Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
In letteratura, ma anche nel cinema, nel teatro, la metafora ha tanta più forza
quando diviene universo significante compiuto in se stesso. Che cosa è successo
prima del silenzio, gelo, cenere, de La strada di Cormac McCarthy (traduzione di
Martina Testa, Einaudi, Torino 2007, pp. 220)? Che cosa ha cancellato la natura e
la società, ha trasformato la vita in relitto? McCarthy non lo dice, la forza della
metafora è qui. Narratore geniale, McCarthy costruisce l’universo nella sottrazione:
non c’è più nulla, regole, convivenza, paesaggio, solo una botanica di scheletri
d’alberi anneriti, spettri di tronchi e rami, tracce d’incendi, erbe morte, rari e vecchi
residui di cibo, farina e semi smarriti su pavimenti marci (solo in una specie di
bunker i protagonisti del romanzo trovano vasetti e scatole, accatastati come in un
rifugio antiatomico). Le uniche tracce di cibo “fresco” sono pelli umane, denti,
frammenti di ossa bollite, gli umani sono l’ultima riserva alimentare di
sopravvissuti selvaggi e cannibali. Nei passi più duri del libro lo scrittore americano
elimina lo sguardo diretto e ricorre alla tecnica dello straniamento: le urla
agghiaccianti di donne e uomini macellati nei sotterranei di una villa-rudere l’uomo
e il bambino li odono da lontano, nascosti nel bosco (p. 88); la botola in una casa
rivela prigionieri di Auschwitz (p. 85); sulla strada padre e figlio vedono resti
anatomici di orridi pasti.
1 L’ultimo romanzo di Guido Morselli (1912-1973), scritto l’anno del suicidio, pubblicato postumo –
come a partire dal 1974 tutta l’opera dello scrittore – da Adelphi nel 1977, racconta di un altro
scenario vuoto. Il protagonista entra in una caverna nei dintorni di Crisopoli (Zurigo) portando con sé
la sua Browning 7.65 per uccidersi. Nella caverna c’è un lago sotterraneo. Ode un tuono, decide di non
rinunciare alla vita. Ma quando esce l’umanità non c’è più: Dissipatio Humani Generis: gli altri sono
evaporati, nebulizzati. Continuano a funzionare le macchine, a lampeggiare i semafori; gli animali e le
piante, come in una nemesi della natura, sono padroni del mondo. Il protagonista vaga nella città
vuota, i telefoni hanno solo la voce delle segreterie, sull’asfalto delle strade, coperto di terriccio,
germoglia la cicoria selvatica. Metafora raggelante della solitudine, dove gli altri sono scomparsi o
invisibili, o è forse l’io narrante ad essere invisibile agli altri. Negli anni ’70 la pubblicazione dei
romanzi e racconti di Morselli scatenò un caso: in vita lo scrittore si vide sempre rifiutare i suoi testi
dalle case editrici. Oggi è di nuovo dimenticato.
Nero e grigio sono i colori del paesaggio: il nero degli alberi morti e dei rami
secchi, il buio della notte; il grigio della cenere, velo che copre tutto, batuffolo
leggero, polvere impalpabile o poltiglia che si mescola alla neve e alla pioggia; la
notte senza luci; il freddo. Non ci sono colori, la luce del giorno è una soffocante
caligine cinerea, piove sempre, non c’è mai tepore. Il mondo sembra immerso in un
inverno perenne. Ciò che resta della civiltà sono rifiuti e macerie. Del mondo
“prima” restano solo ricordi e sogni. Come il sogno della caverna (p. 3, l’inizio del
romanzo): il sipario si alza sullo scenario di un’Ade. L’uomo e il bambino sono in
una caverna “come viandanti di una favola inghiottiti e persi nelle viscere di una
bestia di granito. […] Poi si ritrovavano in una grande sala di pietra dove si apriva
un lago nero e antico. E sulla sponda opposta una creatura che alzava le fauci
grondanti da quel pozzo carsico e fissava la luce della torcia con occhi bianchissimi
e ciechi come le uova dei ragni”. La strada è un viaggio nell’Ade? E’ la prima
cantica, che si chiude con l’incontro del bambino con un uomo, la sua donna, altri
bambini, come Dante sulla soglia del Purgatorio? Anche gli unici colori sono nei
sogni: “Sognò di passeggiare in un bosco fiorito con gli uccelli che volavano davanti
a loro, a lui e al bambino, e il cielo era di un azzurro doloroso” (p. 14); “Adesso di
notte capitava che l’uomo si svegliasse in quella desolazione nera e gelida di ritorno
da mondi dai colori delicati: amore umano, canto degli uccelli, sole” (p. 207).
Il paesaggio dove l’uomo e il bambino si avviano è “arido, muto, senza dio” (p. 4).
Il terreno è “incendiato nero e spoglio. Tronchi carbonizzati senza rami che si
susseguivano a perdita d’occhio. Cenere che aleggiava sopra la strada e grappoli di
cavi ciechi che penzolavano dai pali della luce anneriti gemendo piano nel vento.
Il teatro del nulla di McCarthy è scenario di resti: “Terra desolata. Una pelle di
cinghiale inchiodata alla porta di un granaio. Logora. Un codino striminzito. Nel
granaio tre corpi appesi alle travi del tetto, rinsecchiti e polverosi fra pallide lame di
luce” (p. 13). Anche la luna, simbolo romantico e della letteratura mondiale d’ogni
tempo (Saffo, Leopardi, Novalis, fino al “sole nero” di Nerval), è “oscura”, in tre righe
stupende che derogano dallo stile narrativo secco, dal montaggio cinematografico di
McCarthy, per essere poesia: “Oscurità della luna invisibile. Le notti ora solo
leggermente meno nere. Di giorno il sole esiliato gira intorno alla terra come una
madre in lutto con una lanterna in mano” (p. 26); pennellate secche, periodi senza
verbo, accento del miglior espressionismo tedesco.
2 Al contrario di Dissipatio H.G. di Morselli, dove è nebulizzato il solo genere umano, La strada di
McCarthy è più radicale: qui qualcosa (catastrofe naturale, terremoto o incendio pare di capire, o
disastro nucleare) ha cancellato tutto, natura e civiltà.
Anche i rari incontri - quando non sono tribù di cannibali – sono con uomini
ridotti a resti; gli stessi protagonisti, l’uomo e il bambino, “si rimisero faticosamente
in cammino, magri e lerci come drogati randagi” (p. 135); “Poi si rimisero in
cammino lungo la strada, curvi, incappucciati e tremanti nei loro stracci come due
frati mendicanti mandati a cercare elemosine” (p. 97). Nella stessa pagina un’altra
efficace pennellata sul paesaggio: “Stavano attraversando la vasta pianura costiera
dove i venti di terra li investivano con nubi di cenere mugghianti costringendoli a
trovare riparo dove potevano. Case o granai o fossi lungo la strada, con le coperte
Un’altra pagina sul paesaggio è una profezia e una delle chiavi di lettura del libro
(e anche qui i rinvii possono essere tanti: dalle narrazioni sulla peste ai dipinti di
Hieronymus Bosch): “In breve tempo il mondo sarebbe stato popolato da gente
pronta a mangiarti i figli sotto gli occhi, e le città dominate da manipoli di predoni
anneriti che scavavano gallerie in mezzo alle rovine e strisciavano fuori dalle
macerie in un biancheggiare di occhi e denti, reggendo reti di nylon piene di
scatolame bruciacchiato, come avventori negli spacci dell’inferno” (pp. 137-138). Il
paesaggio è disegnato dalla scrittura su lemmi ossessivi: rovine, macerie, denti,
occhi. E’ la città dell’Ade, e torniamo all’ipotesi di lettura che rinvia all’Inferno
dantesco e ad altri inferni della letteratura. E’ la pagina migliore – l’affresco - sul
mondo del libro: “Il soffice talco nero si spandeva a sbuffi per le strade come
inchiostro di seppia sul fondo del mare, il freddo scendeva lento e faceva buio
sempre più presto, e i disperati che frugavano alla luce delle torce sul fondo dei
dirupi lasciavano nello strato di cenere ombre morbide che si richiudevano dietro di
3 Lo ha notato il poeta Franco Romanò nel saggio “Techne – Immagine e verità in Cormac McCarthy”,
sulla gradevole rivista Il Cavallo di Cavalcanti (Azimut, autunno 2010, anno 4 numero 3, pp. 81-89),
dove Romanò annota: “Uno degli elementi costitutivi della cifra stilistica di Cormac McCarthy: il suo
particolare rapporto con l’immagine e con il cinema” (p. 82), dimostrando poi come la tecnica del
cinema si riveli anche nel dialogo: “Mancano le virgolette che solitamente delimitano un dialogo
dall’altro […] Movimento e parola non posso essere scissi l’uno dall’altra” (p. 83).
La scrittura dell’orrore
Il bambino
“…il bambino era l’unica cosa che lo separava dalla morte” (p. 23). “L’uomo si
voltò a guardarlo. Era completamente assorto. Gli sembrò un orfanello triste e
solitario che annuncia l’arrivo di uno spettacolo itinerante in una contea o in un
villaggio senza sapere che dietro di lui gli attori sono stati portati via dai lupi” (p.
60). “Ce la caveremo, vero, papà? / Sì. Ce la caveremo. / E non ci succederà niente
di male. / Esatto. / Perché noi portiamo il fuoco. / Sì. Perché noi portiamo il fuoco”
(p. 64)4. Alle pp. 65-66, in uno dei villaggi attraversati, il figlio intravvede un
bambino infagottato. Prima aveva sentito abbaiare un cane. Lo chiama, lo cerca, il
padre lo frena. Forse quel ragazzino non esiste, vive solo nell’immaginazione del
bambino, come il cane. Ma tanto basta perché il figlio inviti il padre a cercarlo: “Ho
paura per quel bambino. / Lo so. Ma vedrai che se la caverà. / Papà, dovremmo
tornare a prenderlo. Potremmo prenderlo e portarlo con noi. Potremmo portarci
dietro lui e anche il cane. Il cane potrebbe catturare qualcosa da mangiare. / Non
possiamo. / E io dividerei con quel bambino tutte le mie provviste. / Smettila. Non
possiamo. / Stava di nuovo piangendo. Ma quel bambino?, singhiozzava. Ma quel
bambino?”. Nel desolato romanzo di McCarthy c’è la speranza e ha il volto magro e
4 Abbiamo inserito le barrette dove, come in una poesia, le frasi vanno a capo. Nella tecnica narrativa
(e cinematografica, come si è detto) di McCarthy non ci sono le virgolette, i dialoghi si muovono nel
medesimo tessuto del racconto in terza persona.
L’orrore metafisico
In una pagina stupenda del libro (p. 100) la metafora da cui germina La strada si
rafforza in un brivido metafisico: “Rovistarono fra le rovine carbonizzate di case in
cui un tempo non avrebbero messo piede. Un cadavere che galleggiava nell’acqua
nera di una cantina in mezzo ai rifiuti e alle tubature arrugginite. L’uomo si fermò
dentro un salotto parzialmente incenerito e aperto al cielo. Le assi deformate
dall’acqua inclinate verso il giardino. Volumi fradici sugli scaffali di una libreria. Ne
prese uno, lo aprì e lo rimise a posto. Tutto era umido. Marcescente. In un cassetto
trovò una candela. Non c’era modo di accenderla. Se la mise in tasca. Uscì fuori
nella luce livida, rimase lì in piedi e per un attimo vide l’assoluta verità del mondo.
Il moto gelido e spietato della terra morta senza testamento. L’oscurità implacabile.
I cani del sole nella loro corsa cieca. Il vuoto nero e schiacciante dell’universo. E da
qualche parte due animali braccati che tremavano come volpacchiotti nella tana.
Un tempo e un mondo presi in prestito e occhi presi in prestito con cui piangerli”.
Non è possibile non pensare ai temi leopardiani, non ravvisare nella metafora de La
strada di Cormac McCarthy la raffigurazione di un vuoto metafisico al di là della
storia stessa. Il mondo dei colori, accennato solo dai sogni, è mai esistito? O
accostare a una pagina come questa, in una formidabile diacronia storica e
geografica, il celebre frammento delle Pensées di Pascal tradotto da Foscolo nelle
Ultime lettere di Jacopo Ortis, dove è inserito dal 1816.5
5 PASCAL, Œuvres complètes, texte établi et annoté par J. Chevalier, Gallimard, Paris 1954, p. 1175:
“Io non so né perché venni al mondo; né come; né cosa sia il mondo; né cosa io stesso mi sia. E s’io
corro ad investigarlo, mi ritorno confuso d’una ignoranza sempre più spaventosa. Non so cosa sia il
mio corpo, i miei sensi, l’anima mia; e questa stessa parte di me che pensa ciò ch’io scrivo, e che
medita sopra di tutto e sopra se stessa, non può conoscersi mai. Invano io tento di misurare con la
mente questi immensi spazj dell’universo che mi circondano. Mi trovo come attaccato a un piccolo
angolo di uno spazio incomprensibile, senza sapere perché sono collocato piuttosto qui che altrove; o
perché questo breve tempo della mia esistenza sia assegnato piuttosto a questo momento dell’eternità
che a tutti quelli che precedevano, e che seguiranno. Io non vedo da tutte le parti altro che infinità le
quali mi assorbono come un atomo”. Cit. da UGO FOSCOLO, Opere, II, Prose e saggi, edizione diretta
da Franco Gavazzeni con la collaborazione di Gianfranca Lavezzi, Elena Lombardi e Maria Antonietta
Terzoli, Einaudi-Gallimard, Biblioteca della Pléiade, Torino 1995, pp. 126-127.
Dal romanzo La strada di Cormac McCarthy nel 2009 il regista John Hillcoat ha
tratto il film con Viggo Mortensen, Charlize Theron, Guy Pearce, Robert Duvall,
mentre il bambino è Kodi Smit-McPhee, The Road (titolo originale del libro),
musiche di Nick Cave, film che ha rischiato di non essere distribuito perché “troppo
triste”. McCarthy è già noto al pubblico cinematografico per la versione di Non è un
paese per vecchi di Joel ed Ethan Coen. Il film inizia con un giardino di fiori e la
Theron e una catastrofe rossastra (incendio? terremoto?). Intuendo la catastrofe, la
donna se ne è andata e si è uccisa; il suo obiettivo era uccidere anche il bambino.
Ore 1.17, orologi fermi, luce abbagliante in cielo, scosse profonde: siamo nel
racconto. Il film deve diluire la metafora, ma è l’unica concessione – e inevitabile
rovesciamento della trama del libro – alle leggi del cinema. Il film rende bene
l’atmosfera del libro nella fotografia, nelle luci, nei colori: fotografia scura, grigia
come la luce del romanzo, seppia come in Stalker di Andrej Tarkovskij (1979), altro
film sul non-luogo (la Zona) in un non-tempo.
Postille a margine
6 Il filone del cinema apocalittico, o post-apocalittico, è infinito, uno dei più frequentati da horror,
fantascienza o apologo sociale. Tra i più recenti citiamo 28 giorni dopo (28 Days later, GB/Olanda
2002), di Danny Boyle, il regista di Trainspotting (1996), con Christopher Ecclestone, e il sequel 28
settimane dopo (28 Weeks later, GB/Spagna 2007), di Juan Carlos Fresnadillo, con Robert Carlyle,
entrambi modesti, dove un virus ha trasformato in zombies gli esseri umani. Di ben altro livello è Io
sono leggenda (I Am Legend, Usa 2007), di Francis Lawrence, con Will Smith, ambientato nella New
York del 2012 dove un virus ha trasformato tutti gli uomini in vampiri, l’unico sopravvissuto
all’epidemia è il dottor Robert Neville, che ha un siero e gira per la metropoli deserta con il suo cane
lupo. Io sono leggenda è di origine letteraria, l’omonimo romanzo di Richard Matheson (1954): date
interessanti, gli anni ’50 della guerra fredda e del boom della fantascienza e il cinema americano del
post 11 settembre. Ma il vero capolavoro è Tempo di leggere (1959), uno degli episodi giustamente più
famosi di The Twilight Zone, la serie televisiva ideata da Rod Serling per la CBS trasmessa negli Stati
Uniti tra il 1959 e il 1964 e in Italia con il titolo Ai confini della realtà. Diretto da John Brahm, teleplay
di Rod Serling dalla short story di Lynn Venable e interpretato da un magnifico Burgess Meredith,
racconta dell’occhialuto Henry Bemis, cassiere di banca che legge Dickens sul lavoro e la cui passione
per i libri è osteggiata anche dalla moglie. Henry chiude lo sportello e si rifugia nella camera blindata
per leggere quando sente una tremenda esplosione che sventra il caveau. Quando esce scopre che
tutto è distrutto da un’esplosione nucleare, pensa al suicidio ma si ritrova sulla scalinata della
biblioteca pubblica. Infila cataste di volumi e programma letture che lo terranno occupato anche negli
anni futuri. Ma proprio quando sta per prendere il primo volume, seduto sulla scalinata della
biblioteca semidistrutta davanti a un grande orologio, gli occhiali gli cadono, le grosse lenti di vetro si
rompono, si ritrova solo e cieco in un mare di libri.