stilizzato (ossia concentrato, ridotto all’essenziale). I sentimenti rappresentati sono basilari e
universali: l’amore e la morte, la fedeltà e il tradimento, i vincoli familiari, le prove di passaggio da
superare. Il ritmo serrato e la concentrazione donano alle ballate forza evocatrice. Domina, infine,
uno spiccato senso della natura, una natura tipicamente nordica perché vasta, spesso oscura e
misteriosa, animata da esseri magici. Per i nordici la natura può essere un luogo materno e
accogliente, ma anche inquietante, demoniaca, fuori dal controllo. Forse le ballate magiche
cercavano proprio di esorcizzare una natura che appariva (e per molti versi ancora appare) vasta e
indomabile, piena di possibili pericoli. Le ballate hanno spesso un esito fatale e cupo, un crescendo
drammatico dove il bosco è il luogo del passaggio obbligato, del mistero, dell’amore e della morte.
Come in Elverskud: il cavaliere deve attraversare il bosco per andare a sposarsi, ma è suo malgrado
coinvolto in una magica danza di donne-elfi dalla chiara connotazione erotica. Il carattere magico è
abbinato a un’ambientazione sociale alta, di cavalieri e dame. Alla forza dell’ordine sociale, della
coesione e dei legami (il matrimonio) si oppongono le forze della dissoluzione, l’eros demoniaco
delle figlie degli elfi. La loro magica danza richiama anche la probabile esecuzione danzata della
ballata, che era, appunto, un’unione di testo, musica e ballo. Valga Elverskud come esempio di un
corpus molto vasto (lo studioso danese Grundtvig ne raccoglie circa 500).
Sappiamo già che dalla seconda metà del XIV sec. e per tutto il XV sec. ha luogo in
Scandinavia un processo di decadenza e sottomissione di due grandi civiltà medievali, l’islandese e
la norvegese, dove si era sviluppata la ricca letteratura norrena. Con la fine di quella fase non si
producono più manoscritti. Osserviamo ora questi eventi per il loro significato linguistico: avviene
un processo di divorzio tra Islanda e Norvegia. In Islanda il norreno rimane la lingua nazionale e da
allora fino a oggi non si è evoluta molto (mantenendo strutture tipiche di una lingua arcaica, ad
esempio la declinazione del sostantivo in quattro casi: nom., gen., dat. e acc.); questa lingua è oggi
l’islandese. In Norvegia, invece, la decadenza e i cataclismi (la peste) portano in pratica alla fine
della tradizione scritta. E progressivamente si perde il contatto con il norreno della tradizione scritta
del Due-Trecento, che era una lingua unitaria. Insomma: nella piccola Islanda la lingua unitaria
resiste; nella grande e impervia Norvegia essa si frantuma e si differenzia in molti dialetti, che
continuano a vivere una loro vita “sotterranea”, evolvendosi. Intanto la Norvegia è sottomessa alla
Danimarca, fino a diventare una sua provincia, e tale rimane per oltre quattro secoli. In questi secoli
la lingua ufficiale scritta è quella dei dominatori danesi.
Vedremo che nel Cinquecento i norvegesi hanno perso per sempre il contatto col norreno, la
loro lingua antica. Su questa situazione si innestano le vicende della Riforma protestante, che danno
il via all’età moderna, e che ora vedremo dal punto di vista linguistico, culturale e letterario.
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IL CINQUECENTO: RIFORMA, TRADUZIONI DELLA BIBBIA E STORIOGRAFIA


NAZIONALISTA

In assenza dei fermenti dell’Umanesimo e del Rinascimento, in Scandinavia è la Riforma luterana


l’evento culturale fondamentale, sia per quanto riguarda l’evoluzione della lingua e della letteratura,
sia per quel che possiamo definire “la visione del mondo”. Dei precetti di Lutero qui conta
sottolineare il libero esame dei testi sacri, perché questo implica la traduzione in volgare, in termini
semplici e comprensibili alla gente comune, della parola di Dio. Lutero espone queste idee nella sua
Lettera sulla traduzione (Sendbrief vom Dolmetschen) e traduce egli stesso in tedesco il Nuovo
Testamento (1522) e l’Antico Testamento (1534).
Sappiamo dalla storia che la Riforma è introdotta nei paesi scandinavi pochi anni dopo la
svolta di Lutero in Germania. La stessa rapidità di ricezione vale per le traduzioni della Bibbia. Le
Bibbie danese e svedese sono monumenti linguistici e letterari, per secoli la base della lingua scritta
e il punto d’inizio delle due lingue moderne. In Danimarca il Nuovo Testamento è pubblicato nel
1524 e la Bibbia completa (“di Cristiano III”) nel 1550. In Svezia il Nuovo Testamento appare nel
1526, mentre la Bibbia completa (“di Gustavo Vasa”) è del 1541. Alla loro rapida e capillare
diffusione contribuisce poi la stampa coi caratteri mobili, di recente invenzione. Per queste
traduzioni gli umanisti e riformatori lavorano in gruppo. Tra questi, due figure di spicco sono il
danese Christiern Pedersen, colui che fa anche stampare Gesta Danorum di Saxo Grammaticus, e lo
svedese Olaus Petri, che incontreremo tra breve. Le fonti su cui i traduttori scandinavi si basano per
la loro versione sono la nuova traduzione tedesca di Lutero, la Vulgata latina, ma anche l’edizione
greca del Nuovo Testamento (con nuova traduzione latina) di Erasmo da Rotterdam, il quale
dimostra l’inattendibilità di alcuni passi della Vulgata.
Il precetto luterano della traduzione della Bibbia in un idioma comprensibile vale anche per i
territori dominati dai due nascenti stati moderni di Danimarca e Svezia. Tra il Cinque- e il Seicento
la Bibbia viene tradotta sia in finnico sia in islandese. L’unico paese che non ha una “sua”
traduzione della Bibbia è la Norvegia, che non ha in effetti più neanche una vera e propria lingua
scritta, e che dunque adotta il danese. Se la Bibbia è il fondamento della lingua scritta, e dunque
della letteratura, questo ha conseguenze capitali per la Norvegia da allora fino a oggi.
Lo scrittore romantico inglese William Blake ha definito la Bibbia “il Grande Codice della
letteratura”. Questo è quanto mai vero per la Scandinavia. La Bibbia entra da subito in ogni casa e
in ogni chiesa. È il Libro, la fonte della fede in Dio e della legge morale, ma anche un inesauribile
tesoro di racconti, con i quali la cultura luterana scandinava sviluppa un rapporto intimo e molto
stretto. Le società contadine scandinave formeranno per secoli il loro immaginario su un Grande
Codice letto e riletto. Tale traccia è indelebile in tutta la letteratura scandinava, anche in quella
contemporanea, e anche quella scritta da atei dichiarati. La Bibbia si legge nelle lunghe notti
invernali, e diventa racconto che genera racconto, passando di generazione in generazione. Noi
italiani “mediamente cattolici” dobbiamo pensarci, perché per noi tale prospettiva non è affatto
ovvia. La Controriforma proibì la Bibbia in italiano, e per superare la messa in latino si è atteso fino
al Concilio Vaticano II di papa Giovanni XXIII (1962). Dunque la Bibbia è piuttosto assente nella
letteratura italiana, anche se ha naturalmente una notevole presenza nella nostra arte figurativa.
Cultura, arte e letteratura dei paesi scandinavi non si comprendono se non si considera il Grande
Codice. “Introspezione” è una parola chiave delle letterature scandinave. Certo, ci sono le grandi
distanze che favoriscono la solitudine e il silenzio; ma ci sono anche il luterano autoesame,
l’assiduo confronto (o corpo a corpo) con Dio e con il Verbo. L’arte moderna fisserà spesso le
immagini del Dio come assenza e silenzio, di un Dio cercato e non trovato (si pensi ai film di
Ingmar Bergman). E anche questa tensione irrisolta non si capisce senza il Luteranesimo, che
certamente è introdotto per motivi di opportunità politica ed economica, ma che per secoli permeerà
la vita culturale del Nord. Se dunque il Cinquecento è di per sé un periodo piuttosto buio per la
cultura scandinava, in questo secolo si pongono tuttavia le basi di un suo tratto distintivo.
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La figura più rappresentativa del buio culturale è forse proprio il re svedese Gustav Vasa,
che mostra totale disprezzo e disinteresse per la cultura e per l’arte, soprattutto per quella cattolica
medievale, che fa distruggere. Codici di Vadstena sono utilizzati come copertine dei libri contabili;
affreschi delle chiese vengono ricoperti di calce bianca, ecc.: la perdita è inestimabile. Per Gustav
Vasa la “cultura” utile è la formazione dei funzionari del suo regno, che lui dirige con pugno di
ferro. Per ironia della sorte, uno dei documenti letterari più interessanti del Cinquecento svedese
sono proprio le lettere scritte dal re ai suo sudditi (il re raggiunge il suo auditorio attraverso i
funzionari civili e, soprattutto, quelli religiosi, i pastori, durante la messa domenicale: un uso ante
litteram dei mass media, si potrebbe dire). In queste lettere appare la proverbiale eloquenza del re, il
suo tono personale e drastico, duro e permaloso al tempo stesso. Un padre-padrone.
Gustav Vasa cerca tra l’altro uno storiografo che scriva in modo da celebrare la sua salita al
trono, glorificando la sua opera e il suo diritto a regnare. Olaus Petri (1493-1552) è il più grande
umanista e riformatore svedese. Studia con Lutero a Wittenberg dal 1516 al 1518, poi è al servizio
di Gustav Vasa dal 1523 al 1539. Ma Petri non è uomo di potere. Ha un alto profilo culturale ma si
rifiuta di glorificare il re, il quale lo accuserà di tradimento e lo condannerà a morte. Poi la
condanna viene revocata e Olaus Petri fa vita appartata, scrivendo. Diventa così il maggior
pubblicista e diffusore della stampa nel Cinquecento svedese. Oltre a tradurre la Bibbia, con una
lingua semplice e chiara, Petri scrive una storia della Svezia dai primi documenti scritti (dunque
dalla conversione al cristianesimo) fino al Massacro di Stoccolma del 1520: Een swensk cröneka
(Una cronaca svedese). Qui evita di esprimere giudizi sul regno di Gustavo Vasa, ma neanche esalta
la sua venuta. Olaus Petri è troppo amante della verità; il suo stile è sobrio e obiettivo; cerca di
attenersi alle fonti. Questa è, come vedremo, una linea nettamente minoritaria nella storiografia
svedese del Cinque- e Seicento, che invece tende a diventare nazionalista e “goticista”. Olaus Petri
inaugura anche un altro genere di letteratura religiosa importante per la Scandinavia: i salmi, ovvero
poesie da cantare nella devozione comune della liturgia luterana: Swenske songer eller wisor (Canti
o canzoni svedesi, 1536). Petri pubblica infine Domareregler (Regole del giudice), scritti giuridici
di ispirazione umanistica e cristiana.
Con il regno di Gustav Vasa la Svezia diventa un moderno stato europeo. Come tale ha
bisogno di un blasone antico su cui potersi fondare. La storiografia anticelebrativa di Olaus Petri
non serve certo allo scopo. Di fatto viene ignorata fino all’inizio dell’Ottocento, quando Een swensk
cröneka viene pubblicata. Ecco che si sviluppa allora nel Cinquecento svedese quel fenomeno
storiografico detto “goticismo”. Il blasone antico e gli antenati illustri sono identificati nella
popolazione germanica dei goti, protagonisti delle grandi migrazioni e invasioni barbariche che
portano alla caduta dell’impero romano. Si sa che in origine i Goti provenivano dall’area baltica
(l’odierna Polonia). Ma è anche possibile che ancora prima essi fossero venuti dalla Svezia, dove
molti toponimi indicano possibili tracce “gotiche” (Gotland, Götaland, Gautaland…). Dall’area
baltica, poi, i Goti si spostarono verso l’Europa sudorientale; pressati a oriente dagli Unni, e divisi
in ostrogoti e visigoti, i goti approdarono infine in Spagna e in Italia tra il V e il VI sec., fondando i
cosiddetti regni “romano barbarici” – germanici eredi dell’impero. I goti “producono” non solo
Teodorico, ma anche la prima versione germanica della Bibbia, con la traduzione del vescovo
Wulfila, o Ulfila, del IV sec. (oggi quella lingua germanica orientale è estinta, ed è nota solo
attraverso quei documenti scritti). Dall’ipotetica origine svedese dei goti si parte dunque per una
serie di inattendibili fantasie storiche tese a trovare i grandi padri della Svezia, l’indice della sua
grandezza: è questo lo scopo della storiografia “goticista”.
Il goticismo inizia con Chronica regni Gothorum, opera scritta in latino da Ericus Olai già
verso il 1470, che però rimane circoscritta alla Svezia. L’esplosione del fenomeno goticista è invece
connessa a due successi europei, opere in latino di due fratelli svedesi che vivono in Italia. Si tratta
in primo luogo di Historia de omnibus gothrum sveonumque regibus (Storia di tutti i re goto-
svedesi) di Johannes Magnus, stampato a Roma nel 1554. Johannes Magnus è l’ultimo arcivescovo
cattolico svedese, ormai esiliato. La sua opera è dettata dalla nostalgia, dall’amor patrio e anche
dallo scopo politico di convincere il papato a riconquistare alla giusta fede la gloriosa nazione
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svedese. Per Johannes Magnus svedesi e goti sono la stessa cosa. Non solo, essi discendono
direttamente da figure bibliche. Le ricostruzioni sono fantasiose, le genealogie inventate, la storia
nazionale (che equivale al susseguirsi dei suoi re) si mescola alla fiction. Ma quest’opera bizzarra e
affascinante riscuote successo e diffusione nell’Italia del Rinascimento e in Europa. Re Gustavo
Vasa, pur avversando l’arcivescovo cattolico, adotta con piacere la visione “goticista” della passata
(e mitica) grandezza svedese. Anche la Svezia che si avvia a diventare “grande potenza” nel
Seicento utilizzerà queste rappresentazioni di sé.
Molto più interessante, attendibile e attuale è l’opera del fratello di Johannes, Olaus Magnus:
Historia de gentibus septentrionalibus (1555). Anche Olaus è cattolico ed esiliato a Roma. È un
erudito che dirige il Centro Brigidino e cura la stampa delle opere della santa, sue e di suo fratello.
La sua opera ha un successo altrettanto vasto; la sua ideologia di riferimento è certamente
nostalgico-patriottica, ma di fatto l’opera risulta molto meno fantasiosa di quella di Johannes. Essa è
una capillare descrizione della Svezia e delle sue tradizioni, ricca di informazioni attendibili sulla
storia, la geografia, gli usi e i costumi, le pratiche sociali, le attività economiche e produttive, la
cultura spirituale e materiale. Oltretutto Historia de gentibus septentrionalibus è corredata di
numerose silografie prodotte da artigiani italiani. Queste immagini circoleranno per l’Europa e,
nell’età delle grandi scoperte geografiche, esse daranno alla Scandinavia un profilo più concreto e
conoscibile. Alla Historia de gentibus septentrionalibus possiamo abbinare anche una Carta marina
pubblicata a Venezia nel 1539 sempre da Olaus Magnus. Oggi ci appare come una carta geografica
della Scandinavia dai confini molto approssimativi e “sbagliati”. Di fatto è la prima ricostruzione
attendibile della Scandinavia, il punto d’inizio di una scienza cartografica che si perfezionerà via
via nel corso dei secoli.
La fama in ambito rinascimentale delle opere dei fratelli Magnus è anche testimoniata da
una tragedia di Torquato Tasso, Re Torrismondo (1586/87) ispirata alle letture dei due svedesi.
Il rafforzamento della coscienza nazionale attraverso la storiografia avviene anche in
Danimarca e in Norvegia tra la seconda metà del Cinquecento e l’inizio del Seicento, anche se con
minore furore patriottico rispetto alla Svezia. In entrambi i paesi troviamo un movimento di
umanisti e antiquari attenti al recupero della propria storia nazionale; ma gli obiettivi di tale
recupero sono un po’ diversi per Danimarca e Norvegia. Per la Danimarca si tratta sostanzialmente
della stessa esigenza della Svezia: autolegittimarsi, in quanto nuovo stato moderno europeo,
attraverso una propria tradizione antica. Mentre per la Norvegia si tratta di trarre motivo di coraggio
e riscatto in un’epoca di sottomissione politica (sotto la Danimarca) ed economica (sotto l’Hansa).
In entrambi i casi si ricorre ai rispettivi “monumenti” storiografici del medioevo: Gesta Danorum di
Saxo Grammaticus e Heimskringla di Snorri Sturluson.
Dopo la prima stampa di Gesta Danorum in latino nel 1514, l’opera viene tradotta in danese
per la prima volta nel 1575, da parte di Ander Sørensen Vedel (il quale pubblica pure nel 1591 una
prima raccolta di canti popolari danesi). Nel 1603 compare un’altra opera storica danese, che
comunque ha in Gesta Danorum la sua fonte: Danmarckis Rigis Krønicke (Cronaca del regno di
Danimarca), di Arild Huitfeldt. In Norvegia il centro degli umanisti è Bergen, che è anche il
simbolo del potere economico dell’Hansa. Gli studiosi di lì sono gli unici che hanno mantenuto la
conoscenza del norreno, e che possono tradurlo. Il tentativo è quello di risvegliare l’orgoglio
nazionale richiamandosi alla grandezza passata dei re medievali, immortalati dalle saghe di Snorri.
Nel 1567 Absalon Pederssøn Beyer pubblica Om Norgis Rige, in cui si riallaccia a Snorri ed esorta
al riscatto nazionale. La traduzione dal norreno al danese delle saghe dei re norvegesi, quelle di
Snorri e altre, è Norske Kongers Chronica di Peder Claussøn Friis (inizio 1600).
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UN TARDO RINASCIMENTO: LE LETTERATURE NAZIONALI NEL SEICENTO

La guerra caratterizza i rapporti tra Svezia e Danimarca dagli ultimi decenni del Cinquecento fino ai
primi del Settecento. Anche in campo culturale i due stati scandinavi sono in competizione. Il
bisogno di legittimarsi attraverso le antiche tradizioni culturali dirige la loro attenzione sui tesori
“interni” da riscoprire: la scrittura runica dei vichinghi e la letteratura norrena dell’Islanda
medievale. Nel Seicento Svezia e Danimarca gareggiano ad accaparrarsi manoscritti e
testimonianze dell’antichità scandinava: è l’età delle cosiddette “riesumazioni antiquarie” e di un
nuovo, decisivo impulso per gli studi filologici e archeologici. La ricerca porta al ritrovamento di
molti manoscritti (tra cui il Codex Regius dell’Edda poetica nel 1643), che vanno ad arricchire le
collezioni delle biblioteche reali di Copenaghen e Stoccolma. Comincia lo studio scientifico delle
rune, con Johannes Bureus in Svezia e Ole Worm in Danimarca, quest’ultimo studioso anche della
letteratura norrena. Vengono tradotte e pubblicate le saghe dei re di Snorri nel 1633 (è la traduzione
di Friis già menzionata); escono le prime edizioni a stampa dell’Edda di Snorri (1665) e dell’Edda
poetica (1673). La Danimarca, che possiede l’Islanda, si attribuisce (indebitamente) tutto il passato
islandese: i due studiosi Thomas Bartholin (danese) e Arni Magnusson (islandese) pubblicano
un’opera che è una miniera di notizie sul passato vichingo e norreno, che chiamano “antichità
danesi” (Antiquitatum danicarum… libri tres, 1685).
Ma non dimentichiamo il goticismo svedese. Nel 1648, alla fine della Guerra dei Trent’anni,
le truppe svedesi saccheggiano Praga e si impossessano del Codex Argenteus che lì è custodito. Si
tratta di un prezioso manoscritto del V o VI sec., contenente parti della Bibbia tradotta in gotico dal
vescovo Wulfila nel IV sec. Dopo varie vicissitudini il Codex Argenteus va a finire a Uppsala, dove
è custodito ancora oggi (visitabile alla biblioteca Carolina Rediviva). Ne restano 188 fogli su un
originale di 336, e si chiama così perché ha caratteri argentati (o dorati) su fogli di pergamena
purpurea. Per l’ideologia goticista non è male impossessarsi del maggior monumento linguistico di
quella lingua estinta: il gotico ritorna nella sua presunta culla d’origine, la Svezia.
Nei territori conquistati, la Svezia dell’”impero” baltico afferma la propria cultura nazionale
anche attraverso la fondazione di nuove università periferiche, oltre a quella centrale di Uppsala: a
Dorpat in Estonia (1632), a Åbo in Finlandia (1640) e a Lund in Scania (1660). Come sappiamo, la
presenza svedese nei territori baltici sarà relativamente effimera (finirà all’inizio del Settecento);
più significativo è il ruolo della cultura svedese in Finlandia (la Åbo Akademi è ancora oggi
un’università svedese); infine la Scania e le altre province ex danesi sono quelle dove la
“svedesizzazione” è più definitiva. Anche grazie alla capillare diffusione della religione luterana (e
del Verbo trasmesso attraverso la Bibbia e la predica domenicale), la popolazione passa in un paio
di generazioni dalla lingua danese a quella svedese (la variante meridionale dello svedese mantiene
comunque nella fonetica tracce evidenti del sostrato danese).
Nel Seicento le università svedesi crescono e acquistano prestigio; si verifica un notevole
impulso in molte scienze, si sente il bisogno di aprirsi all’Europa, aggiornarsi, aumentare le
conoscenze. È questo anche un effetto indotto dalla Guerra dei Trent’anni. Per quanto cruento e
tragico, il conflitto mette gli svedesi in contatto con altri popoli e altre culture. Tornati a casa con
ricchi bottini di guerra, gli aristocratici e la nascente borghesia mercantile sentono anche il bisogno
di elevarsi culturalmente. Attorno alla metà del Seicento possiamo collocare il rinascimento “in
ritardo” della Svezia. Questo ha i suoi centri nelle università e soprattutto a corte della regina
Cristina (reggenza 1632-44; regno effettivo 1644-54). Cristina è la tipica sovrana rinascimentale:
colta, lei stessa autrice di opere letterarie in francese (autobiografia, lettere, raccolte di meditazioni
morali e aforismi). Promotrice di arti e scienze, Cristina si circonda a corte di scienziati (come il
filosofo francese Cartesio e il giusnaturalista olandese Grozio) e di poeti. Qui si formano alcune
delle prime personalità poetiche della letteratura svedese. Con Cristina muove i suoi primi passi
anche il teatro, sebbene si tratti di un’attività circoscritta alla corte e promossa per lo più da
compagnie itineranti di attori stranieri. Nel 1654 Cristina si converte al cattolicesimo, abdica e
abbandona la Svezia trasferendosi a Roma. Porta con sé un’immensa biblioteca (oggi parte della
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Biblioteca Vaticana). A Roma Cristina animerà anche il cenacolo di poeti che, poco dopo la sua
morte (1689), daranno vita all’accademia dell’Arcadia.
La corte di Cristina e le università rompono insomma l’egemonia culturale dell’ortodossia
luterana, permettendo forme d’arte e di conoscenza più libere e aperte. E tuttavia la religione rimane
un elemento fondamentale nella visione del mondo del Seicento. In questa tensione tra nascente
cultura laica e forza della fede possiamo leggere un tratto di fondo della cultura del tempo.
L’interesse per la molteplicità e conoscibilità del mondo, le scienze coi suoi progressi, la nascente
laicizzazione dei costumi: tutto questo è l’inizio di una “secolarizzazione” che può entrare in
conflitto con il bisogno di Dio, la sete di salvezza, la tensione verso un approdo sicuro lontano dalla
precarietà terrena. Entro questi due poli vediamo muoversi (chi con drammatica scissione, chi con
maggiore armonia e senso della mediazione) anche gli scrittori delle nascenti letterature nazionali
scandinave. Dio e mondo possono apparire inconciliabili, oppure il mondo può essere letto alla luce
della fede, rivelare la presenza di Dio. Il conflitto in cui si dibatte Galileo Galilei (credente e
osteggiato dalla chiesa; convinto che Dio abbia scritto il suo Verbo in due libri: Bibbia e natura) è in
fondo questo.
La poesia svedese e danese che prende forma nel Seicento ha caratteri poco originali e
piuttosto imitativi. Non troviamo grandi scrittori di livello europeo. Proprio questo processo di
“apprendistato” e adattamento a modelli formali e generi considerati canonici è tuttavia un fatto
culturalmente significativo. Una voce letteraria propria comincia ad articolarsi in epoca moderna.
Volendo riassumere, possiamo dire che si cerca, da un lato, di esaltare il valore della propria lingua
nazionale, volendo “depurarla” da influssi e prestiti stranieri; d’altra parte queste lingue nazionali
possono mostrarsi poeticamente “all’altezza” solo assumendo le forme e i generi che le poetiche
classiciste europee del Cinque- e Seicento hanno elaborato. Adattare la lingua madre alle regole
della poesia che vigono in Europa, cimentandosi con le forme canoniche, vuole dire mostrare che
anche lo svedese e il danese possono raggiungere la dignità di lingue poetiche. Il classicismo del
Seicento connota – in ambito europeo e, di riflesso, anche scandinavo – una particolare epoca
storica in cui domina una concezione normativa e piuttosto rigida della letteratura. I generi letterari
(il rapporto tra una data forma e una data materia) e le forme metriche vengono codificati rispetto a
modelli antichi classici (greci e latini) ritenuti di per sé perfetti, e per questo eterni e immutabili.
Sappiamo bene invece come Aristotele, ad esempio, nel descrivere il genere della tragedia nella sua
Poetica non è tanto normativo quanto piuttosto descrittivo: sta descrivendo una forma di
rappresentazione teatrale non eterna, ma storicamente data nella Grecia di allora. Sono i posteri – i
classicisti appunto – a prendere la sua descrizione come una norma imperativa. L’ideale di
compostezza e armonia del Rinascimento tende a diventare, nel corso del Seicento, normativo, culto
di una forma preziosa e alta, tendenzialmente difficile. È così che il Rinascimento “in ritardo” arriva
in Scandinavia.
Scrivere poetiche, cioè trattati sulla poesia, più descrittivi o più normativi, è un’attività che
si inserisce in queste tendenze delle letterature europee del Seicento. Ciò vale anche per le nascenti
letterature germaniche. In Germania appare nel 1624 il Buch von der deutschen Poeterey (Libro
dell’arte poetica tedesca) di Martin Opitz, che mostra l’adattabilità della lingua tedesca alle forme in
versi predilette dal classicismo (ad esempio il verso alessandrino, in auge in Francia). Un intento
simile è perseguito in Svezia dalla prima poetica dal titolo analogo, Det svenska poeteri (1651) di
Andreas Arvidi. Qui vengono introdotti, spiegati e “collaudati” sullo svedese l’esametro, il verso
dell’epica omerica, e l’alessandrino. Le moderne lingue germaniche (così come le altre lingue
moderne) adattano la metrica quantitativa della poesia greca (sillabe lunghe e sillabe brevi) a una
metrica accentuativa, basata cioè sull’alternarsi di sillabe toniche e atone.
Georg Stiernhielm (1598-1672) è il poeta e lo scenografo più in vista alla corte di Cristina.
Scrive poesia e traduce e adatta masques e rappresentazioni teatrali. È inoltre un funzionario dello
stato con incarichi amministrativi nei paesi baltici. Tra le molte sue attività scrive un trattato in
difesa della lingua svedese, cui si accompagna un dizionario (di cui redige però solo la lettera A).
L’ideale linguistico è purista-nazionalista: bisogna togliere le parole straniere e recuperare quelle
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antiche e autenticamente svedesi. Questa stessa lingua deve, secondo Stiernhielm, mostrarsi duttile
all’uso poetico. Le sue poesie sono raccolte in Musae Suethizantes (1668) che portano come
eloquente sottotitolo: “Det är Sång-Gudinnor, Nu först lärande Dikta och Spela på Svenska” (“Cioè
divinità del canto, che solo ora imparano a fare poesia e recitare in svedese”). È un segnale
dell’ideale classicista consapevolmente e orgogliosamente assunto: le Muse hanno finalmente
raggiunto la Svezia, seppure con un certo ritardo. L’opera più famosa di Stiernhielm è il poema
Hercules (1658), che si rifà alla tradizione classica sia per il contenuto (un episodio che vede Ercole
al bivio tra vizio e virtù), sia per la forma (gli esametri). Si tratta di un poema didascalico e
allegorico; vuole cioè impartire un insegnamento attraverso un racconto in cui i concetti di vizio e
virtù vengono personificati. Ercole incontra la signora Lusta (piacere) con le tre figlie Lättja, Kättja
e Flättja (ozio, lussuria e vanità) e il figlio Rus (ebbrezza). Tutti questi cercano di persuaderlo a
seguirli con gli ovvi motivi: cogli l’attimo, godi finché sei giovane e non pensare al resto. All’invito
a godere corrisponde un nichilistico senso del decadimento e della morte. Ercole sta per gettarsi
nelle braccia di Lusta, quando arriva la signora Dygd (virtù), che richiama l’eroe a serietà, onestà,
lavoro, dignità e atteggiamento austero. La virtù equivale a riconoscere in noi la scintilla divina, la
luce spirituale che ci eleva. Ma a Stiernhielm interessa soprattutto formulare un “decalogo” delle
virtù civili che devono formare il buon suddito svedese.
Anche il cosiddetto “petrarchismo” è un adattamento al canone poetico europeo. Dal
Canzoniere di Petrarca si assumono, via via più convenzionalmente, la forma (il sonetto) e il
contenuto (il progredire della passione amorosa del poeta verso la donna che lo ispira, tra successi e
insuccessi, speranze, sofferenze e sospiri). Anche nella Svezia del Seicento troviamo un ingenuo
epigono del Petrarca: un poeta noto con lo pseudonimo di Skogekär Bergbo, che nel 1680 pubblica
il ciclo di 101 sonetti Wenerid (il nome della donna celebrata). Le parti più interessanti di questi
sonetti sono quelle dove appare l’ambiente stoccolmese, la città colta nel suo momento di
grandezza, al centro del grande impero baltico. Anche Skogekär Bergbo scrive un trattato in difesa
della lingua svedese in poesia.
Per quanto riguarda la letteratura religiosa, ricordiamo la nuova raccolta ufficiale di salmi e
inni della chiesa luterana svedese del 1695, opera principalmente di Jesper Svedberg, che è, dopo
Olaus Petri nel Cinquecento, colui che prosegue questo particolare, e influente, genere di poesia
cantata, devozionale e popolare. Un contemporaneo autore di inni religiosi è Haqvin Spegel, che
inoltre pubblica nel 1685 un poema di successo, Guds Werk och Hvila (L’opera e il riposo di Dio). Il
modello, noto sia dal medioevo sia dalla letteratura classicista europea, è quello della settimana
della creazione del mondo. Per Spegel questo diventa un pretesto per scrivere una sorta di poema
enciclopedico che, diviso in sette giornate, fornisce ai lettori conoscenze sulla vita comune e su vari
aspetti della natura e del mondo. Il tutto è presentato in modo gioioso: la vita terrena è, nella sua
bellezza, testimonianza del grande disegno divino. Sia che si parli della vite e del vino (salutare se
bevuto con moderazione), sia che si parli del castoro, e di quante cose utili questo animale fornisce
all’uomo, dominano un approccio concreto e un fresco realismo. Anche i versi alessandrini sono
scorrevoli e colloquiali. È un libro di virtù pratiche, con un tono da buon maestro. Si esprimono
curiosità e interesse per il mondo, ma entro la salda cornice della fede.
Le due più originali figure poetiche del Seicento svedese si muovono però al di fuori sia
degli ambiti religiosi sia di quelli di corte e di accademia. Con loro l’esperienza soggettiva entra in
modo più diretto e schietto in poesia. Si tratta di due poeti girovaghi, irregolari e “maledetti”: Lars
Wivallius (1605-69) e Lars Lucidor (1638-74). Il primo conduce una vita di avventurose
peregrinazioni e attività più o meno lecite nell’Europa della Guerra dei Trent’anni. Per truffa
trascorre anche diversi anni della sua vita in prigione. I suoi componimenti più conosciuti sono
legati alle sue vicende biografiche. In Ack Libertas, du ädla ting (O libertà, tu nobile cosa) il poeta
esprime la concreta esperienza della privazione della libertà in prigione e la sua nostalgia. L’evento
appare meno mediato da forme auliche, bensì più sincero e personale. È formulato anche il motivo
tipicamente barocco della vanità del mondo: a che serve avere tanto viaggiato e conosciuto? Il
mondo ha stancato il poeta, che cerca tranquillità, ripiegamento e cose semplici. L’amata natura
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svedese può dargli conforto. In Klagovisa över denna torra och kalla vår (Lamento su questa
primavera secca e fredda) torna il vivo sentimento della natura di casa, impazientemente attesa nel
suo dispiegarsi estivo. Contrapposto alla dolcezza della natura appare l’orrore della guerra. E questa
volta Dio è direttamente invocato per il perdono dei peccati.
Di Lars Lucidor si conoscono pochi dati biografici certi. Frequenta le osterie e muore
giovane ucciso in una rissa. Anch’egli girovago, è un poeta per la “pagnotta”, un genuino talento
che scrive le poesie che gli vengono commissionate: carmi conviviali, bacchici ed erotici per
celebrazioni o matrimoni; elegie per funerali. È anche un talento linguistico, poiché scrive poesie in
svedese, tedesco, italiano e latino. In un poeta come Lucidor si sente forte l’antitesi barocca tra
mondano e divino. E proprio la tensione e la lacerazione fanno di lui il poeta seicentesco più
“moderno” e rivalutato. Anche qui troviamo una poesia non aulica, in cui il soggetto lirico, con le
sue forti passioni e i suoi tormenti, è prepotentemente al centro. In I män av höga sinnen (Voi
uomini d’animo altero) (fot. 15) la provocatoria apologia della sbronza indica, in modo neanche
troppo nascosto, il male di vivere e la necessità di liberarsi dal dolore; c’è ribellione a ogni ordine e
a ogni buon tono, e c’è la sfida alla morte. Tale sfida appare più drammatica in Ett samtal mellan
Döden och en säker människa (Un dialogo tra la Morte e un uomo sicuro). L’antitesi tra piaceri
terreni e prospettiva metafisica è espressa sotto forma di dialogo tra l’uomo ostentatamente dedito ai
piaceri terreni e materiali e la morte che gli prospetta i tormenti infernali per la mancata
sottomissione a Dio. Alla fine la morte si porta via l’uomo, ora non più così “sicuro”, anzi sempre
più spaventato e disposto (ma troppo tardi) a pentirsi.
Concludiamo lo sguardo sul Seicento svedese con Olof Rudbeck (1630-1702), che non è un
letterato, ma uno scienziato dalla personalità vulcanica e dai molteplici interessi. Professore
all’università di Uppsala, egli è il maggiore artefice delle innovazioni e del salto di qualità di quella
istituzione, uno spirito moderno in contrasto con gli ambienti accademici più conservatori. Si
occupa di anatomia e fa costruire tra l’altro un teatro anatomico sul modello di quello di Padova
(oggi l’antico edificio col teatro anatomico è un museo che racconta la storia dell’università
uppsaliense: il Gustavianum). Studia botanica, e intraprende una monumentale opera di raccolta e
descrizione di tutte le piante, Campus Elysii, che viene distrutta nell’incendio di Uppsala del 1702
(in cui lo stesso autore perde la vita). Il grande botanico del Settecento Linneo riconoscerà in
Rudbeck un predecessore. Inoltre Rudbeck si interessa di astronomia, meccanica, architettura e
ingegneria.
Ma questo scienziato moderno con un’attitudine pratica e interessato alle nuove tecnologie
rappresenta, per i suoi interessi storici, anche un enigma imbarazzante. Con Rudbeck la storiografia
mitizzante e nazionalista svedese raggiunge i livelli più fantasiosi e bizzarri, un punto di non
ritorno. Studiando le saghe islandesi del tempo antico, egli trova tracce della Svezia che reputa
storiche. Da qui si mette alla ricerca della passata grandezza e pubblica i risultati della sua
“indagine” in Atland eller Manheim (Atland o Manheim, I-IV, 1679-1702). Qui sostiene che tutte le
lingue antiche, greco ed ebraico comprese, derivino dallo svedese. E che la misteriosa isola di
Atlantide, culla mitica della civiltà secondo Platone, non sia altro che la Svezia. L’opera immensa e
caotica raccoglie una moltitudine di dati per suffragare la tesi, ed è a suo modo un’espressione della
passione scientifica di Rudbeck. Soprattutto testimonia però della potenza del mito nazionale
svedese nel Seicento. Con l’età dei lumi nel Settecento ci sarà, anche in campo storiografico, una
decisa inversione di rotta e un salutare ritorno a dati di realtà.
Anche la Danimarca-Norvegia muove i suoi primi, timidi passi verso una letteratura
nazionale. Questa è meno varia di quella svedese e si sviluppa soprattutto in ambienti religiosi e di
corte, il che si riflette nei temi trattati. Anche qui, come in Svezia, un denominatore comune può
essere trovato nella tensione tra la fede in Dio e l’interesse per il mondo.
Anders Arrebo, vescovo danese che opera in Norvegia, a Trondheim, scrive il poema
didattico Hexaëmeron (composto nel 1630, pubblicato nel 1661), che si basa sul racconto della
creazione e, dal punto di vista formale, sui precetti indicati dalle poetiche classiciste. È una poesia
dotta, le cui parti più vive sono le descrizioni della natura norvegese.
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Il poeta più significativo del Seicento danese è Thomas Kingo (1634-1703), di cui si hanno
poche notizie biografiche certe. Egli è ecclesiastico e membro della nobiltà; il suo mondo è la corte
di re Cristiano V. L’opera maggiore di Kingo è la raccolta di salmi e inni Åndeligt sjungekor (Coro
spirituale, I-II, 1673-82); con lui inizia la ricca tradizione salmistica danese che avrà diversi
esponenti di spicco nei secoli successivi. Al re il poeta dedica la prima parte della sua raccolta, e
tale omaggio al re è evidente nella poesia Hver har sin Skæbne (A ciascuno il suo destino) (fot. 16).
La poesia esprime, con accenti piuttosto ossessivi e cupi, la drammatica scissione tra l’attaccamento
al mondo e al suo fasto e l’ansia di liberarsi dalla “gabbia” mondana per raggiungere il cielo. La
parola “cielo” (himmel) ricorre nell’ultimo verso di ognuna delle otto strofe. La prospettiva
metafisica viene puntualmente rammentata di fronte a tutto ciò che è mondanità, ovvero le fortune
alterne, l’instabilità, la caducità e la vanità. Sono i temi ricorrenti della poesia barocca. Nella
seconda strofa il poeta rende comunque omaggio al re assoluto danese, che si assume il fardello del
governo e vive nella preoccupazione.
Un altro poeta ecclesiastico è Petter Dass (1647-1707), che nasce ed opera in Norvegia. Dass
non appartiene alle alte sfere del clero, come Arrebo e Kingo; fa il prete di provincia nella selvaggia
e maestosa regione settentrionale del Nordland. Rispetto agli altri due poeti, Dass ha una qualità che
lo rende ancora oggi leggibile e godibile: il realismo, lo humour, la vicinanza all’orizzonte della
gente comune. La sua opera più importante è il poema Nordlands Trumpet (La tromba del
Nordland, 1678-1700), una sorta di descrizione in versi della natura, del territorio, del clima, degli
uomini e delle attività di quella remota regione. Dass è innamorato della sua terra norvegese e vuole
trasmettere al lettore il suo entusiasmo. Non si rivolge a un auditorio dotto, ma alla gente comune,
ai garzoni e ai contadini che raffigura. E questo determina l’intonazione popolareggiante di tutto il
poema, e la freschezza delle sue descrizioni. Per quanto riguarda la lingua, essa è naturalmente il
danese, ma un danese che si colora di locale, per i termini dialettali e per la descrizione di cose che
appartengono al Nordland. In questo senso è giusto ricordare Dass come il padre della poesia
norvegese, sebbene una letteratura nazionale norvegese distinta da quella danese non esista ancora
nel Seicento.
Come lo svedese Haqvin Spegel, Dass gioisce della bellezza del mondo in quanto
testimonianza del Creatore. Nel brano tratto da Nordlands Trumpet (fot. 17) viene narrato, in modo
realistico e pedagogico, che cosa vuol dire vivere, prima in inverno e poi in estate, a latitudini così
settentrionali, che cosa comporta concretamente per il popolo del luogo la lunga notte invernale e
l’estivo “sole di mezzanotte”. La visuale è quella del contadino che vive lì; il narratore si cala in
quella realtà, ne è anzi parte lui stesso, può “testimoniare di persona”. Il tutto termina con la lode al
Creatore.
L’intento pedagogico e il gioioso spirito comunitario di Dass si rivelano anche nei suoi
salmi. La dottrina luterana e la parola di Dio sono spiegati in forma cantata, corale e popolare, in
termini comprensibili a ognuno, per la devozione di tutti i giorni: Katechismus-Sange (Canti del
catechismo, 1698) e Bibliske Visebog (Libro di canti biblici, 1711).
Ricordiamo infine Jammers Minde (lett. Ricordi delle pene; trad. it. Memorie dalla Torre
Blu, Adelphi), opera di Leonora Christina, figlia del re Cristiano IV e sorellastra del suo successore
Federico III. Leonora e suo marito sono tra le vittime del conflitto tra la corona e la nobiltà, nel
momento in cui il re si accinge, attorno al 1660, a introdurre l’assolutismo (enevælde). Avversari del
re, Leonora e suo marito vengono perseguitati, e la donna è punita con oltre vent’anni (dal 1663 al
1685) di carcere duro, nella prigione detta appunto Torre Blu. In questo scritto autobiografico in
prosa, scoperto e pubblicato nell’Ottocento, emergono la forte personalità dell’autrice, il suo
orgoglio femminile e la durezza del suo vissuto. Tutto questo rende Jammers Minde l’opera forse
più viva e attuale della letteratura danese del Seicento, e sicuramente quella più conosciuta, anche a
livello internazionale.
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IL SETTECENTO: TRA ILLUMINISMO E FEDE

Dopo il devastante secolo e mezzo di guerre tra Svezia e Danimarca, il Settecento rappresenta per la
Scandinavia una fase di pace e di notevoli progressi interni in campo scientifico, economico e
sociale. Al contrario di quanto avvenne nel Cinquecento per il Rinascimento, la Scandinavia è
profondamente coinvolta nel movimento di idee dell’Illuminismo europeo. La cultura laica e
illuminista scandinava si intreccia tuttavia, o a volte si contrappone, a un forte sentimento religioso
che continua a rappresentare un fattore culturale importante, e che forma alla pari del razionalismo i
caratteri della Scandinavia moderna.
Il centro irradiatore dell’Illuminismo è la Francia; le idee di filosofi come Voltaire, Diderot,
Rousseau, Montesquieu e della cerchia degli “enciclopedisti” si diffondono in tutta Europa.
L’Illuminismo mette al centro la ragione umana, la facoltà critica e razionale dell’uomo, la sua
capacità di procedere alla conoscenza di sé e del mondo senza bisogno di rifarsi ad autorità o a
tradizioni che si pongano sopra di lui. La metafora dell’Illuminismo è quella della luce; la ragione
umana porta luce là dove è buio. Anche il termine per “illuminismo” che si usa nelle lingue
scandinave (d. oplysning, n. opplysning, s. upplysning) contiene la radice -lys- che significa “luce”.
Alla luce della ragione ci si può porre in un atteggiamento da “nuovo inizio”: riesaminare la storia,
criticare le autorità (ad esempio l’autorità religiosa ed ecclesiale) e le forme di sapere tradizionale.
L’illuminista è cosmopolita (“cittadino del mondo”) e tollerante, poiché la ragione è una facoltà che
appartiene a tutti gli uomini senza distinzione di razza o nazionalità. Prevale così nella cultura
illuminista un atteggiamento curioso verso l’esterno, oltre il confine nazionale. L’Illuminismo
esprime nel suo complesso la fede nel progresso e nella scienza fondati sulla ragione; c’è la
convinzione che la cultura si debba aprire ai nuovi ceti emergenti (la borghesia) e soprattutto essere
utile, contribuire concretamente al progresso.
Da queste linee generali ricaviamo la fisionomia del “tipico” intellettuale e letterato dell’Età
dei Lumi: viaggiatore e cosmopolita; interessato alla filosofia, ai problemi morali, ma anche alla
scienza e alle questioni economiche e sociali. La sua prospettiva è laica e terrena, senza essere per
questo necessariamente atea. In letteratura egli cerca forme di comunicazione più agili e meno
retoriche, più rispondenti al formarsi di un nuovo pubblico borghese e urbano che desidera formarsi
e acquisire cultura. In Inghilterra nasce il romanzo moderno, ma si sviluppa anche la stampa
periodica, e anche il teatro si presta a diventare istituzione sociale, luogo del rispecchiamento e
della formazione di una cultura moderna.
In Danimarca-Norvegia troviamo rappresentate sia la letteratura illuminista sia quella di
ispirazione religiosa, riassunta in due esponenti di rilievo: Ludvig Holberg (1684-1754) e Hans
Adolph Brorson (1694-1764). Holberg è il maggior autore dell’Illuminismo scandinavo e una delle
figure in assoluto centrali di tutto il Settecento. Egli è anche il primo scrittore in Danimarca-
Norvegia a interpretare una posizione laica capace di fare uscire la letteratura dai ristretti ambiti
consentiti dall’ortodossia luterana. Prima di soffermarci su Holberg, vediamo però con Brorson,
autore di salmi, una particolare espressione della cultura religiosa che pure prende piede nel
Settecento: il Pietismo.
Il Pietismo si diffonde nel primo Settecento in alcune comunità cristiane della Germania (ad
esempio gli Herrnhuter di Zinzendorf), raggiungendo rapidamente, a nord, le contigue regioni
contadine dello Jylland meridionale, e da qui le isole danesi e alcuni ambienti borghesi e nobili
della capitale Copenaghen (ca. 1700-50). Il Pietismo esprime una rivolta del “cuore” contro la
rigidità dogmatica della chiesa di stato. Gruppi di fedeli si riuniscono in conventicole, fuori dai
canali ufficiali e dalla forme tradizionali del culto, per pregare, cantare e leggere il Verbo. C’è in
loro un appello al sentimento e alla spontaneità, la ricerca di una dimensione più intima e vissuta
della fede. Inizialmente il Pietismo è visto dal potere assoluto danese e dalla chiesa luterana come
un pericolo: si tratta pur sempre di forme che sfuggono al controllo centrale. In un certo senso si
può dire che l’ortodossia luterana sia attaccata contemporaneamente da due fronti opposti: dal
Pietismo e dall’Illuminismo. Nel 1706 re Federico IV proibisce le riunioni delle conventicole. La
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battaglia è però vinta dai pietisti, i cui esponenti entrano nelle gerarchie della chiesa (negli anni ’30
e ’40 del Settecento), “conquistando” pure gli ambienti della corte e la famiglia reale. Il re Cristiano
VI (1730-46) è pietista.
Il percorso di Brorson si svolge all’interno di questa evoluzione. Egli è, in quanto prete, uno
dei protagonisti e organizzatori del movimento di risveglio religioso dello Slesvig; poi diventa
vescovo quando il Pietismo si afferma entro la chiesa di stato. Come poeta Brorson continua nel
Settecento la tradizione dei salmi cominciata nel Seicento con Kingo. La sua raccolta di oltre 250
salmi, Troens rare Klenodie (Il dono prezioso della fede), fa tuttora parte della viva tradizione
danese del canto corale religioso; una pratica diffusa tanto nella chiesa, quanto nei movimenti di
risveglio e nel vasto movimento delle folkehøjskoler (le “università popolari”) nate nell’Ottecento. I
salmi di Brorson, in particolare, pongono un forte accento sulla conversione personale,
sull’immagine della nuova fede e della nuova nascita in Cristo. È un’espressione religiosa
radicalmente luterana, tendente a una contrapposizione tra peccato e redenzione, mondo e anima.
Ricorrono immagini di cristianesimo platonico: l’anima si svincola dal mondo materiale e si unisce
a Dio. Come spesso accade nella poesia mistica, la passionalità, l’eros e la sensualità sono,
sublimati nella fede, l’unico modo che l’uomo ha per esprimere metaforicamente la forza e il calore
della sua fede: l’abbraccio con il Cristo, il contatto col sangue delle sue ferite aperte ecc. Il
luteranesimo radicale di Brorson vuol anche dire una permanente condizione di tormento e
incertezza: nel momento in cui l’uomo crede orgogliosamente di possedere la fede, egli è perduto.
Su questa matrice pietistica nasceranno nella Scandinavia moderna (dal Settecento al Novecento)
diversi risvegli religiosi (cfr. ingl. awakenings). La scrittrice danese del Novecento Karen Blixen ha
immortalato uno di questi ambienti nel racconto Il pranzo di Babette (Babettes gæstebud, nella
raccolta Capricci del destino), diventato poi un famoso film.
Dal punto di vista letterario i salmi di Brorson offrono un linguaggio del cuore e della
passione che è in contrasto con il linguaggio illuminista della ragione e del buon senso. Questo
filone sentimentale più “sotterraneo” percorre comunque il Settecento, ed è importante perché
riemergerà verso gli ultimi decenni del secolo con il preromanticismo.
Anche Holberg critica i pietisti e vede in loro un pericolo. Da uomo della ragione e del buon
senso egli crede in un assolutismo illuminato, che garantisca una società ben ordinata
gerarchicamente; e le conventicole, nella loro segretezza, “tramano” implicitamente contro questo
ordine. Poi c’è un problema più concreto: attorno al 1730, quando Cristiano VI diventa re, i pietisti
chiudono i “peccaminosi” teatri. E Ludvig Holberg è il padre della tradizione teatrale scandinava di
età moderna.
Holberg nasce a Bergen, in Norvegia, ma nel 1702, a diciotto anni, si trasferisce a
Copenaghen per continuare gli studi all’università; nella capitale danese si svolgerà la sua carriera
di scrittore e di professore universitario. Da questa doppia appartenenza dano-norvegese nasce una
possibile “diatriba” tra storici della letteratura dei due paesi sulla vera nazionalità di Holberg. È
ovviamente una discussione che non ha molto senso, poiché proietta anacronisticamente sul passato
un’idea di identità nazionale che si sviluppa pienamente solo con il Romanticismo ottocentesco.
L’entità nazionale era di fatto la Danimarca-Norvegia; qui la lingua scritta era il danese, e tutti i
centri dell’istituzione culturale e letteraria erano a Copenaghen. Holberg opera sempre a
Copenaghen, scrivendo in danese (la sua scrittura rappresenta piuttosto l’inizio del danese
contemporaneo) e in latino. Nella storia culturale e nella tradizione teatrale Holberg “appartiene” di
fatto sia alla Norvegia sia alla Danimarca (le sue commedie sono tuttora classici del repertorio
teatrale di entrambi i paesi).
La prima parte della carriera di Holberg (1702-20) è dedicata ai viaggi di formazione in
Europa e agli studi di filosofia e teologia. In questo Holberg corrisponde alla fisionomia del
letterato illuminista, che conosce il mondo e si forma sia attraverso i viaggi sia sulle letture. Dal
1704 al 1716 Holberg soggiorna in Olanda, Inghilterra, Germania, Francia e Italia. A Oxford studia
storia ed entra in contatto con l’Empirismo inglese, la corrente filosofica che, ponendo l’accento
sull’esperienza quale fondamento della conoscenza, rappresenta un momento importante
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dell’Illuminisimo. I soggiorni in Francia e in Italia sono utili soprattutto per la conoscenza del teatro
di Molière e del teatro dell’arte, fonti di ispirazione nell’opera di Holberg commediografo.
Attraverso i suoi viaggi Holberg apre la Danimarca-Norvegia a orizzonti europei più vasti, vi
introduce nuove idee e prospettive.
Come scrittore Holberg si occupa di diversi ambiti: storia, giurisprudenza, letteratura e
filosofia. La sua prima opera è una “introduzione alla storia dei principali paesi europei”:
Introduktion til de fornemste europeiske Rigers Historie (1711). Il semplice titolo ci annuncia il
cosmopolita, colui che va oltre i confini danesi e, dunque, supera l’orizzonte della storiografia
patriottica e nazionalistica che aveva dominato nel Cinquecento e nel Seicento. Nel 1716 si occupa
di giusnaturalismo con Introduktion til Naturens og Folke-Rettens Kundskab (Introduzione alla
conoscenza del diritto di natura e del popolo). Secondo il giusnaturalismo (il cui maggiore
esponente è l’olandese Grozio, ospite alla corte di Cristina di Svezia nel Seicento) esistono delle
norme di diritto naturale su cui l’uomo fonda le sue leggi; l’essere umano, per sua natura razionale,
sa darsi un ordine fondato sulla ragione. Secondo Holberg, come detto, quest’ordine naturale è
garantito sul piano istituzionale e legislativo dall’assolutismo illuminato. Tutta l’opera di Holberg è
sostenuta dalla fede nel re e nell’autorità (altra questione è che la monarchia assolutista danese fu
raramente illuminata nel Seicento e nel Settecento).
La fase di più intensa attività letteraria – ciò che Holberg stesso definì il suo “raptus poetico”
– si colloca tra il 1719 e il 1725. In quanto studioso e accademico, Holberg conosce bene sia la
dottrina teologica sia l’obbligatorio bagaglio della cultura e della letteratura classica. Al tempo
stesso egli vuole promuovere, in quanto illuminista, il senso pratico e la ragione rivolta all’utile. Per
questo prende di mira, mostrando da subito un notevole talento comico, la pedanteria accademica e
religiosa: i saperi tradizionali e formali che nascondono pigrizia mentale e chiusura provinciale. Tra
il 1719 e il 1720 Holberg pubblica il poema eroicomico in versi alessandrini Peder Paars, la storia
di un viaggio di un uomo qualunque (PP) nella Danimarca contemporanea. Il paradosso comico si
basa sul fatto che il viaggio viene descritto sulla falsa riga dell’Eneide. Holberg accosta la nobile
forma classica (il verso, la retorica, gli episodi dell’Eneide) alla contemporanea realtà danese.
L’effetto è quello della parodia e dello straniamento: il poeta smaschera l’artificio poetico, lo
espone, pur utilizzando la norma classica “con tutti i crismi”. C’è distanza tra le grandi parole e le
piccole cose; forse quella forma antica e nobile non è così assoluta, non può bastare a rappresentare
la vita contemporanea. Intanto Holberg, nella sua descrizione, prende in giro il provincialismo,
l’arretratezza e l’oscurantismo, il piccolo potere dei preti, dei dotti e dei pedanti, rappresentanti di
una cultura vuota che è solo un’ignoranza mascherata.
Con Peder Paars Holberg rivela uno spirito critico e razionale abbinato a un talento comico
puro, capace di suscitare il riso attraverso la situazione assurda e grottesca. Sono le stesse doti che
ritroviamo nella sua vasta produzione di commedie. Traendo ispirazione dalla “commedia di
carattere” di Molière e dalla tradizione delle maschere italiane – ma anche dall’acuta osservazione
dei tipi danesi a lui contemporanei – Holberg opera per un progetto teatrale che serva a educare e
divertire il pubblico, unendo con illuministico buon senso “l’utile e il dilettevole”. Holberg viene
invitato a scrivere commedie nel momento in cui sta prendendo forma una prima istituzione teatrale
pubblica nella città di Copenaghen. Il suo “raptus poetico” si incontra con l’esigenza culturale,
artistica e sociale della scena. Prima della nascita del primo teatro stabile di Copenaghen, che è
attivo dal 1721 al 1728, si imitano, traducono e rappresentano modelli stranieri come i drammi di
Molière e del Classicismo francese. In Danimarca operano solo compagnie straniere itineranti,
finché due capocomici francesi residenti in Danimarca, Capion e Montaigu, non aprono il teatro
stabile e cominciano a formare un corpo di attori danesi. Ma oltre alle compagnie di attori serve
anche un repertorio danese; e questo è opera di Holberg. Tra il 1722 e il 1723 egli scrive 25
commedie (l’apice del raptus); in tutta la sua carriera ne scriverà 35.
Nella capitale si sta formando un pubblico borghese desideroso di cultura e intrattenimento.
Il teatro comico di Holberg è la forma di fruizione artistica attraverso cui i ceti borghesi emergenti
possono vedersi rispecchiati nei loro vizi e nelle loro virtù. Il teatro non è solo testo letterario e arte
28

scenica; è istituzione sociale che forma ed educa il pubblico borghese. Holberg si muove sempre tra
intento didattico e desiderio di suscitare risa e applausi. Il processo di rispecchiamento è possibile
nel momento in cui Holberg adatta i suoi modelli stranieri ai tipi nazionali che ha a disposizione, e
alle ambientazioni danesi contemporanee. Da Molière prende la commedia “di carattere”, incentrata
su un personaggio e sulla sua idiosincrasia dominante (l’avaro, il misantropo, il malato
immaginario, il dongiovanni…). Holberg è sicuramente fondamentale per le letterature scandinave,
ma non è uno scrittore della profondità e della finezza di Molière. Il suo gusto comico è più
popolare e superficiale; i suoi ambienti sono più variegati rispetto a quelli dell’”aristocratico”
Molière; troviamo infatti sia gli ambienti borghesi sia quelli contadini. Il gusto più popolaresco di
Holberg deriva anche dal modello della commedia dell’arte italiana, con le sue maschere – dunque i
tipi fissi – le improvvisazioni e i lazzi. Di fatto Holberg sarà il banco di prova di ogni bravo attore
comico danese.
Menzioniamo alcune tra le migliori commedie di carattere oltre a Jeppe paa Bierget (Jeppe
della montagna), su cui ci soffermiamo più avanti. Den politiske Kandestøber (Lo stagnino
politicante) presenta l’artigiano e uomo comune con ambizioni politiche – uno che si trova con il
potere in mano ma in fondo è solo un politicante, uno che non sa stare al suo posto e non sa di che
sta parlando. Erasmus Montanus (forse il capolavoro, il dramma di maggiore spessore) parla del
giovane di campagna Rasmus Berg, che va a studiare all’università di Copenaghen e per questo si
dà grande importanza, latinizzandosi anche il nome. Assume pose, parla in latino, spara sentenze e
sillogismi sui suoi poveri compaesani che nulla comprendono; vuole sempre disputare e avere
ragione. Il pedante è alla fine (duramente) punito dal buon senso contadino, e il dramma è che
nessuno più gli crede anche quando egli difende la pura verità, ossia che la terra è tonda e non
piatta! Jean de France è il giovane danese Hans Frandsen che ha la mania della moda francese (un
eloquente fatto culturale e di costume della Scandinavia settecentesca). Infine Den stundenløse
(L’indaffarato) è il borghese che briga e fa, ma è talmente affaccendato che non combina niente. Lo
schema holberghiano ricorrente, come si può osservare, è la presa in giro di chiunque voglia uscire
dai propri ranghi. E la dinamica società settecentesca presentava molti tipi che non volevano più
stare nei ranghi: borghesi, artigiani, contadini, studenti…
Che “carattere” è Jeppe della montagna (fot. 18-23)? È il contadino sottomesso a tutti,
intimorito e soggiogato da una serie di autorità. Pecca bevendo, è vero, ma suscita la simpatia del
pubblico per il fatto di ammettere il suo peccato, e di spiegarne anche i motivi: altrimenti la vita gli
risulterebbe insopportabile. Dopotutto è un buon diavolo, sincero e ingenuo. Non solo è nel punto
più basso della scala sociale, ma è pure picchiato e cornificato dalla moglie. Subisce proprio da
tutti. La burla di cui è vittima è giocata dal barone, cioè da colui che è all’opposto della scala
sociale, in cima. (in effetti questo è un “capovolgimento” ben strano: in genere nella risata
carnevalesca, tipica della commedia dell’arte, succede che chi sta sotto si burla dei potenti, non
viceversa). La burla rende dunque Jeppe “re per un giorno”, condotto nella casa e nei panni del
barone. Inizialmente Jeppe è incredulo, addirittura turbato e angosciato (fine atto II: chi sono io?
Finché prendeva bastonate conosceva almeno il suo posto; ora tutto è incerto). Ma nel III atto, in
quanto uomo semplice, egli entra nel ruolo, finisce (quasi) per crederci. E si vendica dei torti subiti,
o almeno ci prova. Viene fuori – a livello di lapsus involontario del linguaggio – il suo passato di
sottomissione e ingiustizie subite. Noi (e gli autori della burla) possiamo ridere di questo sentimento
di rivalsa – il potere gli ha dato alla testa. Al tempo stesso vediamo Jeppe parlare chiaramente di
quella che è la sua condizione reale di contadino sfruttato (e sulla condizione di semischiavitù dei
contadini danesi fino all’Ottocento sappiamo qualcosa). Nel IV atto Jeppe è giudicato e condannato,
sempre per scherzo. E nel V atto tutto ritorna all’ordine (si fa per dire) dell’inizio. Le bastonate
della moglie indicano che tutto è tornato al suo posto; e il commento finale del barone è che ognuno
deve restare nei propri ranghi. L’ambiguità del messaggio comico di Holberg è che egli rispecchia
una situazione sociale reale, in questo caso una condizione di palese ingiustizia, ma non concede
alla vittima, nella “morale della favola”, il diritto di ribellarsi. Sarebbe per lui “contro ragione”.
29

L’intensa attività teatrale copenaghese si interrompe per due fatti concomitanti: nel 1728 un
grande incendio brucia il centro della città e anche il teatro. E nel 1730 succede a Federico IV il
figlio pietista Cristiano VI. Holberg fa di necessità virtù e torna ai suoi interessi storici. Pubblica
Danmarks og Norges Beskrivelse (Descrizione di Danimarca e Norvegia, 1729) e Danmarks Riges
Historie (Storia del regno di Danimarca, 3 voll. 1732-35). Holberg ribadisce qui il suo interesse e la
sua fedeltà verso la doppia monarchia, ma con un approccio diverso dalla storiografia nazionalistica
e mitizzante dei secoli precedenti. Holberg, da illuminista, si attiene ai dati e alle descrizioni
oggettive, mostrando vivo interesse per la società contemporanea, le istituzioni, l’economia e la
civiltà. È una concreta storia dei popoli, più che una celebrazione di re e battaglie. La ragione è
guida; e lo stile brillante, arguto e chiaro fa della prosa di Holberg il punto di inizio del danese
contemporaneo.
Nell’ultima parte della sua vita Holberg approfondisce la sua vena morale e filosofica, con
Moralske Tanker (Pensieri morali, 1744), in danese e in latino, e le Epistole in latino (1748-54, 5
voll.). Emerge il lato più serio, intimo e personale. L’intellettuale illuminista esprime il suo anelito a
un non facile ideale di armonia e conoscenza di sé. Il problema religioso non tocca particolarmente
Holberg, che tuttavia non è ateo e indica la strada della tolleranza e della comprensione reciproca.
Friedrich Struensee, l’illuminista tedesco che tenterà di riformare il governo danese tra il 1768 e il
1772, legge assiduamente Holberg.
Infine menzioniamo l’unica opera di successo europeo dello scrittore dano-norvegese: il
romanzo in latino Nicolai Klimii Iter Subterrarum (Il viaggio sottoterra di Niels Klim, 1741). Il
ragazzo Niels trova un buco nella terra, ci entra e scopre che il pianeta è vuoto dentro, un universo
in cui ruotano altri piccoli pianeti, ognuno caricatura di uno stato europeo o di una particolare follia
contemporanea. All’interno del racconto fantastico Holberg può osservare satiricamente il mondo,
similmente a quanto avviene in Gulliver’s Travels di Jonathan Swift.
Nella seconda metà del XVIII sec. si colloca l’attività di un altro scrittore norvegese
trapiantato a Copenaghen, Johan Herman Wessel (1742-85), uno scapigliato e irregolare che tra
l’altro è tra gli animatori di Det norske Selskab, “la società norvegese”, presso cui si riuniscono gli
studenti e gli intellettuali residenti nella capitale. Qui si comincia a formare un senso di identità
nazionale e un desiderio di autonomia e indipendenza dalla Danimarca. Come Holberg in Peder
Paars, Wessel compie una parodia di un genere letterario classico: non il poema questa volta, ma la
tragedia. Con Kierlighed uden Strømper (Amore senza calze, 1772) l’autore applica i cinque atti e
le “tre unità” (luogo tempo e azione), i versi alessandrini e le figure retoriche, il tutto per una
materia futile, solo la parodia di una tragedia. L’elemento parodistico scaturisce dalla discrepanza
tra l’impeccabilità formale e il vuoto di sostanza. È in qualche modo un segnale della crisi del
classicismo. Infatti siamo agli albori del preromanticismo: due scrittori danesi, Ewald e Baggesen,
cominciano in questo stesso periodo a percorrere strade nuove, ma di loro ci occuperemo dopo aver
trattato l’Illuminismo in Svezia.
In Svezia individuiamo due fasi culturali distinte, corrispondenti a due periodi diversi – e
altrettanto importanti – della vita politica e sociale: il “Periodo della libertà” prima (ca. 1720-1772)
e l’età di Gustavo III poi (dal 1772 ai primi anni del XIX sec.). Nel Periodo della libertà dominano
l’Illuminismo e gli interessi scientifici, e le tre figure più rappresentative sono Olof Dalin e gli
scienziati Carl von Linné (o Linneo) ed Emanuel Swedenborg.
Dalin (1708-63) introduce le idee e lo spirito dell’Illuminismo in Svezia attraverso la
pubblicazione del giornale periodico Den svenska Argus (L’Argo svedese) tra il 1732 e il 1734,
redatto e scritto interamente da lui. Il modello di simili riviste, cui Dalin attinge, proviene
dall’Inghilterra: The Tatler (1709) e The Spectator (1711-14) di Addison e Steele. Nella Scandinavia
del Settecento non nasce ancora pienamente il romanzo, ma nascono il teatro moderno, con
Holberg, e la stampa periodica urbana e borghese con Dalin. Dalin traduce gli articoli di Addison e
Steele, adattandoli liberamente alla realtà svedese e stoccolmese da lui osservata (l’Argo della
mitologia classica è la figura con tanti occhi, che può osservare in tutte le direzioni). L’ideale e il
tono sono simili a quelli holberghiani: conciliare utile e dilettevole, educare attraverso
30

l’intrattenimento. Dalin esprime nella sua prosa gli ideali illuministi di ragione, giusto mezzo,
armonia, tolleranza e buon senso attraverso uno stile chiaro, arguto e brillante. Come con Holberg
per il danese, la prosa di Dalin rappresenta per lo svedese il punto d’inizio della lingua
contemporanea. Il modello holberghiano si fa sentire anche in una commedia di carattere scritta da
Dalin, Den avundsjuke (L’invidioso, 1738). Anche Dalin si occupa di storia, inaugurando una
nuova, più moderna fase della storiografia dopo i furori nazionalistici e goticisti dei due secoli
precedenti. L’interesse per la storia svedese e per il suo popolo è espresso in una sua famosa favola
allegorica, Sagan om hästen (La favola del cavallo, 1740). Il cavallo è il popolo svedese, che vede
montare sulla sua groppa cavaliere dopo cavaliere, generazione dopo generazione. Ognuno di
questi, preso dalle proprie ambizioni, strapazza il paziente equino, che subisce e comunque sostiene.
Il cavallo è, allegoricamente, il popolo svedese; e i padroni del cavallo sono i re e i governanti che
si succedono da Gustav Vasa, fondatore della Svezia moderna, al Frihetstid. L’intento didascalico
della favola emerge dalla morale finale: il cavallo va sì guidato con fermezza, ma anche con mitezza
e giustizia, pensando al suo bene, e non usandolo come strumento per soddisfare il bisogno di
prestigio personale. Dalin critica così i vari “re forti” e intenti alla guerra che si sono succeduti dal
Cinquecento, ma esprime anche il bisogno di una guida salda e illuminata, diversa da ciò che appare
all’autore il disordine e l’instabilità del Frihetstid. Dalin rivendica anche, attraverso la storia del
cavallo, la prospettiva dal basso, l’idea che la storia debba parlare anche di chi sta sotto e non ha
voce, e non solo di re, genealogie, battaglie e incontri importanti. Queste idee sono messe in pratica
da Dalin nella sua storia svedese: Svea rikes historia (4 voll. 1747-62).
L’“utile”, i progressi e le scienze vengono promossi anche attraverso la fondazione, nella
Scandinavia del Settecento, delle accademie scientifiche. Dal verbo “sapere, conoscere” (s. veta, n.
vite, d. vide – cfr. ted. wissen) derivano i rispettivi termini per “scienza” (s. vetenskap, n. vitenskap,
d. videnskab – cfr. ted. Wissenschaft). Vengono fondate nel 1739 la Vetenskapsakademien in Svezia,
nel 1742 la Videnskabernes Selskab (Società delle Scienze) in Danimarca e nel 1760 Videnskabs
Selskab in Norvegia. È un’età di grande sviluppo per la Scandinavia, e per la Svezia in particolare.
Lo scienziato svedese Celsius inventa il termometro centigrado che ancora usiamo.
Poi c’è chiaramente Linneo (1707-78), il padre della botanica moderna. Linneo proviene da
un ambiente religioso dello Småland, nella Svezia meridionale. In lui l’entusiasmo per la natura è
sempre legato al fervore religioso; la natura è testimonianza della creazione divina. Il Settecento è
certamente l’età dell’Illuminismo, del razionalismo, delle scienze e dell’utile. Ma come per il
Pietismo in Danimarca, non riusciremmo a comprendere Linneo e Swedenborg se non tenessimo in
considerazione il singolare intrecciarsi di scienza e fede, di attitudine pratica ed empirica e di
misticismo visionario.
Tra le molte opere scientifiche in latino di Linneo menzioniamo i capolavori Sistema
naturae (1735) e Fundamenta botanica (1736). Linneo procede a una grande opera di catalogazione
e sistemazione dei regni minerale, vegetale e animale; individua e descrive il sistema sessuale delle
piante (pistilli e stami); inventa infine la denominazione binaria in latino per le piante che è
utilizzata ancora oggi. In quanto botanico Linneo scrive, studia e pubblica molto anche in Olanda,
paese allora più avanzato della Svezia nella ricerca. Linneo ci ha lasciato anche degli affascinanti
testi in svedese, non legati alla sua produzione strettamente scientifica. Si tratta delle descrizioni dei
suoi viaggi attraverso le regioni della Svezia, intrapresi per incarico del Riksdag al fine di studiare il
territorio e la sua natura, e di individuarne le possibili fonti di sfruttamento economico. La
testimonianza più nota è quella del primo viaggio, nella selvaggia Lapponia abitata dai Sami (è nel
Settecento, per inciso, che comincia la colonizzazione sistematica e l’espansione della civiltà
moderna nelle regioni scandinave della calotta polare). Il libro è Iter Lapponicum, detto anche
Lapplandsresan (Viaggio in Lapponia) del 1732. Linneo descrive sotto forma di diario il suo
viaggio in un territorio praticamente vergine. Qui unisce l’osservazione utile e razionale – concisa,
chiara e minuziosa – al caldo entusiasmo per la natura e le sue grandiose manifestazioni. L’opera ha
anche un notevole interesse etnografico, proprio perché l’autore si sofferma a descrivere le
popolazioni indigene con le quali entra in contatto, la loro vita e la loro organizzazione sociale. Qui
31

abbiamo anche una prova degli sbalzi d’umore di Linneo, che passa dall’entusiasmo
all’abbattimento e alla disperazione (ma fu un viaggio davvero duro). La sua lingua, infine, è uno
svedese conciso e poco letterario, quasi da appunti, singolarmente alternato a frasi o parole in latino
e in francese. Seguiranno poi tra gli altri Öländska och gotländska resan (Viaggio a Öland e
Gotland, 1745), Västgötaresan (Viaggio nel Västergötland, 1747) e Skånska resan (Viaggio in
Scania, 1751).
In una singolare opera degli ultimi anni, Nemesis Divina, composta in latino e in svedese,
viene fuori l’animo più misantropo e mistico di Linneo, un incrocio di fede e settecentesco spirito
catalogatore. Questa volta sotto osservazione è l’uomo. Linneo espone un perfetto sistema di
contrappassi, per cui a un dato peccato corrisponde una punizione divina. L’autore espone una
casistica tratta da episodi contemporanei a lui noti.
L’eredità letteraria di Linneo è grande. Non solo perché egli scrive le sue descrizioni di
viaggio in svedese, ma anche perché uno dei tratti ricorrenti nelle letterature scandinave moderne
diventa proprio il “linneano” atteggiamento di ascolto e amore verso la natura, “una natura che, –
scrive Fulvio Ferrari – “a differenza della nostra, non ha ancora del tutto perso la sua autonomia
dall’uomo, una natura non ancora soggiogata, ancora capace di vincere e incantare (…): a tutto
questo il poeta scandinavo non può sottrarsi, è parte della sua esperienza quotidiana, lo costringe a
confrontarsi con qualcosa che sfugge alla regolare banalità di una vita distratta, indaffarata,
irriflessiva.”2
Come professore universitario a Uppsala Linneo riesce a coinvolgere ed entusiasmare a tal
punto i suoi studenti, che si crea una schiera di giovani discepoli mandati ai quattro angoli della
terra per raccogliere e catalogare il numero maggiore possibile di specie vegetali e animali. È
l’epopea (anche tragica: molti di questi studiosi muoiono di stenti e malattie) dello spirito
scientifico occidentale nel corso del Settecento. Questa epopea è letta in modo avvincente e critico
dal romanziere danese Thorkild Hansen nel bel romanzo storico Det lykkelige Arabien (1962) –
trad. it. Arabia Felix, Iperborea – in cui uno dei personaggi è il discepolo di Linneo Peter Forsskål.
Ancora oggi vale la pena di fare una visita al giardino botanico di Linneo a Uppsala e alla sua casa
annessa.
Un’altra originale compresenza di scienza e misticismo la troviamo nella vita e nell’opera di
Emanuel Swedenborg (1688-1772), proveniente anche lui da un ambiente cristiano (è figlio del
vescovo e salmista Jesper Svedberg, che abbiamo menzionato a proposito del Seicento).
Swedenborg si occupa inizialmente di scienza e di tecnica, dedicandosi a meccanica, matematica,
astronomia, geologia e metallurgia. Per incarico dello stato è ispettore delle miniere svedesi. Studia
in Inghilterra, dove entra in contatto con l’Empirismo; anch’egli, come Holberg, è un cosmopolita
che viaggia per l’Europa (Inghilterra, Olanda, Francia, Italia). Ma a mezza età, tra gli anni Trenta e
Quaranta, attraversa una crisi che lo porta a una radicale svolta mistica. Con l’esperienza
sconvolgente di sogni e visioni che lo mettono in contatto con l’aldilà, Swedenborg abbandona gli
interessi professionali e mondani, e impronta tutta la sua opera successiva alla missione religiosa.
Egli si sente investito da una missione divina: essere medium di trasmissione agli uomini, attraverso
il suo filo diretto con l’aldilà, della vera interpretazione delle Sacre Scritture e della vera fede
cristiana. A differenza dei pietisti, però, Swedenborg non fa appello al cuore e al sentimento; ma
offre dell’aldilà una visione di scientifica chiarezza. Scrive molte opere in latino basate sulle sue
visioni e rivelazioni, la più nota delle quali è Arcana Coelestia (8 voll, 1749-56). La teosofia di
Swedenborg (cioè la visione medianica, iniziatica del divino, il contatto personale attraverso
l’esperienza extrasensoriale) è un’espressione di platonismo: esiste un mondo spirituale perfetto e
superiore, di cui il mondo sensibile è emanazione e “copia”. Swedenborg elabora una dottrina delle
“corrispondenze” dove tutto quanto è terreno ha un esatto corrispettivo nella sfera spirituale. Sulla
base della sua fede Swedenborg fonda anche una nuova chiesa cristiana, che si chiama appunto Nya

2
Dalla premessa di Camminando nell’erica fiorita, poesia contemporanea scandinava, a cura di Fulvio Ferrari, Milano,
Lanfranchi, 1989.
32

Kyrkan, o New Church, visto che raccoglie adepti (e sopravvive tuttora) soprattutto nel mondo
anglosassone.
Swedenborg appare a molti contemporanei una figura imbarazzante e singolare. Il filosofo
tedesco Kant lo giudica un folle visionario. Al di là delle complicazioni e stranezze della sua
teosofia, quello che importa sottolineare è lo spazio che Swedenborg concede – in piena epoca di
lumi – al sogno e alla visione, a una zona psichica profonda e sotterranea che un’epoca più tarda (da
Freud in poi) chiamerà inconscio. L’unica opera in svedese è proprio un libro di sogni (si chiama
Drömboken), scritto nel 1744 ma trovato e pubblicato oltre un secolo più tardi. Swedenborg lo
scrive in svedese proprio perché si tratta di annotazioni private non mirate alla pubblicazione. Qui
appare un uomo pio alla ricerca della purezza e della disciplina interiore, ancora tentato dal mondo
(l’eros, il lavoro, le ambizioni), ma che cerca di allontanarsi dalla materialità. È un’affascinante
scrittura autoanalitica. La facoltà visionaria di Swedenborg influenzerà scrittori svedesi e non:
Stagnelius, Almqvist, Strindberg, ma anche Blake, Goethe, Balzac e Baudelaire.
Pur non essendo letterati, Linneo e Swedenborg annunciano in un certo senso i futuri
sviluppi della poesia romantica: la natura è una delle strade che conducono all’Assoluto, e la poesia
non è solo compostezza e armonia, ma forma espressiva che si apre all’inconscio.
A metà del Settecento, tuttavia, la rivoluzione romantica è ancora lontana. Domina ancora
tra i letterati del tempo un ideale poetico classicista di compostezza, buon tono e armonia, portatore
dei valori di umanità, ragione e tolleranza dell’Illuminismo. In questo ambito si colloca l’attività di
tre poeti, Hedvig Nordenflycht (donna), Gustaf Gyllenborg e Gustaf Creutz, attorno alla società
detta Tankebyggareorden (Ordine degli edificatori di pensiero). Si tratta di un’espressione di gusto
che avrà ulteriore sviluppo nell’ultimo trentennio del secolo: l’età gustaviana, l’apice della cultura
classicista e/o neoclassica svedese (verso la fine del Settecento si parla in Europa di
“neoclassicismo”, anche in relazione alla recente scoperta di Ercolano e Pompei sepolte sotto la
lava, entusiasmante conferma dell’eterna perfezione dell’arte classica).
Gustavo III – dirà poi il poeta Tegnér – porta un’irripetibile aura nella vita culturale svedese
(nonostante le tensioni sia interne sia esterne che caratterizzano il regno fino all’omicidio del re nel
1792). Gustavo III si è formato sulla cultura illuminista e classicista francese, è mecenate degli
artisti, appassionato di teatro e di arte classica, lui stesso autore di abbozzi di testi drammatici, che
contribuisce ad allestire, e che fa elaborare e completare dai poeti di corte, come Johan Henrik
Kellgren (1751-95), di cui parleremo più avanti.
Durante il ventennio gustaviano vengono fondate alcune delle istituzioni culturali svedesi
che sono tuttora centrali: il teatro dell’Opera (1782, proprio qui il re verrà ucciso), il Teatro
Drammatico (1788) (Kungliga Dramatiska Teatern, abbreviato Dramaten, la “fucina” di Ingmar
Bergman e di tutti i grandi attori svedesi del Novecento); infine Svenska Akademien, l’Accademia
Svedese composta dai diciotto membri eletti a vita (De Aderton), con il compito di studiare, curare e
promuovere la lingua svedese; e di favorire lo sviluppo della poesia e delle lettere attraverso
concorsi e premi. L’Accademia ha questi compiti ancora oggi; e in particolare essa ha assunto un
ruolo internazionale da quando Alfred Nobel l’ha incaricata nel suo lascito di conferire (dal 1901)
un premio di letteratura così cospicuo da essere diventato il più importante del mondo.
La figura poetica di maggior spicco dell’età gustaviana non è però un poeta di corte, bensì
un guitto assai irregolare che tuttavia il re proteggerà, Carl Michael Bellman (1740-95). Egli è poeta
e autore di canzoni, scritte soprattutto tra gli anni Sessanta e Settanta, sul finire del Periodo della
libertà. La pubblicazione del suo canzoniere, e il conseguente successo, arrivano però più tardi,
pochi anni prima della sua morte: Fredmans epistlar (L’epistole di Fredman, 1790) e Fredmans
sånger (I canti di Fredman, 1791). La raccolta migliore e più famosa è quella delle Epistole. Si
tratta di un ciclo organico di poesia in musica dedicate a una galleria di personaggi provenienti dal
variegato mondo dei bassifondi stoccolmesi, ambienti popolari fatti di artigiani, prostitute e
spiantati di vario genere (Fredman, Movitz, Ulla Winblad…). Bellman è un talento poetico e
musicale, che spesso utilizza per le sue canzoni melodie già esistenti, prese da Mozart, Gluck,
33

Händel o Haydn. Secondo le testimonianze contemporanee è anche un talento mimico e


interpretativo: lui stesso canta, suona e recita le proprie canzoni.
Bellman è partecipe ed interprete della cultura neoclassica del suo tempo, ma in modo
originale. Il gusto classico e il costante riferimento al mito convivono con l’osservazione di una
realtà contemporanea nuova e non particolarmente nobile. L’atemporalità del mito e l’immediata
attualità sono come giustapposte l’una sull’altra. Nelle sue canzoni la Stoccolma settecentesca
(quella che oggi corrisponde a Gamla Stan, la Città Vecchia) diventa un vivace universo poetico.
Stoccolma era nel Settecento una delle città europee più sporche e malsane; Bellman la coglie
proprio nei suoi ambienti bassi e misti: la bettola, la strada, il porto, le tante voci. Stoccolma è però
(tuttora) anche una città sull’acqua, immersa in idilliaci dintorni verdi, un’urbe che si presta a
divagazioni agresti. Bellman è lontano dal “buon tono” dei suoi contemporanei, ma cerca comunque
una grazia e una leggiadria “rococò” nelle sue canzoni. E quando l’ambientazione agreste lo
permette, egli sfrutta volentieri le situazioni tipiche della poesia bucolica e pastorale, uno dei luoghi
preferiti delle poetiche classiciste (il pastore e il contadino, in quanto i più vicini alla natura e agli
elementi, sono dall’epoca classica una figura traslata del poeta).
Bellman è dunque a suo modo un classicista, ma anche un realista. La presenza di nomi e
situazioni della mitologia classica non ci fa tuttavia mai perdere di vista una realtà sordida di bettole
e di outsider. Nell’Epistola 25 (dal sottotitolo “Tentativo di pastorale di gusto bacchico scritta in
occasione della traversata di Ulla Winblad a Djurgården”) (fot.23-25) Ulla potrà anche essere
rappresentata come Venere che nasce dall’acqua, ma il lettore-ascoltatore non dimentica per questo
che Ulla “in realtà” è una prostituta, la dea dell’amore della combriccola maschile. La realtà poco
edificante viene come sublimata nel mito, ma noi la vediamo continuamente anche nei suoi termini
reali. Ci possiamo chiedere se questo avvicinamento del mito alla realtà concreta rappresenti la sua
fine, o se piuttosto la forza del mito sia ribadita, poiché esso continua a vivere anche nel degrado.
Di fatto Stoccolma e i suoi dintorni diventano per la prima volta con Bellman un luogo mitico, un
universo poetico.
Bellman può ricordare l’atteggiamento scisso del poeta seicentesco Lucidor: da una parte
egli riprende la canzone bacchica e anacreontica, celebra la sbornia e il sesso, la sfrenata gioia di
vivere tesa a cogliere l’attimo; d’altra parte compare spesso in lui la sconsolata consapevolezza
della morte e del disfacimento fisico. Bellman non è un poeta “profondo”, non scava nei sentimenti
e nell’interiorità. È grande però come osservatore “impressionista”, capace di vedere e di sentire il
brulicare di personaggi e situazioni, dove si intrecciano il comico e il tragico, il burlesco e
l’elegiaco, il reale e il mitico, l’amore e la morte.
I canti di Bellman sono in Svezia un patrimonio ancora molto vivo e diffuso. Dischi e nuove
“compilation” con versioni moderne vengono tuttora pubblicati. A una festa si può “cantare
Bellman” così come si cantano i Beatles. Proprio perché così legato al canto, Bellman è in realtà un
poeta intraducibile.
Johan Henrik Kellgren, poeta di corte e severo arbitro del gusto, rappresenta un classicismo
illuminista un po’ agli antipodi rispetto all’estro di Bellman. Il suo rischio è quello di trasformare la
ragione in arido intellettualismo. Nel poema del 1777 Mina löjen (Le mie risa) Kellgren elenca i
suoi bersagli polemici contemporanei, tra i quali proprio Bellman, a suo parere un ubriacone e
volgare erotomane, non certo un rappresentante del buon gusto. Un aspetto più interessante e vivo
dell’opera del razionalista Kellgren è il giornalismo. Il Periodo della libertà aveva permesso un
grande sviluppo della libera stampa; e tale evoluzione continua di fatto durante il regime di
assolutismo illuminato di Gustavo III. Nel 1778 Kellgren comincia a lavorare per Stockholms-
Posten, organo delle idee illuministe, anticlericali e progressiste di cui diventa direttore ed editore.
Collaboratrice di Kellgren a Stockholms-Posten è la poetessa e giornalista Anna Maria Lenngren
(1754-1817), che assieme alla Hedvig Nordenflycht, menzionata prima, è tra le prime originali voci
femminili della letteratura svedese.
Una polemica letteraria tra Kellgren e il giovane poeta Thomas Thorild (1759-1808)
annuncia la collisione tra orizzonte illuminista e nuove idee preromantiche. Nel suo poema
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Passionerna (Le passioni, 1781) Thorild proclama il bisogno della libertà del genio poetico che va
oltre le norme ed esprime la forza dei suoi sentimenti. Kellgren critica Thorild in nome della
compostezza, dell’armonia e del giusto mezzo. Nel 1790 Thorild risponde a Kellgren con il saggio
En kritik över kritiker (Una critica dei critici), dove afferma che: il genio poetico non sottostà alle
regole ma le crea lui stesso; il giudizio letterario si determina storicamente, poiché non esistono
canoni universali assolutamente validi; la critica non deve essere normativa, non deve “punire il
difetto” ma “esaltare il valore” (Kellgren non aveva trovato impeccabili gli esametri di Thorild).
Sono, in pillole, le idee che annunciano il Romanticismo.
Anche Kellgren si apre però al nuovo gusto. Su Bellman cambia idea, e infatti Fredmans
epistlar è pubblicato con una prefazione di Kellgren, il quale rileva l’originalità e il “genio
spontaneo” del collega. Infine in una poesia dell’ultimo periodo, Den nya skapelsen eller
inbillningens värld (La nuova creazione o il mondo dell’immaginazione) Kellgren esalta il primato
dell’amore, della bellezza e dei sentimenti.
Torniamo ora alla Danimarca per vedere come anche qui, sul finire del secolo, due scrittori
indicano un mutamento di prospettiva, verso il primato del sentimento sulla ragione, e
dell’irripetibilità del singolo sulla norma.
Johannes Ewald (1743-81) proviene da un ambiente pietista, dal quale però desidera
emanciparsi. Conduce una vita sregolata, e sente che il suo talento è misconosciuto. Fallimenti,
malattia, abuso d’alcol, incapacità di badare a sé lo fanno sentire un outsider infelice. Nella sua
cultura settecentesca Ewald immette il tratto preromantico della soggettività, dell’esperienza unica
dell’eccezione. Scrive poesia, drammi di materia antico-nordica (tratta da Saxo Grammaticus) e un
interessante “protoromanzo”. I drammi che ritornano al passato germanico sono Rolf Krage (1770)
e Balders Død (La morte di Baldr, 1775). Evocano passioni forti ed eventi cruenti, oltre il buon
tono; in essi esplodono la soggettività e il sentimento. Il successo del secondo dramma, quando
Ewald è ormai in fin di vita, indica che un nuovo gusto sta cominciando ad affermarsi. Ewald è però
ricordato soprattutto per la sua opera in prosa, una specie di romanzo autobiografico che raccoglie
ricordi, riflessioni e confessioni: Levnet og Meninger (Vita e opinioni). È pubblicato postumo, nel
1804, in pieno clima romantico. La soggettività forma l’autobiografia; l’io narrante cerca di
riflettere sui motivi della sua infelicità, e ripercorre la sua vita nel racconto in modo non lineare,
divagando. Già nel Settecento, nella sua giovane età, il genere del romanzo si apre, per la sua
intrinseca duttilità, a forme sperimentali, oggi considerate particolarmente moderne. Il modello di
Ewald, che leggeva i romanzieri inglesi, è proprio il moderno Laurence Sterne, il cui The Life and
Opinions of Tristram Shandy (1760-67) è richiamato nel titolo dell’opera di Ewald.
Anche Jens Baggesen (1764-1826) si colloca a cavallo tra lo spirito illuminista settecentesco
e la nuova sensibilità preromantica. Scrive poesia nel quale esprime estro soggettivo e fantasia; ma
soprattutto scrive il romanzo autobiografico Labyrinthen (1792-93), un resoconto di viaggio per la
Danimarca e l’Europa. Anche questo testo è contraddistinto da un andamento non lineare,
frammentario e caotico, specchio dell’esistenza errabonda e, appunto, labirintica dell’autore. Anche
in Baggesen, come in Ewald, la nuova forma in prosa del romanzo permette di rappresentare una
nuova esperienza interiore in un’età di profondi mutamenti.
Il grande romanzo scandinavo si svilupperà solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento,
ma a partire dal Settecento abbiamo una serie di opere che annunciano anche nel Nord l’evoluzione
del genere moderno per eccellenza (che il filosofo Hegel chiama “il moderno epos borghese”). Alla
prosa romanzesca è abbinata l’esperienza del viaggio anche in due opere svedesi della fine del
Settecento: Min son på galejan eller en ostindisk resa (Mio figlio sul galeone o un viaggio nelle
Indie orientali, 1781) di Jacob Wallenberg, un ingenuo romanzo picaresco sullo sfondo della rotta
dei commerci svedesi con l’Oriente, e Resa till Italien (Viaggio in Italia, 1786) di Carl August
Ehrensvärd, che combina l’esperienza soggettiva di un preromatico “genio” nordico in viaggio di
formazione con la cultura neoclassica e l’interesse per la perfezione eterna dell’arte italiana. Siamo
pur sempre negli anni delle sensazionali scoperte archeologiche di Pompei, Ercolano e Roma, che
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fanno dire al tedesco Winkelmann che quell’arte è espressione di “nobile semplicità e silenziosa
grandezza” (edle Einfalt, stille Grösse).
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IL ROMANTICISMO

Dopo un secolo in cui la Scandinavia è rimasta sotto l’influsso culturale francese, l’Ottocento
comincia con un deciso cambio di orizzonti. Il vasto movimento di idee del Romanticismo, che
coinvolge l’arte, la letteratura e la filosofia di tutta Europa, parte dalla Germania. Il Romanticismo
si definisce per molti versi in opposizione all’Illuminismo. Dove l’Illuminismo sottolinea il primato
della ragione, il Romanticismo mette in risalto il sentimento e la fantasia. L’eccezione, l’unicità
irripetibile e il “genio” sono varie espressioni dell’opposizione all’idea di regola universale e di
“giusto mezzo”. Questo vale tanto per l’individuo quanto per la nazione: il concetto forte di patria e
nazione si contrappone al cosmopolitismo e universalismo del Settecento. Da questo punto di vista
uno dei maggiori contributi del Romanticismo è proprio il senso della specificità della storia
nazionale e, più in generale, il senso della specificità storica che viene dal rifiuto di principi
“universali”. Ogni storia nazionale è specifica, così come lo sono ogni lingua nazionale e ogni
letteratura nazionale. E tutto si dispiega come un organismo completo, come da un seme che è
l’identità/l’anima (specifica) di quella nazione. Dove l’Illuminismo rappresenta un orizzonte terreno
e laico, rivolto all’utile, il Romanticismo esprime l’anelito all’infinito e all’Assoluto e una spiccata
disposizione speculativa e filosofica. Ribadendo la centralità del Cristianesimo, il Romanticismo dà
una valutazione positiva del Medioevo, al contrario degli illuministi, i quali vi vedevano
oscurantismo e barbarie. Il medioevo cristiano è il punto di partenza delle storie nazionali europee,
uniche sì ma comunemente fondate nel cristianesimo. Da tutto questo emerge infine anche una
diversa concezione della poesia. Dove il classicismo esaltava il momento tecnico e perfino
normativo della poesia, per i romantici la poesia è “di natura”: essa è, come la natura, un momento
che collega all’Assoluto, alla nostra origine; è poesia che nasce già perfetta, come un organismo
biologico, dall’animo popolare, senza bisogno di regole, poetiche o addirittura autori. Questa
naturalità si esprime, su un altro piano, nel genio assoluto, come Shakespeare oppure Omero, che si
pongono sopra ogni regola data e sono creatori delle loro stesse regole.
I concetti di identità e storia nazionale sono tra l’altro fondamentali perché con l’inizio
dell’Ottocento i paesi nordici, dopo i rivolgimenti geopolitici dell’era napoleonica, sono chiamati a
una definizione, o ridefinizione, di sé in quanto nazioni: Danimarca e Svezia sono rimpicciolite,
avendo perso buona parte del loro “impero” costruito nei secoli. Norvegia e Finlandia si trovano in
una nuova situazione di autonomia politica che pone loro il problema oggettivo della definizione del
sé nazionale; e questa presa di coscienza vale anche per l’Islanda, che nella seconda metà del XIX
sec. compie i primi passi verso l’autonomia e l’indipendenza dalla Danimarca.
Il Romanticismo tedesco è una fucina di idee e pratiche poetiche, ed è difficile riassumerlo
in poche parole. Diciamo che tra i principali momenti di elaborazione c’è il primo cenacolo di
scrittori e filosofi che si forma a Jena nel 1797, attorno alla rivista Athenäum dei fratelli Schlegel.
Qui troviamo ad esempio gli scrittori Novalis e Tieck e il filosofo idealista Friedrich Schelling, sulla
cui filosofia della natura diremo qualcosa tra poco, vista l’impronta che lascia nel romanticismo
scandinavo, e danese in particolare. Prevale tra questi scrittori romantici un carattere più speculativo
e filosofico, e nella loro poesia è centrale l’esperienza della nostalgia di infinito e assoluto. Dal
1804 è attivo a Heidelberg un altro gruppo di scrittori, che pone invece l’accento sugli aspetti
storici, sull’idea di nazione e sullo studio dell’identità nazionale attraverso la poesia popolare. Tra
questi ricordiamo, per l’importanza che il loro modello rivestirà in Scandinavia, i fratelli Grimm e
la loro raccolta di fiabe popolari.
Per Schelling l’arte è semplicemente la più alta forma di conoscenza, superiore anche alla
filosofia. E conoscenza non vuol dire per lui “dati di fatto” ma avvicinamento all’Assoluto. Questo
avviene perché l’arte riesce a unire e mediare tra Natura e Uomo, entrambe entità che hanno
un’essenza trascendente, che provengono dall’Assoluto e verso l’Assoluto (la loro origine) tendono.
L’arte è unione di oggettivo (la natura) e soggettivo (lo spirito dell’uomo); l’arte è un modo di
plasmare il mondo attraverso lo spirito. Altro motivo per cui la filosofia di Schelling è un
precedente importante per il Romanticismo scandinavo è la sua riflessione sui miti pagani (la
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mitologia classica). Secondo Shelling questa mitologia antropomorfa va vista come annuncio e
anticipazione del Dio che si fa uomo in Gesù. Dunque la prospettiva cristiana non deve escludere la
mitologia pagana, ma comprenderla in sé come prefigurazione. Tradotto in termini nordici, questo
vuol dire per i romantici cristiani scandinavi potere tornare – al fine della definizione del sé
nazionale – ad attingere a piene mani al passato antico nordico e alle suggestioni delle leggende e
dei miti germanici.
Il tramite diretto tra Romanticismo tedesco e Scandinavia è rappresentato dallo studioso di
scienze naturali Heinrich Steffens (1773-1845), nato da madre danese e padre tedesco, e residente in
Norvegia. Steffens soggiorna a Jena negli anni a cavallo tra XVIII e XIX sec. Conosce tutti i
romantici tedeschi, frequenta il loro cenacolo e stringe contatti con Schelling, aderendo alla sua
filosofia della natura. Tornato in Danimarca, divulga e trasmette queste sue fondamentali esperienze
in una serie di lezioni all’università di Copenaghen tra il 1802 e il 1803.
Tra gli altri segue queste lezioni il giovane Adam Oehlenschläger (1779-1850), colui che da
lì a poco diventa il primo grande poeta del romanticismo scandinavo. Egli esordisce infatti nel 1803
con la raccolta Digte (Poesie) che rappresenta uno spartiacque e una rivoluzione formale. Lo
scrittore supera nella sua versificazione il classicismo con le sue regole e i suoi canoni; egli è, in tal
senso, “legislatore di se stesso”. Questo precedente è importante: di fatto gli scrittori romantici
scandinavi sono prevalentemente poeti, e come tali propongono versi nuovi, o anche riprendono
versi “canonici” ma in modo libero e non vincolante. Le poesie di Oehlenschläger esprimono inoltre
un estro fantastico, un fascino esotico e un sentimento per la natura sconosciuti fino ad allora. Infine
il poeta ritorna all’antichità nordica e ne scatena il potere evocativo, pur leggendola entro una
cornice cristiana. Questo programma è messo in pratica in Guldhornene (I corni d’oro) (fot. 25-27),
la poesia-manifesto della raccolta e di tutto il romanticismo scandinavo. Oehlenschläger parte da un
contemporaneo evento di cronaca: i famosi corni d’oro di Gallehus, quelli che hanno incisa la più
antica iscrizione runica nota, vengono rubati al museo di Copenaghen e fusi per rivendere l’oro.
Spariscono, scandalosamente, per sempre (per fortuna erano state fatte riproduzioni dettagliate, il
che permise di rifare delle copie perfette, ancora oggi visibili al Nationalmuseet nel centro di
Copenaghen). Il poeta esprime certo la sua indignazione; ma va oltre: interpreta questi eventi come
emblema di un mondo contemporaneo interessato solo alla nuda materialità, incapace di
comprendere che i corni erano un segno che l’Assoluto aveva mandato all’uomo, affinché egli si
elevasse, trovasse in sé la scintilla divina, e comprendesse che tutto l’universo, dalla cosa più
piccola alla più grande, è permeato di divino. Polemica contemporanea, suggestione del mondo
antico nordico e tensione verso l’Assoluto si compenetrano in questa poesia, dove la lingua solenne
e aulica della traduzione italiana falsifica il tono più immediato dell’originale.
La poesia si apre con una tipica suggestione notturna, sepolcrale e “gotica”. Qualcuno è alla
ricerca spasmodica di un segno, nei pressi di resti che richiamano vecchi codici, pietre runiche,
armature guerriere. La passata grandezza del Nord non è solo un fatto storico, ma anche evocazione
di quella primordiale unità di terreno e divino, dell’età dell’oro in cui “il cielo era sulla terra”, cioè
l’uomo si trovava in una situazione edenica, non ancora scisso dalla sua origine divina. Gli dei si
radunano e deliberano per mandare un segno agli uomini che ricercano: c’è una chiara evocazione
dell’olimpo germanico e degli dei-guerrieri della Valhalla. Questi segni dell’età dell’oro, così viene
deliberato, verranno palesati agli uomini due volte; gli dei vi hanno incisi segni sacri. Il primo corno
sarà trovato da una giovinetta (nel 1639), e il secondo da un contadino un secolo più tardi (nel
1734). Il problema è che la massa, i molti, non cercano l’Assoluto ma la vile materia, l’oro in
quanto ricchezza e non in quanto segno divino. Quel segno è – dice invece il poeta – per i pochi che
sanno intendere, non asserviti alla materia, capaci di elevare la propria anima al cielo, di percepire
l’assoluto nella Natura, nelle sue manifestazioni piccole e grandi. È la filosofia di Schelling tradotta
in poesia. Infine il poeta-vate fa una profezia funesta: quei segni spariranno (in realtà si tratta di un
commento a fatti già avvenuti). La poesia si chiude significativamente con l’immagine del sangue
di Cristo (il sacrificio del Dio che si fa uomo, e che gli uomini non comprendono) che riempie,
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come coppe del sacro Graal, i due corni: la suggestione dell’antichità nordica viene compresa e
consacrata da una visione cristiana (cfr. a proposito le idee di Schelling sul mito pagano).
Oehlenschläger è uno scrittore prolifico. Oltre alla poesie scrivi drammi lirici e fiabeschi,
che rappresentano una tappa importante, tipicamente romantica, per l’evoluzione del teatro
scandinavo dopo la fondazione con l’illuminista Holberg. Nello spirito della romantica
Universalpoesie (f.lli Schlegel), che vuole fondere tutti i generi (ossia dissolvere le canoniche pareti
divisorie imposte ai “generi” dalla tradizione classicista), queste opere uniscono il testo
drammatico, la fiaba, la poesia e la musica. Qui Oehlenschläger può dispiegare il suo estro esotico.
Il suo più famoso dramma fiabesco è Aladdin (1805), tratto dalla materia orientale delle Mille e una
notte. Aladino è un eroe baciato dalla fortuna, genio naturale e sensuale che raggiunge la felicità
terrena, ma che alla fine impara anche a mediare tra la sua individualità e le regole della vita
comune. Tutta l’opera di Oehlenschläger, che diventa il poeta ufficiale della Danimarca della
Guldalder, “l’età dell’oro” della prima metà dell’Ottocento, unisce la vena lirica e fantastica a un
solido ottimismo borghese. Tra le sue numerose opere di ispirazione antico-nordica ricordiamo il
dramma Helge (1814), sul guerriero cui sono dedicati tre carmi dell’Edda.
Altro importante scrittore del Romanticismo danese, e uno dei padri fondatori della moderna
Danimarca, è il pastore e riformatore ecclesiastico N. F. S. Grundtvig (1783-1872). Animato da una
profonda religiosità, egli cerca di dare al suo paese delle risposte forti in un’epoca di rapidi
mutamenti e modernizzazione. La sua è una religiosità che contiene elementi legati al pietismo, ma
che è anche progressista, comunitaria e aperta, capace di guardare avanti e di interpretare il bisogno
di emancipazione spirituale e materiale delle classi meno abbienti alla luce del vangelo cristiano. Le
tre parole d’ordine di Grundtvig sono Dio, patria e popolo.
Affascinato dalle testimonianze della cultura e della letteratura germanica antica, Grundtvig
si propone di “portarle al popolo” con intento divulgativo e pedagogico. In una serie di opere a metà
tra il saggio critico e la poesia (1808-1811) reinterpreta in chiave cristiana l’antica mitologia
germanica. Dal 1818 al 1823 traduce inoltre in un danese moderno, colloquiale e accessibile al
popolo i monumenti delle letterature germaniche antiche: Gesta Danorum di Saxo Grammaticus,
opere di Snorri dal norreno e il Beowolf dall’antico anglosassone.
Grundtvig crede nella capacità del popolo danese di diventare soggetto, acquisire dignità ed
elevarsi attraverso la formazione e la cultura – una cultura che comprenda la conoscenza del Verbo,
ma non solo. Grundtvig fa partire un movimento di risveglio religioso in cui c’è la forte idea
dell’apostolato cristiano, e della capacità pedagogica di trasmettere “parole vive”. Mancano al
risveglio di Grundtvig la cupezza del pietismo e la sua astrazione dal mondo. È invece un
cristianesimo impegnato nel reale, progressista e propositivo. Il mondo non è “peccato” per i
grundtvighiani.
Grundtvig è anche un importante autore di salmi, raccolti tra il 1837 e il 1841 in Sang-Værk.
Anche questi inni hanno un tono immediato, corale e popolare. I due brevi testi (fot. 28)
esemplificano questi tratti: le immagini della passione e risurrezione di Cristo sono semplici e
comprensibili a tutti.
Negli anni Quaranta Grundtvig dà vita al progetto delle folkehøjskoler, le “università
popolari” che sono in realtà scuole per adulti. L’idea originaria è quella di collocare nelle campagne
delle istituzioni formative permanenti, dove i contadini potessero emanciparsi e acquisire rispetto di
sé attraverso la cultura, la conoscenza e le competenze pratiche. C’è anche un forte accento sul
patrimonio nazionale e sulla “danesità”. In questo senso il cristianesimo di Grundtvig si apre alle
istanze progressiste dell’età liberal-democratica (istruzione pubblica per tutti). Questa istituzione si
è poi diffusa in tutti i paesi scandinavi. Nella seconda metà dell’Ottocento il movimento
grundtvighiano (i seguaci si chiamavano tra loro venner, “amici”) si lega naturalmente, sul piano
politico, alle battaglie dei contadini e della Venstre.
Il movimento romantico svedese si forma qualche anno più tardi, attorno al 1810, e i suoi
centri maggiori sono Uppsala e Stoccolma. Sullo sfondo della perdita della Finlandia e del nuovo
ordine costituzionale (1809), anche il Romanticismo svedese mette al centro il problema patriottico
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e della definizione della propria identità nazionale; esalta l’antica eredità vichinga e si rivolge alle
testimonianze della letteratura popolare (ballate e fiabe), di cui comincia la raccolta sistematica
(così come avviene in Danimarca). Una parte del Romanticismo, ma non tutto, si pone in netta
opposizione all’età gustaviana, all’Accademia Svedese che ne è l’erede, e in generale ai valori
dell’Illuminismo. Riviste militanti e società letterarie veicolano le nuove idee. A Uppsala, dal 1810
al 1813, opera la rivista Phosphorus, promossa dal poeta e professore di estetica P. D. A. Atterbom
(1790-1855). Dal 1811 sono attive invece a Stoccolma la Götiska Förbundet (Società gotica) e la
sua rivista Iduna, con al centro lo scrittore Erik G. Geijer (1783-1847). Gli altri due importanti
autori sono Esaias Tegnér (1782-1846), professore di greco e di estetica all’università di Lund,
vescovo, personaggio in vista e vero poeta nazionale svedese della prima metà dell’Ottocento; e
infine Erik J. Stagnelius (1793-1823), il personaggio più umbratile e in disparte, sconosciuto in vita,
ma oggi considerato il più vivo e attuale tra i romantici svedesi.
Tegnér cerca di conciliare Romanticismo e Classicismo, anelito all’Assoluto e chiarezza del
pensiero, compostezza formale. Egli giudica positivamente l’eredità culturale dell’età gustaviana,
che per lui rappresenta un’irripetibile “età dell’oro”. La posizione ufficiale gli dà fama in vita;
diventa “vate nazionale” e la sua poesia assume spesso un’intonazione morale e civile, di chi è
coscienza e maestro della nazione. Il lungo poema Svea (scritto in due versioni: 1811 e 1818, prima
e dopo la conquista della Norvegia) tocca il punto dolente del sentimento patriottico: la perdita della
Finlandia. Il poeta esalta nostalgicamente (e con non poca retorica) l’eroico spirito vichingo
smarrito dagli svedesi di oggi, e incita (nella prima versione) al riscatto militare e a una pronta
riconquista della Finlandia. La solennità oratoria si esprime tra l’altro attraverso versi canonici
come gli alessandrini, anche se il contenuto evoca la materia antico-nordica.
Più interessante è la riflessione estetica e morale che lo scrittore svolge, con dizione pacata,
chiara e composta, in Det eviga (L’eterno, 1810) (fot. 32). Lo sfondo che implicitamente si
percepisce è l’epoca turbolenta delle guerre napoleoniche, e il destino di ascesa e caduta di
Napoleone stesso. Alla precarietà e transitorietà delle vicende umane e storiche il poeta contrappone
tre valori eterni: il vero, il giusto e il bello. È una ricerca romantica dell’Assoluto, una tensione
verso una dimensione di permanenza, contrapposta alla mutevolezza delle sorti umane. “Eterno”
vuol dire, in italiano come in svedese, 1) che si colloca oltre la prospettiva terrena, 2) che permane
nel tempo. Il vero, il giusto e il bello sono “eterni” sia perché rimandano a una dimensione
trascendente, sia perché non muoiono mai sulla terra, continuano in fondo ad agire nell’uomo,
anche se la storia può dichiararli perdenti. Al singolo spetta il compito di serbare i valori dentro di
sé, anche opponendosi al corso della storia, perché quei valori rimandano a un principio assoluto;
ma egli deve anche cercare di concretizzare quei valori nella storia. All’arte viene romanticamente
attribuito un valore conoscitivo primario; e il bello non è precario, bensì permane; e più invecchia
più è capace di “rinnovare il suo volto” ai nostri occhi.
Flyttfåglarna (Gli uccelli migratori, ca. 1812) (fot. 33) è una poesia tipicamente romantica
per la sua evocazione del mondo nordico, attraverso il volo degli uccelli che migrano dall’Egitto
alla calotta polare. Appare, con echi delle ballate, una natura animata di esseri soprannaturali, un
luogo magico e incantato. Romantico è il volo stesso, l’elevazione dalla terra, ma romantica è anche
la perenne condizione di nostalgia e mancanza (sv. längtan) che muove gli uccelli da sud a nord e
viceversa.
Tegnér ottiene un grande successo con il poema Frithiofs saga (1820-25), che riprende e
rielabora una saga islandese del tempo antico i cui fatti si svolgono in Norvegia. Quest’opera
diventa una delle letture favorite dell’Ottocento e una sorta di nuovo epos nazionale per gli svedesi
e anche per i norvegesi. Nel racconto riproposto da Tegnér la conciliazione cristiana prevale sulla
vendetta; le atmosfere antico-nordiche si incontrano con l’etica cristiana e gli ideali classici.
Dietro la facciata dell’immagine ufficiale, Tegnér vive un lato più cupo e malinconico che
emerge in alcune poesie più tarde, come Mjältsjukan (Malinconia, ca. 1830), e anche nel vasto
epistolario, il quale rappresenta per altro uno dei più importanti della letteratura svedese per la
riflessione estetica e morale che lo scrittore svolge con i suoi interlocutori.
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Anche Geijer e la sua “Società gotica” insistono sui temi patriottici e sulla rievocazione
degli eroici tempi antichi in chiave di costruzione dell’identità nazionale. Geijer scrive due famose
poesie speculari, Vikingen e Odalbonden (Il vichingo e Il libero contadino), per interpretare le due
facce complementari dello spirito antico nordico (ricordiamo le saghe islandesi: gli eroi vichinghi
padroni del mare erano, a casa loro in Islanda, pacifici contadini). Nelle due poesie di Geijer i
rispettivi personaggi parlano in prima persona e si raccontano, illustrando, da un lato, lo spirito
d’azione e la sete d’avventure, viaggi e imprese e, dall’altro, la vita radicata a contatto con i ritmi
della terra. Geijer è anche uno studioso di letteratura popolare. Tra il 1814 e il 1816 raccoglie e
pubblica, assieme a un altro scrittore, Afzelius, i canti popolari svedesi. Ispirato da questo genere,
compone lui stesso imitazioni di ballate, la più nota delle quali è Den lilla kolargossen (Il piccolo
carbonaio, 1814) (fot. 33-34). Ritroviamo qui alcuni elementi tipici già analizzati in Elverskud (fot.
13). Il bosco da attraversare, luogo magico e fatale abitato dai troll; l’attraversamento come prova e
momento di passaggio (un ragazzino deve raggiungere il padre che lavora nel bosco); la
stilizzazione del linguaggio; i ritornelli e le ripetizioni che scandiscono il narrato. Nell’ultima strofa
parla il padre, che indica nella salda fede in Dio l’antidoto contro ogni sortilegio e smarrimento.
Geijer è anche il maggiore storico di questa fase culturale, e pubblica tra il 1832 e il 1836
Svenska folkets historia (Storia del popolo svedese), un’opera tipicamente romantica per la sua
ideologia patriottica, tesa a individuare una serie di caratteristiche morali e caratteriali che
costituiscono l’identità svedese, e a delineare lo sviluppo organico e continuo di tale identità nel
corso della storia
Gli scrittori romantici svedesi sono prevalentemente conservatori dal punto di vista politico.
Geijer lo è fino al 1838, anno in cui cambia fronte e appoggia le richieste di riforme dei liberali e
dei democratici. Rompe con gli alleati di un tempo (Atterbom) e si impegna come giornalista e
politico per l’abolizione dei quattro stati nel Riksdag, l’allargamento del suffragio, le riforme sociali
e la lotta alla povertà e alle ingiustizie. È una svolta indicativa del mutamento di orizzonti attorno
agli anni Trenta e Quaranta, in cui ci si apre agli ideali di riforma e, in letteratura, ci si avvicina al
realismo e a un nuovo interesse per le questioni sociali.
Atterbom, animatore del cenacolo di Phosphorus a Uppsala (motivo per cui quella corrente
romantica viene detta dei “fosforisti”, mentre i seguaci della “Società gotica” di Geijer a Stoccolma
sono detti “goticisti”), è il più polemicamente anti-illuminista e anti-classicista, avversario
dell’Accademia Svedese, il più vicino all’Idealismo e al Romanticismo tedeschi. Conservatore in
politica, egli riveste similmente a Tegnér una posizione ufficiale e di spicco in quanto professore di
estetica e filosofia.
È anche lui principalmente poeta. Compone nel corso degli anni (1812-37) una serie di
quaranta componimenti chiamati Blommorna (I fiori), ognuno dei quali dedicati a un fiore – una
specie di programma linneano in poesia. La sua opera centrale è il dramma fiabesco in versi
Lycksalighetens ö (L’isola della felicità, 1824-27), che riprende la romantica fusione di dramma,
fiaba e lirica già inaugurata in Danimarca da Oehlenschläger. Nel Romanticismo tedesco (ad
esempio nell’opera di Novalis) assumono un nuovo significato anche i termini di “fiaba” e
“fiabesco”, a indicare una disposizione al sogno e alla visione oltre i criteri realistici e di
verosimiglianza, una liberazione dell’immaginazione oltre la gabbia della razionalità, al fine di
cogliere o almeno intuire l’essenza che è “oltre”. Questo tipo di concezione è ripresa da Atterbom
nel suo poema, che è ricco di fantasia, esotismo, divagazioni filosofiche e innovazioni formali. Su
questo immaginario romantico si sviluppa il tenue filo narrativo: re Astolfo vive 300 anni di
beatitudine sull’isola, in compagnia della sua amata Felicia, un’esistenza oltre i vincoli del tempo e
dello spazio, “fuori dal mondo”. Il problema si pone quando Astolfo deve rientrare nel tempo, nella
disprezzata, misera contemporaneità liberal-democratica: una repubblica costituzionale!
Notiamo la connotazione negativa di “realtà”, rispetto cui l’isola-poesia è rifugio. Questa
polarizzazione tra fiabesco e reale è espressa in nuce anche nella poesia Den nye Blondel (Il nuovo
Blondel) (fot. 34-35). Blondel è un poeta francese del XII sec., un “trovatore” della poesia cortese,
e il riferimento è spiegato dal tipo di fantasie ingenue che il poeta nutre da bambino in questa
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rievocazione autobiografica. Il poeta dichiara il primato della fantasia nella sua vita, dai tempi
dell’infanzia. Il suo fiabesco è fatto di nani, troll, fate, giganti, bosco, castelli, amor cortese, viaggio
in Oriente (crociata in Terra Santa?): un insieme stereotipato di immagini romantiche, che serve
certamente a interpretare lo stupore ingenuo del bambino con una spiccata disposizione fantastica.
La penultima strofa rende più problematica la rievocazione fiabesca; l’io lirico si chiede che
relazione abbia tutto questo con il presente. La fuga nella fantasia può lasciare a mani vuote. Ma
l’ultima strofa ribadisce la scelta del poeta, il suo legame prioritario con la “fedele fantasia”.
Atterbom va anche ricordato come l’autore della prima storia della letteratura svedese,
Svenska siare och skalder (Profeti e poeti svedesi, 4 voll. 1841-55), e per la descrizione del suo
viaggio in Europa Minnen från Tyskland och Italien (Ricordi dalla Germania e dall’Italia), risalente
al 1817-19 ma pubblicato postumo nel 1859.
Su Stagnelius, oggi considerato giustamente il più grande poeta romantico svedese, si hanno
pochi dati biografici certi. A differenza degli altri tre esponenti, egli rimane sconosciuto in vita e
conduce un’anonima e appartata esistenza come impiegato a Stoccolma. La sua breve vita (muore a
30 anni) è segnata dalla malattia e dall’abuso di alcol (e forse d’oppio). Pubblica in vita poche opere
– alcuni drammi in versi e una raccolta di poesie – che non destano particolare attenzione. La
scoperta sensazionale della ricchezza della sua poesia si ha dopo la sua morte, quando vengono
pubblicati gli “scritti completi” (Samlade skrifter, 1824-26).
La poesia di Stagnelius è ricca di simboli, miti, rappresentazioni religiose e filosofiche. È
una poesia complessa, densa e dotta, ricca di reminiscenze classiche. Stagnelius conosce bene il
latino e traduce anche alcuni poeti classici. C’è inoltre in lui una forte componente teologica e
platonica. La realtà fisica si è scissa dal principio divino, e il poeta è mosso da un anelito struggente
a superare il mondo, a svincolare l’anima dalla materia e dalla prigione della carne per permetterle
di ricongiungersi a Dio. Eppure vi è, parallelamente, una componente sensuale ed erotica che invece
mette al centro il corpo e la fisicità. Nonostante la sua complessità e anche contraddittorietà, la
poesia di Stagnelius colpisce per la sua autenticità e immediatezza esistenziale. Il suo romanticismo
struggente è tutto vissuto. E proprio la sua scissione e il suo spleen rappresentano gli aspetti di
maggiore modernità.
Tra le molte poesie famose, diverse (ben quattordici) sono dedicate a una donna amata (vera
o immaginata) di nome Amanda. Amanda (fot. 35) rappresenta un compenetrarsi di esperienza
sensibile e di tensione trascendente. Amanda è nel mondo, nella sua bellezza; tutto nella natura
suscita il desiderio di lei. Eppure Amanda è anche un tramite, una donna angelicata, un essere
superiore e celeste che al poeta pare irraggiungibile. Il poeta sottolinea la sua mancanza e la sua
nostalgia: i fiumi si gettano nel mare; le anime si ricongiungono con Dio – solo io sono separato per
sempre dalla meta del mio anelito (una meta immanente e fisica? Trascendente e spirituale?
Entrambe le cose?). L’animo notturno, solitario e disperato di Stagnelius è espresso da Till natten
(fot. 36), un’invocazione “alla notte”. La notte è la liberatoria negazione del giorno, che infligge al
poeta solo ferite e sofferenza. Nella notte si dissolvono i confini netti e chiari delle cose, gli spigoli
duri della realtà. Eppure non è sempre stato così. L’aurora era “un tempo” fonte di gioia e di
speranza. Nel suo struggimento senza veli, il poeta vede nella notte un augurio e una prefigurazione
della notte eterna, la morte che finalmente lo liberi.
Il Romanticismo norvegese si sviluppa qualche anno più tardi rispetto a quanto avviene
negli altri due paesi. La premessa per potere cominciare a ragionare su un’identità nazionale
autonoma è – come sappiamo – la costituzione di Eidsvoll del 1814. La Norvegia esiste ora “sulla
carta”, ma è di fatto tutta da costruire. Le piccole élites culturali norvegesi si trovano di fronte un
compito non facile: creare una cultura, una letteratura e perfino una lingua veramente nazionali,
dopo oltre quattro secoli di dominazione danese. Il loro problema centrale può essere formulato in
questi termini: ogni identità nazionale forte ha bisogno di una tradizione e di una continuità cui
rifarsi (“l’organismo” romantico). Dove trovare questo “filo” se si prescinde dall’elemento danese?
E si può prescindere dall’elemento danese?
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Finalmente Christiania ha, dal 1813, una propria università. Ma si tratta di costruire ogni
cosa dalle fondamenta. Il Romanticismo in Norvegia dà perciò i suoi primi frutti più tardi, tra gli
anni Trenta e Cinquanta. Questo vuole anche dire che in Norvegia il Romanticismo tende più
facilmente a incontrarsi con le istanze liberali e democratiche e con l’interesse per le questioni
sociali, che caratterizzano il passaggio dal Romanticismo al Realismo di metà Ottocento. Tutti i
romantici norvegesi sono, in quanto fedeli alla costituzione di Eidsvoll e allo Storting, politicamente
liberali e democratici.
Attorno al 1830 comincia la polemica culturale e letteraria che oppone i primi due scrittori
di spicco della Norvegia moderna. Al di là della polarizzazione e degli scontri, questo implica un
momento di crescita; un dibattito interno e nazionale è possibile. Henrik Wergeland (1808-45) e
Johan Welhaven (1807-73) sono entrambi liberali e patriottici. Del Romanticismo condividono i
presupposti culturali, ma hanno temperamenti diversi, modi diversi di interpretare il ruolo dello
scrittore, e infine diverse opinioni riguardo alla questione dell’identità nazionale. Secondo
Wergeland bisogna rompere radicalmente con la passata eredità culturale danese se si vuole creare
un’identità autenticamente norvegese. Secondo Welhaven, invece, la tradizione danese continua a
essere importante per i norvegesi; è un filo che non si può recidere, anche perché è quello che
collegherebbe la Norvegia alla cultura europea. In poesia Wergeland assomiglia più al tipo del
“genio” romantico. È un maggiore talento poetico, ha più coraggio nelle innovazioni formali: il
genio crea le sue regole e la sua creatività non può essere ingabbiata da norme e tradizioni.
Welhaven preferisce esprimere i suoi temi romantici (la nostalgia, lo sguardo sulla natura, il valore
dell’arte, l’appartenenza nazionale) attraverso forme più classiche, armoniose e composte, e anche
facendo affidamento sulla ragione e la chiarezza di pensiero. I due fronti di questo dibattito, tanto
estetico-letterario quanto sociale-culturale, assumono i nomi di norskhetspartiet o patrioterne (“il
partito della norvegesità” o “i patrioti”) da un lato, e intelligenspartiet o danomanerne (“il partito
dell’intellighenzia” o “filodanesi”) dall’altro.
In vita è Welhaven a raccogliere il maggiore consenso. Nel suo ciclo di sonetti Norges
Dæmring (L’alba della Norvegia, 1834) egli attacca satiricamente, attraverso una forma poetica
tipicamente classica e compiuta, il provincialismo, l’arretratezza e la chiusura di certo patriottismo
norvegese. Ma nel corso dell’Ottocento sarà poi Wergeland, più osteggiato in vita, a rappresentare
in Norvegia il modello del moderno nasjonalskald, il poeta nazionale: cioè lo scrittore impegnato
nella vita pubblica, poeta ma anche giornalista, oratore e politico, sostenitore della patria, dei valori
norvegesi e della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. È evidente che Wergeland è
lontano dall’atteggiamento di fuga dalla realtà che pure abbiamo trovato in altri scrittori romantici.
Eppure anche nell’opera poetica di Wergeland troviamo un tratto religioso e mistico, la tensione
verso l’Assoluto. La sua opera più imponente è il lunghissimo poema del 1830 Skabelsen,
Mennesket og Messias (La creazione, l’uomo e il Messia), in cui, fondendo platonismo e racconto
biblico, si narra della storia dell’uomo dalle sue origini (la caduta nel mondo, la scissione dal
principio divino) fino alla venuta di Cristo. Un’altra sua opera da ricordare è la raccolta di prose e
poesie Jan van Huysums Blomsterstykke (Il vaso di fiori di Jan van Huysum, 1840), dedicate alla
riflessione sull’arte e sulla poesia.
Le due poesie incluse nella selezione antologica (fot. 36-37) rivelano la sensibilità romantica
di entrambi questi autori, la loro effettiva vicinanza al di là delle contrapposizioni. Si tratta di poesie
lontane dalle polemiche, dove prevale un tono intimo e riflessivo. Til min Gyldenlak (Alla mia
viola) di Wergeland è scritta durante la sua malattia, poco prima della prematura morte. Il confronto
con la morte, il commiato dalla terra, la caducità del corpo e la vita eterna dell’anima sono temi
“grandi”, svolti qui con estrema semplicità, in tono quasi dimesso. Il poeta sa di dovere lasciare la
vita sulla terra, ma abbandona con nostalgia e a malincuore la sua bellezza, tradizionalmente
rappresentata dai fiori; le porge un ultimo omaggio. In En Vaarnat (Una notte di primavera) di
Welhaven troviamo il poeta che rivolge la sua attenzione alla natura di casa che lo circonda.
L’atmosfera notturna lo dispone alla percezione del fluire delle cose (il fiume, le nuvole ma anche la
vita). Egli si apre al ricordo, la vita gli scorre davanti, sente Længsel, nostalgia. È un romantico
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incontro tra soggettivo e oggettivo, tra spirito e natura. Il paesaggio reale delle valli e dei fiordi si
carica del vissuto del poeta e diventa un “paesaggio dell’anima”.
Le opere di Wergeland e Welhaven si inseriscono in un vasto, fondamentale movimento di
risveglio nazionale. Se la lunga parentesi danese rappresenta un filo spezzato, si cerca di
ricongiungersi in altro modo alla propria storia e alla propria identità. Ci si può ricollegare al grande
passato medievale del regno norvegese; e allora si ritraducono in lingua moderna (ancora il danese!)
le saghe dei re di Snorri nello Heimskringla (1838/39). Un altro modo è cercare di trovare il filo più
“sotterraneo” della norvegesità nella cultura orale e popolare, che dopotutto era sopravvissuta
ininterrottamente anche durante i secoli “danesi”. In questo senso assumono rilievo centrale per la
Norvegia l’elaborazione romantica del concetto di poesia popolare (Herder, fratelli Grimm) e lo
studio e la raccolta dei generi anonimi, come le fiabe e i canti popolari. Qui, nel popolo, va cercato
il seme della norvegesità, come “al di sotto” della cultura libresca e amministrativa che invece è
sempre stata danese.
La più importante raccolta scandinava di fiabe popolari, quella che più ripercorre il progetto
dei fratelli Grimm con Kinder- und Hausmärchen (Fiabe per bambini e domestiche, 1812-22), è
Norske Folkeeventyr (Fiabe popolari norvegesi, 1841-44), di Peter Christen Asbjørnsen (1812-85) e
Jørgen Moe (1813-82). Asbjørnsen e Moe raccolgono materiale popolare orale di tutta la Norvegia,
lo trascrivono, lo elaborano letterariamente e lo pubblicano. Essi danno così dignità letteraria a una
forma semplice e popolare, che rivela, secondo la visione romantica, il carattere nazionale più
autentico e profondo. In questo processo di trasposizione i due etnografi e scrittori non possono
eludere il problema linguistico, poiché i narratori popolari che forniscono loro il materiale parlano
in dialetto norvegese (ognuno nel suo) e non certo in danese. Trasporre in lingua letteraria, per
quanto semplice e popolare, vuol però pur sempre dire tornare al danese, anche se Asbjørnsen e
Moe cercano di adattarlo alla parlata norvegese, inserendo anche parole ed espressioni locali.
È evidente che la contraddizione, per la visione romantica, rimane: come si può rivendicare
l’autenticità norvegese di un patrimonio di racconti, se poi non si ha neanche una lingua propria
nella quale scriverli? Prima quindi di analizzare una fiaba di Asbjørnsen e Moe nei suoi interessanti
aspetti strutturali e tematici, cerchiamo di capire come si cerca intanto di risolvere, nella Norvegia
di metà Ottocento, il problema dell’identità linguistica.
Il linguista Ivar Aasen comincia nel 1841 a girare la Norvegia. Raccoglie prove cospicue del
legame tra i molti dialetti del paese, specialmente quelli occidentali, e l’antico norreno, la gloriosa
lingua medievale delle saghe ora sopravvissuta solo in Islanda. Nasce così il suo grandioso
progetto: creare ex novo, sulla base dei dialetti norvegesi, una specie di koinè, una lingua comune
norvegese che li sintetizzi, che possa costituire un comune denominatore, arrivando così a quella
moderna lingua autenticamente norvegese diversa dal danese. Aasen espone i suoi risultati e il suo
progetto nel 1853 in Prøver af Landsmaalet i Norge (Saggi della lingua del paese in Norvegia).
Ha origini qui, da questo problema che la cultura nazionale romantica di metà Ottocento
pone, il bilinguismo norvegese tuttora esistente. Da una parte la lingua proposta da Aasen prende
piede e si sviluppa, chiamandosi landsmål (lingua del paese) oppure nynorsk (neonorvegese).
D’altra parte il dano-norvegese continua a essere la lingua scritta e parlata dalla grande
maggioranza della popolazione, anche se la presenza del dialetto rimane forte nel parlato. Il dano-
norvegese, detto riksmål (lingua del regno, cioè dell’amministrazione) oppure bokmål (lingua
libresca), è, in quanto lingua scritta, un’evoluzione del danese che cerca di distinguersi, anche
attraverso una serie di riforme ortografiche nel corso del XIX e XX sec., dalla lingua madre (per
quanto riguarda la fonetica, invece, il bokmål è molto più vicino allo svedese). Oggi il quadro è
molto composito. Entrambe le lingue sono ufficialmente riconosciute come lingue nazionali; e le
differenze tra loro non sono poi così grandi. Possiamo dire che il nynorsk è usato da circa il 15%
della popolazione e il bokmål dall’85%. Chi parla dialetto può sentire che il nynorsk si avvicini di
più alla propria identità linguistica, e allora lo adotta nella lingua scritta (sebbene sia difficile che
egli parli il nynorsk – parlerà più facilmente il proprio dialetto). D’altra parte anche il bokmål più
“progressista” tende ad avvicinarsi al nynorsk e ad assumere, anche nello scritto, forme dialettali e
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non danesi. Diciamo che la comunità linguistica norvegese ha un senso molto spiccato della
diversità e della tolleranza reciproca. È molto difficile perciò, nonostante si tratti di cinque milioni
scarsi di parlanti, trovare regole uniformi. Per contro i norvegesi sono, tra gli scandinavi, quelli che
con più facilità e apertura mentale si accostano alla comprensione dello svedese e del danese,
allenati come sono da sempre al pluralismo linguistico.
La percentuale tra le due lingue norvegesi vale indicativamente anche per gli scrittori del
tardo Ottocento. In maggioranza essi scrivono in bokmål (ad esempio Ibsen e Hamsun). Ma il
radicamento del nynorsk non sarebbe stato possibile se alcuni scrittori, come Vinje e Garborg, non
lo avessero adottato, rendendolo strumento letterario vivo, duttile e moderno. Lo stesso discorso
vale per il Novecento, ed è così ancora oggi.
La fiaba di Asbjørnsen e Moe sul ragazzo che andò dal vento del nord (fot. 37-38) è un
esempio delle “leggi” che governano questa forma semplice di racconto. Essa presenta strutture
fondamentali, che paiono essere universali, ricorrenti cioè nelle fiabe di tutti i popoli. Il russo
Vladimir Propp ha proposto nel suo classico studio Morfologia della fiaba (1928, ed. it. Einaudi) un
numero fisso di funzioni (31) e di personaggi (7) che dovrebbero costituire una sorta di
“grammatica” universale della fiaba. Alcune importanti funzioni che ricorrono sempre sono il
“danneggiamento”, che provoca una “mancanza”, e che innesca una “ricerca”, fino alla “rimozione
della mancanza”. Tra i personaggi troviamo “l’eroe”, “l’antagonista”, “il falso antagonista” e “il
donatore del mezzo magico”. Sono tutti elementi che ricorrono nel nostro brano. Il vento del nord
provoca al ragazzo una mancanza. Costui si rivela però solo un falso antagonista, egli è anzi colui
che dona i tre mezzi magici (tovaglia, caprone e bastone) che devono aiutare il ragazzo, l’eroe, a
risarcire la sua mancanza. I veri antagonisti sono l’oste e sua moglie, che al terzo tentativo di truffa
vengono colti in fallo, puniti e privati del maltolto. L’eroe ha rimosso la sua mancanza e portato
felicemente a compimento il suo percorso. Un altro studioso di fiabe, lo svizzero Max Lüthi (La
fiaba popolare europea, 1947, ed. it. Mursia), osserva inoltre come le fiabe abbiano sempre uno
“sviluppo lineare”: il viaggio e la ricerca sono sempre esteriori, posti sul piano dell’azione; naturale
e soprannaturale sono anche loro sullo stesso piano lineare, c’è tra loro un contatto senza sorpresa.
Le fiabe, come altri racconti antichi e forme semplici, hanno spesso dei numeri di antico valore
simbolico e magico: 1, 2, 3, 7, 12, 100… Nella fiaba, osserva sempre Lüthi, essi diventano una fissa
formula compositiva che scandisce lo sviluppo lineare del racconto: qui tre volte il vento disperde la
farina; tre volte esso dona un mezzo magico al ragazzo; e tre volte gli osti tentano di soffiarglielo.
La linearità dell’azione vuole anche dire, osserva infine Lüthi, assenza di profondità. Proprio in
questo consistono la grandezza e l’universalità della fiaba popolare: la fiaba (un po’ come la ballata)
può rappresentare tutti i motivi fondamentali dell’esistenza umana, proprio perché li svuota di
contenuto e li stilizza. Qui abbiamo i motivi del cibo e della fame, della povertà e dell’opulenza
(ovvio riflesso di una millenaria condizione reale delle società contadine e, in particolare, del
problema climatico che le società contadine nordiche hanno dovuto sempre affrontare); altrove
abbiamo l’amore e il matrimonio, la perdita e la conquista. Per una fiaba popolare non è tanto
importante descrivere come e perché l’eroe si innamori della principessa. Non si tratta tanto di
descrivere i suoi sentimenti, è essenziale invece che il sentimento sia trasposto sul piano lineare
dell’azione: che egli voglia raggiungerla e sposarla, affinché tutti possano vivere “felici e contenti”
(rimozione della mancanza d’amore). I sentimenti e le esperienze reali vengono come svuotati del
loro contenuto, e stilizzati in una forma che in questo modo diventa universale.
Queste riflessioni sulla struttura ricorrente della fiaba popolare ci servono non solo per
capire il testo di Asbjørnsen e Moe, ma anche per “preparare il terreno” a una riflessione che
svolgeremo tra poco a proposito delle fiabe “d’autore” di Hans Christian Andersen: fino a che punto
esse traggono spunto dalle fiabe popolari, e in che senso invece esse contraddicono le loro “leggi
universali” che Propp e Lüthi hanno messo in luce?
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ANDERSEN, KIERKEGAARD E LA LETTERATURA DI META’ OTTOCENTO TRA


ROMANTICISMO E REALISMO

Hans Christian Andersen (1805-75) nasce a Odense, in Danimarca, da una famiglia molto povera.
Da giovane fa esperienza della miseria, ma anche dell’affrancamento dalla povertà grazie al proprio
talento artistico. Adottato e sostenuto negli studi e nei viaggi da famiglie borghesi di Copenaghen,
Andersen conosce l’ascesa sociale e il successo. In realtà resta una persona che si porta dentro le
ferite del suo passato. È insicuro, egocentrico e perfino esasperante; ha bisogno di emergere e di
sentirsi accettato. Nei salotti borghesi che frequenta si sente protetto, ma anche ingabbiato. È in
fondo una persona sola, che trova difficile instaurare relazioni personali e legami affettivi profondi
(il cliché lo vuole “brutto anatroccolo” ed eterno scapolo). In tutto questo, l’esperienza del viaggio è
liberatoria per Andersen: una salutare apertura di orizzonti. Ed è centrale in particolare l’esperienza
dell’Italia. Può darsi che Andersen veda soprattutto l’Italia “da cartolina”, così come a metà
Ottocento la può vedere un nordico (uno dei molti) con il mito della solarità mediterranea e della
vivacità meridionale. Ma Andersen, disegnatore oltre che narratore, sa anche cogliere con acume i
paesaggi, le situazioni e la vita del popolo minuto. Oltre alle fiabe, Andersen scrive molto di sé, e
tende a rappresentarsi come quello baciato dalla fortuna, la cui vita è una fiaba, il poverello
diventato famoso, colui che ha saputo elevarsi grazie al suo talento. Questa immagine emerge ad
esempio nell’autobiografia Mit Livs Eventyr (La fiaba della mia vita, 1855). In realtà tale
autorappresentazione è significativa più per quello che cela che per quello che dice.
È importante avere qualche nozione della vita e della personalità di Andersen non perché
queste siano di per sé più interessanti della sua opera, ma perché la sua opera, i testi che leggiamo,
sono anche una rielaborazione del vissuto personale di Andersen, un modo – seppure indiretto e
comunque filtrato attraverso una grande arte – di scriversi.
Andersen si forma nella cultura romantica danese della Guldalder. La sua ambizione è da
subito quella di vivere come poeta e cimentarsi con i generi letterari maggiori. Debutta nel 1829 e
scrive poesia, drammi e descrizioni di viaggio. Negli anni Trenta e Quaranta si afferma soprattutto
come prosatore e narratore, con dei romanzi che pure rielaborano le esperienze di viaggio. Il primo
viaggio attraverso l’Europa e fino all’Italia è del 1833/34, e nel 1835 appare il romanzo
Improvisatoren (L’improvvisatore). Il secondo viaggio, sempre con l’Italia come meta finale, è del
1840/41, e nel 1842 esce il romanzo En Digters Bazar (Il bazar di un poeta). Questo passaggio dalla
poesia alla prosa, che Andersen sperimenta in prima persona, è anche un dato significativo di questa
fase storico-letteraria nel suo complesso: verso la metà dell’Ottocento i generi in prosa e il romanzo
cominciano ad affermarsi anche in Scandinavia. Il Realismo di metà Ottocento si realizza anche
attraverso questo avvicinamento alla prosa (e alla prosaicità/quotidianità della vita).
È tuttavia indubbio che Andersen esprima il suo genio di narratore e il suo estro fantastico
nel genere “minore” delle fiabe. La cosa non rientra nei suoi piani, avviene quasi per gioco e per
caso. Scrive in tutta la sua vita, dal 1835 al 1872, 156 fiabe o “storie”, che sono pubblicate un po’
per volta in piccole raccolte o anche sui giornali. Si tratta in realtà di racconti di diversi tipi, non
sempre fiabe, e non sempre fiabe per bambini. Andersen stesso è consapevole di questa varietà dei
suoi racconti brevi. I diversi titoli che le raccolte assumono sono indicativi: Eventyr fortalte for
Børn (Fiabe raccontate ai bambini), poi semplicemente Eventyr, poi ancora Eventyr og Historier. La
selezione di fiabe proposta nel programma intende proprio dare un’idea della varietà della “fiaba” di
Andersen.
Anche la familiarità con le fiabe è comunque un indice delle radici romantiche della cultura
di Andersen. Nel precedente capitolo abbiamo incontrato almeno due accezioni di “fiaba”: la fiaba
popolare e anonima, “forma semplice” di racconto (Grimm, Asbjørnsen e Moe), e il concetto di
“fiabesco” come disposizione del poeta alla visione e al sogno, che lo svincoli dai limiti del
razionale e del mondo sensibile, e gli permettano di tendere a un essenza che è oltre la parvenza del
reale (Novalis, Atterbom). Le fiabe di Andersen sono di un altro tipo ancora. Non sono fiabe
popolari, anche se da queste traggono spesso il tema e la struttura compositiva; le fiabe di Andersen
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non sono né anonime né semplici, bensì un’espressione molto individuale e complessa. Si diceva
della forte componente di proiezione autobiografica; e se è vero che Andersen è una personalità
complicata, anche le sue fiabe risulteranno complesse e ambivalenti – in questo senso molto diverse
dalle fiabe tipicamente “lineari”, essenziali e univoche della tradizione popolare. Ma non per questo
esse si perdono nella vaghezza del sogno e nella visione. Sono sempre tremendamente concrete e
nitide, anche quando descrivono sogni e visioni, e hanno d’altra parte la capacità di infondere il
“fiabesco” anche negli oggetti più umili e prosaici della realtà.
Il tenace soldatino di stagno (fot. 29-30) contiene proprio questo classico “numero” delle
fiabe di Andersen: l’umanizzazione fiabesca degli oggetti della realtà quotidiana. Analizzando più
da vicino tale aspetto ci rendiamo conto della finezza e complessità dell’arte narrativa di Andersen.
Il narratore è impegnato in un costante gioco ironico e autoironico; da una parte egli umanizza gli
oggetti (il soldatino di stagno vive, sente e pensa), infonde il fiabesco nel reale; al tempo stesso ci
rivela continuamente che il mondo reale da lui rappresentato attorno al soldatino di stagno (la donna
di servizio, il bambino, i monelli di strada) non sono in grado di vedere il fiabesco, poiché è solo
l’atto del narratore a infondere anima nell’oggetto di stagno. Il fiabesco nega ironicamente se
stesso: è ovvio che un soldatino di stagno non può parlare ed esprimere sentimenti. Eppure la fiaba
si regge su questo: il percorso del soldatino di stagno rimanda alla fiaba popolare: egli vuole sposare
la sua principessa, e compie un percorso che alla fine lo riconduce (sta per ricondurlo) a lei. D’altra
parte lui non fa proprio niente, non può muovere un dito, è vittima degli eventi, è mosso dal caso. E
gli eventi si mostrano alla fine arbitrari e assurdi. Un gesto insensato di un bambino fa “morire” il
tenace soldatino di stagno e la sua amata, la ballerina di carta. Nella fiaba popolare, dice Lüthi, il
fiabesco e il reale sono sullo stesso piano, e il loro contatto avviene senza sorpresa. Qui la tragica
ironia è che fiabesco e reale non sono affatto comunicanti. C’è una realtà brutale che si scontra con
l’intenzione fiabesca del narratore. Ancora, Lüthi dice che la fiaba popolare è svuotata di contenuti
psichici ed emotivi, è pura azione, priva di dimensione profonda. Nella fiaba di Andersen c’è al
contrario un appello fortissimo all’emotività e ai sentimenti, e una decisa assunzione del punto di
vista del soldatino; il soldatino si innamora; egli è, nella sua immobilità, “tenace” e ben ritto
sull’attenti. Vorrebbe piangere lacrime di stagno, vorrebbe parlare.
È così “per bambini” Il tenace soldatino di stagno? Da un certo punto di vista sì: è una fiaba
fatta apposta per catturare immediatamente la loro attenzione. I bambini hanno una grande
esperienza di “gioco simbolico”, di umanizzazione di oggetti inanimati, che essi caricano del loro
vissuto interiore, imparando così ad esprimersi. Ma il percorso lineare della tipica fiaba popolare
sarebbe poi più facilmente comprensibile e gratificante per il bambino, che vuole vedere risolta la
mancanza da cui la fiaba parte. Qui c’è invece un percorso tragico, di morte, di assurdità e crudeltà
della vita; l’esperienza dell’essere in balia di qualcosa che è più forte di noi, e non si cura affatto
delle nostre speranze e aspettative per quanto noi ci sforziamo di essere tenaci.
In questo senso le fiabe di Andersen rivelano un’esperienza complessa, che forse solo gli
adulti sono capaci di razionalizzare e, così, reggere.
Andersen è credente e fiducioso nella provvidenza divina. E in alcune fiabe ciò che salva i
protagonisti dalla tragedia è l’ascesa al cielo e l’abbraccio con Dio. In fiabe come La sirenetta, Le
scarpette rosse e La bambina dei fiammiferi possiamo riflettere sulla collisione tra un desiderio
terreno (l’amore, la bellezza, lo sfamarsi) e il desiderio di Dio. A volte si ha la sensazione che
l’ascesa al cielo sia una compensazione di una realtà troppo crudele. E che Andersen tenda a
reprimere la sessualità sublimandola nell’abbraccio con Dio. Ma la potenza ribelle dell’eros si
manifesta comunque (è una possibile chiave di lettura per Le scarpette rosse). La sirenetta vive
nell’acqua e anela al mondo degli uomini: sia perché si è innamorata del principe e lo vuole sposare,
sia perché sa che solo sposando un umano le sirene possono acquisire un’anima immortale e salire
in cielo. Anche lei è una creatura romantica sempre mossa da Længsel, nostalgia; sott’acqua vuole
essere sulla terra, e sulla terra ha nostalgia delle sue sorelle e della sua famiglia. Raggiunge infine
l’anima immortale, ma a prezzo di quali sofferenze? E il principe ha sposato l’altra.
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La personificazione di animali e oggetti è, come detto, un “pezzo forte” delle fiabe di


Andersen: Il tenace soldatino di stagno, L’ago del rammendo, Il vecchio lampione, e ovviamente Il
brutto anatroccolo. Ne Il brutto anatroccolo possiamo leggere l’aspetto autobiografico: la vera
natura del cigno, prima misconosciuta e infine vittoriosa, sarebbe una figura traslata del talento del
poeta. Eppure tutta la fiaba, nonostante il suo happy end, è costellata di prove dure e solitudine. In
questa fiaba ricorre tra l’altro una contrapposizione simbolica tra animali che spesso troviamo in
Andersen: da una parte ci sono gli uccelli saggi e simpatici, quelli che migrano e sanno volare alto,
conoscono il mondo e sanno vederlo in prospettiva; dall’altra parte ci sono gli ottusi animali
dell’aia, sempre chiusi nel loro recinto, stolti e pettegoli.
Uno dei racconti più singolari e sconcertanti di Andersen (inserito apposta tra le letture) è
L’ombra, che difficilmente riusciamo a definire una “fiaba”. È il racconto di un uomo che dal Nord
si stabilisce in una città meridionale, dove una sera avviene che la sua ombra si stacca da lui e
assume una personalità propria. È un racconto dall’esito paradossale: l’ombra è diventata forte e
importante, mentre l’uomo senza ombra si è come spento e ingrigito. Alla fine l’ombra (cui
effettivamente manca un’ombra per essere uomo vero) chiede al suo ex padrone di diventare la sua
ombra… In psicanalisi si parla di “doppio” a indicare la parte di noi più oscura e incontrollabile,
che prende forma. Ma non è detto che si debba interpretare così l’ombra. Rimane un racconto
misterioso e di difficile interpretazione.
Altre volte, specialmente nelle fiabe dei primi anni, Andersen riprende temi e modi della
fiaba popolare. Ne L’acciarino e Il piccolo Claus e il grande Claus troviamo i tre episodi che
scandiscono il racconto, la presenza dei “mezzi magici”, il percorso portato felicemente a
conclusione dall’eroe, anche se Andersen li capovolge poi con uno humour beffardo, bizzarro e
sovversivo (basta vedere come il soldato “ringrazia” la donatrice del mezzo magico, l’acciarino).
Fortunatamente non c’è solo tragedia nelle fiabe di Andersen, ma anche ironia, scherzo e
humour. Un classico esempio è La principessa sul pisello, una “vera” principessa perché riesce a
dormire male e a sentire il fastidioso pisello sotto la schiena anche se tra schiena e pisello c’è una
colonna di venti materassi più venti piumini. E soprattutto I vestiti nuovi dell’imperatore, storia di
due burloni che vanno alla corte del re, promettendo di tessere un vestito di un filo magico, per cui
l’indumento risulta invisibile agli stupidi e agli scansafatiche. Nessuno a corte, né i funzionari né il
re, osano confessare di non vedere niente. E dunque la finzione va avanti come se niente fosse. I
duo burloni tessono il nulla, e il re finisce per andare in processione nudo. Anche il popolo finge.
Finché la voce del bambino innocente, che esclama “il re è nudo!”, non smaschera l’ipocrisia del
potere e la sua pompa magna.

Nella Danimarca di metà Ottocento si colloca l’opera di un altro scrittore di statura mondiale, il
filosofo Søren Kierkegaard (1813-55). In Kierkegaard filosofia, teologia e letteratura si implicano a
vicenda. La sua riflessione sull’esistenza rimanda a un imprescindibile rapporto tra uomo e Dio; e
come filosofo Kierkegaard è un fine letterato, capace di usare le figure del linguaggio, le strutture
narrative e il patrimonio della letteratura universale (soprattutto i classici greci e latini, Shakespeare,
Goethe e i romantici tedeschi) come strumenti del suo percorso di conoscenza. Anche in questo caso
alcuni essenziali dati biografici ci aiutano a capire l’origine personale di certi temi sviluppati
dall’autore. Kierkegaard nasce e vive tutta la vita nella capitale Copenaghen. Ha una relazione
molto forte, ma anche sofferta con il padre, un ricco commerciante proveniente dallo Jylland e
animato da una severa fede cristiana. Giovane scrittore e pensatore di talento, Søren si fidanza con
la borghese Regine Olsen, che ama. Regine e la sua famiglia amano lui. Ma dopo un anno (siamo
tra il 1840 e il 1841) egli decide unilateralmente di rompere il fidanzamento. Convinto di essere
diverso dagli altri, e di dovere destinare la sua vita alla missione cristiana, Kierkegaard si considera
“morto a questa vita”: rinuncia sia al matrimonio sia alla possibilità del lavoro come pastore. E
avendo ereditato dal padre una cospicua somma, dedica la sua vita alla scrittura.
Non sorprende così che alcuni concetti-chiave attorno cui ruota la “filosofia dell’esistenza”
di Kierkegaard siano l’irriducibile individualità del Singolo (hin Enkelte) e la scelta di vita che egli
48

è chiamato a compiere. E il problema della sua personale scelta è sempre sullo sfondo dei pensieri
di Kierkegaard, con un continuo, sofferto interrogarsi tra: “ma avrò fatto bene a morire a questa
vita?” e “sì, Dio ha voluto per me un’altra missione”. Per Kierkegaard la filosofia non si pone come
conoscenza oggettiva che possa prescindere dal soggetto, dalla singola irripetibile esistenza. La
riflessione sull’esistenza deve partire dalla propria.
Kierkegaard è un personaggio solitario che vive in polemica con il suo mondo. Critica la
filosofia di Hegel e degli hegeliani per la loro idea di conoscenza oggettiva, fondata su un sistema di
pensiero che ordina logicamente tutto l’universo. Se lo “spirito assoluto” regola il corso della storia
e la vita dell’uomo, il Singolo dove va a finire? Un’altra dura polemica che impegna Kierkegaard è
contro il cristianesimo di facciata e di consuetudine, cui contrappone una concezione intransigente
(al limite del disumano) della pratica cristiana. Infine Kierkegaard attacca le idee liberal-
democratiche del suo tempo, i nuovi giornali che le veicolano e l’opinione pubblica che su di essi si
forma. L’individualista Kierkegaard vede solo una deplorevole massificazione, una legge della
maggioranza che soffoca il Singolo. Per questa sua posizione egli viene bersagliato dalla satira dei
giornali di Copenaghen, un fatto che lo ferisce profondamente e rafforza il suo giudizio negativo.
La sua opera è vasta, e si colloca tra il 1841 (anno della sua tesi di laurea sul concetto di ironia in
Socrate) e il 1855. Alcuni tra i suoi maggiori scritti sono Enten-Eller (Aut aut, 1843), Frygt og
Bæven (Timore e tremore, 1843), Begrepet Angest (Il concetto di angoscia, 1844) e Stadier paa
Livets Vej (Stadi sulla strada della vita, 1845).
La vita dell’uomo è caratterizzata secondo Kierkegaard da tre stadi, tre possibilità di
esistenza: la vita estetica, la vita etica e la vita religiosa. La vita apre tante possibilità, e dunque
anche la necessità di scegliere. La scelta è come un salto nel vuoto che genera angoscia. Nessuno
può scegliere per noi. Ma la vita è scelta, impegno e progetto. L’uomo estetico è colui che non
sceglie, che resta disperso nel mare infinito delle possibilità, che preferisce non definirsi e non
assumere responsabilità. Scegliere vuol già dire porsi sul piano etico. La scelta, dice Kierkegaard, è
già una categoria etica. La scelta e la responsabilità si esprimono in una vita “centrata” nel lavoro,
nel matrimonio, nei figli e nelle relazioni. L’uomo si dà un centro e diventa soggetto morale e
razionale. Ma il vero uomo etico non può non sentire che questi suoi valori rimandano a qualcosa
che va oltre la sua vita, rivelando la presenza di Dio. Allora può compiere una scelta successiva, un
vero salto nel vuoto che gli fa perdere tutte le certezze morali e razionali. Scegliere Dio è per
Kierkegaard un atto assurdo e paradossale, contro ragione, che mette contro il mondo ed espone al
vuoto e all’angoscia. Si tratta di una fede biblica e luterana per cui l’uomo è solo, tremante e
dubbioso di fronte al suo Dio.
Nella vita e nell’opera di Kierkegaard sono presenti tutte e tre queste possibilità. Ed egli
ama, da grande letterato, sperimentare con i punti di vista, creando pseudonimi, personaggi e voci
attraverso cui far dialogare (o anche scontrare) le possibilità che egli sente dentro se stesso. Solo
tramite questo procedimento dialettico e maieutico (il cui grande modello è il dialogo socratico) il
lettore può compiere un analogo percorso, che però riguarderà lui e solo lui. Nel capolavoro Aut
aut, un ampio contenitore di testi, sono messe a confronto la possibilità estetica (che culmina con
Forførerens Dagbog, Il diario del seduttore, romanzo su un moderno dongiovanni) e quella etica. In
Timore e tremore Kierkegaard riflette invece sull’”eroe della fede” Abramo, che non esita a
sacrificare quanto di più caro ha nella sua vita terrena, il figlio Isacco, pur di obbedire al suo Dio.
Dal punto di vista etico Abramo sarebbe stato un assassino; dal punto di vista religioso egli è un
eroe della fede. Abramo non esita, e Dio ferma la sua mano salvando Isacco, e con lui la stirpe di
Israele.
Kierkegaard è un grande pensatore, ma estremo e intransigente. La sua esigenza assoluta di
fede non può cedere al minimo compromesso. Essere cristiano è per lui qualcosa di scomodo, mai
di rassicurante. Il brano tratto dalla rivista Øjeblikket (L’istante), pubblicata nel suo ultimo anno di
vita (fot. 31), è un esempio di tale intransigenza. Qui Kierkegaard si scaglia, con la sua satira
sferzante, contro il cristianesimo formale delle belle occasioni, in questo caso un battesimo.
49

Kierkegaard è una “matrice” imprescindibile per la moderna cultura scandinava, ad esempio


per Ibsen e Strindberg, che da un punto di vista laico esprimeranno lo stesso radicalismo e la stessa
sete di verità dell’individuo, contro le menzogne sociali.

Le linee generali della letteratura di questi anni indicano, contestualmente alle trasformazioni
dell’età liberal-democratica, un rinnovato interesse per le questioni sociali e l’affermazione, come
detto, dei generi in prosa tipici del “realismo borghese”: il racconto e il romanzo.
Il danese Steen Steensen Blicher (1782-1848) è un importante autore di novelle. Blicher
legge e traduce dall’inglese, e ha dunque una conoscenza diretta della grande tradizione romanzesca
del Settecento e del primo Ottocento. Le suo novelle sono tutte di ambientazione contemporanea e
danese, in particolar modo dello Jylland dal quale proviene. Si affinano con Blicher il ritratto
psicologico e la descrizione realistica degli ambienti. Spesso si tratta di storie di vita comune e di
personaggi perdenti e al margine: la sua è una voluta prosaicità. La complessiva visione del mondo
che ne è emerge è disillusa. Solo la purezza di cuore dei perdenti oppone resistenza all’insensatezza
della vita. La novella più nota è del 1834, Brudstykker af en landsbydegns dagbog (Frammenti di
diario di un prete di campagna)
Il pessimismo di Blicher, di Kierkegaard e anche di Andersen appare in contrasto con il
diffuso ottimismo borghese della società danese di metà Ottocento, quella che si esprime ad
esempio con Johan Ludvig Heiberg (1791-1860), filosofo hegeliano, influente critico letterario,
arbitro del gusto e autore di commedie leggere.
In Norvegia il romanzo borghese e la questione femminile si presentano con Camilla Collett
(1813-95), sorella di Wergeland e per un periodo legata sentimentalmente a Welhaven, il rivale
letterario del fratello. Nel 1841 Camilla sposa il signor Collett, che la incoraggia a scrivere. Rimasta
vedova nel 1851, la Collett pubblica anonimamente il suo unico romanzo nel 1854/55, Amtmandens
Døttre (Le figlie del prefetto), che descrive ambienti domestici borghesi e difende il diritto delle
donne alla scelta, all’amore e alla soggettività, contro la concezione patriarcale che vuole la donna
oggetto e merce di scambio tra uomini (la figlia da maritare). Questo romanzo “a tesi” anticipa temi
e modi della letteratura naturalistica norvegese, dove la questione femminile sarà ampiamente
ripresa. Per la generazione di Ibsen e dei suoi colleghi la Collett è un importante precedente, e nel
1879, lo stesso anno di Casa di bambola, l’autrice ripubblica il suo romanzo, questa volta firmato,
con una nuova prefazione.
Aasmund Vinje (1818-1870) è un altro esponente norvegese della fase di passaggio tra
Romanticismo e Realismo. È poeta e giornalista di idee liberal-democratiche. Proviene dalla
regione montuosa del Telemark. Egli è il primo significativo scrittore norvegese ad adottare la
nuova lingua nazionale proposta da Ivar Aasen, il landsmål (o nynorsk). Il passaggio alla nuova
lingua avviene poco dopo la fondazione del suo giornale Dølen (Il valligiano, dal 1859). La sua
opera letteraria più importante è una descrizione di viaggio, Ferdaminni fraa Sumaren (Ricordo di
un viaggio estivo, 1861). Si tratta di un viaggio in Norvegia, una descrizione del paesaggio nordico
in versi e in prosa, che alterna momenti lirici ed altri più ironici e critici. Vinje ricorda
l’atteggiamento post-romantico del poeta tedesco Heinrich Heine, perché è capace di abbandonarsi
liricamente alla natura, ma anche di smascherare ironicamente e razionalmente a se stesso la propria
indole sognatrice. C’è l’abbandono alla natura, ma anche l’osservazione della società. Vinje usa un
landsmål vivo e moderno, ed è grazie a scrittori come lui che la nuova lingua diventa effettivamente
usata, seppure da una minoranza. Vinje è un norvegese cosmopolita e aperto. Dopo un viaggio in
Inghilterra (1862) scrive in inglese A Norseman’s views of Britain and the British (1863), che però
ottiene scarso successo.
In Svezia questa fase vede l’attività di diversi scrittori interessanti. Carl Jonas Love
Almqvist (1793-1866) è autore di un’opera copiosa e molto eterogenea, indicativa delle
contraddizioni e tensioni di quest’età di passaggio tra Romanticismo e Realismo. Almqvist coltiva
tutti i generi letterari scrivendo racconti, romanzi, poesie, saggi e meditazioni, oltre a essere
giornalista democratico e radicale. Nonostante sia interessato alla contemporanea realtà sociale,
50

Almqvist presenta anche aspetti molto romantici: un cristianesimo platonico e mistico e la


contrapposizione, derivata da Rousseau, tra una condizione di natura, incorrotta e semplice, e la
degenerazione della civiltà.
Scrive delle liriche chiamate Songes (in francese: Sogni): testi brevi e concentrati, che con
parole semplici colgono un quadro, un dialogo o un frammento. Sono, appunto, visioni, “sogni”.
Hanno spesso un contenuto religioso e mistico, come Hjärtats blomma (Il fiore del cuore), ma può
anche emergere la denuncia sociale, come nell’episodio storico evocato in Häxan i konung Karls tid
(La strega al tempo di re Carlo) (entrambe fot. 38-39). La scena che parla della “strega” fa
riferimento ai processi e ai roghi di cui erano vittime le donne nel Seicento (il re è probabilmente
Carlo XI). C’erano credenze secondo cui le streghe rubassero il latte attraverso pratiche magiche.
Ma qui il poeta ci descrive – con un chiaro intento di denuncia – come quella “strega” fosse solo
una povera donna che voleva sfamare i figli. Il fatto che la mucca appartenga al prete sottolinea la
polemica anticlericale e il ruolo della chiesa nei processi alle streghe. L’altro componimento indica
per altro la religiosità mistica di Almqvist. Il cuore porta in sé il dono divino e ambiguo della rosa;
attraverso il sangue provocato dalle spine, il cuore e l’uomo si colorano a immagine di Dio.
Nel 1838 Almqvist scandalizza la Svezia con un breve romanzo a tesi che difende la
convivenza e giudica inessenziale il vincolo del matrimonio: Det går an (Così può andare). Durante
un viaggio in battello sul Mälar Sara e Albert si conoscono. Il loro dialogo, che è anche un
corteggiamento reciproco, si incentra sulla possibilità di vivere insieme senza sposarsi. È Sara a
portare avanti l’idea. Albert è prima turbato, poi convinto dalla dialettica e avvenenza di lei. Lettore
di Walter Scott, Almqvist scrive anche romanzi storici, tra cui Drottningens juvelsmycke (Il diadema
della regina, 1834), che mette un conturbante personaggio androgino, Tintomara, al centro degli
eventi misteriosi e drammatici che portano all’omicidio di re Gustavo III durante il ballo in
maschera nel 1792.
Negli anni Quaranta Almqvist diventa una figura centrale del giornalismo liberal-
democratico. Scrive su Aftonbladet, chiedendo riforme e costituzione democratica. Si fa molti
nemici. È coinvolto in intrighi oscuri, viene accusato di omicidio, ed è perciò costretto a lasciare la
Svezia per gli USA nel 1851. Vive qui, da esiliato, gli ultimi 15 anni della sua vita, testimone, tra le
altre cose, della sanguinosa guerra di Secessione tra stati nordisti e sudisti.
La madre del femminismo svedese è Frederika Bremer (1801-65). Anche lei si cimenta con
il romanzo borghese e la descrizione di ambienti familiari e domestici moderni. Al centro c’è
l’interesse per la questione femminile. La donna deve emanciparsi da una tradizione patriarcale
oppressiva, che le impedisce di svilupparsi liberamente e secondo talento. Oltre che romanziera, la
Bremer è una personalità culturale cosmopolita e di grandi orizzonti. Stringe legami personali con
molti importanti autori europei e americani del suo tempo, e soprattutto viaggia e vede molto con i
propri occhi (USA, Inghilterra, Italia, Grecia e Palestina). Poiché è attiva e conosciuta già dagli anni
Trenta, la Bremer è un modello importante per Camilla Collett. Alcuni dei suoi romanzi sono
Familjen H (La famiglia H, 1830), Hemmet (La casa, 1839) e Hertha (1859). La Bremer si
concentra sul nucleo sociale fondamentale della hem, cioè la famiglia: è qui che devono avvenire i
cambiamenti di mentalità affinché la società tutta possa cambiare. La Bremer vive lo spirito
progressista, ottimista e costruttivo dell’età liberal-democratica. La giovane democrazia degli Stati
Uniti rappresenta per lei la speranza di una società più giusta, fondata su principi più equi, anche
all’interno della hem. Ne parla nella descrizione di viaggio Hemmen i den nya världen (Le case del
nuovo mondo, 1853/54).
Un ultimo erede del Romanticismo ottocentesco, e al tempo stesso esponente delle tendenze
moderne, è Viktor Rydberg (1828-95), poeta, romanziere, giornalista e studioso di religione e
mitologia. Anche lui è ispirato dalla lettura dei romanzi storici di Scott; e nei suoi romanzi intreccia
fantasia, gusto dell’avventura, gioco dell’immaginazione, ricostruzione storica e discussione delle
idee, da cui emerge il suo umanesimo democratico e tollerante. Tra i romanzi: Singoalla (1857) una
favola romantica su una bella zingara; Fribytaren på Östersjön (Il pirata del Baltico, 1857),
ambientato nel Seicento; Den siste athenaren (L’ultimo ateniese, 1859), sul passaggio dalla cultura
51

classica a quella cristiana; e Vapensmeden (L’armaiolo, 1891), sulla Riforma protestante in Svezia.
Apriamo a questo punto una piccola finestra sulla Finlandia, perché è nella parte centrale
dell’Ottocento che qui cominciano a formarsi un’identità, una cultura e una letteratura nazionali. La
situazione della Finlandia, da poco entità autonoma (sebbene non ancora indipendente), assomiglia
per certi versi a quella della Norvegia, se non che qui il problema linguistico e il bilinguismo sono
molto più complessi, vista la distanza che separa lo svedese dal finnico. Il problema che si pone alle
élites culturali finlandesi dopo la separazione dalla Svezia è formulato in questo modo: svedesi non
lo siamo più, russi non potremo mai esserlo, dunque dobbiamo essere finlandesi. Di fatto queste
élites erano all’inizio solo di lingua svedese; ma è merito proprio della forte concezione romantica
dell’identità nazionale, fondata nella lingua e nella cultura popolare, se il finnico a poco a poco si
emancipa, cresce, ottiene il diritto di equiparazione con lo svedese e si afferma come lingua di
cultura e non solo “del popolo”. Il processo di democratizzazione porta inevitabilmente a un
ridimensionamento dello svedese, visto che i finlandesi di madrelingua svedese sono tra il 15 e il
10% nel corso dell’Ottocento.
La costruzione della nuova letteratura nazionale finlandese avviene comunque nelle due
lingue contemporaneamente. Elias Lönnrot raccoglie una serie di canti popolari finnici di contenuto
mitico ed eroico, probabilmente di origine molto antica e sopravvissuti per secoli oralmente. Questo
insieme composito è poi rielaborato da Lönnrot in un unico epos nazionale in versi chiamato
Kalevala (2 parti, 1835 e 1849), capolavoro della letteratura romantica in finnico ed epos nazionale
fondante per la coscienza finlandese. La creazione di un epos finlandese in epoca moderna avviene
anche sul versante della lingua svedese, con Johan Ludvig Runeberg (1804-77), il poeta nazionale
per eccellenza. Runeberg scrive poesie e poemi epici, la sua opera è vasta. Ricordiamo Fänrik Ståls
sägner (I racconti del sottotenente Stål, 2 parti, 1848 e 1860), un ciclo epico di poesie che celebrano
l’eroismo dei soldati finlandesi durante l’ultima guerra contro i russi (in realtà persa malamente) del
1808/09. Runeberg celebra la propria terra (Il primo canto, Vårt land, Il nostro paese, è oggi l’inno
nazionale, sia in originale svedese sia in traduzione finnica) e la tempra nordica dei suoi uomini,
avvezzi alla vita dura, coriacei, pazienti e di poche parole. Troviamo qui una celebrazione dell’amor
patrio fino all’estremo sacrificio (una poesia di guerra francamente un po’ lontana dalla nostra
sensibilità) e un’idealizzazione delle qualità tipicamente nordiche dei finlandesi. In tale contesto
fanno spesso la loro comparsa due figure epiche: il contadino e il guerriero, entrambi padri della
nazione, entrambi eroici, l’uno perché lotta contro la povertà del suolo e l’asprezza del clima, l’altro
perché combatte contro il nemico per difendere quella stessa sua terra. Una breve poesia senza titolo
tratta da una raccolta del 1830 (la prima di Runeberg) riunisce in un dialogo questa coppia (fot. 38).
Il poeta cerca volutamente una rappresentazione monumentale e solenne, per quanto concisa: molto
realistica nei dettagli descrittivi, ma molto idealizzata sul piano ideologico. Runeberg è un grande
poeta epico, uno scrittore molto letto e amato anche in Svezia in tutto l’Ottocento romantico e post-
romantico.
Il successore di Runeberg nel ruolo di “poeta nazionale” finlandese di lingua svedese è
Zacharias Topelius (1818-98), scrittore e giornalista, anch’egli molto letto e apprezzato in Svezia.
Lo spirito patriottico è lo stesso, ma diverse sono le forme letterarie: il romanzo storico alla Scott e
le fiabe per bambini. Fältskärns berättelser (I racconti del chirurgo di campo, 5 voll., inizialmente
pubblicato come feuilleton tra il 1853 e il 1867) è un romanzo intrigante e avventuroso sullo sfondo
della comune storia finno-svedese nel Seicento e nel Settecento, da Gustavo II Adolfo a Gustavo III,
a soddisfare il bisogno di patriottismo di svedesi e finlandesi insieme. Topelius raggiunge
un’enorme popolarità anche con le sue fiabe pubblicate nel corso degli anni: Läsning för barn
(Lettura per bambini, 1865-96). Topelius è, dopo Andersen, il grande scrittore nordico per bambini
nell’Ottocento. Rispetto allo scrittore danese, Topelius è tuttavia meno complesso, più edificante,
più pedagogico e più patriottico.
52

IL NATURALISMO: CARATTERI GENERALI E SVILUPPI IN DANIMARCA

Naturalismo è un’etichetta che si applica a un vasto e variegato movimento letterario europeo,


sviluppatosi nel corso della seconda metà del XIX sec. partendo dalla Francia. In termini generali
possiamo dire che il Naturalismo esprime l’esigenza di un rapporto più diretto tra l’artista e la
concreta realtà quotidiana; e che la sua tendenza è antiromantica e antimetafisica, poiché ciò che
conta è “il dato di fatto”. La seconda metà dell’Ottocento è un’epoca di rivolgimenti epocali per le
società occidentali: progresso tecnico e scientifico, trasformazione delle campagne, emigrazione,
industrializzazione, urbanizzazione, ascesa della borghesia capitalistica, scontro tra capitale e forza
lavoro. A tutto questo gli scrittori e gli artisti non possono sottrarsi; anzi, essi cercano di ampliare i
confini della realtà rappresentabile includendo le “zone d’ombra” delle magnifiche e progressive
sorti della nostra modernità. Cercano così – con intento critico e di denuncia – il “brutto”: le nuove
classi sociali subalterne prostrate dai rapporti sociali imposti dalla produzione capitalistica; la
miseria e le ingiustizie sociali; gli smarrimenti e le crisi della borghesia dietro la rispettabile
facciata. Possiamo, così, definire il Naturalismo una forma tendenzialmente più radicale e cruda di
realismo.
Gli scrittori naturalisti assumono volentieri la funzione di coscienza critica di un’età, a
cavallo tra Ottocento e Novecento, che per altro è caratterizzata da ottimismo diffuso e addirittura
euforia (non a caso veniva chiamata belle époque in Francia). La fiducia e l’ottimismo si esprimono
sul piano filosofico nel positivismo e nell’utilitarismo, correnti di pensiero ancorate all’idea di un
progresso tendenzialmente infinito e ininterrotto per l’umanità, grazie alle nuove conquiste tecniche
e scientifiche. Il progredire delle conoscenze dà all’uomo occidentale un potere quasi totale
sull’esistenza (o almeno l’illusione di un tale potere). Il senso di onnipotenza può anche rendere
superflui Dio e la dimensione metafisica; questa “morte di Dio” (F. Nietzsche) nell’epoca moderna
e secolarizzata è tuttavia anche motivo di profonda inquietudine e smarrimento per l’uomo. Un
evento culturale emblematico in tal senso è l’apparizione nel 1859 dello studio The Origin of
Species (L’origine delle specie) dello scienziato inglese Charles Darwin. I dati di fatto scientifici
provano che la vita sulla terra si è sviluppata per evoluzione e selezione naturale delle specie, e non
per un atto di creazione divina come racconta la Genesi nella Bibbia. Se da un lato ora l’uomo
appare pienamente artefice del suo destino, libero da ogni illusione metafisica, l’altra faccia della
medaglia è un senso di vuoto e di crisi, un lutto difficile da colmare. Nel Naturalismo scandinavo –
laico e radicale, ma luteranamente imbevuto di cultura biblica – troviamo entrambi questi aspetti. Il
“darwinismo” può, trasferito sul piano sociale, indurre gli artisti a ulteriori considerazioni
pessimistiche: solo i più forti vincono e sopravvivono (the survival of the fittest); il panorama
sociale è pieno di marginali e “vinti”, vittime di ingiustizie sociali, spazzati via dalla fiumana del
“progresso” (pensiamo ai Malavoglia del nostro Verga). Secondo il critico francese Hippolyte Taine
la vita dell’uomo è determinata (dunque: determinismo) da tre fattori sostanziali: i caratteri
ereditari, l’ambiente sociale e il momento storico. La domanda che si pone è: esiste la libera volontà
dei soggetti? La modernità è da questo punto di vista profondamente ambigua (ed è tuttora la nostra
condizione): ci promette un potere e una libertà infiniti, ci prospetta l’emancipazione; e ci fa sentire
nel contempo come rotelle di ingranaggi e macrostrutture su cui non possiamo incidere come
individui. Siamo più liberi o più schiavi?3
In un’epoca sempre più dominata dalla scienza, anche la letteratura si dota di un approccio e
di una terminologia “scientifici”; è anche questo un aspetto del Naturalismo. Taine, i fratelli
Goncourt e Zola promuovono l’idea della “imparzialità scientifica” e della “oggettività fotografica”
con cui essi presentano i loro “documenti umani” e i loro “spaccati di vita” (l’idea è che la realtà
rappresentata parli da sé, sia già una denuncia senza bisogno di commenti). Se questi termini sono
indicativi di un orientamento, e perciò significativi, va anche detto che lo scrittore oggettivo è un

3
Un testo utile per inquadrare queste questioni è Marshall Berman, L’esperienza della modernità, Il Mulino 1985.
L’edizione originale è All that is solid melts into air. The experience of modernity, 1982. Berman è un newyorkese di
origine ebraica.
53

mito, qualcosa di irrealizzabile. Anche un fotografo sceglie un’inquadratura e un punto di vista


piuttosto che un altro, e non può esistere un sguardo senza soggetto, senza “temperamento”, senza
criteri di scelta e di giudizio (Zola parla effettivamente di una realtà vista attraverso un
temperamento). In Europa e in Scandinavia il Naturalismo si esprimerà attraverso forti personalità
artistiche anche molto diverse le une dalle altre.
Quando in Scandinavia parliamo di Naturalismo ci riferiamo inevitabilmente, anche al di là
dell’etichetta, alla fase in cui si concentrano i suoi più grandi scrittori e artisti moderni, quelli che
fanno della Scandinavia la nuova “scoperta” europea sul finire dell’Ottocento. Gli scrittori Ibsen,
Strindberg e Jacobsen, così come il pittore Munch, lasciano un segno profondo nella cultura
europea. Il loro essere coscienza critica e pessimista della moderna società borghese, e la loro
visione non conciliante, tormentata e lacerata, li rendono importanti precursori dell’arte del
Novecento.
Anche in Scandinavia il Naturalismo si evolve in relazione ai grandi mutamenti sociali in
corso: industrializzazione, questione operaia, nascita dei sindacati e dei partiti socialdemocratici,
questione femminile e parità fra i sessi, diritto di voto e democrazia. La modernità vuole anche dire
l’aumento del pubblico urbano e borghese interessato alla letteratura, e la crescita esponenziale del
fenomeno letterario e della “industria culturale” in genere: nuovi giornali, nuove riviste e nuove
case editrici. Comincia così a cambiare radicalmente la condizione dello scrittore: se Andersen vive
dei mecenati e Kierkegaard dell’eredità paterna, i moderni scrittori devono vivere sempre più del
mercato, mettendo in vendita il loro prodotto intellettuale. Anche questa condizione, lo vedremo,
sarà spesso fonte di incertezza, frustrazione e sradicamento.
Gli ultimi tre decenni dell’Ottocento sono una fase di intensa comunicazione culturale
interscandinava che mai più si è ripetuta. Scrittori e artisti danesi, norvegesi e svedesi si scrivono, si
frequentano e conoscono le rispettive opere; mantengono la propria identità nazionale, ma sono
consapevoli dei legami speciali che li rendono parte di un’unica patria intellettuale scandinava.
Senza l’opera del critico letterario danese Georg Brandes (1842-1927) questo non si sarebbe
probabilmente potuto realizzare. Cominciamo con lui l’analisi del Naturalismo scandinavo.

Brandes, di origine ebraica, è il grande organizzatore e promotore di questa nuova fase. Segue,
recensisce e commenta con attenzione e acume la produzione di pressoché tutti i maggiori scrittori
scandinavi a lui contemporanei. Inoltre intrattiene con loro scambi epistolari, attraverso cui
approfondisce le sue conoscenze, scambia idee, suggerisce, domanda e incoraggia. Georg Brandes e
suo fratello Edvard (che è più giornalista e politico) sono il fulcro della comunicazione letteraria
interscandinava di cui si diceva. Il merito di Georg Brandes è anche quello di avere inaugurato un
approccio critico di ampio respiro, da vero “comparatista” europeo; e di avere così aperto la
Danimarca e la Scandinavia alle più vive correnti di arte e di pensiero del periodo. I fratelli
Brandes, e il loro giornale Politiken (ancora oggi uno dei maggiori quotidiani nazionali) diventano
inoltre un fattore importante nella battaglia politica contro la Højre (Destra) del primo ministro
Estrup (vd. primo modulo). Essi rappresentano l’ala liberal-radicale e urbana della Venstre.
Nella sua prima importante opera Brandes riassume in sei parti lo sviluppo delle letterature
europee nel corso dell’Ottocento. L’opera, basata sulle lezioni all’università di Copenaghen, si
chiama Hovedstrømninger i det 19de århundredes litteratur (Correnti principali nella letteratura del
XIX sec.); le prime quattro parti escono tra il 1872 e il 1875, la quinta nel 1882 e l’ultima nel 1890.
Brandes vuole esaminare come sia stata la letteratura del passato recente, dal Romanticismo in poi,
per indicare la strada della letteratura futura. Nell’introduzione all’opera il critico dà una definizione
che è diventata famosa: una letteratura veramente moderna si vede dal fatto che essa “discute i
problemi” (sætter problemer under debatt). Brandes prospetta una letteratura che incida nella realtà,
che non fugga dai problemi reali e concreti e sia fattore di emancipazione e progresso. Le parti di
Hovedstrømninger prendono in esame le tre principali aree culturali europee: la tedesca, la francese
e l’inglese, illustrando il progressivo superamento del Romanticismo – un fatto positivo per
Brandes, perché il Romanticismo è per lui “reazione”, fuga dalla realtà. Sul Romanticismo tedesco,
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e la sua inclinazione al sogno e al fiabesco, Brandes è sarcastico: “un vero eroe romantico giunge
alla felicità dormendo”. Certamente Brandes è ingiusto nel non considerare la portata rivoluzionaria
della poesia romantica, che per molti versi segna l’inizio della poesia moderna. Ma il suo giudizio si
spiega anche come attacco a un tardo romanticismo e idealismo di maniera che sopravvivono in
Scandinavia, nonostante i tempi siano cambiati. Hovedstrømninger culmina con i ritratti elogiativi
di tre romantici che seppero anche essere “post-romantici” e politicamente radicali e progressisti:
gli inglesi Shelley e Byron e il tedesco Heine. I valori che Brandes difende nelle Hovedstrømninger
sono la libertà dell’individuo dalle convenzioni sociali e dalle autorità (stato, chiesa, religione,
famiglia tradizionale); la consapevolezza sociale; la visione laica, democratica e cosmopolita. Il
pensiero radicale di Brandes trae ispirazione anche da Søren Kierkegaard, cui il critico dedica un
ritratto monografico nel 1877. A Brandes interessa molto il Kierkegaard che attacca il cristianesimo
di facciata e l’ipocrisia borghese; molto meno gli interessa il Kierkegaard che cerca Dio.
Un’altra opera di Brandes, il cui titolo diventa una specie di etichetta per l’intero periodo, è
Det moderne gennembruds mænd (1883), ovvero “gli uomini della breccia moderna”. Gennembrud
(n. gjennombrudd, sv. genombrott) corrisponde all’inglese breakthrough e vuol dire appunto
“breccia”, “sfondamento” col significato più esteso di “affermazione, successo” (cfr. it. “sfondare”).
Quest’opera raccoglie saggi su Ibsen, Bjørnson, Jacobsen a altri scrittori scandinavi della nuova
generazione, che Brandes vuole promuovere e lanciare.
Brandes ha sempre ammirato le forti personalità e i “geni”, e infatti dedica una lunga serie di
monografie ai “grandi” della letteratura e della storia mondiale, in cui si specializza, con la consueta
sensibilità, nel ritratto psicologico-letterario (allora in voga anche grazie al modello del critico
francese Sainte-Beuve). Attorno al 1888 l’individualismo di Brandes si fa più spiccato, grazie alla
conoscenza dell’opera del filosofo e scrittore tedesco Friedrich Nietzsche. Brandes divulga
Nietzsche sia in Scandinavia sia in Germania; egli è il primo critico europeo a intuire la grandezza e
la profondità della riflessione di Nietzsche (anche in Germania Nietzsche è fino a quel momento
marginale). In Scandinavia Brandes tiene un ciclo di lezioni, poi pubblicate, dal titolo eloquente:
Aristokratisk radikalisme (1888/89). Il radicalismo si fa aristocratico, cioè per pochi grandi uomini,
per le avanguardie che sfidano la volgarità e l’omologazione del presente, che non sono come la
massa ma si pongono sopra e oltre (cfr. l’Übermensch di Nietzsche, “superuomo” o “oltreuomo”).
Brandes, insomma, continua a credere nei valori radicali di prima, ma è più propenso a pensare che
questi siano portati avanti da pochi grandi. Questa evoluzione esprime anche la crescente sfiducia
degli intellettuali verso la democrazia, il parlamentarismo e “la dittatura dell’opinione pubblica” –
un problema importante della modernità, allora come oggi.

Jens Peter Jacobsen (1847-85) è lo scrittore danese più amato da tutta la giovane falange dei
“brandesiani”. Al tempo stesso è uno scrittore che a fatica definiamo un “naturalista”. L’etichetta, se
vogliamo usarla, va quantomeno specificata. La vita di Jacobsen è segnata dalla tubercolosi e dalla
morte precoce. È uno scrittore di grande talento stilistico, che scrive lentamente, e dunque tutta la
sua opera letteraria si riassume in due romanzi, una raccolta di racconti e una manciata di belle
poesie. I romanzi sono Fru Marie Grubbe. Interieurer fra det syttende århundrede (La signora
Marie Grubbe. Interni del diciassettesimo secolo, 1876) e Niels Lyhne (1880), il capolavoro.
Mogens og andre noveller (Mogens e altre novelle) è pubblicato nel 1882 e raccoglie testi scritti tra
il 1872 e il 1882. Queste poche opere bastano a fare di Jacobsen lo scrittore danese più importante
del periodo e un modello influente per gli autori scandinavi e tedeschi tra fine Ottocento e inizio
Novecento. Niels Lyhne diventa per molti (ad esempio Thomas Mann e Rainer Maria Rilke) una
specie di romanzo profetico, la rappresentazione di una crisi generazionale in cui rispecchiarsi.
Come scrittore “naturalista” Jacobsen condivide i presupposti positivisti e antimetafisici
della sua epoca. Si occupa di scienza e di botanica; e soprattutto traduce the Origin of Species di
Darwin in danese. Tuttavia l’assenza di Dio diventa nell’opera letteraria di Jacobsen un fattore di
vuoto e di crisi. I suoi personaggi anelano a un senso e a una pienezza vitale che sfuggono e paiono
irraggiungibili. Le certezze antimetafisiche e “positive” si capovolgono in un certo senso nel loro
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contrario: un senso di smarrimento e assenza di direzione. Questa percezione “decadente” e


“crepuscolare” di Jacobsen ha, grazie alla forza del suo stile, grande impatto, e va a interpretare una
sensazione diffusa di “crisi di fine secolo”.
Un fattore che potrebbe dare pienezza e senso è l’amore. Jacobsen è il poeta della nostalgia,
del sogno, dell’innamoramento e dell’anelito d’amore; e, spesso, della delusione che subentra a suoi
esiti infelici. C’è insomma in Jacobsen un’anima romantica di cui lui stesso è pienamente
consapevole. E l’animo struggente e romantico si percepisce anche nella qualità lirica e musicale
della sua prosa, nello stile attento a cogliere lo sfumare e lo scorrere delle cose. A Jacobsen non
interessa fare letteratura di denuncia sociale o “discutere i problemi”. Ma nonostante tutto questo,
Brandes ne riconosce la grandezza e originalità, anche se il lirismo e il “colorismo” dello scrittore
gli sono un po’ estranei. “Jacobsen sa essere se stesso,” commenta Brandes.
Marie Grubbe è un romanzo storico che si basa su un approfondito studio delle fonti. Il
tempo del racconto copre la vita della protagonista tra la seconda metà del Seicento e l’inizio del
Settecento; sullo sfondo troviamo un affresco del regno di Danimarca-Norvegia. L’inizio del
romanzo, quando Marie è ragazzina, descrive dalla prospettiva danese i terribili anni in cui
Copenaghen e la Danimarca intera rischiano di scomparire sotto il peso della macchina bellica
svedese (1657/58). Marie Grubbe è un personaggio realmente esistito, di cui parlano anche Ludvig
Holberg e H. C. Andersen. Fu una donna della nobiltà che visse un singolare destino di degrado
sociale, sempre alla ricerca dell’amore. Orfana di madre, con un padre indifferente al suo destino,
preoccupato solo di “scaricarla” a un marito, Marie sposa prima il nobile Ulrik Fredrik Gyldenløve,
che poi diventa governatore della Norvegia. Da Gyldenløve la donna divorzierà per legarsi ad altri
uomini, fino a che non più giovane, come racconta il romanzo, Marie trova l’uomo della sua vita in
Søren, un misero cocchiere, poi traghettatore, che per giunta la maltratta. È l’anelito alla felicità
nell’amore, e le conseguenti delusioni, che Jacobsen vuole rappresentare nella storia di Marie. La
personalità di questa donna, il suo ritratto psicologico, sono al centro del romanzo storico, il quale
presenta un Seicento letto con la sensibilità della fine dell’Ottocento. L’amore è un sogno che si
scontra sempre con una realtà più prosaica. Eppure resta il movente delle azioni di Marie. Forse
neanche lei sa che cosa vuole davvero; anche lei è alla ricerca di un senso pieno che non trova.
Uomo e donna non si trovano. Il suo approdo finale appare degradante. Il marito è rozzo e la
maltratta, ma lei si sente amata. Ha paradossalmente trovato la sua serenità e si è accontentata. Ma
non sa spiegarsi perché. L’amore, forza potente e irrazionale, determina comunque la sua vita.
L’incontro tra l’anziana Marie e il giovane Ludvig Holberg, nel 1711, si trova a conclusione
del romanzo. I due si conoscono e Maria racconta allo scrittore la sua vita. Holberg non sa spiegarsi
come la donna possa essere addirittura contenta del suo degrado, e le pone infine la questione di
Dio: crede in Dio? Marie risponde che ha vissuto la sua vita e non si pente, che accetta il suo
fardello. Sarebbe ipocrita pentirsi in punto di morte, per una speranza di paradiso. A questo Holberg
non sa replicare. E la prospettiva laica conclude il romanzo: Marie muore e viene seppellita accanto
al marito. La morte coincide, assai materialmente, con la sepoltura.
In Niels Lyhne tornano in forma più radicale e dolorosa i due problemi: la ricerca di
realizzazione nell’amore e l’assenza di Dio. L’ambientazione è ottocentesca, ma non proprio
contemporanea; infatti Niels, di cui il romanzo racconta la vita, muore soldato nella guerra dano-
prussiana del 1864, e a quel punto è un uomo di mezza età. Ciò nonostante il romanzo diventa,
come si diceva, lo specchio di una generazione di fine secolo che ha perso le certezze e prova un
doloroso vuoto. Il ricorrente tema naturalista dell’ereditarietà è sviluppato all’inizio del romanzo,
che racconta dei genitori di Niels, del loro incontro e del loro matrimonio. La madre è una
sognatrice romantica che, svanito il primo entusiasmo dell’innamoramento, non sopporta la
prosaicità del marito. Il padre di Niels è un proprietario terriero dal senso pratico, che non capisce
che cosa vada cercando sua moglie. Queste sono le circostanze della nascita di Niels, che viene al
mondo nel segno della scissione e del conflitto, avendo ereditato sia la disposizione nostalgica e
romantica, sia il disincanto e il bisogno di afferrare la vita.
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Da un certo punto di vista Niels è un primo grande “inetto” della letteratura della crisi di fine
Ottocento: un uomo che osserva la vita, se la vede scorrere davanti e non riesce ad afferrarla. È
ispirato da grandi progetti e ambizioni: realizzarsi nell’amore, coltivare l’amicizia, diventare
scrittore e intellettuale; ma tutto resta vago e incompiuto. Nella sua ricerca di amore Niels tradisce
anche l’amicizia, legandosi in una relazione passionale, e da entrambi sentita come peccaminosa,
con Fennimore, la moglie del suo compagno Erik. Il senso di vergogna e di personale fallimento
diventa drammatico per Niels nel momento in cui Erik, perso nell’alcol, muore in un incidente.
Il romanzo è in terza persona e l’atteggiamento della voce narrante è indicativo per
comprendere la posizione al tempo stesso romantica e post-romantica dell’autore Jacobsen. La voce
narrante aderisce al destino di Niels, assume il suo punto di vista; il grande stile sensibile e musicale
interpreta l’anelito del protagonista. Ma fino a un certo punto. Perché poi la voce narrante è anche
capace di vedere il “suo” personaggio con distacco, in una luce critica e ironica, sottolineando le sue
contraddizioni e inadeguatezze.
Rispetto a Marie Grubbe il motivo religioso assume più centralità e spessore tragico. Il
bambino Niels, animato da una fede ingenua, fa una prima, lacerante esperienza del silenzio di Dio.
Egli è incantato e innamorato di una sua zia giovane e bella, Edele, che è venuta in campagna per
riprendersi dagli strapazzi della vita copenaghese, ma che è minata dalla malattia e morirà. Il
piccolo Niels prega Dio – gli parla, lo implora – di salvare Edele. Il miracolo non avviene, la morte
si rivela a lui nella sua ingiustizia e assurdità. Più avanti, siamo circa a metà del romanzo, Niels è
adulto, e si trova a trascorrere il Natale da solo, dopo la morte dei suoi genitori e poco prima della
vicenda tra lui, Erik e Fennimore. Si trova in un locale con un suo amico, il dottor Hjerrild, anche
lui solo. Discorrono del significato del Natale e di fede e ateismo. Niels proclama un ateismo
fiducioso e baldanzoso: solo quando l’uomo si sarà sbarazzato per sempre delle illusioni
metafisiche egli potrà conquistare il suo paradiso, qui in terra. Hjerrild, ateo pure lui, è molto più
scettico in proposito: non è facile per l’uomo vivere senza Dio; e anche se egli non crede, questo è
per lui un vuoto, un lutto.
Niels è “inetto”, ma forse non del tutto. La fine della sua parabola vitale ha anche qualcosa
di coraggioso e, paradossalmente, eroico (quest’affermazione è un’interpretazione; non va presa per
buona, ma magari usata come domanda da porre al testo durante la lettura). Alla fine Niels trova
moglie, la giovane contadina Gerda, e trova casa e radici. Ha con Gerda anche un figlio. Ma ancora
arriva l’assurda e arbitraria morte a distruggere una felicità così faticosamente conquistata. Muore
Gerda e poi muore il bambino, e Niels si ritrova ancora con lo sguardo rivolto al cielo, mostrando i
pugni a quel Dio in cui non crede. Decide così di arruolarsi volontario nella guerra. È ferito
gravemente, e negli ultimi suoi giorni egli è seguito dal fedele e pietoso amico Hjerrild. Hjerrild
chiede a Niels in punto di morte se desideri – nonostante tutto – parlare con un prete. E anche Niels
risponde di no come Marie Grubbe, coerente con i principi della sua vita. Hjerrild rispetta la scelta
dell’amico e Niels muore la sua morte: “difficile”, come scrive Jacobsen, perché priva di una
speranza di riscatto nell’aldilà.
Le novelle di Jacobsen riprendono e variano i motivi dei romanzi. Ne ricordiamo tre.
Mogens (1872) racconta in forma breve la storia di una vita. Ritroviamo il motivo dell’anelito
all’amore e alla felicità (il motto del personaggio è: i længsel, i længsel jeg lever, “nella nostalgia,
nella nostalgia io vivo”); dell’insensatezza della morte e del silenzio di Dio. Qui però l’esito è
felice, o per lo meno indica una conciliazione con la vita. Pesten i Bergamo (La peste a Bergamo,
1881) è un notevole affresco storico medievale, che rappresenta le due reazioni opposte e
complementari alla peste: da una parte la sfrenata dissolutezza, “tanto si muore”; dall’altra l’estasi
mistica, il bisogno di salvezza. L’immagine finale, evocata da un predicatore, è molto forte e
indicativa della “morte di Dio” di cui parla Jacobsen: Cristo scende infine dalla croce e se ne va;
l’umanità resta sola e non redenta. Fru Fønss (La signora F., 1882) è forse l’unico scritto di
Jacobsen che riesce a rappresentare l’amore come gioia, pienezza di vita, cosa possibile e diritto che
possiamo concederci. Narra di una donna vedova con due figli ventenni, un ragazzo e una ragazza
(entrambi alle prese con la loro felicità amorosa). La signora ritrova per caso il suo grande amore di
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gioventù, e decide di concedersi da adulta la felicità che allora era stata impossibile. Va incontro alla
reazione gelosa e possessiva dei due figli (“come? Tu?”), che vorrebbero la mamma tutta per sé. È
un bel ritratto di una donna dolce e gentile, ma non per questo disposta a rinunciare alla sua felicità.

Completiamo il quadro sul Naturalismo in Danimarca con due autori che, assieme a Jacobsen,
rappresentano i “grandi padri” del romanzo moderno danese: Henrik Pontoppidan (1857-1943) e
Herman Bang (1857-1912).
Nonostante non faccia parte della cerchia più vicina ai fratelli Brandes, Pontoppidan è il
migliore tra gli scrittori “impegnati” e radicali degli anni Ottanta. È autore di romanzi e racconti
dove la denuncia sociale, specialmente nella prima produzione, è il tratto caratterizzante. Anche
Pontoppidan proviene da una famiglia religiosa, e nella sua opera troviamo l’ambivalenza tra un
atteggiamento laico, bisognoso di emanciparsi dalla fede tradizionale, e un forte legame culturale
con dei valori assunti, per così dire, “con il latte materno”. Nei racconti dei primi anni Ottanta –
come Stækkede vinger (Ali tarpate, 1881) e Landsbybilleder (Quadri paesani, 1883) – egli
rappresenta naturalisticamente, senza abbellimenti romantici, la miseria dei contadini danesi. Ci
sono la denuncia e il pessimismo del determinista: le condizioni sociali oggettive impediscono
l’emancipazione dei meno abbienti, le cui ali sono appunto “tarpate”. A partire dagli anni Novanta
Pontoppidan inizia a scrivere i suoi grandi cicli romanzeschi, veri e propri epos della Danimarca
moderna. Qui lo sguardo militante e la denuncia rimangono, ma la visione si fa più complessa, la
psicologia dei personaggi si approfondisce. Una prima grande trilogia porta il titolo complessivo di
Det forjættede Land (La terra promessa), composta di tre romanzi usciti rispettivamente nel 1891,
1892 e 1895. È la storia di un prete grundtvighiano, Emanuel, che rincorre il sogno di “tornare alle
terra” e diventare contadino, voltando le spalle alla sua famiglia borghese e conservatrice di
Copenaghen. Ancora una volta incontriamo la storia di un grande progetto di vita e di un grande
fallimento, segni inequivocabili della “letteratura della crisi”. Ma intanto l’autore riesce a trascinare
il lettore, attraverso la narrazione romanzesca, dentro le questioni del tempo: il conflitto tra
campagne e città, tradizione e modernità; le lotte sociali e politiche (il periodo di Estrup, la
questione democratica e l’emancipazione dei meno abbienti); l’organizzazione dal basso delle
cooperative agricole; il cristianesimo progressista dei grundtvighiani, contrapposto a quello delle
sette pietistiche. Un altro importante ciclo romanzesco è Lykke Per (Pietro il fortunato, 1898-1904),
dal carattere più autobiografico. Nel 1917 Pontoppidan vince il premio Nobel per la letteratura, ex
aequo col collega danese Karl Gjellerup, altro scrittore naturalista che oggi appare, al contrario di
Pontoppidan, molto meno vivo e attuale.
Anche Bang – romanziere, giornalista, critico letterario e regista teatrale – è un acuto
interprete del “senso della crisi” di fine Ottocento. È un personaggio pubblico “scandaloso” per la
sua epoca, amato e odiato. Assume volentieri pose teatrali ed estetizzanti, da elegante dandy. E
soprattutto: è “diverso”, omosessuale. Per la sua diversità paga un prezzo alto. L’epoca progressista
di Brandes, che cerca di affermare una nuova morale sessuale, non è evidentemente ancora così
aperta. Lo stesso Brandes, criticato da Bang sull’idea che la letteratura dovesse “discutere i
problemi”, gli risponde con un’offesa personale che trasuda di sessismo (“un cervello da femmina,
incapace di pensare”); poi Brandes farà ammenda. Bang non finisce in carcere, come Wilde in
Inghilterra, ma deve subire offese e affrontare l’esilio. D’altra parte Bang è un indefesso lavoratore,
scrive continuamente, vive della propria penna; la sua condizione di “scrittore sul mercato” offre
molte possibilità al suo talento, ma lo espone anche all’inquietudine e allo sradicamento.
Bang è un grande osservatore della vita urbana e moderna; il primo grande autore di
reportage giornalistici: lo scrittore sul mercato e flâneur sfrutta le possibilità letterarie fornite dalla
nuova forma dell’articolo di giornale. Già giovanissimo, dalla fine degli anni Settanta, Bang
produce i suoi migliori reportage per il quotidiano Nationaltidende. Qui può descrivere con
entusiasmo lo spettacolo moderno della moda e del grande magazzino; ma non indietreggia di
fronte al compito di rivelare alla borghesia copenaghese realtà più scomode: lo sfruttamento delle
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sarte sottopagate, ad esempio, o gli slum del centro dove vivono nel completo degrado i
sottoproletari.
Il suo primo romanzo, Håbløse slægter (Generazioni senza speranza, 1880), è un successo di
scandalo. Narra di un giovane rampollo di una famiglia nobile che vive da dandy e vuole diventare
attore. Si lega a una donna molto più grande di lui (motivo per cui il romanzo sarà condannato e
sequestrato per pornografia); infine il fallimento nella carriera teatrale lo porta al suicidio. La storia
tipicamente decadente di questo nuovo “inetto” inquieta i contemporanei non tanto per la presunta
pornografia (invisibile a uno sguardo odierno), ma per la disperazione e il senso di vuoto che
comunica. La borghesia benpensante e l’ordine costituito non possono accettare una visione così
sconsolata.
In un certo senso Bang fa di necessità virtù. Orienta la sua narrativa verso materie meno
trasgressive, producendo così i suoi più bei romanzi. Due di questi sono delicate e malinconiche
storie di donne umili e al margine, e del loro impossibile sogno d’amore: Ved vejen (Lungo la
strada, 1886) e Tine (1887). Un altro, Stuk (Stucco, 1887) è invece più legato allo sguardo urbano.
Stuk è una rappresentazione partecipe e al tempo stesso critica dell’euforia moderna e dello spirito
borghese di Copenaghen. Tutto ruota intorno alla ristrutturazione di un teatro, il “Victoria”, che però
ha le sua fondamenta in un terreno paludoso. La metafora, trasparente, è quella di una moderna
costruzione sociale fondata su basi incerte. A Bang sembra che tutta questa euforia da progresso e
belle époque sia una rimozione del trauma nazionale, la guerra dano-prussiana. La traumatica
esperienza di quella guerra (Bang era bambino e proveniva proprio da una zona meridionale al
confine) è evidente anche in Tine, dove sullo sfondo della storia risuonano cupi e intermittenti i
cannoni.
Nella sua narrativa Bang si specializza in un non facile stile “impressionista”, attento a
cogliere in forma diretta il parlato di molti personaggi contemporaneamente. Questo “cicaleccio”,
che all’inizio può disorientare il lettore e a cui bisogna abituarsi, avvia e sostiene la narrazione.
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IBSEN E IL NATURALISMO IN NORVEGIA

Henrik Ibsen (1828-1906), scrittore norvegese, è uno dei padri del teatro moderno e il massimo
scrittore scandinavo assieme allo svedese August Strindberg. La sua produzione teatrale si sviluppa
con cadenza regolare comprendendo più di venti drammi nell’arco di un cinquantennio, dall’esordio
del 1850 con il dramma storico Catilina fino a Når vi døde vågner (Quando noi morti ci destiamo)
del 1899. Nel primo quindicennio della sua attività Ibsen è legato ai temi storici del romanticismo
nazionale. I drammi di questa fase traggono spesso la loro materia dalla storia medievale norvegese,
dalla letteratura norrena e dal patrimonio di racconti e leggende. Sono anche gli anni del tirocinio
scenico di Ibsen, non solo come autore ma anche come regista e scenografo. Tra gli anni Cinquanta
e Sessanta dell’Ottocento, infatti, vengono fondate le prime istituzioni teatrali stabili nazionali, e il
giovane Ibsen partecipa attivamente all’opera di fondazione. Lavora prima a Bergen dal 1851 al
1856, presso Den Nationale Scene, e poi a Christiania dal 1857 al 1862, presso Christiania Norske
Teater.
Il teatro moderno di Ibsen rappresenta in un certo senso il superamento della sua prima
produzione nazional-romantica, la quale tuttavia resta importante in quanto gli antichi racconti e le
leggende possono giocare una loro funzione – a livello di eco e suggestione simbolica – anche nel
contesto moderno dei drammi borghesi (vedremo come questo si realizza concretamente ne
L’anitra selvatica e La donna del mare). L’apprendistato scenico dei primi anni è anche importante
come processo di affinamento artistico: Ibsen trova i suoi temi e il suo tono sobrio e
antisentimentale, che evita la declamazione e sa rivelare in profondità il personaggio. I capolavori
moderni e naturalistici del teatro di Ibsen rimangono in fondo delle ottocentesche “pièce ben fatte”,
costruite sull’intrigo, la rivelazione e il colpo di scena, capaci di aumentare ad arte la tensione fino
al climax desiderato.
La biografia di Ibsen è povera di eventi eclatanti. È sposato e ha un figlio, conduce una vita
riservata e soprattutto si dedica con disciplina al suo lavoro artistico, concedendosi poche
distrazioni. Nel 1864 decide di lasciare la Norvegia, e vive all’estero fino al 1891. All’esilio
volontario contribuiscono diversi fattori: difficoltà economiche; insofferenza per le incomprensioni
dei connazionali e speranza di riconoscimento all’estero; il bisogno – comune a molti grandi autori
e artisti scandinavi dell’epoca (Brandes, Bang, Lie, Munch, Obstfelder, Strindberg e altri) – di
uscire da società piccole, anguste e periferiche, e di ampliare i propri orizzonti attraverso il contatto
diretto con l’Europa C’è infine un cruccio più personale: la condotta, a parere di Ibsen vergognosa,
di Norvegia e Svezia durante la guerra dano-prussiana del 1864, il mancato aiuto ai fratelli danesi
nonostante i bei proclami dello scandinavismo, l’incongruenza tra principi e azioni. Nei suoi 23
anni d’esilio Ibsen alterna soggiorni in Italia (soprattutto Roma e la Campania) a periodi in
Germania (Monaco e Dresda). E l’incontro con il nostro paese rappresenta un aspetto affascinante
della sua maturazione artistica. Diversi dei suoi capolavori, tutti di ambientazione norvegese, sono
scritti tra Roma, Amalfi, Sorrento e Casamicciola (Ischia). La vivacità e la luminosità del Meridione
sono una rivelazione; e sembra quasi che a distanza, e per contrasto, Ibsen riesca ad aderire meglio
alle atmosfere e ai paesaggi di casa: fiordi e montagne, tempo piovoso, ma anche gli interni
borghesi della contemporanea società norvegese, che egli ha sempre davanti agli occhi.
Accanto ai drammi Ibsen scrive inizialmente anche poesie, raccolte nel 1871 nel volume
Digte (Poesie). In versi Ibsen riflette spesso su di sé e la propria ispirazione. Bergmanden (Il
minatore) (fot. 40) riassume in forma allegorica il senso che l’autore attribuisce al suo ruolo di
scrittore, e anche le contraddizioni che ciò comporta. Il minatore è mosso dall’imperativo morale di
una discesa nel profondo; ma è chiaro che il filone aureo che sta cercando è di natura spirituale, è
“la nascosta cavità del cuore”; si tratta di una discesa nel proprio io. La speranza della scoperta di
un tesoro – un’essenza, una verità nascosta – lo spinge nelle viscere; eppure egli è anche
consapevole della perdita: lo scrittore è teso a cogliere l’essenza della vita, e intanto perde contatto
con la vita vera fuori di lui, la luce del sole, il cielo stellato. La montagna del minatore può evocare
il paesaggio norvegese; tale connessione con la propria terra e le leggende che lo popolano è ancora
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più evidente nei versi di Ibsen che recitano: “vivere è essere in guerra con i troll nella cavità del
cuore e del cervello; scrivere è esporsi a un continuo giorno del giudizio”. Anche qui i troll che
vivono dentro la montagna, materia romantica e folclorica, sono una metafora del mondo misterioso
che ci portiamo dentro, che è al di sotto della nostra consapevolezza razionale. Ciò che Sigmund
Freud definirà da lì a poco “subconscio” e “inconscio”. Abbiamo un primo esempio di come Ibsen
usi il suo retaggio romantico per esprimere la scissa condizione moderna. Il “giorno del giudizio” ci
rivela anche un altro tratto di fondo, il più importante, di tutta l’ispirazione ibseniana: il rigore etico
e il senso della scelta quale imperativo morale; la riflessione sofferta su che cosa voglia dire
“realizzarsi”, “diventare se stessi”, giungere alla propria dimensione più profonda e autentica. In
questa ispirazione troviamo una chiara impronta culturale: l’autoesame di luterana memoria e la
filosofia dell’esistenza di Kierkegaard.
I primi due capolavori teatrali di Ibsen sono dedicati a protagonisti maschili speculari e
contrapposti, Brand (1866) e Peer Gynt (1867). Si tratta di drammi in versi (Ibsen li chiama “poemi
drammatici”) che si svolgono in scenari aperti e vasti, il primo in un paesaggio aspro e verticale col
fiordo e le montagne a picco; il secondo in un paesaggio norvegese agreste più gentile seppure
alpino, con divagazioni nel mondo sotterraneo dei troll e nell’Africa settentrionale. Brand e Peer
Gynt possono essere letti attraverso i termini della filosofia dell’esistenza di Kierkegaard. Brand è
l’uomo religioso, un prete che interpreta un idealismo assoluto e trascendente. È un eroe della
volontà, e il suo motto intransigente è “o tutto o niente”. Brand sceglie come sua missione di vita
quella di operare presso una povera comunità di un fiordo isolato ed esposto. In un certo senso egli
è eroico nel suo rifiuto di ogni mezza misura; d’altra parte egli è anche uomo, s’innamora di Agnes
e la sposa, ha con lei il piccolo Alf. Il dilemma arriva quando appare evidente che Alf non può
sopportare quel clima così aspro e rigido. Che fare? Andare o restare? Brand, straziato dal dolore,
decide di continuare la sua missione, fedele alla sua intransigenza. Muore così Alf, e muore poco
dopo di dolore anche Agnes. L’eroe Brand è anche – umanamente parlando – un prevaricatore,
talmente centrato sulla sua missione da non considerare l’esistenza di quelli che più ama. Ibsen
vuole dare un’immagine sfaccettata e ambivalente del suo personaggio. Di fronte alla frana che sta
per seppellirlo alla fine del quinto atto Brand chiede a Dio se la volontà sia sufficiente per salvarsi.
La risposta che gli pare di sentire dal tuono è: “Egli è Dio di carità”. È l’assoluzione di chi “ce l’ha
messa tutta”? O la condanna di chi ha avuto fin troppa volontà e poca pietà? O un’assoluzione che
mette in evidenza quella carità divina che all’uomo Brand è mancata? Ibsen lascia volutamente
domande aperte alla fine del suo dramma etico-religioso.
Peer Gynt è il contrario di Brand, un giovane contadino scapestrato che fa disperare la madre
vedova, Åse. Peer fugge sempre dalla scelta e dalla responsabilità, non diventa mai se stesso; infine
fugge dalla possibilità della vita con Solveig, che lo ama e che lui ama, perché incapace di
affrontare il proprio punto dolente, il pentimento per un ratto compiuto ai danni di una sposa
durante una festa di nozze: dunque, riprendendo Kierkegaard, un uomo “estetico”. Peer si adatta a
tutto; entra anche nella montagna, nel regno dei troll (o è un suo sogno?), e qui promette di seguire
il loro motto: “basta a te stesso, ti basti essere ciò che sei”, diverso dall’imperativo morale degli
uomini “sii te stesso”. E Peer si barcamena bene; da adulto diventa un self-made man americano di
successo, sempre opportunista, ma ora anche rispettabile e compiaciuto di sé; si perde in
un’avventura africana attraverso il Sahara, ma se la cava sempre. Intanto matura però un grande
cinismo e una grande misantropia. Da vecchio torna alla sua Norvegia, convinto che più nessuno lo
aspetti. Trova per terra una cipolla e comincia a sbucciarla, avendo una dolorosa epifania della sua
inconsistenza umana: buccia dopo buccia, Peer vede a ritroso i ruoli via via interpretati nella sua
vita avventurosa. E alla fine? Nessun nocciolo, nessun centro. Una figura diabolica e leggendaria, il
Fonditore di bottoni, vorrebbe prendergli l’anima – poca roba – per fonderla e vedere se dal
calderone esca qualcosa di meglio; ma lui si nega anche al Fonditore. E infine ritrova, per il suo
sbigottimento, Solveig, che ancora lo sta aspettando, quasi cieca. Alla domanda di Peer: “dove è
stato il mio vero io in questo tempo?”, la donna risponde: “nel mio amore, nella mia fede e nella
mia speranza.” Qui, forse, Peer matura il suo pentimento. Vecchissimo, egli torna in grembo, cullato
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da Solveig moglie e madre. Ma il Fonditore lo aspetta ancora al varco. L’amore di Solveig salverà
Peer? Oppure dovrà anche lui “metterci del suo”? Ed è ancora in tempo per farlo? Anche qui il
finale aperto può giustificare diverse interpretazioni.
Peer Gynt diventa una grande opera nazionale quando viene allestita la prima teatrale nel
1876 (nove anni dopo la pubblicazione del libro) con le musiche di Edvard Grieg, il più grande
compositore norvegese. Grieg mette magistralmente in risalto gli aspetti nazionalpopolari,
fiabeschi, folcloristici ed esotici – insomma romantici – del testo, il quale però rappresenta anche,
come abbiamo visto, un nuovo grande conflitto morale ed esistenziale.
Per l’evoluzione di Ibsen verso il dramma moderno è importante l’incontro con Brandes, col
quale scambia lettere e si incontra soprattutto negli anni Settanta. Due grandi intellettuali europei
toccano questioni di fondo riguardanti l’arte, la società e la politica. Possono dissentire tra di loro,
ma ognuno cerca il confronto con l’altro. Entrambi se ne arricchiscono.
Nel corso degli anni Settanta Ibsen decide di spostare il suo obiettivo, diventando
“fotografo” (come preannuncia in una lettera del 1867) dei suoi contemporanei. È la svolta verso il
dramma borghese che ha reso l’autore famoso in tutto il mondo. Il primo capolavoro di questa fase,
un successo mondiale e successo di scandalo, è Et dukkehjem (Casa di bambola) del 1879. Casa di
bambola presenta dal punto di vista tecnico tutti i tratti essenziali del “dramma borghese” di Ibsen.
Innanzitutto lo spazio scenico si definisce come interno, pareti domestiche. Dettagliate didascalie
iniziali spiegano l’arredamento e la disposizione degli oggetti. C’è, naturalisticamente, l’esigenza di
creare una maggiore illusione di realtà. L’arredo della casa è fatto di oggetti reali, non di quinte
dipinte. Gli attori utilizzano l’illusione della cosiddetta “quarta parete”, recitando come se lo spazio
aperto del proscenio fosse solo un’altra parete della stanza, magari voltando le spalle al pubblico
durante la recitazione; e dunque agendo naturalmente come se si trovassero in una stanza e non di
fronte a una sala verso cui declamare.
L’implicazione non è solo tecnica, ma anche più profonda: i motivi dell’imperativo etico
della scelta e della ricerca del sé autentico vengono rinchiusi nelle “quattro pareti domestiche” della
contemporanea società borghese. La domanda che sorge è: si dà nella nostra vita moderna,
ingabbiata da regole e convenzioni, una possibilità di libertà autentica? Nel percorrere i drammi
borghesi di Ibsen dal 1877 al 1899 possiamo rilevare in sintesi il crescente pessimismo: all’autore la
vita vera e autentica pare sempre più irraggiungibile. Sempre meno sono gli spiragli concessi
all’individuo, ormai cristallizzatosi in un contesto borghese che nega, reprime e misconosce
l’autenticità. Eppure (e da qui la straordinaria grandezza e intensità poetica dei testi di Ibsen)
percepiamo anche nella visione più nera e sarcastica un sotterraneo, insopprimibile anelito (assai
romantico) alla liberazione, che fa sempre vibrare di vita i suoi testi.
Nel sottolineare il peso dei condizionamenti sociali e delle convenzioni Ibsen esprime
indubbiamente un’amara e graffiante critica sociale rivolta contro il perbenismo e la facciata
rispettabile della società borghese. Ma Ibsen non è un riformatore morale e sociale (come tende a
leggerlo G. B. Shaw in The Quintessence of Ibsenism del 1891), bensì un poeta che scruta tutti i
suoi personaggi, anche i minori, nella loro storia personale. Sono destini umani che ci toccano, e in
quanto uomini essi sono spesso ambivalenti e sfaccettati. Da qui partiamo per considerare un ultimo
e fondamentale aspetto strutturale del teatro ibseniano: la tecnica analitico-retrospettiva, o
dell’antefatto, o del flashback. Il presente dell’azione scenica (tre o cinque atti) è posto pochi giorni
prima della soluzione finale. Nel procedere in avanti, i personaggi ricostruiscono con i loro dialoghi
gli antefatti dell’azione scenica, dove tali antifatti coprono il tempo di una vita. Ciò che ha condotto
al nodo drammatico presente si rivela progressivamente allo spettatore o lettore in un crescendo di
tensione. Tutti i personaggi acquistano così uno spessore temporale; cercando di realizzarsi, o
tradendo la propria umanità, essi raccontano una storia, hanno una dimensione profonda, anche se
sono collocati nell’azione “qui e ora”.
Casa di bambola si svolge nel corso di tre giorni (tre atti), dalla vigilia di Natale a S.
Stefano. La situazione iniziale è apparentemente idilliaca. La moglie Nora, cinguettante allodola
domestica con tre bambine, sta addobbando l’albero e preparando i regali. Si annuncia un bel
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Natale: dopo tanti sacrifici passati ora il marito Torvald è diventato direttore della banca. Benessere
e felicità in arrivo. Peccato che Krogstad, l’oscuro impiegato coinvolto in passato in affari poco
puliti, e che Torvald vuole licenziare per ribadire la propria impeccabilità, è lo stesso che anni prima
prestò denaro a usura a Nora, la quale fece firme false per riuscire a portare Torvald, malato, in
Italia e salvargli così la vita. Ora Nora ha ripagato tutto il debito, e non vuole per nulla al mondo
che Torvald sappia qualcosa. Egli deve sempre trattare la sua allodola un po’ dall’alto; i ruoli
tradizionali vogliono così. Ma Krogstad ricatta Nora, la quale cerca di convincere il marito a non
licenziare Krogstad. Torvald è irremovibile: tuona contro chi fa usura e firme false, si preoccupa
della sua reputazione. Nora poco a poco si trasforma, diventa seria, prende coscienza della falsità
dei ruoli in cui lei e suo marito sono ingabbiati. Spera in un “miracolo”, cioè che Torvald possa
capire l’atto d’amore che la portò in passato a fare firme false per salvarlo. Nel secondo atto Nora fa
le prove di una tarantella che deve eseguire a un ricevimento del giorno dopo. Il marito la vuole
addestrare, la vuole docile e ubbidiente; ma la danza meridionale fa esplodere in modo convulso e
disarticolato tutta la tensione che Nora ha dentro. Torvald è turbato, non capisce. Nora vorrebbe
anche chiedere aiuto all’amico di famiglia, il malinconico dott. Rank, da sempre innamorato di
Nora e ora certo anche della propria morte imminente. Proprio mentre la donna sta cercando di
parlare al dottore, facendo affidamento sul suo solito potere di seduzione, Rank “si dichiara”.
Un’altra illusione crolla per Nora, un altro suo ruolo consueto viene a mancare, non può più recitare
quella parte seduttiva. Intanto però qualcosa sta cambiando per Krogstad. Ha ritrovato Kristine, la
signora Linde amica di Nora, vecchio amore di gioventù. Entrambi sono vedovi e disillusi dalla
vita, entrambi vogliono ricominciare umilmente a costruirsi un futuro insieme. Anche il ricatto
disperato di Krogstad era un tentativo per rimanere aggrappato, attraverso il modesto impiego in
banca, a un briciolo di stima di sé. Kristine convince Krogstad a rinunciare al suo ricatto. Ma
Krogstad ha già mandato la sua lettera a Torvald. Invia così una seconda lettera in cui ritratta tutto,
dicendo che la cosa non è più importante. La soluzione del dramma è tra queste due lettere. Alla
lettura della prima Torvald esplode di fronte alla moglie, pensa solo alla propria rispettabilità, la
ripudia, la dichiara indegna di essere moglie e madre; lei dovrà restare, ma solo per mantenere le
apparenze. Quando arriva la seconda lettera, la musica cambia: Torvald è sollevato, “perdona” sua
moglie. A questo punto Nora non perdona suo marito, e gli comunica che lascerà la famiglia perché
deve trovare e capire se stessa, prima di potere essere moglie e madre.
In Norvegia e in Europa le reazioni sono fortissime, di giubilo e di scandalo. In Germania si
cambia il finale, e Nora resta. Sugli inviti dei ricevimenti in Norvegia si prega di non sollevare la
questione di Nora e di Casa di bambola. Nora diventa l’eroina del femminismo nordico. Ma il
rapporto tra Nora e Torvald è più complesso di quello tra vittima e carnefice, nonostante tutto.
L’atto di accusa di Nora è anche autoaccusa; alla fine Torvald si dichiara disposto a cambiare, e
l’ultima didascalia del testo indica che egli sta cominciando a capire qualcosa di quello che è
accaduto. Entrambi devono compiere un percorso di maturazione che, forse, un giorno, potrà
rifondare la loro unione su basi più autentiche e paritarie.
Gengangere (Spettri) del 1881 è legato a Casa di bambola. Dopo le critiche feroci alla scelta
di Nora, Ibsen indica che cosa succede alla donna che, sopportando le bassezze del marito e
l’infelicità del matrimonio, resta in casa per non dare adito a scandalo. Se Casa di bambola mostra
una possibile, seppur difficile, via d’uscita nel futuro, Spettri illustra l’impossibilità del mutamento
positivo: per la signora Alving la consapevolezza arriva ormai troppo tardi, con l’impatto
sconvolgente di una tragedia.
I tre giorni (tre atti) dell’azione ruotano intorno a un’inaugurazione. La signora Alving,
vedova da dieci anni, sta per inaugurare l’asilo fatto costruire per celebrare la memoria del marito, il
capitano Alving. Per questo ha radunato presso di sé il figlio Osvald, pittore di ritorno da Parigi, e il
pastore Manders, amico di famiglia e amministratore dei beni degli Alving. Con la signora Alving,
borghese, vive la giovane Regine Engstrand, sua governante, alla quale la donna è legata come a
una figlia. Bazzica nei pressi anche il padre di Regine, il poco affidabile vecchio Engstrand. Ci
troviamo nella casa della signora Alving, su un fiordo occidentale. Una vetrata ampia sulla parete di
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fondo ci apre la vista sull’esterno. E qui continua a piovere. Osvald, che a Parigi è vissuto in un
ambiente di artisti liberi al di fuori delle convenzioni borghesi, ha conosciuto nel meridione “la
gioia di vivere”; e il tempo cupo di casa non fa che sottolineare la sua polemica contro il rigore e il
grigiore della vita norvegese. Il perbenismo e la chiusura mentale sono concentrate nel pastore
Manders, che pure la signora Alving aveva amato in gioventù. Ora la signora è una donna colta ed
emancipata, e i libri presenti nella sua casa scandalizzano il pastore.
I dialoghi svelano progressivamente gli antefatti. Il signor Alving ebbe una condotta
dissoluta, beveva e tradiva la moglie. La signora si rifugiò da Manders, il quale la richiamò al suo
“dovere di moglie” e la convinse a rientrare. La signora sperava che Manders osasse prenderla con
sé, vivendo apertamente l’amore che entrambi segretamente provavano l’uno per l’altra e sfidando
anche lo scandalo sociale. Ma così non fu. Manders va ancora molto fiero della sua azione. Ma la
signora gli rivela che il suo matrimonio continuò a essere, anche dopo, un “abisso mascherato”.
Osvald fu allontanato e mandato a Parigi proprio per tenerlo lontano dal padre. Ora il ritorno a casa
di Osvald e l’asilo in memoria del marito rappresentano la speranza (l’illusione) di seppellire il
passato e di iniziare una nuova vita.
Ma gli spettri del passato ritornano. D./n. genganger (s. gengångare) è letteralmente il
“ritornante”, colui che (spettralmente) si ripresenta, ritorna (gå igen/igjen). L’asilo, non assicurato,
brucia in circostanze misteriose (con l’evidente zampino del vecchio Engstrand); Osvald, che sa di
essere malato di sifilide, e di non avere speranze, vorrebbe fuggire con Regine, per avere almeno
una donna che lo aiuti a morire. Ora scopre che la malattia è ereditata dal padre. Ma la madre rivela
ai ragazzi anche che Regine è figlia biologica del signor Alving, il quale ebbe una relazione con la
precedente cameriera, poi data in sposa a Engstrand, un debole e un profittatore al tempo stesso; che
dunque Regine e Osvald sono fratellastri e non possono legarsi. Regine fugge disperata, decisa
oramai a “finire male” (lei che doveva diventare la maestra dell’asilo). Osvald chiede alla madre la
disponibilità a dispensargli la morfina e dargli una morte senza dolore, nel caso che un nuovo
attacco di demenza si dovesse presentare. Il dramma si chiude all’alba, finalmente col sole. E
Osvald, precipitato nella demenza, urla alla madre di dargli il sole. Il sipario scende con la signora
Alving che, straziata e paralizzata dal dolore, si appresta (forse) a compiere quel passo.
L’attacco mordace al perbenismo borghese e al moralismo religioso nella figura del pastore,
e la crudezza di temi come la sifilide, l’incesto e l’eutanasia fanno sì che il mondo contemporaneo
di Ibsen non riesca ad accettare Spettri. Ma ancora una volta dobbiamo osservare che le polemica
sociale del momento, pur forte, lascia il posto a una potente tragedia che parla di rapporti umani:
familiari, amicali e amorosi. Nessun personaggio è univoco, tutti hanno complessità e spessore. La
signora amò davvero Manders, e lui negò a se stesso la felicità. Tuttora il suo irritante perbenismo è
accompagnato da una sorta di candida ingenuità, motivo per cui la signora non può smettere di
volergli bene. E la signora Alving si rende anche dolorosamente conto – grazie a Osvald che ha
nostalgia della “gioia di vivere” – che proprio il suo austero rigore e il suo senso della giustizia
hanno forse impedito al marito di esprimere la gioia di vivere che aveva dentro, facendo sì che
questa degenerasse in comportamenti immorali. La signora ama ora il figlio di un amore possessivo,
e vorrebbe tenerselo stretto come risarcimento. Ma il passato non si cancella, e la tragedia si abbatte
su di lei.
Con Vildanden (L’anitra selvatica) del 1884 Ibsen giunge a conclusioni – se possibile –
ancora più negative. La protagonista di Spettri arriva a una finale consapevolezza della verità, anche
se la felicità è ormai irrecuperabile e la tragedia la travolge. Nell’Anitra selvatica non è quasi più
possibile neanche la catarsi tragica, ma solo un senso di grottesca paralisi. La ricerca della verità
appare ormai addirittura dannosa, se in una persona vita e menzogna coincidono e sono
indissolubili. La verità distrugge quel briciolo di felicità fondata su quella che il dottor Relling, il
ragionatore cinico del dramma, chiama livsløgn, menzogna vitale. Ibsen entra così quasi in
polemica con se stesso. Come scrittore aveva sognato di rigenerare lo spirito degli uomini,
insegnare loro a diventare se stessi. Qui rappresenta nel personaggio di Gregers Werle l’idealista
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astratto, colui che vuole riformare gli altri senza capire i suoi moventi intimi (senza conoscere bene
se stesso), e che per questo provoca gravi danni.
Le tre giornate si dividono questa volta in cinque atti, il primo a casa dell’industriale Werle,
durante un ricevimento, gli altri quattro nella soffitta-mansarda dove vive la famiglia Ekdal, legata a
quella dei Werle ma evidentemente caduta in disgrazia. Giunto dagli stabilimenti del padre nel nord,
e in conflitto con lui, Gregers Werle ritrova il vecchio amico Hjalmar Ekdal e procede alla
ricostruzione degli antefatti. Werle e Ekdal padri erano soci, entrambi ricchi, poi coinvolti in
speculazioni. Di fatto Werle si salvò mentre Ekdal finì in malora. Werle senior emerge dal passato
come un cinico “burattinaio”: ha permesso che l’ex socio Ekdal diventasse un vecchio rintronato
(che ora si aggira in casa sua elemosinando); si è scaricato dei sensi di colpa inventando un lavoro
di fotografo per Hjalmar Ekdal, il figlio, e gli ha pure trovato una moglie, la sua ex cameriera Gina
con la quale aveva avuto una relazione. Gina e Hjalmar hanno una figlia di 14 anni, Hedvig, che da
diversi indizi (ad esempio i problemi alla vista) pare proprio essere figlia naturale di Werle senior.
Gregers Werle si vergogna profondamente di tutto questo. È mosso da sentimenti di rivalsa nei
confronti del padre, rimpiange la madre morta, tradita in passato dal marito. Vuole svelare all’amico
Hjalmar come stanno le cose, per aiutarlo a uscire dalla soffocante menzogna e ricostruire il suo
matrimonio su basi più autentiche.
Peccato che abbia scelto un eroe sbagliato per la sua missione. Hjalmar Ekdal è – senza
mezzi termini – uno dei personaggi più infami della letteratura mondiale: la vittima profittatrice. In
lui menzogna e vita si sono fuse indissolubilmente. Hjalmar sa tutto benissimo e fa finta di non
sapere; approfitta dell’aiuto di Werle e dei suoi sensi di colpa; fa finta di lavorare scaricando tutto
sulle sue due donne (che per altro lo amano e lo adorano incondizionatamente); va in giro parlando
di una fantomatica “invenzione” cui sta lavorando, e in realtà schiaccia indisturbati pisolini. Sfrutta
e prevarica Gina e Hedvig, due figure umili e pure.
Nella soffitta degli Ekdal lo spazio scenico si apre a suggestioni simboliche profonde. In un
sottotetto Ekdal padre e figlio vanno ogni tanto a giocare alla caccia. Il vecchio Ekdal fu in gioventù
un cacciatore di orsi nei grandi boschi del nord. Ora la “natura” è ridotta pure lei a una squallida
finzione: qualche abete rinsecchito, galline, piccioni e conigli come “selvaggina”. A Gregers Werle
sembra giustamente di soffocare quando va a trovare l’amico. Ma la soffitta non è solo negativa. Lì
pure Hedvig ha un mondo tutto suo, dove può rifugiarsi nella fantasia, nei libri illustrati, rendendosi
inaccessibile alle ferite del mondo. Ha un rapporto di particolare amicizia con un’anitra ex selvatica,
ora in cattività perché ferita a un’ala, incapace di volare. Anche l’anitra ha la sua storia. Fu ferita da
Werle senior (sempre lui) che andava a caccia. Piuttosto che concedersi, l’anitra, come narrano le
leggende, cercò di inabissarsi sul fondo del mare e morire. Ma il cane di Werle si tuffò e la stanò. E
Werle scaricò l’animale a Hedvig figlia di Hjalmar.
Gregers Werle vede se stesso nei panni del riformatore in questi termini: la vita
matrimoniale degli Ekdal è un abisso di menzogne. Egli identifica simbolicamente questa
menzogna proprio nell’anitra inabissatasi, e vede se stesso come il segugio che stana gli Ekdal e li
porta di nuovo in superficie, verso la luce e la verità. Ma Gregers è uno scarso interprete di simboli;
non capisce affatto la profonda identificazione simbolica tra Hedvig e l’anitra; il loro comune
bisogno di volo, fuga, cielo, libertà; e la loro capacità di resistere e mantenere una propria dignità
anche “in gabbia”, nel contesto moderno più degradante. Infine Gregers “svela la verità” a Hjalmar,
che fa la scena madre, ripudia la figlia in modo declamatorio, e se ne va di casa (o meglio, finge di
farlo, va al piano di sotto dal dottor Relling e lo studente Molvik) in modo altrettanto plateale. Gina
e Hedvig sono affrante, ma sopportano con dignità. Finché non arriva la bella pensata di Gregers:
convincere Hedvig a sacrificare l’anitra, il simbolo negativo, per riconquistare il padre. Hedvig, che
è stata ripudiata dal padre con parole disumane, capisce tutto fin troppo bene; prende la pistola di
Hjalmar e sacrifica se stessa sparandosi.
Alla fine Gregers è ancora retoricamente convinto che questa tragedia aiuterà Hjalmar a
maturare. Relling è assai più scettico: tempo qualche mese, e la morte di Hedvig non sarà che un bel
motivo di declamazione per Hjalmar. Gregers Werle ha agito per un astratto senso di giustizia
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contro le malefatte del padre, rifiutandosi tra l’altro di vedere che anche suo padre, ormai anziano,
stava cambiando, e che cercava con lui un confronto. Il ruolo della signora Sørby, compagna
dell’anziano Werle, donna pragmatica e umana, sincera amica di Gina, serve forse anche a illustrare
una nuova umanità di Werle senior che il figlio, per la sua rigidità, non riesce a cogliere. Ancora una
volta un quadro particolarmente sfaccettato e ambivalente. Un altro grande capolavoro ibseniano,
forse il più grande.
Concludiamo con un breve accenno all’unico dramma che si discosta dalla parabola sempre
più negativa della riflessione ibseniana: Fruen fra havet (La donna del mare) del 1888. Ellida,
donna borghese di mezza età, sposata e con due figlie ventenni, è misteriosamente attratta dal mare
e dalla fuga dalla sua vita ordinata. Come narrano le antiche leggende, lo spettro del marinaio
naufrago poteva “ritornare” (vedi lo stesso concetto di gengangere) a riprendersi la sposa o
fidanzata, che nel frattempo si era rifatta una vita con un altro uomo. Ibsen trasferisce ancora la
suggestione folcloristica nel contesto moderno e nella questione del matrimonio come libera scelta.
Da Ellida torna il misterioso marinaio straniero cui lei fu legata in passato; l’uomo le chiede di
seguirlo per sempre. Ellida è attratta. E solo quando il marito la lascia completamente libera di
scegliere il suo destino, il fascino della fuga svanisce, ed Ellida decide di “acclimatarsi” alla sua vita
domestica, e alle sue gioie.

L’età di Ibsen coincide con il momento d’oro della letteratura norvegese. Accanto a lui si afferma
una schiera di scrittori letti non solo in patria, ma in tutta la Scandinavia e in Europa, soprattutto in
Germania. La mostra dei quadri di Munch fa furore e scandalo a Berlino agli inizi degli anni
Novanta, e leggere i norvegesi è di moda. Riferendosi a questo fenomeno lo scrittore tedesco
Theodor Fontane parla con un po’ di ironia di Norwegerei, “mania norvegese”.
I maggiori tra questi scrittori sono Bjørnstjerne Bjørnson (1832-1910), Jonas Lie (1833-
1908), Alexander Kielland (1849-1906), Amalie Skram (1846-1905) e Arne Garborg (1851-1924).
Essi non fanno “gruppo”; ognuno ha una spiccata personalità e percorre la propria strada. Sono
tuttavia accomunati da alcuni tratti generazionali: a eccezione di Bjørnson, autore di drammi,
racconti e poesie, essi sono principalmente romanzieri e prosatori. Sono legati alle tendenze e ai
valori del moderne gennembrud di Brandes. Non seguono sempre l’idea che la letteratura debba
“discutere i problemi” ed esprimere una tesi, ma appartengono all’ala radicale e partecipano
attivamente al dibattito sociale e politico. Nelle loro opere, così come nei drammi di Ibsen, troviamo
rappresentate con sguardo critico le nuove dinamiche economiche e sociali della società norvegese:
il capitalismo, la finanza, l’industria, i conflitti sociali, la frattura tra tradizione e modernità,
campagna e città; e ancora: la vita borghese, il contesto familiare e il ruolo della donna, la morale
sessuale. Nonostante l’impegno nelle questioni norvegesi, questi scrittori condividono l’esperienza
dell’esilio e dell’apertura a orizzonti culturali più vasti fuori dal proprio paese.
Bjørnson diventa – più di Ibsen – il nasjonalskald della letteratura norvegese dell’epoca,
succedendo a Wergeland in quel ruolo: pedagogico, democratico, patriottico, solenne, attivamente
impegnato in tutte le battaglie sociali del tempo, con uno spirito battagliero e fondamentalmente
ottimista e fiducioso. La sua parola è anche politica: fa discorsi pubblici e scrive articoli. Premio
Nobel per la letteratura nel 1903, per i contemporanei è il grande della letteratura norvegese accanto
a Ibsen. Oggi la sua statura appare ridimensionata dal carattere più contingente delle sue opere,
legate alle “questioni del tempo”. I suoi rapporti con Brandes e Ibsen sono di burrascosa amicizia,
con slanci, rotture e riconciliazioni. Ammira Ibsen, ma non ne condivide il pessimismo. Bjørnson si
presenta come il poeta della patria e del popolo. Suo è il testo dell’inno nazionale norvegese Ja vi
elsker dette landet (Sì, noi amiamo questo paese) del 1859. Ottiene successo con i racconti di vita
contadina, forse la parte migliore della sua opera letteraria. Qui combina i valori progressisti e
democratici con un’attenzione verso i valori tradizionali e autenticamente norvegesi della società
contadina. Tra questi racconti, uno dei più noti è En glad gutt (Un ragazzo allegro, 1860). Faderen
(Il padre) (fot. 41) è un breve racconto di ambientazione contadina che raccoglie in nuce toni e temi
tipicamente bjørnsoniani. L’evento tragico che colpisce il ricco contadino, la perdita del figlio
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sempre portato in palmo di mano, dà un insegnamento, c’è una morale (quella che viene a mancare
nel pessimista Ibsen): la reputazione e l’accumulazione del denaro non sono la prima cosa. Anche
Bjørnson, laico, proviene da un contesto credente ed eredita valori fondamentalmente cristiani.
Questo breve racconto è una parabola. Dal punto di vista formale osserviamo la capacità di
concentrare la storia di una vita in poche, sobrie battute tra l’uomo e il prete. Bjørnson cerca lo stile
impassibile, scarno e solenne delle saghe norrene, che serve tra l’altro a connotare il carattere
nazionale, tipico di uomini di poche parole. Notiamo che la voce narrante non esprime commenti,
ma riferisce dialoghi ed eventi – il commento scaturisce dalle cose stesse.
Anche Bjørnson, come Ibsen, ha radici profonde nel romanticismo nazionale. È affascinato
dalla materia antico-nordica, cui si ispira per diversi drammi. Poi, come il collega, dedica la sua
drammaturgia alle questioni moderne. Nel dramma En handske (Un guanto, 1883) attacca
l’ipocrisia della morale sessuale maschile attraverso il personaggio femminile, Svava, che chiede al
fidanzato la stessa verginità prematrimoniale che lui esige da lei. Scoppiano le polemiche. Gli altri
scrittori radicali criticano il puritanesimo di Bjørnson: si tratta di avere una più libera morale
sessuale per tutti, non una più repressiva per tutti. Ma Bjørnson tocca comunque un punto dolente
della morale maschile. Over Ævne (Oltre le capacità, 1883), considerato il capolavoro del teatro di
Bjørnson, rappresenta un prete del Nordland diventato famoso per i suoi miracoli. L’opera affronta
il tema del conflitto tra cristianesimo e il moderno contesto laico, non più disposto ad affidarsi alla
dimensione irrazionale della fede.
Jonas Lie è un maestro del romanzo norvegese. Rappresenta la società e le questioni del
tempo, ma si oppone all’idea di letteratura a tesi e di denuncia. Egli si concentra piuttosto sui destini
umani, e il suo realismo si combina con l’approfondimento psicologico, anche verso la dimensione
più oscura e irrazionale dei personaggi. Cresce nel Nordland, e in questa regione settentrionale e
maestosa della Norvegia è ambientato il suo primo romanzo breve, Den fremsynte eller billeder fra
Nordland (Il veggente o immagini dal Nordland, 1870). La natura – con pause solari, ma pure
capace di scatenare forze incontrollabili – diventa metafora della dimensione irrazionale e
insondabile del protagonista, veggente suo malgrado. Lie vive a Parigi dal 1882 al 1906, e qui
scrive i suoi romanzi, tutti norvegesi. La condizione femminile in un contesto borghese e patriarcale
è descritta in Familjen på Gilje (La famiglia a Gilje, 1883) e Kommandørens døttre (Le figlie del
comandante, 1886). La contemporanea realtà commerciale e finanziaria fa da sfondo al bel Onde
makter (Forze malvagie, 1890), e la vita coniugale ritorna in Et samliv (Un matrimonio, 1887) e
Når sol går ned (Quando tramonta il sole, 1895). Specialmente nei romanzi degli anni Novanta Lie
approfondisce lo sguardo psicologico e scruta nella crisi dell’individuo di fine secolo.
Kielland proviene da una famiglia della ricca borghesia commerciale di Stavanger, e scrive
romanzi e racconti. Un suo primo capolavoro nella forma breve è la raccolta Novelletter (Piccole
novelle, 1879), dove la denuncia sociale è espressa con sarcasmo ed elegante ironia. Kielland è
radicale e democratico, “brandesiano”, convinto che la letteratura debba esprimere una tendenza
progressista. Scrive i suoi migliori romanzi negli anni Ottanta, tra i quali il capolavoro Garman &
Worse (1880), una rievocazione critica e nostalgica insieme della borghesia imprenditoriale della
propria città. Arbeidsfolk (Operai, 1881) si sofferma sulla questione sociale, mentre Else (1881),
storia di una ragazza del popolo “finita male”, illustra con una satira amara l’ipocrisia della morale
sessuale degli uomini borghesi. Kielland attacca il conformismo borghese, la discriminazione contro
le donne, l’ingiustizia sociale e il cristianesimo di facciata. Lo stile brillante e la grazia ironica
esprimono in realtà una forte indignazione contro un ambiente norvegese sentito come angusto e
ipocrita. Nonostante l’acume della visione e la qualità dello stile, la sua opera rischia a volte di
restare troppo ancorata alle “tesi” e alla polemica sociale. L’intensa attività letteraria di Kielland è
legata agli anni Ottanta e alle speranze di rigenerazione tipiche di quella fase. La sua vena si
esaurisce nel mutato orizzonte del decennio successivo. Anche il vasto epistolario è importante per
definire la sua posizione e la sua personalità.
Nei romanzi di Amalie Skram emerge il lato cupo e pessimista del naturalismo. Sono storie
di vinte e di vinti, dove la vita appare come lotta disperata e l’individuo non riesce a emanciparsi
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dai condizionamenti imposti da eredità, ambiente e classe sociale. Constance Ring (1885) è il primo
di una serie di romanzi che raccontano di condizione femminile e matrimonio. Il radicalismo della
Skram suscita scandalo e opposizione in Norvegia e la scrittrice – sposata in seconde nozze con lo
scrittore danese Erik Skram e residente a Copenaghen – si sentirà sempre incompresa dalla
madrepatria. Il suo capolavoro è la tetralogia Hellmyrsfolket (La gente di Hellemyren, 1887-98), che
descrive la lotta per la vita, e il fallimento, in diverse generazioni della stessa famiglia.
Arne Garborg è romanziere e una delle figure intellettuali di maggior spicco del periodo,
acuto interprete del proprio tempo, attivo nel dibattito sociale, culturale e letterario. Vive la frattura
tra mondo contadino di provenienza e la cultura urbana che apre a più vasti orizzonti.
Bondestudentar (Studenti di provincia, 1883) si basa su questa esperienza. Scrive prevalentemente
in nynorsk (l’unico tra i grandi di questa fase), ma Trætte Mænd (Uomini stanchi, 1891), l’opera
forse più rappresentativa, è in bokmål: romanzo-diario in cui l’io narrante – moderno, colto e laico –
confessa un vuoto e un’assenza di direzione tali da ricondurlo all’approdo della fede religiosa.
L’autore precisa che il romanzo non è autobiografico, ma vuole oggettivare con la conversione una
delle situazioni tipiche della crisi di fine secolo. Il tormento religioso è un tema che comunque tocca
da vicino lo scrittore, che nel romanzo Fred (Pace, 1892), di nuovo in nynorsk, rielabora il destino
tragico di suo padre.
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AUGUST STRINDBERG E IL NATURALISMO IN SVEZIA

Tra le molte definizioni che August Strindberg (1849-1912) dà di sé, una dice: “non sarò la più
grande testa di Svezia, ma sono il fuoco più grande”. La sua opera è effettivamente vulcanica, di
vastità e varietà prodigiose. La nuova edizione critica delle sue opere complete, in via di
ultimazione, conta oltre settanta volumi, ai quali vanno aggiunti ventidue volumi di lettere.
Strindberg appartiene alla letteratura mondiale soprattutto come drammaturgo, ma egli coltiva con
genio ogni genere letterario: teatro, romanzo, racconto, poesia, autobiografia; anche le sue lettere
sono testi letterari, tasselli di un’ininterrotta autobiografia e testimonianza di un’intera epoca. Oltre
che grande scrittore, Strindberg è un lettore estremamente ricettivo, e l’intertestualità, il dialogo che
nei suoi testi avviene con altri testi, è un dato caratteristico della sua opera. Inoltre Strindberg
coltiva numerosi interessi extraletterari che in vario modo influenzano la sua scrittura, si intrecciano
con essa, contribuiscono a formarne i caratteri e a causarne le svolte: scienze naturali, botanica e
chimica; giornalismo, politica e storia; lingue straniere (scrive libri in francese; si appassiona alla
filologia cinese); pittura e fotografia; e, nella seconda fase della sua carriera, alchimia, occultismo e
teosofia. In questo senso Strindberg è uno scrittore tipico del proprio tempo: di quel tardo Ottocento
improntato alla scienza che vede un moltiplicarsi di saperi e conoscenze. Strindberg ha un’infinita
sete di conoscenza, e si pone al crocevia di idee, correnti e programmi tanto in letteratura quanto in
altri campi. Strindberg, però, acquisisce e rielabora in modo molto soggettivo, secondo i propri
bisogni di artista e di uomo. È socialista e crede nel progresso, ma è anche un seguace di Rousseau,
ed è scettico verso il progresso. È radicale e democratico, ma anche nemico del femminismo e
aristocratico dello spirito, secondo il modello di Nietzsche. È blasfemo e attacca la religione, ma
non diventa mai ateo e si converte infine a una personale fede cristiana. È razionale e mistico,
pessimista e umorista. Strindberg non è e non vuole essere un pensatore rigoroso e coerente. Sa di
vivere la scissione, la disarmonia e l’inquietudine dell’uomo moderno. Accoglie l’idea di
Kierkegaard di “sperimentare con i punti di vista”; la contraddizione e il dubbio sono un metodo
conoscitivo, ma anche fonte di tormento. Ci sono un’urgenza, una drammaticità, un’irrequietezza e
una qualità visionaria che rendono l’opera di Strindberg certo complessa e a volte anche dispersiva,
ma sempre geniale, viva e appassionante.
Lo stesso mutare dei punti di vista e delle visioni del mondo appare un tentativo dello
scrittore di trovare nuove spiegazioni del proprio destino. Un’altra materia che Strindberg rielabora
continuamente nei suoi scritti è, appunto, la propria vita. Vita e opera sono legate a doppio filo e in
modo complesso. Le autobiografie vere e proprie sono Tjänstekvinnans son (Il figlio della serva),
pubblicata nel 1886-87 (le prime tre parti) e nel 1909 (la quarta e ultima parte); e Le plaidoyer d’un
fou (L’autodifesa di un folle), scritta in francese tra il 1887 e il 1889. Strindberg scrive però
continuamente di se stesso, si rappresenta nella scrittura, diventa oggetto letterario al punto che
neanche lui riesce quasi più a distinguere che cosa sia “vita” e che cosa “opera”. Lo studioso può
avere l’impressione di sapere “tutto” di Strindberg (nelle lettere narra la sua vita pressoché giorno
per giorno), eppure intuisce che la continua rappresentazione di sé è anche una maschera,
un’immagine letteraria che l’autore dà grazie alla forza della sua scrittura. È molto difficile dire, e
forse inutile chiedersi, chi sia il “vero” Strindberg al di là della scrittura.
Su tutti, ci sono un paio di dati biografici che giocano un ruolo importante nell’opera
letteraria: il rapporto tormentato di Strindberg con le donne, segnato da tre matrimoni con figli e tre
divorzi – fatti laceranti che lasciano strascichi e lo riempiono di infinita amarezza; e la vita esiliata,
spasmodica e itinerante (è fuori dalla Svezia in pratica dal 1883 al 1897), nel tentativo di vivere
come libero scrittore, ma sempre con famiglia a carico, spostandosi per gli alberghi e le capitali
d’Europa. I due fatti sono legati; i matrimoni diventano insostenibili anche per la vita sradicata che
il fuoco sacro della scrittura impone a Strindberg. L’aspetto più famigerato, quello dello Strindberg
brutalmente misogino, è innegabile, e turba i lettori per la violenza e assurdità di certi attacchi. Ciò
che si può però notare è che Strindberg si scaglia contro le donne perché non può fare a meno di
loro, le ama troppo e, nell’amare, si sente esposto e debole. Le sue gelosie e manie persecutorie
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(non potere dimostrare la paternità, paura di essere ritenuto pazzo) sono emblematiche della crisi
dell’uomo moderno posto di fronte a una donna che sta cambiando ruolo. Strindberg stesso sceglie
compagne decisamente emancipate: Siri von Essen e Harriet Bosse, la prima e la terza moglie, sono
attrici, mentre l’austriaca Frieda Uhl, la seconda, è giornalista. Poi però pretende da loro il ruolo
tradizionale e sottomesso tipico della vecchia società patriarcale.
Pare che nel 1894 l’anziano Ibsen acquisti un ritratto del collega svedese, per tenerlo sempre
sulla sua scrivania con la dicitura “la pazzia che esplode”. In realtà Strindberg non diventa mai
pazzo, non oltrepassa mai il limite; ma vive sempre al limite della tensione psichica.
A tale proposito possiamo chiederci quali relazioni intercorrano tra i due più grandi scrittori
scandinavi, che spesso vengono abbinati (se non addirittura confusi). Sono scrittori molto diversi,
ma nati da uno stesso contesto culturale, e con una molteplicità di fili che li legano. Non si
conoscono personalmente e non sono amici, ma ognuno ha ben presente le opere dell’altro, credo
con rispetto e ammirazione, sebbene non sempre dichiarati. Strindberg attacca ovviamente l’Ibsen
“femminista”, ma sempre nella consapevolezza che Ibsen è un grande scrittore, l’autore di un
capolavoro come Spettri. Infine Strindberg è di venti anni più giovane, e la sua opera si colloca tra il
1870 e il 1910 circa. Dal punto di vista formale è il teatro di Strindberg – più di quello di Ibsen – a
rappresentare una rivoluzione e ad anticipare percorsi del teatro novecentesco. Vedremo come.
La prima importante opera di Strindberg è Mäster Olof (Maestro Olof) del 1872, un dramma
storico sulla Riforma in Svezia. Nel personaggio del riformatore e umanista Olof, ossia Olaus Petri,
e del suo conflitto con l’uomo di potere, il re Gustavo Vasa, Strindberg dà già un’immagine indiretta
di sé e del proprio dilemma di intellettuale progressista. Mäster Olof ha però scarso successo;
l’affermazione clamorosa di Strindberg arriva nel 1879 con il romanzo Röda rummet (La stanza
rossa) e con la raccolta di racconti Det nya riket (Il nuovo regno) del 1882. Con queste opere
Strindberg inaugura il Naturalismo nella letteratura svedese, proponendo una nuova prosa di taglio
moderno, realistico e satirico, capace di descrivere la società borghese e smascherarne l’ipocrisia e
le ingiustizie. L’evento è letterario e politico allo stesso tempo: Strindberg attacca tutto quanto sa di
potere, ufficialità, privilegio e culto del denaro. E attorno a lui si raccolgono le speranze diffuse di
un mutamento sociale verso la democrazia e il socialismo. Negli stessi anni Ottanta si formano il
partito socialdemocratico e il sindacato. Strindberg è amico di Branting e, come grande scrittore,
uno dei punti di riferimento del movimento.
Si forma anche un movimento di scrittori radicali e progressisti, Det unga Sverige (La
giovane Svezia), che sulla scia di Brandes e Strindberg vogliono promuovere una letteratura che
“discuta i problemi”. Nonostante alcune personalità interessanti (un paio ne nomineremo alla fine
del capitolo) è Strindberg l’unico grande scrittore degli anni Ottanta in Svezia, il temperamento
artistico assolutamente dominante.
La stanza rossa è un romanzo a episodi, con al centro il personaggio del giovane Arvid Falk,
il quale fa parte di una cerchia di intellettuali e artisti bohémien che vivono al margine della società
(e della città di Stoccolma che è il luogo della rappresentazione). Essi non vogliono accettare i
compromessi; sono poveri, idealisti e anticonformisti, alla ricerca di una loro difficile realizzazione
nella vita. Il titolo si riferisce alla stanza nel salone Berns, nel centro di Stoccolma, dove i
personaggi si ritrovano per stare insieme, bere e conversare. Il romanzo è privo di una trama
unitaria; ogni capitolo è un racconto che vede protagonista ora Arvid ora altri personaggi della sua
cerchia. Arvid Falk impersona tratti e problemi che Strindberg sente molto vicini: è un giovane
idealista, timido e sensibile, con un forte senso della giustizia (e delle ingiustizie che vigono nella
società). È solidale con gli operai e gli sfruttati. Si licenzia dall’ente statale per cui lavora (e che lo
fa sentire un’inutile ruota dell’ingranaggio), e decide di “sfidare la città” (così si apre il romanzo,
con una famosa panoramica dall’alto, sul colle di Mosebacken) diventando scrittore e giornalista.
Vuole vivere della sua penna e osservare la società. E la capitale Stoccolma offre la “materia
prima”, in quanto concentra i luoghi di potere della nuova società moderna e capitalistica. Le
peregrinazioni di Arvid attraverso la città aprono finestre su questi luoghi: l’ente ministeriale, i
giornali, le case editrici, la società per azioni, la compagnia di assicurazioni il parlamento e altri
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ancora. Il parlamento viene descritto in particolare nel capitolo VIII “Povera patria”, in cui Arvid è
testimone della pochezza dei dibattiti nell’aula. Il romanzo è infatti ambientato verso la fine degli
anni Sessanta, e descrive tra l’altro la delusione dei democratici dopo le aspettative di rinnovamento
per la riforma parlamentare del 1866/67, che abolisce i quattro stati. Sappiamo effettivamente che il
suffragio è ancora molto ristretto, e la politica svedese molto elitaria; e comprendiamo così le
ragioni storiche della critica di Strindberg. Nel complesso, i luoghi e i meccanismi della società
capitalistica moderna sono messi a nudo e fatti oggetto di una satira devastante. È una realtà dove
tutto diventa merce, e dove bisogna vendersi e fare a gomitate per emergere. Il lettore odierno può
perdere i riferimenti a persone e circostanze del tempo; ma non perde l’essenza, perché la società
che descrive Strindberg funziona ancora, e più che mai, così.
Arvid e i suoi amici si caratterizzano proprio per il loro rifiuto di stare a questo gioco. Ma
La stanza rossa diventa allora anche il racconto di una grande sconfitta; il suo esito è molto amaro e
pessimista, nonostante la satira irriverente e briosa. Arvid è sconfitto dalla realtà brutale e
mercificata e alla fine, dopo avere rischiato il crollo nervoso (anche per una delusione d’amore che
mette in risalto la sua ingenuità) egli “rientra nella realtà”, ma totalmente rassegnato e omologato,
di nuovo integrato nell’ingranaggio sociale. Non reagisce più e si occupa di cose morte, come la
numismatica. Il romanzo suscita dunque il riso irriverente per l’allegra satira contro il potere dei
soldi, ma induce anche all’amarezza e alla misantropia: la società e gli uomini non sono
migliorabili. Falk è omologato, così come Rehnhjelm, che fallisce come attore (vittima tragicomica
della stessa delusione d’amore di Falk, con la stessa ragazza!); il filosofo del gruppo, Montanus, si
uccide, spiegando in una lettera perché non valga la pena di vivere in questo mondo. Il pittore
Lundell si vende al mercato e all’accademia e ha successo, passando dall’altra parte della barricata.
L’altro pittore, Sellén, pare essere l’unico che riesca a restare se stesso, non tradire i propri ideali,
senza perdere il contatto con la realtà. Il personaggio del gruppo che emerge verso la fine del
romanzo è Borg, l’unico non artista e non intellettuale. Borg è anch’egli radicale, ma si corazza
dalle delusioni con un atteggiamento drastico e cinico. Appare perciò più forte e più in grado di
cavarsela.
Nel ritratto del fratello di Arvid, il ricco commerciante Carl Nicolaus, e della moglie stolta e
annoiata, Strindberg offre un ritratto satirico della borghesia danarosa e della sua ipocrisia. Già qui è
possibile intravedere certi temi antifemministi che diventeranno più espliciti e aggressivi nel
prosieguo dell’opera di Strindberg.
La stanza rossa esprime ciò che un’intera generazione radicale pensa. È un romanzo
“naturalista” nel senso dell’osservazione della società e della volontà di denuncia. Non è invece
naturalista nel senso dello stile impassibile e “fotografico”. La narrazione satirica non può essere
impassibile, perché deforma, esagera e tende a esprimere un giudizio morale. È stato notato dai
critici che Dickens, più di Zola, è un modello di riferimento per stile e contenuti di questo romanzo.
Dopo La stanza rossa e Il nuovo regno Strindberg è pesantemente attaccato dal fronte
conservatore. Sentendosi perseguitato, lo scrittore parte per Parigi nell’autunno del 1883; è l’inizio
del primo periodo di esilio che durerà fino al 1889 e porterà Strindberg e famiglia in giro per
l’Europa. Proprio in questo frangente lo scrittore pubblica due raccolte di poesie: Dikter (Poesie,
1883) e Sömngångarnätter på vakna dagar (Notti di un sonnambulo a occhi aperti, 1884). Da
queste due raccolte analizziamo Cantori! e Nell’avenue de Neuilly (fot. 42). La prima è un attacco
alla poesia tardo-romantica dei padri da parte dei giovani, indicativa del tono irriverente e satirico
dello Strindberg radicale e iconoclasta di questi anni. La seconda strofa fa riferimento al culto –
ormai stantio – dell’antico nordico, tipico del romanticismo di maniera. A questo il poeta
contrappone un progetto decisamente naturalista: evidenziare il brutto. Finché il “bello” sarà una
parvenza con cui delle anime belle si gingillano, la nuova poesia non potrà che essere,
provocatoriamente, “brutta”, perché almeno nel brutto risiede il vero. Qui Strindberg guarda in
avanti ed esprime fiducia nel “nuovo giorno” dell’avvenire. La seconda poesia esprime
un’esperienza già più problematica. È fondata su un’associazione tra il cuore esposto nella vetrina
del macellaio parigino, davanti a cui lo scrittore esiliato passa, e il suo libro che nello stesso
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momento, in una vetrina di Stoccolma (Norrbro era l’antico centro commerciale), è similmente
esposto, come un cuore tremante di freddo. Le implicazioni sono molteplici: l’immagine
particolarmente cruda della macelleria è una realizzazione dell’“estetica del brutto”, e tuttavia
rimanda pure a immagini romantiche: il cuore dello scrittore, la propria ispirazione poetica. Tutto
ciò è ridotto a merce; il libro, come il cuore del vitello, è merce in vendita. Oltre a illustrare la
propria personale nostalgia di esiliato (a Parigi con il corpo, con la mente a Stoccolma), Strindberg
oggettiva in questa bella poesia anche la moderna condizione dello scrittore sul mercato.
Con i racconti di Giftas I (Sposarsi I, 1884) Strindberg vuole descrivere casi matrimoniali e
riflettere sul perché i matrimoni moderni sono infelici. È un modo per inserirsi in un dibattito
particolarmente attuale, e anche per trovare una ragione dei suoi problemi matrimoniali. Sposarsi I
non è ancora antifemminista; Strindberg si proclama anzi socialista e radicale, anche se in un
racconto (dal titolo Ett dockhem, Una casa di bambola) critica la scelta di Nora come contraria ai
più elementari istinti materni. I racconti vengono criticati su due fronti: mentre Strindberg è
denunciato dalle autorità per vilipendio alla religione (in un racconto ritiene impossibile che le ostie
e il vino, prodotti in serie da una data ditta, possano davvero essere corpo e sangue di Cristo), gli
amici radicali non condividono le sue critiche a Ibsen. E Strindberg si difende attaccando. Giftas II
(Sposarsi II) del 1886 è violentemente misogino nel rappresentare una donna vampiro profittatrice,
che sfrutta l’uomo (“debole perché ama”) e lo ricatta con la maternità. Il matrimonio è prostituzione
legalizzata (il marito paga la moglie parassita per ottenere il suo amore); e il rapporto tra sessi non
può che essere di lotta.
Accuse di questo tipo, e ancora più feroci, sono rivolte dallo scrittore alla sua prima moglie
nella già menzionata Autodifesa di un folle, in cui lo scrittore espone la sua vita più intima e si
rappresenta come caso clinico. Da questo contesto ossessivo di enorme tensione nasce il primo
capolavoro del teatro naturalistico di Strindberg, il dramma in tre atti Fadren (Il padre, 1887), che
mette in scena una “lotta tra cervelli”. I protagonisti sono il Capitano, uomo probo, ma con
l’ossessione di non potersi dimostrare padre di sua figlia, sospettoso verso sua moglie Laura, e
timoroso di essere ritenuto pazzo e rinchiuso. L’intensa e concentrata “lotta di cervelli” è vinta dalla
donna, malvagiamente capace di insinuare e alimentare il dubbio nel marito, fino a ottenere il
risultato voluto: farlo portare via in camicia di forza. Si delinea la forma scenica prediletta da
Strindberg: pochi personaggi, poco intrigo, ma grande tensione psichica; forza visionaria che
infrange i limiti del realistico e verosimile.
Nel 1888 Strindberg legge Nietzsche e ha anche un breve scambio epistolare con lui. Lo
scrittore trova una nuova spiegazione del suo destino: è un essere superiore, nobile di spirito,
circondato da una massa di piccoli uomini rozzi e meschini. È evidente che le esperienze tra il 1884
e il 1888 allontanano Strindberg dal socialismo e dal progressismo.
Nel 1888 giunge anche l’altro capolavoro del suo teatro naturalistico, Fröken Julie (La
signorina/contessina Giulia). Ritorna la battaglia psichica tra i sessi, ma questa volta la lotta ha
anche implicazioni sociali. È un atto unico, che si svolge nello stesso luogo senza interruzioni di
tempo e di azione (i tre momenti dell’azione sono solo separati da un ballo e da una pantomima). È
la notte di mezza estate, nella cucina della casa del conte, che è assente per un viaggio. Sua figlia
Julie, 25 anni, audace e inebriata, aizza al corteggiamento il domestico Jean (30 anni). Più in
disparte, incapace di stare sveglia, è Kristin (35 anni), anche lei domestica e fidanzata ufficiale di
Jean. Ecco tutti i personaggi del dramma, coinvolti in una vicenda senza particolari intrighi ma di
grande tensione psichica. Nel gioco erotico della notte di San Giovanni la signorina è inizialmente
in una posizione superiore rispetto al suo servo, che deve obbedire e non può prendersi certe libertà.
Julie appare sicura di sé e spigliata, la sua posizione sociale la tutela da ogni rischio. Kristin vede e
fa finta di non vedere; è la serva che sopporta tutto, che “sta al suo posto”. Esclusa dal gioco
seduttivo tra Julie e Jean, Kristin si addormenta, proprio nella notte in cui tutti amoreggiano, ballano
e sono svegli.
Poco alla volta, però, i ruoli tra Julie e Jean si invertono. La contessina è certo nobile,
raffinata e superiore, ma si rivela tutt’altro che “padrona della situazione”, quanto piuttosto insicura,
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senza un appiglio e un punto di riferimento nella vita. All’opposto, Jean è di origine misera, ma
capace, astuto, cinico, senza sentimenti e con una gran voglia di rivalsa e di ascesa sociale.
Conversando e corteggiandosi, i due raccontano i rispettivi sogni: Julie sogna di precipitare da una
colonna e sprofondare nel terreno, dissolversi; mentre Jean sogna di conquistare il nido dalle uova
d’oro in cima all’albero; basta riuscire ad afferrare il primo ramo, e arrampicarsi… Strindberg, che
fino a qualche anno prima, da socialista, aveva auspicato l’ascesa delle classi subalterne, raffigura in
Jean un servo astuto e profittatore, che usa ogni mezzo pur di affermarsi.
Il mutamento decisivo dei rapporti di forza avviene quando Jean convince Julie ad appartarsi
in camera e concedersi a lui, mentre Kristin dorme (è qui che interviene il ballo dei contadini).
Riappaiono sulla scena “dopo”. Jean è esaltato e pieno di sé, Julie sempre più umiliata, debole e allo
sbando, in balia di lui. Ora Julie fa la sentimentale, parla d’amore e sogna romanticamente la fuga e
lo scandalo. Jean non parla affatto d’amore, ma intravede la possibilità di “fuggire con la cassa”,
prospettandole vagamente un improbabile futuro insieme presso il lago di Como. Il dialogo è un
crescendo di tensione e procede a sbalzi irregolari. Julie passa dal sentimentalismo implorante
(“dimmi che mi ami”) a scatti di nobile orgoglio, e di disprezzo per il servo che l’ha infangata. Ma è
Jean a vincere la battaglia psichica in un crudo crescendo: 1) suggerisce – a una Julie in stato quasi
di ipnosi, incapace di esprimere una propria volontà – di salire al piano di sopra e prendere i soldi;
2) quando Julie arriva pronta per partire, Jean le ordina di lasciare il cardellino in gabbia, cui Julie è
profondamente legata. Julie esplode chiedendo a Jean, se ne ha il coraggio, di uccidere lui l’uccello;
cosa che Jean fa – sulla scena – senza la minima esitazione. 3) Infine, mentre il conte sta rientrando,
Julie vorrebbe uccidersi per il disonore, ma non ne ha la forza; ancora una volta Jean – ora anche lui
paralizzato dalla paura – le suggerisce che cosa deve fare, dandole il proprio rasoio. Così si chiude
il dramma; il suicidio di Julie non è rappresentato ma solo suggerito, così come possiamo solo
immaginare il futuro di Jean: riuscirà a fuggire con la cassa? Avrà il successo che sogna? Sarà
fermato e punito?
L’autore, come precisa nella prefazione al dramma, non vuole parteggiare per nessuno dei
personaggi, ma solo assumere la posizione imparziale di chi, naturalisticamente, illustra un caso
(per altro ispirato a un vero fatto di cronaca). Ma se nel dramma c’è un personaggio che assume
spessore tragico, questo è solo Julie, la donna raffinata e confusa, circondata da meschini, il rapace
Jean e la bigotta Kristin. Strindberg “il misogino” rappresenta in Jean l’orgoglio della conquista
come umiliazione della donna, e nella contessina una grandezza infangata destinata a soccombere
(la polemica antifemministe non manca nel dramma, ma è secondaria: Julie è caratterialmente così
debole per l’educazione sbagliata ricevuta dalla madre, donna emancipata). Il contenuto del dramma
è la tragedia della signorina Julie: nobile, raffinata e col senso dell’onore; ma anche fragile,
disperata, alla ricerca di un appiglio nella vita cui aggrapparsi.
Parte integrante del testo è l’importante prefazione, in cui l’autore spiega perché Fröken
Julie è da considerarsi un dramma naturalistico, ett naturalistiskt sorgespel. 1) È naturalistico dal
punto di vista dell’allestimento scenico, teso ad aumentare l’illusione di realtà, non solo attraverso
l’atto unico e l’unità di luogo, tempo e azione, ma anche attraverso gli arredi reali e non dipinti e la
recitazione con la “quarta parete” (cfr. Ibsen). Strindberg illustra già un teatro in qualche modo
intimo, concentrato, capace di mettere in risalto la mimica e la recitazione degli attori. 2) Inoltre,
come già detto, il dramma illustra un caso di darwinismo sociale: i più forti sopravvivono e i più
deboli soccombono. Lo scrittore, simile a uno scienziato, assume un atteggiamento freddo e
distaccato rispetto al proprio oggetto. 3) Infine, ed è l’aspetto più importante, Fröken Julie è
naturalistico perché corrisponde alle più recenti scoperte della psicologia: cioè che l’io non è
unitario e coerente, ma un agglomerato di impulsi contraddittori (ed è ovviamente Julie l’enigma
psicologico). Il dialogo non è perciò simmetrico né lineare, ma procede a sbalzi e in modo
incoerente “secondo il lavoro irregolare dei cervelli, come nella realtà”. Questa consapevolezza
dell’essenza composita e contraddittoria dell’io è di grande importanza per molta arte e letteratura
del Novecento, motivo per cui Strindberg è giustamente considerato un precursore.
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Dopo il romanzo I havsbandet (Mare aperto, 1890), con un protagonista nietzscheano (anche
lui spiritualmente superiore, ma sconfitto), e ambientato nello scenario amato dell’arcipelago di
Stoccolma, Strindberg si allontana per qualche anno dalla letteratura. Vive a Berlino e a Parigi,
studia chimica e alchimia, sogna la trasmutazione dei metalli, frequenta gli ambienti occultisti
parigini, scopre il teosofo svedese del Settecento Swedenborg. Sconvolto da incubi e visioni,
sull’orlo (forse) della malattia mentale, Strindberg vive una profonda crisi personale, legata anche al
panorama di macerie che la sua vita offre allo sguardo retrospettivo (fallisce in questi anni anche il
secondo matrimonio). La cosiddetta “Crisi d’Inferno” (ca. 1890-1897), dalla quale Strindberg esce
come rigenerato e convertito a una personale fede cristiana, gli dà in qualche modo un nuovo
equilibrio, una nuova spiegazione delle sue sofferenze e dei suoi sensi di colpa. Il percorso è narrato
nella triade di romanzi autobiografici Inferno, Legender (Legende) e Jakob brottas (Giacobbe lotta)
del 1897-98.
Al di là dei contenuti complessi e disparati della Crisi d’inferno, l’esperienza è decisiva per
la successiva e intensa produzione teatrale di Strindberg, che dal 1898 alla sua morte scrive circa
trenta drammi. L’esperienza di visioni e sogni, di “stati altri” di coscienza, di letture teosofiche
sull’aldilà forniscono a Strindberg nuovo materiale creativo e nuove forme. La scena dei drammi
“post-inferno” presenta una logica estranea a quella “reale” e quotidiana, e si apre a dimensioni
oniriche e surreali. La scena è un luogo sospeso tra reale e surreale, forse uno spazio della mente, un
luogo di eventi immaginati, sognati, non verosimili, dove salta il rapporto causa-effetto. Questa
produzione rende Strindberg un precursore del teatro del Novecento: il teatro dell’Espressionismo e
dell’Assurdo trarranno ispirazione dalle visioni di Strindberg, anche per un nuovo, più ardito uso
dello spazio scenico.
I maggiori capolavori di questa fase (che per altro include anche una notevole serie di
drammi storici sui regnanti svedesi) sono Till Damaskus I-III (Verso Damasco, I-III, 1898-1904),
Ett drömspel (Il sogno/Il dramma del sogno, 1902) e i cinque cosiddetti kammarspel, “drammi da
camera” del 1907.
Il titolo di Verso Damasco si riferisce alla conversione di Saul, poi San Paolo, che, come
narrano gli Atti degli Apostoli, vede e sente Dio mentre si trova sulla strada per Damasco, si
converte al cristianesimo e diventa apostolo. Se possiamo affermare che il dramma indica il
percorso di un pentimento e di una conversione, non riusciamo a descriverlo con una “trama”.
Dobbiamo piuttosto pensare alle sequenze di un sogno. Il personaggio è lo Sconosciuto (Den
okände), alter ego di Strindberg, che è accompagnato nelle sue “stazioni” dalla Signora, la quale
sostiene il suo percorso con una funzione salvifica. Lo Sconosciuto è dunque il personaggio che
tiene assieme il tutto, e le tappe possono essere lette come rivisitazioni di situazioni ricorrenti della
propria vita. Gli altri personaggi che ruotano attorno allo Sconosciuto sono come proiezioni e
materializzazioni dei suoi ricordi e dei suoi vissuti interiori. Sono forse “irreali” – osserva a un certo
punto lo Sconosciuto – eppure hanno comunque una tangibile realtà per la sua coscienza. La prima
parte del dramma, quella del 1898, è la più nota (è quella di cui si richiede la lettura). Consta di
cinque atti, suddivisi in diciassette scene, le quali percorrono nove stazioni e poi le ripercorrono a
ritroso (9+8=17). In queste tappe Strindberg rielabora con la visione diverse situazioni ricorrenti
della propria vita: i matrimoni falliti, le fughe, la vita itinerante negli alberghi, la vergogna per la
vita da “mendicante” (lo Strindberg costretto sempre a elemosinare soldi a editori, parenti e
conoscenti, nonostante i ritmi forsennati della sua scrittura), i sensi di colpa e la consapevolezza del
dolore inflitto. Lo Sconosciuto cerca – in questo paesaggio di frammenti e macerie esistenziali – un
senso, cerca una risposta al perché di tanto dolore. E forse la sola strada percorribile è il pentimento,
l’espiazione, la riconciliazione e la sottomissione alla superiore volontà di Dio. Alla fine della prima
parte, incoraggiato dalla Signora, lo Sconosciuto accetta di entrare – pur dubbioso e circospetto – in
chiesa. Eppure si ha la sensazione che la fede in Dio sia solo una possibile risposta. La vita resta
una battaglia e un enigma per lo Sconosciuto.
Con una simile tecnica “onirica”, e un susseguirsi di scene senza apparente rapporto logico,
è costruito Ett drömspel, basato su un mito indiano: la discesa sulla terra di un essere divino, la
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figlia del Dio Indra, la quale vuole comprendere e “toccare con mano” il dolore e il lamento degli
uomini. È per la figlia di Indra una vera discesa nella valle di lacrime, un luogo di sofferenza dove
ritorna il nodo centrale e mai risolto della vita matrimoniale. Anche lei ne è coinvolta (si sposa
anche lei, e capisce di che inferno si tratta), finché alla fine non decide di spogliarsi della materialità
e ascendere di nuovo al cielo. Il leitmotiv ricorrente è quello della compassione tra gli uomini, tutti
imprigionati nella stessa condizione sofferente. La vita è sofferenza e dolore, e solo una sospensione
delle passioni potrebbe interrompere una tale catena. Il motto ricorrente è: “che compassione gli
uomini” (det är synd om människorna).
I Kammarspel (Spöksonaten, Brända tomten, Oväder, Pelikanen, Svarta handsken; La
sonata dei fantasmi; Terra bruciata; Temporale; Il pellicano; Il guanto nero) sono connessi a un
piccolo teatro sperimentale che Strindberg apre a Stoccolma nel 1907, Intima Teatern (Il teatro
intimo). La concezione teatrale riprende in effetti quella di Fröken Julie: pochi personaggi,
essenzialità della trama, poco “intrigo”, drammi tendenzialmente brevi, raccolti e concentrati. Così
come la “musica da camera” è prodotta da un’orchestra in piccolo, per spazi raccolti, allo stesso
modo vuole procedere il “teatro da camera” di Strindberg. Qui si intrecciano naturalismo e
simbolismo. Convivono la precisione realistica nella descrizione degli ambienti e atmosfere da
sogno, per non dire da incubo. Non sappiamo bene dove sia il confine: ciò che avviene sulla scena è
reale e concreto, ma apre pure squarci di sogno e di visione. Questi drammi hanno un significato
rivoluzionario per la storia del teatro. In una memorabile produzione – l’unica sua produzione
strindberghiana – Giorgio Strehler allestisce Temporale al Piccolo Teatro di via Rovello nel 1980.
Negli ultimi anni della sua vita, Strindberg torna alla politica, al socialismo e alla polemica
sociale. Attaccando le tendenze filotedesche della corona svedese, e la politica di riarmo in vista del
primo conflitto mondiale, Strindberg lascia un ultimo messaggio radicale e pacifista. Il suo funerale
nel 1912 a Stoccolma si trasforma in una grande manifestazione del movimento operaio.

Diversi altri scrittori e scrittrici seguono Strindberg sulla strada della letteratura impegnata e sociale.
Ma un individualista come Strindberg non riesce mai a fare gruppo per troppo tempo. La sua vita è
anche un susseguirsi di legami rotti, di amici che a un tratto si trasformano in nemici. Strindberg
percorre dunque le sue strade in solitudine e, per buona parte, in esilio. Tra i diversi autori che
emergono negli anni Ottanta ne menzioniamo brevemente due provenienti dalla Scania: Victoria
Benedictsson (1850-88) produce con soli due romanzi i migliori risultati della letteratura femminile
del periodo; e Ola Hansson (1860-1925) è un poeta e autore di prose liriche che introduce
Baudelaire e Nietzsche in Svezia, e che si muove tra Naturalismo e Simbolismo. Hansson, che si
sente incompreso in patria, inseguirà il sogno di diventare scrittore di successo in Germania, e qui
perderà la sua vena.
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GLI ANNI NOVANTA DEL XIX SECOLO: POSTNATURALISMO, NEOROMANTICISMO


E SIMBOLISMO

Svezia

Per buona parte degli anni Ottanta e Novanta Strindberg è lontano dagli ambienti letterari del
proprio paese. Eppure le sue opere, e i dibattiti che suscitano, promuovono un grande rinnovamento
nella letteratura, che acquista tutt’altro peso nella società. I frutti migliori di questo lavoro vengono
raccolti negli anni Novanta, che vede il debutto di alcuni tra i grandi autori della poesia e della
prosa svedese. Il rapporto tra anni Ottanta e Novanta è, da un lato, di filiazione e continuazione, ma
dall’altro di opposizione. Le tendenze del nuovo decennio vanno infatti verso un superamento della
norma del realismo, del naturalismo e della letteratura a tesi che “discute i problemi”. Si sente il
bisogno di recuperare fantasia, bellezza, “gioia di vivere” e poesia. Il culto della bellezza è
rappresentato dai poeti Verner von Heidenstam (1859-1940) e Oscar Levertin (1862-1906); il loro
motto della “gioia di vivere” si intreccia però spesso con una percezione decadente di crisi e vuoto
di valori. La poesia torna anche alla tradizione contadina e di provincia con Gustaf Fröding (1860-
1911), dal Värmland, ed Erik Axel Karlfeldt (1864-1931), dalla Dalecarlia. Il retaggio provinciale è
importante anche nella prosa di Selma Lagerlöf (1858-1940), anche lei dal Värmland; mentre l’altro
grande prosatore del periodo, Hjalmar Söderberg (1869-1941), è legato agli ambienti urbani di
Stoccolma e alle atmosfere fin de siècle. Questi nomi, che ora vedremo più in dettaglio, non sono
che i più importanti di un’epoca di ricca fioritura, di grande fermento creativo e di dibattito
culturale, in cui si pongono le basi della Svezia moderna. Tra i nuovi fori di discussione letteraria e
artistica del periodo emergono la rivista Ord och Bild (Parola e immagine) fondata nel 1892 e il
quotidiano Svenska Dagbladet, rifondato nel 1897 (ancora oggi uno dei maggiori giornali
nazionali).
Heidenstam, ex amico di Strindberg, con cui aveva scoperto Nietzsche, inaugura la reazione
contro il Naturalismo con il manifesto Renässans (Rinascita/Rinascenza) del 1889. L’autore mostra
qui un certo disprezzo aristocratico verso “il naturalismo da calzolai” e “la letteratura del tempo
grigio”, ai quali contrappone immaginazione, gioia di vivere e culto della bellezza. È una rivolta
importante, perché esistono dimensioni dell’immaginazione che non si lasciano incanalare nel
“sociale”, e il nuovo programma offre la possibilità ai talenti emergenti di esprimersi con meno
vincoli.
Heidenstam è poeta e narratore. In lui il culto della bellezza e l’esotismo sono espressi con
gusto ricercato ed estetizzante. In realtà il motto della “gioia di vivere” è un atteggiamento stoico
che nasconde solitudine e pessimismo – un esito tipico della crisi di fine secolo. L’acceso
patriottismo è un altro tema dominante sia nelle poesie, sia nei romanzi e racconti su personaggi
storici svedesi, ad esempio i racconti Karolinerna (I soldati di re Carlo, 1897/98). La breve poesia
Sverige (fot. 43) mette in risalto un nazionalismo espresso con tono solenne e aulico: il legame con
la terra natia e le gesta eroiche dei padri. Heidenstam, molto amato dai contemporanei, è messo
sullo stesso piano di Strindberg. Nel 1916, anno in cui esce la sua ultima importante raccolta di
poesie, vince il premio Nobel. Oggi la sua opera, pur ricca e interessante, appare più datata e legata
al clima di quegli anni. Dal 1916 fino alla morte Heidenstam vive in isolamento e al margine della
vita letteraria.
Levertin aveva fatto parte di Det unga Sverige negli anni Ottanta, e mantiene le idee
progressiste e radicali. Determinismo e ateismo hanno però in lui esiti “neoromantici” e decadenti.
Si associa al programma di Heidenstam e scrive poesie dalle immagini raffinate e preziose. Anche il
suo culto della bellezza è espressione del vuoto e della crisi di fine secolo. Ma Levertin è soprattutto
il critico letterario svedese più stimato del periodo, e pubblica numerosi studi critici sulla letteratura
passata e contemporanea.
Heidenstam e Levertin operano nella capitale e si considerano – con una certa superbia – i
kulturskalder, “poeti colti”, raffinati aristocratici della poesia. Vogliono così distinguersi da quelli
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che definiscono in antitesi i folkskalder, i “poeti popolari” Fröding e Karlfeldt, che debuttano
rispettivamente nel 1891 e nel 1895. Fröding e Karlfeldt sono certamente popolari per il successo
che ottengono tra più ampie fasce di lettori; e sono popolari nel senso che raffigurano spesso i
contadini e la vita agreste. Ma sono anche raffinati poeti. La loro arte del verso arricchisce
notevolmente le possibilità dello svedese come lingua lirica. Loro due appaiono oggi, più di altri, i
migliori talenti poetici degli anni Novanta in Svezia.
Fröding – poeta, critico letterario e giornalista – parte dai valori democratici e progressisti
degli anni Ottanta. Questi valori si esprimono poeticamente in uno dei suoi temi ricorrenti: la
solidarietà con i semplici e i perdenti, i peccatori e gli outsider, i puri di cuore, gli alcolizzati, le
prostitute, tutti quelli che sono condannati dalla società perbenista. Fröding è un poeta dal
prodigioso virtuosismo formale. I suoi versi cantabili e musicali lo rendono popolare. È un poeta
con due facce: da un lato rappresenta, spesso con umorismo bonario e delicatezza, il mondo agreste
del Värmland, i suoi personaggi, la vita di provincia, i boschi e la natura. È però anche un poeta
infelice e “maledetto”, scandaloso per il moralismo di fine Ottocento, che beve e va con le
prostitute, e sente il bisogno di confessare in poesia il proprio male di vivere. Vittima della malattia
mentale, muore giovane. Le due brevi poesie Säv, säv, susa (Giunco, giunco fruscia) ed En
kärleksvisa (Una canzone d’amore) (fot. 43) riassumono i tratti qui delineati. Nella prima poesia la
bella Ingalill è vittima della cattiveria e delle maldicenze, di chi non sopporta l’amore e la felicità
degli altri (si è annegata in un lago?); il poeta chiede alla natura di partecipare al lutto evocando
musicalmente, con allitterazioni, assonanze e onomatopee, le onde che battono, l’eco che
producono, il fruscio del canneto. La seconda poesia è un esempio dell’aperta confessione di
Fröding che scandalizza i contemporanei e colpisce il moralismo ipocrita. Fröding vive i suoi amori
da bordello con senso di inadeguatezza e di colpa; eppure prova affetto verso quelle ragazze, cui
dedica alcune belle poesie.
L’opera poetica di Karlfeldt va dal 1895 al 1937, ed è molto compatta e coerente. Lontano
dalle correnti e dalle mode, il poeta esprime il suo profondo attaccamento alla natura, al mondo
agreste e alle tradizioni popolari della sua Dalecarlia. Vince il premio Nobel nel 1931. Come per
Fröding, l’intonazione popolare e cantabile è frutto di un grande talento formale. Il poeta difende il
proprio mondo dalle “questioni del tempo”, evoca una Svezia contadina destinata a scomparire con
l’avvento della moderna società industriale (tratto nostalgico che accomuna Fröding, Karlfeldt e
Lagerlöf). In quella sfera circoscritta Karlfeldt colloca tutti i momenti fondamentali della vita:
amore, nostalgia, sogno, trascorrere delle cose, morte. Dina ögon äro eldar (I tuoi occhi sono
fuochi) (fot. 44) è una sua famosa poesia d’amore, la cui musicalità si perde in parte con la
traduzione. È la canzone di un amore non più giovane, “autunnale”, in cui l’ardore giovanile vive
per un ultima volta riassumendo nostalgicamente tutto l’anelito vissuto dal poeta. Una poesia
sensuale ed esistenziale al tempo stesso.

Selma Lagerlöf, prima donna a vincere il Nobel (1909), è il grande talento narrativo del filone
provinciale e “neoromantico” che emerge negli anni Novanta; ma la forza della sua narrativa, al di
là delle coordinate culturali da cui parte, ha valore universale. Nasce nel podere di Mårbacka (oggi
museo), presso il lago Fryken nel Värmland. Proviene da un ambiente provinciale benestante, la
piccola nobiltà dei manieri, o case signorili (herrgårdar), legati all’agricoltura e alle attività
estrattive. È fondamentale nella sua infanzia l’esperienza del racconto orale e della lettura in
comune. In casa si raccontavano storie e leggende del Värmland, si leggevano Bellman e i poeti
romantici. Racconto e immaginazione sono componenti importanti della vita quotidiana, una
dimensione di socialità e condivisione che allevia le durezze. Giovane progressista ed emancipata,
Selma lascia la casa e la dominante e problematica figura del padre (alcolizzato), per diventare
maestra. Con la sua particolare tradizione alle spalle, debutta nel 1891 con il romanzo Gösta
Berlings saga (La saga di Gösta Berling), forse il suo capolavoro, certamente uno dei romanzi più
straordinari e singolari della letteratura svedese.
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Il romanzo rievoca in termini fantastici e leggendari la valle del lago Fryken (nella finzione
romanzesca chiamato Löven) tra il 1820 e il 1830. Nonostante la toponomastica sia inventata, il
romanzo poggia su una base di realtà e su precise conoscenze storiche e geografiche. La valle del
Fryken, lago stretto e lungo, consta di limitate pianure ai piedi di montagne e declivi boscosi che
tutto circondano. In pianura si svolgono le attività agricole e di estrazione e lavorazione del ferro.
Qui vivono le persone; ci sono poderi e fucine, con un’attività industriale ancora inserita in un
contesto economico e sociale preindustriale. La valle diventa, nelle mani della narratrice, un luogo
storico e geografico, e allo stesso tempo uno spazio magico e leggendario di avventure e racconti
che deviano dai canoni realistici del romanzo borghese ottocentesco (ritratti psicologici, plot
lineare, materia moderna, ecc.). La saga di Gösta Berling è, paradossalmente, un romanzo antico e
ultramoderno, che si rifà ai valori della tradizione proponendo un evocativo “realismo magico”.
Proprio per queste caratteristiche non è possibile dare una trama dettagliata degli eventi
narrati. Eppure il romanzo è sostenuto da un complessivo disegno morale che possiamo riassumere.
La maggiora di Ekeby, donna vedova, matura e decisa, è proprietaria di sette fucine. Salva dalla
rovina un giovane prete alcolizzato, Gösta Berling. Lo conduce in un’ala del suo maniero a Ekeby,
dove sono ospitati altri cosiddetti cavalieri – singolari figure di avventurieri e artisti in pensione,
senza lavoro o precisa collocazione nella vita. Gösta diventa il dodicesimo cavaliere, il più giovane
e affascinante: promessa di più straordinarie imprese. La maggiora mantiene e accudisce i cavalieri
come una grande madre; essi vivono in una specie di condizione sospesa dalla vita responsabile,
pratica e morale; vogliono una vita che sia favola, festa, vortice di giochi e avventure contro il
grigiore quotidiano. La notte di Natale stringono un patto con il rivale della maggiora, il diabolico
Sintram (appare proprio con le fattezze del diavolo), anch’egli padrone di fucine. Sintram fa credere
ai cavalieri che la maggiora li tenga prigionieri; li convince a cacciarla per governare il maniero e il
suo territorio un anno intero, rifiutando qualsiasi azione utile o sensata, comportandosi da veri
cavalieri di avventure. L’anno trascorre tra balli, bevute, amori (con Gösta protagonista di legami
sentimentali con tre donne: Marianne Sinclaire, Anna Stjärnhök ed Elisabeth Dohna), caccia
all’orso e altre bravate. Ma in questo anno folle e carnevalesco le fucine e le attività produttive
vanno in malora. Alla fine dell’anno, passando attraverso fallimenti ed esperienze dolorose, Gösta e
i suoi maturano la consapevolezza che la Maggiora deve tornare per ristabilire l’ordine, e che
Sintram li ha ingannati. Sintram viene cacciato e la Maggiora riabilitata.
Il dramma morale che si delinea è, dunque, come conciliare la gioia di vivere, l’anelito alla
bellezza e all’avventura – dimensioni assolutamente vitali per l’umanità – con i valori altrettanto
fondamentali di responsabilità, solidarietà, attenzione verso il prossimo. In breve: come conciliare
gioia e bene. La saga di Gösta Berling è sia un epos leggendario e magico, sia una parabola morale.
Il male (nella figura di Sintram) e la caduta sono sempre presenti nella vita dell’uomo. Ma la
narrativa della Lagerlöf è caratterizzata da una fiducia di fondo nella vittoria del bene. I valori cui la
scrittrice si ispira sono quelli di un cristianesimo che va al nocciolo del messaggio evangelico di
amore e fratellanza tra gli uomini.
Anche la voce narrante diventa personaggio, con la sua prospettiva onnisciente e i suoi
commenti (dal moralismo a volte un po’ indigesto e melodrammatico). Ella guida i lettori e media
consapevolmente tra loro e la materia trattata. La preoccupazione morale vuol dire interesse per
l’uomo, la sua condizione e le sue scelte di vita. In questo senso non manca la “psicologia” nella
Saga di Gösta Berling e nella narrativa di Selma in genere, capace anzi di evidenziare i risvolti
personali profondi. Ciò che l’autrice evita è l’introspezione minutamente descrittiva tipica del
romanzo borghese. La mancanza di coerenza e verosimiglianza, poi, è anche un gioco: dipende da
come guardiamo i personaggi. A uno sguardo sobrio, i cavalieri sono una banda di balordi e Gösta
un inetto allo sbando; a uno sguardo capace di cogliere la magia della realtà, essi sono “eroi di
avventura” e Gösta un affascinante “poeta” della vita. Come mettere insieme le due immagini?
In generale i critici del tempo sono sorpresi e spiazzati, non riescono ad aderire alla storia; i
loro normali criteri di verosimiglianza e realismo non funzionano. Georg Brandes dimostra ancora
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una volta il suo fiuto di critico scrivendo una recensione lusinghiera, che di fatto apre alla giovane
scrittrice la strada del successo e del riconoscimento generale.
Nella vasta opera narrativa che segue, Selma scriverà altri capolavori, ma non supererà
l’arditezza formale del debutto. I suoi romanzi e racconti presentano di continuo l’intreccio di realtà
e fantasia, ma in genere si ancorano di più a racconti coerenti e a trame strutturate. Ritornano
l’intento morale e la “parabola”; il dramma del bene e del male; il percorso morale di peccato,
espiazione e redenzione; l’ispirazione cristiana non dogmatica, i valori del Vangelo, la fede nella
vittoria del bene e dell’amore.
Legata alle sue radici svedesi, Selma è anche una viaggiatrice e scrittrice cosmopolita,
capace di ampliare i suoi orizzonti. Con il romanzo del 1897 Antikrists mirakler (I miracoli
dell’anticristo) Selma si avvicina al moderno romanzo realista e “di idee”: La vicenda è ambientata
in una povera Sicilia ottocentesca, e illustra la possibilità di coniugare i valori evangelici (il Cristo)
con la speranza di riscatto storico e redenzione che proviene dall’anticristo, il socialismo.
Il successivo grande romanzo Jerusalem (due parti, 1901 e 1902) include sia il legame con
la terra svedese sia lo sguardo cosmopolita sulla realtà contemporanea. La doppia prospettiva
diventa un vero e proprio tema del romanzo, basato su una vicenda realmente accaduta qualche
anno prima in Dalecarlia: un gruppo di contadini di una pieve, appartenenti a una setta cristiana
millenarista, aveva venduto i poderi e abbandonato il suolo natio per andare incontro al Cristo e
attenderlo nei suoi luoghi sacri, a Gerusalemme. Le due parti del romanzo sono dedicate a ognuno
dei due luoghi, ed è un peccato che la critica svedese abbia in genere prediletto e riconosciuto solo
la prima a discapito della seconda. Il capolavoro è dato proprio dal non facile disegno complessivo.
Insoddisfatta di come aveva “trattato” i contadini emigrati a Gerusalemme (non aveva dato loro
molte speranze di riuscire), Selma pubblica una nuova versione del romanzo nel 1909, che presenta
alcune (ma non essenziali) modifiche solo nella seconda parte.
Nel romanzo Selma crea l’immagine della comunità agreste retta da principi solidali. Il
podere più ricco, quello della famiglia Ingmarsson, è il garante della coesione e del benessere di
tutta la comunità, l’immagine di una società patriarcale buona. I proprietari di quel podere si sono
sempre chiamati Ingmar; ognuno è dunque Ingmar Ingmarsson, “Ingmar figlio di Ingmar”, in una
catena che ha origine in un passato remoto e sottolinea la forza delle radici, e l’importanza del
mondo dei padri. Il figlio dell’ultimo Ingmar è ancora bambino quando il padre muore. La storia del
romanzo riguarda questo figlio, la sua parabola di maturazione da “piccolo Ingmar” a “grande
Ingmar”. Come nelle migliori parabole, la maturità è raggiunta attraverso prove, errori, espiazione e
pentimento. Per circostanze non dipendenti dalla sua volontà, Ingmar si trova, divenuto giovane
uomo, a dovere riscattare Ingmarsgården (il podere), in precedenza rilevato dalla sorella maggiore
Karin. Karin e suo marito Halvor sono, a differenza di Ingmar, seguaci della setta. E hanno deciso
di vendere il podere e partire per Gerusalemme. Subentrando come proprietario, Ingmar potrebbe
garantire la sopravvivenza della comunità, che si regge su Ingmarsgården (il podere guida le attività
produttive della pieve, e qui trovano rifugio i pensionati, i poveri, gli inabili al lavoro). Ma Ingmar
non ha una lira, ed è posto dinanzi a un terribile bivio: salvare la comunità, accettando di sposare
Barbro, figlia di un ricco funzionario della zona, il quale metterebbe i soldi per rilevare il podere; o
decidere di restare con la sua fidanzata e promessa sposa Gertrud, lasciando che il podere sia
venduto a una grande segheria. Deve fare una scelta che sarà comunque dolorosa. Sceglie il podere
e tradisce l’amore di Gertrud, la quale, distrutta, si aggrega alla setta e va in Palestina.
Il grande epos contadino descrive intanto il conflitto che si crea nella comunità e nei
contadini stessi: tra chi resta e chi parte; tra l’immagine biblica di Gerusalemme, città celeste che
scende dal cielo, così come i contadini la conoscono a memoria dall’Apocalisse, e l’immagine reale
della città: moderna, caotica, difficile, in una fase di rapida espansione, e soprattutto piena di
tensioni tra gruppi religiosi (dove tutti cercano l’Unico Dio, ma ognuno è in guerra contro
l’altro…). Compare la struggente nostalgia della Svezia: il conflitto tra i boschi verdi e la ricchezza
d’acqua del Nord, e l’infernale siccità del Sud che fiacca la salute e il morale.
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La seconda parte del romanzo disegna anche il percorso di pentimento ed espiazione di


Ingmar. Del suo matrimonio egli non sa cosa pensare: va bene, vede che c’è affetto reciproco. Ma il
pensiero di Gertrud è ancora un macigno. Sente che deve risolvere la questione in sospeso con lei.
Va a Gerusalemme, e in quanto grande contadino e uomo pratico aiuta, eroicamente, a rimettere in
piedi la colonia svedese-americana dei millenaristi, che non se la passa bene. Aiuta Gertrud a
rinsavire dalle sue visioni mistiche (e paga il suo tributo con la perdita di un occhio). Capisce che
c’è affetto tra lei e Bo Ingmar (Gabriel nella versione del 1909). Alla fine il cerchio si chiude
felicemente. La frattura tra i due gruppi del paese – i rimasti e i partiti – è sanata dal viaggio di
Ingmar, il quale torna a casa, dalla sua Barbro, portandosi dietro anche Gertrud e Bo Ingmar
promessi sposi. E Ingmar, ora finalmente “Grande Ingmar”, è ora padre di un nuovo Piccolo
Ingmar. La catena della tradizione continua.

Sempre in due parti, nel 1906 e 1907, Selma pubblica Nils Holgerssons underbara resa genom
Sverige (Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersson attraverso la Svezia). La scrittrice risolve qui
con un’invenzione narrativa il problema di un testo di geografia per le scuole elementari scritto su
commissione. Un monello quattordicenne della Scania viene ridotto dal minuscolo tomte domestico
(il “coboldo” che è lo spirito protettore della casa) alle dimensioni di un Pollicino. Nils cerca di
bloccare a terra Mårten, la giovane oca domestica del suo podere che vuole spiccare il volo alla
vista dello stormo di oche selvatiche dirette a nord, finendo così per aggregarsi ai volatili e
intraprendere una fantastica avventura al di fuori del quotidiano, che lo porterà in Lapponia e di
nuovo a casa, e che rappresenterà un vero viaggio di formazione. Nils sorvola e tocca tutte le
province della Svezia (metà nel percorso di andata, metà al ritorno verso sud); la narratrice,
seguendolo, descrive dall’alto la conformazione del territorio, i centri abitati e la natura, ma scende
anche a terra per far vivere al suo eroe emozionanti avventure tra gli animali e gli uomini.
L’insegnamento della geografia è veicolato dal racconto (ma il racconto è talmente preponderante
che le insegnanti protestarono! C’era troppa fantasia nel racconto della Lagerlöf, dissero). Anche in
questo racconto la Lagerlöf delinea la parabola morale: il viaggio porta esperienze e conoscenze,
attraverso le quali Nils matura, e può infine riacquistare la sua natura umana ed entrare nel mondo
degli uomini adulti.
L’incantesimo che trasforma Nils in coboldo è una punizione, ma diventa anche il tipico
espediente fiabesco del “dono del mezzo magico”: Nils può infatti d’ora in poi – come gli eroi della
fiaba – comunicare con gli animali e nel contempo capire il linguaggio degli uomini. Ciò lo rende
prezioso e indispensabile allo stormo capitanato dall’anziana oca Akka (la vera Grande Madre del
racconto). Nils può rendersi utile, avere un ruolo riconosciuto, essere apprezzato. Fa così una
fondamentale esperienza di amicizia e di responsabilità condivisa all’interno del gruppo solidale. In
molte occasioni l’aiuto di Nils è decisivo; in altre situazioni sono gli animali a salvare lui. Sembra
quasi che, per la prima volta, Nils sia giudicato senza pregiudizi negativi e possa così rispondere
positivamente (nel primo capitolo i genitori lo puniscono con un sermone da leggere, perché egli
rifiuta di andare alla messa).
Il volo, struttura portante della narrazione, è un incidente che fa seguito all’incantesimo;
rappresenta poi, come detto, l’uscita dal quotidiano; offre inoltre la possibilità di assumere la
prospettiva dall’alto e cogliere il paesaggio svedese “a volo d’uccello”, anche per il concreto scopo
dell’insegnamento della geografia. Infine il volo diventa un simbolo, tipicamente romantico,
dell’anelito, della nostalgia di infinito e trascendenza, dell’elevazione dello spirito. Ricordiamo a
questo proposito la poesia del poeta romantico svedese Tegnér Flyttfåglarna.
Oltre al sapiente riuso di funzioni e modi tipici della fiaba (l’eroe Nils e l’antagonista
Smirre, la volpe affamata; il dono del mezzo magico; il superamento di tutte le prove e la finale
“rimozione della mancanza” da cui l’azione aveva preso le mosse), la Lagerlöf sembra rifarsi anche
alla favola di Esopo, dove sul mondo animale sono proiettate le fondamentali questioni umane, e
dove la narrazione tende sempre a una riflessione morale. Infine l’autrice trae a piene mani dalle
leggende e dalle memorie tradizionali nazionali. Non si tratta infatti di descrivere solo l’aspetto
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geografico della Svezia, ma di creare una Svezia in quanto immagine di sé, produrre un’identità
nazionale fatta di geografia, territorio, storia, civiltà, memorie e qualità caratteriali e morali (dal
landscape al mindscape).
La Lagerlöf è una progressista che esalta il valore della tradizione. Il re compare nel museo
etnografico di Skansen, a Stoccolma, per raccontare la leggenda della fondazione della città. Nel
porto militare di Karlskrona, nel Blekinge, Nils vive un’avventura con la statua del re Carlo XI che
fondò la città. La descrizione dell’antica città hanseatica di Visby, il capoluogo di Gotland, e delle
sue rovine, è reso vivo dalla magica visione di Vineta, la prospera città tedesca che fu sommersa
dalle onde per la ricchezza che l’aveva resa superba. Soprattutto la Lagerlöf canta con profonda
adesione la Svezia contadina, i valori del legame con la terra e con ritmi e modi di vita più
armoniosi. La vita di Nils tra i volatili permette anche di vedere l’uomo e le sue attività (ad esempio
la caccia, il dissesto del territorio) da una critica prospettiva “animalista”: perché l’uomo si
comporta così? Il museo etnografico di Skansen è esaltato in quanto luogo che raccoglie memorie e
tradizioni contadine; ma il giudizio sull’altra parte di Skansen, lo zoo, trapela dalla storia dell’aquila
Gorgo, figlio adottivo di Akka, poi messo in gabbia a Skansen e infine liberato dal piccolo Nils, che
può così volare con lui fino in Lapponia e raggiungere lo stormo.
Un percorso parallelo a quello di Nils, ma più tragico (sebbene anche qui vincano le forze
del bene), è quello dei piccoli guardiani di oche Åsa e Mats, dello Småland. La tubercolosi (pure lei
formò – in negativo – la Svezia) ha ucciso la loro madre, i fratelli e le sorelle, e ora i due sono alla
ricerca del padre che, sconvolto, pare si sia rifugiato in Lapponia. Oltre alla parabola morale, la
storia di Åsa e Mats, e poi di Åsa che ritrova il padre e lo riporta alla vita, ci presenta i lapponi e la
loro vita indigena, in armonia con la natura e diversa da quella dell’uomo occidentale; e ci apre
anche una finestra sul futuro, descrivendo (con occhio critico) il recente sfruttamento minerario
della Lapponia e la costruzione della ferrovia.
Il sogno che Nils fa in Lapponia, con il corteo del sole che muove verso la Lapponia per
sconfiggere il gelo e che, finita la breve estate, deve ripiegare a sud, riassume in termini fantastici il
viaggio estivo delle oche migratrici, che passano sopra la Scania il 20 di marzo e lasciano la
Lapponia, dopo la cova e la nascita delle oche, il primo di ottobre.
Infine il capitolo “Un piccolo podere” (traduzione errata di En liten herrgård, “un piccolo
maniero”) è insieme metanarrativo e autobiografico. Una scrittrice alla ricerca di ispirazione per un
difficile libro di geografia sulla Svezia salva la vita a un piccolo coboldo, Nils, il quale gli racconta
poi la sua storia, offrendole su un piatto d’argento la materia del racconto che non trova. Il luogo
dell’incontro è il maniero di Mårbacka, la casa d’infanzia della scrittrice, la quale rievoca i tempi
antichi, la comunità agreste e l’anno scandito dal lavoro e le festività.

Con Kejsaren av Portugallien (L’imperatore di Portugallia, 1914) Selma torna al suo Värmland
contadino, con una nuova versione dell’intreccio tra realtà e fantasia. Jan è un povero mezzadro e
bracciante (torpare). Non più giovane, vive la gioia inattesa della paternità. Nasce la bellissima
Klara Gulla: è la svolta e l’evento fondamentale della vita di Jan, il quale nutre per Klara Gulla un
amore totale; nulla può preoccuparlo al mondo se c’è lei. Ma i poveri sono esposti ai ricatti dei
ricchi e dei malvagi. Il padrone, alcolizzato, li vuole sfrattare, a meno che non paghino. Klara Gulla
ha diciotto anni, e decide di sacrificarsi per i genitori: andrà in città a lavorare e procurerà i soldi per
salvarli dal ricatto economico. Per Jan si tratta di una separazione molto dolorosa, ma inevitabile.
Inoltre il padre capisce che la ragazza va via anche perché desidera emanciparsi, avere un’altra vita
con più vaste prospettive. In una scena dalle implicazioni simboliche Jan vede la figlia correre e
ascendere sul più alto monte della zona per guardare fino all’orizzonte.
Klara Gulla non manda notizie e Jan vive nell’attesa. In paese però cominciano a girare le
voci: la ragazza è a Stoccolma ed è diventata una prostituta (un fatto che capitava spesso alle
ragazze di campagna di allora). Qui Jan rompe i ponti con la realtà e si costruisce un racconto
“folle” che possa fare da schermo e proteggerlo da un dolore altrimenti insopportabile. Diventa un
visionario, una specie di scemo del villaggio in versione buona e gentile: Klara Gulla è diventata
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imperatrice del fantomatico stato di Portugallia, e lui è il padre che aspetta il suo ritorno, per essere
festeggiato e riverito. Jan si muove tra follia e santità. Rimane buono, con un senso innato della
pietà e dell’altruismo. Ha anche delle singolari doti di veggente che lo portano a prevenire alcuni
incidenti.
La tragedia, con catarsi finale, avviene quindici anni dopo la partenza di Klara Gulla. La
donna ritorna, ricca ed elegante, ma con i segni della corruzione sul volto. È sconvolta dalla pazzia
del padre. Fugge dal paese trascinandosi la madre. Jan si butta dal pontile (per raggiungere il
battello con cui moglie e figlia stanno fuggendo) e annega. Le due donne ritornano; devono
attendere il ritrovamento del cadavere. Intanto la madre parla a Klara Gulla dell’infinita bontà e
purezza del padre, del loro amore tradito dalla fuga della figlia. Anche la madre muore. Al funerale,
in chiesa, finalmente Klara Gulla si scioglie nel pianto liberatorio del pentimento.
Anche qui troviamo una trama che si sviluppa per episodi, ma con un disegno più lineare
rispetto a La saga di Gösta Berling. La vicenda si svolge tra il 1870 e l’inizio del Novecento circa.
Selma rievoca, come in Jerusalem, un mondo contadino comunitario che, dopo un millennio di
esistenza, si avvia a sparire con il processo della modernità industriale. Selma è la grande memoria
narrativa di quella realtà. Chiunque voglia capire, tra tutte le altre cose, la società contadina svedese
preindustriale, deve leggere la Lagerlöf.
La prima grande guerra dà un duro colpo all’umanesimo ottimista di Selma. La scrittrice,
tutt’altro che una sognatrice fuori della realtà, è ben consapevole dei problemi del mondo. Scrive
altri bei libri nel corso degli anni Venti, tra cui Löwensköldska ringen (L’anello dei Löwensköld,
1925; trad. it. L’anello rubato, Iperborea), che ha un finale questa volta più negativo e beffardo. Poi
scriverà soprattutto memorie autobiografiche.

Con Strindberg e Lagerlöf, Hjalmar Söderberg è l’altro classico della prosa a cavallo tra Ottocento e
Novecento. Debutta nel 1895 ed è autore di romanzi, racconti e drammi. Per molti versi è agli
antipodi della Lagerlöf. Non è un “neoromantico”, non canta la provincia e la terra, ma il suo
paesaggio è Stoccolma. Söderberg raccoglie l’eredità del Naturalismo e del giovane e radicale
Strindberg. Anche la sua opera, più legata al canone del realismo borghese, esprime critica sociale e
sguardo attento sulla società contemporanea; ma è pure legata al senso estetico degli anni Novanta;
la sua prosa cristallina e sobria è di fatto un modello di eleganza per tutto il Novecento. Söderberg è
un razionalista che osserva il mondo borghese e urbano, di cui fa parte, con scetticismo e
disincanto. Oltre che a Strindberg e Ibsen, Söderberg si rifà anche a un’altra linea del Naturalismo
scandinavo: quella più “crepuscolare” e decadente (Jacobsen, Bang e Garborg) che interpreta il
senso dello crisi di fine secolo. Anche per l’ateo Söderberg la mancanza di Dio crea vuoto più che
procurare certezze. È anch’egli un pessimista e un malinconico. Söderberg è infine scrittore europeo
e cosmopolita (ma più nello spirito: viaggia assai meno di Strindberg e Lagerlöf), ama gli scrittori e
la cultura francese (Voltaire, Zola, Maupassant, France, Baudelaire), ma è anche un attento (e
critico) lettore di Nietzsche.
Söderberg adatta e “importa” a più settentrionali latitudini il tipico passeggiatore e
osservatore urbano della Parigi ottocentesca, il flâneur (sv. flanör, d./n. flanør), immortalato dalle
poesie e dai poemi in prosa di Baudelaire. Il flâneur diventa una figura della modernità borghese:
colui che osserva con distacco, ma dal di dentro. Sta dentro la città, nella massa e per le strade, ma
ha la capacità di astrarsi, camminare lentamente, cogliere tracce e frammenti del passato, storie
individuali. In particolare questo atteggiamento esprime, nei personaggi di Söderberg, una posizione
di intima estraneità nei confronti del mondo borghese di cui pure essi sono protagonisti. A una
corretta facciata corrisponde una grande inquietudine interiore, la capacità di fare domande
scomode e avere uno sguardo critico.
Nel 1898 Söderberg pubblica un libro di brevi racconti (“brevi storie”) scritti in origine per i
giornali, Historietter (trad. it. Un disegno a inchiostro e altri racconti), dove alterna ironia arguta a
toni più malinconici e cupi. I due maggiori romanzi sono Doktor Glas (1905) e Den allvarsamma
leken (Il gioco serio, 1912). Nel Dottor Glas il problema della crisi e della paralisi del soggetto
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moderno raggiunge la massima intensità: un medico stoccolmese – intelligente e profondo, ma dalla


vita emotiva e relazionale bloccata – compie l’omicidio perfetto ai danni di un odiato prete;
quell’azione non gli dà però, come aveva sperato, un nuovo senso; non sblocca la sua paralisi e
paura di vivere. Il gioco serio è invece una storia d’amore, appassionante e amara, di un uomo e una
donna che, dalla giovinezza alla maturità, si inseguono sempre e non si trovano mai. Legato a
questa visione sofferta dell’amore è anche il dramma Gertrud (1906), più noto nella versione
cinematografica del regista danese C.T. Dreyer (1964).
Il breve racconto Il disegno a inchiostro (fot. 48) esemplifica certi tratti dell’opera di
Söderberg. I due personaggi sono socialmente distanti, uno, l’io narrante, è un giovane dandy
borghese (i sigari, l’eleganza) e colto (l’amico artista gli dona il disegno). La venditrice di sigari è
ovviamente di più bassa estrazione, e si sfoga di non avere avuto un’istruzione. Ella si sente anche,
da subito, vittima di un raggiro di tipo sessuale. Gli uomini borghesi del tempo si comportavano
“così” con le ragazze del popolo; qui l’ironia è che il protagonista non è affatto malintenzionato, ma
la sua gentilezza è fuori dai codici riconosciuti. Eppure, paradossalmente, qualcosa accomuna i due
protagonisti. Se lui introduce e chiude dicendo che “a quel tempo” ancora cercava il senso della
vita, e che a tutt’oggi non lo ha trovato, lei si dispera perché non riesce a capire il senso nascosto di
quel disegno. Ma il disegno ha un senso nascosto? Secondo il narratore no: è bello e basta, solo da
ammirare, senza porsi domande. Lui può permettersi un atteggiamento estetico e blasé, e può
interrogarsi sulla “vita”. Il testo suscita associazioni e domande sui ruoli sociali e sessuali; e ci
chiede anche, tra le righe, se possiamo essere spettatori della vita senza cercarne testardamente il
senso, come fa la ragazza di fronte al disegno, anche se questo continua a sembrarci nascosto.
Con la prima guerra mondiale Söderberg si allontana dalla letteratura, occupandosi di critica
biblica e di giornalismo politico. Vive l’epoca dei due conflitti mondiali e delle dittature con
sguardo angosciato ma lucido, e diventa una delle più coraggiose voci svedesi a difesa
dell’umanesimo occidentale e della democrazia.

Norvegia

Anche la lunga parabola di Knut Hamsun (1859-1952), straordinario e inquietante interprete


dell’irrazionalismo, si interseca coi momenti topici e drammatici della civiltà occidentale, dalla crisi
dell’individuo di fine Ottocento fino alle tragedie delle guerre e dei totalitarismi. Knut Pedersen
(questo il suo vero nome) nasce povero da una famiglia contadina emigrata nel Nordland. L’infanzia
è fatta di privazioni e durezza (da bambino è allontanato dai genitori e mandato a lavorare), ma
anche di esperienze di vita selvaggia e pastorale al contatto con la natura e gli elementi, che lasciano
un marchio indelebile nella sua coscienza e nella sua ideologia nostalgica. Cresce guadagnandosi da
vivere con i lavori più disparati. Come molti altri proletari scandinavi di quell’epoca, tenta, per due
volte, la carta dell’emigrazione in America (1882-84 e 1886-88); ma ritorna sempre in Europa. È un
autodidatta, vuole diventare scrittore e raggiungere il successo. I suoi primi testi sono rifiutati dagli
editori di Copenaghen e Kristiania; fa la concreta esperienza della fame cercando di affermarsi
come scrittore, giornalista e intellettuale.
Anche su questo sfondo personale possiamo leggere alcuni ricorrenti motivi nella sua prosa:
il personaggio dell’outsider individualista; il disprezzo e il senso di rivalsa e protesta nei confronti
della società borghese ordinata e razionale; la polemica contro la modernità dell’epoca industriale e
il vagheggiamento di una vita pacificata, povera, lontana dalle inquietudini moderne, nella natura.
Hamsun debutta come straordinario interprete della moderna individualità scissa e
frammentata; ma dagli inizi la sua visione contiene pure elementi reazionari. Nel suo reportage Fra
det moderne Amerikas Aandsliv (La vita spirituale dell’America moderna, 1889) Hamsun critica
con acume la “democrazia del dollaro”, la società fondata su arrivismo, competizione, conformismo
e cattivo gusto; ma Hamsun attacca anche l’abolizione della schiavitù e le leggi democratiche. Per
lui i neri sono “scimmie”.
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Sulla scena letteraria norvegese Hamsun si afferma nel segno della rivolta polemica contro
Ibsen e i naturalisti (ammirava solo Bjørnson e i suoi racconti contadini). Nell’articolo del 1890 Fra
det ubevidste Sjæleliv (La vita psichica inconscia) Hamsun propone una visione antirazionalistica,
di cui la nuova letteratura deve tenere conto se vuole definirsi “moderna”: l’io unitario, razionale e
coerente è una finzione; l’individuo moderno è caratterizzato dalla sua dimensione sotterranea,
inconscia e irrazionale. Sono idee “nell’aria”. Hamsun si ispira all’ammirato Strindberg (cfr.
prefazione a La signorina Giulia).
Il primo, rivoluzionario capolavoro di Hamsun è il romanzo Sult (Fame, 1890), che
rappresenta proprio la dissoluzione dell’io razionale e del plot unitario del romanzo borghese
ottocentesco. L’anonimo io narrante è un giornalista e scrittore che vaga per Kristiania e fa la fame.
È privato quasi di tutto: casa, affetti, sostentamento; gli unici attributi materiali inseparabili sono
legati alla sua funzione intellettuale: taccuino, matita e occhiali. Ma questo protagonista cerca
veramente una funzione nella società o la rifiuta? È in un circolo vizioso. Individualità singolare e
geniale, scrive articoli filosofici e probabilmente astrusi (il lettore non viene mai a sapere che cosa
contengano); cerca di venderli ai giornali, ma non riesce. Il redattore gli dice che ha talento, ma
deve provare a scrivere qualcosa di più accessibile. In fondo egli non vuole però essere accessibile.
Dunque non vende; dunque fa sempre più la fame; dunque i suoi stati mentali sono sempre più
alterati e allucinati; dunque i suoi pezzi sono sempre più improponibili sul mercato.
Il romanzo interpreta così la condizione moderna dello scrittore costretto a vendere come
merce la sua produzione intellettuale. È un romanzo sullo spazio urbano e sulla vita tra gli altri; ma
anche su un’individualità inaccessibile, sola, alienata (e alienatasi) dal consorzio umano. Il
protagonista si nutre dei suoi pensieri e delle sue allucinazioni; il discorso logico è dissolto. Fame
anticipa quello che nel Novecento si chiamerà “monologo interiore” e “flusso di coscienza”. La
prosa lirica, musicale e nervosa di Hamsun rende perfettamente le pulsioni contraddittorie dell’io,
gli sbalzi di umore (dall’euforia da onnipotenza all’autodisprezzo e alla disperazione), i lapsus
inconsci. Fame evoca una vita di cervello, nervi e pulsioni – ma di un cervello che si nutre solo di
se stesso e va in corto circuito.
Si delinea il tipico personaggio hamsuniano che, con una serie di varianti, troviamo in molti
libri successivi: irriducibile alla norma e all’ordine, libero, ma anche posto di fronte alla solitudine e
al vuoto dell’esistenza; bisognoso di legame e riconoscimento ma, in quanto individualista estremo,
anche spaventato da ogni tipo di legame. In tutto questo il rapporto dei suoi personaggi con le donne
è particolarmente indicativo. In Fame il protagonista vede una ragazza borghese di Kristiania, di cui
non sa nulla, ma sulla quale comincia a fantasticare chiamandola col nome misterioso ed evocativo
di Ylajali. Riesce poi a conoscerla, avere un appuntamento con lei, e anche un confuso tentativo di
contatto, di amore. Poi i due si ritraggono e si allontanano, come spaventati.
Alla fine di diversi periodi di fame, e diversi tentativi di sopravvivenza a Kristiania, il
protagonista si imbarca su una nave, abbandonando per questa volta il labirinto della città.
Il secondo capolavoro è Mysterier (Misteri, 1892). Qui l’eroe, Nagel, si stabilisce in una
cittadina, vivendo però in solitaria polemica contro di essa, i suoi valori borghesi e la modernità in
generale. Ovviamente Nagel si innamora di una donna borghese; oscilla sempre tra bisogno di
accesso e riconoscimento e sprezzante rifiuto. Le scissioni di Nagel culminano in una fuga tragica,
nel suicidio.
Nel 1894 arriva il romanzo Pan, forse il più grande successo mondiale di Hamsun, un
romanzo che evoca potentemente l’eros e l’estate nordica, ma i cui esiti mostrano un protagonista
maschile ancora tragicamente scisso e inquieto. Il tenente Glahn scrive rievocando in prima persona
gli eventi di cui era stato protagonista un paio di estati precedenti. Giunge in un bosco del Nordland
e si stabilisce in una capanna, sopra il fiordo. Vive solo col suo cane, caccia, si inebria della vita
della natura, percepisce qui, lontano dal consorzio umano, il fluire impercettibile della vita della
natura e dei boschi (Pan è originariamente una divinità dei boschi e delle fonti). Ma l’inno lirico
all’armonia della natura si complica. Glahn è tutta disarmonia; vive un contraddittorio rapporto di
attrazione e repulsione verso la cittadina sul fiordo, Sirilund. Si innamora della giovane Edvarda,
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figlia del più ricco commerciante del paese, il signor Mack. Inizia il tipico tira e molla; Glahn,
personaggio singolare e affascinante, va alle feste dei borghesi, e al tempo stesso mostra la sua
incompatibilità con quel mondo. Inizia con Edvarda una storia d’amore, intensa e breve come
l’estate nordica. Gli incontri nella capanna finiscono presto. Iniziano i sospetti, le gelosie, le
ripicche e le incomprensioni. Se Edvarda è adolescenziale (così almeno la descrive il narratore
protagonista), Glahn stesso non si dimostra più maturo. Intanto Glahn ama anche un’altra donna,
Eva, moglie del fabbro, silenziosa e dimessa, totalmente dedida a Glahn. Sarà lo stesso Glahn, in un
simbolico incidente, a provocare la morte della donna. Nella fase discendente della storia d’amore
tra Glahn ed Edvarda (sta finendo anche l’estate) sembra che egli voglia scrollarsi di dosso
“l’avventura con la ragazzina”. Eppure tutti i suoi atti successivi sono improntati al cruccio e alla
rivalsa. Edvarda, pur negata, diventa una specie di chiodo fisso. Lei si sposerà con un altro, e Glahn
se ne va anche questa volta, sconfitto. Vuole dimenticare, forse farà un lungo viaggio…
L’epilogo del romanzo è narrato anni dopo, scritto dal compagno di caccia di Glahn in India,
e suo assassino. Veniamo a sapere, ora in terza persona, di Glahn, della sua caccia alla tigre, di una
sua disperazione nascosta, da quale sembra volere fuggire (e che il narratore intuisce solo); di lettere
scambiate con una donna norvegese. Veniamo a sapere che, sempre più cupo e disperato, Glahn
provoca a tal punto il compagno da farsi uccidere di proposito. È la fine tragica di ciò che era
cominciato come l’inno all’armonia nella natura, all’estate e all’amore.
Dopo questi primi tre capolavori Hamsun, ora scrittore affermato, cerca altre strade; scrive
drammi e poesie, ma è sempre nel romanzo e nella prosa che produce le sue cose migliori. Victoria
(1898) è un altro romanzo d’amore di successo, ma più convenzionale, mentre il breve romanzo
Sværmere (lett. Fanatici/Entusiasti; trad. it. Sognatori, 1904) offre la versione più sorridente e
giocosa dell’eroe hamsuniano, nel personaggio del singolare e creativo Rolandsen, telegrafista in
una piccola comunità sul fiordo, nel Nordland.
Nella sua vita privata Hamsun cerca anche di realizzare il suo sogno di ritorno alla vita
contadina. Compra con la sua seconda moglie Marie una tenuta nel Nordland. Ma continua a essere
scrittore inquieto e viandante. Tra il 1906 e il 1912 Hamsun scrive una trilogia romanzesca
incentrata su uno stesso protagonista e io narrante: lo scrittore e viandante Knut Pedersen: Under
høststjærnen (Sotto la stella d’autunno, 1906), En vander spiller med sordin (Un viandante suona in
sordina, 1909) e Den siste glæde (L’ultima gioia, 1912). L’aspetto affascinante di Sotto la stella
d’autunno è il velo di malinconia e autoironia che si posa sulla rappresentazione del viandante
hamsuniano. S’è fatto grandicello, e ancora non si ferma, non trova pace… Il tempo del racconto va
dalla fine dell’estate ai giorni sotto Natale. L’io narrante lascia la città, dove vive insoddisfatto, e si
rifugia su un’isola. Il suo proposito è di “trovare pace”; non è la prima volta che ci prova, ma ora è
determinato a riuscire. Poi basta l’incontro casuale con un amico d’infanzia per farlo partire di
nuovo on the road. I due lasciano l’isola e cominciano a vivere da viandanti, nei boschi, andando di
podere in podere alla ricerca di espedienti per sopravvivere. Knut è in realtà un famoso scrittore, si
è solo tolto i suoi panni, cercando di abbandonare quel ruolo sociale “falso” per cercare un’identità
che ritiene più sua e autentica. Ma non trova un’identità, e neanche la pace. Si ferma in due poderi;
dimostra il suo fascino e il suo talento (in fondo non è l’ultimo arrivato). Al podere del prete risolve
un problema idrico con una geniale invenzione tecnica (l’eroe hamsuniano rifiuta la modernità
standardizzata perché lui sa fare di meglio; sa ideare e realizzare, il suo lavoro non è modernamente
alienato); si innamora della figlia del prete, e ha intanto una scappatella erotica con la moglie del
prete. Gli chiedono di restare, ma lui prosegue, non vuol mettere radici. Raggiunge il podere dove
vive la bella signora Falkenberg, il cui marito è assente; è una donna malinconica, il suo matrimonio
forse è in crisi. Knut si innamora e inizia il tira e molla; il gioco dell’incertezza e dei segreti sguardi.
Tutto resta fugace e sospeso. Alla fine lo scrittore torna alla città e alla sua identità “ufficiale”.
Inseguendo le due donne (la figlia del prete e la signora Falkenberg), che sono amiche e vanno in
città a fare gli acquisti di Natale, anch’egli torna alla sua vita urbana, elegante, da caffè. Il finale è
ironico: altro che pace! Ma anche amaro: si è innamorato della signora, la quale si nega, fugge da
lui. Knut Pedersen sa che proverà un’altra volta a fuggire dalla città…
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La poesia del romanzo sta nella nostalgia di vita e nelle terse atmosfere autunnali. Qui la
polemica antimoderna (fuggire dalla città) è felicemente risolta dentro la narrazione, è parte di un
gioco ironico dell’autore con i propri miti.
Intanto Hamsun e famiglia si trasferiscono in una grande tenuta agricola, Nørholm, presso
Grimstad, nel sud della Norvegia. L’ironia scompare, e l’ideologia del ritorno alla natura e alla sana
vita contadina diventa il più potente mito hamsuniano. È un’ideologia debole, specialmente nel
modo regressivo in cui la intende Hamsun. La modernità è problematica e ha aspetti malati (il genio
di Hamsun consiste proprio nel farsi interprete di questa condizione moderna dell’individuo); ma il
ritorno alla terra vergine è una mistificazione, una fuga. In piena prima guerra mondiale Hamsun
pubblica Markens grøde (Germogli della terra, 1917), il suo unico libro con un messaggio
propositivo: il ritorno alla vita contadina. È un grande successo mondiale che vale allo scrittore il
Nobel nel 1920. È la storia del contadino Isak, uomo tutto d’un pezzo, d’altri tempi, che non ha mai
letto un libro e non ha incrinature o dubbi. Isak – anche lui solo e venuto come dal nulla – dissoda
con successo una valle vergine del Nordland, e diventa il patriarca di una comunità contadina che
quasi non ha bisogno dei soldi, del telegrafo e di tutte le comodità moderne, visto che la salvezza
viene dalla terra e dai suoi prodotti. Anche la prosa di Hamsun cambia; da moderna, lirica e nervosa
diventa lenta, epica e solenne. È un romanzo fortemente evocativo, di grande impatto “ecologista”;
ma anche il segno di una visione reazionaria molto vicina a certe correnti di pensiero della destra
tedesca (la stirpe, la terra, l’idealizzazione della sana comunità agreste contro la città corrotta) che
andranno a confluire nel nazionalsocialismo (nel tedesco dei nazisti si chiamerà Blut und Boden,
“sangue e zolla”).
Qui risiede la radice del tragico abbaglio di Hamsun, che pure dobbiamo considerare e
spiegare, perché è parte integrante della sua visione del mondo e della sua opera: la convinta
adesione al nazismo. È chiaro che ci troviamo di fronte a enigmi e a contraddizioni che continuano
ad appassionare e inquietare la coscienza: colui che condanna la modernità finisce per esaltare la
sua manifestazione più barbara; l’irriducibile individualista appoggia il regime totalitario che
annulla l’individuo e sopprime ogni diversità. Hamsun resta per i norvegesi uno scrittore amato e
odiato.
Sostiene Quisling e l’occupazione nazista della Norvegia, incontra Goebbels e Hitler (la
propaganda nazista sfrutta ovviamente l’occasione: il grande premio Nobel al servizio della giusta
causa del Terzo Reich…). E, vecchio e indomito, pubblica una commossa necrologia del Führer
dopo la capitolazione. Viene processato e – per qualche mese – rinchiuso in un ospedale
psichiatrico. Una perizia ad hoc lo dichiara in pratica senile (“facoltà mentali permanentemente
indebolite”). È il tentativo – comprensibile, ma fuorviante – che la Norvegia fa di salvarsi l’Hamsun
buono, il grande scrittore, il padre della patria, il premio Nobel, relegando l’Hamsun cattivo nella
sfera della senilità e della confusione mentale. Ma Hamsun è in grado di intendere e volere. E lui
stesso smentisce la Norvegia e il mondo con l’ultimo stupefacente (e irritante) diario della prigionia,
På gjengrodde stier (Sui sentieri dove cresce l’erba, 1949), dove ritorna l’eterno viandante
hamsuniano, che osserva con ironia le piccole cose della vita e si prepara a morire; ma che continua
a difendere l’indifendibile e a proclamarsi innocente (“avevo e ho ragione”).

Sigbjørn Obstfelder (1866-1900) ha una vita molto più breve e un’opera molto più limitata di quella
di Hamsun. Anche lui tenta senza fortuna l’esperienza americana; poi conduce una vita sradicata tra
le capitali scandinave ed europee, facendosi interprete di una modernità che atterrisce e affascina al
tempo stesso. Nel corso di un decennio scrive poesie, prose liriche, racconti e articoli, oltre a un
dramma e un romanzo incompiuto. La tensione metafisica, la ricerca di una dimensione spirituale
delle cose, l’intensità di visione e l’estro musicale rendono Obstfelder un originale e solitario
esponente del simbolismo in Norvegia. L’uso del verso libero in poesia e del genere baudelairiano
dei poemi in prosa, assieme all’intelligenza cosmopolita e alla sensibilità con cui è descritta
l’esperienza della grande città, danno alla sua opera un carattere sperimentale e anticipatore di
tendenze che saranno del modernismo europeo, ma che avranno scarso seguito nella lirica
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norvegese della prima metà del Novecento. La sua poesia Jeg ser (Guardo) (fot. 44), contenuta
nella sua unica raccolta pubblicata, Digte (Poesie, 1893), diventa una specie di manifesto del
periodo, poiché coglie il senso di stupore, smarrimento ed estraneità dell’individuo nel contesto
(urbano) moderno. L’immagine dell’uomo, “finito sul pianeta sbagliato” da chissà dove, implica
anche una domanda sulla nostra origine e sul senso della nostra esistenza. Tutto ha una sua hjem,
una casa, una sede; solo il poeta appare hjemløs, senza un luogo che possa dire suo.

Danimarca

Il superamento del naturalismo e del positivismo di stampo brandesiano avviene sotto il più diretto
influsso della poesia simbolista francese, che è introdotta e divulgata. I tre scrittori più significativi
di questa fase sono Johannes Jørgensen (1866-1956), Sophus Claussen (1865-1931) e Johannes V.
Jensen (1873-1950). Provengono tutti dalla provincia e si trasferiscono da giovani a Copenaghen,
vivendo in prima persona la frattura tra il tradizionale mondo contadino e la modernità urbana.
Questo è anche per la Danimarca un periodo di profondi rivolgimenti e trasformazioni; abbandono
delle campagne, urbanizzazione e industrializzazione cominciano a mutare l’immagine di sé dei
danesi, fino ad allora (e ancora nel corso del Novecento) ancorati a una forte identità contadina. Il
conflitto città-campagna si configura in termini più radicali nel piccolo paese scandinavo, che ha la
più grande città nordica da un lato e la più sviluppata agricoltura dall’altro.
L’insoddisfazione nei confronti della letteratura d’impostazione realista si esprime nella
convinzione che la realtà sensibile, quella che vediamo, non sia che una superficie e una parvenza.
Per arrivare alla realtà profonda, alla vera essenza delle cose, dobbiamo andare oltre quel velo. La
nuova poesia si indirizza verso il sogno, la visione, la suggestione e il mistero; ed è la poesia in
primo luogo, col suo carattere musicale ed evocativo, ad avvicinarci all’essenza, oltre la logica e la
materialità. Il poeta assume volentieri il ruolo di profeta e vate; l’opposizione al materialismo e alla
massificazione imperanti si esprime nell’idea di una poesia per pochi spiriti che sanno intendere,
andare oltre. È un indirizzo spiritualista, che riprende noti concetti e pratiche poetiche del
Romanticismo, ma che li “cala” nella nuova realtà moderna e diventa, così, anche espressione
dell’alienazione dell’individuo contemporaneo.
Jørgensen parte negli anni Ottanta da posizioni brandesiane e giovanili atteggiamenti
decadenti. Poi trova la sua strada in un deciso allontanamento da quelle premesse: verso il
simbolismo in poesia e verso la fede cattolica. Lascia la città della perdizione, Copenaghen, dove
aveva vissuto i suoi smarrimenti giovanili. In una serie di romanzi degli anni Novanta ritorna
l’esperienza autobiografica del giovane bondestudent, studente di campagna, che vive sradicato in
città, attratto e nel contempo spaventato. Jørgensen è importante per l’opera di traduzione e
divulgazione di quegli scrittori dell’Ottocento che offrono un’alternativa al realismo: Poe,
Baudelaire, Verlaine, Huysmans. Fonda e dirige la rivista letteraria Tårnet (La torre, 1893-94), che
si ispira al simbolismo francese. Il poeta è colui che apre le porte a un mondo spirituale superiore; le
parole chiave usate da Jørgensen sono anima, spirito, sentimento, mondo segreto. Questa
terminologia romantica e neoromantica è in fondo anche un altro modo per chiamare l’inconscio, la
dimensione psichica profonda. Ma il rifiuto del mondo materiale contemporaneo è, in Jørgensen,
più netto e anche più moralistico che non in Baudelaire, il quale oscillava sempre tra spleen e idéal,
con una maggiore apertura e una maggiore capacità di sguardo sulla realtà – anche sordida – della
sua Parigi.
La ricerca di una dimensione spirituale assume per Jørgensen i caratteri della conversione al
cattolicesimo. La raccolta di poesie del 1894 Bekendelse (Confessione) testimonia del percorso di
avvicinamento alla fede. Nel 1896 lo scrittore si converte ufficialmente. Dal 1913 al 1953 vive ad
Assisi, e qui scrive libri di viaggio e biografie di santi (S. Francesco, S. Caterina da Siena, S.
Brigida), raggiungendo una certa fama nella cultura cattolica italiana. Un’importante testimonianza
del proprio tempo, a partire dagli anni giovanili, è data da Jørgensen nella sua autobiografia scritta
in più parti tra il 1916 e il 1928, Mit livs legende (La leggenda della mia vita). La poesia Høstdrøm
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(Sogno d’autunno) (fot. 46) è la prima della raccolta del 1894. Evoca un’esperienza comune: lo
stato d’animo prodotto dal sogno riecheggia nelle ore di veglia. La dimensione onirica – spirituale,
inconscia – è immateriale eppure profondamente vera, più vera della realtà materiale, che al poeta
appare lontana ed estranea. Capiamo anche il senso di cupezza e desolazione che il poeta si porta
dentro. Qui egli confessa la sua crisi; da questo vissuto oppressivo si libererà grazie al percorso che
lo conduce alla fede.
Sophus Claussen è amico e collega di Jørgensen, partecipa a Tårnet e diventa il più
importante poeta simbolista danese. Visione, sogno e mistero hanno un posto centrale nella sua
poesia. Il poeta è colui che vede oltre, una sorta di profeta. Più ricco di Jørgensen e Jensen,
Claussen ha la possibilità di viaggiare a Parigi e formarsi a contatto della poesia simbolista francese.
Quel soggiorno significa anche un nuovo sguardo sulla realtà moderna, lo spettacolo sconvolgente e
affascinante della grande metropoli e le sue masse. Il romanzo Antonius i Paris (Antonio a Parigi,
1896) riflette queste esperienze. Qui troviamo un flâneur danese per le vie di Parigi, outsider e
attento osservatore. Antonio vuole arrivare all’essenza, alla realtà dietro la parvenza; il suo
pellegrinaggio alla casa del maestro Verlaine al Quartiere Latino è uno dei momenti topici del
racconto. Eppure Antonio è anche aperto e curioso verso il mondo, sebbene la realtà materiale sia
fonte di disagio. Claussen, che è anche giornalista, vive in modo più profondo le ambivalenze della
modernità. Una delle sue poesie più note, Ekbátana (1896) (fot. 45), parla di una visione avuta
proprio a Parigi. Quelle che i simbolisti chiamano “misteriose corrispondenze” portano il poeta
dalla città reale alla città immaginata. Che cos’è Ekbátana? Se cercassimo di dare una risposta
logica distruggeremmo l’effetto poetico, l’evocazione di qualcosa di misterioso e irreale, eppure più
vero della realtà concreta. La tradizionale immagine della poesia-rosa indica questo: la rosa non può
essere analizzata petalo per petalo, perché così la si distrugge. Va contemplata e colta coi sensi.
Ekbátana, antica città sepolta dell’Oriente, diventa una città sepolta nel ricordo, negli strati profondi
della psiche. L’esperienza rara, misteriosa e “artificiosa” eleva il poeta, è segno del suo privilegio
spirituale. L’immagine del tramonto evoca anche la decadenza (proprio come in Verlaine) e la fine.
Forse possiamo interpretare in questo senso anche il “diluvio” dell’ultima strofa: fiumana del
progresso e della storia che tutto trascina. Se così è, Ekbátana si pone come il luogo intimo
inaccessibile a tale fiumana.
Johannes V. Jensen proviene dallo Himmerland, una povera regione di brughiere della
Jylland settentrionale, che l’autore ritrae nei racconti storici di vita contadina
Himmerlandshistorierne (Le storie dello Himmerland, 1898). Anche Jensen è un bondestudent che
finisce nella grande città. Lo shock dello sradicamento e dello smarrimento nella realtà massificata
e materiale è per Jensen – come per il suo amico Hamsun – un’esperienza fondamentale. Anche
Jensen tenta di emigrare in America (a New York) e torna in patria.
Jensen, che vince il premio Nobel nel 1944, è considerato un anticipatore del modernismo.
Uno dei capolavori della letteratura danese è il suo romanzo del 1901 Kongens fald (La caduta del
re), che ha un contenuto storico (la figura del re cinquecentesco Cristiano II) e una forma narrativa
modernamente frammentata. Un tema ricorrente nell’opera di Jensen è il viaggio. Anche Jensen è
un viandante inquieto, e compie lunghi viaggi nei continenti del mondo. Il viaggio dà la misura del
mutamento del mondo moderno, sempre più tecnico, rimpicciolito e veloce. La lunga poesia På
Memphis station (Alla stazione di Memphis) (fot. 46-48) è contenuta nella raccolta Digte (Poesie)
del 1906, ed è la più nota di Jensen. Il verso libero, il tono dialogato, la commistione di riflessione
sulla vita e di dettagli impoetici, tratti da una realtà materiale prosaica e sgradevole, sono elementi
che la poesia modernista del Novecento riprenderà e svilupperà. La poesia veicola un racconto. Il
treno su cui viaggia il poeta sta facendo un’inattesa sosta nella stazione di Memphis, in America. La
sosta costringe il poeta alla pausa e alla riflessione; a fondamentali domande sul suo viaggio. Il
viaggio è da sempre metafora della vita: quando siamo costretti a fermarci per chiederci dove
stiamo andando e cosa stiamo facendo, possiamo provare una sensazione vicina a quella che Jensen
descrive. La realtà cruda è descritta in dettaglio; si tratta di un normale squallore che conosciamo
bene, quello di una stazione ferroviaria all’alba, il freddo umido, il sonno, la luce grigia del mattino.
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L’individuo in crisi, che non sa dare risposte alle sue domande sul senso e la direzione, pone una
provocatoria sfida e se stesso: fare di quella sosta accidentale la propria casa, il proprio luogo,
fermarsi a Memphis, sposarsi, trovarsi un lavoro, omologarsi nella massa, diventare cittadino. Ha
bisogno di porre fine all’inquietudine, come Hamsun, ma come Hamsun sa che non può fermarsi,
che non ha una casa. Jensen trasla tutto il tema del viandante nel contesto materiale della modernità
(treno, binari, stazione, poster pubblicitario, distributore di vivande ecc.). Il poeta viaggia: ma egli
non è né come la locomotiva, macchina che viaggia e basta senza chiedersi perché, né come il
maestoso Mississippi, che possiede una calma primordiale, un suo percorso dato dalla natura.
Perché continuare allora a porsi domande e cercare di risolvere l’enigma della vita? Questa
Memphis moderna non è più la Menfi dell’Egitto, dove viveva la Sfinge che poneva enigmi che
valevano al viandante la vita o la morte. Poi la sosta finisce; entra il treno merci che aveva
provocato la sosta. Ha avuto chiaramente un incidente. Sono morte delle persone. Ma ora il viaggio
può riprendere, e le domande finiscono lì, almeno per ora.
Al problema della modernità Jensen dà, nel corso del Novecento, una risposta opposta a
quella di Hamsun, ma altrettanto irrazionale. L’uscita dalla crisi e dall’incertezza avviene con un sì
deciso e senza riserve al progresso tecnico-scientifico, alla “macchina” e alla modernità industriale
occidentale. Questa idea di civiltà si accompagna a teorie razziali sul giusto dominio mondiale
dell’uomo bianco, per natura superiore.
La civiltà moderna è malata e prova disagio. La malattia richiede una guarigione. Per
Hamsun la via sana è il rifiuto totale del moderno; per Jensen (e per i futuristi ad esempio) è la sua
acritica esaltazione. L’inadeguatezza (tragica) di queste soluzioni apodittiche non fa che confermare
la complessità e l’attualità del problema. Tutta la letteratura del Novecento deve, in un modo o
nell’altro, fare i conti con le questioni che gli scrittori di fine Ottocento vivono sulla propria pelle e
rappresentano in modo bruciante. Sono essi a conoscere nell’arco della loro vita uno dei mutamenti
più rapidi e tumultuosi dell’intera storia dell’umanità.

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