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Letture XXVI° Meeting Diritti Umani

1a Lettura - Poesia “Promemoria”, di Gianni Rodari

Ci sono cose da fare ogni giorno:


lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola a mezzogiorno.

Ci sono cose da fare di notte:


chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.

Ci sono cose da non fare mai,


né di giorno né di notte,
né per mare né per terra:
per esempio la guerra.
2a Lettura – lettera di Ljudmila Petruševskaja
(traduzione di Giulia Marchetti e Claudia Zonghetti)

..in Russia stiamo vivendo un momento terribile, ancora più tremendo di


quello vissuto durante la seconda guerra mondiale, quando Hitler ci attaccò.
Quella volta il popolo russo, la Russia, i nostri soldati erano sacri per il
mondo intero; il nostro sangue era versato a difesa di tutti, e le grandi
nazioni venivano in nostro soccorso, prime fra tutte l’America e l’Inghilterra.
E in Europa, chiunque aveva un po’ di cervello si dava alla macchia per
combattere contro Hitler.
Noi, invece, vivevamo nel profondo della Russia. La mia famiglia faceva la
fame, io avevo la tubercolosi, chiedevo l’elemosina per strada, cantavo per un
tozzo di pane.
Avevo sette anni quando la guerra finì. Eppure ricordo ogni cosa! E sono
cresciuta orgogliosa del mio popolo. Dei poveri, delle donne che nelle
retrovie difendevano la patria con tutte le loro forze. Le loro disgrazie, infatti,
sono tutte nei miei libri, nei miei testi teatrali.
Oggi la Russia delle donne è stata offesa, è stata umiliata. I generali di Putin
la disonorano, la calpestano, le portano via i figli per una guerra meschina e
rivoltante; una guerra contro quelli che sono suoi fratelli e sue sorelle, contro
quell’Ucraina che tanto amiamo e che è parte di noi. Non faccio che
piangere, mentre leggo le notizie su Internet.
Sono là anch’io, insieme a loro mi nascondo dalle mie stesse bombe! Insieme
a loro proteggo dal fuoco i nostri bambini, li proteggo dagli spari dei ragazzi
russi; e con loro, con l’Ucraina, mi preparo a fare la fame e a chiedere
l’elemosina..
3a Lettura – estratto dal libro “Nonostante la paura. Genocidio dei tutsi e
riconciliazione in Ruanda”, di Jean Paul Habimana

Verso le 4 del mattino seguente, arrivarono altri uomini che, con fare gentile,
chiesero aiuto per seppellire i morti nella grande fossa scavata durante la
costruzione della nuova sala della parrocchia. Un buco enorme dove finirono
vivi e morti perchè, ingenuamente, la gente credendo alle buone maniere,
non riconobbe i terribili Interahamwe, autori del precedente massacro
notturno.

Essi si servivano di ogni espediente per eliminare più persone possibile.


Chiedevano ad alta voce a tutti coloro che fossero ancora in vita di farsi
vedere, che erano dispiaciuti di quello che era successo, che non capivano
come fosse possibile uccidere tutte quelle persone, addirittura in Chiesa.

Al sentire queste parole, tante persone nascoste sotto i cadaveri si offrirono


di aiutarli a trasportare i morti alla fossa comune.

Quella volta, giocarono la carta della gentilezza, sull’orlo della fossa,


sgozzavano le persone e le spingevano dentro col corpo che avevano portato
con se. Fu solo vedendo che, chi usciva portando il cadavere alla fossa non
faceva più ritorno, ci si rese conto del tranello teso dagli stessi uomini che
poche ore prima avevano ammazzato quasi quattromila tutsi lasciando poco
meno di quattrocento superstiti.
4a Lettura - estratto dal libro “Srebrenica, per non dimenticare”, di Stefano
Landucci e Marco Bani

È verde la Bosnia. Quando percorri la strada da Tuzla a Potocari, dove si trova


il memoriale di Srebenica, non puoi credere a quello che vedi: una bellezza e
una varietà di paesaggi che non ti aspetti. A volte sembra di percorrere
l’Aurelia costeggiata dalle colline toscane, ma quando sali di altitudine la
macchia si infittisce, regalandoti una visione da paesaggio pre-alpino.

(....) Il sole accompagna la nostra marcia verso la fabbrica di Potocari.

I gruppi di persone, simili a piccoli torrenti, si uniscono per formare un largo


e lento fiume umano, largo quanto la Drina vista al mattino. Molte donne
hanno un velo bianco, simbolo del lutto. Ma il bianco è anche espressione di
purezza e innocenza, totalmente estranee a questo luogo.

Mentre ci avviciniamo ai lati della strada troviamo mamme o con in braccio i


loro figli, mutilati dalla guerra o dalle mine, anziane in ginocchio che
cantano nenie incomprensibili. Tutti che chiedono un piccolo aiuto,
abbandonati dalla povertà dello Stato. Una sorta di Via Crucis del cuore,
sempre più straziante a ogni stazione.

Un edificio alto e grigio interrompe l’orizzonte verde, fatto di alberi e colline.


E’ la fabbrica degli accumulatori, da dove è partito il genocidio di Srebenica.
La “fabbrica degli orrori” è diventata un museo per la memoria. L’odore di
umido è acre e pungente, ti entra nelle narici e colpisce duro allo stomaco.

Quando passeggi, vedendo foto, leggendo racconti, osservando video, la


nausea aumenta, fai fatica a respirare e ti assale il desiderio di scappare via il
più lontano possibile. Ma non puoi fuggire, devi capire cosa è successo, come
è stato possibile, come mai non è stato fermato. Ti fai forza e cominci a
leggere la storia, pannello dopo pannello, con l’orrore che ti accompagna
sempre di più, compagno non voluto e difficile da scacciare.

Quello che leggi è successo esattamente in quel posto, puoi alzare gli occhi e
immaginarti tutta la scena, nei più minimi e scabrosi dettagli. Puoi vedere i
numerosi camion che si muovevano nel cortile della fabbrica quel primo
pomeriggio dell’11 Luglio 1995. Camion pieni di anziani, uomini, donne e
bambini.

E’ verde la Bosnia, ma non la fabbrica di Potocari. Lì il verde, colore della


speranza, si è spento in una calda giornata d’estate. Lì il verde si è
trasformato in rosso.
5a Lettura - poesia “La guerra che verrà”, di Bertolt Brecht

La guerra che verrà non è la prima.


Prima ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente faceva la fame.
Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente.
6a Lettura – estratto dal libro “La Frontiera”, di Alessandro Leogrande

"Attraversare mezzo mondo per ritrovarsi in Europa non è solo un fatto


geografico, non riguarda soltanto le dogane, le polizie di frontiera, i passeurs,
gli scafisti, i trafficanti, i centri di detenzione, le navi militari, i soccorsi, gli
aiuti, i tir, le corse e le rincorse, gli stop e i respingimenti. Non riguarda solo
questo, benché tutto questo possa coincidere, per molti, con l'evento saliente
della propria esistenza.
(....) Capita che ci siano dei viaggiatori che ne hanno passate così tante da
esserne saturi.
Sono talmente appesantiti dalla violenza e dai traumi che hanno dovuto
subire, talmente nauseati dall'odore della morte che hanno avvicinato, da
non voler far altro che parlarne.
(....) Bisogna farsi viaggiatori per decifrare i motivi che hanno spinto tanti a
partire e tanti altri ad andare incontro alla morte.
Sedersi per terra intorno a un fuoco e ascoltare le storie di chi ha voglia di
raccontarle, come hanno fatto altri viaggiatori fin dalla notte dei tempi.
Ascoltare dalla voce di chi ha oltrepassato i confini come essi sono fatti.
Come sono fatte le città e i fiumi, le muraglie e i loro guardiani, le carceri e i
loro custodi, gli eserciti e i loro generali, i predoni e i loro covi. Come sono
fatti i compagni di viaggio, e perché - a un certo punto - li si chiama
compagni.
Come sono fatte le barche.
Come sono fatte le onde del mare.
Come è fatto il buio della notte.
Come sono fatte le luci che si accendono nell'oscurità.
Quelle voci sono plasmate con la stessa pasta dei sogni. Si riempiono di
rabbia e utopia, desiderio e paura, misericordia e furore.
La terra e il cielo di prima non ci sono più laddove un nuovo cielo e una
nuova terra si stagliano davanti ai loro discorsi.
(...) La frontiera.
Per molti è sinonimo di impazienza, per altri di terrore.
Per altri ancora coincide con gli argini di un fortino che si vuole difendere.
(...) La frontiera corre sempre nel mezzo.
Di qua c'è il mondo di prima. Di là c'è quello che deve ancora venire, e che
forse non arriverà mai."
7a Lettura – estratto dal libro “Lessico famigliare”, di Natalia Ginzburg

"La guerra, noi pensavamo che avrebbe immediatamente rovesciato e


capovolto la vita di tutti.

Invece per anni molta gente rimase indisturbata nella sua casa, seguitando a
fare quello che aveva fatto sempre.

Quando ormai ciascuno pensava che in fondo se l'era cavata con poco e non
ci sarebbero stati sconvolgimenti di sorta, né case distrutte, né fughe o
persecuzioni, di colpo esplosero bombe e mine dovunque e le case
crollarono, e le strade furono piene di rovine, di soldati e di profughi.

E non c'era più uno che potesse far finta di niente, chiudere gli occhi e
tapparsi le orecchie e cacciare la testa sotto al guanciale, non c'era. In Italia
fu così la guerra."
8a Lettura – poesia “San Martino del Carso”, di Giuseppe Ungaretti

Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

È il mio cuore
il paese più straziato
9a Lettura – estratto da “Epopea spicciola”, di Giovanni Verga

“…Soldati e poi soldati che si vedono passare dal buco della chiave, per più di
un’ora, a piedi, a cavallo, con certi cannoni di qua a là. Povera la città che se li
vede capitare addosso!
Intanto, se Dio vuole, di qui se ne vanno, a poco a poco; ché quando pareva
fossero passati tutti, ne giungevano altri ancora, a frotte, alla spicciolata,
zoppi, sfiniti, strascinandosi dietro il fucile e le gambe, con certe facce nere e
arse.
E a un tratto ecco che si mettono a bussare in mala maniera dalle Proscimo,
alla mia porta, qua e là alle poche case lungo la strada, volendo da bere, coi
sassi, coi fucili, e minacciano di sfondare ogni cosa.
Al vedere che lo fanno davvero, dove non rispondono subito, aprono le
Proscimo, apro io pure, e ci mettiamo alla fune del pozzo.
Acqua all’uno, acqua all’altri; ne vengono sempre! Bisognava vedere come vi
si buttavano, colla faccia, con le mani, coi berretti, e spinte, e busse, una
ressa indiavolata.
Delle facce, Dio ne scampi, che avevano gli occhi come brace. E alcuni si
facevano cadere giù in fascio col fucile dove c’era un po’ d’ombria.
Altri si cacciavano nelle case e mettevano le mani dappertutto. -Ah le mani! –
Questo poi! - Sì e no. – Tira e molla. – Si cercava di persuaderli con le buone
e colle cattive: -Caporale! – Che fate? – Siamo poveri campagnoli ! – Noi altri
non c’entriamo con la guerra.
– A chi dite! Come parlare al muro. E a capire ciò che dicevano loro, peggio,
con quel linguaggio di bestie che hanno. Andate a far sentire ragione alle
bestie!
La Proscimo che ci si era provata con uno che le sembrava più faccia da
cristiano, un ragazzo addirittura, biondo come l’oro, fine e bianco di pelle che
sembrava una donna, cercava di addomesticarlo narrandogli guai e miserie.
– Sono una povera vedova – con due orfani sulle spalle! – Ci avrete la mamma
anche vossignoria, laggiù al vostro paese!…
– Sissignora che quello invece le adocchia la figliuola, e tirava a farsi
intendere colle mani, giacché colla lingua non si capivano né lei, né lui.
L’uno peggio dell’altro, in una parola. Gente venuta da casa del diavolo ad
ammazzare e farsi ammazzare per un tozzo di pane.
Dopo che ebbero bevuta l’acqua, vollero bere il vino. E dopo vollero il pane, e
dopo volevano anche la ragazza. Ah, le donne, poi! Qui non si usa! Pazienza
la roba, e tutto il resto. Ma anche le donne adesso? Proprio sotto il mostaccio?
Allora era meglio pigliare lo schioppo anche noi, e come finiva, finiva. Vero
ch’erano in tanti, e facevano tonnina del villaggio intero.
La Nunzia, però – una ragazza onesta – quel discorso sotto gli occhi della
madre e dei vicini, per giunta…
- Urli, graffi, morsi, si difendeva come una leonessa. E la vecchia! Avete visto
una chioccia, che è una chioccia, se la toccano nei pulcini?
Insomma, sul più bello salta in mezzo anche il ragazzo dei Minola, che stava
abbeverando quei porci lui pure – con quel bel costrutto. – Salta in mezzo e si
mette a dare botte da orbi con un pezzo di legno che trovò lì nel cortile - o
che gli premesse la ragazza, vicini come erano, oppure che gli sia andato il
sangue agli occhi finalmente, dopo tante soperchierie.
Botte da orbi, a chi piglia piglia. Ma chi ne pigliò peggio fummo noi poveri
diavoli del paese.
Le case arse, i poderi distrutti, il ragazzo Minola con una baionettata nella
pancia, la mamma Proscimo ridotta povera e pazza, e Nunzia con un figliolo
che non sa di chi sia, adesso.
10a Lettura - Poesia “Dopo la pioggia”, di Gianni Rodari

Dopo la pioggia viene il sereno


brilla in cielo l’arcobaleno.
È come un ponte imbandierato
e il sole ci passa festeggiato.

È bello guardare a naso in su


le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede, questo è male
soltanto dopo il temporale.

Non sarebbe più conveniente


il temporale non farlo per niente?
Un arcobaleno senza tempesta,
questa sì che sarebbe una festa.

Sarebbe una festa per tutta la terra


fare la pace prima della guerra.

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