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Christiane Taubira
La schiavitù
raccontata a mia figlia
TRADUZIONE DI
Giovanni Agnoloni
INDICE
Preludio
Introduzione
La tratta e la schiavitù nella loro verità
Le ambiguità dell’universale
Il crimine contro l’umanità
Le lotte. I nostri padri, questi eroi…
I risarcimenti
L'oggetto della legge che riconosce il crimine contro l’umanità
La colonizzazione
Le forme contemporanee e cosiddette moderne di schiavitù
Allegati
PRELUDIO
Questa è una storia di violenza e bellezza.
Un incubo senza luce.
Sotto il vapore opaco che accompagna l’incendio, i bambini, sconvolti,
cercano. Il sole spunta già dietro la cima degli alberi, e il ruscello che scende
verso il fiume canta, sfiorando la punta delle rocce che incontra lungo il suo
percorso e grattando via la terra trattenuta dagli arbusti sulle rive. Come se
fosse un giorno uguale agli altri. La colonna umana, incatenata al collo e alle
caviglie, suscita a volte contro i capi-convoglio, bianchi o neri che siano, la
collera di uomini e donne di ritorno dai campi, incrociati sulle strade che
portano al mare, dove sono ormeggiate le navi negriere.
La costa è meravigliosa. Si apre sul cielo color indaco, che l’orizzonte
confonde con il baratro di un mondo senza perdono. Le onde si lacerano
contro gli scogli come una madre il cui spirito è alla deriva.
Delle ragazzine curvano la schiena, altre raddrizzano più saldamente le
spalle, lo sguardo confuso ma tenace. Hanno subito il violento rituale di
accoppiamento dei marinai. Alcune, la maggior parte, ne sono uscite con
l’anima distrutta. Altre capiscono che è la prima sfida lanciata alla loro
umanità. E la raccolgono.
Le donne continuano a muoversi con gesti sicuri, finché i figli richiedono
le loro attenzioni. Mormorano loro che quello è un inconveniente della vita,
come quando le stagioni dettano i tempi della transumanza o quando tribù
confinanti, provenienti da lontano, saccheggiano i loro villaggi.
Gli uomini, mortificati, non possono più proteggerle.
A bordo ci sono anche degli anziani, catturati insieme agli altri nel corso
delle razzie, o intrufolatisi volontariamente tra i propri familiari per
accompagnarli e vegliare su di loro, che un’aggressione, una sventura o
un’ingiustizia destinano a una sorta funesta.
Quanti, in questi quattro secoli, si sono tuffati con la zavorra delle loro
catene, dopo aver tentato di prendere il comando delle navi e degli equipaggi,
o anche senza averci provato, semplicemente perché preferivano l’abbraccio
dell’oceano ruggente alla cupa e arrogante crudeltà degli uomini?
E la castagna si ruppe.
C’erano degli uomini coscienti di sé.
I griot1 cantavano dalla notte dei tempi i diritti e i divieti scritti nella
Dunya Makilikan di Soundjata Keita, nella bolla di Ahmed Baba, e nelle
stesse leggi di Urukagina e nel codice di Hammurabi.
C’erano degli uomini che li conoscevano.
L’Habeas Corpus romano e la Magna Charta avevano da molto tempo
stabilito i limiti della forza e degli abusi di potere.
Servivano bolle papali, ordinanze reali, dispute, editti, sentenze e decreti
per contraddirli e mantenere questo disordine morale e sociale…
C’era bisogno di esegesi, dottrine, dogmi e postulati per giustificare
questo commercio contro natura e contro l’umanità, e per placare delle
coscienze tormentate…
Non ne rimasero tutti uccisi, ma tutti ne furono macchiati. Le religioni, la
filosofia, la sociologia, l’antropologia, le scienze… perfino il diritto, nel
quale i manipolatori di concetti inocularono fumose teorie, dando il proprio
contributo a questo grande inganno!
In tutti questi ambiti ci sono stati degli spiriti emarginati per avere scelto
vie diverse dal sapere al servizio del potere, del dominio, dell’ingiustizia, e
per alcuni – pienamente consapevoli di questo – anche del crimine. I dibattiti
dell’epoca stanno a dimostrarlo.
Coloro che oggi sono esposti alle discriminazioni sono dei cittadini e
devono essere trattati come tali. Ciò implica che la lotta contro le
discriminazioni permette la risposta ferma, giudiziaria e riparatrice che
esigono al tempo stesso il loro divieto costituzionale, le sanzioni penali
previste e la preservazione del patto repubblicano. Ma, in qualità di cittadini,
le persone interessate si aspettano qualcos’altro: il rispetto del contratto
sociale. E la risposta individuale non può bastare, benché sia fortemente
necessaria. È indispensabile quella delle istituzioni. È dunque attraverso
l’inclusione in tutti i campi, economico, sociale, culturale, simbolico e
politico, che devono essere non invitati, ma accolti, coloro che dobbiamo
imparare a considerare non come dei presunti stranieri, non come dei cittadini
di serie B, non come dei problemi, ma come soggetti di diritto, cittadini a
pieno titolo, teoricamente dotati della pienezza degli attributi della
cittadinanza, e che devono infine arrivare a esserlo in concreto. Questa è la
condizione per una risposta collettiva e durevole ai tormenti individuali. Con
una prospettiva politica: creare insieme la società.
Perché, dopo aver ricordato l’orrore del sistema della tratta degli schiavi e
l’inferno della schiavitù, la prosperità che ne ricavò l’Europa occidentale, le
profonde trasformazioni che conseguentemente toccarono le attività, le
relazioni, le dottrine, le narrazioni che hanno fornito radici così profonde al
razzismo, dopo aver acclarato che fin da quei tempi le iniziative di resistenza
e solidarietà transcontinentali postulavano già il rifiuto della schiavitù,
dell’oppressione, dell’umiliazione, e affermavano già l’uguaglianza tra gli
uomini, ci rimane da riconoscere quello che abbiamo in comune.
È pur vero, però, che ci sono dei Paesi in cui le persone non possiedono
tutte le libertà, in particolare in certe tribù. E tu, che ami tanto parlare di
solidarietà, come fai a tracciare una linea di demarcazione tra il gruppo e
l’individuo?
Prima di tutto, non è questione di avere tutte le libertà. Si tratta di non
riconoscere a nessuno, e con nessun pretesto, il diritto di proprietà su un’altra
persona. E in quelle che tu chiami tribù, che in effetti sono comunità di
uomini che hanno scelto delle regole di vita comune – che peraltro non è
neppure il caso di stare a idealizzare – la libertà è spesso meno teorica che
nelle società in cui le libertà individuali lasciano soprattutto ciascuno solo
davanti alle ingiustizie e alla propria disperazione. Eppure, perfino le società
tradizionali hanno praticato delle forme di servitù o schiavitù.
Indipendentemente dalle affinità e dall’ammirazione che si può provare per
questa o quella forma di organizzazione sociale, non si può accettare neanche
l’idea di oppressione. Nessuna scusa è ammissibile, al riguardo. Ma ripeto,
non tutte le forme di asservimento sono uguali. Alcune sono più alienanti di
altre. Alcune richiedono una resistenza più vigorosa di altre.
Questo significa che non si deve mai essere privati della libertà? Bisogna
abolire le prigioni, allora?
Io parlo della privazione della libertà per ragioni arbitrarie e spesso
ignobili: il profitto, il disprezzo, il razzismo e altri abusi, pregiudizi ed
eccessi. Quando una persona viene privata della libertà dopo essere stata
condannata, se il processo è stato equo come prevede l’articolo 11 della
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, non c’è niente da
dire, salvo mettere in discussione il sistema penale del Paese in questione.
Purtroppo, la reclusione è il mezzo adottato per sanzionare colpe, crimini e
delitti, nelle società contemporanee. E, peraltro, nelle meno violente tra esse.
Riflettere sul carcere, le sue alternative, l’influenza che le paure sociali
esercitano sulla severità di certe condanne, sul dovere pubblico di
reinserimento, ovvero sulla preparazione alla scarcerazione, e così via,
dev’essere un’esigenza permanente. Ma questo tipo di dibattito ci
allontanerebbe notevolmente dalla nostra discussione sulla schiavitù.
Bene, signora. Allora, e se infine mi parlassi della schiavitù al tempo dei
romani, degli arabi, degli europei e di altri ancora, magari?
Di fatto, sappiamo tutti che la schiavitù esiste fin dall’Antichità.
Sappiamo che era praticata presso i sumeri, gli assiri, i babilonesi, gli egizi,
gli ebrei e numerosi altri popoli antichi. Parliamo di duemila anni prima di
Cristo. L’Egitto dei faraoni trattava come schiavi gli stranieri sconfitti. Fu il
caso dei nubiani o dei libici, per esempio. Questi schiavi, nella maggior parte
dei casi, erano destinati alle faticose mansioni di costruzione e ampliamento
delle città, ma anche ai duri lavori dei campi.
Al tempo delle conquiste militari della Grecia e dell’antica Roma, gli
schiavi inizialmente erano i guerrieri nemici sconfitti. Le donne e il resto
della popolazione erano considerati bottino di guerra o di pirateria. Ma i
cittadini potevano essere ridotti in schiavitù per aver fatto debiti o infranto
certe leggi. Questa situazione, tuttavia, era più frequente nel mondo orientale,
in contrapposizione al mondo greco-latino, nel quale venivano risparmiate le
persone cosiddette di razza e di lingua ellenica. Tutto questo andava bene a
Platone e Aristotele, che ritenevano che certe categorie di uomini fossero
destinate a essere asservite, affinché altre si realizzassero e mettessero i
propri talenti al servizio della gestione e della protezione dello Stato. Platone
diceva: «Ogni parola rivolta a uno schiavo dev’essere un ordine categorico».
In queste società classiste, non esisteva solidarietà tra gli uomini liberi. Così,
dei salariati, dei piccoli artigiani autonomi e dei poveri potevano patire una
condizione di vita materiale quasi indigente quanto quella degli schiavi. C’era
però una differenza di non poco conto tra un uomo molto povero, ma libero, e
uno schiavo, anche se meno miserando: il primo godeva dei diritti di
cittadinanza.
D’altronde, neppure tutti gli schiavi erano nelle stesse condizioni.
Potevano essere schiavi domestici o condannati ai lavori forzati, destinati ai
lavori pubblici, agricoli o minerari. Potevano essere autorizzati a svolgere un
mestiere artigianale e a versare una rendita al loro padrone. Potevano
riscattare la propria libertà, venendo emancipati. In Grecia, lo schiavo
affrancato era assimilato al meteco, vale a dire lo straniero domiciliato.
Numerose cariche e certi mestieri gli erano vietati. Tuttavia, sappiamo che
alla fine del IV secolo a.C. gli schiavi sciti ad Atene svolgevano funzioni di
polizia armata. A Roma l’accesso a certe funzioni pubbliche rimaneva
precluso a uno schiavo affrancato, che però godeva della totalità dei diritti
civili e di gran parte di quelli politici. Pare perfino, secondo alcuni autori, che
degli antichi schiavi siano arrivati alla carica di senatore o siano stati integrati
nel governo dello Stato.
Dopo tutto, la loro condizione non era così terribile come immaginavo.
Questa è probabilmente anche l’opinione di coloro che rifiutano ogni
discussione sulla schiavitù, sintetizzando così il problema: la schiavitù è
sempre esistita, ed è perfino successo che la sorte degli schiavi si sia rivelata
più invidiabile di quella di certi cittadini liberi. È innegabile che,
nell’Antichità, la schiavitù medio-orientale, greca e romana prevedesse delle
vie d’uscita mediante l’accesso, sia pur parziale, ad alcune prerogative della
cittadinanza. Ma questo non deve far perdere di vista il fatto che la schiavitù
è una privazione di libertà, arbitraria quando deriva da atti di guerra o di
pirateria e spropositata quando sanziona certi debiti o determinati delitti. Non
dimenticare che consiste comunque nel sottrarre a esseri umani la loro forza-
lavoro senza rimunerarli. D’altro canto, questa schiavitù di guerra e di
pirateria creò le premesse per un massiccio sfruttamento economico basato
sulla cattura e l’asservimento, motivato dalle conquiste in Africa, in Oriente,
in Gallia, in Germania e nei Balcani, e stimolato dallo sviluppo
dell’agricoltura e dell’allevamento.
Mi vuoi dire che Noè, l’unico uomo che Dio abbia giudicato degno di
essere salvato prima del Diluvio, era anche malvagio e ingiusto?
Ascolta, per adesso lasceremo fuori Dio. Tu parli di ingiustizia, perciò
vedi bene come sia nella dimensione temporale che bisogna esaminare questa
storia e trarne la morale. Riparti da capo.
Allora, Noè era ubriaco. E come se questo cattivo esempio non bastasse,
ricompensò la delazione di Sem e Jafet, invece di metterli a pane secco e
acqua o di dare loro il doppio della superficie di campo da arare per
piantare nuovi vigneti.
Esatto.
Redenzione?
Sì, la possibilità di riscattarsi. La fine del castigo. La speranza di un
sollievo. È una storia che non lascia il minimo spazio né alla fraternità, né
all’amore, né alla clemenza, e neppure alla carità. Ed è sulla base della sua
pretesa fondatezza che la tratta e la schiavitù inflitte a milioni di uomini,
donne e bambini hanno potuto essere perpetrate, a volte nell’indifferenza,
spesso con la complicità e perfino con la benedizione o sotto l’autorità di
generosi fondatori di ordini missionari. E questi ultimi, intanto,
proclamavano che la nobile missione dell’Europa era quella di assicurare la
salvezza dell’anima degli sventurati figli d’Africa colpiti dalla maledizione.
Con tutte queste questioni che non smettono mai di sollevare polemiche,
tra la pedocriminalità e il genocidio ruandese, non si sa mai fino a che livello
di responsabilità sia coinvolta la Chiesa, quando si vedono preti fare cose
contrarie alla morale e alla parola di Cristo. Almeno, per quello che ricordo
di quanto ho imparato al catechismo.
Nelle questioni a cui ti riferisci, la giustizia dovrà far luce sulle
responsabilità di ciascuno. Sappiamo già che un silenzio colpevole da parte
delle gerarchie ecclesiastiche ha permesso a quei preti di martirizzare dei
bambini vulnerabili, e forse di credere di restare impuniti. Per parte mia,
ritengo che questi atti rientrino nella pedocriminalità, perché non c’è nessun
amore nel tradire la fiducia e nel rubare l’innocenza dei piccoli. Per i bambini
vittime di violenze sessuali, come per la schiavitù, la responsabilità della
Chiesa varia a seconda dei periodi. Tuttavia, in numerosi casi è stata
indiscutibile.
In Ruanda il prezzo del genocidio e i traumi subiti sono incalcolabili. Per
fortuna, comincia a essere fatta giustizia. Con i tribunali gacaca – che in
kinyarwanda si pronuncia gaciacia – una versione locale della Commissione
per la verità e la riconciliazione di Nelson Mandela e Desmond Tutu in
Sudafrica; ma anche in Francia, dove sono rifugiati dei ruandesi sospettati di
aver preso parte al genocidio. È stata pronunciata una prima condanna, dopo
vent’anni. C’è voluto molto tempo, ma è un fatto incoraggiante: niente
impunità.
Ricordi la bolla Romanus Pontifex dell’8 gennaio 1454 di papa Nicola V?
Era presto! Considera che una bolla papale impegna la più alta autorità della
Chiesa, ed è importante, perché i regni europei riconoscono la supremazia del
pontefice. Successivamente, la bolla Inter Caetera del 3 maggio 1493, di
papa Alessandro VI, introdusse nelle Americhe una linea di demarcazione
favorevole ai re cattolici spagnoli. I portoghesi, fino a quel momento
privilegiati da Nicola V e Callisto III, preoccupati di sfuggire alle tasse regie
che andavano a profitto del regno rivale di Spagna, protestarono contro
questo monopolio iberico. Il trattato firmato il 7 giugno 1494 tra portoghesi e
spagnoli a Tordesillas, in Spagna, spostò dunque la linea di demarcazione,
riconoscendo al Portogallo la parte orientale dell’America e le isole di Capo
Verde a ovest dell’Africa. E gli inglesi, presi dalla Riforma – sai, quel
movimento religioso di contestazione che portò alla nascita del
protestantesimo – insorsero, mettendo in discussione l’autorità pontificia.
Quanto ai francesi, per voce di Francesco I, chiesero «quale clausola del
testamento di Adamo tenga il regno di Francia fuori dalla spartizione del
mondo». Perché, a partire dalla metà del XVI secolo, oltre alla Spagna e al
Portogallo, per diverse potenze europee – principalmente l’Inghilterra, la
Francia, l’Olanda, la Danimarca e perfino la Svezia – la tratta negriera
rientrava in una pratica commerciale corrente e sistematica, in rapporto alla
loro concorrenza economica internazionale.
Numerose altre bolle papali coinvolsero la Chiesa nella spartizione delle
conquiste coloniali. Essa si mostrò molto partecipe nel regolamentare le
rivalità tra potenze europee, ma indifferente alla sorte degli schiavi. Tra le
lettere di San Paolo, quella a Filemone invita questo padrone a trattare più
fraternamente Onesimo, che è fuggito e si è convertito al cristianesimo, ma è
rimasto uno schiavo. Numerosi altri versetti esortano gli schiavi a una
sottomissione religiosa al loro padrone. Sant’Agostino presenta la schiavitù
come la conseguenza del peccato.
E non c’è nessuno che, senza ambiguità, come a te piace dire, abbia
preso le distanze da questa infamia?
Sì, c’è Tomás de Mercado, un sacerdote domenicano che, in un libro
comparso nel 1571, afferma con chiarezza che la tratta è contraria alle giuste
regole del commercio e ai principi di umanità. Denuncia perciò il commercio
degli schiavi, ma accetta la schiavitù. Un giurista laico, Bartolomé de
Albornoz, nel 1573 pubblica un’opera in cui rifiuta nettamente il pretesto
della religione e sostiene che sia meglio essere «schiavi e cristiani che liberi e
ignorare la legge di Dio». Egli afferma che la legge di Cristo non può
«indicare che la libertà dell’anima debba pagarsi con la schiavitù del corpo».
Il suo libro sarà proibito dal Sant’Uffizio. Inoltre, per nostra grande fortuna e
con nostro grande conforto, Louis Sala-Molins ha scoperto due figure
magnifiche, due cappuccini, Francisco José de Jaca17 ed Épiphane de
Moirans18, giovani sacerdoti di ventisette e trentadue anni, inviati l’uno a
Caracas, l’altro nella Cayenna – dove non arriverà mai – che nelle loro
predicazioni denunceranno quelle pratiche, riferendosi tanto alla religione
cristiana quanto al diritto, in nome dei «diritti dell’uomo» e del «lume della
ragione»19. Quanto alla prima presa di posizione ufficiale della Chiesa
contro la schiavitù, emergerà in una lettera di Pio VII al re di Francia, datata
20 settembre 1814. Qui si stabilisce il divieto di considerare come lecito il
traffico dei neri. Ciò non avviene peraltro molto prima della presa di
posizione delle autorità laiche, poiché il Congresso di Vienna interviene
qualche mese più tardi, l’8 febbraio 1815, per vietare la tratta in quanto
«ripugnante al principio di umanità e della morale universale». Ma la
schiavitù continua a essere permessa.
Lo Stato, dici?
Sì, lo Stato. Era proprietario delle piantagioni demaniali. Possedeva
immensi campi di canna da zucchero nei quali lavoravano degli schiavi. Le
autorità francesi, spagnole, portoghesi e inglesi crearono delle compagnie
nazionali, vale a dire delle imprese pubbliche che avevano il monopolio di
questo commercio. Devi aver letto qualcosa sulla Compagnia delle Indie
occidentali, la Compagnia dell’Africa equatoriale, e così via. Questo
monopolio in Francia durò fino al 1716, data in cui delle lettere patenti
emesse dal regno aprirono questo commercio alle imprese private. Ma lo
Stato non rinunciò a tutto. Percepiva delle tasse sul tonnellaggio delle
imbarcazioni che garantivano il commercio triangolare. Queste navi
lasciavano i porti atlantici francesi, inglesi, spagnoli e portoghesi cariche di
diverse merci, come oggetti decorativi, tessuti, fucili. Attraccavano in Africa,
nei porti dov’erano installati i banchi delle compagnie che gestivano la tratta.
Scambiavano il loro carico con schiavi – uomini, donne, bambini. Spesso le
adolescenti venivano violentate. Si chiamava «il varo». I negrieri si
procuravano il piacere e, per di più, si arricchivano, perché il bambino che
nasceva dallo stupro era pure lui venduto come schiavo. Si facevano dei
calcoli per mettere quanti più schiavi possibile nelle stive delle navi. Come
sardine in scatola. La paura, la fame, il freddo, il caldo, la sporcizia, i colpi
subiti, niente era loro risparmiato. Arrivati nelle Americhe, venivano venduti.
Raramente a lotti. Quasi mai un’intera famiglia. Una madre a un padrone, i
suoi figli, spesso, ad acquirenti diversi. Allora le stive delle navi venivano
caricate d’oro, d’argento, di spezie, di zucchero, di tabacco, di cotone.
Direzione: l’Europa. Ecco il commercio triangolare: dall’Europa, le navi
cariche di barre di ferro, di fucili, di pezzi di stoffa, di vari oggetti
ornamentali; dall’Africa, le stive piene di schiavi; dall’America, i carichi di
caffè, cacao, minerali preziosi, spezie, e quindi il ritorno verso l’Europa.
Non male. Però anche il più antico tra questi testi non lo è poi così tanto.
La tua osservazione è pertinente. Questi testi sono numerosi, ma
successivi alla seconda guerra mondiale. La loro profusione, che può apparire
sovrabbondante, testimonia il terrore, lo spavento, l’angoscia estrema che
presero l’Europa al momento della scoperta della Shoah. Lei, che si era
adattata agli abomini commessi in nome dell’espansione capitalistica e
dell’evangelizzazione ipocrita dei selvaggi, scopriva la propria capacità di
organizzare l’orrore assoluto sul suo stesso suolo, contro i propri simili. E da
tutto questo esce ossessionata, piena di vergogna, terrorizzata. Naturalmente,
sono ingiusta quando parlo di tutta l’Europa. Infatti, come ti dicevo all’inizio
della nostra conversazione, ci sono sempre stati degli uomini, tra coloro che
erano asserviti od oppressi, ma anche nel «campo degli oppressori», capaci di
alzarsi e di insorgere contro gli orrori. Per esempio, i protagonisti delle varie
resistenze durante la seconda guerra mondiale, francesi ed europei. Tuttavia,
non è del tutto sbagliato affermare che è proprio l’Europa a essere in
questione, nel senso in cui lo intendevano Frantz Fanon – quando esortava:
«Lasciamo quest’Europa» ne I dannati della terra24 – ed Aimé Césaire –
quando deplorava il momento in cui «l’Europa è caduta nelle mani di
finanzieri, di industriali del tutto privi di scrupoli», nel Discorso sul
colonialismo25. È con i suoi discorsi risonanti e autorevoli, i suoi atti legali e
ufficiali e il suo funzionamento istituzionale che ha preparato e legittimato
quelle singolari forme di tirannia e di sterminio, perfino durante il secolo dei
Lumi.
Ma è un inferno!
Per essere giusti, bisogna ricordare che il primissimo movimento
abolizionista nacque pur sempre negli Stati Uniti, quando erano ancora solo
un insieme di colonie inglesi. Era il 1688, e quello era il movimento dei
Quaccheri, in Pennsylvania – Stato che prende nome dal suo fondatore
William Penn, e la cui capitale ha ancora il nome simbolico di Philadelphia,
città dell’amore fraterno. Nel 1759, cioè trent’anni prima della Rivoluzione
francese, e diciassette anni prima dell’Indipendenza americana, i Quaccheri
decisero di escludere dalla loro comunità quanti, tra loro, partecipavano alla
tratta. Il Vermont fu il primo Stato ad abolire la schiavitù nel 1777, un anno
dopo la Dichiarazione d’indipendenza. Nota però che i padri
dell’indipendenza delle tredici colonie, autori della Dichiarazione
d’indipendenza, discussero e disquisirono per giorni sulla questione
dell’abolizione della schiavitù. Per poi pervenire a un compromesso poco
onorevole: gli amerindi vi erano trattati come merciless savages, cioè
«selvaggi spietati», e gli schiavi restavano di proprietà dei padroni, il cui
diritto veniva esplicitamente riaffermato. Non stupisce che, sedici anni più
tardi, nel 1793 – l’anno dell’invenzione della macchina sgranatrice di cotone
– in altri Stati siano state adottate delle nuove leggi che reprimevano con
maggior durezza gli schiavi fuggitivi. E la schiavitù fu abolita ufficialmente
solo nel gennaio 1865, con l’adozione del tredicesimo emendamento,
tenacemente voluto dal presidente Abraham Lincoln, che sarebbe poi stato
assassinato. Prosaicamente o cinicamente, i neri erano riconosciuti abili
all’arruolamento per la guerra fin dal 1775. Autorizzati a versare il proprio
sangue per la nazione già da quasi un secolo, dopo averne già versato tanto
per i loro padroni.
Ancor oggi, è un inferno per milioni di afro-americani e migliaia di
bianchi poveri e analfabeti che marciscono ingiustamente nelle prigioni.
Terra di libertà? Lasciamo che ce lo dica Mumia Abu Jamal, recluso e
condannato a morte da oltre trent’anni in seguito a un processo abborracciato.
Vecchia Pantera Nera, e probabilmente condannato per questo motivo, lo
racconta nei suoi libri, da cui emana una stupefacente serenità. Terra di
libertà! Interroghiamo il fantasma di Odell Barnes, un giovane uomo di
trentun anni, condannato a morte sulla base dell’unica testimonianza
imprecisa di un vicino, sia pur contraddetto dalla perizia medico-legale, e
giustiziato nel 2000 nello Stato del Texas per ordine del governatore George
Bush, poco dopo eletto presidente della più grande potenza del mondo
cosiddetto libero. Terra di libertà! Andiamo a interrogare l’anima tormentata
di Amadou Diallo, un giovane guineano abbattuto da quarantuno pallottole
nella schiena da quattro poliziotti bianchi che, nella penombra, hanno ritenuto
che questo dipendente di una drogheria che tornava a casa dopo una giornata
di lavoro fosse vagamente somigliante a un violentatore ricercato.
Chiediamogli se la sua anima, torturata dall’impunità che il tribunale di New
York ha offerto a quei poliziotti bianchi, troverà mai pace. E, già che ci
siamo, soffermiamoci sulle anime tormentate. Quella di Crispus Attucks,
primo martire nero della guerra d’indipendenza in occasione del massacro di
Boston. Quelle di Herbert Lee, Medgar Evers, Jimmy Lee Jackson, Sammy
Younge Jr., studenti militanti assassinati. Quelle di Andrew Goodman,
Michael Schwerner e James Chaney, studenti volontari dell’«Estate della
Libertà», scomparsi nel Mississippi senza lasciare tracce. Quelle delle quattro
ragazzine nere uccise dall’esplosione di una bomba in una chiesa di
Birmingham. Quelle delle Pantere Nere uccise senza prima aver ricevuto
un’intimazione ad arrendersi. Quella di George Jackson, spregevolmente
assassinato nella prigione di Soledad. Quella di Hurricane Carter, che ha
scontato ventidue anni di reclusione solo per il diletto di un ispettore di
polizia razzista. Quelle delle giovanissime nere violentate e costrette al
silenzio. Quelle di migliaia di vittime che attendono che il Ku Klux Klan
venga processato. E le vittime di torture di Atlanta, Selma, Tuskegee, Little
Rock, Springfield e New Orleans non sono che alcuni nomi pescati
nell’interminabile lista delle vittime di quelle che gli storici chiamano
pudicamente le «sommosse razziali», e demarcano la sinuosa strada della
conquista dei diritti civili negli Stati Uniti. Dei diritti civili, non certo del
potere! Immagina la desolazione degli spiriti erranti di quegli uomini
giustiziati perché sospetti, e sospettati perché neri. E di tutte le età. Michael
Brown, diciotto anni. Trayvon Martin, diciassette anni. Tamir Rice, dodici
anni. E in tutte le circostanze. Eric Garner, venditore abusivo, asmatico. Akai
Gurley, nella tromba delle scale. Tutti disarmati! Secondo un rapporto
dell’ONU, sarebbero oltre mille l’anno le persone uccise sulla pubblica via,
senza che vi fossero particolari disordini. Controllo alla guida, controllo di
strada, controllo in base ai tratti somatici razziali! I pregiudizi, i luoghi
comuni, la paura, la forza bruta, l’impunità, ed ecco il cocktail esplosivo di
coloro che si drogano di supremazia bianca.
Immagino che la legge della Francia, patria dei diritti umani, non
contenga disposizioni contrarie ai testi che vietano e condannano la tratta e
la schiavitù?
Hai ragione, anche se dovremo tornare sulla nozione di patria dei diritti
dell’uomo. Eppure, il diritto francese è un po’ generico. Il decreto del 27
aprile 1848, redatto da Victor Schœlcher, che abolisce la schiavitù per la
seconda volta, prevede soltanto che «la schiavitù è un attentato contro la
dignità umana», poiché «sopprime il libero arbitrio». Il nuovo Codice penale
francese del 1994 classifica la schiavitù tra gli «altri crimini contro
l’umanità» – «altri» rispetto al genocidio. La schiavitù appare dunque come
un termine generico, senza collocazione temporale né localizzazione.
Sì, ma era passato poco tempo da quei fatti. Si può capire questa
forzatura per arrivare a punire i nazisti.
Naturalmente. Non oso nemmeno immaginare che i giudici e le nazioni
libere potessero inchinarsi al principio della non retroattività delle leggi e
dimostrare così la propria impotenza a giudicare e condannare. D’altro canto,
c’è stato chi ha tentato di screditare il Tribunale militare internazionale
sostenendo che fosse espressione della forza dei vincitori, e non un vero
tribunale. Il che non è del tutto falso. Se non altro, la forza dei vincitori si è
costituita in strumento di diritto, con uno statuto e una giurisdizione, delle
udienze pubbliche e soggette al contraddittorio delle parti. E resta il fatto che
tu, io e milioni di persone avremmo trovato scandaloso, codardo e vile un
argomento che fosse consistito nel ricorrere alla non retroattività delle leggi,
splendida conquista democratica, per lasciare impunito lo sterminio degli
ebrei. Quanto al tempo trascorso tra i fatti e i testi, non è quella la questione,
che invece sta nel principio. Un principio può essere storpiato, anche se solo
per una ragione di ordine superiore.
Comunque è strano rendersi conto che è passato tanto tempo, e che tutto
questo è rimasto nel più assoluto silenzio.
Il silenzio ufficiale. D’altronde, è una raccomandazione ripetuta con
insistenza dai governanti che annunciarono pubblicamente il decreto di
abolizione all’insieme delle nazioni: «Dobbiamo dimenticare il passato. Nelle
colonie non ci sono più se non uomini liberi e fratelli». Gli oppressori
avevano tutto l’interesse a predisporre questo oblio. Gli schiavi di un tempo,
no. Ma il rapporto di forza era loro sfavorevole. I vecchi schiavisti
conservavano le terre e ricevevano inoltre delle indennità per compensare la
perdita della manodopera gratuita. La servitù a contratto, che consisteva nel
far venire lavoratori dai Paesi asiatici, remunerandoli con bassi salari, tendeva
in qualche modo a sostituire la schiavitù. I decreti contro il vagabondaggio
adottati dai governatori, che permettevano di rimandare nelle piantagioni gli
schiavi affrancati che rifiutavano il lavoro salariato, l’obbligo imposto a tutti,
ivi comprese le donne sposate, di esibire un libretto di lavoro, misero quelli
che una volta erano schiavi in condizioni di dipendenza e precarietà. Il potere
di repressione per la salvaguardia del sistema economico passò dal padrone
all’istituzione giudiziaria. Questa, totalmente favorevole ai proprietari delle
piantagioni, nelle colonie assicurava, in nome dell’autorità pubblica, la caccia
agli inattivi, ricorrendo anche alle pene corporali. Lo schiavo liberato si
ritrovava accerchiato quasi quanto il vero e proprio schiavo. La sua situazione
era troppo miserevole perché potesse rivendicarla. Circondato da tutte le
parti, non poteva protestare. Solo alcuni intrepidi tentavano la via giudiziaria,
per lo più senza esito. Con la rilevante eccezione della lunga – ventisei anni!
– e ostinata avventura giudiziaria dello schiavo Furcy38 e qualche altro raro
caso che produsse una giurisprudenza della Corte di cassazione più conforme
al diritto che alla legge, nel periodo di Portalis figlio, Dupin e Gatine, in cui
l’umanismo prevalse, in questo confronto di umanità diverse. Non tutti i
processi finirono allo stesso modo. Quello di Léopold Lubin fu un modello
d’iniquità. A quel tempo, l’affrancato aspirava a sopravvivere, a sfuggire alle
sevizie, ad aprire una strada meno dolorosa e brutale ai propri discendenti.
Tuttavia, il silenzio non era osservato ovunque, né sempre. Il vecchio schiavo
raccontava il proprio dolore e la propria rivolta in canti e racconti. Ci sono
delle opere, scritte nelle colonie o nelle stesse madrepatrie, che ne rendono
testimonianza e li analizzano. Sono numerose, ma restano spesso confinate ai
santuari universitari. Troppo pochi libri sono alla portata del grande pubblico,
anche se in questi ultimi anni, e in buona parte grazie alla legge del 2001 e ai
suoi effetti sull’insegnamento e la ricerca, sono state prodotte opere di
notevole importanza. Il silenzio ufficiale, quando s’incrina, si avventura
decisamente poco più in là dell’abolizione.
Non ti arrabbiare. Sai bene che sono d’accordo. Parlami piuttosto dei
marrons che tanto ami.
Amo i neri marrons, ma anche tutti gli insorti, i ribelli, i rivoltosi, i
resistenti e gli abolizionisti di ogni epoca e di ogni causa. Frederick
Douglass, questo vecchio schiavo che tanto ha fatto per l’abolizione e per i
diritti civili, diceva: «Se non c’è lotta, non c’è progresso. I limiti della
tirannia si stabiliscono in funzione della capacità di resistenza degli
oppressi». Diceva inoltre che non si può amare l’oceano e rifiutare il boato
delle tempeste, il movimento delle correnti e l’impatto delle onde.
Potrei anche, per non privarti di alcun ascendente né di alcun riferimento,
citare Étienne de la Boétie, spirito brillante e precoce, che mette in questione
la legittimità dell’autorità che impone la sottomissione. Si trattava della
servitù volontaria, ed eravamo nel XVI secolo.
Abbiamo l’opportunità di vivere in un’epoca in cui la parola, lo scritto e
l’azione civile, sociale e politica hanno ridotto la necessità di battaglie
fisiche. Rallegriamoci, ma guardiamoci dal pensare che sia vano lottare per
un mondo più giusto e fraterno. Equivarrebbe a tradire la nostra eredità.
Sono sbalordita!
E lo sarai ancor più quando scoprirai il cavaliere di San Giorgio,
guadalupense dai molteplici talenti – schermidore, ballerino, musicista – tra i
migliori direttori d’orchestra europei, considerato il Mozart nero. Era la
seconda metà del XVIII secolo. Ben prima della Rivoluzione e
dell’abolizione. Fu nominato direttore dell’Opera reale da Luigi XVI, ma
dovette rinunciare a questa funzione perché due cantanti rifiutavano di essere
«dirette da un Nero»! Combatté per difendere gli ideali della Rivoluzione in
qualità di colonnello della troppo poco nota, ma straordinaria, Legione franca
di cavalleria, chiamata legione di San Giorgio. Figurati che, nella Guyana e in
altre antiche colonie, per ignoranza della sua vera storia, la gente usa questa
espressione, quando una situazione è perduta e un problema è irrisolvibile:
«bisogna mandare la legione di San Giorgio»!
La Storia è un intrico di contraddizioni!
Come minimo. Sai, a proposito, che Alexandre Dumas, l’autore dei Tre
Moschettieri e del Conte di Montecristo, era un meticcio? Sai che il più
grande poeta russo, Aleksandr Puškin, era meticcio, bisnipote di Gannibal, un
africano portato alla corte dello zar e divenuto generale dell’esercito?
Nonostante tutto, resta molto da fare.
Per esempio?
Lottare senza sosta per sradicare il razzismo, che attecchisce in
particolare nelle grandi teorie che hanno giustificato la schiavitù.
E si potrebbe cominciare…
Sopprimendo, nell’articolo 2 della Costituzione francese, la parola
«razza».
39. Erano detti marrons (coloro che erano dediti al marronnage, N.d.T.)
gli schiavi che fuggivano per avviare una forma di resistenza (il marronnage,
appunto) contro il padrone. I neri marrons si raggruppavano e univano le loro
forze contro coloro che li asservivano.
40. «Uomo invisibile, per chi è la tua canzone?» Il titolo originale di
questo libro di Ralph Waldo Ellison è generalmente riportato come Invisible
Man, ma ricorre anche la versione più lunga Invisible man, for whom do you
sing?. In Italia è stato edito come Uomo invisibile (Einaudi, 2009). [N.d.T.]
41. La repressione dei guadalupensi che, con Delgrès, si erano battuti per
la propria libertà, fu di un’estrema ferocia. Non risparmiò le donne, che pure
si batterono armi alla mano. La mulatta Solitude era una di loro. Incinta, fu
gravemente ferita nel corso dei combattimenti. La lasciarono giusto partorire,
prima di impiccarla, per dare l’esempio, insieme ad altre compagne e altri
compagni di sventura, a una delle forche innalzate in Cours Novilos, a Basse
Terre.
I RISARCIMENTI
Non capisco questo grande dibattito sul tema del risarcimento alle
vittime. Il denaro non può comprare tutto!
Hai perfettamente ragione. Ma si tratta di un dibattito ancora
insufficiente.
Eppure ti ho sentita dire che eri contraria. Non cambierai opinione solo
per contraddirmi!
Non ho mai detto di essere contro i risarcimenti. Ho sempre spiegato,
correndo il rischio di suscitare l’ira delle persone più profondamente
coinvolte, e di venire sommersa di insulti e ignobili accuse – cosa che in
effetti è successa – di essere contraria agli indennizzi finanziari che alcuni
reclamano. E lo sono ancora. Il che non toglie che sia convinta della necessità
di un risarcimento.
Anch’io la penso così. Ma, riflettendoci, con tutto quello che sappiamo
della tratta e della schiavitù, non possiamo contentarci di dire «è un crimine
contro l’umanità» e non sanzionarlo.
No. Alcuni parlano di compensazione. A me, però, sembra una parola
infelice. Presuppone che una pacificazione o una soddisfazione siano
possibili, probabilmente ancora a partire da un gesto di natura finanziaria. La
parola «compensazione» evoca un’uguaglianza, un bilancio, un ristabilimento
dell’equilibrio. Non posso approvarla. Chiarito questo, o almeno spero,
diciamo senza ambiguità che il crimine è ir-re-pa-ra-bi-le. Che qualsiasi
tentativo di valutazione dei danni sarebbe indecente. Ma sarebbe osceno
pretendere che tutto si fermi qui, o sostenere, con aria bigottamente
intimorita, che la rivendicazione dei risarcimenti finanziari sia fuori tema, e
dunque fuori discussione. La radicalità alimenterà altra radicalità, e le parti
saranno trascinate in una gara al rilancio, e verosimilmente in uno scontro
sterile, fino a quando non sarà stabilito il principio di risarcimento. Tutto ciò
determina la decisione di attribuire a questo abominio il solo statuto
concepibile: quello di crimine contro l’umanità. In caso di rifiuto di dialogo,
le voci intransigenti potranno mettere a tacere solo per poco, spero, quella di
coloro che tentano di fare giustizia.
Mi scuserai, ma non ci vedo più chiaro che nel corridoio che porta alla
settima stanza di Barbablù.
Diciamo, più semplicemente, che l’imputabilità permette di designare
l’autore di un atto, che peraltro non è necessariamente un delitto o un
crimine. È quella che nella lingua di uso comune e di stampo patriarcale,
soprattutto quando si tratta di atti gloriosi, si chiama la paternità dei fatti. Nel
caso della tratta e della schiavitù, bisognerebbe definire il più precisamente
possibile le persone fisiche o giuridiche che hanno direttamente compiuto gli
atti che hanno determinato il destino di persone e popoli, compromettendone
l’esistenza collettiva. Questo vale anche per l’abolizione. Non è solo una
questione di tecnica giuridica. Soltanto un metodo così rigoroso
permetterebbe di cogliere questo dramma in tutte le sue dimensioni, e di
scovare le fonti vive che l’hanno alimentato. Ivi comprese quelle che sono
sopravvissute all’abolizione. Quando il lavoro d’imputazione mette in luce la
responsabilità degli Stati nelle compagnie di monopolio, e quindi nella
gestione delle licenze per la tratta, o nelle politiche fiscali d’incoraggiamento
o di prelievo, consente di ben misurare la vastità di questa attività, di
ricercarne gli effetti sulle politiche pubbliche, di comprenderne il ruolo
nell’organizzazione dei territori coloniali e nell’accumulo del capitale utile
alle madripatrie. Permette inoltre di capire il ruolo svolto da ciascuno dei
protagonisti al rispettivo livello, poiché il ruolo degli intermediari, per quanto
condannabile, non va confuso con quello dei finanziatori e dei principali
beneficiari.
Hai diritto a voler essere una santa. Ma io non ce la faccio. Sono piena di
rabbia.
Sono lontana dall’essere una santa, e non ne ho assolutamente
l’ambizione. Comprendo la tua rabbia, perché la provo anch’io. Cerco
semplicemente di domare la mia. Perché non mi divori. Perché non mi
consumi. Perché non mi sfinisca in uno stato d’impotente ripetitività, quando
si perpetuano ingiustizie la cui origine risiede nella banalizzazione e nella
giustificazione di questo crimine. Faccio quello che posso per trasformare il
mio risentimento in entusiasmo e combattività. So, per temperamento e per
esperienza, che i sentimenti forti sono il carburante dell’azione. Ho regolato i
miei conti con l’odio, l’ho scacciato dal mio cuore. Ma continuo a cercare di
gestire la mia rabbia e il mio furore, che si risvegliano non appena mi trovo in
presenza di un’ingiustizia, ovunque io sia. E se mi capita spesso di marciare
per le strade a fianco di militanti per la pace, di combattenti per la giustizia, la
libertà, la solidarietà, anche nei Paesi dove sono semplicemente di passaggio,
è perché credo che la lotta contro l’ingiustizia non debba conoscere né
frontiere né tregua. Vedrai: ammetterai la necessità di questo approccio
rigoroso, quando comprenderai che è proprio questo che permette di
determinare l’importante contributo che i neri marrons, gli insorti, i resistenti,
i giusti e tutti i dannati della terra, solidali ed esigenti, hanno dato
all’abolizione della schiavitù. È il solo modo per non privare le vittime di
questa magistrale vittoria, come fanno, anche a loro insaputa, coloro che
riducono l’abolizione a un atto di grandiosa generosità, certo, ma che dopo
tutto è soltanto un decreto. La vera vittoria, quella definitiva, è stata la
distruzione del sistema schiavistico con le diverse e ostinate lotte che sono
state condotte.
Rimane il fatto che, mentre si pronunciano belle frasi sulla giustizia, gli
assassini sono morti in tranquillità.
M’inchino davanti alla tua impazienza e alla tua esasperazione.
Intendiamoci: non pretendo di offrire una soddisfazione facile e rapida,
sostenendo la necessità di atti di giustizia piuttosto che di operazioni di
rivalsa. La vendetta si accontenta di approssimazioni e produce spesso
enormi danni collaterali. La giustizia esige verità e precisione. E, se non
sempre tranquillizza il cuore, soddisfa lo spirito. Questo, però, lo si impara
col tempo. E sento che ti innervosirò ancora, se ti parlo dei dibattiti sulla
nozione di colpevolezza e responsabilità.
Forza, beviamo fino in fondo l’amaro calice. Non hai scritto tu stessa che
questo crimine era «orfano»?
Non intendevo certo dire che non avesse un autore. Stigmatizzavo il fatto
che, malgrado la sua portata transcontinentale, la sua lunghissima durata, il
numero considerevole di vittime, i metodi spaventosi e le giustificazioni
mostruose, non aveva mai ricevuto un nome! Ma oggi questo risultato è stato
raggiunto. Il crimine ha un nome, è stato qualificato, ha un suo statuto
giuridico. Eppure, non è tutto finito. Rifiutare l’ereditarietà della colpa ed
esigere che l’imputazione di diversi atti sia la più esatta possibile non elimina
le responsabilità.
Se ritorno sulla colpevolezza, è perché desidero affrontare con te questa
questione dal punto di vista del discorso più grave e ignobile, che consiste nel
nascondersi dietro dei testi esistenti all’epoca, per giustificare l’ignominia. La
nozione di colpevolezza si fonda sulla trasgressione di regole giuridiche o
morali. Quando parlavamo dell’organizzazione delle società europee intorno
all’economia della tratta, ti ho illustrato le norme del Codice nero e la morale
della maledizione, oltre a tutte le teorie, brutali o camuffate, sulla superiorità
occidentale. Ancor oggi ci sono persone, alcune delle quali rivestite di
un’autorità ufficiale, che affermano l’esistenza di leggi che autorizzano e
incoraggiano, perfino, il commercio negriero e la pratica della schiavitù, e
sostengono che non vi sia stata trasgressione, adducendo il pretesto che le
leggi lo permettevano e che le coscienze non erano illuminate come oggi.
Non è solo disonestà; è anche giocare col fuoco. Dopo la seconda guerra
mondiale, nessuno disse agli ebrei che, in virtù delle leggi di Pétain, il
genocidio era legalizzato.
Ed è un bene che nessuno abbia osato farlo. Al contrario, in virtù
dell’imprescrittibilità del crimine contro l’umanità, Barbie, Touvier e Papon
sono stati chiamati a rispondere dei loro atti, nonostante la loro età molto
avanzata.
La parte francese?
Sì. La notte tra il 22 e il 23 agosto 1791, nella foresta del Bois Caïman, si
tenne una cerimonia in cui gli schiavi giurarono di liberare la colonia e di
dare, se necessario, la propria vita per la soppressione della schiavitù. Iniziò
così l’insurrezione che approdò all’indipendenza nel gennaio 1804. A partire
da questo momento, i vecchi padroni e coloni amministrativi si riunirono
nella parte orientale dell’isola di Hispaniola, che diventò la Repubblica
Dominicana, ispanofona. La parte occidentale, occupata dagli antichi schiavi
e dai marrons, guidati dai loro comandanti e designata come parte francese,
ma in realtà di lingua creola, divenne Haiti – anche se il nome amerindio era
Anacaona. E fu a questa parte, libera da oltre vent’anni, che il re di Francia
«concesse» l’indipendenza!
Che cos’è l’accumulo del capitale, visto che è la seconda volta che ne
parli?
È il processo che consiste nel raccogliere in uno stesso luogo, in un tempo
ridotto, le somme necessarie per finanziare le strutture e i mezzi per farle
prosperare. Si tratta dunque di trasformare il denaro liquido in fondi
d’investimento. In nessun momento della storia umana l’accumulo di capitale
è stato fatto senza saccheggi, senza violenza o senza un costante intervento
dello Stato. I processi più efficaci e più duraturi hanno coniugato queste tre
condizioni. In altre parole, le ricchezze tratte dal saccheggio delle risorse
minerarie dell’Africa e dell’America, dal commercio negriero, dalla vendita
degli schiavi e dal loro lavoro gratuito, nonché dall’apertura di sbocchi per i
prodotti europei, hanno assicurato all’Europa i mezzi per sviluppare
l’industria, ma anche la ricerca, le scienze e le tecnologie, e per finanziare la
conversione delle economie feudali in economie agricole e produttive, e
quindi in economie industriali diversificate.
Dimmi un po’, c’è un aspetto del risarcimento che sembri non voler mai
affrontare. Eppure se ne parla molto, soprattutto negli Stati Uniti. Spesso
sento dire che bisognerebbe che fossero i discendenti degli schiavisti a
indennizzare quelli degli schiavi.
È un possibile approccio al tema del risarcimento. È vero che prevale
negli Stati Uniti, dove la cultura della risoluzione dei conflitti è di stampo
eminentemente materialistico e giudiziario. Peraltro, in questo Paese ci sono
dei processi in corso, in particolare contro alcune compagnie assicurative e
alcune banche, per reclamare dei risarcimenti danni e degli interessi sulle
fortune costruite a partire dai proventi della tratta. I sostenitori di questa
concezione del risarcimento hanno seri argomenti. Affermano che coloro che
discettano con tanta arroganza per definire il crimine, coloro che ci escludono
da ogni dibattito sui torti inflitti, i diritti delle vittime, la fondatezza dei
risarcimenti, diventano sensibili alle grandi cause solo quando queste costano
loro qualcosa. Ricordano che l’Olocausto si verificò durante la seconda
guerra mondiale, che lo Stato d’Israele venne creato solamente nel 1948 con
una risoluzione delle Nazioni Unite – che peraltro, al tempo stesso, costituiva
uno Stato palestinese – e che però, nel 1952, la Germania e l’Austria
versarono rispettivamente allo Stato d’Israele 822 e 25 milioni di dollari,
senza contare la restituzione delle somme depositate su alcuni conti bancari e
di opere d’arte ai proprietari che poterono essere identificati. A proposito, ti
invito a non dimenticare mai che nell’articolo primo del Codice nero del
1685, Luigi, per grazia di Dio re di Francia e di Navarra, ordina di cacciare
dalle isole coloniali, e in tre mesi, «tutti i Giudei che vi hanno stabilito la
propria residenza […], pena la confisca del corpo e dei beni». Anche la loro
persecuzione viene da lontano.
È come per gli ebrei. In ogni caso, dei sopravvissuti ci sono. In certi casi,
le somme vengono versate agli Stati, in altri alle persone, e a volte tanto agli
uni quanto alle altre. È una cosa complicata.
Sì, ma più è complicata, più rivela l’immensità e l’orrore del sistema
schiavistico. Dal punto di vista dei traffici e della mobilità dei coloni e del
«bestiame» di schiavi, il sistema praticava la porosità delle frontiere. Da qui
la dispersione. Coloro che stanno dalla parte dei potenziali indennizzatori ben
volentieri chiedono se sarà necessario indennizzare tanto i neri quanto i
meticci, considerando che questi ultimi discendono al tempo stesso dagli
schiavi e dai padroni. Domandano se bisognerà versare i risarcimenti alle
persone o agli Stati. E, nei Paesi in cui la popolazione di origine africana è
minoritaria, che si dovrà fare? Per non parlare di altre questioni che
apparentemente sono pertinenti, ma che in effetti sono inappropriate. È
alquanto bizzarro notare che, contrariamente alla Francia e alla maggior parte
delle antiche potenze schiaviste, il governo degli Stati Uniti riconobbe in
qualche modo agli schiavi di un tempo un diritto al risarcimento,
promettendo a ciascuno una mula e quaranta acri58 di terra. Era una cosa
ridicola, in confronto alle vaste proprietà fondiarie e alle ricchezze che furono
lasciate ai vecchi padroni. Inoltre, il «capitale iniziale» concesso dalla legge
in realtà non fu neanche attribuito. Era una decisione del generale Sherman,
che il presidente Andrew Johnson si sarebbe premurato di annullare, lui che
avrebbe anche opposto il veto alla legge sui risarcimenti proposta dal
deputato Thaddeus Stevens. Tuttavia, il fatto di quantificarlo stabiliva il
principio della necessità del risarcimento. Purtroppo, mancò la forte pressione
morale che avrebbe potuto costringere il governo a rispettare quell’impegno.
È vero che tutto questo avveniva in un contesto in cui una grande mente
come Alexis de Tocqueville, sia pur fortemente legato alla libertà e alla
democrazia, affermava che «se i Negri hanno il diritto di essere liberi, i
coloni hanno il diritto di non essere rovinati dalla libertà dei Negri». Quanto
all’Europa, essa si distinse con leggi che riconoscevano un indennizzo ai
vecchi padroni; in Gran Bretagna, in Svezia, nei Paesi Bassi e in Francia, tali
leggi furono adottate tra il 1834 e il 1863. Negli Stati Uniti, delle iniziative
parlamentari si sarebbero susseguite quasi ininterrottamente fino al 1915 per
reclamare e tentare di determinare i risarcimenti dovuti a coloro che erano
stati schiavi. Martin Luther King sarebbe tornato sul punto nel 1964! Un
senatore, John Conyers, avrebbe quindi raccolto il testimone nel 1989. E
anche Desmond Tutu avrebbe preso posizione a Durban nel 2001.
Vedo bene, comunque, che per alcuni non si può discutere di nulla! Né di
risarcimento, né di scuse, né di rammarichi. Certi sono perfino arrivati a
esaltare la colonizzazione, riconoscendole dei benefici! Ho letto che tu parli
del pentimento da monologo furioso. Che intendi dire, con questa
espressione?
Voglio dire che quanti lanciano alte grida, rifiutando di fare atto di
pentimento, sono presi da un dialogo isterico con se stessi. Quanti si
rivolgono loro non pretendono alcun pentimento. Per quanto mi riguarda, non
ho mai sentito formulare una simile richiesta o esigenza. Siamo sul terreno
della politica e dell’etica. Parliamo dunque di valori repubblicani e di
responsabilità delle istituzioni pubbliche. «Pentirsi» e «pentimento» rientrano
nel vocabolario e nell’ambito religioso. Se le autorità ecclesiastiche vogliono
intromettersi, è loro diritto e un loro problema. Intanto, quelli che rincorrono i
media per rifiutare il pentimento non fanno altro che reagire al proprio
turbamento interiore, e sono manifestamente fuori dal dialogo. È in questo
senso che parlo di monologo furioso. Stando così le cose, Édouard Glissant
ha riassunto in modo brillante, come spesso fa, questa problematica del
pentimento. Secondo lui, «il pentimento non si può richiedere, ma si può
ricevere e ascoltare»59. E precisa, come rispondendo a quelli del monologo
furioso, che l’«alta concezione delle cose del mondo non è mai stupida,
orgogliosa, imbecille».
Per quanto mi riguarda, il pentimento rimane un territorio enigmatico.
Incredibile!... Una persona come te, che garantisce che c’è del
sentimento in tutto quello che riguarda gli uomini?
Lo confermo. E, se c’è un argomento che mi tocca profondamente, è
proprio questo. Eppure, malgrado le sofferenze che ho patito in questa
battaglia – e ti prego di credere che sono state profonde – malgrado le
contrarietà che mi hanno portato a essere a volte cauta, qualunque sia stato il
fastidio che ho provato di fronte a certe manifestazioni di ignoranza,
qualunque sia stata l’irritazione che mi hanno suscitato certe forme di
superficialità – oltre all’esasperazione e al furore che mi hanno trasmesso i
luoghi comuni e i disdicevoli pregiudizi su una causa simile – voglio restare
lucida.
È un tuo rammarico?
Non arriverei a dire questo. Una legge è una costruzione collettiva che
prende corpo nel punto d’incontro tra esigenze divergenti e a volte
contraddittorie. Dice più attraverso i suoi limiti che con il suo contenuto. E
questo vale particolarmente per le leggi che rientrano nell’arsenale giuridico
della difesa dei diritti dell’uomo. Perché la legge costruisce le dighe che
proteggono i più vulnerabili. Essa rivela il livello di coscienza universale
delle istituzioni, che devono sapersi spingere oltre lo spirito del tempo, i
blocchi o le inibizioni, per sgombrare l’orizzonte. François Mitterrand era
ancora candidato quando dichiarò, nonostante alcuni sondaggi sfavorevoli
all’abolizione della pena di morte, che, se fosse stato eletto, l’avrebbe
abrogata.
Ci sono delle cause che esigono nobili convincimenti e un’appropriata
determinazione. Sicuramente avrei preferito maggior arditezza politica, in
questa legge. Ma questa causa è una lotta che affronto senza amarezza né
rimpianti. Faccio il punto a ogni tappa per valutare lo stato delle forze in
campo, apprezzare i progressi, misurare le inerzie, valutare gli ostacoli,
prevedere le conquiste a venire e revisionare le strategie. Sarà necessario
operare affinché ciò che è stato espunto dalla legge trovi spazio adeguato a
scuola, nelle università e nella società.
Se il Paese veniva chiamato «Reggenza di Algeri», vuol dire che non era
indipendente prima della conquista francese?
È corretto dire che aveva precedentemente subito delle occupazioni:
numida, romana, vandala, bizantina, araba, almoravide, abdelwadide, turca.
La conquista francese unificò geograficamente il Paese, ma gli storici
ritengono che non sia arrivata a renderlo unito né sul piano culturale, né su
quello politico o sociale; d’altronde, la Francia non se ne preoccupava
granché. Un secolo dopo, Ferhat Abbas, primo presidente del governo
provvisorio della Repubblica algerina, inizialmente favorevole
all’integrazione dell’Algeria con la Francia, quindi profondamente ostile alla
presenza francese, disse con ironia: «Il mio Paese ha il senso tribale».
Avevano loro tutti i diritti! E gli algerini, invece, avevano quello a essere
risarciti?
No. Eppure, a parte le terre e i beni confiscati, le opere di alcuni storici
formulano l’ipotesi che un sesto della popolazione algerina sia perita durante
i primi venticinque anni di occupazione francese.
Vale a dire?
Significa che delle associazioni che non subiscono direttamente gli effetti
della schiavitù avranno il diritto di adire l’autorità giudiziaria e accedere alla
documentazione del fascicolo d’indagine. I poteri, di qualunque tipo, non
amano acconsentire alla possibilità che dei militanti si immischino
nell’azione della magistratura, e che arrivino perfino ad avviare un’azione di
pubblica rilevanza. E anche in un Paese come la Francia, su un altro tema
delicato, la lotta contro la corruzione, ho dovuto battermi a lungo per far
inserire nella legge il diritto delle associazioni di costituirsi parte civile. La
maggioranza dei senatori vi si è opposta, mentre sono i deputati che l’hanno
votata.
Ma questo è sufficiente?
Sicuramente no. È per questo che era necessario colmare queste lacune
giuridiche e mantenere questa dinamica interattiva tra le legislazioni
nazionali e gli strumenti internazionali, al fine di approdare a un campo di
infrazioni e illeciti penali unificato: definizioni identiche, identiche sanzioni.
Bisogna infine che siano gli schiavisti a sentirsi accerchiati e presi di mira.
Devi pensare che non sia per compassione che sono colpita, ma perché
mi domando se l’effetto non sarà piuttosto, azzardando tanto, di accentuare
l’attività criminale.
È un rischio. Il solo modo di eliminarlo è l’efficacia. E, da questo punto
di vista, quello che abbiamo avviato è piuttosto convincente. Grazie
all’arsenale penale così completato e rafforzato, il numero di condanne è
passato dalla ridicola cifra di due nel 2006 a centoquaranta nel 2014.
Negli Stati Uniti, per esempio. Dopo l’abolizione della schiavitù c’è stata
la segregazione, dopo l’illusione dei diritti civili con Martin Luther King il
carcere a oltranza. È difficile non comprendere la rivolta e i danni che
provoca. Purtroppo, hanno preso le sembianze delle Pantere Nere, dopo aver
avuto quelle di Malcolm X. E ci sono sempre gli stessi dietro il bottone di
comando, anche se di volta in volta trovano degli oppressi a cui far premere
il grilletto. E il peggio è che questa mentalità arriva anche qui.
È necessario cogliere diverse sfumature. Fu nello Stato del Michigan, il
1° marzo 1846, che venne votata la prima legge di abolizione della pena di
morte. Dodici stati americani sono abolizionisti, e praticamente altrettanti non
la applicano da diversi anni; ora, la criminalità, qui, non è superiore a quella
degli Stati in cui vige la pena di morte. Ma da questo Paese a noi viene il
peggio come il meglio. Con teorie fumose e totalitarie come la «tolleranza
zero», che si è affermata sotto Giuliani sindaco di New York, e di cui i
governanti francesi poveri d’immaginazione e inefficaci si sono impossessati
nel quinquennio 2007-2012, si è nutrita l’illusione che sia possibile vivere
senza rischi, egoisticamente, indifferenti alla sfortuna altrui. La paura dei
benestanti viene sbandierata in società sempre più disuguali. Mancano voci
forti, profonde, generose, ispirate a un senso di fratellanza, basate sul
coraggio e sulla solidarietà, che dichiarino che l’egoismo non è un ideale, che
l’ingiustizia non è una fatalità, che il futuro non si costruisce senza lotte.
Sulle spalle della tua generazione restano delle grandi conquiste ancora da
compiere.
Conquiste alle porte, ma anche alla fine del mondo, se ho ben compreso?
Sì, hai capito bene. Dobbiamo lottare qui e certamente anche per le realtà
lontane da noi. Contro l’esclusione, le discriminazioni e i pregiudizi che
rimettono ai margini coloro che sono diversi. Ma anche per l’abolizione della
pena di morte negli Stati Uniti e a Cuba, in Cina e nei Paesi della penisola
arabica. Contro la violenza quotidiana, ma anche contro le pene corporali
impiegate come sanzioni giudiziarie. Contro la povertà qui e contro la fame
nel mondo. Per tutti coloro che sono senza documenti, senza domicilio, che
sono privati delle libertà e dei diritti fondamentali. Con tutti quelli che
rifiutano di credere che l’inferno sia sulla terra.
La tratta degli esseri umani da parte di reti criminali che se ne infischiano
delle frontiere e si prendono gioco delle regole del diritto, i drammi che si
verificano lontano da noi ma che coinvolgono persone a noi molto vicine
ricordano come la globalizzazione consista fin troppo spesso
nell’ampliamento delle esclusioni, nell’espansione dei domini,
nell’aggravarsi delle ingiustizie, nel propagarsi delle sottomissioni,
nell’amplificarsi delle disuguaglianze. È necessario che noi, e anche voi, in
futuro, contrapponiamo a questo mostro la dimensione globale della
solidarietà e della fraternità, elogiata da Édouard Glissant.
Ma questo è utopico!
Per le anime valorose, l’utopia non ha mai più di qualche anno di
anticipo.
72. United Nations Office on Drugs and Crime (UNODC). [N.d.T.]
73. International Labour Organization (ILO). [N.d.T.]
74. Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Cap. II (disponibile su
internet, alla pagina
https://it.wikisource.org/wiki/Dei_delitti_e_delle_pene/Capitolo_II).
75. Ibidem.
ALLEGATI
LEGGE TENDENTE AL RICONOSCIMENTO
DELLA TRATTA E DELLA SCHIAVITÙ
COME CRIMINE CONTRO L’UMANITÀ.
RELAZIONE DELLE MOTIVAZIONI DELLA SIG.RA
TAUBIRA-DELANNON
DEPUTATA DELLA GUYANA
ASSEMBLEA NAZIONALE
COSTITUZIONE DEL 4 OTTOBRE 1958
UNDICESIMA LEGISLATURA
REGISTRATA PRESSO LA PRESIDENZA
DELL’ASSEMBLEA NAZIONALE
IL 22 DICEMBRE 1998
Signore, Signori,
Non esiste contabilità che quantifichi l’orrore della tratta negriera e
l’abominio della schiavitù. I diari di bordo dei navigatori, contraffatti, non
documentano la vastità delle razzie, del dolore dei bambini sfiniti e
terrorizzati, lo sgomento e la disperazione delle donne, lo sconvolgimento e
l’afflizione degli uomini. Tacciono sul trauma sconvolgente da loro patito
nella casa degli schiavi a Gorée. Ignorano il terrore dell’essere ammassati sul
fondo delle stive. Cancellano i lamenti degli schiavi gettati dalle navi con
tanto di zavorre. Negano le violenze sessuali contro adolescenti spaventate.
Glissano sugli scambi condotti nei mercati del bestiame. Dissimulano gli
omicidi protetti dal Codice nero. Invisibili, anonimi, senza origini né
discendenza, gli schiavi non contano. Contano solo i profitti. Nessuna
statistica, nessuna prova, nessun danno, nessun risarcimento. I non-detti del
terrore che accompagnò la deportazione più massiccia e più lunga della storia
umana sono rimasti dormienti, per un secolo e mezzo, sotto la più pesante
cappa di silenzio.
La battaglia delle cifre infuria. Ci sono storici che vacillano sul conteggio
di milioni di bambini, di donne e di uomini, giovani e in buona salute, in età
fertile, che vennero strappati alla terra d’Africa. Arresi e senza certezze, si
mantengono su una forbice tra quindici e trenta milioni di deportati sulla
tratta transatlantica. Ci sono archeologi che si applicano come scolaretti per
decifrare le vestigia di civiltà precoloniali e riportano alla luce, con patetica
soddisfazione, le prove della grandezza dell’Africa del tempo precedente i
conquistatori e gli agenti delle compagnie commerciali. Ci sono antropologi
che descrivono lo scambio ineguale del commercio triangolare tra gli schiavi,
materia prima del capitalismo espansionistico europeo, e i ninnoli, i tessuti, le
barre di ferro, le bevande alcoliche e i fucili che servivano a pagare le
«consuetudini», diritti pagati sulla tratta agli Stati o ai capi delle chefferies
costiere76. Ci sono etnologi che ricostruiscono lo schema di esplosione delle
strutture tradizionali travolte da questo traffico, che alimentò i porti europei
con lucrose accise, gli armatori con colpevoli rendite, gli Stati con introiti
fiscali incolori e inodori. Ci sono sociologi che scovano le tracce di intrighi
politici fomentati dai negrieri per attizzare i conflitti tra Stati africani, tra
chefferies costiere e tra fornitori di «legno d’ebano». Ci sono economisti che
paragonano la voracità dell’economia mineraria alla rapacità dell’economia
delle piantagioni, prendendo spunto dalla vasta portata delle deportazioni. Ci
sono teologi che fanno l’esegesi della maledizione di Cam e tentano di porre
fine alla controversia di Valladolid. Ci sono psicanalisti che esplorano le
risorse di sopravvivenza e i meccanismi esorcistici che permisero di sfuggire
alla follia. E ci sono giuristi che dissezionano il Codice nero, definiscono il
crimine contro l’umanità e ricordano come sia imprescrittibile.
I figli e le figlie di discendenti di schiavi – dispersi in diaspore comuni,
feriti e umiliati, saturi di cavillose disquisizioni sulla schiavitù precoloniale,
le date di conquista, il volume e il valore delle merci, le complicità locali, i
liberatori europei – replicano con i versi che narrano le imprese di Shaka,
imperatore zulu, che si oppose alla penetrazione nella terra del suo popolo da
parte dei mercanti di schiavi. Cantano l’epopea di Soundiata Keïta, fondatore
dell’impero del Mali, che combatté senza tregua il sistema schiavistico.
Brandiscono la bolla di Ahmed Baba, grande sapiente di Timbuctu, che
ripudiò la maledizione di Cam in tutto l’impero Songhai e condannò la tratta
trans-sahariana iniziata da mercanti maghrebini. Svelano la temerarietà della
regina Dinga, che osò addirittura affrontare suo fratello con un rifiuto senza
mezze misure. Collezionano le lettere di Alfonso I, re del Congo, che si
appellò al re del Portogallo e al papa. Mormorano la ronda dei marrons,
gloriosi guerrieri e ribelli ordinari. Canticchiano le canzoni dei negri nelle
capanne, compagni di evasioni, incendiatori, artigiani di sortilegi, artisti del
veleno. Intonano la funesta e grandiosa cantilena delle mammane. Tentano di
attenuare la cupidigia di quanti tra loro consegnarono dei prigionieri ai
negrieri. Misurano la loro venalità, la loro incoscienza o la loro codardia, di
una pietosa banalità, col metro del tradimento dei loro capi, non meno
numerosi, che pure li vendettero in altri tempi e altri luoghi. Disgustati dalla
mala fede di quanti dichiarano che la colpa è stata cancellata dalla morte dei
responsabili e cavillano sui destinatari di eventuali risarcimenti, bisbigliano,
imbarazzati, che sebbene lo Stato d’Israele non esistesse quando i nazisti
misero in atto, per dodici anni, l’Olocausto ai danni degli ebrei, beneficia pur
tuttavia dei danni pagati dall’ex-Repubblica federale tedesca. A disagio,
sussurrano che gli americani riconoscono di dover risarcire i loro
connazionali di origine giapponese internati per sette anni su ordine di
Roosevelt durante la seconda guerra mondiale. Contrariati, evocano il
genocidio armeno e rendono tributo al riconoscimento di tutti questi crimini.
Mortificati da questi confronti, tramano insieme, oppressi e ardenti dal
desiderio di convincere che niente sarebbe peggio che alimentare e lasciar
fermentare una squallida «concorrenza tra vittime».
Gli umanisti insegnano allora, con serena rabbia, che non è possibile
descrivere l’indicibile, spiegare l’innominabile, misurare l’irreparabile.
Questi umanisti, di tutti i mestieri e di tutte le condizioni, eminenti specialisti
o cittadini senza particolari connotazioni, esponenti della razza umana,
soggetti di specifiche culture, ufficiali od oppresse, portatori di identità
raggianti o tormentate, pensano e proclamano che sia arrivata l’ora del
raccoglimento e del rispetto. Che le circonlocuzioni sulle motivazioni dei
negrieri sono disgustose. Che gli scaltri discorsi sulle circostanze e le
mentalità di epoche passate sono volgari. Che le digressioni sulle complicità
africane sono oscene. Che le revisioni statistiche sono immonde. Che i calcoli
sui costi del risarcimento sono indecenti. Che le dispute giuridiche e le
tergiversazioni filosofiche sono indecorose. Che le sottigliezze semantiche tra
reato commesso e tentato sono ciniche. Che le esitazioni a riconoscere il
crimine sono offensive. Che la negazione dell’umanità degli schiavi è
criminale. Dicono, con Elie Wiesel, che il «carnefice uccide sempre due
volte, e la seconda con il silenzio».
I milioni di morti comprovano il crimine. I trattati, le bolle e i codici ne
registrano lo scopo. Le licenze, i contratti, i monopoli di Stato ne attestano
l’organizzazione. E coloro che affrontarono la barbarie assoluta portando con
sé, da luoghi al di là dei mari e oltre l’orrore, tradizioni e valori, principi e
miti, regole e credenze, e inventando canti, racconti, lingue, riti, divinità,
sapori e tecniche in un continente sconosciuto, coloro che sopravvissero alla
traversata apocalittica sul fondo della stiva, senza più punti di riferimento,
coloro le cui pulsioni vitali furono così potenti che prevalsero
sull’annientamento, costoro sono dispensati dal dover dimostrare la propria
umanità.
LA FRANCIA, CHE PRIMA DI ESSERE ABOLIZIONISTA FU SCHIAVISTA, PATRIA DEI
DIRITTI DELL’UOMO OFFUSCATA DALLE OMBRE E DALLE «MISERIE DEI LUMI»,
RIDARÀ LUSTRO E GRANDEZZA AL SUO PRESTIGIO, AGLI OCCHI DEL MONDO,
INCHINANDOSI PER PRIMA DAVANTI ALLA MEMORIA DELLE VITTIME DI QUESTO
CRIMINE SENZA PADRI.
Articolo 1
La Repubblica francese riconosce che la tratta negriera transatlantica, così
come la tratta nell’oceano Indiano da una parte, e la schiavitù dall’altra,
perpetrate a partire dal XV secolo, nelle Americhe e ai Caraibi, nell’oceano
Indiano e in Europa contro le popolazioni africane, amerindie, malgasce e
indiane, costituiscono un crimine contro l’umanità.
Articolo 2
I programmi scolastici e i programmi di ricerca in storia e scienze umane
accorderanno alla tratta negriera e alla schiavitù il posto di rilievo che
meritano. La cooperazione, che permetterà di collegare i documenti scritti
disponibili in Europa con le fonti orali e le conoscenze archeologiche
accumulate in Africa, nelle Americhe, ai Caraibi e in tutti gli altri territori che
hanno conosciuto la schiavitù, sarà incoraggiata e favorita.
Articolo 3
Una richiesta di riconoscimento della tratta negriera transatlantica, come
anche della tratta nell’oceano Indiano e della schiavitù come crimini contro
l’umanità sarà avanzata presso il Consiglio d’Europa, varie organizzazioni
internazionali e l’Organizzazione delle Nazioni unite. Tale richiesta
riguarderà anche la ricerca di una data comune per il piano internazionale
volto a commemorare l’abolizione della tratta negriera e della schiavitù,
ferme restando le date commemorative proprie di ciascuno dei dipartimenti
d’oltremare.
Articolo 4
L’ultimo comma dell’articolo unico della legge n° 83-550 del 30 giugno
1983, relativa alla commemorazione dell’abolizione della schiavitù, è
sostituito da tre commi così redatti: «Un decreto stabilisce la data della
commemorazione per ognuna delle collettività territoriali sopra richiamate;
«Nella Francia continentale, la data di commemorazione annuale
dell’abolizione della schiavitù è fissata dal governo dopo una consultazione
la più vasta possibile;
«Viene instaurato un comitato di personalità qualificate, tra le quali dei
rappresentanti di associazioni a difesa della memoria degli schiavi, incaricato
di proporre, sull’insieme del territorio nazionale, luoghi e azioni che
garantiscano la perenne memoria di questo crimine da una generazione
all’altra. La composizione, le competenze e le missioni di questo comitato
sono definite da un decreto del Consiglio di Stato adottato entro un termine di
sei mesi dalla pubblicazione della legge n° 2001-434 del 21 maggio 2001,
tendente al riconoscimento della tratta e della schiavitù come crimine contro
l’umanità.»
Articolo 5
All’articolo 48-1 della legge 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa, dopo
le parole: «con il suo statuto, di», sono inserite le parole: «difendere la
memoria degli schiavi e l’onore dei loro discendenti».
Alla presente legge verrà data esecuzione come a una legge dello Stato.