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Stefano Raimondi (Milano, 1964).

Sue poesie so-


no apparse su «Nuovi Argomenti» (2000, 2004)
e nell’«Almanacco dello Specchio» (Mondado-
ri, 2006). Ha pubblicato Invernale (Lietocolle,
1999); Una lettura d’anni, in Poesia Contempora-
nea. Settimo quaderno italiano (Marcos y Mar-
cos, 2001); La città dell’orto (Casagrande, 2002);
Il mare dietro l’autostrada (Lietocolle, 2005); In-
terni con finestre (La Vita Felice, 2009). È inoltre
autore di: La “Frontiera” di Vittorio Sereni. Una
vicenda poetica (1935-1941) (Unicopli, 2000); Il
male del reticolato. Lo sguardo estremo nella po-
esia di Vittorio Sereni e René Char (Cuem, 2007);
Portatori di silenzio (Mimesis, 2012).
È tra i fondatori della rivista di filosofia «Ma-
teriali di estetica». Collabora a «pulp libri», «Qui
Libri», «Poesia». Ideatore e curatore del ciclo
d’incontri «Parole Urbane».
Stefano Raimondi

per restare fedeli

Transeur opA
Collana di poesia
«nuova poetica»

volumi pubblicati:
1. Mario Benedetti, Materiali di un’identità
2. Italo Testa, La divisione della gioia
3. Anna Maria Carpi, L’asso nella neve. Poesie 1990-2010
4. Gabriel Del Sarto, Sul vuoto
5. Maria Grazia Calandrone, La vita chiara
6. W. H. Auden, Oratorio di Natale
7. Franco Arminio, Stato in luogo
8. Herta Müller, Essere o non essere Ion
9. William Faulkner, Poesie del Mississippi

© 13 pier vittorio e associati, transeuropa, massa

www.transeuropaedizioni.it
isbn 9788875802004

copertina: idea e progetto grafico di floriane pouillot


La guerra non viene più dichiarata,
ma proseguita. L’inaudito
è diventato quotidiano.

Ingeborg Bachmann

Farai li vinti e battuti pallidi, colle


ciglia alte nella lor congiunzione,
e la carne che resta sopra loro sia
abbondante di dolenti crespe […]
i denti spartiti, in modo di gridare
con lamento […] farai omini morti,
alcuni ricoperti mezzi dalla polvere,
e altri tutti. La polvere che si mischia
coll’uscito sangue convertirsi in rosso
fango, e vedere il sangue del suo colore
correre con torto corso dal corpo alla
polvere. Altri morendo stringere i
denti, stravolgere gli occhi, stringere le
pugna alla persona e le gambe storte.

Leonardo da Vinci
I

La tua parola usa il ticchettio


insistente delle mine
i

Un tatuaggio a guerra macchia


il trapuntare del sole anche negli asili
sparsi nel sangue dei paesaggi.

Non si hanno più, qui, visioni vere


veri palinsesti arborescenti e sani
cancellati al di là del fumo
dallo scoppio, dalla muffa
che ondeggia negli occhi
dall’umido che cola
dalle pupille. La tua
parola usa il ticchettio
insistente delle mine.

Si appoggiano le vene sopra i tagli


i muri sulle crepe.
ii

Il mondo è delle cantine


dei rifugi. Siamo noi
le falde fonde, ultime dell’acqua.

Ormai ti riconosco dal vento


dalla luce, dalla strettoia
della metropolitana, dagli spostamenti
dalla paura che fai quando ti fermi
quando arrivi, quando vieni
da quelli che hai lasciato, quando
torni dal posto che hai distrutto
rovinato.

L’onda lunga degli uccelli non è più


tra la finestra e il balcone: nei giardini.
Tutto il cielo ne è vuoto e ne parla.

Passerai altrove in una notte


insieme ai brutti sogni, tra un arcobaleno
e l’altro che non serve, rivolto tutto
ai ciechi che si cercano, si tastano
che si schiacciano i colori
in fondo agli occhi, per tremare.


Fanno premonizioni gli uccelli
tolti a questa primavera. Volano
come mosche nere rasoterra
contro muri, finestre, stipiti imbiancati
dentro Tebe e non per cercare cibo
ma amori tolti male: guerre.


II

Genova-New York
Ci sono ancora cose da dire a Milano

«C’erano cinque persone in quella stanzetta al quarto


piano della Questura, tutte a raccontare del ferroviere
anarchico che spicca un balzo felino, che si lancia come
un tuffatore dal trampolino, che sembra una saetta»
e di «Muraro, il portinaio di Padova, ex carabiniere,
trovato morto il giorno prima di essere interrogato
nell’ambito di un’inchiesta sui neofascisti veneti. Una
ciabatta resta nell’androne, l’altra al primo piano, al terzo
lascia la spazzatura, la scopa gli rimane praticamente in
mano».
Le date hanno ancora le macerie, le ossa fuori posto.
12 dicembre
4 agosto
2 agosto
20 luglio
11 settembre
11 marzo

tutte, una dopo l’altra, ancora da finire: calendari
perpetui di carne scoppiata.
*

Lo sai che qui, da noi, i sassi


non deviano pallottole
ma baciano le stelle:
sono desideri. Altrove
chiudono le palpebre
in eterno, ma in pace.


*

Da quella panchina, sembra non appartenere a nessuno.


A nessun paese, nessuna lingua ma solo ai confini, alle
strisce di sole che avanzano, ai bordi del fazzoletto
macchiato di sperma e catarro, agli orli che si lasciano
andare da sotto. Non appartenere a nessuno sembra la
sua bravura, la sua maniera di essere felice, di restare
sconosciuto, lontano, come l’esatto centro del niente: di
fare la città o forse, è quel modo d’ossa rotte di augurarci,
di vederci morti tutti, come un sogno fatto a Genova,
in una piazza piena come un intestino, un polmone blu
schiacciato, pieno come una marea.


*
Deve essere un lungo piano se-
quenza la memoria: un atto uni-
co che insiste sull’immagine.

Tutto è appena successo. Lui sdraiato. Da una parte


l’estintore, dall’altra il sangue. Intorno i piedi fermi negli
anfibi. Voci fuori campo senza digitali fisse piombano
nel paesaggio, rotolano dentro un urlo.
«Inciampo nello scheletro di un mehari che farà musica
stanotte quando il vento marino gli passerà tra le costo-
le; a quell’ora sarà come un erpice della luna; allora la
Ualad-Ali per sorprendermi col suo bastone scaverà la
sabbia e mostrerà con un inchino la testa del mehari che
s’è mummificata; poi, senza toccarla, facendo cadere la
sabbia col piede, la ricoprirà con cura.»
Dopo, una mosca di ferro dentro una finestra, un vetro,
una stanza, un piano. Fuoco intorno, fumo dentro e
un’altra mosca di ferro dentro una finestra, un vetro, una
stanza, un piano. Fuoco intorno, fumo dentro. Sotto il
sangue esce dal passamontagna, il fianco è fuori posto.
Un rotolo di scotch, intorno al braccio, tiene insieme
tutto. Poi più niente di luglio, solo di settembre. Da
Genova partivano caravelle.


*

Suonano le campane a morto. Agosto. Un paese di


montagna.
«Stava bene.»
«Aveva le gambe gonfie.»
Le notizie arrivano solo con le voci, senza faccia, dalla
corte, dalla via.
«Ci vuole pazienza.»
«Cazzo che bella giornata, oggi. Mi sono divertito un
casino.»
Si sovrappongono, così, gli umani: la voce sulle ossa
dritte, le spine dorsali piantate dentro gli occhi. Piove
con il sole sulla stessa strada e per tutti è uguale sapere,
non sapere. Tenere, non tenere le lanterne, luci accese.
Genova, New York sono tutte dalla stessa parte. Luglio
settembre, settembre luglio… Crepare in agosto non va
bene, con tutto quello che è successo prima, dopo.


*
(I particolari possono essere sto-
rie: inizi, in qualche modo, gesti
mai decisi in tempo.)

Manca poco all’11 settembre.


Si sarebbe rasato in fretta. Sarebbe uscito. Avrebbe gridato
qualcosa a qualcuno per farsi capire, ancora da vivo.

La luce del bagno è rimasta accesa, tra i peli seccati nel


cerchio dell’acqua.
Si leggono i fondi di caffè per il futuro.
Lì c’era di che capire.


*
Si era coperto con dei fogli di giornale:
erano le notizie a tenerlo al caldo.

Nessun grattacielo vicino alla panchina. Il parco è libero


di cadere ovunque. Due torri vicine fanno paura a tutti.
Dal giornale non capisce che è successo davvero. La
notizia l’ha coperto la notte dopo. Per lui, l’11 è stata una
notte tremenda: aveva i piedi gelati, le spalle scoperte. Se
si girava su un fianco, le Twin Towers cadevano ancora
su una cacca di cane o volavano sopra un’altra panchina
dove, ormai, non c’era più nessuno di vivo.


*
Non rendere falsa testimonianza:
anche la neve è un sì o un no
che presto finisce.

Nero su bianco: è tutto scritto.


I girati lo dicono il fumo
le corse, il sangue, lo dicono!

Il mare non circonda, avanza


in Genova, in piazza. Nero
su nero invade. Si vede: blocca.

Eppure non ci credono ancora:


il colpo, «Assassini Assassini»
i fianchi stortati.
27 luglio 2002


III

[Blog-Out]
L’esercito ha soltanto una vita attiva.
E non ci si immagina soldati “con-
templativi”. Generalmente se il gioco
degli eserciti viene “contemplato” è
per denunciare l’estrema assurdità.

Georges Bataille
[Senza data]

Iniziano così tutte le storie che non sanno come finire.


Fanno cerchio sulle date, sulle sponde, tra le retrovie.
Dicono parole d’ordine: lasciapassare. Vanno dalla parte
dei semi, dei fiori, delle nuvole fino a sfinirsi, a non
crederci più. Si lasciano così tutte le storie, come le si
sono ritrovate, da qualche parte, vicino a qualcuno.
Dicono che a far bene si faccia bene.
Ho sentito raccontare vicende al contrario. Ma la luce
toglie paura al buio: cura ogni notte e da ogni nottata
passa a raccontare come si potrebbe non finirla mai.
«Lo sai» mi dicevi, «le date scoppiano a caso, fanno
guerre vicine, tolgono il bianco: fanno l’elemosina a un
sogno digiuno.»
[3 marzo 2003]

Partire è trovarsi già qua


è restare tra le veglie e le notti
con il battesimo vicino. Non so
cosa succederà domani, chi
scoppierà per primo. Ho
il mio femore nel bianco e la luna
è così chiara e senza sangue
che a guardarla fa tremare.
Anche da qui, si scrivono già
lettere lontane. Farle arrivare
diventerà il problema, l’osso
rotto delle frasi.


[lettera da un fronte]

[…] sto molto male da questo posto, da questo orto


fatto per restare lontano, da questo isolamento bendato
di lini e poltiglia: da questa città. Non mi è necessaria
a nulla, perché non porta a niente, a nessuno. È come
non poter vederne la fine, la faccia, la fronte, ma solo
le spalle: quelle che si possono tradire. I polmoni sono
due come i perdoni dei ritorni, come la lama e il collo
di Isacco, come la tenda e il riso di Sarah, come le mani
e le ghiande di chi ritorna al padre […]


[4 marzo 2003]
Hai ragione tu:
bisogna onorare la gioia.

E allora stammi vicino, così


fino alla penombra, al buco rosso
del passaggio colato via, per terra
vicino al mare. Tra poco saranno
le sirene a darci corde, tappi di cera
paura. Da una città all’altra si inizierà
a morire per caso. L’acqua la prenderemo
finché ci basta, finché la sete la riconosceremo
ancora, dagli occhi e dalle labbra, nei baci.


[6 marzo 2003]

Guardare la via, vederla


nei rumori dei tombini
nella striscia d’acqua dei netturbini
è anche sentirla contata
dalle finestre, dai bambini
quando segnano col dito
le bandiere della pace svolazzare:
una due tre quattro
come i giorni rimasti prima
di contarle, di saperle
messe lì da noi
che facciamo tutto
che disfiamo tutto.
Contano ancora prima di rientrare:
una due tre quattro
come se fosse un sogno
un brutto sogno fatto senza saperlo.


[12 marzo 2003]

Mi ancoro su ondate
e il fondo fa eco a un suono
che dell’acqua ha solo il chiaro:
il resto è dell’annegato.


[19 marzo 2003]

La guerra e l’abbandono stanno facendo opere.


Quali riconoscere?
Si tengono lontani i bambini dai confini:
fanno paura ai sogni, alle trincee bruciate
ai sì. Ci sono vicende umane che partono
da qui, storie che sanno cosa prevedere.
Fanno trincee i bambini: le fanno con gli stracci
e le tengono, le lavano come ci fossero
solo madri da coprire.


20 marzo 2003
3.35 ora italiana
Con “Decapitation Strike” inizia l’attacco americano all’Iraq. Il
secondo in un decennio. Era davvero necessario? Come si sono
formate le coalizioni che l’hanno determinato? E, soprattutto,
quali scenari sono ipotizzabili dopo la sua conclusione? “La
fredda guerra” analizza in chiave geopolitica le strategie che
hanno preceduto il conflitto e la politica del “nuovo ordine
mondiale” voluta dall’amministrazione Bush.

[20 marzo 2003]

Abbiamo fatto l’amore sul treno


in mezzo a tutti, allo scoppio
delle prime bombe: era un sogno
l’amore e la tua forza serena di dirmi
addio prima del tempo, prima
che scoppiassero davvero le carezze
la galleria, la luce e le costole
si infilzassero nel tuo costato bianco
come il bianco degli occhi di quelli
stesi vicino a noi, neppure ventenni
neppure conosciuti. Sapevamo
la forza, il tocco, il morso
ma non lo scoppio. Guardami
da dove sei andata: statua di sale
bacio da trincea.


Pioggia di missili, la vera guerra a Baghdad. I marines attac-
cano dal sud. Battaglia a Bassora primi morti. Saddam sfugge
al bombardamento.

[21-22 marzo 2003]

I bambini giocano a squadre, alleati


sbiancati in corsa. Resistono
da un tiro all’altro odiandosi
tra pali di lane ammonticchiate.
Si chiamano senza nomi, si aspettano
nel chiaro: si schierano, sparano
attaccano, si uccidono, salgono
sulla bicicletta, spariscono.
L’erba rimase così
come l’hanno lasciata.
Si dice che la notte, quella notte
avesse raccontato a ogni filo
una storia di guerra
e fatto vedere bambini
sdraiati come a sognare.


[24 marzo 2003]

[frammento di lettera]

[…] Quando sento il bollettino di guerra non capisco se


stiano parlando anche di me da quando sei andata, o di
entrambi, dal nostro luogo d’abbraccio, perso per sem-
pre. Qui i bombardamenti mi avvengono con le stesse
scadenze di Baghdad: tra un allarme e l’altro si corre a
vivere, a fare scorte, provviste. Bacili pieni d’acqua nera,
bava di stelle mute impigliate alle grondaie. Si corre
sempre, amore, per salvarsi, per tenere il pane pronto
per la fame e si nascondono pleniluni sani dietro gli
occhi per non spaventare i bambini. Si esce a fare scorte,
sì, provviste… ma poi si ha paura… e non si è ancora
tornati, tornati indietro in tempo, nei rifugi […]


[26 marzo 2003]

Ci sono giorni dove correre è


l’unico modo per salvarsi
altri dove è l’immobilità
e l’aria spessa del rifugio
a farci stare fermi con gli occhi
dentro a un cuore puntato
dalle sirene, per la notte.
Poche cose vicino dicono
l’angolo dove ci si siede ad aspettare
lo stesso che potrebbe non farci
vedere più da nessuno.
Si tengono a galla i topi:
uno sull’altro passano da qui.
Vedessi, amore, come sono fieri.
Hanno la tragedia negli occhi: quella
delle fogne perlustrate durante i matrimoni
che saziano le macchine e i futuri.

«Siediti qui» mi dice un bambino


«i miei giochi li ho tolti ieri dal cesto.
La mamma mi dice che presto
finirà tutto.»

Non ho saputo nulla dopo lo scoppio


dopo che mi ha lasciato con la sua trottola
che gli girava ancora tra le mani.


[30 marzo 2003]

Anche qui è tutto un bombardamento


una guerra guerreggiata tra cuori
scapole, polmoni, femori, caviglie.
E non si sa il nome di nessuno
la faccia di chi crepa tra le mani
e neppure di chi ci stava vicino da tempo
con la sua pigiata, ben trovata
con la notte e il suo silenzio.
Dai colpi, dagli incendi, dalle bombe
non escono che pezzi tolti alla cieca.
Amore dove sei?
I primi spari sono partiti.
La colpa incendia gli amanti
e gli armamenti. La polvere ci copre gli occhi
e il fiato è tolto come un’esplosione.
Feriti a Bassora, morti a Baghdad
e di te non so più niente. Qui
si mischia tutto. Le notti arrivano già cariche
e ferite: il sangue tra le gambe frena.


A Baghdad è bombardamento continuo. Tutti i caccia in azione,
decine di morti. Colpita fattoria all’ingresso della città: venti
morti, undici sono bambini.
I bombardamenti si accaniscono sulla capitale, notte e giorno,
come promesso […].

[1 aprile 2003]

È una promessa, qui, l’accanimento.

Pensavo trovassimo dell’acqua vicino


una bacinella dove trovare insieme le mani.
Togliti dal cerchio, sposta
le tue braci in un altro fuoco
da qui ci potrebbero vedere: uccidere.
Il giro della casa è vietato:
potrei rincontrarti dove
la voce non ha più tregua, dove
i tuoi rifornimenti passano
dalla casa vuota.


[…] e ogni mattina ritroviamo gli effetti sanguinosi […].

Aspetto, solo, il tempo della casa.

Ho lasciato lenzuola pulite


prima di scappare: gli angeli
verranno a ripiegarle – piega su piega –
e a non dire niente. Ci sono bocche
che non hanno labbra per le frasi
ma cunicoli per il buio del cuore
dove scendere a vedere
e incominciare a credere
a tutti i mezzogiorni, a tutte
le ombre dritte sui muri.


Erano le 12.30, l’ora della preghiera di mezzogiorno, c’era
chi pregava e le donne cucinavano, quando è arrivato un
boato, la casa colpita è stata completamente distrutta,
quella dietro solo parzialmente, sei morti, compresa una
bambina di dodici anni.

Mi hai lasciato qui con poca acqua


pochi stracci, con tutto il tempo
per non poter fuggire, anch’io
nelle retrovie. Sapevo tutto
sulle alleanze: sugli arcobaleni
curvi tra la terra e il cielo
e del prepuzio tagliato passato
sopra il piede del padre, come
il segno di un “sempre” e di un “ancora”.
Da qui ci si circonda di paura, ora
che non ho che poche cose
poco tutto: il battere di un fuoco
amico contro.

Il tuo cunicolo arriva fino al mare.

Non ho mai saputo da che parte entrasse


la luce: quella che ti ha salvata, medicata.

Le fiabe le raccontano dall’altra parte


dove i bambini hanno meno paura
così poco pronti a morire.


“Io mi auguro che la guerra duri il meno possibile, perché ogni
giorno in più di guerra comporta sofferenze indicibili […]. Il
risultato di questo conflitto non sarà certo quel che si vedrà
sul campo […]. Sarà quel che ne conseguirà.”

Sapevamo come leggere insieme.


Anche queste poche frasi dicono
come fare per non sanguinare inutilmente.
Lasciamo che venga presto
la tua-mia colpa. Il rantolo
dei perdoni poco serve per passare
le notti colate nei rifugi.
Ma da qui il buio sembra diverso
fatto d’altro: riflette gli sguardi
brilla come una supplica
ha l’odore salato dei pianti.


[2 aprile 2003]

Anche questa notte è passata


issata sopra un palo, decapitata.
Passa tra le case la bava del giorno.
Scende, si stacca, fa chiaro.
Da tutto questo montare di pezzi
su pezzi di rabbia, scegline uno
per quando ti verrò a trovare.

Da rifugio a rifugio, di corsa


senza armi, maschere, coltelli.

Prenderò la strada più lunga: quella


che passa vicino al verde, vicino
all’unico confine rimasto scoperto.

Un getto d’alba in faccia mi avviserà.


Anche stamani scoppiano gli uomini
nella geometria dei tetti bombardati
dai balconi strappati dalle braccia
delle case.


Un missile americano piomba su Hilla, l’antica Babilonia.
Trentatré persone massacrate. Un’intera famiglia sterminata
da un razzo mentre fuggiva su un furgoncino: quindici vittime
[…] tredicesimo giorno, tre stragi. La guerra continua.

[2 aprile 2003]

Fammi sapere dove passi per salvarti.


Il tredicesimo giorno della nostra furibonda
sopravvivenza. Ci sono fianchi stretti
sandali slacciati, pani senza lievito
e sabbia sopra i tetti. Da qui le macerie
tengono le preghiere sbendate dal cielo.
L’occhiata della porta, l’uscita
la capisco appena, ora che ho
le ginocchia rannicchiate nel buio.

Non ho incontrato nessuno oggi


che ti abbia parlato. Stanno
ferme le nuvole nella pioggia
assieme ai respiri gonfiati.

I nostri giorni sono le provviste, quelle


tenute strette, senza date.


“Mi auguro ardentemente che il popolo iracheno resista all’ag-
gressione con tutte le sue forze, se è possibile fino all’ultimo
minuto. Dico queste cose con amarezza, io vecchio che ora
non so far nulla in aiuto agli aggrediti. Ma l’impunità per gli
aggressori sarebbe proprio il peggio. E io sono un pacifista,
non un calabrache. Naturalmente poi c’è la grande pietà per
i morti di tutte le parti. Antigone, vi ricordate?”

«Perché con queste mani, quando voi siete morti io v’ho


raccolti, e con queste mani v’ho composti e consolati […]
Perché questo mi sono guadagnata per aver fatto un gesto
di pietà: una condanna di empietà, sì questo! E se la cosa
è bella per gli dèi, soffriamo tutto e confessiamo pure
d’aver peccato noi, soltanto noi. Ma se sono costoro a
fare il male che possano soffrire solo quello che mi stanno
facendo ingiustamente!»
Ma quanto bisogna saper resistere, per resistere ancora?
Dimmelo Antigone, dimmelo con la tua voce di roccia,
di catacomba esposta. Dimmelo mentre fuori la notte fa
scudo e gli abbracci tremano fedeli. Il minuto dopo che
aspettiamo fa arco nelle reni. La tua spinta seppellisce il
fiato con tutta la tua pietà e i tuoi occhi voltano, a ogni
sparo, il bianco come il cieco visto dai cecchini. Mette-
vano spezie nelle minestre e poca acqua… si facevano,
così, i pani, i fianchi cinti, le strade, le case rastrellate.
E ci portano la faccia a terra per non guardarli, per non
essere sopraffatti dai nostri occhi puntati in tutta la città.
Dai giudizi non si ritorna mai sbendati: illesi.


Sparati ai posti di blocco, centrati […] presi nel fuoco dei
combattenti casa per casa colpiti dai bombardamenti sulle
città: donne, bambini, uomini disarmati sono le vittime di
questa guerra.

[3 aprile 2003]

La via di casa sa di ferro.

Anche le ombre sono sospettose.

Guardare le case fa male agli occhi.

Incontrarti è come sfregare il sesso


su una lama: veloce, senza sbavature.

Il taglio netto, il sangue.

E non ci sono parole per la consolazione.

Ognuno ha la sua guerra da spartire.

L’acqua taglia il bordo alle ciotole


senza nessuna preghiera.

Escono le forme dal cerchio


si spargono per terra
una accanto all’altra, fiere
di mutilazioni come gli amanti muti.


La morte innocente scende nelle fosse e lastrica, i pavimenti,
negli ospedali.

Anche i bambini nascono ciechi


avvisati, allertati, tolti e preservati
dalle carezze. Pelli d’acqua scoppiano
a pochi passi da noi, amore che non sei più
così, sfigurata e tolta dalla faccia:
la stessa che guardava dalla parte
dei testimoni.

Tenersi aggrappati agli scoppi


alle tregue, alle corse fuori fatte
senza ritornare. Fanno così
i migranti: salutano e si disperano
per sempre.

Sapere del ritorno fa già male


agli occhi, alle labbra, alle gambe:
un costato che fallisce ai primi baci.


Missili su un ospedale […]. Distruzione e morte nel reparto
maternità. La guerra […] li ammazza già sul nascere.

Fermarsi a sparare qui


è pericoloso. La luce sgancia
pezzi d’acciaio. Non lontano
si vedono eclissi civili e non sono
schermi di vetro affumicati, piani alti
a tenerci sani gli occhi ma bende
pezzi di stoffa dentro le ferite:
corsie d’ossa.


Lo spettacolo più raccapricciante lo riservano le corsie
dei piani superiori.

Si dissanguano le luci tolte


dalle lampade, dalle cucine,
dai vetri tramortiti per ricordare
la calma, il conto, gli anniversari
le date livellate dai compleanni.
Sono queste le trasparenti discariche
che frantumano carezze e angeli: facce
sbalordite e insonni, scalmanate e piante.

Le bacinelle d’acqua vibrano


come placente piene, come
un baccano d’ossa che pregano
che vogliono cordoglio.


Al terzo piano stanze piene di feriti: alcuni hanno già avuto gli
arti amputati, altri li avranno inevitabilmente.

Le ho viste le scene sulle pareti


il tuo restare immobile. Sparivi – dicevi –
per non sapere da che parte gli orti
vanno a finire, dove si poteva rimanere
a piangere senza che nessuno ti tradisse.
Lasciavi che si girassero dall’altra parte
le stelle. Ma si dice che a conoscere
il nome di tutte le stelle si diventa eterni…
C’era chi restava solo fino a scoppiare.


Un vecchio con un braccio fasciato tossisce insistentemente […].

Stiamo vicino come in un mattatoio.


L’amore lo facciamo da qui dove
i sessi sono esposti sugli uncini.
Ogni massacro ha la sua pulizia.


Quanta acqua ci serve
senza che possa mai bastare, amore?
Quanto battesimo consumato agli orli
quanta pietà?


In una corsia accovacciata per terra una madre nascosta sotto
un velo nero […].

Tre anni, giace su un lettino con il ventre aperto, il capo


bendato e un occhio perduto. Non piange […].

Una donna settantenne, ferita ad un braccio non ha nemmeno


la voglia di parlare.

Cosa vedere di più?


Toglietemi da questo inferno di braccia
gambe e viscere, fatemi tornare dietro
i vetri, dentro i marzapani. Olio e cenere
fanno pasti bui. Chi è uscito non ritorna.
Dicono abbia spostato il suo ultimo giorno
nella corsa del pane. Ci sono ponti, qui
che non appoggiano più a niente, che fanno
rapire gli occhi dal nulla…


I marines avrebbero conquistato un ponte strategico ad
al-Kut, città chiave in riva al fiume Tigri, e si preparano a
proseguire l’avanzata.

Cosa dirvi per guarire


per salvarci in tempo, sotto
cosa andare per nascondere le facce
e il sangue? Ho avuto tutta la città
dalla mia parte. Un ponte, ora
separa anche i saluti.
Dichiaro e giuro di non possedere nulla
di non essere nessuno
di non avere colpa…

… e continuano a chiedermi il nome


e non lo sanno pronunciare
e nemmeno tu, lo sai più
dall’altra parte.


La città è stata circondata, i punti d’accesso sono stati chiusi.

Mi hai detto: «Noi ci mancheremo sempre.»

Ma lo sapevi della guerra, della fuga


delle notizie, dei bombardamenti?

Non abbiamo avuto il tempo di sapere


tutte le cose esatte per la tregua.
Si spandono brani di affetto, credendo
siano provviste, scorte. Restano
gli armadi vuoti, le porte
spalancate, le luci accese.
Nei rifugi non ci sono altro che fiati:
gli stessi freddi di chi ha paura. Entrarci
è come serrare due porte
due catenacci: farsi circondare.


I continui bombardamenti tengono la maggior parte della gente
chiusa in casa. Uscire è sempre un rischio anche se nemmeno il
tetto di casa è più sicuro.

[4 aprile 2003]

È il mattino che fa incoscienti e sani.

C’è una dolcezza sotto questo tetto


che non sa dell’abbandono, neppure
tra la spellatura, i disastri.
Si sentono i rumori, fuori
che circondano, che continuano a cadere
e il nostro buio vicino continua a costruire.
Chi abiterà per primo la stanza, tu o io?
È la paura e la grazia di una tenda
– spostata vicino alle macerie, vicino
a chi cerca qualcosa, qualcuno con le mani
tagliate, bendate – a scavare.


Baghdad aspetta al buio il suo destino. Per la prima volta
dall’inizio della guerra […] la luce […] viene tolta.

[4 aprile 2003]

Benedetto sia qualcuno che trema


che ha ancora paura e benedetto sia
colui che viene nei nomi e negli spasimi
tra le bende, nel sangue, nello sperma
travolto dalla solitudine, nelle gambe aperte
per niente, che fanno male, che portano via
e benedetti siano anche i tuoi seni
così bianchi di morte, così neri di latte
così stanchi della mattanza del mestruo
che porta invasori sterili e stranieri: facce
slacciate dai cuori e dalle stelle.

Che tu sia chiamata Guerra


per tutto quello che togli e che lasci
come una condanna: un tatuaggio
infuocato per sempre.
Che la vergogna sia il soprannome
di chi resta affacciato a guardare
senza volto, senza sangue.


Trovare datteri e fichi nelle mani morte
porta disperazioni, specchi rotti
sale rovesciato. Ma dimmi come sei
ora, dopo tutto questo, dopo
che non sei più tornata indietro.

Il destino lo si aspetta al buio.

Anche in città la luce finisce.


E non ci sono rose abbastanza profumate
per segnare il passo al taglio
ai tuoi sguardi a grappolo gettati
con i chiodi per fare male.

Sentimi vicino come puoi.

Con le ombre si resta in compagnia


ma non lo può la cera con il fuoco.


Portano anestetici, filo chirurgico, bende, fluido intravenoso,
lenzuola e coperte.

[7 aprile 2003]

È proprio questa la città che uccide.

Scappiamo fuori dalle mura,


prima tu e poi io; prima
tutto il nostro stare riparati poi
tutto quello che non abbiamo fatto abbastanza.

Baci di case cadute


abbracci di soffitte sventrate
coiti di cantine oscurate gridano
dalle stelle morte, dai tombini.

Dimmelo ancora, amore mio imperfetto


il peso di un salto, la volontà di un correre
sotto e sotto terra dritti, fino al mare.

Portami anestetici, salsedini e cocci


rive folte di riflessi, femori, anche
vene sparse, fluidi respiri. Portameli
ancora avvolti nei teli. Ci aspetteremo


come fossimo provviste: secchi d’acqua
come il gelo dell’Achmatova
che aspetta fuori dalle mura
come le partenze.

Non ho altro e tu neppure.


Soltanto il nostro nome di battaglia
ci indovina: quello che si può
far morire senza storia.
Ci riconosceremo dalle ombre
che faremo da una luce sola.

Amore parti, scappa, salta dall’altra parte


questa città ci uccide.

Ma ora dimmi da che parte arriveranno


gli aiuti. Tu guarda da una parte, io guarderò
dall’altra come non abbiamo fatto mai, come
se per noi non fosse semplice morire.

Chi scorgerà per primo la polvere alzarsi


si butti, gridi, si sbracci, dica
il proprio nome, lasci.


Entrano, sparano, si fanno vedere e tornano indietro. Al
sicuro […]. Pausa […]. Ancora bombe altre incursioni,
occupazioni di palazzi, case distrutte […]. Qualcun altro
che tenta di arrendersi strisciando […] ma viene giustiziato
mentre alza le mani.

[8 aprile 2003]

Sto molto male e le parole per dirlo sono così misere,


così poco concrete che tutto ha il peso di un silenzioso
disastro. Baghdad trema. Anche le luci non sono più
quelle della veglia, dell’attesa, ma delle bombe, degli
spari. Si corre fuori per non avere paura. Si resta nei
rifugi per spartirsi il buio a vicenda come fosse una
coperta. Ma lo spazio intorno trema come un rantolo
dopo un urlo estremo. Si cade anche da caduti, si piange
anche dalle lacrime, si tiene tutto senza avere niente. La
pelle delle case è strappata e ovunque si sente l’odore
della polvere.
Anche vicino i respiri fanno altro: si fermano.


Immagini di cadaveri avvolti in sacchi […] di feriti in ospe-
dale, di bambini morti o deturpati dalle bombe, di persone
disperate […]. Di case distrutte, di macerie ovunque […].
È la guerra vera […]. Quella che se ti allontani dai tuoi figli
rischi di non rivederli mai più. Quella che ti piomba addosso.

[8 aprile 2003]

E non hai più lacrime, né rabbia


non hai più corpo, né voglie, quelle
che se ti cerchi non sai neppure il posto
che hai trovato, quelle che non ti fanno
riconoscere più nessuno dalla faccia
ma dalla nuca, dalle spalle
e ancora non lo senti più
il rumore del sangue, ma il vuoto
che nelle vene stringe il niente
che ti tiene in piedi.

La paura di non rivederti fa scappare


dai palazzi giustiziati, dalle finestre
lasciate chiuse. Ma continua il sole
anche oggi che c’è guerra, che si fugge
che si cerca di portare tutto fuori
anche l’abbandono.


Chi trasporta un frigorifero, chi un ventilatore a pale, scatoloni,
roba sottratta ai magazzini […]. Il traffico è ripreso e il vai e
vieni per andare a procurare provviste fresche.

«Non ti ho mai fatto male, amore mio


non ho mai osato.»

Queste bocche di sambuco e datteri


premono come fossero deserti: pezzi
di noi finiti con sabbia fine sulle tende
fissate dalle tempeste e non dai pali
asserragliate tra le corde dei nostri giorni
sempre uguali.

Date, ore, fossili di sperma. Tubi


conchiglie, schegge di siero scoprono
la veglia che ci tiene, che ci porta via
dalle tue anche aguzze, dalle tue
corone rosse, dalla poca acqua tenuta
tra le mani, tra le carezze.

Partono da qui le dune della riconoscenza.

Spostiamoci più in là: la casa sarà


bombardata questa notte, in questa notte
distesa tra noi, lontani, allontanati dal ferro.


Non si riesce a seppellirli tutti, i morti stivati dentro camion
frigo. I saccheggiatori non risparmiano gli ospedali, le case e
i musei. Rapine, linciaggi.

Pensavamo di essere unici, indivisibili


e per sempre. Invece siamo qui trascinati
portati a braccia, schiaffeggiati.
Non ti riconosco più amore.
Non ho paragoni da farti vedere, né ricordi
uncinati di bene da sollevare a bandiera.
Siamo preziosi per poco respiro, per poco
fiato risparmiato piano.
Mi hai lasciato nell’antro del buio
per non accompagnarmi più. Fino a qui
sapevamo il nostro nome intero.


All’ospedale psichiatrico medici e infermieri seppelliscono
montagne di cadaveri che ormai non trovano più posto da
nessuna parte.

[12 aprile 2003]

Tienimi vicino a un dolore solo.

E che sia una la follia, una per tutti


fino a ripeterla dalla stessa bocca
dalle stesse grotte, fino a farla diventare
di pietra, ginocchio, inchino.


Non c’è tempo per la pietà.

[13 aprile 2003]

Copriamoci come coprono i lenzuoli


le catacombe. Fammi sentire la scelta
fatta poco prima del bacio, dell’unghia
che attraversa la bocca e la voglia insieme.
Siamo bendati in un buio isolato.
Cercarci ora non ferirà nessuno
e la strada ci coprirà le spalle.


Molti cadaveri giacciono ancora per le strade colpiti a morte,
sempre più gonfi, deformati, prima di imputridirsi.

Coprimi ora te ne prego


per la pietà rimasta. Basterà
poca terra per farti perdonare.
Non ho più che questa polvere
nelle vene di un colore che appassiona
gli angeli quando s’abbracciano piangendo.
Abbracciami dunque anche se te ne sei andata.
Fallo come un sogno: con la terra della casa
con le assi schiodate dalle finestre.
Le stesse cose te le porterei io
se fossi ancora qui. Lo giuro!


Togliti da me, liberami come le madri
quando partoriscono, quando fanno fuori
feci, urina e figli insieme.


[scritta sopra un muro di una casa crollata di notte]

Sono l’amore ammazzato non altro


con tutta la semplicità della parola amore
la sua grandezza, la sua banalità.
Trivello sangue dal sangue
respiri dai respiri
ma non è altro che cenere
questa che trovo tra i denti.
Trovami un posto
dove dire «vorrei».


[17 aprile 2003]

Ci sono dolori che finiscono presto


altri che stanno come siepi d’inverno.
Spogliate fanno passare la luce.
Anche le notizie passano come gli abbandoni
tutto passa per passare.
Allora avvertimi della pasqua
del tuo stipite nuovo
del tuo sangue che risparmia.

E reggo ancora l’architrave


che ci ha tenuto per restare
porta e portone: l’abbraccio
che ti ho dato
che non ti ho mai tolto.
Braccia e fianco insieme
stretta e respiro.


Il 27 marzo un autobus di marca italiana che trasportava 32
persone verso Najaf si è avvicinato troppo ai tank americani
di un check point dalle parti di Al Chefel City. Quando l’autista
si è fermato per fare marcia indietro, il carro armato ha fatto
fuoco. Le persone sono letteralmente esplose.

E allora dimmelo tu se puoi


cosa fare da qui, in questo
andare e tornare di ferite, tagli
lame e ferro insieme.
Scarseggia l’acqua e le tinozze
sono rivoltate in basso come
per cercare. Ad ogni scoppio
cantano i rimbombi dei disastri.

E che il nostro e il loro, il mio e il tuo


sia degno almeno di una pena
di un abbraccio di qualcuno
di un bacio che consoli, calmi, porti via
da qui, da queste macerie d’ossa
da queste parole tolte prima
da questa rabbia fucilata dalle date
dal nostro mio tuo avere imparato
a combattere da una parte o dall’altra
le facce di chi si sogna ancora sudando
che si sbaglia e ti fa morire.


Sulle sponde del fiume Dokan vicino al ciglio della strada, al
limite di un piccolo campo coltivato, scorgiamo strani papaveri
rossi: conficcati a terra con uno stelo di ferro, la corolla è un
triangolo rovesciato con dipinto un teschio. Sono i segnali di
campo minato.

Non ci sono che questi posti


che questi papaveri strani
a fare un belvedere. Posti
dove a chiamarci potremmo morire.
Aspetterò lo scoppio
il primo vero buio
che mi avvicini a te
e alla notte per il freddo.

Aso sta lavorando alla modellazione di un piede artificiale,


mentre ascolta musica classica…


Capelli folti e castani, leggermente ondulati, i lineamenti
delicati […] si stravolgono in grida e pianto, quando un’in-
fermiera alza il lenzuolo che copre le sue gambe.

L’unica certezza amore


è la durezza delle ossa
come le reliquie tenute
per restare fedeli.


Ci sono baci che restano sulle labbra
e altri che raccontano destini: guerre
che fanno tremare fino alla fine.

[………]

… e ora dimmi, se lo puoi


da che parte arrivano i perdoni
dove stanno i ripensamenti, quali
tane si scavano le colpe e quanti
cunicoli i fallimenti.

La guerra – dicono – la si fa sempre in due.

Due: lo stesso delle braccia


delle mani, lo stesso due
dei seni, dei testicoli, dei semi
del buio e il chiuso delle noci
del silenzio e il guscio delle mandorle.
Due come il tragitto delle promesse,
la stretta delle mani, la direzione degli occhi.
Due come sono due tutte le cose
che s’incontrano, s’incastrano.
Come sanno fare le bocche tra gli abbracci
i ventri che si sfiorano, le anche che si sgretolano
che si spingono una dentro l’altra.


La nostra conta è finita quando
si resta dispari e spaiati.

Le mani tengono le lame


come le statue il loro nome
in basso. Tra poco ricostruiranno
tutto. Ti faranno una casa nuova
un tetto, una terrazza, una stanza
un letto. Le labbra, la gola, la saliva.
Il buio, il silenzio, la voglia. Il tuo
respiro, la paura: lo spazio per le tregue.

Sono queste le parole che si possono


tradire, che ci restano addosso
come un bacio d’orto.

Ci sono ombre – la notte –


che arrivano insonni, contorni
di padri e figli di figli che restano
come coralli, nervi, muscoli
ossa bianche, salate.

Ma ora raccontami dei fondali


di come fanno a tremare, adesso
che il salto è l’acqua e il respiro
è un fiato passato dalle labbra…

Una bomba inesplosa uccide un uomo e una donna. I due corpi,


incredibilmente incastrati, sono stati ritrovati ai bordi di un
campo di papaveri appena fuori città. Nessuno ancora li ha
identificati. I loro nomi sono, a tutt’oggi, sconosciuti.


IV

Tutto verrà riconosciuto


[a M. e T.]
Tutto verrà riconosciuto per amore
o per quello strano respiro sporto
fino alla fine del nulla impigliato
nelle trincee, tenuto in serbo
per non morire.
i

Fai che a salvarsi siano le nostre


storie raccontate sottovoce:
sfuocate.

Ci sono parole da perdonare ancora.


Parole che a tenerle vicine
fanno tremare, fanno trincea
a un silenzio che scoppia.

– Raccontano delle buche nella terra


degli uomini, dei loro corpi stortati.
Raccontano di tutto: hanno labbra
infuocate le donne che rompono i baci
che restano senza rimandi
a veglia di rifugi. –

Ci sono storie simili dappertutto


perché, dappertutto, ci sono gli abbandoni:
quelli che hanno carta d’eremita, d’idiota
o della falce, quelli che hanno la calma
feroce del respiro cucito sulla bocca.

Ho avuto una storia simile


e tu hai solo vent’anni
e il tuo primo dolore.


ii

Di voi trovo tracce dappertutto


nella mia legenda minima, nel calco
del mio fossile felice, nel solco.

Ho ancora i vostri due nomi vicino


– angoli di specchio – il vostro giocoso
modo di stare al mondo insieme
e nulla mi scompare da qui, neppure
le poche cose preziose divise, scaldate
solo con le mani per discioglierle
farne un rumore solo per ciascuno.

Si resta soli in ogni notte


dentro la propria età, come
in una pelle da capire o da cambiare.


iii

Siete voi a dirmelo il vero


il conto stortato dai giorni
il cambiamento del bene.

Siete voi a togliermi da qui


da questo angolo di pelle
di mondo respirato piano.

Raccontatemela ancora la storia


di chi si sceglie, di chi si trova
di chi si dice una parola alla volta
per cercarsi fino alle mani, al sangue
gocciolato fuori dalle guerre.


iv

Non ho finito di dirvi nulla


e c’è già chi di voi due manca:
l’ultimo a parlare.

Ma ci sono calchi pieni, nati a rimanere


a fare traccia, tempo, a fare spazio. Mezzogiorni
sbendati da una voce d’ombra sola:
linea netta di una meridiana rimasta
per capire.

È così che s’innestano i perdoni, così


che si resta perdonati.

Ci si riconosce dalle guerre, a volte, dalle


trincee. È come restare fedeli alla luce:
quella che difende, che fa vedere.


«Sì proprio come quando si ritorna»
Sì proprio come quando si ritorna
a prendere le cose dalla casa:
i vestiti, il silenzio dopo l’esplosione.

In questo circondario di colpa


di stanza rotta a fiato, solo poche
impronte restano, raccontano
storie rimaste sui cuscini
schiacciati dalle schiene
nei capelli trovati sulla piastrella chiara.
E la porta tiene tutto dentro
come fosse una frase rimestata
e si ritorna fuori per svegliarsi,
come fossimo noi persiane
appena aperte, sole appena entrato
di mattina per dire: «non è vero»
«non è successo mai».
Note

I testi che compongono questo libro sono stati scritti in


un tempo particolare, segnato da un grande abbandono
affettivo e da eventi stravolgenti a livello storico come: i
fatti di Genova (g8), l’11 settembre, la Seconda guerra nel
Golfo (Iraq).

Genova –New York


Ci sono ancora cose da dire a Milano: i passi posti in
corsivo e tra virgolette sono tratti da un’intervista fatta al
regista teatrale Renato Sarti da Daniela Padoan apparsa in:
Palcoscenico della memoria, «il manifesto» 27 lug. 2002.
Le date riportate corrispondono agli eventi tragici che
hanno segnato la storia delle stragi di stato e altro ancora
nel nostro paese e non solo: strage di Piazza Fontana (12
dic. 1969), Italicus (4 ago. 1974), strage di Bologna (2 ago.
1980), fatti di Genova (20 lug. 2001), caduta delle Torri
Gemelle (11 set. 2001), attentato alla metropolitana di Ma-
drid (11 mar. 2004).

Deve essere un lungo piano: il passo citato in corsivo è


tratto da Giuseppe Ungaretti, La risata dello Dginn Rull
in Quaderno egiziano, 1931.

[Blog-Out]
I passi in esergo posti in questa sezione sono tratti
dalle pagine de «il manifesto» e da «Internazionale», del
mar.-apr. 2003.
Mi auguro ardentemente che […]: questo esergo è un
passo scritto da Pietro Ingrao ne «il manifesto», 2 apr.
2003.
È proprio questa la città che uccide: qui il riferimento
alla poetessa russa Anna Achmatova è legato alla sua du-
ra vicenda umana. Nel 1938 il suo unico figlio Lev venne
arrestato e imprigionato nel carcere di Kresty. Per dicias-
sette mesi, in attesa della sentenza, ella si recò al carcere.
C’era una lunga fila di congiunti degli imputati – soprat-
tutto donne – che si snodava da un’apertura del muro
dell’edificio. A volte accadeva di aspettare al gelo anche
due giorni interi di seguito.
Perché con queste mani, quando voi siete morti: è que-
sto un passo tratto dall’Antigone di Sofocle, nella tradu-
zione di Elena Bono, Garzanti 1982.

«Sì proprio come quando si ritorna»


Questo testo appartiene ad una raccolta ancora inedi-
ta che avrà per titolo Il cane di Giacometti.
indice

I – La tua parola usa il ticchettio


insistente delle mine 7

II – Genova-New York 13

III – [Blog-Out] 23

IV – Tutto verrà riconosciuto 77

«Sì proprio come quando si ritorna» 87

Note 91
NOTE SULL’EDIZIONE
Per restare fedeli
di Stefano Raimondi
Impaginazione Dario Rossi
Correzione bozze Irene Baldoni
Promozione e distribuzione pde Italia

La nuova casa editrice Transeuropa ha sede dal  a Massa,


in Toscana, ed è stata (ri)fondata da Giulio Milani e Marco Rovelli.
Al momento in cui questo libro va in stampa
la nostra compagine è così composta:

Direttore editoriale e amministrativo Giulio Milani


Direttore collana Narratori delle riserve
Responsabile pubblicazioni di poesia Gabriel Del Sarto
e saggistica universitaria
Direttori collana Margini a fuoco Marco Rovelli
Direttori collana Girardiana Pierpaolo Antonello
e La realtà umana Giuseppe Fornari
Direttori collana Differenze Gianni Vattimo
Santiago Zabala
Direttori collana Nuova Poetica Andrea Afribo, Alberto Casadei
(coordinatore), Massimo Gezzi,
Marco Giovenale, Guido Mazzoni,
Laura Pugno, Gianluigi Simonetti
Art director Floriane Pouillot
Ufficio stampa Francesca Rosini
e consulente commercio estero
Caporedattore e editor narrativa italiana Dario Rossi
Responsabile librerie Alessandro Maggi

Per comunicare con la casa editrice:


info@transeuropaedizioni.it

La nostra sede: via Alberica 40, 54100 Massa – Toscana, Italy

www.transeuropaedizioni.it – www.facebook.com/transeuropa
COLLANA NARRATORI DELLE RISERVE
volumi pubblicati:
. Aa.Vv., a cura di G. Milani e M. Rovelli, I persecutori
. Fabio Genovesi, Versilia rock city (a ed.)
. Giuseppe Catozzella, Espianti (a ed.)
. Elio Lanteri, La ballata della piccola piazza (a ed.)
. Demetrio Paolin, Il mio nome è Legione
6. Aa.Vv., a cura di G. Milani, Over-Age. Apocalittici e
disappropriati
7. Franz Krauspenhaar, L’inquieto vivere segreto
8. Stefano Amato, Le sirene di Rotterdam
9. Pier Vittorio Buffa, Ufficialmente dispersi
10. Riccardo De Gennaro, La Comune 1871
11. Andrea Tarabbia, La calligrafia come arte della guerra
12. Roberto Pusiol, Ritratto di Edi Tonon gerontoloscente
13. Paolo Passanisi, L’Angelo di Leonardo
14. Tore Cubeddu, Cisàus
15. Fabio Guarnaccia, Più leggero dell’aria
6. Piero Pieri, Les nouveaux anarchistes (a ed.)
7. Janis Joyce, Seventy Sex (a ed.)
8. Pit Formento, Il sostituto
9. Marco Mantello, La rabbia
20. Sarah Shun-lien Bynum, Madeleine dorme
21. Bernard Quiriny, Le assetate
22. Aa. Vv. (a cura di Mauro Baldrati), Love out
23. Jakuta Alikavazovic, Fuga in blu
24. Elio Lanteri, La conca del tempo
25. Jacek Dukaj, Gli imperi tremano
26. Riccardo Romagnoli, Il diciottesimo compleanno

volumi in uscita:
27. Romano Luperini, L’uso della vita. Millenovecentosessantotto
(febbraio 2013)
COLLANA MARGINI A FUOCO

volumi pubblicati:
. Giulio Milani (a cura di), Mario Rigoni Stern, Hermann Heideg­
ger. Ritorno sul fronte
. Giulio Milani (a cura di), Storia di Mario. Mario Rigoni Stern
e il suo mondo
. Marco Rovelli (a cura di), Con il nome di mio figlio. Dialoghi
con Haidi Giuliani
4. Stefano Amato, Fabio Genovesi, Franz Krauspenhaar, Guida
letteraria alla sopravvivenza in tempi di crisi
5. Giulio Mozzi, Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e
Silvio Berlusconi
6. Laura Bettanin, Finché l’erba crescerà e i fiumi scorreranno
7. René Girard, Prima dell’apocalisse
8. Simona Castiglione, La mente e le rose
9. Marino Magliani, Vincenzo Pardini, Non rimpiango, non
lacrimo, non chiamo
1o. Alessandro Volpi, Dizionario della crisi per ignoranti colti
11. Franco Buffoni, Laico alfabeto in salsa gay piccante
12. Davide Grittani, C’era un paese che invidiavano tutti
13. Margherita Hack, Giulia Innocenzi, La stella più lontana
14. Ettore Mo, Diario dall’Afghanistan
15. Ludovica Ioppolo, Martina Panzarasa, Al nostro posto. Don-
ne che resistono alle mafie
16. Marco Malvaldi, Roberto Vacca, La pillola del giorno prima.
Vaccini, epidemie, catastrofi, paure e verità

finito di stampare nel dicembre 2012


su carta arcoprint certificata fsc

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