All’inizio devo fare una confessione. Parlare del Vento largo – un lungo rac-
conto di Francesco Biamonti che esiterei a chiamare romanzo – mi mette in un certo
imbarazzo. Si tratta di un testo in cui a mio avviso ciò che colpisce e che conta è un
certo clima, una certa atmosfera, un certo «je ne sais quoi», e che perciò richiede un
linguaggio critico cimentato piuttosto con il discorso poetico che narrativo. Pietro Ci-
tati ha chiamato il Vento largo un «libro fragile», più di quanti ne abbia letto: mi sem-
bra un’opinione giustissima e un’espressione che colpisce nel segno. E subito devo
ammettere, allora, che non so parlare di poesia. Parlerò allora sommariamente di un
solo aspetto di quest’opera la cui lettura raccomanderei a tutti.
La prima cosa che mi ha colpito in quel clima del Vento largo è la malinconia
che sembra permeare tutto il mondo che vi è descritto, il mondo esterno e il mondo in-
terno del protagonista. Si tratta di una caratteristica – e di una nozione – largamente
studiata nell’arte e nella letteratura ma anche definizioni più approssimative ci avvici-
nano al clima del racconto: «sentimento che provoca una tristezza costante», «un dolce
oblio, una leggera venatura di tristezza che pervade il carattere, rendendolo profondo
ed orientato alla pace ed all'introspezione», «una sorta di tristezza di fondo, a volte in-
consapevole, che porta un soggetto a vivere adattandosi agli avvenimenti esterni», «il
desiderio, in fondo all'anima, di una cosa, di una patria, di una persona mai conosciuta
o di un amore che non si è mai avuto, ma di cui si sente dolorosamente la mancanza».
“Nella luce distesa tra ulivi e solitudini di rocce arrivò il suono della
campana mediana. Vari ne contò i viaggi: erano tre, era per un uomo. Non riu-
sciva a immaginare: non aveva sentito dire che a Luvaira qualcuno fosse sul
punto. E lì intorno, negli uliveti, non c’era nessuna a cui domandare.” Francesco
Biamonti, Vento largo, Einaudi, Torino, 1991, p. 3)
“Uscì fuori dell’abitato: tutto l’altopiano era una zattera del cielo. [...] Il
deserto della lavanda, terre apriche, adesso era freddo e stellato.” (ivi, p. 55);
“Saliva, pensando a lei, per la mulattiera: tra rupi ferme e terrazze dal tri-
ste destino.” (ivi. p. 56);
A ciò si accompagnano brevi accenni allo stato d’animo del protagonista con gli
occhi del quale il lettore guarda il mondo, ad una sua tranquilla rassegnazione che fa
proprie queste linee d’ombra:
“Gli capitava di passare certe sere a pensare. Pensava agli ulivi d’altri
tempi, alla loro aria sacra e sempre nuova. Li chiamavano gli alberi della fame.
[...] Ma che serviva rovistare nei ricordi, per un uliveto perduto? (ivi, pp. 56-
57).
La malinconia del Vento largo viene sottolineata spesse volte anche dal ricorso
ai colori – pure questo un procedimento attinente più direttamente alla poesia – il quale
fa pensare ai quadri di macchiaioli: tanti particolari, tante chiazze di colore che insie-
me danno un panorama affascinante. Vi prevale comunque l’azzurro, colore del cielo,
del mare ma che può essere anche il colore della tristezza:
“Ora l’azzurro non trapassava più il campanile. Una stella era comparsa
nelle sue aperture, la stella ferma del pastore, con un’altra che le palpitava ac-
canto quasi invisibile.” (ivi. pp. 54-55);
“Che vita c’era su quei sentieri? Nessuna. Ma al bordo della strada l’auri-
va Celeste stormiva. [...] «E’sulla sua ceppaia che vorrei dispersa la mia cenere,
davanti ai paesi perduti ... Che orgoglio!».
Veniva scuro, tornavano i gabbiani dalle rumentiere; sorvolavano rocce.
Intonacati d’aria andavano al mare ancora marmoreo come a un letto di pace.”
(ivi, p. 107)