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I SAGGI

Traduzione dal francese di Giovanni Agnoloni


Titolo originale L’esclavage raconté à ma fille
© Éditions Philippe Rey, 2015
This edition published by arrangement with L’Autre agence, Paris,
France and Anna Spadolini Agency, Milano, Italy. All rights reserved.
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permission in writing from the Publisher
© 2017 Baldini&Castoldi s.r.l. - Milano
ISBN 978-88-9388-500-3
www.baldinicastoldi.it

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Christiane Taubira

La schiavitù
raccontata a mia figlia
TRADUZIONE DI
Giovanni Agnoloni
INDICE
Preludio
Introduzione
La tratta e la schiavitù nella loro verità
Le ambiguità dell’universale
Il crimine contro l’umanità
Le lotte. I nostri padri, questi eroi…
I risarcimenti
L'oggetto della legge che riconosce il crimine contro l’umanità
La colonizzazione
Le forme contemporanee e cosiddette moderne di schiavitù
Allegati
PRELUDIO
Questa è una storia di violenza e bellezza.
Un incubo senza luce.
Sotto il vapore opaco che accompagna l’incendio, i bambini, sconvolti,
cercano. Il sole spunta già dietro la cima degli alberi, e il ruscello che scende
verso il fiume canta, sfiorando la punta delle rocce che incontra lungo il suo
percorso e grattando via la terra trattenuta dagli arbusti sulle rive. Come se
fosse un giorno uguale agli altri. La colonna umana, incatenata al collo e alle
caviglie, suscita a volte contro i capi-convoglio, bianchi o neri che siano, la
collera di uomini e donne di ritorno dai campi, incrociati sulle strade che
portano al mare, dove sono ormeggiate le navi negriere.
La costa è meravigliosa. Si apre sul cielo color indaco, che l’orizzonte
confonde con il baratro di un mondo senza perdono. Le onde si lacerano
contro gli scogli come una madre il cui spirito è alla deriva.
Delle ragazzine curvano la schiena, altre raddrizzano più saldamente le
spalle, lo sguardo confuso ma tenace. Hanno subito il violento rituale di
accoppiamento dei marinai. Alcune, la maggior parte, ne sono uscite con
l’anima distrutta. Altre capiscono che è la prima sfida lanciata alla loro
umanità. E la raccolgono.
Le donne continuano a muoversi con gesti sicuri, finché i figli richiedono
le loro attenzioni. Mormorano loro che quello è un inconveniente della vita,
come quando le stagioni dettano i tempi della transumanza o quando tribù
confinanti, provenienti da lontano, saccheggiano i loro villaggi.
Gli uomini, mortificati, non possono più proteggerle.
A bordo ci sono anche degli anziani, catturati insieme agli altri nel corso
delle razzie, o intrufolatisi volontariamente tra i propri familiari per
accompagnarli e vegliare su di loro, che un’aggressione, una sventura o
un’ingiustizia destinano a una sorta funesta.

Il calore rovente sfianca i corpi immobili.


Gli odori persistono nell’aria. Si mescolano al rumore dei ferri, si
addensano nell’oscurità tenace, si accavallano alle parole che, istintivamente,
nessuno smette mai di sussurrare. Loro, distesi sul fianco sinistro, con la testa
contro i piedi del vicino, sopportano il rollio e il beccheggio, stringono i denti
e si abituano agli umori del mare. Imparano così a distinguere la notte dal
giorno, grazie al martellamento dell’acqua contro lo scafo della nave, ma
ancor più grazie alle lievi variazioni del viavai degli uomini sul ponte. Si
dispongono ad attendere il momento in cui l’agitazione svanirà, e infine
riescono, nell’immutabile penombra, a scandire il tempo.
Le prime rivolte nasceranno proprio dalla padronanza dei cicli del giorno
e della notte.

Sono state le donne a cominciare. Non riuscendo più a reprimere i gemiti


che le prendono alla gola, li inumidiscono, li personalizzano, li lisciano, li
perfezionano e li trasformano in suoni accattivanti, in note, in blues, in
saudade.

Quanti, in questi quattro secoli, si sono tuffati con la zavorra delle loro
catene, dopo aver tentato di prendere il comando delle navi e degli equipaggi,
o anche senza averci provato, semplicemente perché preferivano l’abbraccio
dell’oceano ruggente alla cupa e arrogante crudeltà degli uomini?

Improvvisamente, il cibo è un po’ meno guasto. Da due giorni, vengono


portati a piccoli gruppi sul ponte. Respirare, muoversi, riprendere un aspetto
umano. Il fatto è che i mercanti si mettono a guardar tutto, i denti, i muscoli, i
pidocchi.
Queste terre sono così belle! Le montagne sembrano tanto accoglienti! Le
begonie contendono ai sargassi il profumo degli alisei. Le coste sono
frastagliate come un’antica pergamena. La luna, per la vergogna, mostra solo
la schiena.

Le separazioni sono strazianti. Seguono soltanto una legge: la volontà del


colono e il peso della sua borsa. Il sole, in queste piantagioni, non scotta più
di quanto non facesse nei campi di miglio. Ma qui l’acqua è scarsa, molto
scarsa. La frusta sibila, come inebriandosi a sazietà del proprio percuotere
ritmico. Si levano canti, deboli all’inizio, canti di lavoro improvvisati e
stranamente armoniosi, anche quando hanno una ritmica spezzata.
Arrampicandosi coi piedi e con i pugni, ansimando coi polmoni e con la gola,
si caricano di una rabbia gelida, di un’impazienza domata, di una
disperazione che gli schiavi hanno imparato a mandar giù. I bambini non
lavorano per gioco, ma con durezza estrema. Le donne, che legano le canne,
raccolgono il cotone o assemblano il tabacco, a volte, ormai in stato di
avanzata gravidanza, crollano sfinite. Gli uomini ruminano la loro rabbia non
per il lavoro sfibrante, ma per l’impotenza a sottrarre le loro compagne al
desiderio brutale e bestiale del padrone e alle subdole vendette di sua moglie.
Uomini, donne, bambini? Mobili, secondo il Codice nero. Bestiame,
secondo il fattore. Schiavi alla propria mercé, secondo il padrone.

E la castagna si ruppe.
C’erano degli uomini coscienti di sé.
I griot1 cantavano dalla notte dei tempi i diritti e i divieti scritti nella
Dunya Makilikan di Soundjata Keita, nella bolla di Ahmed Baba, e nelle
stesse leggi di Urukagina e nel codice di Hammurabi.
C’erano degli uomini che li conoscevano.
L’Habeas Corpus romano e la Magna Charta avevano da molto tempo
stabilito i limiti della forza e degli abusi di potere.
Servivano bolle papali, ordinanze reali, dispute, editti, sentenze e decreti
per contraddirli e mantenere questo disordine morale e sociale…
C’era bisogno di esegesi, dottrine, dogmi e postulati per giustificare
questo commercio contro natura e contro l’umanità, e per placare delle
coscienze tormentate…
Non ne rimasero tutti uccisi, ma tutti ne furono macchiati. Le religioni, la
filosofia, la sociologia, l’antropologia, le scienze… perfino il diritto, nel
quale i manipolatori di concetti inocularono fumose teorie, dando il proprio
contributo a questo grande inganno!

E mentre gli oceani, in superficie, si riempiono di bandiere nemiche, e i


loro fondali si ricoprono di cadaveri senza nome…
Mentre circolano come non mai tessuti, barre di ferro, fucili, ninnoli e
paccottiglie di mercanti dell’Europa atlantica, che ricavano spropositati
guadagni in lingotti d’oro e d’argento, sacchi di caffè e cacao, barili di rum,
barrette di tabacco, balle di cotone, bauli di seta e cofanetti di pietre
preziose…
Mentre da questi oggetti e curiosità tropicali, da questi superflui beni di
conforto colano, goccia a goccia, il sangue e le imprecazioni dei nativi
americani decimati, e risuona ancora il fragore delle lotte per la resistenza…
Mentre gli scambi commerciali si globalizzano e diviene ormai chiaro alla
coscienza di tutti che il mondo è finito…
Mentre si affermano le teorie razziali, e il razzismo, inadeguato a spiegare
il mondo ma lesto a ratificare le sue depravazioni, si radica per secoli…
Mentre giovani marinai europei, perplessi e nauseati, si decidono, una
volta tornati nelle loro città, a rendere testimonianza dei crimini così
commessi…
Mentre gli schiavi creano lingue e forme d’arte, plasmano le religioni,
fondono le tradizioni spirituali, spiegano il mondo e le sue follie; mentre
incendiano le piantagioni, avvelenano il bestiame, sabotano i raccolti e questa
economia di facili guadagni; mentre dal ragtime al gospel, dagli spiritual al
blues, dal candomblé al tango, dal kasé-kô alla capoeira, dal banjo al jazz, e
dagli inafferrabili quilombo2 ai trattati di pace, fanno esperienza della propria
invincibilità; mentre i loro capi si ergono a rappresentanti di popoli diversi,
ma accomunati da un’identica esigenza di uguaglianza e rispetto…
Mentre dall’Europa e dall’America, mediante ingiunzioni e petizioni in
quel di Parigi, Lione, Champagney, Barbechat, o a Londra, Liverpool,
Bristol, e ancora ad Amsterdam e in Pennsylvania, celebri voci di filosofi e
attivisti e proteste di normali cittadini proclamano di credere nell’uguaglianza
di tutti gli uomini…
Mentre finalmente si scrivono, contro le schiavitù e le servitù dei tempi
passati, presenti e futuri, convenzioni e protocolli che si ricollegano alla
Dunya Makilikan o alla Magna Charta…
Mentre da tutti i punti cardinali e da tutte le culture ci si domanda come
condividere il pianeta, e non suddividendolo in parti, ma in comunione…
C’è qualcosa che fermenta, qualcosa che, dalla globalizzazione, dalla
brutalità e dalla cupidigia, vorrebbe far nascere la promessa di uno spirito di
appartenenza al mondo nella consapevolezza delle diversità, e anelante alla
fraternità.

Una storia di violenza e bellezza.


Sospinta, forse, proprio dalla bellezza.
1. Poeti e musicisti ambulanti, depositari della tradizione orale nei popoli
dell’Africa occidentale. [N.d.T.]
2. Comunità formate da schiavi fuggiti dalle piantagioni. [N.d.T.]
INTRODUZIONE
La Francia si dice una nazione civile.
E ha ragione.
Perfino in questo momento, in cui ricompare con grande strepito un
deplorevole nazionalismo tribale.
È una nazione civile grazie al fatto di essere nata con la Rivoluzione, che
abolisce i privilegi ed esalta l’uguaglianza, grazie alle sue origini nel celebre
14 luglio 1790, al Campo di Marte, e al suo proposito di raccogliere i
cittadini in una comunità legata da un unico destino. È civile in ciò che
trascende il gruppo, la tribù, l’etnia, la razza e il sangue.
La Nazione rappresenta il corpo sociale e politico, unito dalle leggi che si
dà e dalle istituzioni che organizzano la vita civile.
Ed è precisamente per questa nazione civile che hanno dato la propria vita
coloro i cui «nomi sono difficili da pronunciare» (Aragon).
Tutti i cittadini, dunque, sono uguali.
Eppure…

Ci sono cittadini che fanno quotidianamente esperienza della


disuguaglianza, della discriminazione e dell’ingiustizia, e sono colpiti da
pregiudizi, luoghi comuni e preconcetti di ogni sorta, e devono confrontarsi
con l’ostracismo e l’esclusione.
Certe discriminazioni vengono inflitte con diversi pretesti. Così,
colpiscono alcune donne solo in quanto donne, delle persone per via della
loro fede religiosa, reale o supposta, o a causa di un handicap, della loro
origine, anch’essa reale o immaginata, o ancora delle loro preferenze sessuali.
Le discriminazioni, in genere, germogliano là dove vi sono l’intolleranza e il
rifiuto di accettare la minima differenza nell’altro. Nessuna di esse può essere
difesa. Nessuna va tollerata, in quanto rompono il patto repubblicano che,
conformemente all’articolo primo della Costituzione, ignora le differenze,
senza ricordarne alcuna evidentemente allo scopo di non escludere nessuno.

Una tipica parte dei pregiudizi su cui si fondano quegli atteggiamenti di


rifiuto deriva da una storia remota che, come la guerra d’Algeria, traccia
ancora nella memoria una scia di rancore, o meglio di risentimento. E a volte
vengono da ancor prima, dal primo periodo coloniale, quando la tratta e la
schiavitù diedero origine a teorie crude e brutali sulla disuguaglianza delle
razze, per giustificare quel sistema economico così particolare.

Il lungo cammino verso la pacificazione della memoria rimane caotico,


benché abbia compiuto dei significativi progressi. Resta molto da fare, per
trarre utili insegnamenti dall’eredità culturale e politica della storia delle
conquiste coloniali. E questa dev’essere un’opera comune, perché si tratta di
una storia comune, che è stata vissuta insieme. Negrieri e prigionieri erano
sulla stessa nave, gli uni presi a fare i loro conti sul ponte, gli altri in mezzo
alle sofferenze e in rivolta nella stiva buia e puzzolente. Attraversarono
insieme gli oceani e si affrontarono nelle terre delle Americhe, dei Caraibi e
dell’oceano Indiano. Vissero, da punti di vista diversi, il genocidio
amerindiano. Forgiarono, in condizioni diseguali, una conoscenza dei territori
del Nuovo Mondo. Qui lasciarono impresse, in forma inizialmente
antagonistica, le impronte dell’Europa e dell’Africa, accanto a quelle che
testimoniano la presenza millenaria degli amerindi, fin dal tempo delle loro
migrazioni dall’Asia. E poi gli incroci, cominciati con gli stupri sulle navi,
proseguiti con le violenze sessuali nelle capanne all’interno delle piantagioni,
rischiarati da qualche rara e fragorosa storia d’amore, amplificati dall’unione
e dalla solidarietà tra ribelli; tutte queste forme d’incontro hanno finito per
privare definitivamente di senso la narrazione binaria del mondo.

I viaggi non trasportano mai oggetti nudi e silenziosi, né uomini muti e


senza memoria. Questi secoli di scambi indotti dal commercio triangolare
hanno colpito con violenza economie e culture, porose come tutto ciò che ha
vita, e sono filtrati nelle conoscenze e nelle rappresentazioni, all’insaputa di
quanti credono all’impermeabilità e perfino alla superiorità di certe culture. È
da questi contatti con il mondo che l’Europa ha tratto nuovo vigore, che poi
ha portato alle sue rivoluzioni industriali.

Tutte le discipline vi hanno preso parte.


Le tecniche di navigazione, certo.
Grazie a tutto questo, anche la geografia si è ampliata.
La storia si è arricchita.
L’archeologia ne ha tratto stimolo.
L’antropologia ne è stata disorientata.
L’etnologia si è svilita in considerazioni esotiche di stampo gerarchico.
La sociologia ha preso a balbettare.
La teologia si è convinta e ha convinto molti di una fumosa maledizione
di Cam, pronunciata da un Noè umiliato e ingiusto.
Le scienze sono scivolate in misurazioni e tesi poco attendibili.
Le teorie economiche ne hanno preso le distanze.
Il diritto ne è rimasto infangato, con il Codice nero.

In tutti questi ambiti ci sono stati degli spiriti emarginati per avere scelto
vie diverse dal sapere al servizio del potere, del dominio, dell’ingiustizia, e
per alcuni – pienamente consapevoli di questo – anche del crimine. I dibattiti
dell’epoca stanno a dimostrarlo.

Tuttavia, gli effetti di questa spiegazione multidisciplinare e distorta, e


così duratura, sono evidenti, operano nell’inconscio collettivo, impregnano di
sé il subconscio, e a volte vengono deliberatamente alimentati nella coscienza
di coloro che si aggrappano alla nostalgia di un mondo che credono essere
stato in bianco e nero, con il bianco a dominare sul nero.

È innegabile che la Terza Repubblica sia rimasta impelagata in tutto


questo. Le è stato fatto dire che la civiltà portata dalla sciabola e
l’evangelizzazione imposta con l’aspersorio erano così importanti da valer
bene qualche massacro, la confisca delle terre, il lavoro forzato, il saccheggio
delle risorse e il Code de l’Indigénat3.

Per comprendere, è necessario smantellare tutto questo, smontarlo, per


vivere insieme. Ricostruire la società.

Coloro che oggi sono esposti alle discriminazioni sono dei cittadini e
devono essere trattati come tali. Ciò implica che la lotta contro le
discriminazioni permette la risposta ferma, giudiziaria e riparatrice che
esigono al tempo stesso il loro divieto costituzionale, le sanzioni penali
previste e la preservazione del patto repubblicano. Ma, in qualità di cittadini,
le persone interessate si aspettano qualcos’altro: il rispetto del contratto
sociale. E la risposta individuale non può bastare, benché sia fortemente
necessaria. È indispensabile quella delle istituzioni. È dunque attraverso
l’inclusione in tutti i campi, economico, sociale, culturale, simbolico e
politico, che devono essere non invitati, ma accolti, coloro che dobbiamo
imparare a considerare non come dei presunti stranieri, non come dei cittadini
di serie B, non come dei problemi, ma come soggetti di diritto, cittadini a
pieno titolo, teoricamente dotati della pienezza degli attributi della
cittadinanza, e che devono infine arrivare a esserlo in concreto. Questa è la
condizione per una risposta collettiva e durevole ai tormenti individuali. Con
una prospettiva politica: creare insieme la società.

Perché, dopo aver ricordato l’orrore del sistema della tratta degli schiavi e
l’inferno della schiavitù, la prosperità che ne ricavò l’Europa occidentale, le
profonde trasformazioni che conseguentemente toccarono le attività, le
relazioni, le dottrine, le narrazioni che hanno fornito radici così profonde al
razzismo, dopo aver acclarato che fin da quei tempi le iniziative di resistenza
e solidarietà transcontinentali postulavano già il rifiuto della schiavitù,
dell’oppressione, dell’umiliazione, e affermavano già l’uguaglianza tra gli
uomini, ci rimane da riconoscere quello che abbiamo in comune.

E, senza lasciarci stordire dalla vertigine che comportano, affrontare le


sfide che ci vengono lanciate.

Rivolgeremo lo sguardo, indifferenti o mortificati, a questa lunga opera di


frammentazione sociale, territoriale e culturale, di sedimentazione di asprezze
e di incrostazione di una sorda rabbia, e lasceremo che il mondo si sfasci
mentre la società crolla?
Pronunceremo delle ferme condanne, tanto capaci di produrre clamore
quanto precorritrici delle nostre future impotenze, senza riuscire né ad
arginare, né a convincere né a vincere?
Ci limiteremo a perseguire coloro che, con la morte che s’infliggono e
che infliggono, si sottraggono alla giustizia, senza scovarli per tempo in
modo da impedirglielo, coloro che possono scivolare in questo campo oscuro,
letale e distruttivo che si consolida attorno all’ebbrezza degli assassinii e allo
sradicamento delle culture, delle libertà e dei patrimoni?

La posta in gioco è, indubbiamente, quella dell’appartenenza, del «Noi»,


quel luogo dove si sogna e si elabora il destino comune. Il «Noi» di
un’umanità condivisa, il «Noi» di un mondo divenuto indiviso. Per
restituirgli vitalità e consistenza, è necessario riconoscerne la vastità, la
diversità, la disparità, ammettere la sua parte imprevedibile e irrazionale,
comprendere questa ricerca di identità particolari, questa tensione verso il
gruppo, questo bisogno di aggregarsi il più possibile con i propri simili,
sapendo contrapporre loro la bellezza, la forza ma anche la necessità di
appartenere insieme, e non frammentariamente. E, a questo scopo, rendere
accessibili, comprensibili e rassicuranti i misteri insiti nell’incontro tra esseri
diversi.

Nessun incantesimo potrebbe arrivare a tanto. Nessun totem potrebbe


difenderci dal disamore all’opera nella molteplicità di separatismi, che si
tratti di pretese comunità che si palesano agli occhi di tutti o di supposti
«autoctoni» che immaginano di barricarsi dentro recessi di paura o di
provocazione. La Repubblica deve ergersi a nuova casa comune. Per questo,
deve tornare a essere credibile manifestandosi ovunque, nella quotidianità,
tanto nelle menti delle persone quanto nei pubblici servizi; deve suscitare
entusiasmo, smettendo di snobbare questo desiderio di avvenire, così
legittimo e ragionevole.
La grande e inestimabile lezione che ci viene dalla lunga e oscura
traversata della tratta negriera e della schiavitù consiste nel farci vedere il
mondo nella sua pluralità, nell’invitarci a capire che la sola cosa immutabile,
e la sola indissolubile, è l’alterità.
Non è possibile arrivare con la forza a familiarizzarsi con questo, ad
affidarcisi, ad offrirvisi. A trarne un insegnamento.
Ci sono terre che ne custodiscono l’esperienza continua a polifonica, nei
territori d’Oltremare e nelle Americhe. La condizione dell’alterità è la
relazione, nel senso in cui la intendeva Édouard Glissant, ovvero un mondo
in cui cessino di contrapporsi universi adiacenti, trincerati nei loro atavismi e
nelle loro certezze, ma collegati da lingue e modalità espressive che si
addomesticano e si fecondano. È la dimensione globale.
L’educazione, la cultura, la vita sociale dovranno dedicarsi a tutto ciò con
risolutezza, privilegiando l’emulazione e la solidarietà piuttosto che la
competizione e le rivalità, e diventando terreno fertile per la verità, la
giustizia, la fratellanza.
È la possibile promessa – mediante un’attenzione rivolta a tutti e a
ciascuno, in particolare per le giovani generazioni che si sentono respinte ai
margini della Repubblica – del riemergere di una coscienza civica.

E questo è tanto vero che quello che so non mi soggioga più.


3. Complesso di norme e pratiche concepite per i territori dell’impero
coloniale francese. [N.d.T.]
LA TRATTA E LA SCHIAVITÙ NELLA LORO VERITÀ
Le definizioni dei dizionari che ho consultato sono sommarie. Molto
velocemente, rimandano ad altre parole – cattività, servitù, oppressione,
asservimento – oltre che ad espressioni della vita di tutti i giorni, come
«essere schiavo dei propri sentimenti». Non se ne ricava l’impressione che la
schiavitù sia così grave!
Per loro natura, i dizionari hanno la tendenza a offrire definizioni concise.
Più inquietanti mi sembrano l’asciuttezza e la neutralità delle enciclopedie.
Certo, avrei preferito che anche i vocabolari, visto che vengono consultati più
spesso, facessero riferimento agli eventi storici. Ma ciò presupporrebbe che
questa parte della storia di Francia non venisse occultata dai programmi
scolastici. Invece il silenzio continua a essere pesante, dalle elementari fino
all’università.

Ma perché questo silenzio? Per la vergogna?


Senza dubbio, e questo sarebbe un segno piuttosto buono. Ma non è la
ragione principale. Le conquiste coloniali hanno avuto l’effetto perverso di
convincere gli europei che la loro civiltà sia superiore alle altre. Inoltre, gli
sforzi fatti per giustificare la tratta4, la schiavitù, la colonizzazione, i
saccheggi, il lavoro forzato, l’indigénat5 e altre atrocità hanno dato i loro
frutti…

Ferma, ferma! Mi puoi spiegare meglio?


Cominciamo dalla schiavitù: mi sembra un tema più familiare. Le
spiegazioni accademiche tendono a essere fredde, distanti, sorde. Ti
propongo di optare per la definizione data dalla Convenzione internazionale
del 1926 adottata dalla Società delle Nazioni, e che è stata completata da
un’altra convenzione dell’ONU nel 1956. Tu sai che la Società delle Nazioni,
creata nel 1920 per mantenere la pace dopo la prima guerra mondiale, nel
1946 – a seguito del secondo conflitto mondiale – è diventata
l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma quella convenzione è il solo testo
giuridico internazionale contenente una definizione della schiavitù,
considerata come «lo stato o la condizione di un individuo sul quale si
esercitano gli attributi del diritto di proprietà o taluni di essi». Tale
definizione, sia pur piuttosto fredda, ha il merito di essere chiara.
Lo schiavo è dunque un essere umano ridotto allo stato di bestia, di
mobile, di oggetto, di merce; in poche parole, è proprietà altrui. Diverse
legislazioni, i codici neri o codici degli schiavi, riconoscevano al padrone
diritto di vita e di morte sui «suoi» schiavi. La Società contro lo schiavismo
di Londra dal 1973 propone la seguente definizione di schiavo: «Una persona
che, lavorando per un’altra, non sia libera di rifiutare il proprio lavoro, e una
persona che sia proprietà altrui e non abbia perciò né libertà né diritti».

Pare quasi che la schiavitù non sia mai esistita?


È quanto non fanno che ripetere coloro che vogliono spazzar via
categoricamente qualunque dibattito sulla questione. È esistita sempre,
dunque che cosa c’è di più naturale? Sappi però che c’è anche un’altra cosa
che è sempre esistita: il rifiuto della schiavitù e dell’ingiustizia. Da sempre e
ovunque, sono esistiti uomini che lottavano per mettere la libertà,
l’uguaglianza e la fraternità al di sopra delle considerazioni economiche.

Non stai idealizzando un po’ le cose?


Niente affatto. Neanche un po’…

Tu rimproveri alle definizioni di essere troppo fredde, ma non è che forse


ti appassioni un po’ troppo a questo tema?
Ti potrei ricordare che sei troppo giovane per giudicarmi. Un proverbio
della Guyana dice che quello che ignori ti sorpassa. Ma ammettiamolo pure:
diciamo che mi capita di essere parziale, nel senso che prendo posizione. Non
ne faccio mistero e non me ne giustifico. Non credo all’obiettività, quando si
parla di società umane. Al rigore e al metodo, sì. All’obiettività, no. La lascio
agli imbroglioni o agli imbecilli sempre contenti. Io credo, come Marc Augé,
che una «rappresentazione obiettiva del passato non abbia senso, non perché
non sia possibile, ma perché quel passato, quando era presente, non aveva un
contenuto obiettivo»6.
La storia delle società umane è una storia di rapporti di forza, di
raffigurazioni soggettive, di credenze. Essa viene descritta e resa nella sua
sostanza da persone che non solo non sono neutrali, ma oltretutto non si
sottraggono completamente all’influenza della cultura da cui provengono,
delle loro esperienze, della loro concezione del mondo. Ci sono sempre stati
uomini che si ribellavano alle ingiustizie, alle disuguaglianze, agli abusi, alle
crudeltà e a tutti gli atti inumani. E per quanto io non ne abbia la prova per
ogni situazione, in ogni momento e in ogni luogo, ho nella mente fin troppi
esempi di uomini che hanno preferito correre il rischio supremo, piuttosto che
capitolare o essere semplicemente complici. E questo basta a convincermi del
fatto che ce ne siano sempre stati.

Tu parli sempre di uomini. E le donne, erano passive?


Naturalmente no! Hanno sempre partecipato alle lotte, e ammirevolmente.
Ti parlerò di donne rette, magistrali. Quando dico «gli uomini», intendo la
specie umana, il genere umano, mettendo insieme uomini, donne e bambini
in ciò che hanno di irriducibile, di invincibile, di indomabile: l’umanità che
condividono.

In definitiva, la schiavitù è sempre esistita? Pare che risalga


all’Antichità, al tempo dei Romani, no?
Ti posso parlare, se non altro, di quello che è giunto fino a noi, lasciando
delle tracce. Ti racconterò quello che so delle diverse forme di schiavitù che
sono esistite. Ma, per evitare qualsiasi ambiguità, ti dirò prima di tutto con
chiarezza che ogni forma di asservimento dev’essere bandita e combattuta. Il
grado di gravità varia, e così le modalità di lotta. Ma la condanna dev’essere
incondizionata. Non vi è una soglia di tolleranza, in materia di integrità della
persona umana. La libertà è inalienabile.

È pur vero, però, che ci sono dei Paesi in cui le persone non possiedono
tutte le libertà, in particolare in certe tribù. E tu, che ami tanto parlare di
solidarietà, come fai a tracciare una linea di demarcazione tra il gruppo e
l’individuo?
Prima di tutto, non è questione di avere tutte le libertà. Si tratta di non
riconoscere a nessuno, e con nessun pretesto, il diritto di proprietà su un’altra
persona. E in quelle che tu chiami tribù, che in effetti sono comunità di
uomini che hanno scelto delle regole di vita comune – che peraltro non è
neppure il caso di stare a idealizzare – la libertà è spesso meno teorica che
nelle società in cui le libertà individuali lasciano soprattutto ciascuno solo
davanti alle ingiustizie e alla propria disperazione. Eppure, perfino le società
tradizionali hanno praticato delle forme di servitù o schiavitù.
Indipendentemente dalle affinità e dall’ammirazione che si può provare per
questa o quella forma di organizzazione sociale, non si può accettare neanche
l’idea di oppressione. Nessuna scusa è ammissibile, al riguardo. Ma ripeto,
non tutte le forme di asservimento sono uguali. Alcune sono più alienanti di
altre. Alcune richiedono una resistenza più vigorosa di altre.

I danni della schiavitù, nell’Antichità, erano gli stessi prodotti dalla


schiavitù dei neri? All’epoca, le persone non conoscevano i propri diritti: si
può dunque affermare che non fossero così infelici come dopo la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino?
È un’idea diffusa il pensare che non si soffra della privazione di ciò che
non si è conosciuto. È vero che, se uno non ha mai assaggiato il cioccolato,
non può averne voglia. Ma la libertà non è un bene ordinario, e anche le
persone nate in schiavitù soffrono della sua mancanza. Il ragionamento
imperniato sull’assuefazione alla condizione di servi si basa spesso sul caso
degli animali nati in cattività. Ma l’uomo ha questo di sostanzialmente
diverso dagli animali: si proietta nel futuro. Può perdere il senno, se si
prefigura l’orrore di un asservimento destinato a durare tutta la vita. E,
soprattutto, la questione della libertà non riguarda soltanto colui che ne viene
privato. Riguarda anche chi ne gode pur sapendo che l’altro ne è privo.

Questo significa che non si deve mai essere privati della libertà? Bisogna
abolire le prigioni, allora?
Io parlo della privazione della libertà per ragioni arbitrarie e spesso
ignobili: il profitto, il disprezzo, il razzismo e altri abusi, pregiudizi ed
eccessi. Quando una persona viene privata della libertà dopo essere stata
condannata, se il processo è stato equo come prevede l’articolo 11 della
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, non c’è niente da
dire, salvo mettere in discussione il sistema penale del Paese in questione.
Purtroppo, la reclusione è il mezzo adottato per sanzionare colpe, crimini e
delitti, nelle società contemporanee. E, peraltro, nelle meno violente tra esse.
Riflettere sul carcere, le sue alternative, l’influenza che le paure sociali
esercitano sulla severità di certe condanne, sul dovere pubblico di
reinserimento, ovvero sulla preparazione alla scarcerazione, e così via,
dev’essere un’esigenza permanente. Ma questo tipo di dibattito ci
allontanerebbe notevolmente dalla nostra discussione sulla schiavitù.
Bene, signora. Allora, e se infine mi parlassi della schiavitù al tempo dei
romani, degli arabi, degli europei e di altri ancora, magari?
Di fatto, sappiamo tutti che la schiavitù esiste fin dall’Antichità.
Sappiamo che era praticata presso i sumeri, gli assiri, i babilonesi, gli egizi,
gli ebrei e numerosi altri popoli antichi. Parliamo di duemila anni prima di
Cristo. L’Egitto dei faraoni trattava come schiavi gli stranieri sconfitti. Fu il
caso dei nubiani o dei libici, per esempio. Questi schiavi, nella maggior parte
dei casi, erano destinati alle faticose mansioni di costruzione e ampliamento
delle città, ma anche ai duri lavori dei campi.
Al tempo delle conquiste militari della Grecia e dell’antica Roma, gli
schiavi inizialmente erano i guerrieri nemici sconfitti. Le donne e il resto
della popolazione erano considerati bottino di guerra o di pirateria. Ma i
cittadini potevano essere ridotti in schiavitù per aver fatto debiti o infranto
certe leggi. Questa situazione, tuttavia, era più frequente nel mondo orientale,
in contrapposizione al mondo greco-latino, nel quale venivano risparmiate le
persone cosiddette di razza e di lingua ellenica. Tutto questo andava bene a
Platone e Aristotele, che ritenevano che certe categorie di uomini fossero
destinate a essere asservite, affinché altre si realizzassero e mettessero i
propri talenti al servizio della gestione e della protezione dello Stato. Platone
diceva: «Ogni parola rivolta a uno schiavo dev’essere un ordine categorico».
In queste società classiste, non esisteva solidarietà tra gli uomini liberi. Così,
dei salariati, dei piccoli artigiani autonomi e dei poveri potevano patire una
condizione di vita materiale quasi indigente quanto quella degli schiavi. C’era
però una differenza di non poco conto tra un uomo molto povero, ma libero, e
uno schiavo, anche se meno miserando: il primo godeva dei diritti di
cittadinanza.
D’altronde, neppure tutti gli schiavi erano nelle stesse condizioni.
Potevano essere schiavi domestici o condannati ai lavori forzati, destinati ai
lavori pubblici, agricoli o minerari. Potevano essere autorizzati a svolgere un
mestiere artigianale e a versare una rendita al loro padrone. Potevano
riscattare la propria libertà, venendo emancipati. In Grecia, lo schiavo
affrancato era assimilato al meteco, vale a dire lo straniero domiciliato.
Numerose cariche e certi mestieri gli erano vietati. Tuttavia, sappiamo che
alla fine del IV secolo a.C. gli schiavi sciti ad Atene svolgevano funzioni di
polizia armata. A Roma l’accesso a certe funzioni pubbliche rimaneva
precluso a uno schiavo affrancato, che però godeva della totalità dei diritti
civili e di gran parte di quelli politici. Pare perfino, secondo alcuni autori, che
degli antichi schiavi siano arrivati alla carica di senatore o siano stati integrati
nel governo dello Stato.

Dopo tutto, la loro condizione non era così terribile come immaginavo.
Questa è probabilmente anche l’opinione di coloro che rifiutano ogni
discussione sulla schiavitù, sintetizzando così il problema: la schiavitù è
sempre esistita, ed è perfino successo che la sorte degli schiavi si sia rivelata
più invidiabile di quella di certi cittadini liberi. È innegabile che,
nell’Antichità, la schiavitù medio-orientale, greca e romana prevedesse delle
vie d’uscita mediante l’accesso, sia pur parziale, ad alcune prerogative della
cittadinanza. Ma questo non deve far perdere di vista il fatto che la schiavitù
è una privazione di libertà, arbitraria quando deriva da atti di guerra o di
pirateria e spropositata quando sanziona certi debiti o determinati delitti. Non
dimenticare che consiste comunque nel sottrarre a esseri umani la loro forza-
lavoro senza rimunerarli. D’altro canto, questa schiavitù di guerra e di
pirateria creò le premesse per un massiccio sfruttamento economico basato
sulla cattura e l’asservimento, motivato dalle conquiste in Africa, in Oriente,
in Gallia, in Germania e nei Balcani, e stimolato dallo sviluppo
dell’agricoltura e dell’allevamento.

Vuoi dire che, più che bottino di guerra e di pirateria, si cercavano


schiavi apposta per farli lavorare?
Sì. Fu organizzata una vera e propria attività economica, perché gli
sbocchi di mercato non erano più occasionali, ma stabili, e richiedevano
costantemente manodopera. Tuttavia, con la schiavitù di massa si sviluppò
anche la resistenza di massa. Tra le più note rivolte ci fu quella di Spartaco,
nel I secolo a.C. Spartaco era un pastore. Fu catturato e arruolato in una
scuola di gladiatori, dalla quale però fuggì. Formò un esercito e tenne in
scacco Roma per diversi anni, prima di essere sconfitto da Crasso e
crocifisso. Quegli schiavi insorti erano i giudici migliori rispetto a chiunque
altro, per sapere se la loro sorte fosse invidiabile. Si ribellavano contro il
lavoro concentrazionario, la crudeltà dei padroni e l’assenza di qualsiasi
possibilità di ritorno nel loro Paese.
Quando parli di conquista dell’Africa, fai riferimento anche agli arabi?
Ho letto che avevano organizzato tutto un commercio per catturare gli
africani.
Esatto. È stata chiamata la tratta arabo-musulmana. Nel continente
africano ci sono dei Paesi arabi, a nord del deserto del Sahara. I Paesi a sud
del deserto, detti subsahariani, sono abitati dai neri africani. Fino alla
colonizzazione, che ha tracciato le frontiere del continente secondo le
ambizioni delle potenze europee, le comunità umane che vi risiedevano erano
nomadi o seminomadi, e gli scontri portavano pure, a volte, all’asservimento
degli sconfitti.
Prima e dopo l’era cristiana, tuttavia, il continente conobbe delle civiltà
luminosissime, dei regni gloriosi, delle dinastie di grande erudizione. E le
donne non erano da meno. So che hai letto dei romanzi su Hatshepsut, regina
d’Egitto, che estese questa prima grande civiltà africana a nord fino al Medio
Oriente, e a sud fino alla Nubia. Eravamo nel XV secolo a.C. Forse hai
sentito parlare delle Candaci, le regine di Meroe, che regnarono per sette
secoli, a partire dal III a.C., su quest’altra grande civiltà africana.
Sicuramente conosci un po’ meno la regina Amina, che fondò la famosa
armata dei cavalieri del regno Hausa, che lei stessa comandava. Eravamo nel
XVI secolo d.C. Le imperatrici Helena e Sabla Wangel, sempre nel XVI
secolo, salvarono l’Etiopia da una crisi che avrebbe potuto esserle fatale. La
regina N’zinga di Ndongo, Paese che i portoghesi hanno chiamato Angola,
era così fiera, coraggiosa e potente che una leggenda racconta che la cavità
nella roccia preistorica della fortezza di Pundu Andango sia stata lasciata dal
suo piede. Combatté strenuamente per impedire la penetrazione portoghese e
l’instaurazione della schiavitù nel suo regno. Eravamo alla fine del XVII
secolo.
Tra il XVII e il XIX secolo, queste regine furono presenze luminose e
tuonanti, esigenti ed esemplari. A volte ebbero dei destini tragici, ma pur
sempre straordinari. Dona Beatrice fu bruciata viva col suo neonato in
braccio, per aver affrontato le autorità congolesi che erano scese a patti coi
portoghesi e provocato povertà e miseria nella popolazione. Mmanthatisi,
dell’odierno Lesotho, arginò la marcia dei boeri del Capo verso nord, e salvò
il suo regno al tempo delle grandi turbolenze nell’Africa del Sud, quando
stava raggiungendo l’apice Shaka, l’imperatore zulu. Ranavalona I respinse la
colonizzazione europea del Madagascar, bloccandola fino alla sua morte,
avvenuta nel 1861. Muganzirwazza condusse la resistenza del regno
d’Uganda fino all’annientamento delle sue truppe, strette in una morsa tra i
negrieri arabi e il suo rivale Mutesa, armato e corrotto dagli invasori. Yaa
Asantewa rese invincibile il regno degli ashanti nel Ghana di fronte ai
tentativi britannici di penetrazione nell’Africa orientale. Nehanda diede
impulso alla prima guerra di resistenza e d’indipendenza dello Zimbabwe, del
quale si pose alla guida; fu considerata uno degli eminenti spiriti del Leone
degli shona7, tanto era il suo splendore; fu impiccata dopo la vittoria dei
britannici, che non esitarono a usare la dinamite per stroncare la ribellione del
popolo shona.

C’è da essere orgogliose di essere donne!


Vero? E ti sentirai ancor più orgogliosa dopo aver letto le opere di Cheikh
Anta Diop, e in particolare Nations nègres et culture. Ti sentirai fiera della
tua femminilità, della tua identità, della tua umanità. E quando ti troverai
davanti a inspiegabili lacune, a vuoti incomprensibili, a strani «buchi» in
questa lunga e gloriosa genealogia, ricordati di questi versi di Derek Walcott,
che ricordano che l’oceano fu, durante le funeste traversate, l’angosciante
middle passage8, un assordante cimitero.
«Where are your monuments, your battles, martyrs?
Where is your tribal memory? Sirs,
in that gray vault. The sea. The sea
has locked them up. The sea is History.»9
Là, infatti, si trova una parte dei misteri della lunga notte di questa
interminabile oppressione.

E la tratta arabo-musulmana, dunque…


Dunque, come dici, questa tratta, detta arabo-musulmana o arabo-islamica
– che in realtà venne gestita da mercanti arabi, perché si trattava di
commercio, non di religione – fu condotta ai danni dei popoli dell’Africa
subsahariana, e lasciò tracce risalenti fino al terzo millennio a.C. Peraltro,
sono più numerose a partire dal Nuovo Impero, dal 1580 al 1085 a.C. È
riconosciuta come un fenomeno sporadico. Alcuni episodi inattesi mi paiono
interessanti da sottolineare. Dimostrano non solo che le vittime di questa
tratta e di questa schiavitù non si sono mai sottomesse, ma anche che avevano
tra loro dei leader che sarebbero stati capaci di dominare il mondo, se fosse
stata quella la loro filosofia.
Per sessantadue anni, tra l’VIII e il VII secolo prima dell’era cristiana, la
venticinquesima dinastia, detta sudanese, regnò sull’Egitto. Spesso avvenne
che degli schiavi, arruolati nell’esercito, agissero con tanto coraggio che le
loro epopee alimentarono delle leggende. Nell’896 d.C., davanti a
un’insurrezione di schiavi estremamente organizzata e imponente, l’impero
abbaside dovette mobilitare tutte le sue forze armate, che compirono un
enorme massacro. Nell’XI secolo, uno schiavo affrancato diresse un colpo di
Stato nello Yemen, instaurandovi una dinastia che durò un secolo e mezzo. In
effetti, dagli archivi pare che la tratta trans-sahariana sia stata praticata in
modo significativo a partire dal VII secolo. Tra i fondamenti di questo
commercio si trovano dei trattati, come quello concluso nel 652 con la Nubia
cristianizzata. Ne venivano coinvolti il Maghreb, Roma e la Grecia. Questa
tratta di africani, uomini, donne e bambini, realizzata per conto di mercanti
arabi, era legata al commercio dell’oro, dell’avorio, dell’ambra grigia e degli
animali selvatici. Si tratta di un traffico di esseri umani, e non è più scusabile
degli altri, nonostante i capovolgimenti di situazione che ho evocato.

Se ben comprendo, c’è sempre una ragione economica?


Pare essere il motivo dominante, in effetti. Tutti gli altri, invocati per
giustificare questa pratica, hanno molto l’aria di pietosi pretesti. Questo
traffico di esseri umani, risalente a prima delle conquiste coloniali europee,
passava per la direttrice trans-sahariana, il Corno d’Africa, le coste
dell’Oceano Indiano, le vie dell’India, della Malesia e dell’Insulindia.
Alimentò le attività economiche più diverse. Contribuì all’industria del sale,
fornì braccia all’agricoltura mesopotamica, alla coltivazione delle ostriche
perlifere nel Mar Rosso, alle piantagioni di palme, alla costruzione di reti
d’irrigazione, allo sfruttamento delle miniere d’oro e di pietre preziose, alla
coltivazione della canna da zucchero in Marocco e in Portogallo. Procurò
truppe e manodopera gratuita, reclutate per la penetrazione nella parte
meridionale dell’Africa, fino ai giacimenti auriferi di Monomotapa, e per la
ricerca delle spezie.
Dopo la sconfitta di Costantinopoli, di cui i turchi s’impadronirono nel
1453, vi fu un rovesciamento della situazione geopolitica. Le rivalità tra il
sud dell’Europa e le reggenze dell’Africa settentrionale s’intensificarono.
Con l’aiuto del progresso tecnologico e della modernizzazione della
navigazione, la tratta acquisì un’ampiezza considerevole, coinvolgendo
sempre più le potenze europee, dissanguando l’Africa nera e trascinando le
Americhe, i Caraibi e l’Oceano Indiano in un concatenarsi di drammi umani
che sarebbero durati oltre quattro secoli.

Più di quattrocento anni! Per ragioni economiche!


In realtà, per l’Africa, vittima dal tempo della tratta araba fino a quella
europea, si trattò di millenni di disgrazie, con intensità variabili a seconda dei
periodi. La tratta perpetrata dagli europei segnò una svolta, per la sua natura,
la sua durata, il modo in cui fu concepita e gestita e la sua stessa
legittimazione. Fino ad allora veniva condotta via terra, e la schiavitù era
principalmente riservata agli sconfitti, al di fuori delle spedizioni predatorie.
Era una questione di forza, e si procedeva con furia selvaggia. Adesso, però,
sarebbero sopraggiunte teorie, dottrine e codici, a inquadrare queste pratiche.
Questi quattrocento anni cominciarono con la spedizione dei portoghesi, che
raggiunsero Capo Bojador, detto anche «capo della Paura», nel 1434. Le
prime razzie note risalgono al 1441 nel Rio de Ouro, il fiume d’oro. E fin dal
1454 papa Nicola V legittimò il commercio di questi esseri umani, qualificati
come «legno d’ebano» nella bolla Romanus Pontifex, con la quale accordò la
sua autorizzazione al re del Portogallo Alfonso V.

Dopo i musulmani, i cristiani?


Sì, i cristiani. Lasciarono credere ai pomberos, i trafficanti, che la tratta e
la schiavitù degli africani traessero origine dal compimento di profezie
contenute nelle Sacre Scritture. È a questo che servì la maledizione di Cam.

La maledizione di Cam? E chi era Cam?


Ti racconterò questa storia che si trova nelle traduzioni, peraltro
contestate, dell’Antico Testamento. Noè, il patriarca al quale il Signore aveva
permesso di costruire un’arca prima del Diluvio, per salvare la sua famiglia,
una coppia di ogni specie animale e dei vegetali, aveva tre figli: Cam, Sem e
Jafet. Un giorno Noè, che dopo il Diluvio era passato dal nomadismo
all’agricoltura, bevve troppo succo della vigna e si ubriacò. Si spogliò e si
addormentò nudo sotto la sua tenda. Cam trovò questo molto divertente e lo
riferì ai fratelli. Sem e Jafet, con rispetto e pudore, presero un mantello e,
avvicinandosi all’indietro per evitare di vedere la nudità del padre, lo
coprirono. Al risveglio, Noè venne a sapere quello che era successo,
probabilmente da Sem o Jafet, e a quanto pare fu travolto da un furore
indescrivibile. Maledisse suo figlio Cam e condannò i suoi discendenti a
servire in eterno come schiavi di quelli dei suoi fratelli. Tra i quattro figli di
Cam, non punì Cush, antenato degli etiopi, Mizraim, avo degli egizi, e Phut,
da cui sarebbero discesi gli arabi e i libici. Scelse di far pesare sul solo
Canaan una maledizione che sarebbe gravata sulla sua discendenza in eterno.

Ma è una cosa spietata!


E molto! Ma esaminiamo le cose serenamente, ammesso che un avverbio
del genere sia adatto, in questo contesto. Tutte le spiegazioni sull’universo e
sull’uomo mi sembrano meritare rispetto, dal momento che sono costruite
sulla base di un sistema coerente, che concorre a far luce sui grandi momenti
della Storia e sui grandi eventi naturali, e che è parte integrante
dell’originalità culturale e della coesione sociale. Purché non implichino né
razzismo né intolleranza. Altrimenti, il frutto è già marcio!
Prendiamo il caso della Francia. Paese dei diritti dell’uomo e delle libertà,
fu però, per volume di traffico di schiavi, la terza potenza negriera mondiale.
L’abbé Grégoire10, d’altronde, proclamava che «la schiavitù degrada il
padrone e lo schiavo». Frantz Fanon11 e Albert Memmi12 hanno dimostrato
che gli effetti perversi del colonialismo toccano tanto il colonizzato quanto il
colonizzatore13. Un autore americano ha elaborato una tesi secondo la quale
l’uomo bianco sarebbe arrivato a picchiare la propria moglie perché aveva
preso l’abitudine di usare violenza contro le donne violentando delle schiave
nere. Questa non pare essere un’osservazione fondata. Ma chi lo sa?

Torniamo, se ti va, alla tua storia di Cam e Noè…


Si trova precisamente nella Bibbia di Gerusalemme, ai capitoli 9 e 10
della Genesi. Questo mito è stato oggetto di numerose esegesi, tra le quali le
più accessibili si trovano nei dizionari biblici. Non spalancare gli occhi.
Cerca la parola «esegesi» nel tuo dizionario. Io aspetto…
Dunque, queste interpretazioni, elaborate per illuminare noialtri profani,
non indicano quale parte del mondo allora rappresentasse Canaan. Alcuni,
peraltro, precisano che Cam è una parola di origine ebraica, che significa
«essere caldo» ed «essere nero».

Mi vuoi dire che Noè, l’unico uomo che Dio abbia giudicato degno di
essere salvato prima del Diluvio, era anche malvagio e ingiusto?
Ascolta, per adesso lasceremo fuori Dio. Tu parli di ingiustizia, perciò
vedi bene come sia nella dimensione temporale che bisogna esaminare questa
storia e trarne la morale. Riparti da capo.

Allora, Noè era ubriaco. E come se questo cattivo esempio non bastasse,
ricompensò la delazione di Sem e Jafet, invece di metterli a pane secco e
acqua o di dare loro il doppio della superficie di campo da arare per
piantare nuovi vigneti.
Esatto.

E, inoltre, condannò degli innocenti!


Senza redenzione!

Redenzione?
Sì, la possibilità di riscattarsi. La fine del castigo. La speranza di un
sollievo. È una storia che non lascia il minimo spazio né alla fraternità, né
all’amore, né alla clemenza, e neppure alla carità. Ed è sulla base della sua
pretesa fondatezza che la tratta e la schiavitù inflitte a milioni di uomini,
donne e bambini hanno potuto essere perpetrate, a volte nell’indifferenza,
spesso con la complicità e perfino con la benedizione o sotto l’autorità di
generosi fondatori di ordini missionari. E questi ultimi, intanto,
proclamavano che la nobile missione dell’Europa era quella di assicurare la
salvezza dell’anima degli sventurati figli d’Africa colpiti dalla maledizione.

Questa è enorme! Chi poteva credere a una storia simile? E, in ogni


caso, è una grave colpa. E di che religione si trattava, poi? Quella cattolica?
Attenta, le religioni si accusano a vicenda. Tra gli autori cattolici, padre
Pierre Charles14, in un libro scritto nel 1928, dà la colpa ai protestanti,
affermando che fino alla Rivoluzione, che suggellò la rottura
dell’insegnamento tradizionale cattolico, «il Nero era rispettato». Raoul
Allier15, professore protestante, spiega che questa interpretazione del Libro
sarebbe dovuta a speculazioni rabbiniche risalenti al periodo tra il III e il V
secolo, secondo le quali Cam avrebbe disonorato Noè sull’arca e ne sarebbe
uscito trasformato in negro. Verrebbe da ridere, se questa idiozia non avesse
coperto tante atrocità e provocato tante tragedie. Pare che questa storia priva
di senso abbia conosciuto particolare vigore nel XVI secolo. Molto più tardi,
nel 1870, si tenne un concilio – ovvero un’assemblea di vescovi – il Vaticano
I. I partecipanti decisero di chiedere alla Santa Sede di intervenire a favore
dei neri, per accelerare la fine della maledizione che li aveva colpiti. Ma
questa richiesta non fu neanche presa in esame, poiché l’attenzione era
concentrata sulla guerra del 1870 e sulla lotta per l’unità italiana, temi
considerati più «urgenti». Altri autori, altrettanto goffamente, spiegano che
Noè non avrebbe maledetto la discendenza di Cam, ma solo predetto
l’asservimento che l’avrebbe colpita. Insomma, che non si trattasse di una
maledizione, ma di una profezia.

Ma è la stessa cosa, no? Se dipende dal destino, non dipende allora da


Dio?
Certo è che tutti questi espedienti e questi tentativi di eludere il problema
non bastano a cancellare del tutto l’enunciato del testo biblico, che annuncia
che la discendenza del figlio maledetto sarà asservita: servus servorum16.
Anche se nessuno avesse aggiunto l’infamia di designare la «razza» nera,
sarebbe insopportabile, indipendentemente da chi potesse essere stato così
condannato. E poi, quale religione può adattarsi a simili precetti?
Tuttavia, il sapere progredisce, le scienze si sono affrancate dalla loro
dipendenza nei confronti delle tesi religiose, la fisica moderna si è liberata
dalla metafisica, e tutto questo, in definitiva, è molto stimolante. Certe
religioni affermano che la totalità della conoscenza scientifica è enunciata nel
Libro sacro, che per esempio è scritto che la Terra è sospesa nell’Universo. E
questo molto prima delle intuizioni di Copernico, Keplero, Galileo e
Magellano…

Hanno sempre ragione tutti. Come orientarsi in questo mare di opinioni?


Interessandosi al patrimonio di conoscenze che, a tutte le latitudini, gli
uomini accumulano. Attraverso le scienze esatte, ma anche le scienze umane,
le scienze sociali, la filosofia. Ricorda però questo aforisma di Rabelais: «la
scienza senza coscienza non è che la rovina dell’anima». Se da una parte il
solo riferirsi al racconto del mondo offerto dai libri sacri conduce
all’oscurantismo, dall’altra la venerazione dei soli dati materiali, che è in sé
una forma di idolatria, può portare all’aridità meccanica di mostri senza
cuore. È un’alchimia da costruire dentro di te. Senza schierarsi. I conflitti tra
la Chiesa e gli scienziati sono spesso stati conflitti di potere. Ci sono grandi
poste in gioco nella stessa conoscenza e nella sua diffusione. Che siano laiche
o religiose, le istituzioni sono guidate da uomini. Bisogna battersi per
accedere al sapere e al tempo stesso essere lucidi, restare liberi grazie al
dubbio e lasciare spazio alle norme etiche che sottendono determinate
conoscenze e determinate tecniche. In altre parole, domandarsi se possiamo
disporre senza intralci di tutte le nostre conoscenze, e se abbiamo il diritto di
fare tutto quello che sappiamo. I dibattiti sulla clonazione umana spingono
questo problema fino all’estremo. L’uomo può criticare Dio quanto vuole. La
cosa peggiore è che crede di essere Dio.

Con tutte queste questioni che non smettono mai di sollevare polemiche,
tra la pedocriminalità e il genocidio ruandese, non si sa mai fino a che livello
di responsabilità sia coinvolta la Chiesa, quando si vedono preti fare cose
contrarie alla morale e alla parola di Cristo. Almeno, per quello che ricordo
di quanto ho imparato al catechismo.
Nelle questioni a cui ti riferisci, la giustizia dovrà far luce sulle
responsabilità di ciascuno. Sappiamo già che un silenzio colpevole da parte
delle gerarchie ecclesiastiche ha permesso a quei preti di martirizzare dei
bambini vulnerabili, e forse di credere di restare impuniti. Per parte mia,
ritengo che questi atti rientrino nella pedocriminalità, perché non c’è nessun
amore nel tradire la fiducia e nel rubare l’innocenza dei piccoli. Per i bambini
vittime di violenze sessuali, come per la schiavitù, la responsabilità della
Chiesa varia a seconda dei periodi. Tuttavia, in numerosi casi è stata
indiscutibile.
In Ruanda il prezzo del genocidio e i traumi subiti sono incalcolabili. Per
fortuna, comincia a essere fatta giustizia. Con i tribunali gacaca – che in
kinyarwanda si pronuncia gaciacia – una versione locale della Commissione
per la verità e la riconciliazione di Nelson Mandela e Desmond Tutu in
Sudafrica; ma anche in Francia, dove sono rifugiati dei ruandesi sospettati di
aver preso parte al genocidio. È stata pronunciata una prima condanna, dopo
vent’anni. C’è voluto molto tempo, ma è un fatto incoraggiante: niente
impunità.
Ricordi la bolla Romanus Pontifex dell’8 gennaio 1454 di papa Nicola V?
Era presto! Considera che una bolla papale impegna la più alta autorità della
Chiesa, ed è importante, perché i regni europei riconoscono la supremazia del
pontefice. Successivamente, la bolla Inter Caetera del 3 maggio 1493, di
papa Alessandro VI, introdusse nelle Americhe una linea di demarcazione
favorevole ai re cattolici spagnoli. I portoghesi, fino a quel momento
privilegiati da Nicola V e Callisto III, preoccupati di sfuggire alle tasse regie
che andavano a profitto del regno rivale di Spagna, protestarono contro
questo monopolio iberico. Il trattato firmato il 7 giugno 1494 tra portoghesi e
spagnoli a Tordesillas, in Spagna, spostò dunque la linea di demarcazione,
riconoscendo al Portogallo la parte orientale dell’America e le isole di Capo
Verde a ovest dell’Africa. E gli inglesi, presi dalla Riforma – sai, quel
movimento religioso di contestazione che portò alla nascita del
protestantesimo – insorsero, mettendo in discussione l’autorità pontificia.
Quanto ai francesi, per voce di Francesco I, chiesero «quale clausola del
testamento di Adamo tenga il regno di Francia fuori dalla spartizione del
mondo». Perché, a partire dalla metà del XVI secolo, oltre alla Spagna e al
Portogallo, per diverse potenze europee – principalmente l’Inghilterra, la
Francia, l’Olanda, la Danimarca e perfino la Svezia – la tratta negriera
rientrava in una pratica commerciale corrente e sistematica, in rapporto alla
loro concorrenza economica internazionale.
Numerose altre bolle papali coinvolsero la Chiesa nella spartizione delle
conquiste coloniali. Essa si mostrò molto partecipe nel regolamentare le
rivalità tra potenze europee, ma indifferente alla sorte degli schiavi. Tra le
lettere di San Paolo, quella a Filemone invita questo padrone a trattare più
fraternamente Onesimo, che è fuggito e si è convertito al cristianesimo, ma è
rimasto uno schiavo. Numerosi altri versetti esortano gli schiavi a una
sottomissione religiosa al loro padrone. Sant’Agostino presenta la schiavitù
come la conseguenza del peccato.

E all’orizzonte non s’intravede neppure un papa mosso a pietà?


No. Bisogna tuttavia osservare che, nella sua bolla Sublimis Deus del 9
giugno 1537, papa Paolo III condanna la schiavitù senza ambiguità, come
aveva condannato l’asservimento degli indiani nella sua lettera Veritas Ipsa
del 2 giugno dello stesso anno. Peraltro, secondo alcuni commentatori (nostri
celebri esegeti), parlerebbe di «ogni altro popolo che possa essere scoperto»,
senza mai nominare i «negri», come venivano chiamati al tempo, quando
c’erano schiavi africani in Spagna. Quando parla di «ogni altro popolo»,
dunque, indicherebbe semplicemente altri amerindi. Si tratta di un commento
credibile, perché in quel periodo Bartolomé de Las Casas, partito per far
fortuna nelle Americhe, si era convertito, diventando sacerdote domenicano,
e si era impegnato nella difesa degli amerindi. Solo che si batteva perché gli
«indiani siano liberati dalla schiavitù» e sostituiti da africani «più robusti».
Gli stessi esegeti sostengono che Las Casas fosse influente alla corte di
Spagna, e quindi nell’entourage del papa. Eravamo qualche anno prima della
controversia di Valladolid, che dall’agosto del 1550 al maggio del 1551,
contrappose Las Casas a Ginés de Sepúlveda, grande sostenitore
dell’avventura coloniale, che invocava la concezione aristotelica della
schiavitù «naturale». La loro disputa verteva sul punto se gli indiani avessero
un’anima e meritassero quindi di sottrarsi alla schiavitù. La Spagna era in
pieno furore evangelizzatore. Il tema centrale, peraltro, ben più della salvezza
delle anime, restava il rendimento degli ingenios, gli zuccherifici.

E non c’è nessuno che, senza ambiguità, come a te piace dire, abbia
preso le distanze da questa infamia?
Sì, c’è Tomás de Mercado, un sacerdote domenicano che, in un libro
comparso nel 1571, afferma con chiarezza che la tratta è contraria alle giuste
regole del commercio e ai principi di umanità. Denuncia perciò il commercio
degli schiavi, ma accetta la schiavitù. Un giurista laico, Bartolomé de
Albornoz, nel 1573 pubblica un’opera in cui rifiuta nettamente il pretesto
della religione e sostiene che sia meglio essere «schiavi e cristiani che liberi e
ignorare la legge di Dio». Egli afferma che la legge di Cristo non può
«indicare che la libertà dell’anima debba pagarsi con la schiavitù del corpo».
Il suo libro sarà proibito dal Sant’Uffizio. Inoltre, per nostra grande fortuna e
con nostro grande conforto, Louis Sala-Molins ha scoperto due figure
magnifiche, due cappuccini, Francisco José de Jaca17 ed Épiphane de
Moirans18, giovani sacerdoti di ventisette e trentadue anni, inviati l’uno a
Caracas, l’altro nella Cayenna – dove non arriverà mai – che nelle loro
predicazioni denunceranno quelle pratiche, riferendosi tanto alla religione
cristiana quanto al diritto, in nome dei «diritti dell’uomo» e del «lume della
ragione»19. Quanto alla prima presa di posizione ufficiale della Chiesa
contro la schiavitù, emergerà in una lettera di Pio VII al re di Francia, datata
20 settembre 1814. Qui si stabilisce il divieto di considerare come lecito il
traffico dei neri. Ciò non avviene peraltro molto prima della presa di
posizione delle autorità laiche, poiché il Congresso di Vienna interviene
qualche mese più tardi, l’8 febbraio 1815, per vietare la tratta in quanto
«ripugnante al principio di umanità e della morale universale». Ma la
schiavitù continua a essere permessa.

Ma com’è possibile che distinguano con tanta facilità la tratta dalla


schiavitù? Come rifiutare l’una e accettare l’altra?
Bisogna notare che è solamente nel caso della schiavitù dei neri
perpetrata dagli Stati, dagli armatori e dai mercanti europei, che la tratta e la
schiavitù, in quel momento, sono collegate tra loro. Nella tratta praticata dai
mercanti arabi, il bacino di schiavi è già l’Africa subsahariana, dunque
l’Africa nera, ma succede che anche altre popolazioni – arabe, europee, slave,
albanesi, more, greche – siano ridotte in schiavitù, per debiti o in seguito a
sconfitte militari. È con le conquiste europee, dunque dal 1416, o forse già da
prima, che ha inizio la tratta collegata alla schiavitù, in due sequenze distinte
che costituiscono ciascuna un’attività a sé, con la sua logica e i suoi
procedimenti; e giustificazioni di ogni sorta spiegano perché i neri siano
predestinati a sopportare questo commercio inqualificabile. Gli amerindi
subiscono la schiavitù senza la tratta e sono vittime di un genocidio che li
riduce da 11 milioni di individui nel 1519 a 2,5 milioni alla fine del XVI
secolo per la sola America centrale. Ricordi che la schiavitù degli amerindi fu
l’oggetto della controversia di Valladolid. È verosimile che l’esistenza della
schiavitù fin dall’Antichità, i numerosi riferimenti biblici giustificativi di
questa pratica e i propositi di pensatori come Platone e Aristotele abbiano
potuto alleggerire la coscienza dell’Europa. I più audaci bandivano la tratta
ma accettavano la schiavitù. A dire il vero, non ho una spiegazione
soddisfacente. E del resto è un bene che non comprenda le motivazioni di
questi contorti ragionamenti. Credo, d’altronde, che se anche riuscissi a
capirle, non te ne parlerei. Penso sinceramente che sia una scelta etica, un atto
di resistenza sano e salutare rifiutarsi di perdersi nella spiegazione di atti
mostruosi. Si possono però esplorare i meccanismi che vi conducono, onde
rafforzare la vigilanza. Ma, soprattutto, non rischiare, con interpretazioni
capziose, di lasciare che s’infiltri nell’animo umano ciò che, al di là di ogni
dubbio, è disumano.

E questo i filosofi sono stati in grado di dirlo, almeno?


Non tutti, e non sempre. Il grande Hegel, filosofo tedesco dell’inizio del
XIX secolo, del quale all’ultimo anno delle scuole superiori si decantano le
virtù per l’apporto che ha dato all’analisi del reale e del razionale, affermava
pure che «il negro rappresenta l’uomo naturale nella sua totale barbarie e
sfrenatezza […]: nel suo carattere non si può trovar nulla che abbia il tono
dell’umano».20

Da restare senza fiato! Avevo sentito parlare dell’impegno di alcuni


filosofi per l’abolizione della schiavitù. Non immaginavo che si potesse
essere filosofi e avere al tempo stesso simili pregiudizi!
Ahimè, mia cara, sfortunatamente quasi tutte le discipline hanno qualcosa
da rimproverarsi, al riguardo. L’antropologia, scienza umana che si suppone
debba studiare ciò che accomuna tutti gli uomini, non ha saputo vedere che le
tesi del conte Arthur de Gobineau21 sulla «disuguaglianza delle razze
umane» erano contrarie alla sua stessa essenza. L’etnologia, scienza umana
che si presume colga le ragioni che dettano i diversi comportamenti degli
uomini in base alla loro cultura, non ha voluto vedere le storture insite nelle
affermazioni di Bartolomé de Las Casas, vescovo andaluso dell’ordine dei
domenicani. Per proteggere gli indiani, ai quali si era affezionato, assicurava
che, nonostante le loro pratiche animiste, avevano un’anima, e che in
definitiva venivano dallo stesso Dio dei cristiani, il che avrebbe dovuto
esonerarli dalla schiavitù. Tuttavia, con lo stesso fervore sosteneva che gli
africani – che peraltro seguivano anch’essi delle pratiche animiste – non
avevano un’anima e che, essendo più robusti, avrebbero costituito
un’eccellente manodopera gratuita, asservita e maltrattata allo scopo di
coltivare le piantagioni e lavorare nelle miniere d’oro e d’argento.
Non usò precisamente queste parole, ma la violenza del sistema
schiavistico che decimava già gli amerindi non gli era sfuggita, poiché
cercava di sottrarveli. Eppure, proponeva di aggiungervi il trauma della tratta,
incoraggiando la deportazione degli africani dal loro continente fino in
America, nonostante le difficili condizioni di navigazione dell’epoca.

E lui sapeva tutto questo?


Con ogni probabilità, sì. D’altra parte, sembra che se ne sia pentito, prima
di morire. Vedi, sono i valori che scegliamo come base della nostra vita che
ci fanno da baluardo, ci preservano da ogni complicità e da qualunque
condiscendenza verso pratiche inumane. Quando si è convinti che tutti gli
uomini siano uguali, non si tollerano con nessun pretesto atti che mettano in
pericolo questa convinzione, infliggendo o lasciando che venga inflitto a una
categoria di uomini ciò che si trova inaccettabile per altri e per se stessi.

La scienza non era abbastanza sviluppata, allora, per illuminare tutte


queste persone?
La scienza aveva anche lei le sue pecore nere. Non è da molto – tre quarti
di secolo – che sappiamo che i veri elementi di differenziazione tra gli uomini
sono nei geni e non nel colore della pelle: un nero e un bianco non sono
necessariamente più diversi di due neri o due bianchi tra loro. Certo, la
scienza stessa riconosceva l’esistenza di più razze. C’è perfino stata un’epoca
in cui ne contava trentadue, e l’ultima era la «razza dei malvagi». C’è però un
netto divario tra, da una parte, l’osservazione e la spiegazione, per quanto
erronea, di queste differenze, e, dall’altra, il loro utilizzo a fini di dominio,
sfruttamento e distruzione. Ci sono stati degli scienziati, come il dottor
Camper22, che hanno sostenuto, sulla base di fumose ricerche sull’angolo
facciale, la netta superiorità della «razza bianca» rispetto alla «razza nera».
Un altro, il naturalista Cornelius Van Pauw, ancora nel XVIII secolo,
affermava che gli uomini sono di pari qualità, a qualunque razza
appartengano, ma per aggiungere subito dopo, come il naturalista Buffon, che
nelle regioni calde le capacità intellettuali sono alterate. Assicurava: «La terra
in cui la sua [dell’uomo] specie ha sempre avuto successo e ha prosperato è la
zona temperata settentrionale del nostro emisfero: questa è la sede della sua
potenza, della sua grandezza e della sua gloria. Sotto l’equatore, la sua
carnagione si inaridisce e scurisce; i tratti della sua fisionomia deformata
disgustano per la loro rudezza. Il clima infuocato abbrevia la lunghezza delle
sue giornate e, incrementando la foga delle sue passioni, restringe la sfera
della sua anima: egli non riesce più a governare se stesso, e non esce da uno
stato infantile. In una parola, diventa un Negro, e questo Negro diviene lo
schiavo degli schiavi».23

Gli schiavi erano circondati!


Hai ragione, era un vero accerchiamento. Non potevano chiedere aiuto a
nessuno. Non potevano rifugiarsi da nessuna parte. La Chiesa li aveva
proscritti, banditi dalla comunità umana. C’erano eruditi che fornivano
argomenti ai negrieri per tranquillizzare la loro coscienza. E lo Stato
orchestrava questo succoso commercio.

Lo Stato, dici?
Sì, lo Stato. Era proprietario delle piantagioni demaniali. Possedeva
immensi campi di canna da zucchero nei quali lavoravano degli schiavi. Le
autorità francesi, spagnole, portoghesi e inglesi crearono delle compagnie
nazionali, vale a dire delle imprese pubbliche che avevano il monopolio di
questo commercio. Devi aver letto qualcosa sulla Compagnia delle Indie
occidentali, la Compagnia dell’Africa equatoriale, e così via. Questo
monopolio in Francia durò fino al 1716, data in cui delle lettere patenti
emesse dal regno aprirono questo commercio alle imprese private. Ma lo
Stato non rinunciò a tutto. Percepiva delle tasse sul tonnellaggio delle
imbarcazioni che garantivano il commercio triangolare. Queste navi
lasciavano i porti atlantici francesi, inglesi, spagnoli e portoghesi cariche di
diverse merci, come oggetti decorativi, tessuti, fucili. Attraccavano in Africa,
nei porti dov’erano installati i banchi delle compagnie che gestivano la tratta.
Scambiavano il loro carico con schiavi – uomini, donne, bambini. Spesso le
adolescenti venivano violentate. Si chiamava «il varo». I negrieri si
procuravano il piacere e, per di più, si arricchivano, perché il bambino che
nasceva dallo stupro era pure lui venduto come schiavo. Si facevano dei
calcoli per mettere quanti più schiavi possibile nelle stive delle navi. Come
sardine in scatola. La paura, la fame, il freddo, il caldo, la sporcizia, i colpi
subiti, niente era loro risparmiato. Arrivati nelle Americhe, venivano venduti.
Raramente a lotti. Quasi mai un’intera famiglia. Una madre a un padrone, i
suoi figli, spesso, ad acquirenti diversi. Allora le stive delle navi venivano
caricate d’oro, d’argento, di spezie, di zucchero, di tabacco, di cotone.
Direzione: l’Europa. Ecco il commercio triangolare: dall’Europa, le navi
cariche di barre di ferro, di fucili, di pezzi di stoffa, di vari oggetti
ornamentali; dall’Africa, le stive piene di schiavi; dall’America, i carichi di
caffè, cacao, minerali preziosi, spezie, e quindi il ritorno verso l’Europa.

E tutto questo per dei benefici concreti?


Esattamente. Era un commercio fruttuoso. Dei registri di mercanti, come
peraltro le loro corrispondenze, mostrano che, considerati i rischi della
navigazione e le incertezze di tale commercio, era necessario che rendesse
molto bene. Molti investivano in questa attività piuttosto che in altre,
nonostante si trattasse di soluzioni molto più comode. Questo traffico dava
origine a diverse attività economiche, che in varie forme rifornivano le casse
dello Stato, il quale percepiva i dividendi delle compagnie concessionarie o
destinatarie di privilegi, e riceveva gli introiti delle piantagioni demaniali. Gli
pervenivano inoltre i guadagni derivanti dalle licenze di armamento, le
imposte sul carico, le tasse sulla liberazione degli schiavi che recuperavano la
libertà. Era un vero sistema economico, con circuiti di redistribuzione. Per
esempio, lo Stato concedeva deroghe ed esenzioni fiscali per incoraggiare
l’iniziativa privata sulla tratta. Versava al clero un sussidio pro capite per
ogni adulto, bambino o neonato battezzato. I preti non si facevano problemi a
procedere a battesimi collettivi. Così, lo Stato delegava alla Chiesa il
controllo delle coscienze, mentre il clero si incaricava di vigilare sulla
sottomissione e la docilità degli schiavi, promettendo loro il paradiso celeste
come ricompensa per la pazienza dimostrata durante l’inferno patito in terra.
Tu non immagini il numero di città portuali europee che sbocciarono
intorno alla tratta. Lisbona in Portogallo, Londra e Bristol in Inghilterra,
Glasgow in Scozia, Dublino in Irlanda, Nantes, Bordeaux, Rouen, Le Havre,
La Rochelle e Saint-Malo in Francia, Amsterdam e Rotterdam nei Paesi
Bassi, Amburgo e Glückstadt in Germania. Tutte città che fanno parte
dell’Europa atlantica.

Quanti porti, e quante città! Io sapevo solo di Nantes, ma tutto qui.


Senza dubbio perché Nantes ha assicurato il 40% del traffico negriero.
Ma probabilmente anche perché è stata la prima città portuale francese a
guardare in faccia il suo passato. Grazie alla curiosità e all’onestà intellettuale
di ricercatori, insegnanti e studenti, grazie al dinamismo di certe associazioni,
grazie al coraggio e alla grandezza d’animo del suo sindaco. Così, dal 1992,
in occasione del cinquecentenario dell’arrivo di Cristoforo Colombo in
America, ha lanciato un progetto dal titolo «Gli anelli della memoria», con il
doppio valore simbolico della catena che impedisce i movimenti e dell’anello
che crea un legame, quello della solidarietà.

Prima della tratta, le città portuali erano povere?


Per lo più vivacchiavano grazie a un’economia agricola o molto
artigianale. Le città più fiorenti erano situate sulle rive del Mediterraneo. La
tratta negriera rappresentò una boccata d’ossigeno per il capitalismo europeo,
che cercava degli sbocchi al di fuori dell’Europa. Spostò il cuore delle attività
economiche dal Mediterraneo verso l’Atlantico.
La Francia ne beneficiò ampiamente, ma non fu la sola. La Spagna, che
inizialmente, col supporto della Chiesa, deteneva dei privilegi e un quasi-
monopolio su questo traffico marittimo, decise di vendere i suoi diritti sotto
forma di asientos. E asiento, come sai, in spagnolo significa…

Registrazione, contratto, trattato, diritto a…


Esatto. L’asiento era una sorta di licenza, di autorizzazione ufficiale che
cedeva dei diritti di tratta. Fungeva da titolo di commercio internazionale. La
Spagna ne distribuì ai fiamminghi, ai genovesi, ai portoghesi, ai francesi e
agli inglesi dal 1532 al 1759. Ne ricavò enormi introiti fiscali. E il traffico
reale fu ancor più considerevole, per via del contrabbando. Gli asientos
furono soppressi solamente nel 1817, quando la Spagna ratificò il trattato che
proibiva la tratta, adottato in occasione del congresso di Vienna dell’8
febbraio 1815. Cosa che fecero anche il Portogallo e la Francia.

Alla fine, tutto giunge a conclusione!


Purtroppo no. Venne vietata solo la tratta. Non la schiavitù.

Anche dai laici?


Anche dai laici, come ben dici. E hai ragione di fare questa distinzione,
perché il Concordato firmato nel 1801, ossia quattordici anni prima, tra
Napoleone e papa Pio VII, ristabiliva delle «relazioni normali tra la Chiesa e
lo Stato dopo la Rivoluzione». Quanto al congresso di Vienna, probabilmente
a scuola hai imparato che fu un’umiliazione per la Francia, costretta alla
capitolazione dalla coalizione formata da Inghilterra, Prussia, Austria e
Russia. Degli ammiratori nostalgici di Napoleone Bonaparte sentono ancora
viva la ferita di quella disfatta. Ma per i nostri antenati quella Francia
imperiale sconfitta, quell’imperatore Napoleone costretto all’esilio,
rappresentò un miglioramento. Il trattato risultante dal congresso di Vienna,
infatti, dichiarò la tratta «ripugnante alla morale universale» e previde la
messa in opera di una polizia marittima sotto la responsabilità
dell’Inghilterra. Le infrazioni, peraltro, erano numerose. Gli Stati,
ipocritamente, chiudevano gli occhi sul traffico condotto dai negrieri privati.
La schiavitù continuava a prosperare, i proprietari delle piantagioni, degli
zuccherifici e delle distillerie continuavano ad arricchirsi grazie alla forza-
lavoro gratuita, e sugli schiavi continuavano a piovere sevizie.

E tutto questo era consentito dalla legge?


Sì, dal Codice nero che fu concepito da Colbert, ministro del Commercio,
ed emanato da Luigi XIV nel 1685, diventando immediatamente applicabile
nelle colonie delle Americhe, e venendo quindi esteso a La Réunion nel
1724. Nell’articolo 44, gli schiavi sono qui dichiarati «beni mobili». Erano
ufficialmente considerati come mobilio, allo stesso titolo degli altri beni
appartenenti ai padroni. E nella contabilità delle piantagioni gli schiavi erano
repertoriati sotto la rubrica «bestiame». All’articolo 38 era previsto che il
padrone avesse diritto di vita e di morte sui propri schiavi, in quanto era
autorizzato a marchiarli a fuoco col simbolo del giglio e a tagliar loro le
orecchie al primo tentativo di fuga, un «garretto» al secondo, e a impiccarli o
squartarli al terzo. Marchiati come bestie. Designati come bestie. Assassinati
come bestie. Ma non abbattuti come buoi e montoni. Frustati. Torturati.
Squartati. Impiccati. Sotto l’autorità dello Stato.

E si sa quante persone hanno sostenuto questo sistema?


Non con precisione. Abbiamo soltanto delle stime. Gli storici fanno
riferimento ai registri di navigazione, ai «ruoli», ovvero i documenti di
registrazione degli asientos, e a vari documenti amministrativi, per tentare di
elaborare delle statistiche. Ma raramente indicano le stesse cifre, perché il
margine di errore è notevole, nei due sensi. Per esempio, il contrabbando non
può essere preso in considerazione, ed è evidente come esso aumenti il
numero di vittime, rispetto a quanto indicato dai documenti ufficiali. Ma
sappiamo anche che certe cifre rilevate nei libri di bordo delle navi negriere
erano sovrastimate. Ciò consentiva agli armatori di acquisire un prestigio
apparente, ostentando una attività economica di dimensioni maggiori del
reale, e così di accedere a determinati privilegi.
Gli storici hanno però trovato un accordo su una forbice che va da
quindici a trenta milioni di persone – uomini, donne, bambini – deportati sul
fondo delle stive. D’altro canto, certi esperti ritengono che, per uno schiavo
giunto in America, ne fossero morti da quattro a sei durante le razzie, in
occasione delle rivolte, a seguito di malattie e vittime di esecuzioni, senza
contare quelli che si suicidavano durante il trasporto verso i depositi, che
venivano chiamati captiveries («prigioni per schiavi») o baracons
(«baracche»), a Gorée in Senegal, a Zanzibar in Tanzania, a Ouidah nel
Dahomey, a Loango in Angola, e nel corso della traversata. Così, da settanta
a centocinquanta milioni di persone giovani e vigorose, appartenenti alle
generazioni fertili, sarebbero stati sradicati dall’Africa.
Hai visto i disegni raffiguranti le stive delle navi negriere.
L’organizzazione per una deportazione di massa è evidente, ed è verosimile
che le condizioni di trasporto verso le coste e la resistenza opposta dai
prigionieri abbiano provocato una forte mortalità: delle «grosse perdite»,
come notavano i negrieri nei loro registri, lamentandosene. È inoltre
opportuno tener conto delle migliaia di schiavi gettati in mare dai trafficanti
dopo il congresso di Vienna. Dal momento in cui veniva avvistata una nave
di pattuglia, i marinai a bordo delle imbarcazioni con gli schiavi avevano
l’ordine di «gettare il carico in mare» per evitare le multe.
Per quanto riguarda la tratta trans-sahariana, la cosiddetta «arabo-
musulmana», praticata regolarmente tra il VII e il XVI secolo, delle stime
approssimative parlano di quattordici milioni di vittime.
4. Il commercio e il trasporto dei prigionieri.
5. Regime amministrativo speciale che limitava drasticamente i diritti dei
nativi.
6. Marc Augé intervistato da Antoine Spire, «Le Monde de l’éducation»,
n° 291, aprile 2001.
7. Gli shona credevano che ogni loro capo, dopo la morte, diventasse un
mhondoro, ovvero uno spirito del Leone. [N.d.T.]
8. «Passaggio di mezzo». [N.d.T.]
9. «Dove sono i vostri monumenti, le vostre battaglie, màrtiri?
Dov’è la vostra memoria tribale? Signori,
in quella grigia volta. Il mare, il mare
li rinchiude. Il mare è Storia.»
(trad. di Nicola Gardini, dalla rivista «Poesia», Anno XVIII, dicembre
2005, N. 200, Crocetti Editore, Milano)
10 . Abbé Grégoire (1750-1831): ecclesiastico e uomo politico francese,
difensore dell’emancipazione degli ebrei durante la Rivoluzione francese. Fu
all’origine del primo decreto di abolizione della schiavitù (1794).
11 . Frantz Fanon (nato a Fort-de-France nel 1925 e morto negli Stati
Uniti nel 1961): psichiatra, scrittore, sostenitore della rivoluzione algerina,
autore di Pelle nera, maschere bianche (ETS, 2015), I dannati della terra
(Einaudi, 1972), prefato da Jean-Paul Sartre, e di Per la rivoluzione africana
(DeriveApprodi, 2006). Medico dirigente dell’ospedale psichiatrico di Blida,
studiò le problematiche psichiche correlate alla situazione coloniale e stabilì
un parallelo tra la sofferenza dei malati di mente e la situazione delle vittime
della colonizzazione.
12 . Albert Memmi (1920): scrittore francese di origine tunisina, autore
de La statua di sale (prefato da Albert Camus) (Costa & Nolan, 1991),
analizzò i meccanismi del razzismo e della colonizzazione da un punto di
vista sociologico. Fu autore di Ritratto del colonizzato e del colonizzatore
(Liguori, 1979).
13. Aimé Césaire, in Discorso sul colonialismo (Lilith Edizioni, 1999),
scrisse: «[...] la colonizzazione lavora per decivilizzare il colonizzatore, per
abbrutirlo nel senso proprio del termine, per degradarlo, per risvegliare i suoi
istinti più nascosti come l’invidia, la violenza, l’odio razziale, il relativismo
morale […]» (p. 17) (trad. Ndjock Ngana Yogo).
14. Citato da Alphonse Quenum, Les Églises chrétiennes et la Traite
atlantique du XVe au XIXe siècle, Karthala, 1993.
15. Citato ivi.
16. «Servo dei servi». [N.d.T.]
17. Originario dell’Aragona, 1645-1690.
18. Originario del Giura, 1644-1689
19. Louis Sala-Molins, Esclavage réparation. Les lumières des capucins
et le lueurs des pharisiens, Nouvelles Éditions Lignes, 2014.
20. G.W.H. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, La Nuova Italia,
Firenze 1972, Vol. I, pp. 243 s. (trad. Guido Calogero e Corrado Fatta).
21. Arthur de Gobineau, Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane,
Rizzoli, Milano 1997.
22. Petrus Camper, 1722-1789, medico, naturalista e biologo olandese.
23. Cornelius Van Pauw, Recherches philophiques sur les Américains,
Mémoires intéressants pour servir à l’histoire de l’espèce humaine, t. II,
nouv. éd. 1772.
LE AMBIGUITÀ DELL'UNIVERSALE
Tutto quello che ho appena sentito mi fa inorridire. Ma a che punto
siamo arrivati, oggi? La schiavitù dovrebbe essere proibita e punita!
In effetti è proibita. E anche abbondantemente, nel diritto internazionale.
A cominciare dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il
cui articolo 4 recita: «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di
schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite
sotto qualsiasi forma». Nel 1949, l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha
adottato la Convenzione sulla soppressione del traffico di persone. E ci sono
altri testi internazionali che condannano la tratta e la schiavitù. È così per la
Convenzione europea per la salvaguardia e delle libertà fondamentali,
risalente al 1950, che dedica il suo articolo 4 a questo tema. Ed è anche il
caso del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, nel suo
articolo 8; della Convenzione americana sui diritti umani del 1969,
all’articolo 6; della Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli del 1981,
articolo 5. Fino alla Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, del
1982, che all’articolo 99 sancisce il divieto di schiavitù, per far fronte in
particolare alle situazioni dei passeggeri clandestini sui pescherecci e sulle
navi della marina mercantile. Infine, la Conferenza diplomatica di
plenipotenziari delle Nazioni Unite, che nel luglio 1998, a Roma, ha chiuso i
suoi lavori per la creazione di una Corte penale internazionale, condanna e
proibisce la tratta e la schiavitù.

Non male. Però anche il più antico tra questi testi non lo è poi così tanto.
La tua osservazione è pertinente. Questi testi sono numerosi, ma
successivi alla seconda guerra mondiale. La loro profusione, che può apparire
sovrabbondante, testimonia il terrore, lo spavento, l’angoscia estrema che
presero l’Europa al momento della scoperta della Shoah. Lei, che si era
adattata agli abomini commessi in nome dell’espansione capitalistica e
dell’evangelizzazione ipocrita dei selvaggi, scopriva la propria capacità di
organizzare l’orrore assoluto sul suo stesso suolo, contro i propri simili. E da
tutto questo esce ossessionata, piena di vergogna, terrorizzata. Naturalmente,
sono ingiusta quando parlo di tutta l’Europa. Infatti, come ti dicevo all’inizio
della nostra conversazione, ci sono sempre stati degli uomini, tra coloro che
erano asserviti od oppressi, ma anche nel «campo degli oppressori», capaci di
alzarsi e di insorgere contro gli orrori. Per esempio, i protagonisti delle varie
resistenze durante la seconda guerra mondiale, francesi ed europei. Tuttavia,
non è del tutto sbagliato affermare che è proprio l’Europa a essere in
questione, nel senso in cui lo intendevano Frantz Fanon – quando esortava:
«Lasciamo quest’Europa» ne I dannati della terra24 – ed Aimé Césaire –
quando deplorava il momento in cui «l’Europa è caduta nelle mani di
finanzieri, di industriali del tutto privi di scrupoli», nel Discorso sul
colonialismo25. È con i suoi discorsi risonanti e autorevoli, i suoi atti legali e
ufficiali e il suo funzionamento istituzionale che ha preparato e legittimato
quelle singolari forme di tirannia e di sterminio, perfino durante il secolo dei
Lumi.

Durante il secolo dei Lumi? Non è quello che ho imparato!


E che cosa hai imparato? Che Condorcet, brillante scrittore umanista,
primo presidente della Società degli amici dei Neri, era un eminente
abolizionista? Ma questo non gli impedì di proporre un’abolizione
progressiva, che si sarebbe spalmata su un periodo di sessant’anni! Altri
sessant’anni di schiavitù, col pretesto di preparare i subumani che erano i
nostri antenati a resistere alle tentazioni della libertà! Perché, secondo
Condorcet, «prima di mettere gli schiavi sullo stesso piano degli uomini
liberi, bisogna che la legge si assicuri che, in tale nuova posizione, non
disturberanno la sicurezza dei cittadini». Certo, ciò non m’impedisce di
nutrire ancora una grande ammirazione per le sue battaglie a favore
dell’istruzione pubblica per i ragazzi e le ragazze, e per la sua volontà che la
scuola formi dei cittadini.
Hai imparato, mia cara, che Mirabeau certamente denunciava «i tiranni
coloniali che mantenevano i Negri al livello di bestie da soma» e affermava la
necessità di abolire la schiavitù, ma raccomandava anche lui di farlo con
gradualità, per il motivo incredibilmente egoista che «i bianchi schiavisti
conserveranno delle tradizioni, delle abitudini e dei principi che ci
riporteranno in patria, dove tornano sempre», e che, così facendo, metteranno
in pericolo la libertà sancita nella Costituzione?
Hai imparato che Voltaire avrebbe detenuto delle azioni molto fruttuose
in società di commercio negriero, lui che si batté sempre contro la forza
dell’ingiustizia e la violenza dei pregiudizi, lui l’ateo che si dedicò con
ostinata energia al caso di Jean Calas, per far riabilitare un uomo il cui unico
vero torto era quello di praticare una religione diversa da quella del clero
dominante; lo stesso Voltaire che, in Candido, fa dire a uno schiavo nero
storpio: «È a questo prezzo che mangiate zucchero in Europa?»
Hai imparato che tra il 1788 e il 1793, durante gli splendidi anni della
Rivoluzione, il volume d’affari degli armatori negrieri francesi fu quello che
crebbe maggiormente? Che quel commercio aveva talmente prosperato che la
proporzione di popolazione nelle colonie passò da due neri per un bianco nel
1700 a dieci neri per un bianco nel 1780?
Hai imparato che la Rivoluzione del 1789 non abolì la schiavitù, e che fu
solo la Convenzione a decidersi a compiere questo passo nel 1794, dopo un
gran numero di discorsi dalle diverse angolazioni, indecenti calcoli sui danni
prodotti dal marronnage26 e una gran quantità di considerazioni geopolitiche
che speculavano sull’indebolimento degli inglesi, i nemici di allora, a tal
punto che, quando la Convenzione votò l’abolizione, Danton esclamò:
«l’inglese è fottuto!»? Anche tu, come me, avresti probabilmente preferito il
grido: «Viva la libertà per tutti gli uomini!»
Hai imparato che il grande Napoleone Bonaparte, l’uomo delle conquiste,
della spedizione d’Egitto e del Codice civile, preoccupato di preservare gli
interessi dei coloni, grandi proprietari di piantagioni o di fabbriche, come la
famiglia di sua moglie, si premurò di ripristinare la schiavitù nel 1802? Hai
imparato che il teologo Bellon de Saint-Quentin diffondeva ancora nel 1764
le teorie sulla maledizione di Cam? Hai imparato che l’immenso Toussaint
Louverture27 – che aderì alla Rivoluzione francese, combatté gli inglesi con
il grado di generale nell’esercito francese, che conquistò l’indipendenza di
Haiti, costruì un efficace apparato amministrativo, diede vita a un sistema
giudiziario civile e militare, redasse un codice civile e uno commerciale, creò
delle strade e sviluppò l’agricoltura – quel geniale Toussaint Louverture fu,
con uno stratagemma, messo agli arresti a Port-au-Prince, deportato in nave
nel giugno del 1802 e incarcerato nel forte di Joux, nel Giura, per ordine di
Bonaparte? Che fu umiliato, spogliato degli abiti in pieno inverno, privato del
cibo e della luce, con il lucernario della cella ostruito per tre quarti? Che morì
lì, di freddo, fame e disperazione? Che non ebbe diritto al trattamento di
riguardo riservato ai prigionieri di guerra, e nemmeno a un trattamento
ispirato a un minimo di umanità?
Che brutalità!
Certo, un’assoluta brutalità! È un oltraggio alla leggenda dei Lumi. La
leggenda dei secoli28 è più piacevole. E Hugo, sia pur liberale, sia pur
ambiguo in Bug Jargal,29 rimane più stimolante di Jubelin, Richepance30 e
Rochambeau31, che siamo stati educati a venerare all’angolo delle nostre
strade malfamate. Richepance diede prova di estrema furbizia nei confronti
del valoroso colonnello di fanteria Louis Delgrès32 e di grande crudeltà al
momento del ripristino della schiavitù alla Guadalupa nel 1802.
L’amministratore coloniale Jean Jubelin si opponeva alla scolarizzazione dei
bambini neri e all’alfabetizzazione degli adulti, affermando che «già i neri
non sanno che fare della libertà, se li mandate a scuola crederanno di poter
fare qualunque cosa». Vedi bene che la mia brutalità non è niente a confronto
della violenza di quella concezione di una libertà controllata, irreggimentata,
scaglionata. Dimmi dove questi prudenti umanisti hanno smarrito
l’uguaglianza degli uomini rivendicata nei loro slanci lirici? Dov’è la
fraternità tra i popoli, cantata nelle loro pagine più belle? E che ferocia, che
barbarie in coloro che sostenevano apertamente la schiavitù!

Ma la «Francia delle libertà» non è comunque una visione ideale?


La libertà sembra conformarsi diversamente.
Prima di tutto, una cosa: se ti dico «Terra della libertà», a che Paese
pensi?

Agli Stati Uniti, naturalmente. Ma quella è un’altra cosa!


È quasi la stessa. Gli Stati Uniti godono ancor oggi della reputazione di
essere una terra di libertà. A meno di non riconoscere l’esistenza di una
libertà WASP («White Anglo-Saxon Protestant»33), bisognerebbe scavare a
lungo per dissotterrare la libertà in questo Paese, che si è costruito sui
massacri e l’espropriazione delle terre degli amerindi, sulla tratta e la
schiavitù degli africani nelle piantagioni di canna da zucchero, di cotone e di
tabacco, e nelle grandi opere per sbarrare il corso dei fiumi. I linciaggi di neri
continuarono alla luce del sole fino al 1968, a volte anche per motivi futili
come una parola insolente o uno sguardo insistente, ma in ogni caso per
l’essenziale ragione di essere neri e di trovarsi là. Quei linciaggi erano una
distrazione assaporata in famiglia, davanti a bambini allegri e pieni
d’immaginazione, che seguivano con i propri occhi la crudeltà degli adulti
mentre strappavano le unghie alle vittime, tagliavano loro le orecchie,
cavavano loro gli occhi o scorticavano la pelle del viso. Ehi, non svenire!
È in questo Paese che gli afro-americani costituiscono il 50% della
popolazione carceraria, quando non sono che il 12% della popolazione totale,
che i governatori fanno ancora giustiziare degli esseri umani, perfino malati
di mente, perfino minorenni. Quando l’articolo 6.5 del Patto internazionale
sui diritti civili e politici prevede che «una sentenza capitale non può essere
pronunciata per delitti commessi dai minori di 18 anni», ma il primo minore
condannato a morte e giustiziato aveva quattordici anni. Era un afro-
americano e si chiamava George Junius Stinney. Commise l’errore di
segnalare alla polizia i corpi di due ragazzine violentate nel South Carolina.
Venne accusato degli stupri. Il suo processo, con giuria e avvocati bianchi,
durò due ore; la deliberazione, dieci minuti! Era troppo piccolo per la sedia
elettrica, e dovette essere messo a sedere su una bibbia. Era il 1944. Fu
riabilitato sessantadue anni più tardi. Innocente!
Aggiungi a questo il fatto che sette condanne a morte su dieci sono
annullate in appello, per chi ha i soldi necessari a pagarsi un avvocato, che un
terzo dei condannati sono stati poi riconosciuti innocenti, che due-tre mesi
mediamente bastano per condannare a morte, mentre ne servono da dieci a
venti per correggere un errore giudiziario accertato. Capirai che, vittima o
accusato che tu sia, è meglio essere bianco e ricco in questo Paese, in cui, per
esempio nello Stato del Kentucky, le condanne a morte riguardano
esclusivamente gli omicidi di bianchi, mentre nello stesso periodo vi sono
stati assassinati oltre mille neri. È in questa Terra di libertà che la schiavitù
figurava tra le leggi dello Stato della Virginia ancora nel 1980. Coincidenza:
questo è l’anno in cui la Mauritania fu l’ultimo Stato facente parte dell’ONU
ad abolire la schiavitù. Nei testi giuridici, non ancora nei fatti!

Ma è un inferno!
Per essere giusti, bisogna ricordare che il primissimo movimento
abolizionista nacque pur sempre negli Stati Uniti, quando erano ancora solo
un insieme di colonie inglesi. Era il 1688, e quello era il movimento dei
Quaccheri, in Pennsylvania – Stato che prende nome dal suo fondatore
William Penn, e la cui capitale ha ancora il nome simbolico di Philadelphia,
città dell’amore fraterno. Nel 1759, cioè trent’anni prima della Rivoluzione
francese, e diciassette anni prima dell’Indipendenza americana, i Quaccheri
decisero di escludere dalla loro comunità quanti, tra loro, partecipavano alla
tratta. Il Vermont fu il primo Stato ad abolire la schiavitù nel 1777, un anno
dopo la Dichiarazione d’indipendenza. Nota però che i padri
dell’indipendenza delle tredici colonie, autori della Dichiarazione
d’indipendenza, discussero e disquisirono per giorni sulla questione
dell’abolizione della schiavitù. Per poi pervenire a un compromesso poco
onorevole: gli amerindi vi erano trattati come merciless savages, cioè
«selvaggi spietati», e gli schiavi restavano di proprietà dei padroni, il cui
diritto veniva esplicitamente riaffermato. Non stupisce che, sedici anni più
tardi, nel 1793 – l’anno dell’invenzione della macchina sgranatrice di cotone
– in altri Stati siano state adottate delle nuove leggi che reprimevano con
maggior durezza gli schiavi fuggitivi. E la schiavitù fu abolita ufficialmente
solo nel gennaio 1865, con l’adozione del tredicesimo emendamento,
tenacemente voluto dal presidente Abraham Lincoln, che sarebbe poi stato
assassinato. Prosaicamente o cinicamente, i neri erano riconosciuti abili
all’arruolamento per la guerra fin dal 1775. Autorizzati a versare il proprio
sangue per la nazione già da quasi un secolo, dopo averne già versato tanto
per i loro padroni.
Ancor oggi, è un inferno per milioni di afro-americani e migliaia di
bianchi poveri e analfabeti che marciscono ingiustamente nelle prigioni.
Terra di libertà? Lasciamo che ce lo dica Mumia Abu Jamal, recluso e
condannato a morte da oltre trent’anni in seguito a un processo abborracciato.
Vecchia Pantera Nera, e probabilmente condannato per questo motivo, lo
racconta nei suoi libri, da cui emana una stupefacente serenità. Terra di
libertà! Interroghiamo il fantasma di Odell Barnes, un giovane uomo di
trentun anni, condannato a morte sulla base dell’unica testimonianza
imprecisa di un vicino, sia pur contraddetto dalla perizia medico-legale, e
giustiziato nel 2000 nello Stato del Texas per ordine del governatore George
Bush, poco dopo eletto presidente della più grande potenza del mondo
cosiddetto libero. Terra di libertà! Andiamo a interrogare l’anima tormentata
di Amadou Diallo, un giovane guineano abbattuto da quarantuno pallottole
nella schiena da quattro poliziotti bianchi che, nella penombra, hanno ritenuto
che questo dipendente di una drogheria che tornava a casa dopo una giornata
di lavoro fosse vagamente somigliante a un violentatore ricercato.
Chiediamogli se la sua anima, torturata dall’impunità che il tribunale di New
York ha offerto a quei poliziotti bianchi, troverà mai pace. E, già che ci
siamo, soffermiamoci sulle anime tormentate. Quella di Crispus Attucks,
primo martire nero della guerra d’indipendenza in occasione del massacro di
Boston. Quelle di Herbert Lee, Medgar Evers, Jimmy Lee Jackson, Sammy
Younge Jr., studenti militanti assassinati. Quelle di Andrew Goodman,
Michael Schwerner e James Chaney, studenti volontari dell’«Estate della
Libertà», scomparsi nel Mississippi senza lasciare tracce. Quelle delle quattro
ragazzine nere uccise dall’esplosione di una bomba in una chiesa di
Birmingham. Quelle delle Pantere Nere uccise senza prima aver ricevuto
un’intimazione ad arrendersi. Quella di George Jackson, spregevolmente
assassinato nella prigione di Soledad. Quella di Hurricane Carter, che ha
scontato ventidue anni di reclusione solo per il diletto di un ispettore di
polizia razzista. Quelle delle giovanissime nere violentate e costrette al
silenzio. Quelle di migliaia di vittime che attendono che il Ku Klux Klan
venga processato. E le vittime di torture di Atlanta, Selma, Tuskegee, Little
Rock, Springfield e New Orleans non sono che alcuni nomi pescati
nell’interminabile lista delle vittime di quelle che gli storici chiamano
pudicamente le «sommosse razziali», e demarcano la sinuosa strada della
conquista dei diritti civili negli Stati Uniti. Dei diritti civili, non certo del
potere! Immagina la desolazione degli spiriti erranti di quegli uomini
giustiziati perché sospetti, e sospettati perché neri. E di tutte le età. Michael
Brown, diciotto anni. Trayvon Martin, diciassette anni. Tamir Rice, dodici
anni. E in tutte le circostanze. Eric Garner, venditore abusivo, asmatico. Akai
Gurley, nella tromba delle scale. Tutti disarmati! Secondo un rapporto
dell’ONU, sarebbero oltre mille l’anno le persone uccise sulla pubblica via,
senza che vi fossero particolari disordini. Controllo alla guida, controllo di
strada, controllo in base ai tratti somatici razziali! I pregiudizi, i luoghi
comuni, la paura, la forza bruta, l’impunità, ed ecco il cocktail esplosivo di
coloro che si drogano di supremazia bianca.

Bene. Devo prepararmi ad ascoltare religiosamente le brillanti


spiegazioni che vorrai mirabilmente fornirmi sulla Francia delle libertà?
È così, scherzaci pure. L’insostenibile leggerezza dell’essere è un
privilegio della tua generazione. Non è mia intenzione negare le idee
progressiste della Rivoluzione francese. D’altra parte, esiste una corrente di
pensiero che ritiene che la Francia «moderna» sia scaturita direttamente da
quella Rivoluzione e ne sia profondamente impregnata. Io non potrei essere
più realista del re, che fu decapitato. E, d’altronde, condivido piuttosto
volentieri quell’opinione, trattandosi delle istituzioni francesi e del rapporto
del popolo con esse. Tuttavia, non dobbiamo accontentarci della superficie o
dell’apparenza delle cose, delle persone e delle culture. E vedi, poiché sono
profondamente legata a un ideale di fraternità, totalmente convinta che la
diversità sia vitale per l’umanità, assolutamente sicura che una causa non sia
universale se non nobilita l’uomo e ovunque, so fin troppo bene che delle
belle parole possono coprire crimini odiosi. Non posso ipocritamente
ignorare che la Prima repubblica si è compiaciuta di principi che ha applicato
con molta parsimonia agli oppressi francesi nella madrepatria, e miseramente
agli schiavi nelle colonie. Certo, tutto questo avveniva in un contesto di
grande fervore intellettuale. Le turbolenze politiche e le dispute tra le fazioni
contrapposte attestavano la vivacità dei conflitti e la vitalità delle forze di
ogni schieramento. I contributi letterari e politici erano vivi, le opere belle e
audaci. Le rivalità erano aspre. Le voci nobili e forti che si levarono non
furono certo tutte idealistiche. Indignate, sì, ma di un’indignazione
addomesticata. Le considerazioni etiche confinavano direttamente con le
preoccupazioni economiche. A parte rare eccezioni. Gli argomenti elaborati
dagli abolizionisti, peraltro, testimoniano il livello di consapevolezza di
quanti avevano potere decisionale, più che le loro convinzioni, che vorrei
fossero state più generose. Perché, in effetti, i ragionamenti economici
soppiantano ampiamente le professioni di fede di natura etica
sull’uguaglianza e la fraternità tra gli uomini.
Le posizioni in campo erano le stesse della guerra di secessione
americana nel 1860, quando i nordisti, considerati abolizionisti, difendevano
al tempo stesso e in sostanza gli interessi degli Stati industriali del Nord dalla
concorrenza degli Stati agricoli del Sud, giudicati sleali a causa della
manodopera servile, e dunque gratuita. Anche lì, salvo rare eccezioni, le
difficoltà incontrate – dopo la guerra e l’abolizione proclamata dal presidente
Abraham Lincoln – dai soldati neri, i vecchi schiavi e i veri abolizionisti,
stanno a indicare che la schiavitù non era la principale posta in gioco di
quella guerra. Certo, per gli afro-americani di quel tempo era meglio vivere
nel Nord che nel Sud del Paese. Ed è così ancor oggi. Sai che nel 2002 la
Virginia ha rifiutato l’occasione che aveva di cambiare bandiera, e ha
preferito conservare quella confederata? Fiera della sua storia d’intolleranza.
Serve invece più tempo per comprendere le dolorose storie familiari di coloro
i cui bisnonni si arruolarono, a volte adolescenti. Fermo restando che stavano
dalla parte dell’ingiustizia e dell’intolleranza.

Sembri ossessionata dagli Stati Uniti!


Confesso di essere più angosciata che soggiogata dalle contraddizioni di
questo conglomerato di Stati. Vi si possono trovare il peggio e il meglio. E,
soprattutto, non ne sono affascinata. Degli storici sostengono che la
Rivoluzione americana sia la matrice della Rivoluzione francese, e Alexis de
Tocqueville34 è considerato un grande teorico della democrazia. La sorte
riservata ai neri non m’invoglia a condividere la sua ammirazione per quella
«democrazia». La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti viene
spesso brandita come il testo fondante delle libertà delle persone e dei popoli,
e del loro diritto a rifiutare l’oppressione. Io, per parte mia, sono afflitta dalla
menzione, in tale Dichiarazione, degli amerindi come merciless savages, che
quei campioni della democrazia hanno spogliato delle loro terre, della loro
cultura e della loro identità. Sono costernata da questo diritto di proprietà
sacralizzato e dal silenzio sulla popolazione nera, proprietà suprema e
dimostrazione – se mai ce ne fosse bisogno – del mantenimento della
schiavitù.
Eppure, il primo progetto di Dichiarazione d’indipendenza, redatto da
Thomas Jefferson, conteneva una netta denuncia della schiavitù. È vero che
ne attribuiva la responsabilità al solo re Giorgio III d’Inghilterra,
rimproverandolo di aver «dichiarato una crudele guerra contro la stessa
natura umana, violando i diritti più sacri della vita e della libertà nella
persona di un popolo lontano che non l’aveva mai offeso». Per inciso, rifletti
sulla magistrale abilità degli Stati Uniti nell’enunciare o lasciar intendere che
loro siano degli angeli e che il male sia sempre altrove, negli altri. Ma i
delegati delle colonie sudiste sapevano che la motivazione principale della
guerra d’Indipendenza dichiarata contro l’Inghilterra era il rifiuto della
politica fiscale di re Giorgio III, in cerca di fondi per risollevare le casse della
Corona, svuotate dalle guerre contro gli amerindi e contro i francesi.
Ecco perché il testo infine adottato riaffermava il diritto di proprietà, in
particolare sugli schiavi, che rientravano nei loro beni mobili e nel loro
bestiame. La Costituzione degli Stati Uniti faceva una distinzione tra «gli
uomini liberi e le altre persone». E, nel 1857, la Corte suprema decretò che
nessun nero potesse essere cittadino degli Stati Uniti. Capisci allora come io
non possa essere beatamente ammirata, davanti a questa pretesa Terra di
libertà che nutre i fantasmi europei. Ma procediamo metodicamente. Stavamo
parlando dei testi che proibiscono o condannano la schiavitù.

E abbiamo elencato i numerosi testi internazionali che condannano


questa pratica. A proposito, perché ne servivano tanti?
Ottima osservazione! Si direbbe che, quando la comunità internazionale
constata la propria incapacità di imporre le proprie regole, tenta di
scongiurare quest’impotenza con la ridondanza. E si ripete come per
accertarsi di venire ascoltata. Ma forse anche per essere sicura della propria
volontà.

E questi testi internazionali si applicano a tutti i Paesi?


Si presume che si applichino a tutti i Paesi firmatari. In generale, le
convenzioni e i trattati internazionali sono firmati dai governi e devono essere
ratificati dai Parlamenti nazionali. Succede anche che la ratifica sia sottoposta
a referendum, quando la posta in gioco politica può rivelarsi cruciale. Nel
1992, per esempio, il trattato di Maastricht sull’Unione europea fu oggetto di
un referendum in Francia. Questi trattati prevalgono sulla legislazione
nazionale, quando è contraria ad essi. È così che procedono la Francia e la
maggior parte dei Paesi europei. In generale, la Francia ratifica piuttosto
rapidamente i trattati internazionali (i più recenti riguardavano le mine
antiuomo e la Corte penale internazionale), il che non ne fa necessariamente
un modello di applicazione dei trattati ratificati.

Immagino che la legge della Francia, patria dei diritti umani, non
contenga disposizioni contrarie ai testi che vietano e condannano la tratta e
la schiavitù?
Hai ragione, anche se dovremo tornare sulla nozione di patria dei diritti
dell’uomo. Eppure, il diritto francese è un po’ generico. Il decreto del 27
aprile 1848, redatto da Victor Schœlcher, che abolisce la schiavitù per la
seconda volta, prevede soltanto che «la schiavitù è un attentato contro la
dignità umana», poiché «sopprime il libero arbitrio». Il nuovo Codice penale
francese del 1994 classifica la schiavitù tra gli «altri crimini contro
l’umanità» – «altri» rispetto al genocidio. La schiavitù appare dunque come
un termine generico, senza collocazione temporale né localizzazione.

Però, grazie alla tua legge35, la tratta e la schiavitù saranno infine


riconosciute come crimini contro l’umanità!
Non è la mia legge. Esiste l’abitudine di attribuire a una legge il nome
dell’autore della relativa proposta. Ma ogni proposta di legge emendata e
votata diviene una legge della Repubblica. Le leggi sono delle costruzioni
collettive. Sono dei compromessi che stanno a testimoniare il lavoro comune
e il livello di coscienza universale che, in un determinato momento, le
istituzioni riconoscono e prescrivono, e questo momento si estende su tutto il
tempo di maturazione reso possibile dalla navetta parlamentare. La legge che
mira a far riconoscere la tratta e la schiavitù come crimini contro l’umanità
dice precisamente, al suo articolo primo: «La Repubblica francese riconosce
che la tratta negriera transatlantica, così come la tratta nell’oceano Indiano da
una parte, e la schiavitù dall’altra, perpetrate a partire dal XV secolo, nelle
Americhe e ai Caraibi, nell’oceano Indiano e in Europa contro le popolazioni
africane, amerindie, malgasce e indiane, costituiscono un crimine contro
l’umanità».
Il testo contiene altri cinque articoli, tutti relativi alle particolari forme di
abominio che sono stati la tratta negriera che ha dissanguato l’Africa per oltre
quattro secoli, i massacri e quindi il genocidio amerindio nelle Americhe e ai
Caraibi, la schiavitù che ha disgregato le società, le culture, le identità e le
personalità di milioni di africani, amerindi, malgasci, indiani. Il primo
articolo della proposta di legge era diverso. Ecco come io l’avevo redatto:
«La Repubblica francese riconosce che la tratta negriera transatlantica e la
schiavitù, perpetrate dal XV al XIX secolo dalle potenze europee contro le
popolazioni africane deportate nelle Americhe, costituiscono un crimine
contro l’umanità». Avrai notato che, in seguito, il tragico e preciso termine
«deportate» è sparito, proprio come il riferimento alle potenze europee
schiaviste.
24. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1972, p. 240
(trad. Carlo Cignetti). [N.d.T.]
25. Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, cit., p. 29 (trad. Ndjock
Ngana Yogo). [N.d.T.]
26. Atti di resistenza (e di rottura) degli schiavi, che lasciavano le
piantagioni per vivere liberi nella foresta. Le altre forme di resistenza nelle
piantagioni consistevano in sabotaggi o avvelenamenti.
27. Toussaint Louverture (1743-1803): figlio di schiavi, generale e uomo
politico haitiano, capo del movimento d’indipendenza dell’isola. Nel 1791
organizzò un movimento di rivolta dei neri contro i proprietari delle
piantagioni di Santo Domingo (oggi, Haiti). Nel 1794 aderì alla Francia
rivoluzionaria, che aveva appena abolito la schiavitù. Nominato comandante
in capo delle armate di Santo Domingo, nel 1800 proclamò l’indipendenza
dell’isola e ne diventò governatore a vita. Nel 1802, Napoleone ristabilì il
dominio francese sull’isola. Toussaint Louverture fu sconfitto, catturato e
accusato di cospirazione.
28. Opera di Victor Hugo. [N.d.T.]
29. Bug Jargal (BUR, Milano 2002) fu scritto dal giovane Victor Hugo,
che all’epoca aborre la Rivoluzione francese, sopraggiunta allo stremo
dell’ordine monarchico, per la violenza che ha generato. È influenzato da uno
Chateaubriand rabbiosamente ostile alla Rivoluzione nera di Haiti. Quella
rivoluzione, eppure, affascina Hugo, che tenterà di descriverla e di spiegarla.
Allora difende il colonialismo schiavista, ma poi sognerà un colonialismo
equilibrato. In questo libro, come osserva Roger Toumson (in La
Transgression des couleurs, tomo I, Éditions Caribéennes, 1989), «Il bene è
nel male e il male è nel bene. Bug Jargal è nero ma nobile e bello. Léopold,
benché bianco, erede di un colono e colono lui stesso, è amico di uno
schiavo. In altre parole, se il colonialismo schiavista è cattivo, vi è tuttavia in
esso qualcosa di buono […] Certi proprietari di schiavi sono crudeli, altri
invece sono umani. I Neri sono feroci, ma Bug è buono. Victor Hugo enuncia
così l’uguaglianza degli opposti e finisce per accettare l’ordine costituito
schiavista». È interessante notare che dopo Bug Jargal, scritto quando
l’autore aveva appena sedici anni, Hugo comprenderà meglio l’orrore della
schiavitù attraverso la figura e la lotta di John Brown, un abolizionista bianco
statunitense per il quale scriverà, il 2 dicembre 1859, una bellissima lettera
per ottenere che non sia impiccato. Fa l’ultimo passo per il superamento dei
pregiudizi sui «negri» rispondendo, nel marzo 1860, al redattore-capo
haitiano del giornale Le Progrès, Exilien Heurtelou.
30. Antoine Richepance (1770-1802): generale francese. Maresciallo
all’inizio della Rivoluzione, prese parte a numerose campagne e fu nominato
generale a Novi nel 1800. Quell’anno, condusse numerose battaglie vittoriose
(Waldshut, Kirchberg, Hersdorf, Hohenlinden), prima di essere inviato da
Napoleone alla Guadalupa con l’ordine di domare la rivolta guidata da un
ufficiale mulatto, Louis Delgrès, e di ristabilirvi la schiavitù. La brutale
repressione, di cui fu l’implacabile guida, alla testa del corpo di spedizione
francese, causò diverse migliaia di eroiche vittime. Morì di febbre gialla.
31. Rochambeau (1750-1813): generale francese. Partecipa alla guerra
d’indipendenza americana agli ordini di suo padre; viene quindi inviato a
Santo Domingo, e in seguito alla Martinica, che riprende ai britannici nel
1793, anche se loro, poi, la riconquisteranno nel 1794. Tornato a Santo
Domingo nel 1802 dopo aver preso parte alla campagna d’Italia, si fa una
sinistra reputazione favorendo l’importazione da Cuba e l’allevamento a
Santo Domingo di cani di razza bulldog, addestrati per attaccare e sbranare i
neri. Nel 1803 si arrende ai britannici, di cui resta prigioniero fino al 1811.
Muore a Lipsia nel corso della campagna di Germania.
32. Louis Delgrès (Guadalupa, 1766-1802): colonnello dell’esercito
francese, ribelle e strenuo oppositore del ripristino della schiavitù nel 1802, è
uno dei personaggi più prestigiosi della storia della Guadalupa. Inizialmente
serve nell’esercito repubblicano francese alla Martinica e viene nominato
capitano a titolo provvisorio. Nel gennaio 1802, promosso colonnello di
fanteria, viene posto alla testa dell’arrondissement di Basse-Terre
(suddivisione amministrativa francese nella Guadalupa, N.d.T.). Nel maggio
1802 si oppone alle truppe del generale Richepance, che sospetta voler
ristabilire la schiavitù. Dopo terribili combattimenti, evacua il forte Saint-
Charles e ripiega sulle alture di Matouba, dove installa il suo quartier
generale. Delgrès, ferito, insieme a diverse centinaia di uomini, decide allora
di suicidarsi facendosi saltare in aria con dei barili di polvere da sparo.
Questa morte eroica, il 28 maggio, colloca per sempre Delgrès e i suoi
uomini nel pantheon della storia della Guadalupa. Accanto a lui si trovano
due donne eccezionali, Marie-Louise Toto e Solitude, la mulatta che sarà
impiccata il giorno dopo aver partorito.
33. «Protestanti bianchi di origine anglosassone», ovvero di origine
inglese. [N.d.T.]
34. Alexis de Tocqueville (1805-1859): autore del saggio di sociologia
politica La democrazia in America.
35. V. in allegato, p. 245.
IL CRIMINE CONTRO L'UMANITÀ
Che cosa rispondi a quanti affermano che il crimine contro l’umanità
esiste solo dalla fine della seconda guerra mondiale, e che non si può
utilizzare un concetto nuovo per un fatto passato?
A coloro che sono in mala fede, e sono i più numerosi, rispondo che
rifiuto di immergermi nelle profondità melmose in cui sguazzano. È osceno
mettersi a discettare sulla storia delle parole per designare dei fatti che hanno
provocato la lunga deriva di un intero continente, la cattura di persone
vigorose che, col loro lavoro, costruivano la prosperità di altri continenti.
Tutto questo ha portato via, in un vortice di disperazione, bambini strappati
alla loro madre, donne strappate alla loro famiglia, uomini strappati alla loro
terra. Con tutte le atrocità che ne sono conseguite.

E che rispondi invece a quelli che sono in buona fede?


Per prima cosa, che la conoscenza di questi fatti richiede raccoglimento.
In secondo luogo, che anche la Shoah ha preceduto la definizione di crimine
contro l’umanità, poiché è il Tribunale militare internazionale di Norimberga
che ha stabilito e consacrato il concetto. E che la questione posta, in questo
caso, è quella della retroattività, che consiste nell’applicare a determinati atti
dei testi elaborati dopo che sono stati posti in essere. Tanto i giudici quanto la
comunità internazionale, attraverso le convenzioni sui diritti dell’uomo,
hanno considerato che la non retroattività non potesse essere invocata per
ostacolare l’azione giudiziaria nei confronti dei colpevoli di atti o di
omissioni (ebbene sì!) considerati come criminali in virtù dei «principi
generali di diritto riconosciuti dall’insieme delle nazioni».

Sì, ma era passato poco tempo da quei fatti. Si può capire questa
forzatura per arrivare a punire i nazisti.
Naturalmente. Non oso nemmeno immaginare che i giudici e le nazioni
libere potessero inchinarsi al principio della non retroattività delle leggi e
dimostrare così la propria impotenza a giudicare e condannare. D’altro canto,
c’è stato chi ha tentato di screditare il Tribunale militare internazionale
sostenendo che fosse espressione della forza dei vincitori, e non un vero
tribunale. Il che non è del tutto falso. Se non altro, la forza dei vincitori si è
costituita in strumento di diritto, con uno statuto e una giurisdizione, delle
udienze pubbliche e soggette al contraddittorio delle parti. E resta il fatto che
tu, io e milioni di persone avremmo trovato scandaloso, codardo e vile un
argomento che fosse consistito nel ricorrere alla non retroattività delle leggi,
splendida conquista democratica, per lasciare impunito lo sterminio degli
ebrei. Quanto al tempo trascorso tra i fatti e i testi, non è quella la questione,
che invece sta nel principio. Un principio può essere storpiato, anche se solo
per una ragione di ordine superiore.

E come spieghi che si siano tempestivamente previste l’istituzione di un


tribunale e delle leggi per la Shoah, e non per la tratta e la schiavitù? Forse
perché le menti erano più mature, dopo la seconda guerra mondiale?
Non ci si può compiacere del secolo dei Lumi, di valori universali, di
principi giuridici, e al tempo stesso ritenere che le menti potessero non essere
sufficientemente mature nel XX secolo. La tratta, la schiavitù, i massacri
coloniali che precedettero l’Olocausto, e che disgraziatamente ne portavano
in sé il germe, colpivano degli uomini lontani e dall’aspetto diverso36. È
nello scoprirsi capace degli stessi abomini, nel piegare appositamente le
tecniche, nell’agire sul proprio territorio, contro uomini del tutto simili
nell’aspetto, che l’Europa comprende, inorridita, quanto l’uomo imbevuto
della sua pretesa superiorità possa essere abitato dal male assoluto. È questo
che fa dire a Frantz Fanon: «Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di
parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli
delle sue stesse strade, a tutti gli angoli del mondo»37.

Tu pensi, insomma, che finché c’erano neri che si facevano massacrare,


bastassero le proteste. Non c’era bisogno di inventare delle leggi né di
punire i colpevoli?
Temo che in Europa, in effetti, non ci sia stata una scala di compassione,
un’indignazione a geometria variabile. E non basta prenderne atto. È
necessario battersi per far progredire il principio di un’umanità indivisa.

Si sarebbe potuto qualificare la tratta e la schiavitù come genocidio?


Considerando la definizione di genocidio, si potrebbe affermare di no. Se
ricordiamo la definizione contenuta nella convenzione dell’ONU del 9
dicembre 1948, vediamo qualificati come «genocidio» gli atti «commessi con
l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico,
razziale o religioso, come tale». La convenzione specifica gli atti in
questione, che sarebbero l’«uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi
all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; il fatto di sottoporre
deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua
distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite
all’interno del gruppo; trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo
all’altro». È evidente come questa definizione sia molto contestualizzata, nel
senso che è stata concepita specificamente per definire la Shoah, per quanto il
termine esistesse già in precedenza. L’ultima variante, ovvero il trasferimento
forzato di fanciulli, si riferisce chiaramente al Progetto Lebensborn,
programma nazista di selezione dei neonati.
Tutti questi atti si accorderebbero con la schiavitù, con la rilevante
eccezione delle misure tese a impedire nascite all’interno del gruppo. Al
contrario, gli schiavisti «selezionavano» degli uomini da utilizzare come
stalloni, come si fa con i caproni, i tori o i verri, onde assicurare la
riproduzione e l’incremento del loro capitale. Ciò costava loro meno caro che
comprarli, in particolare dopo la proibizione della tratta, che aumentava i
rischi assunti dai negrieri, e dunque il prezzo di vendita degli schiavi.
Soprattutto considerando che le condizioni di lavoro che imponevano agli
schiavi accorciavano notevolmente la loro speranza di vita. Dunque, se il
genocidio non è tale nelle intenzioni, lo è nei fatti. Lo è per via dei milioni di
morti provocati dalle razzie nei villaggi, dal trasporto verso le coste, dalle
terribili condizioni sanitarie nelle stive delle navi, dalle rivolte, dai suicidi,
dalle inqualificabili condizioni di lavoro, dalle pene corporali, dalle
mutilazioni e dagli assassinii legalizzati, dalla tortura psico-affettiva. È il
problema delle definizioni, che bloccano all’interno di categorie i misfatti
umani, che disgraziatamente hanno sempre una lunghezza di vantaggio su di
esse. Mi pare evidente come i massacri di amerindi, a partire dal momento in
cui sono divenuti sistematici, rappresentino un genocidio, poiché lo scopo era
quello di sterminarli per confiscare loro terre e ricchezze.

La nozione di crimine contro l’umanità si addice dunque meglio a ciò che


furono la tratta e la schiavitù?
Il genocidio è un crimine contro l’umanità. Il nuovo codice penale
francese, in seguito alla riforma del 1994, tratta i crimini contro l’umanità nei
suoi articoli 211 e 212, uno riguardante il genocidio, e l’altro intitolato
«Degli altri crimini contro l’umanità». Come il genocidio, il crimine contro
l’umanità non è definito in termini assoluti, ma mediante l’enumerazione di
diversi atti.
È in corso una riflessione di altissima qualità, condotta da eminenti
giuristi – di ambiente universitario e forense – filosofi, psicanalisti e medici,
aperti nel tentativo di definire il contenuto del crimine contro l’umanità,
considerata la varietà di atti che possono ipoteticamente rientrarvi e la
necessità di prevenire nuovi rischi. I lavori di Mireille Delmas-Marty, Pierre
Truche, André Froissard ed Emmanuel Jos chiariscono significativamente il
senso e la portata del crimine contro l’umanità. Ci insegnano, rimettendo al
loro posto le querelle statistiche, che è la negazione dell’umanità della
vittima, ovvero il fatto di estrometterla dalla famiglia umana, a costituire il
crimine, prima di ogni altra cosa. «Non sono né il numero delle vittime né
l’intensità della loro sofferenza, ma la negazione della parte eterna dell’uomo
che è in ciascuno», a costituire un crimine contro l’umanità. Lo stato di
guerra non è dunque l’unico contesto nel quale possa essere perpetrato. E, per
parte mia, non vedo un concetto più pertinente per racchiudere la totalità di
quello che furono la tratta e la schiavitù. Si poteva continuare a negare
l’umanità di quei bambini, di quelle donne, di quegli uomini che furono
razziati, marchiati a fuoco, incatenati, impastoiati, violentati, picchiati,
venduti a lotti o separatamente, mutilati, squartati e assassinati nella piena
legalità? Le condizioni quantitative ci sono tutte, e anche la sofferenza
intensa è concretissima. Ma, al di sopra di tutto, sono la negazione, la
sopraffazione, l’annientamento dell’essenza umana di ciascuno degli schiavi,
a costituire il crimine contro la loro umanità, contro tutta l’umanità. E il fatto
che gli uomini abbiano inventato il nome del loro crimine solamente oltre un
secolo dopo avere smesso di compierlo non cancella né addolcisce i danni e
la perversione.

Comunque è strano rendersi conto che è passato tanto tempo, e che tutto
questo è rimasto nel più assoluto silenzio.
Il silenzio ufficiale. D’altronde, è una raccomandazione ripetuta con
insistenza dai governanti che annunciarono pubblicamente il decreto di
abolizione all’insieme delle nazioni: «Dobbiamo dimenticare il passato. Nelle
colonie non ci sono più se non uomini liberi e fratelli». Gli oppressori
avevano tutto l’interesse a predisporre questo oblio. Gli schiavi di un tempo,
no. Ma il rapporto di forza era loro sfavorevole. I vecchi schiavisti
conservavano le terre e ricevevano inoltre delle indennità per compensare la
perdita della manodopera gratuita. La servitù a contratto, che consisteva nel
far venire lavoratori dai Paesi asiatici, remunerandoli con bassi salari, tendeva
in qualche modo a sostituire la schiavitù. I decreti contro il vagabondaggio
adottati dai governatori, che permettevano di rimandare nelle piantagioni gli
schiavi affrancati che rifiutavano il lavoro salariato, l’obbligo imposto a tutti,
ivi comprese le donne sposate, di esibire un libretto di lavoro, misero quelli
che una volta erano schiavi in condizioni di dipendenza e precarietà. Il potere
di repressione per la salvaguardia del sistema economico passò dal padrone
all’istituzione giudiziaria. Questa, totalmente favorevole ai proprietari delle
piantagioni, nelle colonie assicurava, in nome dell’autorità pubblica, la caccia
agli inattivi, ricorrendo anche alle pene corporali. Lo schiavo liberato si
ritrovava accerchiato quasi quanto il vero e proprio schiavo. La sua situazione
era troppo miserevole perché potesse rivendicarla. Circondato da tutte le
parti, non poteva protestare. Solo alcuni intrepidi tentavano la via giudiziaria,
per lo più senza esito. Con la rilevante eccezione della lunga – ventisei anni!
– e ostinata avventura giudiziaria dello schiavo Furcy38 e qualche altro raro
caso che produsse una giurisprudenza della Corte di cassazione più conforme
al diritto che alla legge, nel periodo di Portalis figlio, Dupin e Gatine, in cui
l’umanismo prevalse, in questo confronto di umanità diverse. Non tutti i
processi finirono allo stesso modo. Quello di Léopold Lubin fu un modello
d’iniquità. A quel tempo, l’affrancato aspirava a sopravvivere, a sfuggire alle
sevizie, ad aprire una strada meno dolorosa e brutale ai propri discendenti.
Tuttavia, il silenzio non era osservato ovunque, né sempre. Il vecchio schiavo
raccontava il proprio dolore e la propria rivolta in canti e racconti. Ci sono
delle opere, scritte nelle colonie o nelle stesse madrepatrie, che ne rendono
testimonianza e li analizzano. Sono numerose, ma restano spesso confinate ai
santuari universitari. Troppo pochi libri sono alla portata del grande pubblico,
anche se in questi ultimi anni, e in buona parte grazie alla legge del 2001 e ai
suoi effetti sull’insegnamento e la ricerca, sono state prodotte opere di
notevole importanza. Il silenzio ufficiale, quando s’incrina, si avventura
decisamente poco più in là dell’abolizione.

Per fortuna i tempi cambiano. Ora se ne parlerà dappertutto, e lo si


imparerà anche a scuola.
A questo non siamo ancora arrivati. I tanti discorsi ufficiali che vengono
fatti si collocano risolutamente sul terreno dell’indignazione morale. Ci sarà
ancora da combattere perché la tratta e la schiavitù siano riconosciute per
quello che furono: il primo sistema economico e la prima organizzazione
sociale gerarchizzata le cui fondamenta sono la deportazione in massa della
popolazione e l’omicidio legalizzato. E come tali devono essere comprese.
36. «[…] vale la pena […] di svelare al molto distinto, al molto umanista,
cristiano, borghese del XX secolo, che custodisce in sé un Hitler nascosto,
[…] che, in fondo, ciò che non perdona a Hitler non è il crimine come tale, il
crimine contro l’uomo; non è l’umiliazione dell’uomo in sé, ma il crimine
contro l’uomo bianco, il fatto di avere applicato all’Europa dei metodi
coloniali finora riservati agli arabi di Algeria, ai coolies dell’India e ai negri
d’Africa». Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, cit., pp. 18 e sgg. (trad.
Ndjock Ngana Yogo).
37. Frantz Fanon, I dannati della terra, cit., p. 240 (trad. Carlo Cignetti).
38. Schiavo di Réunion che citò in giudizio il suo padrone nel 1817 per
reclamare la condizione di uomo libero, e ottenne una sentenza favorevole nel
1843. V. Mohammed Aïssaoui, L’Affaire de l’esclave Furcy, Gallimard,
Parigi 2010.
LE LOTTE. I NOSTRI PADRI, QUESTI EROI...
Visto che ti richiami così spesso ai tuoi antenati ribelli, sono sicura che
non vedi l’ora di cantarmi le gesta dei neri marrons39.
Eccome! Vedi, una delle conseguenze durevoli del miscuglio delle etnie
organizzato dai negrieri per limitare le rivolte, peraltro invano, uno degli
effetti della promiscuità indotta dalle condizioni di vita infami, degli stupri
compiuti sulle navi e dai padroni, e anche, semplicemente, degli slanci
naturali di seduzione e attrazione, è questo maelström meticcio, dove Dio
stesso avrebbe difficoltà a riconoscere le metamorfosi della sua opera.
Figurati noi, poveri umani, impegnati a cercare di avventurarci nel groviglio
delle nostre genealogie incrociate. Il privilegio che ne scaturisce è quello di
poter scegliere una parte della propria ascendenza. E confesso di attingere
volentieri dall’epopea dei neri marrons, per ristabilire un contatto con alcuni
dei miei antenati.

Allora tu non discendi da schiavi, ma da neri marrons?


Inevitabilmente, vengo da tutti e due. E ancora da più lontano. Provengo
dall’Africa, dalle Americhe, dall’Asia e dall’Europa. Accetto le mie
molteplici origini come altrettante radici che alimentano la mia identità e la
mia propensione all’alterità. Contengo il mondo e il mondo mi sostiene.
Anche se, spaventato da così tanti riflessi, a volte il mondo stesso sceglie di
credermi invisibile.

«Invisible man, for whom do you sing?»40


Come in questo bel romanzo di Ralph Ellison, sono trasparente per tutti
coloro, razzisti e filantropi presi dalla fretta, che sonnecchiano nella comodità
delle loro certezze riflesse. Scegliere la mia genealogia, ispessire la densità
della mia presenza nel mondo è uno dei miei privilegi. E prendo qua un po’
di un avvelenatore, là un po’ di una mammana, qui un pezzetto di un
guerriero, lì uno di uno sciamano, e raccolgo da una parte un pizzico di una
strega, dall’altra uno di un narratore di storie.

Insomma, fai la «spesa»?


Con una netta predilezione per le spezie che profumano e pepano la
vita…
Lo vedo! Richiamarsi a mammane, avvelenatrici e guerrieri, beh, non mi
pare né granché morale né molto pacifico!
No, se ci lasciamo rinchiudere nella riprovazione morale e nella visione
sottomessa dello schiavo. Padre Bartolomeo e lo zio Tom. Se avessimo
dovuto contare su di loro per l’abolizione della schiavitù, saremmo ancora
fermi lì!
Questo eroe letterario creato dalla scrittrice americana Harriet Beecher
Stowe nel suo romanzo La capanna dello zio Tom, totalmente votato ai suoi
padroni, come gli altri schiavi addetti al servizio domestico, e dunque al
riparo dalla dura economia della piantagione, è di una sottomissione
insopportabile. Attende passivamente l’incommensurabile carità del padrone
che lo libererà, e d’altronde non sogna molto più di una vita di poco migliore.
Decisamente commovente e lusinghiero per i padroni – almeno quelli che
sono caritatevoli.

Certo, niente da cui tu possa rimanere affascinata!


E nemmeno tu!

Lo ammetto. Ma questa è una buona ragione per preferire le mammane e


le avvelenatrici?
Quegli uomini e quelle donne, sradicati dall’Africa e deportati sul fondo
delle stive in quello che è stato chiamato «il passaggio di mezzo», the middle
passage, sbarcarono nel mondo sconosciuto delle Americhe, dove furono
venduti più e più volte, sovraccaricati di lavoro e brutalizzati. Privati di ogni
punto di riferimento, riuscirono peraltro a riversarsi in quel nuovo territorio e
a carpire i segreti delle sue piante. Quelle che avvelenavano il bestiame del
padrone e, all’occorrenza, il padrone stesso. Quelle che distruggevano gli
embrioni nati dalle violenze dei padroni o frutto di amori tragici, e che così
sottraevano all’inferno della schiavitù dei bambini a cui le loro madri
avrebbero dato tutto l’amore possibile, se fossero vissuti. Si può sempre
scegliere di essere un verme della terra o una stella. E, nel dramma del
periodo schiavistico, io m’inchino davanti a coloro, donne e uomini, che
diedero un senso alla propria esistenza, dimostrando così che le peggiori
violenze non arrivavano a privarli della loro umanità. Rendo omaggio a
questi antenati illustri e anonimi.
E come la mettiamo con la morale?
E i padroni, feroci durante la settimana e misericordiosi per un’ora la
domenica, come si sono arrangiati, loro, con la morale?
Non si possono mettere sullo stesso piano coloro che hanno freddamente
fondato la propria comodità, la propria ricchezza e il proprio dominio sulla
deportazione, lo sfruttamento e l’uccisione di altri esseri umani, e coloro che,
per difendere la propria vita, la loro fede nell’uguaglianza, il valore supremo
della libertà, fecero vacillare questo sistema odioso e criminale. Vorresti forse
paragonare le atrocità naziste con i sabotaggi della Resistenza? Lascia la
morale ipocrita ai farisei. Io ti parlo di etica. Ti parlo delle responsabilità
della politica.

Non ti arrabbiare. Sai bene che sono d’accordo. Parlami piuttosto dei
marrons che tanto ami.
Amo i neri marrons, ma anche tutti gli insorti, i ribelli, i rivoltosi, i
resistenti e gli abolizionisti di ogni epoca e di ogni causa. Frederick
Douglass, questo vecchio schiavo che tanto ha fatto per l’abolizione e per i
diritti civili, diceva: «Se non c’è lotta, non c’è progresso. I limiti della
tirannia si stabiliscono in funzione della capacità di resistenza degli
oppressi». Diceva inoltre che non si può amare l’oceano e rifiutare il boato
delle tempeste, il movimento delle correnti e l’impatto delle onde.
Potrei anche, per non privarti di alcun ascendente né di alcun riferimento,
citare Étienne de la Boétie, spirito brillante e precoce, che mette in questione
la legittimità dell’autorità che impone la sottomissione. Si trattava della
servitù volontaria, ed eravamo nel XVI secolo.
Abbiamo l’opportunità di vivere in un’epoca in cui la parola, lo scritto e
l’azione civile, sociale e politica hanno ridotto la necessità di battaglie
fisiche. Rallegriamoci, ma guardiamoci dal pensare che sia vano lottare per
un mondo più giusto e fraterno. Equivarrebbe a tradire la nostra eredità.

Sì, signora. E se smettesse di farmi penare con questi marrons e ribelli


che tanto ama?
Ovviamente, ho le mie preferenze. Per prima cosa, cerco le donne. E non
smetto di chiedere agli storici di ritrovarle. Hanno per forza lasciato delle
tracce, anche se sono ancor più nascoste di quelle degli uomini, tutti paria.
Nell’attesa, cerco di ricavare il massimo dalla vita di Solitude41, compagna
di Delgrès, impiccata all’indomani del parto per aver combattuto fino alla
fine contro il ripristino della schiavitù da parte di Richepance alla Guadalupa,
per ordine di Napoleone Bonaparte. E venero Louis Delgrès, guadalupense,
colonnello dell’esercito francese, che decise di morire con i suoi uomini
facendo esplodere il forte Matouba, dove diedero battaglia per l’ultima volta
contro le truppe di Richepance. Il 10 maggio 1802 – ricordati che la legge è
stata definitivamente adottata il 10 maggio 2001 – Louis Delgrès scrisse un
testo sublime, intitolato All’universo intero, l’ultimo grido dell’innocenza e
della disperazione, le cui prime parole sono: «È in uno dei più bei giorni di
un secolo eternamente illustre per il trionfo dei Lumi e della filosofia che un
gruppo di sventurati che si cerca di annientare si vede obbligato a levare la
propria voce verso i posteri, per far loro conoscere, quando ormai sarà
scomparso, la sua innocenza e le sue disgrazie».
E, tornando alle donne, ricordo Madeleine Clem, Rosannie Soleil, Marie-
Thèrese Toto, Adélaïde Tablon e naturalmente Harriet Tubman, Isabella
Baumfree detta Sojourner Truth e tante altre.

Capisco, quando dici che lottavano per la libertà e l’uguaglianza.


Al prezzo del sacrificio supremo. E un uomo come Marat, sul quale a
scuola hai imparato solamente che fu assassinato nel suo bagno da Charlotte
Corday, nel 1791 scriveva: «Per scuotere il giogo crudele e vergognoso sotto
il quale gemono, i neri e i mulatti sono autorizzati a ricorrere a tutti i mezzi
possibili, anche la morte, dovessero essere ridotti a massacrare fino all’ultimo
dei loro oppositori».

Comunque, è un mondo di grande violenza!


Ahimè sì! La violenza assoluta della tratta e della schiavitù è il riflesso
delle relazioni sociali e delle dure contrapposizioni.

E c’erano sicuramente delle donne attorno a Toussaint Louverture?


Senza dubbio! Come ve n’erano al fianco di Makandal, marron di Santo
Domingo, di Boni, un importante marron della Guyana, accanto a Pompée,
marron guyanese, di Gabriel, marron amerindio della Guyana, di Fabulé,
marron della Martinica, di Ignace, primo ribelle guadalupense. Ma le donne
non si limitavano a stare al fianco di questi magnifici uomini. Erano sui
campi di battaglia, negli stati maggiori, e partecipavano ai combattimenti e
alle decisioni, come anche all’intendenza e alle faccende quotidiane. Ricordo
alcune luminose leader di lotta, come Dandara in Brasile, Lumina Sophie alla
Martinica, Solitude alla Guadalupa, Romaine nella Guyana.

Immagino che ci fossero soltanto i marrons e gli schiavi sottomessi.


Parlavi di avvelenamento del bestiame e dei padroni. Ma che facevano quelli
che non fuggivano?
Ti hanno insegnato che i neri marrons erano schiavi in fuga. La parola
«marron» viene dallo spagnolo cimarrón, che indica un animale domestico
tornato allo stato selvatico. Pare anche che la parola «schiavo» sia da
avvicinare a slavo, perché i primi prigionieri provenivano appunto dai Paesi
slavi. Ma non ti attenere strettamente all’etimologia.
Ricordati che non può sussistere alcuna equivalenza tra fuga e
marronnage. Non si diventava marrons né per caso, né inavvertitamente, né
soprattutto per codardia. Lo si diventava per scelta. Con piena coscienza di
causa e con notevoli rischi. Perché ricordati che, ai sensi dell’articolo 38 del
Codice nero, lo schiavo ripreso doveva avere le orecchie tagliate, e inoltre
veniva marchiato col ferro rovente e gli veniva tagliato il «garretto» – nota,
tra l’altro, l’uso di un termine zoologico. La terza volta veniva punito con la
morte. E non una morte dolce. Squartato, impiccato, bruciato. Delle squadre
di esploratori, accompagnati da molossi e bulldog addestrati a sbranare i neri,
erano specializzate nella caccia all’uomo nella foresta. Vedi come
l’alternativa fosse terribile: non tra l’obbedienza di cittadini ragionevoli e la
fuga di asociali o codardi, ma tra l’inferno delle piantagioni e la promessa
d’inferno in caso di cattura.
A parte il marronnage, esistevano molteplici forme di resistenza e
sabotaggio. Incendi alle piantagioni; resistenza culturale, con la fioritura di
canti, racconti, danze, ritmi di tamburi; resistenza religiosa, attraverso i
sincretismi forgiati nel punto di convergenza tra credenze animiste e mistiche
monoteiste. Resistenza soprannaturale, tramite fughe mentali, stati di trance o
rituali magici. Esistono storie magnifiche intorno a figure sublimi, durante o
subito dopo la schiavitù: quelle di Boni nella Guyana, di Esteban a Cuba o di
Besouro Preto in Brasile.
Sono delle vere lezioni di coraggio e di ingegnosità.
Due bei valori, non è vero? E quelle lotte, che cominciarono fin dal tempo
delle razzie nei villaggi africani più remoti, e che proseguirono sulle navi – e
alle quali bisogna aggiungere le varie forme di resistenza degli amerindi –
assunsero le forme più adeguate ai vari luoghi e momenti. Trovarono la loro
dimensione fraterna nei movimenti abolizionisti rappresentati dalle grandi
figure di Schœlcher, dell’abbé Grégoire, di Condorcet, di Wilberforce e di
altri, che erano stati abolizionisti fin da subito o a certe condizioni. È evidente
che preferisco quelli che lo sono stati incondizionatamente, come Hugo, che
dalla tribuna dell’Assemblea costituente, il 15 settembre 1848, reclamava
«l’abolizione della pena di morte pura, semplice e definitiva». Ora che ci
penso, ti ho già parlato di papa Gregorio XVI? Nella sua bolla In suprema
apostolis fatigio, del 1839, dichiara: «[…] volendo allontanare una così
grande ignominia da tutti i Paesi cristiani […], avvertiamo, con l’autorità
apostolica, e scongiuriamo calorosamente nel Signore tutti i fedeli, di
qualsiasi condizione, che nessuno di loro osi in avvenire tormentare
ingiustamente gli Indiani, i Negri o altri simili, o privarli dei loro beni, o
asservirli, o assistere o favorire coloro che si permettono tali violenze nei
loro confronti, o esercitare quel disumano commercio per cui i Negri, come
se non fossero uomini ma semplici animali ridotti in schiavitù, in qualunque
maniera, senza alcuna distinzione e contro i diritti di giustizia e di umanità,
sono comprati e venduti, venendo a volte destinati ai lavori più duri».

C’erano dunque del male ma anche del buono, nella Chiesa?


Ovviamente. Non bisogna disperare della Chiesa romana, cattolica e
apostolica.

Ma non è una presa di posizione un po’ tardiva?


Almeno, questo è un testo privo di ambiguità. E sembra, anche se non ne
ho mai trovata traccia, che papa Nicola V avesse modificato la sua bolla
Romanus Pontifex del 1454, che autorizzava re Alfonso V del Portogallo a
praticare la tratta. I ritardi della Chiesa rendono ancor più meritevoli i
sacerdoti che, come l’abbé Grégoire, hanno abbracciato e sostenuto la causa
degli schiavi. A volte le istituzioni rendono gli uomini virtuosi. E capita che
gli uomini valgano più delle istituzioni stesse.
Ma allora, in relazione a quello che mi dici, si può ritenere che i marrons,
e perfino gli schiavi, abbiano trasmesso al mondo forme originali di lotta e
fors’anche una filosofia della resistenza?
Assolutamente sì. Hanno legittimato, elevandolo al grado supremo, il
diritto di resistere all’oppressione, anche quando questa fosse inserita in una
cornice di legalità. Le loro scelte, le loro battaglie e le loro motivazioni sono
paragonabili alla Resistenza sotto il regime nazista, all’insurrezione dei
popoli colonizzati, e alle stesse dichiarazioni sulla «forza ingiusta della
legge».

E, grazie alle creazioni artistiche e ai sincretismi religiosi di cui parlavi,


possiamo ritenere che abbiano anche arricchito il patrimonio culturale
mondiale?
Senza alcun dubbio. Al di là delle nuove lingue, delle tecniche e delle
conoscenze forgiate su un territorio sconosciuto, delle invenzioni culinarie,
dell’adattamento delle credenze religiose, hanno lasciato una traccia durevole
nel mondo. Pensa che cosa sarebbe stata la musica del XX secolo senza
l’apporto del jazz. Guarda come si irradia e avvicina gli uomini e le culture.
Dalla violenza e dall’orrore supremi, questi uomini hanno fatto nascere una
musica di una prodigiosa ricchezza e di un’insondabile generosità. Non lo
trovi affascinante?

Sono sbalordita!
E lo sarai ancor più quando scoprirai il cavaliere di San Giorgio,
guadalupense dai molteplici talenti – schermidore, ballerino, musicista – tra i
migliori direttori d’orchestra europei, considerato il Mozart nero. Era la
seconda metà del XVIII secolo. Ben prima della Rivoluzione e
dell’abolizione. Fu nominato direttore dell’Opera reale da Luigi XVI, ma
dovette rinunciare a questa funzione perché due cantanti rifiutavano di essere
«dirette da un Nero»! Combatté per difendere gli ideali della Rivoluzione in
qualità di colonnello della troppo poco nota, ma straordinaria, Legione franca
di cavalleria, chiamata legione di San Giorgio. Figurati che, nella Guyana e in
altre antiche colonie, per ignoranza della sua vera storia, la gente usa questa
espressione, quando una situazione è perduta e un problema è irrisolvibile:
«bisogna mandare la legione di San Giorgio»!
La Storia è un intrico di contraddizioni!
Come minimo. Sai, a proposito, che Alexandre Dumas, l’autore dei Tre
Moschettieri e del Conte di Montecristo, era un meticcio? Sai che il più
grande poeta russo, Aleksandr Puškin, era meticcio, bisnipote di Gannibal, un
africano portato alla corte dello zar e divenuto generale dell’esercito?
Nonostante tutto, resta molto da fare.

Per esempio?
Lottare senza sosta per sradicare il razzismo, che attecchisce in
particolare nelle grandi teorie che hanno giustificato la schiavitù.

Ma l’altro giorno mi hai detto rapidamente che alla «Conferenza


internazionale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e
l’intolleranza che vi è associata», tenutasi nel 2001 a Durban, è stato fatto
un grande progresso.
Certamente. Ma questo è ben lungi dal bastare. E, quattordici anni dopo,
la valutazione che ne fa l’ONU suscita legittima delusione. Peraltro, il
decennio 2015-2025 è consacrato alle popolazioni di origine africana. In
Francia e in numerosi Paesi europei, c’è un lavoro colossale da compiere per
il riconoscimento della pluralità, delle sue origini, del suo senso, della sua
portata, delle sue potenzialità. E ci sono ancora tante vittorie da conseguire.

E si potrebbe cominciare…
Sopprimendo, nell’articolo 2 della Costituzione francese, la parola
«razza».
39. Erano detti marrons (coloro che erano dediti al marronnage, N.d.T.)
gli schiavi che fuggivano per avviare una forma di resistenza (il marronnage,
appunto) contro il padrone. I neri marrons si raggruppavano e univano le loro
forze contro coloro che li asservivano.
40. «Uomo invisibile, per chi è la tua canzone?» Il titolo originale di
questo libro di Ralph Waldo Ellison è generalmente riportato come Invisible
Man, ma ricorre anche la versione più lunga Invisible man, for whom do you
sing?. In Italia è stato edito come Uomo invisibile (Einaudi, 2009). [N.d.T.]
41. La repressione dei guadalupensi che, con Delgrès, si erano battuti per
la propria libertà, fu di un’estrema ferocia. Non risparmiò le donne, che pure
si batterono armi alla mano. La mulatta Solitude era una di loro. Incinta, fu
gravemente ferita nel corso dei combattimenti. La lasciarono giusto partorire,
prima di impiccarla, per dare l’esempio, insieme ad altre compagne e altri
compagni di sventura, a una delle forche innalzate in Cours Novilos, a Basse
Terre.
I RISARCIMENTI
Non capisco questo grande dibattito sul tema del risarcimento alle
vittime. Il denaro non può comprare tutto!
Hai perfettamente ragione. Ma si tratta di un dibattito ancora
insufficiente.

Eppure ti ho sentita dire che eri contraria. Non cambierai opinione solo
per contraddirmi!
Non ho mai detto di essere contro i risarcimenti. Ho sempre spiegato,
correndo il rischio di suscitare l’ira delle persone più profondamente
coinvolte, e di venire sommersa di insulti e ignobili accuse – cosa che in
effetti è successa – di essere contraria agli indennizzi finanziari che alcuni
reclamano. E lo sono ancora. Il che non toglie che sia convinta della necessità
di un risarcimento.

La cosa si fa complicata. Spiegati meglio.


Cerchiamo innanzitutto di intenderci sulle parole. Un indennizzo
finanziario individuale significa che si darebbe a ciascuno una somma –
anche se, evidentemente, sarebbe difficile stabilire a chi spetterebbe – come
risarcimento per la sofferenza patita dai suoi antenati. Ammetterai che è
disgustoso. Questo autorizzerebbe chiunque a sostenere che si siano regolati i
conti, che si siano comprati una seconda volta quegli esseri umani, che si
conosca il prezzo della sofferenza umana, e che in definitiva questa non fosse
così grande, se può essere oggetto di una valutazione economica. Viva il
consumo! Tutti quei soldi ripristinerebbero i circuiti commerciali. Avremmo
così realizzato un incremento del potere d’acquisto dei discendenti degli
schiavi, li avremmo integrati meglio nel mercato e, in un sol colpo, trattati
come consumatori e ridotti al silenzio.

Anch’io la penso così. Ma, riflettendoci, con tutto quello che sappiamo
della tratta e della schiavitù, non possiamo contentarci di dire «è un crimine
contro l’umanità» e non sanzionarlo.
No. Alcuni parlano di compensazione. A me, però, sembra una parola
infelice. Presuppone che una pacificazione o una soddisfazione siano
possibili, probabilmente ancora a partire da un gesto di natura finanziaria. La
parola «compensazione» evoca un’uguaglianza, un bilancio, un ristabilimento
dell’equilibrio. Non posso approvarla. Chiarito questo, o almeno spero,
diciamo senza ambiguità che il crimine è ir-re-pa-ra-bi-le. Che qualsiasi
tentativo di valutazione dei danni sarebbe indecente. Ma sarebbe osceno
pretendere che tutto si fermi qui, o sostenere, con aria bigottamente
intimorita, che la rivendicazione dei risarcimenti finanziari sia fuori tema, e
dunque fuori discussione. La radicalità alimenterà altra radicalità, e le parti
saranno trascinate in una gara al rilancio, e verosimilmente in uno scontro
sterile, fino a quando non sarà stabilito il principio di risarcimento. Tutto ciò
determina la decisione di attribuire a questo abominio il solo statuto
concepibile: quello di crimine contro l’umanità. In caso di rifiuto di dialogo,
le voci intransigenti potranno mettere a tacere solo per poco, spero, quella di
coloro che tentano di fare giustizia.

Ma quali sono le alternative al risarcimento? E che cosa intendi per


«risarcimento»? D’altronde, chi deve risarcire cosa a chi?
Queste sono le sole vere domande. Ed è tanto più difficile darvi una
risposta quanto più cerchiamo di capire ciò che è successo. Certo, la qualifica
di crimine e la condanna comportano il problema della pena. Bisogna dire
che la riduzione del tasso d’impunità per i responsabili di crimini molto gravi
rappresenta un considerevole progresso, soprattutto a livello di diritto
internazionale. Hai sicuramente sentito parlare dei tribunali penali
internazionali per l’ex-Jugoslavia, il Ruanda, la Sierra Leone. Questi sono
stati concepiti secondo la stessa logica del Tribunale di Norimberga creato l’8
agosto 1945, il cui statuto definiva per la prima volta, nel suo articolo 6, il
concetto di crimine contro l’umanità, per applicarlo alla Shoah.
Contrariamente alla Corte penale internazionale, che si è data delle missioni
universali, questi tribunali prendono in esame situazioni particolari. Stando
così le cose, penso che solo le persone fisiche possano essere dichiarate
colpevoli, anche quando pervertono gli apparati dello Stato per commettere i
loro misfatti e amplificarne gli effetti.

È dunque impossibile qualunque azione giudiziaria, perché i colpevoli


sono morti?
Centocinquant’anni dopo la soppressione della schiavitù, per ricordare
solo la data della seconda abolizione nelle colonie francesi, non restano più
colpevoli in vita. Ora, io resto fedele al principio democratico della
colpevolezza individuale. Non accetto l’idea dell’ereditarietà della colpa. Dal
mio punto di vista, le possibilità di applicazione di una pena sono esaurite.

Ammetti che comunque è una soluzione pratica per i criminali. È


sufficiente che si nascondano bene e lascino passare il tempo.
Non è così semplice. Dobbiamo ricordarci che il crimine contro l’umanità
è imprescrittibile, il che significa che se ne risponde davanti alla legge fino
alla morte. Questo è previsto dal diritto francese fin dalla legge del 26
dicembre 1964, e nel diritto internazionale dalla Convenzione dell’ONU del
26 novembre 1968. In ogni caso, prendere atto della morte dei colpevoli non
significa che non si debbano vagliare le responsabilità. A questo proposito,
alcuni giuristi preferiscono concentrare la propria attenzione sul tema
dell’imputabilità.

Accidenti, voi adulti amate le parole difficili. È per escluderci e affermare


meglio la vostra autorità?
Queste parole complicate presentano soprattutto il vantaggio di essere
precise. Ti propongo la definizione di Paul Ricœur, secondo la quale
l’imputabilità è «la capacità di un agente umano di lasciarsi attribuire
un’azione buona o malvagia, come se fosse lui stesso il vero autore di
quell’azione».

Mi scuserai, ma non ci vedo più chiaro che nel corridoio che porta alla
settima stanza di Barbablù.
Diciamo, più semplicemente, che l’imputabilità permette di designare
l’autore di un atto, che peraltro non è necessariamente un delitto o un
crimine. È quella che nella lingua di uso comune e di stampo patriarcale,
soprattutto quando si tratta di atti gloriosi, si chiama la paternità dei fatti. Nel
caso della tratta e della schiavitù, bisognerebbe definire il più precisamente
possibile le persone fisiche o giuridiche che hanno direttamente compiuto gli
atti che hanno determinato il destino di persone e popoli, compromettendone
l’esistenza collettiva. Questo vale anche per l’abolizione. Non è solo una
questione di tecnica giuridica. Soltanto un metodo così rigoroso
permetterebbe di cogliere questo dramma in tutte le sue dimensioni, e di
scovare le fonti vive che l’hanno alimentato. Ivi comprese quelle che sono
sopravvissute all’abolizione. Quando il lavoro d’imputazione mette in luce la
responsabilità degli Stati nelle compagnie di monopolio, e quindi nella
gestione delle licenze per la tratta, o nelle politiche fiscali d’incoraggiamento
o di prelievo, consente di ben misurare la vastità di questa attività, di
ricercarne gli effetti sulle politiche pubbliche, di comprenderne il ruolo
nell’organizzazione dei territori coloniali e nell’accumulo del capitale utile
alle madripatrie. Permette inoltre di capire il ruolo svolto da ciascuno dei
protagonisti al rispettivo livello, poiché il ruolo degli intermediari, per quanto
condannabile, non va confuso con quello dei finanziatori e dei principali
beneficiari.

Tutte queste sottigliezze non diminuiscono affatto l’orrore. Servono


piuttosto a confondere le acque.
Aiutano a non perdere il controllo, una volta presa coscienza di ciò che è
stata quella tragedia umana perpetrata impunemente per secoli. Si tratta,
d’altro canto, di un’esigenza di democrazia. Non si pronunciano condanne
alla cieca, anche quando i fatti sono mostruosi.

Hai diritto a voler essere una santa. Ma io non ce la faccio. Sono piena di
rabbia.
Sono lontana dall’essere una santa, e non ne ho assolutamente
l’ambizione. Comprendo la tua rabbia, perché la provo anch’io. Cerco
semplicemente di domare la mia. Perché non mi divori. Perché non mi
consumi. Perché non mi sfinisca in uno stato d’impotente ripetitività, quando
si perpetuano ingiustizie la cui origine risiede nella banalizzazione e nella
giustificazione di questo crimine. Faccio quello che posso per trasformare il
mio risentimento in entusiasmo e combattività. So, per temperamento e per
esperienza, che i sentimenti forti sono il carburante dell’azione. Ho regolato i
miei conti con l’odio, l’ho scacciato dal mio cuore. Ma continuo a cercare di
gestire la mia rabbia e il mio furore, che si risvegliano non appena mi trovo in
presenza di un’ingiustizia, ovunque io sia. E se mi capita spesso di marciare
per le strade a fianco di militanti per la pace, di combattenti per la giustizia, la
libertà, la solidarietà, anche nei Paesi dove sono semplicemente di passaggio,
è perché credo che la lotta contro l’ingiustizia non debba conoscere né
frontiere né tregua. Vedrai: ammetterai la necessità di questo approccio
rigoroso, quando comprenderai che è proprio questo che permette di
determinare l’importante contributo che i neri marrons, gli insorti, i resistenti,
i giusti e tutti i dannati della terra, solidali ed esigenti, hanno dato
all’abolizione della schiavitù. È il solo modo per non privare le vittime di
questa magistrale vittoria, come fanno, anche a loro insaputa, coloro che
riducono l’abolizione a un atto di grandiosa generosità, certo, ma che dopo
tutto è soltanto un decreto. La vera vittoria, quella definitiva, è stata la
distruzione del sistema schiavistico con le diverse e ostinate lotte che sono
state condotte.

Solo la verità è rivoluzionaria!


Oh, la signorina ha letto Mao. Che cultura! In questi tempi di aggressive
logiche di mercato e di fiacche ideologie, è sorprendente!

Intanto, però, la tua imputabilità soddisfa magari la curiosità, ma


impedisce ogni possibile rappresaglia.
Per prima cosa, le rappresaglie non sono un atto di giustizia, ma di
vendetta. E la vendetta si colloca sul piano degli individui. Su quello
dell’azione collettiva, bisogna ricercare la giustizia, la sanzione.

Rimane il fatto che, mentre si pronunciano belle frasi sulla giustizia, gli
assassini sono morti in tranquillità.
M’inchino davanti alla tua impazienza e alla tua esasperazione.
Intendiamoci: non pretendo di offrire una soddisfazione facile e rapida,
sostenendo la necessità di atti di giustizia piuttosto che di operazioni di
rivalsa. La vendetta si accontenta di approssimazioni e produce spesso
enormi danni collaterali. La giustizia esige verità e precisione. E, se non
sempre tranquillizza il cuore, soddisfa lo spirito. Questo, però, lo si impara
col tempo. E sento che ti innervosirò ancora, se ti parlo dei dibattiti sulla
nozione di colpevolezza e responsabilità.

Forza, beviamo fino in fondo l’amaro calice. Non hai scritto tu stessa che
questo crimine era «orfano»?
Non intendevo certo dire che non avesse un autore. Stigmatizzavo il fatto
che, malgrado la sua portata transcontinentale, la sua lunghissima durata, il
numero considerevole di vittime, i metodi spaventosi e le giustificazioni
mostruose, non aveva mai ricevuto un nome! Ma oggi questo risultato è stato
raggiunto. Il crimine ha un nome, è stato qualificato, ha un suo statuto
giuridico. Eppure, non è tutto finito. Rifiutare l’ereditarietà della colpa ed
esigere che l’imputazione di diversi atti sia la più esatta possibile non elimina
le responsabilità.
Se ritorno sulla colpevolezza, è perché desidero affrontare con te questa
questione dal punto di vista del discorso più grave e ignobile, che consiste nel
nascondersi dietro dei testi esistenti all’epoca, per giustificare l’ignominia. La
nozione di colpevolezza si fonda sulla trasgressione di regole giuridiche o
morali. Quando parlavamo dell’organizzazione delle società europee intorno
all’economia della tratta, ti ho illustrato le norme del Codice nero e la morale
della maledizione, oltre a tutte le teorie, brutali o camuffate, sulla superiorità
occidentale. Ancor oggi ci sono persone, alcune delle quali rivestite di
un’autorità ufficiale, che affermano l’esistenza di leggi che autorizzano e
incoraggiano, perfino, il commercio negriero e la pratica della schiavitù, e
sostengono che non vi sia stata trasgressione, adducendo il pretesto che le
leggi lo permettevano e che le coscienze non erano illuminate come oggi.

Non si può neanche dire che la loro consapevolezza al riguardo lo sia.


A dire il vero, queste persone dimostrano il contrario di quanto
affermano, perché il loro livello di consapevolezza si rivela effettivamente
piuttosto sommario. E se possono ancora avanzare simili argomenti, mentre
esercitano responsabilità di alto livello, dopo due Dichiarazioni dei diritti
dell’uomo, dopo tutti i testi internazionali che abbiamo evocato, dopo la
creazione di tribunali internazionali e della Corte penale internazionale, dopo
tante disposizioni legislative, tante strutture militari, sono la prova vivente
che si può nascondere la testa sotto la sabbia, in un mondo in cui perfino la
più modesta associazione rivendica i diritti dell’uomo. Anche quando dei testi
legislativi e uno straordinario armamentario di teorie tentavano di legittimare
delle pratiche barbare, la coscienza umana coltivava già i valori fondamentali
dell’integrità della persona, dell’unicità della condizione umana,
dell’inalienabilità della libertà. Non esiste un darwinismo morale. Non credo
in una sorta di progressione che dall’istinto porti verso il pensiero, prima di
approcciarsi alla solidarietà. Se sono state necessarie tante imposture, balle e
favole, è precisamente perché quelle pretese leggi erano già confusamente
percepite come contrarie al diritto naturale. Già nel I secolo a.C., Publilio
Siro, grande poeta romano nato schiavo, affermava che «là dove non vi è
legge, c’è la coscienza». E là dove le leggi contrastano l’etica, c’è la libertà di
disobbedire. È quello che fa Antigone nella tragedia di Sofocle.

Non è solo disonestà; è anche giocare col fuoco. Dopo la seconda guerra
mondiale, nessuno disse agli ebrei che, in virtù delle leggi di Pétain, il
genocidio era legalizzato.
Ed è un bene che nessuno abbia osato farlo. Al contrario, in virtù
dell’imprescrittibilità del crimine contro l’umanità, Barbie, Touvier e Papon
sono stati chiamati a rispondere dei loro atti, nonostante la loro età molto
avanzata.

Questo modo di trattare noi stessi diversamente è disgustoso. Capisco


che, in mancanza di colpevoli, sia importante individuare dei responsabili.
Ma come si fa, se non si può incriminare nessuno?
Bisogna capire che essere responsabili significa prima di tutto rispondere:
rispondere dei propri atti, ma anche di quello che si è lasciato fare ad altri. E
significa pure interrogare l’ambiente e il quadro storico di questi atti
esecrabili. Da questo punto di vista, gli attuali governi dei Paesi che un tempo
furono delle potenze schiaviste non possono continuare a ignorare tutti i
benefici che le loro economie, in senso molto lato, hanno ricavato dalla tratta
e dalla schiavitù.

Sarà un percorso molto duro!


Se non altro, doloroso. Ma la posta in gioco non è solo materiale. Ne va
del progresso mondiale. Perché nascondersi dietro la letteralità dei testi
giuridici ed ecclesiastici per ripetere che non c’è stato alcun crimine e che
non c’è niente da riparare, in quanto non vi è stata trasgressione di norme
penali, equivale a ridursi a tecnicismi giuridici e a rinunciare all’etica. Agire
così non significa soltanto incoraggiare l’arbitrarietà e la codardia, ma anche
abiurare al coraggio e all’onestà. Significa schierarsi dalla parte dei negrieri e
contro coloro che, anonimi o celebri, mettendo in gioco la propria tranquillità
e in pericolo la propria libertà, hanno instancabilmente denunciato l’orrore.
Significa scegliere Gobineau piuttosto che Schœlcher, Hegel piuttosto che
l’abbé Grégoire. Preferire Rochambeau, che dava i neri in pasto ai suoi cani,
a Toussaint Louverture, che non smise mai di credere nella fraternità tra gli
uomini. Significa assolvere Bonaparte per aver ripristinato la schiavitù e
bandire dalla conoscenza universale Delgrès, Boni, Solitude, Pompée, Ignace,
Fabulé, grandi figure del marronnage o della resistenza. Significa calpestare
la lotta dei Quaccheri e i sacrifici di Harriet Tubman. Appoggiare il Ku Klux
Klan nei suoi macabri ideali. Allearsi con gli spietati padroni contro i neri
marrons. Stare dalla parte degli avidi armatori contro gli abitanti di
Champagney, gli operai di Parigi, i canuts42 di Lione, gli abitanti di
Barbechat e tutti coloro che furono solidali con delle insurrezioni.
Le antiche potenze schiavistiche non possono assolutamente negare la
propria responsabilità nella tratta e nella schiavitù, come peraltro nella
modalità di uscita dal sistema schiavistico.

Che vuol dire questo?


Si tratta delle norme che si sono affermate dopo l’abolizione. I padroni, e
loro soltanto, hanno beneficiato di una legge sugli indennizzi che valutava la
loro perdita in base all’età, alla statura, alla capacità lavorativa e al numero di
schiavi che possedevano come «beni mobili e bestie da soma» nelle loro
piantagioni. Quella stessa legge li costringeva a investire un ottavo del valore
di tale indennizzo nel capitale di banche di nuova creazione. In altre parole, i
poteri pubblici hanno fatto in modo non solo di mantenere il livello di reddito
dei padroni di un tempo, non solo di avviare a beneficio di questi un processo
di accumulo di capitale, ma anche di garantir loro, e quasi loro malgrado,
nonostante le abitudini lucrative che già avevano, i mezzi per controllare
durevolmente il capitale finanziario. Soprattutto considerando il fatto che
questo controllo delle banche andava ad aggiungersi al mantenimento di un
patrimonio proveniente dall’accaparramento delle terre, l’unica forma di
accesso alla ricchezza fondiaria al tempo delle colonie. La modalità di uscita
dal sistema schiavistico ha a lungo determinato la sorte di alcuni, i
discendenti dei padroni: la proprietà della terra, l’accesso al capitale
finanziario, i mezzi per aprirsi ad altre attività economiche. Altri, invece, i
discendenti degli schiavi, hanno conosciuto l’indigenza che riduce alla mercé
dei potenti, che condanna al taglio della canna da zucchero, e quindi alla
disoccupazione e al reddito minimo d’inserimento.

Si direbbe una fatalità!


Per fortuna ci sono state eccezioni a questa regola. Così, al prezzo di una
volontà feroce, alcuni di questi lavoratori hanno mandato i propri figli a
scuola, l’ascensore repubblicano. Da qui sono emerse una élite e una classe
media, ancora esposte alle ingiustizie e alle disuguaglianze, ma decisamente
fuori dallo schema binario che contrapponeva i padroni delle piantagioni e
delle fabbriche da una parte, e gli operai illetterati e senza risorse dall’altra.
Nella Guyana e su tutto il suo altopiano, dove la foresta amazzonica fu
complice nell’offrire protezione ai marrons, gli ultimi schiavi ancora presenti
nelle piantagioni al momento dell’abolizione si affrettarono ad allontanarsi
nella foresta per coltivare per conto proprio degli abattis43. In questo caso fu
lo Stato a comportarsi come un predatore fondiario, servendosi dei propri
poteri «regali». Si tratta di poteri che lo Stato non può delegare, ma
soprattutto che può impiegare anche con la sola giustificazione della ragion di
Stato.
Per fortuna i popoli hanno spesso un temperamento ribelle. La loro
vigilanza e la loro capacità di organizzarsi per protestare costituiscono dei
baluardi difensivi contro gli eccessi. Pur sapendo, tuttavia, che i poteri a volte
hanno un’incalcolabile capacità dissimulatrice. È interessante notare che
«regale» deriva dal latino regalis, «reale», e che in origine, vale a dire
nell’Ancien Régime, si chiamava così il diritto del re a percepire le entrate
dei vescovi vacanti. Probabilmente sai che fino all’abrogazione, nel 1905,
dell’ultimo Concordato da parte del Parlamento francese, la Chiesa e lo Stato
si confondevano o si intendevano precisamente mediante questi concordati.
Vedi, la separazione tra Chiesa e Stato, potere temporale e potere spirituale,
ha appena un secolo.

E fate come se non fosse cambiato nulla da allora!


Io non mi sento personalmente coinvolta. Passo il mio tempo a spiegare
che la Storia è una faccenda di uomini, e che, così come questi la fanno,
possono anche disfarla. Le istituzioni e le diverse pratiche adottate sono
categorie storiche. Hanno una precisa collocazione cronologica. Sono
variabili nello spazio e confinate nel tempo. Ogni generazione ha il diritto di
disfare il mondo e di ricostruirlo secondo i suoi sogni. A meno di non avere
uno spirito passivo.

A buon intenditor, poche parole. Allora, istruiscimi, perché io non ho uno


spirito passivo. Lo Stato, dunque, ha usato i suoi poteri regali per
accaparrarsi le terre che prima appartenevano ai padroni degli schiavi, è
così?
Più o meno. Nel 1825, con delle ordinanze regie, si attribuì la totalità
delle terre rimaste vacanti e senza proprietari. Era facile trovare abbondanza
di terreni in tali condizioni, là dove si era proceduto a decimare o respingere i
popoli amerindi – che, d’altro canto, rifiutavano la proprietà della terra – e
poi brutalizzato i popoli africani e allontanato i Creoli, prima di installare dei
coloni a cui venivano offerte immense concessioni forestali o agricole. E tutto
questo su un territorio in cui non esisteva nessuna forma di registrazione
catastale. Così vennero confiscate le terre, per essere quindi arbitrariamente
attribuite a coloro che lo Stato rendeva dei propri alleati naturali, o per restare
nella disponibilità dello Stato stesso, che opponeva la propria supremazia ai
diritti dei cittadini.

Ovviamente, senza terra non si può costruire nulla.


Esatto, e c’è di peggio. L’ultimo decreto francese di abolizione della
schiavitù è oggetto di un autentico ribaltamento dei fatti. Spesso si dimentica
di prendere in considerazione gli effetti della prima abolizione, che,
d’altronde, riconosceva che i marrons e gli schiavi insorti si erano liberati da
soli. Allo stesso modo, si trascura il fatto che la colonia di Santo Domingo,
pure chiamata Hispaniola, considerata la «perla delle Antille», proclamò la
propria indipendenza nel 1804, al termine di tredici anni di guerra di
liberazione. Ossia, quarantaquattro anni prima del decreto del 27 aprile 1848.
Ebbene, che cosa successe, esattamente? La Francia imperiale non accettò
che i generali Toussaint Louverture, Dessalines, Pétion e Christophe
facessero battere in ritirata i valorosi soldati di Napoleone. Tentò più volte di
riprendere la colonia, obbligando la giovane Repubblica di Haiti a spendere
somme colossali nella costruzione di fortezze e cittadelle, onde evitare una
disfatta e il ripristino della schiavitù. La vecchia madrepatria francese impose
un embargo che le permise di esigere il pagamento di un’indennità che Luigi
Filippo, re di Francia, giustificava sostenendo che «rappresentava in misura
molto ridotta quello che i coloni avevano perduto, non il prezzo
dell’indipendenza di Haiti, ma un diritto incontestabile». Ecco: il re, pur
considerato favorevole alle idee rivoluzionarie, riteneva che non si potesse
contestare il diritto al risarcimento per i coloni che avevano perduto i loro
schiavi, le terre da loro confiscate e le opportunità per perseguire il proprio
arricchimento. E non è tutto. Il 5 luglio 1825, ossia ventun anni dopo
l’indipendenza haitiana, conquistata valorosamente e a caro prezzo, la
monarchia francese, guidata da Carlo X, riconosceva la nuova repubblica in
termini inimmaginabili, ossia «[concedendo] agli attuali abitanti della parte
francese dell’isola di Santo Domingo la piena e completa indipendenza del
proprio governo».

La parte francese?
Sì. La notte tra il 22 e il 23 agosto 1791, nella foresta del Bois Caïman, si
tenne una cerimonia in cui gli schiavi giurarono di liberare la colonia e di
dare, se necessario, la propria vita per la soppressione della schiavitù. Iniziò
così l’insurrezione che approdò all’indipendenza nel gennaio 1804. A partire
da questo momento, i vecchi padroni e coloni amministrativi si riunirono
nella parte orientale dell’isola di Hispaniola, che diventò la Repubblica
Dominicana, ispanofona. La parte occidentale, occupata dagli antichi schiavi
e dai marrons, guidati dai loro comandanti e designata come parte francese,
ma in realtà di lingua creola, divenne Haiti – anche se il nome amerindio era
Anacaona. E fu a questa parte, libera da oltre vent’anni, che il re di Francia
«concesse» l’indipendenza!

Quando racconti, mi sbalordisci!


Aspetta, gioiello mio. Il meglio deve ancora venire. In cambio di questo
condiscendente riconoscimento, Haiti doveva impegnarsi a versare alla
Francia centocinquanta milioni di franchi-oro in cinque anni, ossia trenta
milioni l’anno, per risarcire i coloni. Il governo haitiano, il cui presidente si
chiamava Boyer, accettò. Al tempo stesso, acconsentì al dimezzamento dei
diritti di dogana sull’ingresso dei prodotti francesi.

In altri termini, Haiti contraeva un debito e perdeva delle entrate.


As you say, dear44. Soprattutto considerando che chi operava questo
import-export erano francesi, tedeschi, spagnoli o americani. E, per valutare
bene la portata di questo imbroglio, immagina che il bilancio annuale della
Francia del tempo ammontava a trenta milioni di franchi. Ora, si chiedeva ai
novecentomila abitanti di Haiti di provvedere, per cinque anni, alla totalità
dei bisogni di questa grande nazione di ventisei milioni di persone.
Carlo X era un grande profittatore, e Boyer un vero «tèbè»45!
E considera che quello scherzo non durò solo cinque anni. Haiti,
strangolata, dovette avventurarsi in pericolose acrobazie per ricevere in
prestito le somme necessarie a un tasso inizialmente del 20%, quindi del
30%. In seguito, contrasse un nuovo prestito per rimborsare il primo. Così
s’innescò la spirale di un debito estero dalla profondità abissale. Un secolo e
mezzo dopo, la Repubblica di Haiti, esangue, aveva versato e rimborsato
l’80% del prestito più dei congrui interessi. Il Tesoro pubblico haitiano si era
indebitato con grandi banche come Laffitte, Rothschild, e successivamente la
Banque de l’Union parisienne e la City National Bank. I capitalismi francese,
tedesco e americano si davano il cambio per fare a pezzi la preda. Erano i
contadini haitiani, con le tasse sull’esportazione del caffè a cui erano soggetti,
a fornire allo Stato il denaro necessario a questi rimborsi.

È da lì che vengono i famosi debiti del Terzo mondo?


Haiti è un caso particolare, ma l’imbroglio è dappertutto lo stesso. Dopo
aver confiscato le terre e spossessato gli abitanti di quei paesi – quando non
venivano semplicemente massacrati – dopo aver sostituito le colture
alimentari con coltivazioni commerciali necessarie ai mercati europei, le
vecchie madrepatrie misero in atto dei dispositivi di prestito il cui scopo
consisteva nel rendere solvibili le antiche colonie divenute indipendenti,
affinché fossero in grado di acquistare i beni, i prodotti e i servizi provenienti
dall’Europa. In breve, lo scopo era organizzare la loro dipendenza finanziaria,
economica e, in definitiva, politica, rendendo l’indipendenza istituzionale
soltanto formale. Per Haiti, poi, la storia è ancora più triste, visto che
l’indipendenza fu conquistata con la lotta armata, dopo che gli accordi presi
erano stati violati.

Ma è mostruoso! Come sarà possibile riprendersi da tutto questo?


Annullando il debito dei paesi del terzo mondo.

È così che comincerebbe il processo di risarcimento?


No. Il debito è una truffa in sé da abolire, anche nei Paesi che non hanno
subito la schiavitù. Pure loro affondano sotto il suo peso, e soprattutto sotto
quello dei suoi interessi, che i finanziatori europei e nordamericani chiamano
pudicamente il servizio del debito – servizio decisamente considerevole, visti
i tassi praticati, che più vengono rimborsati, più rimangono da rimborsare.
Anche là dove sia stato restituito più del capitale prestato, gli interessi sono
tali che i Paesi debitori non arrivano mai veramente a scalfire la somma
inizialmente concessa. Questo sistema criminale e truffaldino priva intere
generazioni di istruzione, di cure, di un alloggio e della speranza.
E questo vale per tutti i Paesi, anche se la situazione di Haiti è così
eccessiva da risultare perfino caricaturale. Bisogna dire che questo Paese ne
ha viste, di cose! Ha sostenuto la dinastia dei Duvalier e la sua tristemente
nota milizia, i cosiddetti «tontons macoutes». L’esercito americano occupò
questa metà dell’isola dal 1915 al 1935, in nome della dottrina di Monroe,
l’America agli americani, che fece dei Caraibi e dell’America centrale il
cortile posteriore degli Stati Uniti. Il giorno stesso dello sbarco, il 15
dicembre 1914, un’unità di marines s’impossessò di un milione di dollari in
oro confiscati d’autorità alla banca nazionale haitiana e trasferiti subito negli
Stati Uniti tramite la cannoniera Machias, che aveva trasportato quei soldati
da Miami alla rada di Port-au-Prince.
Negli anni Settanta del secolo scorso, con il fallace pretesto di una
supposta febbre suina, le autorità americane chiusero le proprie frontiere
all’importazione di maiale haitiano, esigendo che venisse abbattuto tutto il
bestiame sull’insieme del territorio, ed eliminando così quella carne, che
aveva l’eccellente difetto di essere molto competitiva. Da allora gli haitiani
importano e consumano carne di maiale statunitense.

Niente male!… E gli Stati Uniti fanno cose simili?


Sì, questo e ancor peggio. Ma non dimenticare che gli Stati Uniti sono
anche la patria di Langston Hughes46 e Chester Himes47, di James
Baldwin48 e Malcolm X, di Martin Luther King e Spike Lee, di Carl Lewis,
Miles Davis e Angela Davis. E, ancora, sono la patria e il terreno di lotta di
John Brown49, William Lloyd Garrison50, Abraham Lincoln51 e altri
bianchi, quelli del NAACP52.

Ma è anche quella delle leggi di segregazione Jim Crow53.


Ma certo. Però è anche quella delle Pantere Nere e di Whitney Houston.

E sono pure la patria del Ku Klux Klan e di John Edgar Hoover. Ma


restiamo ancora tra le miserie del mondo. Non ho ben compreso il nesso tra
tutto quello che mi hai spiegato su Haiti e il dibattito sul risarcimento. A
parte il fatto che i vecchi schiavisti richiesero di essere indennizzati per la
perdita della loro merce umana – ma questo non è certo un esempio da
seguire.
Non è solamente sul terreno della stima del valore commerciale delle
persone che dobbiamo collocare il dibattito sul risarcimento. Poiché abbiamo
ricordato come il crimine perpetrato non possa essere risarcito, mi pare di
buon senso preoccuparsi un po’ di ciò che converrebbe fare per correggerne,
se non cancellarne, le conseguenze ancora operative nel produrre ingiustizie e
disuguaglianze.

Dicevi però che non c’erano né colpevoli né responsabili.


Infatti. Ma i governi attuali hanno la responsabilità delle società di oggi.
Non possono far finta di ignorare che le città atlantiche devono la loro
prosperità a quell’ignobile commercio, e che la parte di mondo che fu
massacrata in nome di Dio e del re, dissanguata dalla tratta, abbrutita dalla
schiavitù, saccheggiata dai commerci e disorientata dall’alienazione, ha
partecipato in modo significativo all’accumulo di capitale in Europa.

Che cos’è l’accumulo del capitale, visto che è la seconda volta che ne
parli?
È il processo che consiste nel raccogliere in uno stesso luogo, in un tempo
ridotto, le somme necessarie per finanziare le strutture e i mezzi per farle
prosperare. Si tratta dunque di trasformare il denaro liquido in fondi
d’investimento. In nessun momento della storia umana l’accumulo di capitale
è stato fatto senza saccheggi, senza violenza o senza un costante intervento
dello Stato. I processi più efficaci e più duraturi hanno coniugato queste tre
condizioni. In altre parole, le ricchezze tratte dal saccheggio delle risorse
minerarie dell’Africa e dell’America, dal commercio negriero, dalla vendita
degli schiavi e dal loro lavoro gratuito, nonché dall’apertura di sbocchi per i
prodotti europei, hanno assicurato all’Europa i mezzi per sviluppare
l’industria, ma anche la ricerca, le scienze e le tecnologie, e per finanziare la
conversione delle economie feudali in economie agricole e produttive, e
quindi in economie industriali diversificate.

E come fare per recuperare tutto questo?


Non si tratta di recuperarlo. Perché non saremmo in grado di svolgere la
parte del genio europeo, in questa combinazione che comprende il denaro, il
sudore, la coercizione, le circostanze favorevoli o nefaste e l’intelligenza.
D’altronde, quel genio europeo si è dimostrato incostante, e i suoi risultati
anche, come testimoniano le sofferenze dei poveri e degli esclusi in Europa,
contadini, servi della gleba, operai, vagabondi, prostitute e altri dannati.

Che facciamo allora, rinunciamo?


No. Spieghiamo che le politiche pubbliche devono mirare all’obiettivo
globale, che consiste nel correggere gli effetti delle disuguaglianze radicate
nella Storia, e che ancora producono effetti.

Che cosa sono le politiche pubbliche?


Sono l’insieme delle azioni governative in un determinato settore. Per
esempio, la politica pubblica dei trasporti consiste nel decidere quale posto
debba essere riservato ai trasporti collettivi terrestri – metro, autobus, treno –
che posto spetti all’auto, alla bicicletta, ai pattini, quale invece all’aereo, e di
conseguenza nel prendere delle decisioni.
Il risarcimento presuppone delle politiche pubbliche mirate, che si
aggiungono agli obblighi correnti. Parliamo della politica educativa.
Nell’ambito che ci interessa, essa si darebbe come finalità la restituzione ai
bambini, e prima ancora agli insegnanti, di quei secoli di storia sepolti sotto
una cappa di silenzio. Si attribuirebbe come obiettivo permettere che questa
storia svolga la sua opera di informazione, di educazione civica, di
mobilizzazione delle coscienze per una cultura della diversità, della fraternità,
della pace e della resistenza a tutte le forme di oppressione. Si darebbe i
mezzi per incoraggiare la ricerca e l’elaborazione di opere destinate al grande
pubblico e di manuali scolastici relativi a questo periodo. Contribuirebbe a
dare un nome alle cose. Dichiarare il crimine, qualificarlo, attribuirgli uno
statuto giuridico, ricordare come sia imprescrittibile, porvi rimedio. Di questo
si occupa l’articolo primo della legge. Dare un nome ai fatti, qualificarli, è
anche un modo per riparare. Ma la legge non lo fa abbastanza. Essa non ha
osato conservare la parola «deportazione». Il ministero della Pubblica
istruzione deve avere la funzione di rimediare a quello che la legge ha
permesso che sparisse. Per quanto la legge e l’insegnamento non abbiano la
stessa missione.

Ma concretamente, per noi a scuola, tutto questo che cosa cambierebbe?


Tutto questo presuppone che il ministero della Pubblica istruzione capisca
che questa è la storia della Francia. Che i piccoli francesi devono impararla,
come d’altronde tutti i bambini del mondo, perché è la storia della prima
globalizzazione. È la prima volta che più continenti stabiliscono tra loro delle
relazioni durature. Il contatto si realizza sotto l’effetto della scioccante
violenza della tratta e della schiavitù. Legherà il capitalismo europeo in cerca
di mercati al continente africano e a quello americano, ma anche ai Paesi che
si affacciano sull’Oceano indiano. Ben presto anche l’Asia vi si legherà
mediante il ricorso ai coolies, nome peggiorativo attribuito ai lavoratori
indiani, e agli annamiti54, utilizzati per sostituire gli schiavi nelle
piantagioni. È dunque la storia dell’economia delle piantagioni, ma anche di
competenze che si sviluppano in un’economia di sopravvivenza e nell’ambito
del marronnage. È la storia della navigazione, delle religioni, delle arti e
delle culture, delle tecniche agrarie, delle varie forme di artigianato e dei
mestieri.
Si tratta di dare a questa storia tutta la sua profondità e la sua densità. Per
esempio, quando imparate le imprese di Napoleone Bonaparte, imperatore di
Francia, vi dev’essere anche spiegato che ripristinò la schiavitù nelle colonie
francesi per soddisfare le rivendicazioni dei proprietari delle piantagioni.
Quando vi parlano dei fasti di Luigi XIV, il Re Sole, a Versailles, vi devono
anche insegnare che promulgò il Codice nero, che dichiarava gli schiavi
«beni mobili» e autorizzava i padroni a infliggere loro sevizie corporali –
peraltro, la legge prevedeva la tortura, la mutilazione, l’esecuzione degli
schiavi che sceglievano il marronnage per abbandonare l’inferno delle
piantagioni. Quando iniziate a conoscere l’opera di Colbert, grande
economista e fondatore dell’Accademia delle scienze, vi devono anche
spiegare che fu lui a volere il Codice nero, che enunciò un divieto assoluto di
attività industriali, per evitare che la concorrenza dell’economia coloniale
avesse l’effetto di indebolire le manifatture di Stato che lui aveva creato.
Proclamando che «neppure un chiodo deve uscire dalle colonie», ammetteva
l’importazione di prodotti coloniali grezzi, ma non la loro trasformazione. E
devono anche spiegarvi che lo stesso Colbert ispirò la Charte de l’Exclusif
colonial55, risultante dall’editto di Fontainebleau, che vietava ai coloni ogni
commercio al di fuori degli scambi con la madrepatria. Quando studiate la
Rivoluzione francese, vi devono dire che essa non osò abolire la schiavitù, e
che fu soltanto la Convenzione a farlo, cinque anni più tardi, prima che
Napoleone, dopo altri otto anni, la reintroducesse.
La schiavitù attraversa la storia della Francia, di tutta l’Europa atlantica,
delle Americhe, dei Caraibi, dell’oceano Indiano, dell’Africa del Nord e dei
Paesi a sud del Sahara. Ha impregnato di sé numerosi episodi della vita
pubblica. Sai che è per sostenere la cultura della barbabietola dalla
concorrenza della canna da zucchero che delle misure di sostegno
all’agricoltura francese permisero lo sviluppo delle acqueviti del regno?
Ancor oggi, le divergenze d’interessi tra le colture della canna da zucchero e
della barbabietola per l’industria zuccheriera danno adito a dispute che a
volte vengono regolate davanti alla Corte di giustizia europea, a
dimostrazione dell’attualità delle tracce di questi strascichi del periodo
coloniale. È anche seguendo questo modello e questa logica che furono
costruite le convenzioni di «cooperazione», al momento della conquista
dell’indipendenza da parte dei Paesi africani: alcune parti del mercato e delle
sovvenzioni vennero riservate alle sole derrate che non facevano concorrenza
ai Paesi europei e alle risorse preziose, a condizione che, come al tempo di
Colbert, rimanessero allo stato grezzo (minerali, metalli, legni tropicali),
essendo indispensabili alle stesse economie europee.

Non sarà questo a rendere i corsi di storia necessariamente più


gradevoli!
Questo dipenderà dalle forme d’insegnamento e dalla qualità dei manuali
scolastici. Sono sicura che i vostri professori sapranno suscitare la vostra
curiosità, sollecitare il vostro senso critico, il vostro spirito d’analisi,
mostrandovi che su questi argomenti c’è ancora molto da scoprire, da
comprendere, da dire. Da qui la necessità di incoraggiare la ricerca in tutte le
discipline, con delle borse di studio, delle agevolazioni di accesso alle fonti,
ma soprattutto assicurandosi che queste tematiche diventino materie nobili
nelle università. Sono queste le raccomandazioni dell’articolo 2 della legge
del 2001 che riconosce la tratta e la schiavitù come crimine contro l’umanità.
Se ne possono d’altronde riscontrare degli effetti in alcuni lavori di livello
universitario.

Ma questo risarcimento riguarda soltanto la preparazione degli allievi e


degli studenti.
E la loro formazione di cittadini. È la promessa che saranno meglio
preparati all’alterità, vale a dire all’incontro con coloro che sono diversi per
aspetto, lingua, accento, cultura, credenze, esperienza, abitudini alimentari, di
abbigliamento, festive, affettive e altro ancora. Ma è certamente vero che
questo non basta. Il risarcimento deve decisamente investire il campo
culturale. La coscienza dei popoli è spesso sostenuta dalle loro minoranze.
Tra noi minoranze, gli artisti hanno ostinatamente conservato, coltivato,
arricchito la nostra memoria, le nostre conoscenze, le nostre fantasie, i nostri
miti, le nostre leggende, le nostre glorie e i nostri difetti, i nostri spaventi e i
nostri misteri, facendosi i depositari della nostra singolarità. L’hanno inserita
nel testo dei racconti, nella magia dei romanzi, nella profondità dei saggi,
nell’incanto delle musiche, nell’eternità della pietra scolpita, nel fascino dei
dipinti, nel sortilegio delle danze, nella fantasia dei canti, nell’alchimia dei
cibi. Lottano soli e duramente. Una politica culturale deve permettere loro di
consacrarsi interamente all’espressione del proprio talento, smettendo di
svolgere, per ragioni di puro mantenimento, le attività di gestori,
organizzatori, promotori e agenti, relativamente alla loro opera. Una simile
politica culturale deve inoltre dedicarsi a restituire a certi luoghi il loro
carattere sacro. Deve rivisitare gli ambienti della nostra vita quotidiana per
inserire nello spazio i ricordi degli episodi gloriosi o tragici, intitolare le
strade ai nostri eroi, offrirci riparo sotto l’ombra tutelare di coloro il cui
coraggio ha intessuto la nostra attuale libertà.

È esaltante. Ma la cultura purtroppo non dà da mangiare agli artisti.


Eppure, converrai che è vitale. Prova a immaginare se, quando hai
iniziato a interessarti alla musica, ti avessi impedito di ascoltare le Spice Girls
o Céline Dion. Ridi? Oggi capisci la mia disperazione di allora, e la mia
testardaggine nell’iniziarti al jazz, allo steel band56 o alla salsa. E anche se
adesso non stravedi che per il reggae e il kasé-kô, sai apprezzare dei canti
tradizionali, un disco d’opera o dei blues di Barbara Hendricks – solamente
un assaggio di tanto in tanto, d’accordo – una bossa nova o un calipso.
Tuttavia, siamo d’accordo che ci sono pure da risistemare ambiti più
materiali. Tutto quello che ti ho spiegato sulla confisca delle terre sottolinea
la necessità di politiche fondiarie e agrarie che riducano le ingiustizie, ove
non riescano a eliminarle. Non si tratta di incitare alla guerra civile, ma di
evitare che un giorno essa appaia come una via legittima; e che si possano
trovare argomenti, sia pur discutibili, per spiegarla, se non giustificarla. È
responsabilità dei poteri pubblici prendere atto delle disuguaglianze radicate
nell’ingiustizia passata e suscitare dialogo, concertazione, compromesso e
consenso per sradicarle. Là dove lo Stato si è impossessato di propria
iniziativa del patrimonio fondiario, deve fare in modo di restituire le terre a
condizioni eque e fruttuose.

Per evitare quello che succede nello Zimbabwe?


Appunto. E anche per evitare che i rivoltosi finiscano per prendere per
eroi delle figure moralmente tanto misere da rappresentare solo il
capovolgimento di un mondo in bianco e nero. Una via più stimolante emerge
dalle parole di Bob Marley: «To divide and rule could only tear us apart, In
every man’s chest there beats a heart»57. La responsabilità è solamente
interna allo Zimbabwe. Alla confisca delle terre durante il periodo coloniale
si aggiungono gli accordi internazionali, che fanno sprofondare i Paesi
cosiddetti del Sud in una dipendenza che li impoverisce sempre più. Il
risarcimento presuppone anche che siano riconsiderati i rapporti di forza
ereditati dal periodo coloniale, che, come vedremo, è figlio del periodo
schiavista. Questi rapporti, camuffati sotto le sembianze di convenzioni
internazionali, devono essere rivisti, e non solo ogni cinque anni, come
avviene attualmente, come se si verificasse che i Paesi africani, caraibici e del
Pacifico non sono totalmente asfissiati, e che i cadaveri si muovono ancora.
Devono essere rivisti nella loro stessa logica. Sono stati instaurati sulla base
della dialettica indipendenza-indebitamento-dipendenza. Questi Paesi non
possono che impantanarsi nella miseria, nella povertà, nella malattia,
nell’analfabetismo, nella violenza. E le prescrizioni di istituzioni come la
Banca mondiale o il Fondo monetario internazionale, con i loro programmi di
adeguamento strutturale, sono servite soltanto a sacrificare i più vulnerabili
senza toccare i responsabili di saccheggi, sperperi e corruzione.

Ma il saccheggio viene comunque compiuto con delle complicità interne!


Ahimè, sì.

E tu, malgrado tutto, dici che è necessario azzerare il debito di questi


Paesi?
Assolutamente sì. Senza riserve. Il debito è una truffa indifendibile. Come
ti ho detto, la maggior parte dei Paesi l’ha ripagato con interessi che
superavano di molte volte l’ammontare del capitale prestato. Il debito copre
ignobili pratiche usurarie. Cosciente come sono dell’inettitudine di certi
governi, e in molti casi della loro colpevole connivenza, ho delle remore, ma
nessuna riserva. D’altro canto, questi governi sono spesso il risultato di
accordi, talvolta omicidi in quanto responsabili di massacri o assassinii
mirati, tra le antiche potenze coloniali e dei complici avidi e senza ideali,
come provano sempre più documenti desecretati. Bisogna dunque annullare il
debito, ma allo stesso tempo sostenere coloro che lottano per la giustizia
sociale e il progresso, e agire perché cessi l’impunità per le appropriazioni
indebite di denaro pubblico, facendola finita con l’incompetenza al potere,
che ipoteca l’avvenire delle nuove generazioni.

Dimmi un po’, c’è un aspetto del risarcimento che sembri non voler mai
affrontare. Eppure se ne parla molto, soprattutto negli Stati Uniti. Spesso
sento dire che bisognerebbe che fossero i discendenti degli schiavisti a
indennizzare quelli degli schiavi.
È un possibile approccio al tema del risarcimento. È vero che prevale
negli Stati Uniti, dove la cultura della risoluzione dei conflitti è di stampo
eminentemente materialistico e giudiziario. Peraltro, in questo Paese ci sono
dei processi in corso, in particolare contro alcune compagnie assicurative e
alcune banche, per reclamare dei risarcimenti danni e degli interessi sulle
fortune costruite a partire dai proventi della tratta. I sostenitori di questa
concezione del risarcimento hanno seri argomenti. Affermano che coloro che
discettano con tanta arroganza per definire il crimine, coloro che ci escludono
da ogni dibattito sui torti inflitti, i diritti delle vittime, la fondatezza dei
risarcimenti, diventano sensibili alle grandi cause solo quando queste costano
loro qualcosa. Ricordano che l’Olocausto si verificò durante la seconda
guerra mondiale, che lo Stato d’Israele venne creato solamente nel 1948 con
una risoluzione delle Nazioni Unite – che peraltro, al tempo stesso, costituiva
uno Stato palestinese – e che però, nel 1952, la Germania e l’Austria
versarono rispettivamente allo Stato d’Israele 822 e 25 milioni di dollari,
senza contare la restituzione delle somme depositate su alcuni conti bancari e
di opere d’arte ai proprietari che poterono essere identificati. A proposito, ti
invito a non dimenticare mai che nell’articolo primo del Codice nero del
1685, Luigi, per grazia di Dio re di Francia e di Navarra, ordina di cacciare
dalle isole coloniali, e in tre mesi, «tutti i Giudei che vi hanno stabilito la
propria residenza […], pena la confisca del corpo e dei beni». Anche la loro
persecuzione viene da lontano.

Ma hanno potuto essere indennizzati perché c’erano dei sopravvissuti. E


non si può sostenere che sia impossibile punire i colpevoli perché sono tutti
morti, e al tempo stesso cercare degli eredi viventi per versare loro delle
indennità.
A questo i sostenitori di questa tesi ribattono che, come discendenti delle
vittime, loro subiscono ancora le conseguenze dei saccheggi, delle sevizie,
dei pregiudizi, dei divieti e delle discriminazioni direttamente ispirati dal
periodo schiavista.

Il che non è falso, considerando tutto quello che mi hai spiegato.


Aggiungono poi che gli Stati Uniti hanno risarcito gli americani di origine
giapponese internati dal governo di Roosevelt dopo Pearl Harbour. E
ricordano che le persone mandate in Germania e in Polonia durante la guerra
per il servizio di lavoro obbligatorio ricevono delle indennità versate dalle
imprese interessate. E fanno anche riferimento alle indennità pagate dal
Giappone alla Corea del Sud come risarcimento per i crimini perpetrati
durante l’invasione e l’occupazione.

È come per gli ebrei. In ogni caso, dei sopravvissuti ci sono. In certi casi,
le somme vengono versate agli Stati, in altri alle persone, e a volte tanto agli
uni quanto alle altre. È una cosa complicata.
Sì, ma più è complicata, più rivela l’immensità e l’orrore del sistema
schiavistico. Dal punto di vista dei traffici e della mobilità dei coloni e del
«bestiame» di schiavi, il sistema praticava la porosità delle frontiere. Da qui
la dispersione. Coloro che stanno dalla parte dei potenziali indennizzatori ben
volentieri chiedono se sarà necessario indennizzare tanto i neri quanto i
meticci, considerando che questi ultimi discendono al tempo stesso dagli
schiavi e dai padroni. Domandano se bisognerà versare i risarcimenti alle
persone o agli Stati. E, nei Paesi in cui la popolazione di origine africana è
minoritaria, che si dovrà fare? Per non parlare di altre questioni che
apparentemente sono pertinenti, ma che in effetti sono inappropriate. È
alquanto bizzarro notare che, contrariamente alla Francia e alla maggior parte
delle antiche potenze schiaviste, il governo degli Stati Uniti riconobbe in
qualche modo agli schiavi di un tempo un diritto al risarcimento,
promettendo a ciascuno una mula e quaranta acri58 di terra. Era una cosa
ridicola, in confronto alle vaste proprietà fondiarie e alle ricchezze che furono
lasciate ai vecchi padroni. Inoltre, il «capitale iniziale» concesso dalla legge
in realtà non fu neanche attribuito. Era una decisione del generale Sherman,
che il presidente Andrew Johnson si sarebbe premurato di annullare, lui che
avrebbe anche opposto il veto alla legge sui risarcimenti proposta dal
deputato Thaddeus Stevens. Tuttavia, il fatto di quantificarlo stabiliva il
principio della necessità del risarcimento. Purtroppo, mancò la forte pressione
morale che avrebbe potuto costringere il governo a rispettare quell’impegno.
È vero che tutto questo avveniva in un contesto in cui una grande mente
come Alexis de Tocqueville, sia pur fortemente legato alla libertà e alla
democrazia, affermava che «se i Negri hanno il diritto di essere liberi, i
coloni hanno il diritto di non essere rovinati dalla libertà dei Negri». Quanto
all’Europa, essa si distinse con leggi che riconoscevano un indennizzo ai
vecchi padroni; in Gran Bretagna, in Svezia, nei Paesi Bassi e in Francia, tali
leggi furono adottate tra il 1834 e il 1863. Negli Stati Uniti, delle iniziative
parlamentari si sarebbero susseguite quasi ininterrottamente fino al 1915 per
reclamare e tentare di determinare i risarcimenti dovuti a coloro che erano
stati schiavi. Martin Luther King sarebbe tornato sul punto nel 1964! Un
senatore, John Conyers, avrebbe quindi raccolto il testimone nel 1989. E
anche Desmond Tutu avrebbe preso posizione a Durban nel 2001.

Perché rimani contraria a questa forma di risarcimento, nonostante tutti


questi argomenti?
Perché non autorizzo nessuno a calcolare la sofferenza dei miei antenati e
a dirmi: «Ecco, valevano tanto, firmi qui per il saldo». Sento montarmi dentro
degli istinti cannibali, e sono pronta a mordere a sangue chi si crederà
autorizzato a trattarmi così.

Scusa, questo può essere molto dignitoso, ma è poco efficace. Dopo i


danni che mi hai tu stessa descritto, questo rifiuto è un modo per lasciar
perdurare le disuguaglianze.
Il rifiuto di un indennizzo finanziario non significa affatto che io ritenga
che gli attuali governi, che hanno ereditato i beni e gli utili della tratta e della
schiavitù, siano sollevati da qualunque debito. Dico semplicemente che non
sarà con la mia complicità che compreranno una seconda volta i miei avi. Mi
sembra proprio il modo più inappropriato di sbarazzarsi del problema.
Ritengo che l’esigenza di politiche pubbliche mirate, come te le ho descritte,
possa con maggior probabilità evidenziare le disuguaglianze di una società
nella quale le vittime hanno così spesso gli stessi antenati. E queste politiche
pubbliche avranno il loro costo! Sono disonesti o ignoranti, coloro che
tentano di far credere che questo argomento sia incongruente o inopportuno:
non ha smesso di attraversare il pensiero e di alimentare i dibattiti per tutto il
tempo in cui le potenze schiaviste erano alle prese con la schiavitù, la sua
contestazione e le nozioni di giustizia o di economia. Condorcet, per
esempio, fin dal 1781 usava frasi definitive per contestare la domanda di
risarcimento dei padroni, replicando che «il padrone non aveva alcun diritto
sul suo schiavo, che l’azione di tenere in schiavitù non consiste nel
godimento di una proprietà, ma in un crimine», e aggiungendo che non
potevano sussistere «dei veri diritti sui proventi di un crimine». Era inoltre
chiaro, quanto al risarcimento dovuto agli schiavi: «È giusto condannare
colui che sottrae al proprio simile l’uso della libertà a riparare il proprio
torto», precisando che «riparare il crimine che è stato commesso è una
conseguenza del diritto naturale». Era una riflessione ancorata alla realtà: al
punto che vedrai che egli considerava molto pacatamente come fossero i
coloni a dover provvedere ai risarcimenti, nel momento in cui si svolgevano i
fatti. E lo Stato, che non è lo strumento di interessi particolari, ma
l’emanazione dell’interesse generale, avrebbe dovuto occuparsi di questo, in
virtù del suo pubblico potere. Anche se, come diceva Schœlcher, «il crimine
è stato commesso dallo Stato stesso».
In effetti è un pensiero più moderno di quello che, oggi, disquisisce
sull’anacronismo di questa rivendicazione. Ma con ogni probabilità
Condorcet predicava nel deserto!
Un deserto non poi così silenzioso. Tutta l’Europa atlantica partecipa al
commercio negriero, ma i Paesi europei privi di affaccio sul mare non sono
da meno. Sono coinvolti tramite le loro banche o le obbligazioni emesse dai
rispettivi Stati. Così è per la Svizzera. E Jean de Sismondi, nel 1819, propone
un’analisi simile a quella di Condorcet, relativamente ai due argomenti.
Inizialmente afferma che «il silenzio delle leggi non può cambiare la moralità
delle azioni». Quindi sostiene che, «se c’è qualcuno da risarcire, è lo schiavo,
per la lunga spoliazione a cui l’ingiustizia della legge l’ha esposto». Alla
Martinica, Cyrille Bissette, meticcio, dopo essere rimasto in certo qual modo
bloccato tra le due pretese razze, imbraccia la causa della giustizia e dichiara,
nel 1835, che «non esiste diritto contro il Diritto». In seguito, nel 1843, Félix
Milliroux, che lancerà in Francia una petizione per l’abolizione della
schiavitù, precisa che «il futuro non deve niente al passato, quando questo
passato è la schiavitù», e aggiunge che «il diritto degli schiavi a un
risarcimento è incontestabile».
E, certo, c’è quella mente straordinaria che è stato Victor Schœlcher, che
sfortunatamente dovrà scendere a patti e concedere il principio del doppio
risarcimento, al padrone e allo schiavo. Come sai, solo il primo ne profitterà.
Schœlcher, comunque, a quel punto avrà già affermato che «la schiavitù non
è un istituto giuridico, ma un disordine sociale».

E tutto questo senza alcun effetto concreto? Sono affermazioni che


dovrebbero rendere le persone ancor più esigenti e recettive rispetto alle
rivendicazioni e alle impazienze!
All’inizio qualche effetto c’è stato! Isolato, certo, e al prezzo di gloriose
battaglie individuali. È il caso di colui che venne chiamato lo schiavo Furcy,
che intentò contro il proprio padrone un processo che durò ben ventisei anni!
Ma che riuscì a vincere. Eravamo tra il 1817 e il 1843, a La Réunion, in
territorio francese. Negli Stati Uniti ci fu il caso di Mum Bett, una schiava
che impose l’applicazione della Dichiarazione d’indipendenza e ottenne la
propria liberazione. Ogni volta, questa combattività ha trovato sul proprio
cammino avvocati e magistrati per accompagnare gli interessati nel
riconoscimento dei loro diritti umani inalienabili.

Tutto questo è profondamente toccante, ma di per sé non cambia molto le


cose. Riconforta un po’, ma soprattutto richiama alla necessità di un’azione
collettiva. I tuoi principi sono seducenti, ma non mi sembrano concretamente
operativi! Tu storci il naso sulla mentalità cavillosa degli americani, però lo
Stato della California e poi altri ancora appaiono più efficaci di te, quando
spingono le compagnie d’assicurazione e le banche a indagare su se stesse
per ritrovare eventuali tracce di profitti scaturenti dalla schiavitù. In
relazione alla durata di una vita umana, come tu ami dire, è comunque un
risultato di maggior soddisfazione! Ho visto che la banca J.P. Morgan Chase
ha riconosciuto di aver tratto profitto dalla schiavitù nel XIX secolo e si è
impegnata a fornire delle borse per un ammontare di 5 miliardi di dollari a
studenti afro-americani. Non c’è niente di indegno in un gesto simile!
In effetti, la J.P. Morgan Chase si è scusata a nome delle sue imprese
madri, la Citizens Bank e la Canal Bank in Louisiana, per aver beneficiato
della schiavitù tra il 1831 e il 1865, e ha deciso di dedicare questa somma ad
alcuni studenti di Chicago. Se non altro, salva un po’ anche la propria
reputazione! Proprio come Bank of America, Wachovia Corporation, Lehman
Brothers fino a poco tempo fa, e altri ancora. Non sono convinta della loro
conversione etica. Ma hai ragione, questa iniziativa cambierà qualcosa per
quei giovani, che potranno accedere agli studi. Semplicemente, credo più alla
giustizia dello Stato che a quella arbitraria, e sia pur benevola, di imprese
private. E non dimenticare che tutto questo non è il segno di uno slancio di
buona volontà, ma il frutto di caparbie lotte.

Vedo bene, comunque, che per alcuni non si può discutere di nulla! Né di
risarcimento, né di scuse, né di rammarichi. Certi sono perfino arrivati a
esaltare la colonizzazione, riconoscendole dei benefici! Ho letto che tu parli
del pentimento da monologo furioso. Che intendi dire, con questa
espressione?
Voglio dire che quanti lanciano alte grida, rifiutando di fare atto di
pentimento, sono presi da un dialogo isterico con se stessi. Quanti si
rivolgono loro non pretendono alcun pentimento. Per quanto mi riguarda, non
ho mai sentito formulare una simile richiesta o esigenza. Siamo sul terreno
della politica e dell’etica. Parliamo dunque di valori repubblicani e di
responsabilità delle istituzioni pubbliche. «Pentirsi» e «pentimento» rientrano
nel vocabolario e nell’ambito religioso. Se le autorità ecclesiastiche vogliono
intromettersi, è loro diritto e un loro problema. Intanto, quelli che rincorrono i
media per rifiutare il pentimento non fanno altro che reagire al proprio
turbamento interiore, e sono manifestamente fuori dal dialogo. È in questo
senso che parlo di monologo furioso. Stando così le cose, Édouard Glissant
ha riassunto in modo brillante, come spesso fa, questa problematica del
pentimento. Secondo lui, «il pentimento non si può richiedere, ma si può
ricevere e ascoltare»59. E precisa, come rispondendo a quelli del monologo
furioso, che l’«alta concezione delle cose del mondo non è mai stupida,
orgogliosa, imbecille».
Per quanto mi riguarda, il pentimento rimane un territorio enigmatico.

Lo capisco bene! Ma queste nostre lotte, grandiose e sublimi nella loro


etica, per riprendere questa parola bella e forte che tanto ami, bisognerebbe
che producessero anche dei risultati!
Sono totalmente d’accordo, pupilla dei miei occhi. E a quanti pensano che
sarebbe opportuno prendere questo rifiuto di risarcimento come uno scarico
di responsabilità, rivolgo, per metterli in guardia, le parole di Countee Cullen:

Noi non pianteremo sempre


Perché altri raccolgano
Il succo dorato dei frutti maturi
Non tollereremo sempre
Come schiavi muti
Che degli esseri inferiori
Maltrattino i nostri fratelli
Non suoneremo sempre
Il flauto dolce
Mentre altri si riposano
Non resteremo per sempre curvi
Davanti a bruti più scaltri di noi
Perché
Non siamo stati creati
Per piangere
In eterno.

È bello e confortante, ma non salverà nessuno dalla povertà né, temo,


dall’amarezza…
Capisco la tua irritazione. E non intendo indicare alla tua generazione la
via da seguire. Cerco di rendere le mie scelte comprensibili. Ma non sono né
insensibile al baccano del mondo, né indifferente all’immoralità cinica di
coloro che tollerano un ordine sociale che riproduce le disuguaglianze e le
ingiustizie, e in modo evidente anche su di loro, con meccanismi la cui natura
e le cui motivazioni sono palesi.

Immagini dunque la possibilità che la mia generazione ti sia infedele?


Certo. Sta a voi fare la vostra parte. «Ogni generazione deve, in relativa
opacità, scoprire la sua missione, adempierla o tradirla». È una frase di Frantz
Fanon60.
42. Tessitori della seta. [N.d.T.]
43. Terreni disboscati (in italiano, «tagliate», N.d.T.), che non sono
ancora dissodati, e sui quali si coltivano verdure e tuberi.
44. «Proprio così, cara» – in inglese nel testo originale. [N.d.T.]
45. Parola creola che indica lo «scemo del villaggio».
46 Langston Hughes (1902-1967): poeta afro-americano la cui opera è
caratterizzata da uno spirito politico militante contro la discriminazione
razziale (The Panther and the Lash, 1967). Figura di spicco della cosiddetta
«Harlem Renaissance», che ha ispirato il movimento della négritude.
47. Chester Himes (1909-1984): celebre scrittore afroamericano. In
Lonely Crusade (1947), denunciava i problemi razziali nel quadro delle lotte
operaie. Il suo romanzo Fine di un primitivo (Giano, 2005) racconta gli amori
impossibili di un nero e una bianca; con The Five Cornered Square (1958),
inaugurò una serie di romanzi polizieschi che mettevano in scena in modo
buffo, e con grande lucidità, due poliziotti neri a Harlem, Ed Cercueil e
Fossoyeur Jones.
48. James Baldwin (1924-1987): scrittore afro-americano. Fin dal suo
primo romanzo, Gridalo forte (Amos, 2013), divenne, insieme a Richard
Wright, uno dei migliori commentatori della condizione del suo popolo negli
Stati Uniti. Partecipò alla marcia di Selma nel 1965.
49. John Brown (1800-1859): americano bianco, abolizionista, divenuto
un simbolo della lotta contro la schiavitù negli Stati Uniti. Elaborò nel 1857
un piano mirante a liberare gli schiavi con la forza armata. Arrestato e
condannato a morte, Brown venne impiccato a Charlestown. Durante la
guerra di secessione, la canzone John Brown’s Body ne fece un martire della
libertà.
50. William Lloyd Garrison (1805-1879): abolizionista e filantropo
americano che fu una delle più grandi figure dell’antischiavismo negli Stati
Uniti.
51. Abraham Lincoln (1809-1865): sedicesimo presidente degli Stati
Uniti, dal 1861 al 1865, proclamò l’abolizione della schiavitù, che rese
possibile l’affrancamento degli schiavi in tutti gli stati.
52. NAACP: National Association for the Advancement of Colored
People («Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore»,
N.d.T.), gruppo di pressione che richiedeva l’uguaglianza dei diritti per i neri
all’inizio del XX secolo.
53. Tutto ciò che, negli Stati Uniti, è correlato alla legislazione razzista
degli Stati del Sud al tempo della segregazione ufficiale è designato dal
soprannome di Jim Crow. Se il Sud era tornato a far parte dell’Unione, dopo
la guerra di Secessione, non aveva per questo ammesso l’emancipazione
degli schiavi. Lo avrebbe dimostrato, una ventina d’anni dopo, l’adozione
delle leggi «Jim Crow», che escludevano la comunità di colore dalla vita
economica e politica del paese. Il cabarettista Thomas D. Rice, verso il 1820,
aveva inventato il personaggio di Jim il Corvo – Jim Crow, appunto – che
aveva l’aspetto di un rozzo uomo nero.
54. Abitanti dell’Annam, regione del Sud-est asiatico che comprende
l’attuale Vietnam.
55. «Carta del sistema esclusivo coloniale». [N.d.T.]
56. Musica prodotta da gruppi, a volte numerosissimi, di suonatori di
steel drums (tamburi dotati di una piastra di metallo). [N.d.T.]
57. «Le lotte interne per il potere non possono che lacerarci. Nel petto di
ogni uomo batte un cuore» (estratto della sua canzone Zimbabwe).
58. Equivalenti a circa 16,2 ettari. [N.d.T.]
59. Édouard Glissant, Les Mémoires des esclavages et de leurs abolitions,
Galaade éditions, 2012.
60. Frantz Fanon, I dannati della terra, cit., pag. 146 (trad. Carlo
Cignetti).
L'OGGETTO DELLA LEGGE CHE RICONOSCE
IL CRIMINE CONTRO L'UMANITÀ
La Francia è comunque l’unico Paese ad aver adottato un testo
legislativo che riconosce nella tratta negriera e nella schiavitù dei crimini
contro l’umanità. Perché sei ancora insoddisfatta?
Non sono insoddisfatta. Quado si parla di cause che vanno così tanto oltre
me, non lascio che siano i miei sentimenti a dettarmi la comprensione delle
cose.

Incredibile!... Una persona come te, che garantisce che c’è del
sentimento in tutto quello che riguarda gli uomini?
Lo confermo. E, se c’è un argomento che mi tocca profondamente, è
proprio questo. Eppure, malgrado le sofferenze che ho patito in questa
battaglia – e ti prego di credere che sono state profonde – malgrado le
contrarietà che mi hanno portato a essere a volte cauta, qualunque sia stato il
fastidio che ho provato di fronte a certe manifestazioni di ignoranza,
qualunque sia stata l’irritazione che mi hanno suscitato certe forme di
superficialità – oltre all’esasperazione e al furore che mi hanno trasmesso i
luoghi comuni e i disdicevoli pregiudizi su una causa simile – voglio restare
lucida.

Questa legge è stata adottata all’unanimità. Alla fine le divergenze si


sono attenuate?
L’unanimità deriva dal congiungersi di molteplici motivazioni. Ci sono
alcuni che approvano con piena convinzione. Altri lo fanno solo perché è
stato possibile rendere «asettico» il testo originale. Altri ancora approvano
perché dissociarsi costerebbe loro politicamente. Altri, infine, non approvano
ma restano zitti per mancanza di combattività o di argomenti, o per non
mettere in difficoltà il loro gruppo, o perché ritengono che la causa non
giustifichi un conflitto.

È questo che significa l’unanimità?


Non sempre. Ma questo voto unanime dei due rami del Parlamento non
sarà certo esente da ironie. Perché non bisogna cullarsi in illusioni. È evidente
che, se la legge attuale non sanzionasse queste pratiche autorizzate nel
passato, considerando le intenzioni pubblicamente dichiarate di certi
rispettabili uomini politici, si troverebbero ancor oggi delle persone capaci di
schierarsi a favore della schiavitù senza dover neanche scendere a
compromessi con la propria coscienza, essendo convinte della propria
superiorità e di parlare a buon diritto.

Mi fai rabbrividire. La Francia è un Paese civile! Al giorno d’oggi…


La ferocia e la barbarie non appartengono in esclusiva a nessuna epoca in
particolare. Conosci a sufficienza lo splendore di Samarcanda61,
dell’Andalusia, della Grecia, di Ségou62, di Granada, di Kerma63 o di
Palenque64, la magnificenza di Akhenaton, di Salomone, di Averroè, di
Hatshepsut, di Manco Cápac e di tanti altri, per capire che la «civiltà» non è
una questione né di tempo né di luogo. I tre grandi continenti considerati
sottosviluppati, ossia l’Africa, l’Asia e l’America del Sud, hanno originato
civiltà prestigiose che, per lo più, sono state distrutte al momento del contatto
con gli europei e delle loro conquiste coloniali. Nota bene che i greci e i
romani chiamavano «barbare» le culture e i popoli stranieri, e che in seguito
la cristianità ha applicato questo termine ai germani, agli slavi e agli asiatici.
Vedi bene come certe verità siano soggettive e contingenti. Pensa al testo
ironico di Montesquieu: «Come si fa a essere persiani?», la trentesima delle
Lettere persiane65. Insomma, i barbari sono sempre gli altri, quelli di cui non
comprendiamo il comportamento perché non conosciamo abbastanza la loro
cultura. Non è una questione di epoca storica. Le pratiche contemporanee di
tratta, schiavitù e servitù stanno a dimostrarlo.

Sì, ma qui torni alla politica.


Non esiste materia più politica del diritto. Perché si tratta di definire le
regole della vita comune, i limiti che s’impongono a ognuno, il quadro nel
quale lo Stato si arroga il monopolio delle sanzioni giudiziarie, della
sorveglianza di polizia e della difesa militare. Le leggi riflettono anche la
generosità delle varie società, mentre ne denunciano i demoni.

E quali demoni denuncia questa legge?


La paura di dare alle cose il proprio nome. Nel testo originale scrivevo: «I
manuali scolastici e i programmi di ricerca in storia e scienze sociali
dovranno assicurare un posto di rilievo alla più lunga e massiccia
deportazione della storia dell’umanità». Questa disposizione è diventata: «I
programmi scolastici e i programmi di ricerca in storia e scienze umane
accorderanno alla tratta negriera e alla schiavitù il posto di rilievo che
meritano». Ecco: quei milioni di persone catturate, marchiate col ferro
rovente, vendute, trasportate nelle stive delle navi, non sono state
«deportate». Come se ci fosse un monopolio sacro sulla parola. Questo
crimine, perpetrato per oltre quattro secoli e mezzo, che ha riguardato almeno
trenta milioni di persone – e, secondo alcuni storici, da cinque a sette volte
tanto, se si contano tutti quelli che sono morti tra i luoghi di cattura e i
mercati di schiavi delle colonie – non può essere dichiarato la «più lunga e
massiccia deportazione della storia dell’umanità». Eppure, il tempo è un dato
oggettivo. E ai quattro secoli e mezzo di pratiche schiavistiche degli europei
si aggiungono i sette secoli di schiavitù trans-sahariana dei mercanti arabo-
musulmani. Non si tratta di introdurre alcuna gerarchia tra il genocidio
ebraico e la deportazione degli schiavi, alcuna gradazione nel dolore umano,
ma di inserire nella legge quello che gli storici considerano come il crimine
che ha fatto il più gran numero di vittime nell’arco del periodo più lungo. Le
tensioni possono malauguratamente alimentare una concorrenza malsana e
pericolosa tra le vittime dei crimini contro l’umanità.

Perché sostieni che esista un monopolio sacro sulla parola


«deportazione»?
Mi riferisco all’implicito divieto di qualsiasi uso di questa parola al di
fuori dell’Olocausto che ha colpito gli ebrei in Europa durante la seconda
guerra mondiale. Da allora, non è concepibile che si utilizzi il termine
«deportazione» per designare una tragedia diversa da quel genocidio, che ha
dato luogo alla creazione del concetto stesso di crimine contro l’umanità.
Eppure, prima di questo mostruoso episodio della storia europea, la parola
«deportazione» era utilizzata, per esempio, per designare il trasferimento dei
prigionieri francesi e coloniali verso le colonie penali della Guyana e della
Nuova Caledonia. Poiché i condannati ai lavori forzati erano in certi casi
prigionieri politici, rivoluzionari e preti refrattari66 in Guyana, e comunardi
in Nuova Caledonia, l’amministrazione penitenziaria, progressivamente, li
distinse dai «trasportati» di diritto comune, criminali, ladri di somme non
consistenti, vagabondi, prostitute e altre persone ferite e segnate dalla vita.
Gli archivi danno atto di questa ripartizione fra «trasportati» e «deportati». Le
colonie penali ricevettero anche, in forma del tutto ufficiale, migliaia di
persone condannate alla deportazione. Possiamo altresì menzionare l’atto
violento che consistette nel far attraversare l’oceano Atlantico e l’oceano
Indiano a milioni di persone incatenate, condannate a lavorare come
bestiame, classificate come «beni mobili» appartenenti al patrimonio del
padrone? L’uso esclusivo di questa parola serve forse a scongiurare il
demone nazista. Ma bisognerà pure, nonostante ciò, che la tratta e la schiavitù
siano anch’esse condannate con forza.

E quali sono gli aspetti virtuosi di questa legge?


Sul piano materiale, praticamente nessuno, se ricordiamo che la
disposizione relativa al risarcimento è stata anch’essa soppressa. L’articolo 5
del testo iniziale proponeva la creazione di un «comitato di personalità
qualificate incaricate di valutare il danno subito e di esaminare le condizioni
di risarcimento morale e materiale dovuto a causa di tale crimine». Danno e
risarcimento materiale sono apparsi come prospettive spaventose. Anche se
«materiale» non è sinonimo di «finanziario». Eppure, si trattava solo di
costituire un comitato. Ma questo voleva già dire riconoscere la fondatezza di
una pretesa di risarcimento e impegnarsi ad accoglierla. Quella disposizione
ha infastidito praticamente tutti i deputati, ma la maggior parte di loro
avrebbe anche finito per arrendersi agli argomenti che ti ho esposto. Alla fine,
ed essenzialmente a causa delle forti preoccupazioni del governo, la norma in
questione è stata tolta dal testo. Pur tuttavia, si può considerare come un
aspetto «virtuoso» l’articolo 2 sull’istruzione, la ricerca e la cooperazione.
Non è stato mantenuto senza dover lottare. E parecchi deputati, tra cui Louis
Mermaz, si sono fortemente attivati perché non fosse espunto, mentre
eravamo al corrente dell’opposizione del ministro della Pubblica istruzione,
cui il ministro della Giustizia ha dato seguito con un’imbarazzata reticenza.
Ricordiamo però che questo articolo riconosce la necessità di introdurre
questa parte di storia nei programmi scolastici. Non si tratterà più di evocare
incidentalmente – al momento di toccare la rivoluzione del 1848, e nello
stesso contesto – l’avvento del suffragio universale maschile e il decreto di
abolizione. Bisognerà affrontare la tratta e la schiavitù, le politiche di Stato
che le hanno sostenute, la posizione dei coloni, il ruolo svolto dai grandi
uomini della storia di Francia, le lotte e il marronnage, i popoli scomparsi, i
sincretismi religiosi, le nuove lingue create per comunicare con il padrone,
con gli altri schiavi e perfino, per quanto riguarda la Guyana e i Caraibi, con
gli indigeni amerindi.

E sarà cosa facile?


Sicuramente no! Il rischio è che certe opere diffondano false idee, ma
l’articolo 5 della legge definitiva permette alle associazioni che hanno per
scopo la difesa della memoria degli schiavi e l’onore dei loro discendenti di
costituirsi parte civile in alcuni processi. Esse possono dunque adire l’autorità
giudiziaria richiedendo risarcimenti danni e interessi, per esempio per punire
l’apologia di crimini contro l’umanità.

È un altro aspetto virtuoso di questa legge.


Se vogliamo. Noi abbiamo stabilito una distinzione tra le disposizioni in
cui si manifestano gli antichi demoni e quelle in cui trovano espressione gli
aspetti virtuosi, ma essa non riflette perfettamente la realtà. Non è proprio il
caso di definirli «virtuosi». Queste norme, in effetti, sono dei semplici atti di
giustizia. Tardivi, ma ciò nonostante opportuni. Questa legge rivela un
genuino coraggio sul piano dell’etica, ma è meno audace sul terreno politico.

È un tuo rammarico?
Non arriverei a dire questo. Una legge è una costruzione collettiva che
prende corpo nel punto d’incontro tra esigenze divergenti e a volte
contraddittorie. Dice più attraverso i suoi limiti che con il suo contenuto. E
questo vale particolarmente per le leggi che rientrano nell’arsenale giuridico
della difesa dei diritti dell’uomo. Perché la legge costruisce le dighe che
proteggono i più vulnerabili. Essa rivela il livello di coscienza universale
delle istituzioni, che devono sapersi spingere oltre lo spirito del tempo, i
blocchi o le inibizioni, per sgombrare l’orizzonte. François Mitterrand era
ancora candidato quando dichiarò, nonostante alcuni sondaggi sfavorevoli
all’abolizione della pena di morte, che, se fosse stato eletto, l’avrebbe
abrogata.
Ci sono delle cause che esigono nobili convincimenti e un’appropriata
determinazione. Sicuramente avrei preferito maggior arditezza politica, in
questa legge. Ma questa causa è una lotta che affronto senza amarezza né
rimpianti. Faccio il punto a ogni tappa per valutare lo stato delle forze in
campo, apprezzare i progressi, misurare le inerzie, valutare gli ostacoli,
prevedere le conquiste a venire e revisionare le strategie. Sarà necessario
operare affinché ciò che è stato espunto dalla legge trovi spazio adeguato a
scuola, nelle università e nella società.

Non sarà la stessa cosa…


Certamente no. Il professor Louis Sala-Molins parla della «funzione
crematistica» della legge. Infatti, solo la legge, e quindi una potenziale
sentenza, può annullare gli effetti di atti criminali, procedendo a «soppesare i
fatti», a una loro «ponderazione». Condivido con piacere questo approccio. E
sicuramente la paura delle parole ha privato questa legge della sua vocazione
a dichiarare e a misurare il pregiudizio, a quantificare il risarcimento. La
funzione morale della legge dev’essere consustanziale alla sua funzione
normativa. Per maggior chiarezza, la parola solenne di disapprovazione è
indispensabile, ma la norma che condanna e reprime lo è altrettanto.
Malgrado le sue insufficienze, penso che questa legge segni una svolta
essenziale nella coscienza collettiva. Essa consolida l’architettura
internazionale dei diritti naturali dei popoli e dei cittadini. L’articolo 3
prevede che una richiesta di riconoscimento di questo crimine contro
l’umanità sia introdotta in particolare al Consiglio d’Europa e all’ONU. La
Conferenza internazionale contro il razzismo del 2011 a Durban ha
consacrato tale riconoscimento. A partire da allora, il dibattito sul
risarcimento è divenuto imprescindibile. E andrà incontro ad altre
trasformazioni. Lo si vorrà ridurre a semplici rivendicazioni finanziarie, ma
non gli si potrà impedire di procedere. E forse, in definitiva, è meglio che non
sia stato accaparrato da un ristretto numero di personalità, peraltro
indipendentemente dalle loro qualità personali. E chissà, questo dibattito
magari rappresenta l’inizio di un necessario lavoro concernente le politiche
pubbliche.

Non tutto il male vien per nuocere?


È sempre così!
61. Sfolgorante città dell’Uzbekistan, situata al crocevia tra la civiltà turca
e quella persiana.
62. Città del Mali, che fu fiorente e fortemente desiderata, quasi quanto
Timbuctu.
63. Sito archeologico del Sudan, antica città della Nubia che, sotto
l’autorità dei Faraoni Neri, era il centro del regno di Kush (XVI secolo a.C.).
Degli scavi hanno permesso di portare alla luce delle importanti vestigia.
64. Città maya in territorio messicano, dal nome originale amerindio
Lakam Ha (Grandi Acque), dotata di un ricco patrimonio architettonico.
65. V. Charles-Louis Montesquieu de Secondat, Lettere persiane (BUR,
Milano 2006). [N.d.T.]
66. I sacerdoti che, al tempo della Rivoluzione francese, rimasero ostili
alla Costituzione civile del clero, approvata dall’Assemblea nazionale
costituente il 12 luglio 1790. [N.d.T.]
LA COLONIZZAZIONE
Si parla più di quello che è successo in Algeria che della tratta e della
schiavitù. Si direbbe che sia un tema più importante per i francesi. Non lo
trovi ingiusto?
Sì, ma la colonizzazione di cui l’Algeria è stata vittima è una
conseguenza diretta della tratta e della schiavitù. Aimé Césaire l’ha espressa
in questi termini: «Tra il colonizzatore e il colonizzato, c’è posto solo per il
lavoro duro, l’intimidazione, la pressione, la polizia, l’imposta, il ladrocinio,
lo stupro, le imposizioni culturali, il disprezzo, la sfiducia, l’alterigia, la
sufficienza, la villania, élites senza cervello, masse avvilite. Nessuno spazio
per il contatto umano, ma rapporti di dominazione e di sottomissione che
trasformano il colonizzatore in pedina, in maresciallo, in guardia-ciurma, in
frusta e l’indigeno in strumento di produzione. Adesso tocca a me porre
un’equazione: colonizzazione = cosificazione.»67

La Francia dovrebbe dunque pentirsi di tutta l’avventura coloniale?


La Francia repubblicana, senza dubbi né remore. Perché non va
dimenticato che il 14 giugno 1830, quando i francesi conquistarono
militarmente l’Algeria, fu al grido di «viva il re» che i soldati di Bourmont
presero Sidi-Ferrouch. Questa conquista venne compiuta seguendo il piano
del comandante Boutin, concepito fin dal 1810, su richiesta di Napoleone.

Per l’Algeria, avevo invece sentito parlare di pacificazione. Ma pare che


in realtà i colonizzatori non fossero teneri.
Un proverbio africano dice che se le storie di caccia fossero raccontate dai
leoni, non somiglierebbero a quelle che raccontano i cacciatori. La parola del
carnefice non è mai identica a quella della vittima. E, spesso, l’impiego di
eufemismi costituisce un’aggressione che si aggiunge alla violenza fisica.
Che dire del termine «pacificazione», utilizzato per qualificare i ventisette
terribili anni che seguirono l’atto firmato il 5 luglio 1830, all’indomani della
presa di Algeri, denominata la «città barbaresca»? Chiamarono questo trattato
«atto di capitolazione» e decisero di mettere Hussein Dey, equivalente del
Primo ministro in Algeria, sotto la «protezione» dell’esercito di re Carlo X,
finché fosse rimasto ad Algeri. Ciò non impedì a Bourmont di impadronirsi
del suo tesoro, né all’intendente Dennie di formarsi una notevole fortuna.
Ho la sensazione che tu racconti la Storia a modo tuo. Non è quella dei
miei libri di scuola.
«La geografia serve innanzitutto a fare la guerra». È allo stesso tempo un
modo di dire e il titolo di un’opera illuminante di Yves Lacoste. Mi verrebbe
da dire che la Storia la esalta, ma mi rendo conto che sarebbe una scorciatoia.
Non ti racconto niente a modo mio. Sono sicura che, presto o tardi,
incontrerai dei professori disposti a spiegarti i fatti così come si sono svolti e
a non censurare le lezioni che potrai trarne.

Come andò in Algeria? I francesi arrivarono, bruciarono tutto,


torturarono gli uomini e commisero mille atrocità del genere, senza ragione,
brutalmente?
C’è una ragione preponderante, ed è l’espansione della potenza
economica. E poi c’è un modo per essere sicuri della fondatezza delle proprie
pretese: è l’illusione della superiorità di una razza, di una cultura o di una
civiltà, che assume, a seconda dei casi, le forme dell’evangelizzazione, di una
crociata o di una missione civilizzatrice.

Le crociate! Fu allora che tutto questo ebbe inizio?


Fai confusione, genio! Le crociate, che ebbero inizio nel 1096, si
conclusero nel 1291. Dovresti leggere un libro istruttivo di Amin Maalouf, Le
crociate viste dagli arabi68. È sempre illuminante cambiare angolo visuale
su uno stesso evento, soprattutto di questa portata e di questa complessità. È
anche quello che consiglia il professore di letteratura interpretato da Robin
Williams nel commovente e suggestivo film L’attimo fuggente, di Peter Weir.
Mettiamo tra parentesi la presenza francese nel Maghreb sotto il regno di San
Luigi nel 1270. I contatti ripresero all’inizio del XVI secolo: attacchi e
bombardamenti si susseguirono… Venne conclusa un’alleanza nel 1536 tra il
Grande Turco, Solimano il Magnifico, soprannominato anche il Legislatore,
sovrano dell’Impero ottomano, e Francesco I; durante la Rivoluzione furono
mantenute delle relazioni commerciali; Talleyrand firmò un trattato per
Napoleone nel maggio 1802.
La concorrenza europea per stabilire dei legami privilegiati con il
Maghreb era intensa. I francesi complottarono con alcuni commercianti e si
mostrarono negligenti nei loro rapporti ufficiali. Sorsero tensioni molto forti a
proposito di un debito monetario risalente al 1796, che il Direttorio aveva
mancato di onorare, provocando l’esasperazione di Hussein Dey, che durante
un colloquio con il console generale Pierre Deval manifestò la sua irritazione
colpendolo con il rovescio di uno scacciamosche. La Francia si considerò
umiliata. Aveva appena trovato un eccellente pretesto. Embargo. Richiesta di
scuse. Rifiuto. Il Consiglio dei ministri del 31 gennaio 1830 approvò il
«principio d’intervento», come si dice ancor oggi quando si vuole entrare in
guerra senza consultare il Parlamento. Nota bene che il Parlamento,
all’epoca, era solo un intralcio. Allora queste decisioni venivano prese
d’autorità alla corte del re di Francia.

E gli algerini che fecero?


Il 27 luglio 1830, poco dopo la firma dell’atto di «capitolazione», Bou
Mezrag, bey del Titteri, negò la sua alleanza alla Francia, e le comunità della
Mitidja, pianura agricola alla periferia di Algeri, si riunirono nei pressi del
capo Matifou per un appello alla resistenza. Nel 1832 ebbe inizio l’epopea di
Abd el-Kader, giovane emiro talentuoso che si faceva chiamare «la spina
nell’occhio dei francesi». Negli accordi firmati con il generale Desmichels, il
giovane emiro ottenne il commercio delle armi e il controllo dei cereali. Nel
1836 Costantina si rivoltò sotto la guida di Ben Aïssa. Abd el-Kader fu
sconfitto nel 1847, dopo quindici anni di una guerra spietata. I cabili
continuarono a resistere fino al 1857. E la guerra delle parole non si esaurì. Il
14 ottobre 1839, il ministro della Guerra dichiarò: «Il Paese occupato dai
francesi nel Nord Africa sarà in futuro designato col nome di Algeria.
L’antica denominazione di Reggenza di Algeri cesserà di essere utilizzata
negli atti e nelle comunicazioni ufficiali».

Se il Paese veniva chiamato «Reggenza di Algeri», vuol dire che non era
indipendente prima della conquista francese?
È corretto dire che aveva precedentemente subito delle occupazioni:
numida, romana, vandala, bizantina, araba, almoravide, abdelwadide, turca.
La conquista francese unificò geograficamente il Paese, ma gli storici
ritengono che non sia arrivata a renderlo unito né sul piano culturale, né su
quello politico o sociale; d’altronde, la Francia non se ne preoccupava
granché. Un secolo dopo, Ferhat Abbas, primo presidente del governo
provvisorio della Repubblica algerina, inizialmente favorevole
all’integrazione dell’Algeria con la Francia, quindi profondamente ostile alla
presenza francese, disse con ironia: «Il mio Paese ha il senso tribale».

Riconosceva che l’Algeria era analfabeta e arretrata?


Niente affatto. Questa frase, al contrario, rivela la forza di resistenza della
cultura e delle tradizioni. Le cronache storiche più diffuse riportano come la
vita culturale fosse assai ridotta, dopo tre secoli di occupazione turca.
Dimenticano però le tolbas, le scuole coraniche che funsero da baluardo
contro l’analfabetismo e favorirono la coesione sociale. Danno ben poca
importanza all’allergia berbera per le dominazioni straniere, e omettono di
dire esattamente che cosa fossero i gourbis e i guitounes, nomi peggiorativi
che indicavano le abitazioni dei fellah, i contadini. Le statistiche sono rare.
Sappiamo però che c’erano poche strade, e che lo stato della sanità pubblica
era deplorevole. La schiavitù vi imperversava, come in tutte le colonie
francesi. Quando vennero liberati i quindicimila schiavi neri, abbandonati a
se stessi, senza aiuto né assistenza, dovettero procurarsi da soli i mezzi per
sopravvivere.
Gli occupanti francesi confiscarono prima di tutto le terre e le proprietà
dei turchi, quindi degli algerini. In totale, pretesero 450.000 ettari e 35,5
milioni di franchi come risarcimento delle perdite subite in guerra. Ecco,
vedi, ancora una volta una concezione parziale del risarcimento!

Avevano loro tutti i diritti! E gli algerini, invece, avevano quello a essere
risarciti?
No. Eppure, a parte le terre e i beni confiscati, le opere di alcuni storici
formulano l’ipotesi che un sesto della popolazione algerina sia perita durante
i primi venticinque anni di occupazione francese.

Ma almeno non si lasciarono sottomettere?


No. Ci fu una resistenza, sia pur sporadica. Ma la colonizzazione è un
processo violento. Nel 1843, Bugeaud, maresciallo di Francia e governatore
dell’Algeria, diede ordini formali, davanti all’insurrezione condotta da Bou
Maza, un capo cabilo: «Se quei furfanti si ritirano nelle loro caverne,
affumicateli a oltranza, come delle volpi». E infatti il generale Pélissier saturò
di fumo la grotta di Dahra, soffocando cinquecento persone, uomini, donne,
bambini. Due mesi più tardi, Saint-Arnaud fece murare vive cinquecento
persone, giustificandosi così: «La mia coscienza non mi rimprovera niente,
mi è venuto il disgusto dell’Africa».
L’8 aprile 1870, gli algerini dichiararono la jihad, la guerra santa, che
durò due anni. La Francia aveva appena perso l’Alsazia e la Lorena, annesse
dall’impero tedesco. Il Secondo impero crollò. La Francia era indebolita, ma
il suo esercito e le sue colonie continuarono a riversare sugli algerini gravi
ingiustizie, peraltro autorizzate dal Codice forestale, e applicarono loro uno
statuto discriminatorio, ben presto ufficializzato dal Code de l’Indigénat.
Secondo questo codice, i francesi erano cittadini e gli algerini sudditi. Vi
erano reati tipici degli indigeni, come il delitto di insolenza o di
disobbedienza a un comandante francese. Inoltre, la jihad fu repressa nel
sangue, e i suoi leader vennero deportati nelle colonie penali della Nuova
Caledonia e della Guyana. Louise Michel e altri comunardi furono anch’essi
deportati in Nuova Caledonia, nello stesso periodo. Fatto strano, quando nel
1878 scoppiò la rivolta dei suoi abitanti, i canachi, furono ben pochi gli
anticolonialisti che si mostrarono solidali con loro. Tra i francesi, Louise
Michel fu la sola a impegnarsi senza riserve e a tenere alto l’onore della
Francia, la «patria dei diritti dell’uomo». Rispettosa della loro cultura, oltre a
essere solidale con la loro sorte, raccolse le Légendes et chansons de geste
canaques, che avrebbe pubblicato a Nouméa nel 1875.

Fatto strano, dicevi?


Sì, perché spesso si vuol credere che le risorse della resistenza
all’occupazione e all’oppressione siano universali. Ci si aspetta che agiscano
in ogni tipo di situazione, e che coloro che hanno resistito all’oppressione in
patria si oppongano agli stessi abusi anche altrove.

Ma non c’era un francese che salvasse l’onore della Francia in Algeria?


Io ho imparato che Bugeaud era un grande comandante. Ora tu però hai
appena parlato di un torturatore!
È vero che sostenne un sistema di governo che avrebbe lasciato spazio
agli algerini nell’amministrazione del Paese, ma questo non gli impedì di
ricorrere alla violenza. Sta alla Francia sapere entro quali limiti fa proprie le
scelte dei suoi comandanti militari. Fortunatamente, in tutte le epoche ce ne
sono stati altri che hanno salvato il suo onore. In Algeria furono gli umanisti
Berthezène, generale d’armata che si sarebbe comportato correttamente, al
punto che degli algerini lo avrebbero soprannominato «le Marabout»69, et
Thomas-Ismaël Urbain, nato nella Guyana, interprete militare, che avrebbe
dato prova di rispetto ed empatia, e inoltre avrebbe sposato una donna
algerina. Ma i loro nomi non compaiono né nei manuali scolastici, né nei
dizionari enciclopedici. A stento si trovano in qualche opera specialistica.

La guerra d’Algeria cominciò nel 1954?


Fu preceduta, nel maggio 1945, da quella che viene ricordata come la
rivolta degli abitanti di Costantina. Gli algerini avevano combattuto a fianco
dei francesi durante le due guerre mondiali. Nella seconda, il loro
coinvolgimento fu alquanto ambiguo, tenuto conto della contestazione
crescente della politica coloniale francese sul loro territorio. Già nel 1927, in
occasione del Congresso anti-imperialista di Bruxelles, il primo punto di
rivendicazione era la completa indipendenza dell’Algeria. Istiqlal,
«Indipendenza», era il loro slogan e il loro orizzonte! L’8 maggio 1945,
proprio mentre Parigi era in tripudio e la Francia intera celebrava la fine della
guerra, una rivolta a Sétif venne repressa nel sangue in quello che in seguito
sarebbe stato chiamato «il massacro di Sétif», e che Yves Benot avrebbe
descritto nel suo libro Massacres coloniaux70. La resistenza conobbe una
svolta il 2 novembre 1954. La guerra durò otto anni: otto anni di orrori
inverosimili e di un ingranaggio infernale, che infine approdarono
all’inevitabile liberazione dell’Algeria, ratificata dagli accordi di Évian del
luglio 1962.

La colonizzazione è drammatica, ma non ha la dimensione disumana


della tratta negriera e della schiavitù. Eppure, se ne parla molto di più. È
perché è più recente e ci sono ancora dei sopravvissuti?
Sì. Da una parte e dall’altra, ci sono confessioni e rivelazioni ancor oggi
attuali. Poi, l’Algeria è un Paese, mentre la tratta negriera e la schiavitù hanno
coinvolto tre continenti. Il crimine appare impossibile da misurare,
soprattutto considerando i numerosi incroci tra popoli diversi che si sono
verificati. Del resto, non ci sono solo spiegazioni razionali.
Quello che ti ho spiegato ti permette di capire che la guerra delle parole
completa l’opera dei cannoni. Frantz Fanon sosteneva che il colonizzatore,
non contento di rubare l’avvenire del colonizzato e di sequestrare il suo
presente, «si orienta verso il passato del popolo oppresso, lo storce, lo
sfigura, lo annienta»71 . L’impiego di certe parole può avere un effetto letale
nella simbologia del dominio. I numeri da prestigiatore che tentano di diluire
degli orrori con disoneste circonvoluzioni tra fatti di natura diversa rientrano
nell’opera di distruzione, e la prolungano. A volte si tratta anche di semplici
errori, nel qual caso è necessario contribuire al dibattito. Ma quando ci si
trova davanti a manipolazioni che mirano a proseguire, con le parole, la
distruzione iniziata dalle armi, dobbiamo, in nome della libertà, della pari
dignità delle culture, della pace, opporci con tutte le nostre forze. Nessuna
condiscendenza verso il ministro israeliano che tratta i palestinesi come
pidocchi e tumori. Altrimenti, vorrebbe dire che si ha la stessa deferenza per
un governo guidato da un uomo della statura e del coraggio di Yitzhak Rabin
e per un governo incarognito dalla demenza bellicosa. Nessuna
condiscendenza verso il presidente della prima potenza mondiale, che aveva
promesso di «affumicare gli afghani nelle loro tane», divideva
sommariamente il mondo in due parti, separate da un asse del bene e del
male, lanciava delle crociate nel XXI secolo, chiedeva la cattura di un
terrorista vivo o morto, come se la lotta contro la follia distruttrice rientrasse
in uno scenario da film western. E nessuna tolleranza nemmeno per i
terroristi, qualunque sia la loro appartenenza o il loro aspetto, nessuna
condiscendenza verso coloro che sono sedotti dal crimine, anche se vi
trovano loro stessi la morte. È al prezzo di questo rigore che si contribuisce
alla pace nel mondo. La pace non è né l’equilibrio del terrore, né la
supremazia dei più forti. La pace è questa fragile costruzione comune,
ricucita senza sosta sulle ingiustizie e le disuguaglianze che ci ostiniamo a
combattere.

67. Aimé Césaire, Discorso sul colonialismo, cit., p. 26 (trad. Ndjock


Ngana Yogo).
68. Amin Maalouf, Le crociate viste dagli arabi, Società Editrice
Internazionale, 2001. [N.d.T.]
69. «Il santo». [N.d.T.]
70. Yves Benot, Massacres coloniaux, 1944-1950: la IVe Republique et
la mise au pas de colonie françaises, La Découverte, 1994.
71. Frantz Fanon, I dannati della terra, cit., p. 150 (trad. Carlo Cignetti).
LE FORME CONTEMPORANEE E COSIDDETTE
MODERNE DI SCHIAVITÙ
Torniamo alla tua legge, anche se non vuoi chiamarla così. Ha potuto
dare un contributo alla lotta contro la schiavitù moderna?
In senso stretto, no. Lo scopo di questa legge è, per essere molto precisi,
definire la tratta negriera e la schiavitù che hanno imperversato nelle
Americhe e nell’oceano Indiano, e cominciare a porvi rimedio sul piano
morale e pedagogico. Tuttavia, rientrando nell’insieme delle norme penali
contro le minacce ai diritti umani, questa legge contribuisce a precisare lo
spirito e il numero dei divieti promulgati dalle istituzioni, e dalle più
autorevoli tra queste, poiché si tratta del Parlamento e del governo. Essa è
destinata a connotare quella che si può chiamare schiavitù-sistema, o
schiavitù storica, o ancora schiavitù razziale, e a tentare di disperdere la
riproduzione meccanica dei suoi effetti discriminatori e umilianti. Tuttavia,
ha una sua utilità nella lotta contro quella che alcuni chiamano la schiavitù
moderna.

Qual è la differenza tra le due?


La schiavitù, diciamo la schiavitù razziale, abbinata alla tratta – due
piaghe che, come ho spiegato, in quella fase storica per la prima volta erano
strettamente interconnesse – quella schiavitù consiste in un’attività
organizzata, sistematica, su larga scala, di commercio e sfruttamento di esseri
umani. Ti ho raccontato come le potenze europee avessero ufficialmente
strutturato, codificato e razionalizzato il commercio triangolare e la schiavitù,
come la Chiesa avesse dato la sua benedizione, come le sedicenti scienze
umane vi avessero trovato dei motivi e delle giustificazioni. Le pratiche
arabo-musulmane, che decimarono le stesse popolazioni, non devono essere
né assolte né sottostimate; peraltro, con gli asientos, le bolle papali, le
dottrine filosofiche, i codici neri e altri supporti, l’Europa portava avanti su
un’altra scala, metodica, pianificata, razionale, ciò che consisteva piuttosto in
rapimenti, banditismo, brigantaggio, pirateria, e al tempo stesso era già
un’attività remunerativa. Il Corano non vieta la schiavitù, non più della
Bibbia o dei trattati filosofici di Aristotele o di Sant’Agostino, che
suggeriscono tutti come questa condizione rientri in un ordine sociale
naturale, difendendo, in alcuni casi, la causa di una dominazione benevola ed
esortando i padroni a trattare i propri schiavi senza eccessivo rigore, affinché
questa situazione sia accettabile. Questo, per quanto riguarda la schiavitù
razziale o schiavitù-sistema.
Quella che alcuni chiamano schiavitù moderna, invece, nella maggior
parte dei casi rientra nel quadro della servitù domestica o dello sfruttamento
sessuale. C’è una differenza importante tra la schiavitù-sistema e la schiavitù
cosiddetta moderna. Nel primo caso, le più alte autorità dello Stato non sono
solo coinvolte: peggio ancora, la organizzano esse stesse. E la Chiesa è
complice. La giustizia dispone di un codice che prevede che lo schiavo non
sia una persona, ma un bene mobile, proprietà di un padrone. Lo schiavo è
circondato. Non può soccorrerlo nessuno. E coloro che, per solidarietà,
vogliono venire in suo aiuto devono convincere le autorità a riservargli una
sorte più umana. In tal caso, devono aiutarlo a sfuggire al tempo stesso al
padrone, al potere politico, all’autorità ecclesiastica e alla giustizia.
La schiavitù cosiddetta moderna, al contrario, è proibita. Vi rientrano
manovre private, delitti e a volte crimini non solo moralmente riprovevoli,
ma giuridicamente proibiti, e dunque penalmente sanzionabili. Coloro che la
praticano devono essere puniti – e non lo sono né abbastanza spesso, né con
sufficiente durezza.

La schiavitù moderna è meno grave, allora?


È sempre molto grave attentare alla libertà altrui. È grave rubare la forza-
lavoro di un’altra persona, esercitare su di essa gli «attributi del diritto di
proprietà», per riprendere la definizione della Convenzione internazionale
sulla schiavitù, in altre parole trattarla come un oggetto. Ma c’è una
differenza di proporzioni tra i sistemi che prosperano sotto la protezione di
Stati scellerati e alcuni casi isolati, clandestini, di persone che,
incidentalmente, a volte approfittano della loro immunità diplomatica o
parlamentare…

Immagino che non vengano combattuti nello stesso modo?


Per essere molto chiara, no. Nel caso della schiavitù-sistema, si tratta di
costringere gli Stati che la tollerano a proteggere i propri immigrati e a
garantire i loro diritti e, al di sopra di tutto, la loro libertà. Sai che l’ultima
abolizione della schiavitù non risale che al 1981? Fu in Mauritania, Paese
peraltro membro dell’ONU fin dal 27 ottobre 1961. Nonostante tutte le
convenzioni internazionali di cui ti ho parlato, la Mauritania praticò
ufficialmente la schiavitù, prevista nelle sue leggi, fino al 1960. La sua
Costituzione del 1961 proclama l’uguaglianza di tutti. Ma è soltanto con
l’ordinanza del novembre 1981 che la schiavitù viene esplicitamente abolita,
pur essendo definita solo di riflesso e, tieniti forte, è previsto il risarcimento a
favore dei padroni. Eh sì!
I padroni bidhan sono generalmente dei mauri, e gli schiavi, haratin, sono
neri o meticci nati da stupri. Nel marzo 2007, in questo Paese hanno avuto
luogo quelle che sono state definite le prime elezioni libere dall’indipendenza
del 1960. Ne è risultata, fin dal settembre 2007, la promulgazione di una
legge incriminante la schiavitù e che la punisce con la reclusione da cinque a
dieci anni, oltre che con una multa che può raggiungere un milione della
moneta nazionale (l’ouguiya), e che sanziona i funzionari e i giudici passivi
per mancata assistenza agli schiavi.
Purtroppo, il colpo di Stato dell’agosto 2008, sopraggiunto in questo
paese, ha inflitto un brutale arresto al processo democratico, e quindi, in
particolare, a questa conquista, e gli haratin che hanno il coraggio di sporgere
denuncia fanno molto spesso la triste esperienza dell’indifferenza delle
autorità territoriali, prefetti-hakem o governatori-wali.
Le Organizzazioni non governative, peraltro, assicurano che la schiavitù
continua a esistere ed è ben lungi dall’essere trascurabile, poiché il 4% della
popolazione si troverebbe in condizioni servili.
Il governo mauritano si è impegnato con l’ONU, all’inizio del 2015, su
una roadmap per arrivare a sradicare la schiavitù. È un progresso nel senso
che questo impegno equivale a un riconoscimento della realtà, ma per darvi
corpo e possibilità concrete bisogna probabilmente potenziare la legge, in
particolare permettendo alla società civile, attraverso le ONG, di costituirsi
parte civile…

Vale a dire?
Significa che delle associazioni che non subiscono direttamente gli effetti
della schiavitù avranno il diritto di adire l’autorità giudiziaria e accedere alla
documentazione del fascicolo d’indagine. I poteri, di qualunque tipo, non
amano acconsentire alla possibilità che dei militanti si immischino
nell’azione della magistratura, e che arrivino perfino ad avviare un’azione di
pubblica rilevanza. E anche in un Paese come la Francia, su un altro tema
delicato, la lotta contro la corruzione, ho dovuto battermi a lungo per far
inserire nella legge il diritto delle associazioni di costituirsi parte civile. La
maggioranza dei senatori vi si è opposta, mentre sono i deputati che l’hanno
votata.

Beh, immagino che in Mauritania non si sia raggiunto questo risultato!


Oh, anche là ci sono delle ONG che lottano! È indubbiamente più
difficile, ma sono decisamente battagliere. Una ONG è stata creata da alcuni
discendenti di haratin e bidhan. Sul piano simbolico è una bella cosa, ma,
ancor più, rivela un ulteriore cambio di mentalità generazionale.

E la Mauritania è il solo Paese da mettere al bando, tra le nazioni di


questo XXI secolo poco meno brutale del XX?
Direi piuttosto che è meglio che la comunità internazionale stia al fianco
della Mauritania, ovvero non solo delle sue autorità politiche, come nel caso
della roadmap che impegna il governo, ma anche dei suoi attori civili, come
SOS Esclavage di cui ti ho appena parlato, o IRA (Iniziativa per la rinascita
abolizionista) o le ONG transnazionali. Questo è possibile grazie allo statuto
di membro od osservatore dell’ONU.
Sennò, ahimè, ci sono altri Paesi che si segnalano per la loro
condiscendenza o inerzia nel combattere questa piaga. Altrove, come per
esempio in Pakistan, gli abitanti più poveri e i più deboli sono esposti a un
ignobile traffico. A volte vengono venduti dai propri genitori, per ripagare dei
debiti o per sopravvivere, come in Gabon, in Costa d’Avorio, in Ghana, in
Etiopia, in Eritrea. Possono inoltre essere reclutati alla luce del sole da
agenzie ben avviate, come nelle Filippine o nello Sri Lanka.
In Brasile, in Perù e in altri Paesi dell’America del Sud, dei lavoratori neri
e amerindi sono asserviti da un sistema disonesto in atto nelle miniere d’oro o
nelle imprese dedite allo sfruttamento delle foreste: i datori di lavoro
accordano loro un prestito e poi li obbligano a indebitarsi ulteriormente,
praticando un tasso d’inflazione galoppante sui prezzi del cibo, degli alloggi
e degli strumenti di lavoro che s’incaricano di fornire loro, beninteso. Così,
datori, commercianti e banchieri danno vita anche là a una sorta di
accerchiamento.
E poi c’è pure il caso particolare di Haiti.

Haiti! Ogni volta che si parla di disgrazie, Haiti è della partita! È un


destino straziante! E anche per quanto riguarda la schiavitù dei nostri
giorni, nonostante l’insurrezione vittoriosa del 1791.
Sotto la dittatura di Papa Doc, Duvalier padre, che si era autoproclamato
presidente a vita, i lavoratori haitiani venivano venduti alla vicina Repubblica
Dominicana come tagliatori di canne da zucchero che abitavano nei batey, gli
accampamenti intorno alle piantagioni. Quel commercio fruttava ogni anno al
bilancio dello Stato – che peraltro si confondeva col patrimonio personale dei
Duvalier – un milione duecentocinquantamila dollari. Non ci sono elementi
per dimostrare che queste ignobili usanze siano del tutto scomparse, anche se
non si manifestano più sotto la copertura dello Stato.
Ad Haiti ci sono dei bambini chiamati «restavek» o «lapourça», che sono
in genere ragazzine o adolescenti affidate o vendute da famiglie povere a
famiglie borghesi, spesso discendenti di mulatti, ma non solo, perché
tristemente anche la borghesia nera prende parte a tutto questo. E se, come tu
dici, Haiti è troppo spesso seduta alla tavola delle disgrazie, non si tratta certo
di una fatalità o di una maledizione, come a volte si sente dire. C’è un
crimine e ci sono i suoi autori, che sono dei criminali. C’è una causa e
l’urgenza di servirla, difendendola con tutti i mezzi di diritto e coercitivi. E,
sfortunatamente, la presenza di questi abomini in tutto il mondo ne conferma
la necessità. Alcune ONG affermano che la schiavitù è ancora presente in
Sudan, Paese che fa peraltro parte dell’ONU fin dal 12 novembre 1956. E
altri Paesi sono oggetto di critiche da parte di associazioni serie e credibili, i
cui militanti si battono sul campo per far scomparire questa ignominia.
È il caso dell’India, dove il lavoro obbligatorio è pur stato abolito il 24
ottobre 1975. E, di tanto in tanto, si verifica una tragedia che ci ricorda come,
purtroppo, non parliamo solo del passato, ma che l’infame tendenza a
opprimere il proprio vicino per trarne profitto persiste in numerosi punti del
globo, e che nessuno di noi può liberarsene: non possiamo farlo né come
esseri umani, fratelli di altri uomini, né come consumatori complici nostro
malgrado, né tanto meno come responsabili politici, contabili dello stato del
mondo.
Il mondo, appunto, è divenuto lo spazio aperto della concorrenza
economica, delle connivenze finanziarie, del cinismo cavilloso, delle
oppressioni sordide e sornione, delle manovre volte ad approfittare delle
carenze del diritto.
È quanto è successo con il crollo del Rana Plaza, il 24 aprile 2013, nella
periferia di Dacca, in Bangladesh. Millecentotrenta morti, oltre duemila feriti,
soccorsi da valorosi traumatizzati dall’incubo delle persone intrappolate sotto
le macerie di un edificio che ospitava le officine tessili in cui lavoravano per
più di dieci ore al giorno uomini, donne e a volte anche bambini, tutti poveri
e vulnerabili, soggetti di diritto senza diritti e oggetto di sfruttamento.

È molto triste. Ma almeno questo in Europa non succede!


Dovrai ricrederti. In Svizzera, in Francia, in Inghilterra, in Germania e
negli Stati Uniti, ci sono persone asservite per debiti che lavorano in officine
o in cantieri clandestini. Vi si possono trovare delle ragazzine, ma anche
giovani comprati o reclutati nei Paesi poveri, ridotti in schiavitù da pseudo-
datori di lavoro che confiscano loro i documenti, li privano della libertà e non
versano loro alcun salario. E questi datori sono spesso persone di grande
prestigio. Inoltre, per quanto riguarda il Rana Plaza, bisogna che tu sappia
che delle aziende di Paesi democratici che invocano con forza i diritti umani
vi trasmettevano degli ordinativi per far realizzare le loro collezioni di
abbigliamento, al riparo dagli sguardi dei cittadini-consumatori. Questi ultimi
devono pretendere l’introduzione di quella che si chiama la responsabilità
sociale delle imprese.

Bene! Credo di aver capito la differenza tra la schiavitù-sistema e la


schiavitù moderna, ma nei fatti ho la sensazione che sia meno semplice.
Hai ragione. E in particolare per quanto riguarda le vittime. Ci sono state
la tratta negriera e la schiavitù erette a sistema, di cui abbiamo già descritto
gli orrori. Esiste una schiavitù contemporanea che continua a comprare esseri
umani alla luce del sole, mentre tutte le convenzioni internazionali vietano e
incriminano la schiavitù, e nessun Paese membro della comunità
internazionale può avere una legislazione che la autorizzi. Questo crimine
prospera in quanto è sostenuto dalle reti della tratta di esseri umani. Tali reti
forniscono datori di lavoro che espongono degli uomini alle intemperie,
imponendo loro ritmi di lavoro infernali, e condizioni di vita e di lavoro
disumane. Riforniscono coloro che cercano soprattutto donne e bambini per
sottometterli agli asservimenti più diversi, principalmente di natura sessuale e
domestica, che si fanno rientrare nella schiavitù cosiddetta moderna. Tutti
questi sistemi, procedimenti o pratiche degradano le loro vittime.
Quando un Paese ricorre alla schiavitù o lascia che questa venga
utilizzata, la lotta consiste nel sopprimere gli ignobili testi che la autorizzano,
ancor prima di avvalersi dell’apparato giudiziario per ottenere la sanzione di
un atto che, formalmente, sarebbe legale. E la lotta si colloca pure sul piano
internazionale, quando si tratta di far mettere al bando quel Paese, come
dicevi poco fa.
Nel momento in cui la schiavitù o la servitù sono praticate
clandestinamente e a titolo privato, nel quadro di legislazioni che le
proibiscono, la battaglia è giudiziaria. Ogni cittadino è parte interessata e ha il
dovere di prestare soccorso alle vittime. Bisogna rivolgersi al commissariato
o informare un’associazione di lotta contro la schiavitù cosiddetta moderna.

Non ami questo nome?


Non trovo niente di moderno nella schiavitù.

Sono le forme che sono moderne.


Al contrario, rimangono arcaiche. Indipendentemente dalla loro
ingegnosità e abilità, quanti arrivano ad asservire degli esseri umani danno
soprattutto prova di una miseria morale, di un’incapacità di rispettare l’altro e
di onorare la propria umanità, di una ferocia di cui nessun animale è capace.

Di barbarie, per meglio dire. Dunque ogni cittadino può sporgere


denuncia per schiavitù moderna?
Questo delitto non è previsto dal Codice penale. Il vantaggio dei concetti
forti è di colpire le coscienze e mobilitare le energie. E quello di «schiavitù
moderna» è uno di essi. Nota che gli anglo-sassoni parlano di modern-day
slavery. Ma una cosa è il linguaggio, un’altra le norme giuridiche. Nella lotta
giudiziaria, bisogna colpire con precisione, per essere efficaci. È successo che
delle persone denunciate per «servitù» sfuggissero a qualunque condanna
sostenendo di essere in buona fede o di aver avuto intenzioni lodevoli verso
la vittima – che avrebbero sottratto a una sorte funesta o preso in carico su
richiesta della famiglia. Mentre, in determinati casi, delitti chiaramente
identificati come l’immigrazione clandestina, la confisca di documenti, il
sequestro, le percosse e i trattamenti degradanti avrebbero comportato delle
sanzioni.

Ma questo è sufficiente?
Sicuramente no. È per questo che era necessario colmare queste lacune
giuridiche e mantenere questa dinamica interattiva tra le legislazioni
nazionali e gli strumenti internazionali, al fine di approdare a un campo di
infrazioni e illeciti penali unificato: definizioni identiche, identiche sanzioni.
Bisogna infine che siano gli schiavisti a sentirsi accerchiati e presi di mira.

Questa prospettiva mi rallegra. Ma come si possono colmare le lacune


giuridiche? In Francia, per esempio?
Prima di tutto, identificando i difetti e le imprecisioni della legge, e
scrivendola il più precisamente possibile. Il diritto, in una democrazia, si
caratterizza per la sua prevedibilità – dunque è necessario che sia chiaro e
intelligibile – e la sua certezza: bisogna che sia stabile e basato su fondamenti
chiari in termini di valori etici.
Per quanto riguarda la precisione, per esempio, quando mi occupavo della
trasposizione nel Codice penale francese di direttive europee e di una
convenzione dell’ONU sulla tratta degli esseri umani, ci siamo trovati a dover
fare fronte all’assenza di fattispecie di reato che definissero la schiavitù e la
servitù. Nessun reato, nessuna sanzione. Eppure, la schiavitù era ben presente
nel Codice penale, all’articolo 212, dedicato agli «Altri crimini contro
l’umanità», mentre l’articolo precedente, il 211, tratta del «Genocidio».
Questa è la schiavitù-sistema, collettiva. La schiavitù individuale in quanto
tale, come peraltro la servitù, non era menzionata né definita nel Codice
penale; dunque, non erano sanzionate come tali. Ma ormai è cosa fatta. Ho
creato un gruppo di lavoro comprendente giuristi e parlamentari, per scrivere
degli articoli che garantiscano le qualità che evocavo di prevedibilità e
sicurezza. E, con la legge del 5 agosto 2013, abbiamo introdotto queste
specifiche fattispecie di reato, ormai punite, per la schiavitù, con vent’anni di
reclusione e con pene accessorie consistenti in particolare nella perdita dei
diritti civili e politici, e soprattutto nella confisca della totalità del patrimonio,
che abbia un’origine legale o meno. La servitù è punita con dieci anni di
reclusione e 300.000 euro di multa; il lavoro forzato è punito con sette anni di
reclusione e 200.000 euro di multa. Abbiamo inoltre specificato il delitto di
tratta di esseri umani, d’ora in poi punito con sette anni di reclusione e una
multa di 150.000 euro, che salgono rispettivamente a dieci anni e 1,5 milioni
di euro ove ricorrano circostanze aggravanti, come ad esempio quando la
vittima è un minore. E l’autore del reato non può opporre la circostanza del
consenso della vittima.

Cavolo! La legge ha la mano pesante!


Bisogna sapere che la tratta degli esseri umani è un’attività criminale
lucrativa, la terza secondo l’Ufficio dell’ONU per il controllo della droga e la
prevenzione del crimine72 – dopo il traffico di stupefacenti e le
contraffazioni – con un fatturato di 32 miliardi di dollari. Il numero di vittime
varia da 22 milioni secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro73 a
65 milioni di persone secondo altre fonti. Circa il 30% delle vittime è
costituito da bambini, e l’80% di esse sono costrette allo sfruttamento
sessuale. Le altre forme di assoggettamento sono i matrimoni forzati, il
lavoro forzato, l’accattonaggio forzato, la servitù per debiti. La conseguenza
è comunque quella di spezzare la traiettoria di vita di queste persone, di
privarle del proprio futuro, oltre alle sevizie che vengono loro inflitte.
Una delle difficoltà, d’altronde, per conoscere veramente il numero delle
vittime, è che gran parte di loro non sanno di essere schiave! I bambini e le
vittime che sono state vendute molto giovani o che sono continuamente
maltrattate non sanno neppure che la loro sorte non è normale, e ancor meno
che è illegale, né tantomeno che esistono delle procedure per proteggerle.
Serve un solido armamentario giuridico e giudiziario per far fronte a tutto
questo. La comunità internazionale nel 2004 ha adottato il protocollo
addizionale alla Convenzione contro la criminalità organizzata: questo mira a
prevenire, sopprimere e punire la tratta degli esseri umani, lo human
trafficking, specialmente quando riguarda le donne e i bambini.

Ciò non toglie che la proporzionalità sia un principio fondamentale,


come tu ami dire…
Esatto. La proporzionalità e la gradazione delle pene secondo la gravità
degli atti restano pur sempre dei fondamenti del diritto e della democrazia. E
la sanzione deve avere un senso. Per la società, per la vittima, ma anche per
l’autore. Il punto non è – malgrado l’emozione, l’indignazione, la ribellione
che questi delitti e questi crimini ci ispirano – perderci nell’inflizione di pene
spropositate. Il processo penale spezza proprio la dinamica di confronto
diretto la cui conseguenza principale è la vendetta inesauribile che si perpetua
di generazione in generazione, com’era nelle società arcaiche – e com’è
ancora in relazione a concetti del tutto anacronistici come quelli che alcuni
definiscono crimini d’onore, che in realtà sono semplicemente dei crimini.
Cesare Beccaria scriveva, già nel 1764, che la giustizia è «il vincolo
necessario per tenere uniti gl’interessi particolari» e che l’assenza di questo
luogo riporterebbe all’«antico stato d’insociabilità»74. E aggiungeva che
«tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono
ingiuste di lor natura»75. Così, non solo il processo penale presenta l’aspetto
virtuoso di interrompere il confronto diretto tra autore e vittima, ma comporta
anche la possibilità del ristabilimento di un legame sociale e pone fine alla
lite.
In questo caso, le sanzioni sono al tempo stesso commisurate ai danni
prodotti e conformi ai principi.

Devi pensare che non sia per compassione che sono colpita, ma perché
mi domando se l’effetto non sarà piuttosto, azzardando tanto, di accentuare
l’attività criminale.
È un rischio. Il solo modo di eliminarlo è l’efficacia. E, da questo punto
di vista, quello che abbiamo avviato è piuttosto convincente. Grazie
all’arsenale penale così completato e rafforzato, il numero di condanne è
passato dalla ridicola cifra di due nel 2006 a centoquaranta nel 2014.

Scusate se è poco! La partita è dunque vinta?


Non mi rallegrerei così in fretta. Certo è che questo segna un’importante
differenza. Tuttavia, se infliggere pene è essenziale, è però indispensabile
elevare il livello di consapevolezza dei divieti nella loro dimensione etica,
ancor più che penale. È comunque, al tempo stesso, la principale
conseguenza e il più importante insegnamento delle lotte condotte da tutti
coloro che hanno rifiutato l’oppressione, e individualmente dalle donne e
dagli uomini che hanno scosso, indebolito e quindi distrutto il sistema
schiavistico.

È tutto collegato, insomma?


Possiamo dire così. Le insurrezioni, il marronage e le molteplici forme in
cui gli schiavi e i loro alleati hanno cercato di far affondare il sistema
schiavistico hanno reso legittimo, nell’immediato e per il futuro, il postulato
dell’unità della condizione umana, la rivendicazione di uguaglianza, il
rispetto dei diritti civili e di quelli politici. Rivelano con chiarezza, come ha
affermato Louis Delgrès, che la resistenza all’oppressione è un diritto
naturale, che sia prevista o meno dalla legge. È una lezione dalla portata
universale. La posta in gioco non è trascurabile, considerato il numero di
vittime interessate, relativamente alle quali ti ho già detto che non si può
escludere che siano più numerose. E tutti i Paesi ne sono toccati, come luogo
d’origine, di transito o di destinazione.

Roba che dà le vertigini! La mia generazione ne avrà di lavoro da


svolgere!
Senza contare che alla tua generazione spetta anche mobilitarsi contro la
pena di morte nel mondo. Tutte queste battaglie sono collegate. Alcuni Paesi
sprofondano in un’autentica criminalizzazione della povertà, in una
penalizzazione delle differenze e delle singolarità. Intorno a un discorso sulla
sicurezza ispirato all’egoismo e alla codardia, la sfrenata severità delle
sanzioni porta a gettare in prigione dei poveri, anche per delitti di scarsa
gravità, e a giustiziare in continuazione, senza prove, senza certezze e senza
pietà, minorenni, handicappati, orfani ed emarginati. E tutto questo non
succede solo nei Paesi più colpiti dalla miseria o dalle disuguaglianze.

Negli Stati Uniti, per esempio. Dopo l’abolizione della schiavitù c’è stata
la segregazione, dopo l’illusione dei diritti civili con Martin Luther King il
carcere a oltranza. È difficile non comprendere la rivolta e i danni che
provoca. Purtroppo, hanno preso le sembianze delle Pantere Nere, dopo aver
avuto quelle di Malcolm X. E ci sono sempre gli stessi dietro il bottone di
comando, anche se di volta in volta trovano degli oppressi a cui far premere
il grilletto. E il peggio è che questa mentalità arriva anche qui.
È necessario cogliere diverse sfumature. Fu nello Stato del Michigan, il
1° marzo 1846, che venne votata la prima legge di abolizione della pena di
morte. Dodici stati americani sono abolizionisti, e praticamente altrettanti non
la applicano da diversi anni; ora, la criminalità, qui, non è superiore a quella
degli Stati in cui vige la pena di morte. Ma da questo Paese a noi viene il
peggio come il meglio. Con teorie fumose e totalitarie come la «tolleranza
zero», che si è affermata sotto Giuliani sindaco di New York, e di cui i
governanti francesi poveri d’immaginazione e inefficaci si sono impossessati
nel quinquennio 2007-2012, si è nutrita l’illusione che sia possibile vivere
senza rischi, egoisticamente, indifferenti alla sfortuna altrui. La paura dei
benestanti viene sbandierata in società sempre più disuguali. Mancano voci
forti, profonde, generose, ispirate a un senso di fratellanza, basate sul
coraggio e sulla solidarietà, che dichiarino che l’egoismo non è un ideale, che
l’ingiustizia non è una fatalità, che il futuro non si costruisce senza lotte.
Sulle spalle della tua generazione restano delle grandi conquiste ancora da
compiere.

Conquiste alle porte, ma anche alla fine del mondo, se ho ben compreso?
Sì, hai capito bene. Dobbiamo lottare qui e certamente anche per le realtà
lontane da noi. Contro l’esclusione, le discriminazioni e i pregiudizi che
rimettono ai margini coloro che sono diversi. Ma anche per l’abolizione della
pena di morte negli Stati Uniti e a Cuba, in Cina e nei Paesi della penisola
arabica. Contro la violenza quotidiana, ma anche contro le pene corporali
impiegate come sanzioni giudiziarie. Contro la povertà qui e contro la fame
nel mondo. Per tutti coloro che sono senza documenti, senza domicilio, che
sono privati delle libertà e dei diritti fondamentali. Con tutti quelli che
rifiutano di credere che l’inferno sia sulla terra.
La tratta degli esseri umani da parte di reti criminali che se ne infischiano
delle frontiere e si prendono gioco delle regole del diritto, i drammi che si
verificano lontano da noi ma che coinvolgono persone a noi molto vicine
ricordano come la globalizzazione consista fin troppo spesso
nell’ampliamento delle esclusioni, nell’espansione dei domini,
nell’aggravarsi delle ingiustizie, nel propagarsi delle sottomissioni,
nell’amplificarsi delle disuguaglianze. È necessario che noi, e anche voi, in
futuro, contrapponiamo a questo mostro la dimensione globale della
solidarietà e della fraternità, elogiata da Édouard Glissant.

È una lotta senza tregua, quella che dovremo condurre!


Il vostro cuore è immenso e la vostra energia inesauribile. E io so che,
dopo aver curato queste piaghe e sconfitto queste calamità, vi resterà ancora
abbastanza forza per aiutare coloro che si addormentano nell’opulenza a
scoprire la gioia della condivisione.

Ma questo è utopico!
Per le anime valorose, l’utopia non ha mai più di qualche anno di
anticipo.
72. United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC). [N.d.T.]
73. International Labour Organization (ILO). [N.d.T.]
74. Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Cap. II (disponibile su
internet, alla pagina
https://it.wikisource.org/wiki/Dei_delitti_e_delle_pene/Capitolo_II).
75. Ibidem.
ALLEGATI
LEGGE TENDENTE AL RICONOSCIMENTO
DELLA TRATTA E DELLA SCHIAVITÙ
COME CRIMINE CONTRO L’UMANITÀ.
RELAZIONE DELLE MOTIVAZIONI DELLA SIG.RA
TAUBIRA-DELANNON
DEPUTATA DELLA GUYANA
ASSEMBLEA NAZIONALE
COSTITUZIONE DEL 4 OTTOBRE 1958
UNDICESIMA LEGISLATURA
REGISTRATA PRESSO LA PRESIDENZA
DELL’ASSEMBLEA NAZIONALE
IL 22 DICEMBRE 1998

Signore, Signori,
Non esiste contabilità che quantifichi l’orrore della tratta negriera e
l’abominio della schiavitù. I diari di bordo dei navigatori, contraffatti, non
documentano la vastità delle razzie, del dolore dei bambini sfiniti e
terrorizzati, lo sgomento e la disperazione delle donne, lo sconvolgimento e
l’afflizione degli uomini. Tacciono sul trauma sconvolgente da loro patito
nella casa degli schiavi a Gorée. Ignorano il terrore dell’essere ammassati sul
fondo delle stive. Cancellano i lamenti degli schiavi gettati dalle navi con
tanto di zavorre. Negano le violenze sessuali contro adolescenti spaventate.
Glissano sugli scambi condotti nei mercati del bestiame. Dissimulano gli
omicidi protetti dal Codice nero. Invisibili, anonimi, senza origini né
discendenza, gli schiavi non contano. Contano solo i profitti. Nessuna
statistica, nessuna prova, nessun danno, nessun risarcimento. I non-detti del
terrore che accompagnò la deportazione più massiccia e più lunga della storia
umana sono rimasti dormienti, per un secolo e mezzo, sotto la più pesante
cappa di silenzio.
La battaglia delle cifre infuria. Ci sono storici che vacillano sul conteggio
di milioni di bambini, di donne e di uomini, giovani e in buona salute, in età
fertile, che vennero strappati alla terra d’Africa. Arresi e senza certezze, si
mantengono su una forbice tra quindici e trenta milioni di deportati sulla
tratta transatlantica. Ci sono archeologi che si applicano come scolaretti per
decifrare le vestigia di civiltà precoloniali e riportano alla luce, con patetica
soddisfazione, le prove della grandezza dell’Africa del tempo precedente i
conquistatori e gli agenti delle compagnie commerciali. Ci sono antropologi
che descrivono lo scambio ineguale del commercio triangolare tra gli schiavi,
materia prima del capitalismo espansionistico europeo, e i ninnoli, i tessuti, le
barre di ferro, le bevande alcoliche e i fucili che servivano a pagare le
«consuetudini», diritti pagati sulla tratta agli Stati o ai capi delle chefferies
costiere76. Ci sono etnologi che ricostruiscono lo schema di esplosione delle
strutture tradizionali travolte da questo traffico, che alimentò i porti europei
con lucrose accise, gli armatori con colpevoli rendite, gli Stati con introiti
fiscali incolori e inodori. Ci sono sociologi che scovano le tracce di intrighi
politici fomentati dai negrieri per attizzare i conflitti tra Stati africani, tra
chefferies costiere e tra fornitori di «legno d’ebano». Ci sono economisti che
paragonano la voracità dell’economia mineraria alla rapacità dell’economia
delle piantagioni, prendendo spunto dalla vasta portata delle deportazioni. Ci
sono teologi che fanno l’esegesi della maledizione di Cam e tentano di porre
fine alla controversia di Valladolid. Ci sono psicanalisti che esplorano le
risorse di sopravvivenza e i meccanismi esorcistici che permisero di sfuggire
alla follia. E ci sono giuristi che dissezionano il Codice nero, definiscono il
crimine contro l’umanità e ricordano come sia imprescrittibile.
I figli e le figlie di discendenti di schiavi – dispersi in diaspore comuni,
feriti e umiliati, saturi di cavillose disquisizioni sulla schiavitù precoloniale,
le date di conquista, il volume e il valore delle merci, le complicità locali, i
liberatori europei – replicano con i versi che narrano le imprese di Shaka,
imperatore zulu, che si oppose alla penetrazione nella terra del suo popolo da
parte dei mercanti di schiavi. Cantano l’epopea di Soundiata Keïta, fondatore
dell’impero del Mali, che combatté senza tregua il sistema schiavistico.
Brandiscono la bolla di Ahmed Baba, grande sapiente di Timbuctu, che
ripudiò la maledizione di Cam in tutto l’impero Songhai e condannò la tratta
trans-sahariana iniziata da mercanti maghrebini. Svelano la temerarietà della
regina Dinga, che osò addirittura affrontare suo fratello con un rifiuto senza
mezze misure. Collezionano le lettere di Alfonso I, re del Congo, che si
appellò al re del Portogallo e al papa. Mormorano la ronda dei marrons,
gloriosi guerrieri e ribelli ordinari. Canticchiano le canzoni dei negri nelle
capanne, compagni di evasioni, incendiatori, artigiani di sortilegi, artisti del
veleno. Intonano la funesta e grandiosa cantilena delle mammane. Tentano di
attenuare la cupidigia di quanti tra loro consegnarono dei prigionieri ai
negrieri. Misurano la loro venalità, la loro incoscienza o la loro codardia, di
una pietosa banalità, col metro del tradimento dei loro capi, non meno
numerosi, che pure li vendettero in altri tempi e altri luoghi. Disgustati dalla
mala fede di quanti dichiarano che la colpa è stata cancellata dalla morte dei
responsabili e cavillano sui destinatari di eventuali risarcimenti, bisbigliano,
imbarazzati, che sebbene lo Stato d’Israele non esistesse quando i nazisti
misero in atto, per dodici anni, l’Olocausto ai danni degli ebrei, beneficia pur
tuttavia dei danni pagati dall’ex-Repubblica federale tedesca. A disagio,
sussurrano che gli americani riconoscono di dover risarcire i loro
connazionali di origine giapponese internati per sette anni su ordine di
Roosevelt durante la seconda guerra mondiale. Contrariati, evocano il
genocidio armeno e rendono tributo al riconoscimento di tutti questi crimini.
Mortificati da questi confronti, tramano insieme, oppressi e ardenti dal
desiderio di convincere che niente sarebbe peggio che alimentare e lasciar
fermentare una squallida «concorrenza tra vittime».
Gli umanisti insegnano allora, con serena rabbia, che non è possibile
descrivere l’indicibile, spiegare l’innominabile, misurare l’irreparabile.
Questi umanisti, di tutti i mestieri e di tutte le condizioni, eminenti specialisti
o cittadini senza particolari connotazioni, esponenti della razza umana,
soggetti di specifiche culture, ufficiali od oppresse, portatori di identità
raggianti o tormentate, pensano e proclamano che sia arrivata l’ora del
raccoglimento e del rispetto. Che le circonlocuzioni sulle motivazioni dei
negrieri sono disgustose. Che gli scaltri discorsi sulle circostanze e le
mentalità di epoche passate sono volgari. Che le digressioni sulle complicità
africane sono oscene. Che le revisioni statistiche sono immonde. Che i calcoli
sui costi del risarcimento sono indecenti. Che le dispute giuridiche e le
tergiversazioni filosofiche sono indecorose. Che le sottigliezze semantiche tra
reato commesso e tentato sono ciniche. Che le esitazioni a riconoscere il
crimine sono offensive. Che la negazione dell’umanità degli schiavi è
criminale. Dicono, con Elie Wiesel, che il «carnefice uccide sempre due
volte, e la seconda con il silenzio».
I milioni di morti comprovano il crimine. I trattati, le bolle e i codici ne
registrano lo scopo. Le licenze, i contratti, i monopoli di Stato ne attestano
l’organizzazione. E coloro che affrontarono la barbarie assoluta portando con
sé, da luoghi al di là dei mari e oltre l’orrore, tradizioni e valori, principi e
miti, regole e credenze, e inventando canti, racconti, lingue, riti, divinità,
sapori e tecniche in un continente sconosciuto, coloro che sopravvissero alla
traversata apocalittica sul fondo della stiva, senza più punti di riferimento,
coloro le cui pulsioni vitali furono così potenti che prevalsero
sull’annientamento, costoro sono dispensati dal dover dimostrare la propria
umanità.
LA FRANCIA, CHE PRIMA DI ESSERE ABOLIZIONISTA FU SCHIAVISTA, PATRIA DEI
DIRITTI DELL’UOMO OFFUSCATA DALLE OMBRE E DALLE «MISERIE DEI LUMI»,
RIDARÀ LUSTRO E GRANDEZZA AL SUO PRESTIGIO, AGLI OCCHI DEL MONDO,
INCHINANDOSI PER PRIMA DAVANTI ALLA MEMORIA DELLE VITTIME DI QUESTO
CRIMINE SENZA PADRI.

«Gazzetta Ufficiale» n° 119 del 23 maggio 2001


LEGGE N° 2001-434 DEL 21 MAGGIO 2001
TENDENTE AL RICONOSCIMENTO DELLA TRATTA
E DELLA SCHIAVITÙ
COME CRIMINE CONTRO L’UMANITÀ (I)

L’Assemblea nazionale e il Senato hanno adottato,


il presidente della Repubblica promulga la legge il cui contenuto segue:

Articolo 1
La Repubblica francese riconosce che la tratta negriera transatlantica, così
come la tratta nell’oceano Indiano da una parte, e la schiavitù dall’altra,
perpetrate a partire dal XV secolo, nelle Americhe e ai Caraibi, nell’oceano
Indiano e in Europa contro le popolazioni africane, amerindie, malgasce e
indiane, costituiscono un crimine contro l’umanità.

Articolo 2
I programmi scolastici e i programmi di ricerca in storia e scienze umane
accorderanno alla tratta negriera e alla schiavitù il posto di rilievo che
meritano. La cooperazione, che permetterà di collegare i documenti scritti
disponibili in Europa con le fonti orali e le conoscenze archeologiche
accumulate in Africa, nelle Americhe, ai Caraibi e in tutti gli altri territori che
hanno conosciuto la schiavitù, sarà incoraggiata e favorita.

Articolo 3
Una richiesta di riconoscimento della tratta negriera transatlantica, come
anche della tratta nell’oceano Indiano e della schiavitù come crimini contro
l’umanità sarà avanzata presso il Consiglio d’Europa, varie organizzazioni
internazionali e l’Organizzazione delle Nazioni unite. Tale richiesta
riguarderà anche la ricerca di una data comune per il piano internazionale
volto a commemorare l’abolizione della tratta negriera e della schiavitù,
ferme restando le date commemorative proprie di ciascuno dei dipartimenti
d’oltremare.

Articolo 4
L’ultimo comma dell’articolo unico della legge n° 83-550 del 30 giugno
1983, relativa alla commemorazione dell’abolizione della schiavitù, è
sostituito da tre commi così redatti: «Un decreto stabilisce la data della
commemorazione per ognuna delle collettività territoriali sopra richiamate;
«Nella Francia continentale, la data di commemorazione annuale
dell’abolizione della schiavitù è fissata dal governo dopo una consultazione
la più vasta possibile;
«Viene instaurato un comitato di personalità qualificate, tra le quali dei
rappresentanti di associazioni a difesa della memoria degli schiavi, incaricato
di proporre, sull’insieme del territorio nazionale, luoghi e azioni che
garantiscano la perenne memoria di questo crimine da una generazione
all’altra. La composizione, le competenze e le missioni di questo comitato
sono definite da un decreto del Consiglio di Stato adottato entro un termine di
sei mesi dalla pubblicazione della legge n° 2001-434 del 21 maggio 2001,
tendente al riconoscimento della tratta e della schiavitù come crimine contro
l’umanità.»

Articolo 5
All’articolo 48-1 della legge 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa, dopo
le parole: «con il suo statuto, di», sono inserite le parole: «difendere la
memoria degli schiavi e l’onore dei loro discendenti».
Alla presente legge verrà data esecuzione come a una legge dello Stato.

Parigi, 21 maggio 2001.


76. Le chefferies erano circoscrizioni territoriali africane dalla natura
tribale, che raggruppavano diversi gruppi, di origini diverse ma uniti
dall’obbligo di rispettare determinate strutture di potere e tradizioni
dominanti. [N.d.T.]

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