Introduzione
Il termine “salmi” deriva dalla versione greca dei LXX, traduce il greco yalmoi,, mentre
nel Codice Alessandrino (V sec.) ricorre il nome yalte,rion, termine che designava
originariamente qualunque strumento musicale a corda: ghittea o arpa di Gat (Cf. Dan
2,5).
Probabilmente la denominazione “Salmi” data a tutta la raccolta delle 150 composizioni
liriche dell’AT deriva dal termine ebraico mizmor, “inno”, che ricorre in testa a 57 di esse e
che la LXX ha reso in greco per lo più con yalmoi,.
Nella Bibbia ebraica il Salterio non aveva un nome proprio; il termine tehillîm, “lodi”, (dal
verbo hll che significa “lodare”) è stato dato alla raccolta più tardi, perché la lode penetra
persino nel mondo della supplica, invade tutto. La lode è segno della salvezza che si
percepisce nella propria vita, è gioia per la vita e il bene e comporta un autentico
decentramento, un riconoscimento dell’Altro.
Secondo le catalogazioni antiche che compaiono nella Bibbia:
57x: mizmor, “salmo”;
30x: šir, “cantico”;
13x: maskîl, “composizione sapienziale”;
6x: mitkam = ?
5x: tefillah, “preghiera”
1x: tehillot, lode”.
Il nome ebraico del libro, dunque, ci dà un’indicazione relativa al contenuto: i Salmi
sono fondamentalmente lodi e questo è vero per qualunque tipo di Salmo, anche per
quello più drammatico e violento. Ogni salmo tende alla lode e il libro, nel suo complesso,
è il libro delle lodi. La lode è segno della regressione del male e della vittoria di Dio, segno
della vita. Si può anche affermare che la lode è uno dei volti dell’amore, perché partecipa
del suo aspetto disinteressato e ne dice la meraviglia di fronte all’altro. Essa è anche un
barometro dell’amore, perché è l’amore che spinge alla lode, dà afflato per esprimere
l’ammirazione che l’amato desta in colui o in colei che l’ama. La lode è anche il luogo
dell’amore del prossimo, perché colui che loda invita anche altri ad unirsi alla sua lode per
renderli partecipi della stessa salvezza posseduta.
I salmi sono la preghiera di persone in cammino, un cammino che passa per il mare (Sl
77,20) e il deserto (Sl 136,16); sono anche una preghiera del corpo. Infatti, ciò che rende
l’essere umano capace di lode e di supplica, che gli consente di compiere il cammino, è
anche ciò che lo rende vulnerabile in quanto minaccia la lode: la sofferenza, le
aggressioni, la morte. La molla della preghiera, infatti, è il desiderio di vivere, anche nelle
situazioni di morte, ma questo voler vivere urta contro un muro invalicabile: la fossa, lo
sheol, dove si interrompe ogni lode (Sl 6,6; 30,10; 115,17-18) e dove la supplica è vana
perché senza speranza (Sl 88,11). Così questo fa sì che ci sia l’urgenza di lodare Dio
finché si è in vita. Il desiderio di vita espresso nel salmi attende una risposta di Dio e in tal
senso si può dire che i salmi sono una sfida lanciata a Dio che ha posto nel cuore
dell’uomo un desiderio di vita infinito e che solo Lui può appagare.
Il Salterio, che nella Bibbia occupa il primo posto tra i Ketubim, è stato chiamato il
“microcosmo di tutto l’AT”, come anche “l’epitome dell’esperienza spirituale d’Israele”;
infatti, i grandi temi dell’AT sono ripresi sotto forma di preghiera nei salmi, come anche le
principali tappe della storia della salvezza: esodo, conquista della terra, post-esilio, sono
ricordati in essi.
1
I salmi sono espressione poetica di esperienze religiose attraverso cui il credente si
rivolge verbalmente a Dio. Essi sottolineano il ruolo di protagonista dell’uomo, in quanto
mettono in grado l’uomo di rivolgersi validamente a Dio, in spirito e verità.
La funzione dei salmi è di essere la preghiera del popolo di Dio, di essere una scuola di
preghiera per il credente, in quanto insegnano la lingua che serve per rivolgersi a Dio.
L’uomo prega usando la preghiera che Dio gli ha donato, per cui non si sa bene se siamo
noi che parliamo a Dio o se è Dio che parla a noi. Noi impariamo a pregare imparando la
lingua di Dio e quindi assumendo anche il modo di pensare di Dio.
Così i salmi ci consentono di vedere il chiudersi del cerchio ermeneutica della Parola
che, uscita dalla bocca dell’Altissimo, raggiunge l’uomo nelle più svariate situazioni
dell’esistenza e risale a Dio in forma di preghiera. Quasi anticipando, o meglio, preparando
l’incarnazione, quando la parola di Dio si farà carne, nei salmi la parola di Dio si fa parola
umana, diviene parola del corpo umano, preghiera del corpo. È il corpo il vero soggetto
della preghiera di salmi: “Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile
ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Il salterio è la preghiera del corpo. Il corpo è
il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il
corpo stesso che prega: «Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore?» (Sl 35,10)1.
I salmi entrano nella nostra carne, nella nostra esperienza, nel nostro spazio e nel
nostro tempo e ci insegnano a portare le nostre esperienze davanti a Dio e a leggerle in
Cristo2.
Per comprendere i salmi come preghiera occorre sintonizzarsi con essi: se è
difficilissimo comprendere testi religiosi quando non si crede, è difficilissimo capire
preghiere quando uno non è capace di pregare.
I salmi sono anche poemi che esprimono e mediano un’esperienza umana. Se
l’esperienza è in qualche modo comune o comunicabile, l’espressione deve essere
accessibile. Il linguaggio ideale e primario dell’esperienza trascendente, e anche della
preghiera, è il linguaggio dei simboli. Il simbolo osa l’ineffabile, che capta e comunica
globalmente. Il simbolo si lascia vedere per far intravedere, è il di più che si rivela
nell’oggetto sensibile, è aperto e perciò espansivo.
Non basta però la comprensione del salmo, occorre giungere anche alla sua
appropriazione. Il salmo che ha espresso l’esperienza di un uomo, o di una comunità,
deve diventare espressione religiosa di un nuovo uomo, di una nuova comunità. Per
questo è necessario che avvenga un’esperienza analoga o equivalente, di cui il salmo
deve diventare una valida espressione.
I salmi ci insegnano ad entrare nella saggezza, che equivale a riconciliarsi con il proprio
limite e la propria vulnerabilità, imparando a vedere in loro, al di là del male che possono
occasionare, la possibilità di aprirsi ad una vita di alleanza: Insegnaci a ben contar i nostri
giorni, che giungiamo alla porta della saggezza (Sl 90,12).
1
P. BEAUCHAMP, Salmi notte e giorno, Assisi 1983, 1-2.
2
P. BEAUCHAMP, Salmi notte e giorno, 25: “L’Io del Salmi è quello del Cristo, ma egli non estromette nessuno,
perché la sua caratteristica è quella di annientarsi. In essi, è Lui che attira”.
2
Si tratta di 150 composizioni singole, senza un contesto ben preciso. Il testo di
numerosi Salmi è lacunoso in molti punti e documenta un complicato processo di
trasmissione.
Secondo la divisione tradizionale essi sono distribuiti in 5 libri, come la Torà di Mosè,
per formare un ideale Pentateuco della preghiera, ognuno terminante con una dossologia
annessa all’ultimo salmo di ogni libro (“Benedetto il Signore Dio d’Israele …”): 1-41
(41,14); 42-72 (72,18-19); 73-89 (89,53); 90-106 (106,48); 107-150 (150). Questo significa
che il libro dei Salmi si doveva intendere come Torà, una Scrittura da meditare, la Torà
fatta preghiera.
La numerazione del salmi è diversa nel TM e nella LXX e ciò dovuto al fatto che, dove il
TM ha 2 salmi (9-10 e 114-115), il greco ne ha solo 1 (9 e 113) e dove il TM ne ha 1 (116
e 147), il greco ne ha 2 (114-115 e 146-147).
TM LXX e Volgata
1-8 1-8
9-10 9
11-113 10-112
114-115 113
116 114-115
117-146 116-145
147 146-147
148-150 148-150.
Quindi, solo i primi 8 salmi e gli ultimi 3 hanno identica numerazione. Tuttavia, al di là
della divisione in 5 libri, che rappresenta l’ultimo stadio del processo di formazione del
salterio, è possibile scorgere le tracce di varie collezioni parziali di epoca più antica, che
nulla hanno a che vedere con la divisione formale in 5 libri; le collezione sono state così
individuate:
1. Salterio “jawistico” (3-41), in cui l’uso del nome divino Jahvè è
predominante sul quello di Elohim (273 volte contro 15). Caratteristica di questa
collezione è la menzione di David nei titoli di ciascun salmo, con l’unica eccezione
del Sl 33.
2. Salterio “elohistico” (42-89), in cui predomina, al contrario, l’uso del nome
divino Elohim su quello di Jahvè in proporzione di 5 ad 1.
3. Seconda collezione jawistica (90-150), in cui è usato sempre il nome di
Jahvè (eccetto nei salmi 108 e 144,9). Di questa collezione 17 salmi sono attribuiti a
David, 1 (Sl 90) a Mosè e un altro (Sl 127) a Salomone; mentre tutti gli altri sono
anonimi.
Di queste collezioni la prima è fatta risalire al tempo della monarchia (prima del 586
a.C.), la terza al tempo della restaurazione (dopo il 539 a.C.). Ma queste tre grandi
collezioni suppongono l’esistenza, a uno stadio più antico, di collezioni minori da esse
inglobate:
1. Il Salterio dei figli di Core (42-49)
2. La serie elohistica delle preghiere di Davide (51-72)
3. Il salterio di Asaf (50; 73-83)
4. Il supplemento jawistico al salterio elohistico (84-89)
5. i salmi della regalità di Jahvè (93-99)
6. i salmi allelujatici (104-106; 111-117; 135-136; 146-150)
7. I salmi “graduali” (120-134)
8. Altri salmi dividici, fuori dalla prima collezione (101; 103; 108-110; 138-
145).
3
1.1 Contenuto del salterio
3
Cf. A. MELLO, L’arpa a dieci corde. Introduzione al Salterio, Magnano (BI) 1998.
4
Alla fine del Salterio tutto converge nella lode, perché il male è stato eliminato; la
preghiera di supplica e di lamento non ha quindi più ragion d’essere; troviamo solo la lode.
Tuttavia è da notare che molti dei verbi che vengono utilizzati sono volitivi, cioè non
descrivono tanto una realtà attuale, quanto un desiderio, una volontà. La lode anticipa la
fine del male e la sua scomparsa; è un modo per affermare che esso non avrà l’ultima
parola. Però tale desiderio si tradurrà in realtà nella misura in cui ci sarà un uomo intento a
“meditare la legge del Signore giorno e notte”, a trarre da questo esercizio un
orientamento e un criterio per le sue scelte quotidiane.
Il redattore del Salterio ci invita a percorrere una strada che continuamente va
dall’obbedienza (alla Torà) alla lode, e da un’obbedienza motivata dal successo, dalla
riuscita, dalla beatitudine (Sl 1), a una lode assolutamente gratuita e completa (Sl 150).
7
2.1 Analisi dei principali generi letterari
a) Inno
L’inno, o canto di lode, è strutturato da tre elementi:
Introduzione
Contenuto
Conclusione.
L’introduzione si compone di uno o più distici in cui il salmista si rivolge a se stesso (Sl
104,1) o ad altri (Sl 33,1; 29,1; 117,1) invitando alla lode e al riconoscimento del Signore.
La parte centrale spiega il motivo della lode, per lo più l’azione di Dio nel creato e quella
salvifica nella storia d’Israele.
Nella conclusione il salmista ritorna al motivo iniziale di benedire e lodare il Signore.
b) Salmi di lamento
È il genere più frequente nel salterio, che si differenzia da canto funebre o di
lamentazione in quanto quest’ultimo si riferisce retrospettivamente ad una catastrofe,
concerne la morte di una persona o la distruzione del santuario. Il lamento, invece, guarda
in avanti alla liberazione; esso può essere individuale o nazionale.
Il lamento individuale (Cf. Sl 42-43) presenta la seguente struttura:
Invocazione di aiuto
Descrizione del pericolo
Ragioni per cui il Signore dovrebbe intervenire
Certezza che il Signore ha ascoltato la preghiera
Conclusione con la promessa di lodare Dio per la liberazione.
Il linguaggio del lamento non fa percepire una sofferenza specifica e questo è
importante perché permette a chiunque di identificarsi con quel tipo di preghiera. Molto
spesso l’invocazione è all’hesed, all’amore fedele del Signore. Proprio per il legame che il
patto di Dio crea con il suo popolo, il salmista ha fiducia che Dio interviene per salvare chi
è nel pericolo. Questa certezza dell’ascolto della preghiera è espressa nella conclusione.
La struttura del lamento della nazione è simile a quella del lamento individuale:
Invocazione di aiuto
Descrizione di angoscia che solitamente consiste in un rimprovero
diretto contro Dio (“per quanto tempo ancora…?) e nell’esposizione
dell’afflizione nazionale, specialmente dopo una disfatta militare, una siccità
o un altro disastro
Espressione di fede
Promessa di ringraziamento.
In ogni caso, il lamento finisce sempre per volgersi in lode e la sofferenza lascia sempre
posto alla gioia (Sl 44; 60; 74; 79; 80; 83; 89; 90; 94; 123).
c) Salmi regali
Sono chiamati così perché il re è al centro della preghiera come rappresentante della
comunità (Sl 2; 18; 20; 21; 45; 72; 101; 110).
In tali salmi appaiono i temi della figliolanza adottiva, del dominio universale, della
giustizia e della pace. Ciò fa pensare che essi siano stati trasmessi e conservati dopo la
catastrofe del 587, quando a Gerusalemme il figlio di Davide non regnava più. Furono così
interpretati in un senso messianico più escatologico e personale.
d) Salmi sapienziali
Le caratteristiche principali di tali salmi sono:
Contrasto tra il giusto e l’empio
8
Consigli riguardo al comportamento
Timore del Signore
Presenza di paragoni e di ammonizioni
Sequenza alfabetica dei versi
Detti formulati con “meglio”
Parole rivolte a un “figlio”
Formula “beato” (Cf. Sl 1; 32; 34; 37; 111; 112).
e) Liturgie
In questo genere sono inclusi la maggior parte dei salmi, perché quasi tutti hanno
origine nella liturgia del Tempio. Bisogna distinguere:
Liturgie di ingresso: gli elementi fondamentali sono:
o Richiesta di entrare nel tempio pronunciata dal fedele, sia
individualmente che in gruppo (Sl 15; 24,3);
o Risposta, presumibilmente pronunciata da un sacerdote, che
elenca le esigenze che si debbono soddisfare prima di presentarsi
davanti al Signore (Sl 15,2-6; 24,4). Le qualità morali richieste per
entrare sono fatte derivare dal Decalogo.
Oracoli di protezione divina: Sl 91; 121.
Liturgia di giudizio divino: trattano della rottura del patto da parte di
Israele (Sl 50; 81; 95). L’accusa è fatta direttamente dal Signore stesso
(attraverso un funzionario del Tempio), come nel Sl 78 in cui il salmista si
rivolge al popolo descrivendo la storia di Israele come una disobbedienza e
ingratitudine.
4. I Salmi imprecatori
Ci si è sempre scandalizzati delle tremende imprecazioni presenti in alcuni Salmi. Fra
tutte le maledizioni, la più atroce è quella contenuta nel Sl 68,22.24, per il fatto stesso che
è posta direttamente sulla bocca di Dio:
10
Sì, Dio schiaccerà il capo dei suoi nemici, la testa altera di chi percorre la via
del delitto. Ha detto il Signore: “Da Basan li farò tornare, li farò tornare dagli
abissi del mare, perché il tuo piede si bagni nel sangue, e la lingua dei tuoi
cani riceva la sua parte tra i nemici”.
Per capire il senso dell’imprecazione, bisogna considerare che per gli Israeliti la parola
non era da intendersi come un semplice segnale sonoro, ma il temine dabar significava
“parola – cosa – azione – evento”. La parola lanciata contro qualcuno era come una
freccia scoccata sull’avversario e chi veniva maledetto non se ne restava ad aspettarne
l’effetto, ma per quanto poteva rilanciava la parola imprecatoria sull’avversario. Non era
dunque un gioco, ma una ritorsione che aveva lo scopo di neutralizzare l’atto di un
nemico.
Le imprecazioni di alcuni salmi non si possono interpretare metaforicamente o
allegoricamente,4 ma esse rimangono quello che sono: urla di dolore, che appartengono al
genere letterario dello strazio. Quando, infatti, il Sl 137 dice: “Ricordati, Signore dei figli di
Edom. Figlia di Babilonia devastatrice, beatissimo chi ti renderà quanto ci hai fatto:
beatissimo chi afferrerà i tuoi piccoli e li sbatterà contro la pietra (137,7-9), il Salmista non
intendeva far altro che ritorcere sui Babilonesi quanto essi avevano fatto durante i giorni
della distruzione di Gerusalemme con i bambini Ebrei. In questo contesto le realtà sono
due: l’imprecazione del Salmista, sotto l’aspetto storico, era una narrazione di quanto era
avvenuto in Gerusalemme; sotto l’aspetto morale è una ritorsione della maledizione da cui
Gerusalemme era stata colpita.
Nonostante l’AT sia ricchissimo di maledizioni, è interessante però considerare la
norma di Lv 19,14 che proibisce di maledire una persona sorda, perché non potendo udire
la maledizione, non potrebbe prendere le misure necessarie per prevenirla e ciò conferma
il fatto che la maledizione è fondata sul valore della parola proclamata e udita.
In quanto Dio è custode di ogni ordinamento, è il legislatore supremo, chi pronuncia una
maledizione lo fa rivolgendosi a Dio; così la maledizione si trasforma in preghiera ed è
tanto più efficace quanto più Dio è vicino a chi maledice e quanto più peccatore è il
colpevole. Per tale motivo la maledizione ingiusta ricade sul suo autore o viene da Dio
mutata in benedizione immeritata per il giusto colpito.
4
S. Agostino, a proposito della maledizione sui bambini babilonesi sbattuti contro la pietra, interpreta
allegoricamente: “Chi sono i pargoli di Babilonia? Sono i cattivi desideri appena sul nascere. Quando il desiderio è
ancora piccolo fracassalo contro la roccia; e la roccia è Cristo!”.
5
A. WÉNIN, Entrare nei salmi, EDB 2002, 140.
11
poco, Dio ha legato intimamente il suo destino a quello di Israele; in nome della libertà che
il popolo ha ricevuto e ha impegnato nella fede in colui che l’ha fatto vivere.
Ciò che regge quindi tali salmi di invocazione alla vendetta è un’immensa sete di
giustizia alle prese con la crudele realtà dell’iniquità, ma anche una fede profonda in un
Dio che si schiera con le vittime della violenza. Colui che supplica non chiede a Dio la
forza di vendicarsi personalmente, ma affida a Lui tale compito.
Questi salmi sono infatti l’espressione esagerata del sentimento che l’eccesso del male
subito risveglia nell’uomo, ma al contempo sono il frutto di una fede profonda nel Dio
dell’alleanza.
14
SALMO 1
Il salmo 1 fa da introduzione al Salterio, anzi di può dire che esso costituisca la sua
“porta d’ingresso”. È messo all’inizio del Salterio perché è un invito ad una decisione per
Dio e la sua Torà o contro di Lui; infatti, la condizione fondamentale della beatitudine
consiste nella trasparenza, nella chiarezza, nella decisione e nella certezza.
Gli specialisti hanno molto discusso sul genere letterario di questo salmo. Spesso lo si è
rubricato trai salmi didattici o sapienziali, composti da saggi a scopo di istruzione privata,
ma forse anche in vista di un uso cultuale. Peraltro, questo poema è anche una lode alla
rivelazione del Signore che traccia un cammino di vita.
Il “felice”, che annuncia la felicità del giusto, inizia con la prima lettera dell’alfabeto
ebraico, alef, mentre il si smarrirà, che sigilla la sorte dei malvagi, comincia con l’ultima,
tau, sintetizzando così in sé l’arco intero delle parole, cioè della vita, come se nulla al
mondavi fosse di più opposto della felicità dei giusti rispetto alla perdizione dei malvagi.
È possibile che all’inizio il salmo 1 fosse unificato con il salmo 2, infatti i due salmi sono
“inclusi”, cioè raccolti ai due estremi da due beatitudini: Sl 1,1 // Sl 2,12.
È possibile, quindi, che in origine il Sl 1 fosse un ritratto ideale del sovrano che stava
per essere intronizzato, mentre il Sl 2 fosse il rituale in senso stretto dell’incoronazione.
Esso non presenta particolari problemi dal punto di vista della lingua ebraica e si può
facilmente articolare in due parti: i vv. 1-3 descrivono la condotta dell’uomo che medita la
Legge, i vv. 4-5, secondo una simmetria in chiasmo, descrivono la sorte dei malvagi. Al
centro (vv. 3 e 4), l’opposizione dei rispettivi destini è espressa con immagini vegetali che
si corrispondono. Infine il v. 6 funge da conclusione riassuntiva:
La prima parola del Salterio è “beato”, cioè “felice”, “fortunato”: viene indicata
la strada da percorrere per essere felici e viene collegata strettamente felicità e
Torà.
Il poema ha qualcosa di paradossale. Innanzitutto, il termine “giusto” non vi
figura all’inizio, ma soltanto alla fine (vv. 5-6). Nella prima parte si parla soltanto di
un uomo. Il singolare colpisce, tanto più che questo individuo si trova posto a
confronto con un plurale, quello dei malvagi, dei peccatori e degli schernitori. Con
ciò si vuol dire che l’uomo è sempre solo e tale resterà se sceglie di evitare il
cammino dei malvagi per dedicarsi alla Legge del Signore. Tuttavia, come lui, tutti
coloro che nel Salterio supplicano si troveranno soli di fronte a quelli che fanno loro
del male, non essendo riusciti a trascinarli nelle loro vie. Solo nel momento del
giudizio quest’uomo verrà dichiarato innocente dal male e scoprirà, entrando
nell’assemblea dei giusti, che vi sono altri giusti.
Definizione per negazione (v. 1), si usano tre negazioni per indicare che
l’uomo evita di percorrere le vie che non portano alla felicità: non cammina, non sta,
non siede. I tre verbi sono in progressione: prima si tratta di non andare con loro,
15
cioè di non farsi condizionare; poi non bisogna fermarsi, non scegliere quel luogo
per mettere le radici e non ci si deve sedere lì, cioè non bisogna rimanere sempre
con loro. Si nega l’idea di un coinvolgimento sempre più profondo nel male. L’uomo
comincia con l’attraversare la situazione di male, poi si ferma e infine si siede, vi
abita stabilmente.
Definizione per affermazione (v. 2): il verbo hagâ, “mormorare”, “parlare
sottovoce”; esso indica che la vita interiore è anche un’attività di parola, ma una
parola “della per sé” da quest’uomo solitario, “per meglio essere intesa dal cuore e
dalla mente”. Il giusto segue il consiglio della Torà, ne adotta la sapienza, ne
apprezza il valore e la sceglie. L’uomo vero è colui che fa della relazione con il
Signore il cardine della propria vita (notte e giorno) e bellezza (piacere): la totalità
dell’esistere (quantità e qualità).
La metafora dell’albero (v. 3), simbolo della vita: frutto, foglie, successo. Idea
di fecondità (“piantato lungo corsi d’acqua”). L’albero richiama l’idea della stabilità,
della forza, ma sia la sua stabilità che la fecondità dipendono dal fatto che le sue
radici vanno nell’acqua. La vita gli viene da altrove, l’albero non la possiede in se
stesso: il visibile dell’albero dipende dall’invisibile. Ciò che fa vivere è l’acqua, il tipo
di terreno in cui le radici affondano.
La simbologia dell’albero è attinta dalla cultura egiziana. In un testo egiziano,
infatti, l’Istruzione di Amenemope, leggiamo: “L’uomo veramente silenzioso è come
un albero che cresce in un giardino, fiorisce, dà doppi frutti e prospera alla
presenza del suo padrone”. Così anche per la Bibbia, il giusto è come un albero
vigoroso che quasi partecipa alla vita stessa di Dio. L’acqua viva, infatti, è simbolo
di Dio (cf. Ez 47,12: l’acqua che sgorga dal Tempio). È quindi l’albero della vita, il
cui simbolismo significa eternità della vita.
La Torà diventa la linfa che alimenta e rende verdeggiante l’albero del giusto,
che immerso nella corrente della vita, anche nella vecchiaia darà frutti.
Occorre che la vita sia radicata là dove l’elemento vitale offre un nutrimento
vitale. Nessuna creatura, nessun albero, nessun uomo porta in sé la vita: noi
dipendiamo dal luogo in cui la nostra vita si radica. Perciò il salmista afferma che
felicità e corruzione dell’uomo si decidono là dove l’uomo si afferra, per succhiare in
sé la vita, come fa l’albero con le radici.
“Darà frutto a suo tempo”: il fedele porta frutto nel tempo giusto, voluto da
Dio, vivendo così un’esistenza regolata sui ritmi proposti da Dio. Le sue fronde
sono però sempre rigogliose: il giusto ha una vitalità indistruttibile che continua
anche in tempo di crisi o di aridità.
Invece degli empi non viene descritta scelta alcuna: la loro è semplicemente
non libertà, incapacità di discernimento e scelta; quindi sono votati all’inconsistenza
totale, descritta usando l’immagine della pula. La metafora della pula (v. 4), in
contrapposizione all’albero: idea di inconsistenza e vacuità (cf. Os 13,3), di inutilità
(scarto), di giudizio, poiché la pula si ottiene alla fine della mietitura (cf. Mt 3,11-12).
Ironica contrapposizione con l’apparente stabilità e pesantezza del male e dei suoi
apparati di potere.
L’inconsistenza che si rivela (v. 5): il giudizio come luogo di rivelazione della
verità; riferimento anche escatologico. L’allusione dell’“alzarsi in piede”: il giudice
quando emette la sentenza, gli accusatori, quelli che prendono la parola? In un
processo il giudice si alza per emettere la sentenza; l’avvocato difensore si alza in
piedi per difendere l’accusato; l’unico che non può alzarsi e stare in piedi è il
16
colpevole. Gli empi, che all’inizio del salmo stanno seduti in assemblea, che
apparentemente giudicano tutti e tutto, nel giudizio di Dio appariranno come i
colpevoli.
La terminologia usata: empi, anche nella relazione con Dio, peccatori,
superbi.
Simbolismo delle due vie: come sinonimo di vita, di atteggiamento, di energia vitale,
di potere, di dominio.
Ger 21,18: “Ecco, io vi metto davanti la via della vita e la via della morte”.
Dt 30,15: “ …. Scegli dunque”.
Il simbolismo era stato adottato già dalla cultura egiziana. L’iscrizione 62 della tomba di
Petosiris: “Ti guiderò sulla via della vita, sulla via buona di chi obbedisce a Dio. Beato colui
il cui cuore ad essa lo indirizza. Chi cammina con cuore deciso sulla strada della vita, è
fermamente fondato nella terra, colui che teme Dio profondamente, è molto beato sulla
terra”.
Stele di Amenofis I (1557-1530): “Colui che è entrato dietro a te col cuore triste,
esce esultante e pieno di giubilo … Felice chi ti possiede nel cuore! Infelice chi ti attacca!”.
L’uomo che vive osservando la Legge, imparando a conoscere Dio mediante essa per
adottare gradualmente il suo modo di essere, allora questi è riconosciuto “giusto”. Il suo
comportamento, il suo modo di essere, di agire e di parlare in conformità con ciò che egli è
e con la Legge che lo abita, permette a Dio di conoscerlo come giusto e di poter entrare in
alleanza con lui, secondo il significato profondo del verbo ebraico yada’, “conoscere”.
Infatti non si tratta soltanto di una conoscenza esteriore che permette a Dio di valutare il
valore delle azioni, ma di quel legame profondo che impegna non solamente l’intelletto,
ma anche la volontà e l’affettività, l’amore.
Emerge inoltre che Dio non prende alcuna posizione rispetto ai malvagi, costoro vanno
da soli verso la loro rovina. La via degli empi va in rovina e perisce: illusoria la scelta del
male, ha già in sé la fine. È la loro stessa scelta che punisce gli empi, Dio non ha bisogno
di far andare in rovina la loro via perché ci va da sola,
Dio agisce attivamente solo nei confronti dei giusti, veglia sul loro cammino. La via degli
empi porta alla perdizione, senza che Dio intervenga.
Ma chi è questo uomo chiamato giusto? È innanzitutto un solitario, un emarginato,
mentre gli empi sono massa, assemblea, compagnia. Il giusto è l’uomo che vive della
parola di Dio, è l’uomo che ha capito che ciò che lo fa essere se stesso è il riferimento alla
Torà, non uno sforzo di perfezione morale. L’uomo che qui è chiamato felice, fortunato, è
colui che ha compreso che non è l’autocostruirsi, l’autogestirsi che lo porterà a sentirsi
giusto, ma l’accogliere la Parola che Dio gli rivolge.
NT: Per Cristo la via è la porta stretta. Negli Atti la via è quella del Vangelo. L’acqua: il
sacramento del battesimo. Cristo è stato per eccellenza fedele alla Parola del Padre, ma
Egli ha anche accettato di “sedersi” con i peccatori e con i malvagi come medico e
salvatore. Però Cristo è andato con loro non per farsi insieme a loro colpevole, ma per
prendere su di sé la colpa del mondo.
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SALMO 2
Anche questo salmo come il primo è “orfano”, non ha titolo. È stato considerato il canto
del natale di Cristo. Si tratta di un salmo regale, elaborato per l’incoronazione di un
sovrano (durante l’esilio fu letto riferendolo ad un futuro re ideale).
Negli anno 40-50 avuto grande fortuna l’interpretazione mitico-rituale: al centro del
salmo ci sarebbe Adamo, l’uomo primordiale, signore del cosmo, la cui linea dinastica si
perpetuava secondo le concezioni orientali nei sovrani. I nemici che attentano al regno
sarebbero i maestri del caos e del nulla. Nel culto, nella solennità di capodanno, si
celebrava tale vittoria sul nulla. Però mai in Israele si è pensato che la monarchia fosse di
origine celeste ed eterna, contrariamente a quanto si asseriva in oriente.
La nozione di “figlio di Dio” data al re è smitizzata e letta solo in chiave adozionista. La
Bibbia ha assunto i modelli dei decreti di filiazione sottoponendoli ad un processo di
smitizzazione e di reinterpretazione.
Per gli israeliti:
il re non sarà mai divino
non esiste il culto del re
se il re non rimane fedele a Jahvè, può essere rigettato
il sovrano è “figlio di Dio” in quanto riassume in sé il legame che
comunitariamente lega il suo popolo a Jahvè, in quanto tutto Israele è
considerato “primogenito di Dio”.
“Oggi ti ho generato”: è l’oggi attualizzante della liturgia; è l’oggi dell’incoronazione che
coincide con la nascita spirituale del re (in una rilettura messianica il Sl 2,7 farebbe
riferimento agli eventi del battesimo e ella trasfigurazione).
L’immagine dei vasi d’argilla frantumati rimanda la rito d’esecrazione praticato nel
mondo orientale (Egitto e Mesopotamia): su cocci, vasi o statuette si scriveva il nome
dell’avversario o della nazione ostile. Ed essi poi venivano frantumati nella certezza che,
magicamente, la maledizione si sarebbe riversata sul nemico annientandolo.
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INNO A DIO CREATORE (Sl 8)
Il Salmo rientra nel genere letterario degli inni: esso, infatti, esprime la lode a Dio e ne
indica i motivi nell’azione stessa di Dio relativamente all’universo creato e al suo entro,
l’uomo.
1. Critica textus
L’unico serio problema si pone per l’interpretazione del sintagma del verbo, formato
dal relativo + l’imperativo che si presenta problematico e sono stati dati diversi tentativi di
spiegazione:
1. Da ntn: infinito con valore di finito;
2. Altri leggono l’imperativo “poni”, ma eliminano il relativo come glossa;
3. Altri emendano in natattà: “hai dato/posto”;
4. Si fa derivare dal verbo tnh, aramaico equivalente dell’ebraico ŝnh = ripetere.
In tutto il poema c’è un parallelismo tra gli stichi presi a due a due; alcuni sono
parallelismi sinonimici, altri si potrebbero dire sequenziali.
2. Struttura letteraria
Il salmo è un inno che esalta Jahvè, vero e unico protagonista a cui si indirizzano gli
insistenti aggettivi possessivi di seconda persona (tuo, tuoi) e il soggetto “tu” dei verbi.
L’impostazione è però triangolare: Dio, l’uomo, il cosmo. Alla presenza della creazione
nasce l’interrogativo: che cosa è l’uomo nell’infinito? Egli è niente apparentemente, eppure
tutto è stato fatto per l’uomo, il quale si trasforma pertanto in una creatura grandiosa e
insuperabile.
La struttura del salmo è chiastica e il corpus è preceduto e seguito da una
acclamazione antifonale:
3. Datazione
Quello della datazione rimane un problema sempre aperto per ogni salmo, perché essa
oscilla. Alcuni lo considerano dell’epoca davidico-salomonica; per altri è molto recente.
Certamente la celebrazione dell’uomo e l’affermazione della sua signoria ritengono più
probabile che vi sia un collegamento con Gn 1 e quindi lo si considera dipendente dalla
tradizione sacerdotale (VI sec.).
Ancora più difficile è la determinazione del Sitz-im-Leben di nascita di questo inno. Per
alcuni studiosi esso suppone una liturgia notturna celebrata sotto il cielo stellato di oriente;
per altri è un canto sacro per il servizio sacerdotale nel tempio.
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Esegesi
SALMO 29
È il salmo più studiato perché si ritiene il più antico del salterio, derivato dal repertorio
liturgico delle popolazioni cananee che abitavano la Palestina prima di Israele. Mentre i
Cananei inneggiavavo al dio Baal – Hadod, è stato assunto dagli Israeliti per invocare il
Signore dell’universo (in questo inno compare 18 volte il tetragramma sacro Jahvè).
Il primo a suggerire l’origine cananea del salmo è stato Gunkel e ciò fu dimostrato in
seguito ai ritrovamenti di alcuni testi guaritici nel 1935.
L’uragano, nella prospettiva dei culti della fertilità, era concepito come l’orgasmo del dio
Marduk o di Enlil o di Baal, che può essere benefico (pioggia) o devastatore (tempesta,
grndine). Così c’è sta una rilettura di quel testo: il nome di Baal è stato cambiato in quello
di Jahvè; il tuono si è trasformato in parola e la regalità è stata trasferita a Jahvè.
Tale assunzione del testo caanneo sarebbe avvenuta all’epoca di Davide e il testo
sarebbe stato utilizzato per la celebrazione solenne delle Capanne, festa che prima era
collegata a due segni dell’attività creatrice e sovrana di Jahvè: il raccolto e la creazione;
soltanto dopo in questa festa si volle commemorare il soggiorno nel deserto e il dono della
Legge al Sinai.
L’inno quindi si adattava a quella festa, in quanto era un canto del Dio Creatore e
sovrano dell’universo.
Nell’epoca post-esilica viene ulteriormente interpretato e diventa il canto della natura
che combatte per Israele, guidata e scatenata dal supremo generale Jahvè.
Ma può subire un’ulteriore rilettura, quella messianica e così i cedri, le acque …,
diventano segno del colossale intervento del Messia che schiaccia i ribelli e inaugura il
regno degli eletti.
L’interpretazione cristiana invece vede nella voce di Jahvè la voce del Padre che si
indirizza al Figlio nel battesimo sulle rive del Giordano; viene ad essere poi la voce degli
apostoli che con la loro predicazione demoliscono l’orgoglio dei pagani, mentre il
settenario dei tuoni diventa il settenario dei doni dello Spirito o il settenario dei sacramenti.
Per Von Rad il v. 9 è la chiave di tutto il salmo, perché ci conduce al di sopra del
tumulto terrestre, nel santuario del cielo, dove il coro degli esseri celesti riconosce e
celebra questo avvenimento sulla terra come una manifestazione della gloria di Jahvè.
Infatti, il tema del salmo è quello della gloria (cf. Is 6).
Tempesta: simbolo della potenza di Dio;
Figli di Dio: le stelle, considerate delle divinità nell’ambito panteistico
orientale, oppure le divinità minori;
Gloria: confessare in Dio ciò che lo costituisce Dio, forma di adorazione
perfetta;
Acque immense: simbolo del caos e del nulla;
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Cedro del libano: albero enorme con i suoi 12-18 metri di circonferenza,
emblema della potenza che non si piega, segno di orgoglio, di altezzosità, simbolo
della superpotenza, ma su di esso deve scendere inesorabile il giudizio di Dio che
infrange e calpesta la superbia umana. Solo la divinità poteva spezzare queste
colonne gigantesche: “Il grido di Enlil spezza i cedri; infatti alla parola di Enlil chi
può resistere?”.
Libano e Sirion: si trasformano poeticamente in animali impazziti; la loro
solidità è incrinata e si mettono a danzare come i vitelli o come i bufali peni di
vigore.
Vitello e toro: simboli di Baal; il Sirion era appunto la sede di un santuario di
Baal, quindi tali allusioni hanno una finalità anti-idolatrica.
Genere letterario
Supplica: da parte di un levita espulso dalla classe sacerdotale, esule in
terra lontana, il cui unico desiderio è di essere reintegrato nelle sue funzioni (v. 3).
Inno di ringraziamento: utilizzato per una festa nazionale dell’alleanza,
collegata con la festa delle Capanne, una specie di capodanno ebraico.
Regale: per la menzione del re, centrato sul motivo cultico della
contemplazione di Dio nel Tempio. Per alcuni, invece, il v. 12 sarebbe un’aggiunta
liturgica destinata ad orientare in prospettiva comunitaria un salmo personale,
quindi potrebbe trattarsi di una preghiera solenne pronunciata nel Tempio, forse da
un re.
Il salmo evoca i tre atteggiamenti tipici:
1. vv. 2-5: è descritto l’uomo in ricerca, in cammino;
2. vv. 6-9: dicono l’intimità con termini che designano le parti del corpo
(anima, labbra, destra), nutrimento (grasso, midollo) e protezione (soccorso,
sostegno), con un sostantivo che si riferisce al riposo (letto) e un verbo che
designa un’attività interiore (sognare).
3. vv. 10-12: considerano l’uomo nel combattimento, mentre affronta i
suoi avversari: la discesa nella terra, la spada, lo sciacallo, il re.
Struttura letteraria
I. vv. 2-4: Canto della sete di Dio (lode e contemplazione
nel santuario);
II. vv. 5-9: Canto della fame di Dio (veglia e lode nel
Tempio);
III. vv. 10-12: Canto del giudizio di Dio (lo sceol, la spada, gli
sciacalli).
Molto forte è il simbolismo dell’acqua, perché la terra arida della Palestina è morta
senza la pioggia ed essa con le screpolature della superficie sembra essere una bocca
riarsa e assetata; allo stesso modo il credente ha bisogno di Dio per esistere.
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In contrasto appare anche la terra che non verrà mai irrorata da quest’acqua: lo sceol,
una landa senza vita in cui si aggirano sciacalli, dove saranno rinchiusi senza speranza i
peccatori.
Al simbolo fisico della sete si associa quello della fame (v. 6): chi incontra Dio ha
sazietà piena; tutto l’uomo, con le sue aspirazioni, il suo cuore, la sua forza e la sua
debolezza, è proteso verso Dio. La meta da raggiungere è il Tempio, il santuario del v. 3,
l’area del sacrificio di comunione (v. 6), fino al centro stesso del Tempio, l’arca,
simboleggiata dalla protezione delle ali, il segno vivo della presenza di Dio che siede tra i
cherubini (v. 8).
Le tenebre, come la terra riarsa e deserta sono segni del nulla e della morte (v. 10).
Così si passa dalle tenebre – nulla, alla luce – Dio; dalla notte – morte, alla speranza –
vita.
Collocazione
Il salmo sembrerebbe evocare la situazione di Davide nel deserto di Giuda quando era
inseguito da Saul (cf. 1Sam 22-26), perchè l’orizzonte geografico e simbolico entro cui
l’orante si colloca è quello di un deserto bruciato dal sole, privo di ruscelli, mentre egli
come un vagabondo allucinato ha fame e sete.
L’anima e la carne fragile sono proiettati verso la sorgente della luce e di acqua (Os 2,5:
“la ridurrò a un deserto, come una terra arida e la farò morire di sete”; Am 8,11: “verranno
giorni in cui manderò la fame nel paese, ma non di pane né sete di acqua, ma di ascoltare
la parola di Jahvè”).
Mentre prima la teoria della retribuzione poneva come unità di misura un metro
antropologico, la vita lunga e felice, il Sl 63 usa un criterio teologico: l’unità di misura è
l’esed divino effusa in noi. Solo con essa la vita acquista senso. Il tema centrale del salmo
è pertanto il primato di Dio a cui ci si deve abbandonare in donazione totale.
La preghiera a mani alzate è come un ponte di comunicazione tra la sfera umana e
quella divina, che si pensava posta nell’alto dei cieli. Tale preghiera non è finalizzata ad
ottenere un favore divino, ma è semplicemente canto al Nome divino, glorificazione.
Aperto alla lode, il culto del Tempio permette di realizzare un altro desiderio dell’uomo,
la sua fame: partecipa al banchetto di Dio perché nel tempio la parte più grassa delle
vittime costituiva la parte riservata a Dio nel sacrificio di comunione.
Di fronte a tanta felicità, la bocca prima colma di cibo, ora si riempie di lode. La lode è
continua anche nella permanenza notturna nel santuario durante le veglie liturgiche (si
pensa ci si riferisca all’attesa del verdetto oracolare mattutino).
In questa esperienza altissima di comunione si attua in pienezza l’abbandono totale
della creatura al Creatore (v. 9). L’essere intero del credente “aderisce” , “si incolla” a Dio
e i due vengono così a costituire un unico essere nell’amore, quasi “una sola carne” (Gen
2,24).
I vv. 10-12, finali del testo, sono di carattere imprecatorio: contengono un augurio di
morte e per tale motivo alcuni autori li considerano un’aggiunta. Invece essi illuminano, per
contrasto, la fede biblica che oltre ad essere appassionato amore per Dio, è anche lotta
contro il male. L’orante si sente circondato da mali senza numero e da nemici che
attentano alla sua vita. Al Tempio, area della vita, si oppone lo sceol, zona di morte, centro
infernale dove c’è silenzio e dolore.
Abbandonare un cadavere agli sciacalli (animali che si aggirano tra le carogne) significa
negare la sepoltura e quindi anche quel minimo di sopravvivenza legata allo sceol.
Sulla base di questi versetti finali è difficile dedurre che la persona orante dell’intero
salmo sia un re, come sostengono alcuni. È probabile che quella sia la voce
dell’assemblea liturgica che accompagna la preghiera del salmista.
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SALMO 68: IL TITANO DEI SALMI
È il più difficile e il più oscuro di tutti i salmi, utilizzato fin dal I sec. a.C. come salmo di
Pentecoste, festa dell’alleanza al Sinai, della rivelazione e del dono della Legge. Si dice
che questo salmo venisse recitato da sant’Antonio nel deserto, quando era in preda alle
tentazioni.
È un inno di lode al Dio di Israele, una preghiera di fede cantata che ruota attorno a due
articoli di fede, dell’esodo e del dono della terra di Canaan.
È il salmo più strano del Salterio, perché si presenta come un insieme di ingiurie, una
raccolta di 20 imprecazioni e proprio per tale motivo non è presente nella liturgia delle Ore.
Per la Chiesa esso interpreta la drammatica vicenda di Giuda il traditore, poiché si
presenta come una maledizione contro un amico sleale. Si deve tuttavia considerare che
l’imprecazione è contro il male e in tal modo si vuole riequilibrare la storia dell’uomo.
Fatto di 63 parole e 148 sillabe, questo salmo più di ogni altro è stato oggetto di una
vera venerazione, il più celebre, il più studiato.
Il genere letterario è regale: si pensa sia stato composto per una cerimonia di
intronizzazione, come il salmo 2. per alcuni è una composizione in onore di Davide per la
traslazione dell’arca a Gerusalemme (cf. 2Sam 6). In quell’occasione a ‘El-Eljon, il dio
locale gebuseo, fu sostituito con Jahvè e Jahvè ufficialmente proclamò Davide re, figlio
adottivo e sacerdote, stabilendo con lui un’alleanza. Poiché il palazzo reale era stato
costruito a sud ovest della tenda dell’arca sul colle di Sion, si dice a “destra” del luogo
dove risiedeva Jahvè.
La nozione del re-sacerdote si ha solo nel X-IX sec. a.C., prima di Isaia e certamente
prima della tradizione sacerdotale (sacerdozio aronnitico) e anche deuteronomica
(sacerdozio levitico); tuttavia non si può definire se tale oracolo sia stato pronunciato da
Natan o dallo stesso Davide.
Si ha una certa partecipazione al potere di Jahvè che si erge ostile contro i regni ingiusti
e le forze del male. Lo sgabello dell’arca è il trono da cui Dio amministra la giustizia
schiacciando il male. Lo scettro rimanda al tema della funzione “vicaria” del re nei confronti
della regalità primaria di Dio.
Il fatto che l’autorità monarchica venga da Sion e si estende all’orizzonte estremo dei
nemici mostra che essa è delegata e partecipe di quella divina che resta il potere
fondamentale.
La “rugiada, insieme all’olio, è segno della consacrazione; infatti, la rugiada era definita
il “grasso della terra”, cioè il segno della fertilità e della fecondità ed esprime quindi la vita,
la giovinezza. Si vuol dire che Dio offre al re, nel giorno della sua incoronazione, il dono di
un popolo nuovo e forte, offre la forza e la giovinezza perché egli possa iniziare la sua
opera di giustizia, la sua grande battaglia per la causa di Dio.
In opposizione a 1Sam 15,29 in cui si dice che Dio “si pente” della scelta di Saul, nei
confronti dell’alleanza davidica e del sacerdozio regale davidico, non si pentirà mai.
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La prassi di accentrare potere politico e celtico nell’unica figura del re è costante
nell’antico oriente e soprattutto in Canaan. Davide, rivestito dell’efod sacerdotale, presiede
la traslazione dell’arca a Sion, offrendo sacrifici. Qui si tratta dell’assunzione della
tradizione Cananea allo scopo di contenere il prevalere della classe sacerdotale; per
questo si fa allusione a Melkisedek, (sacerdote cananeo) mediatore unico tra Dio e il suo
popolo e detentore di tutti i poteri, per giustificare il dominio di Davide sui cananei. Poiché
Melkisedek benedisse Abramo e questi diede la decima, Davide come nuovo Melkisedek
diverrà il canale delle benedizioni divine per il popolo di Abramo, cioè per tutto il paese
conquistato, mentre in cambio potrà pretendere la decima (cf. Gen 14,18-20).
Il tema fondamentale del Salmo è quello della fiducia in Dio che per altro è molto
ricorrente in tutto l’AT. Tale tema struttura il Sl in due parti: vv. 1-2 / 3-5. Tra le due parti si
instaurano due relazioni tematiche: alla costruzione della città risponde la costruzione
della famiglia grazie ai figli; alla difesa della città corrisponde la difesa dei diritti in
tribunale.
In mezzo si situa il dono di Dio durante il sonno dell’uomo: dono agricolo e familiare. In
questo senso appare che:
Dio è il costruttore della città e delle sue cose
Dio è la sentinella
Dio dà i figli.
Nel v. 1, il sostantivo della radice ‘ml è uno dei preferiti del Qo. In questo versetto i
membri si trovano tra di loro in un rapporto di parallelismo.
Il verbo banà è utilizzato spesso nell’AT avendo come soggetto Dio e come oggetto la
casa, intesa appunto come famiglia, dinastia (cf. 2Sam 7,27; 1Re 11,38). Quindi il verbo
quando è riferito a Dio assume questo significato metaforico, non intende cioè far
riferimento al tempio o al palazzo, ma al casato.
In questo contesto, l’espressione “costruire una casa” può riferirsi a:
1. Costruzione di Sion
2. Costruzione del Tempio o del palazzo
3. Costruzione della dinastia davidica
4. Costruzione di qualche dinastia.
Anche il verbo ŝmr esprime una funzione fondamentale di Dio (cf. Sl 121 che è
incentrato su ciò). La città di cui qui si parla, può essere ad un primo livello Gerusalemme.
Tra la prima e la seconda parte c’è una connessione evidente tra banh/banim.
Genere letterario
È un salmo che possiamo definire di genere sapienziale e secondo alcuni è entrato a
far parte dei cantici delle ascensioni per l’allusione iniziale alla città. È inoltre l’unico salmo
che è attribuito a Salomone e ciò forse deriva:
Per il carattere sapienziale del Sl che ha favorito l’applicazione a colui
che era considerato il sapiente per eccellenza.
Per la menzione della “casa” nel v. 1 e della sua costruzione che
rimanda a Salomone.
La menzione del sonno (v. 2) ha fatto pensare al sogno di Gabaon
(1Re 3,5).
Per il vocabolo jedidò, “il suo amato” che in 2Sam 12,25 è il nome
secondario dato da Davide a Salomone, jedidijah, “l’amato da Jahvè”.
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Per la menzione dei figli numerosi che rimanda allo sterminato harem
di Salomone (1Re 11,3).
Struttura del Sl
Innanzitutto è da segnalare l’inclusione tra ‘ir “città” (v. 1) e la sua metonimia, sa’ar,
“porta” (v. 5).
vv. 1-2: senza Jahvé è invano costruire, custodire, il lavoro
vv. 3-5: con Jahvé ci sono figli numerosi e la difesa della città.
C’è un rapporto tematico tra le due parti: la parola bajt in ebraico vale sia per “casa” che
per “famiglia”; esprime questo grembo fecondo da cui escono i figli, come la città è l’area
protetta che esclude i nemici attraverso la protezione delle porte sorvegliate da Jahvé,
vera sentinella.
In questo cerchio città/casa si condensa tutta la vita nella sua duplice accezione
familiare e sociale: la costruzione – generazione (bnh/bn), alzarsi, mattino-sera, mangiare,
dormire. Su tutto ciò si leva la presenza protettrice di Dio.
Esegesi
A. Senza Jahvé, invano (vv. 1-2)
Per tre volte è ripetuto il termine ŝaw, che come avv. traduciamo con “invano”, come
sostantivo “vano”. Questo termine sottolinea il senso profondo della solitudine dell’uomo
senza Dio e della inanità della sua azione prima della benedizione divina. Ma spesso ŝaw
è il vocabolo che definisce la “vanità” per eccellenza che è l’idolo; secondo Mowinckel
infatti, alle origini il termine indicava la “magia malefica”. Quindi c’è forse alla base un
discorso fortemente anti idolatrico, ma per costruire l’edificio della vita familiare e sociale
bisogna appoggiarsi unicamente a Dio.
Il v. 2 si presenta più oscuro: il primo interrogativo riguarda laken “a voi”, che è una sec.
pers. plu. inattesa, da alcuni considerata una dittografia di lehem, “pane”. Poi segue la
forma participiale, “i pattinanti” e l’altra “i riposanti tardi”. L’interrogativo maggiore viene da
ken, “così” che può avere diverso valore:
Particelle enfatica: sì, certamente
Può essere in titolo divino: l’Onesto (sogg. del verbo dare), il
vero, il forte, lo stabile, cioè Dio
Sostantivo: ciò che è giusto (oggetto del verbo dare).
Un altro problema si pone per il termine ŝena’ che alcuni traducono con “successo,
prosperità, ricchezza” facendo riferimento al siariaco. Invece è da tradurre con “sonno” e
può essere:
Acc. di tempo o di modo = nel sonno
Compl. ogg. del verbo natan = il sonno.
È molto forte quindi l’idea di totalità: la casa e la città sono tutto l’ambiente vitale
dell’uomo; alzarsi e dormire è un merismo che fa riferimento anche all’attività che l’uomo
conduce in questo arco di tempo. Viene considerata tutta quanta la dimensione umana. Il
lavoro che dà un pane di fatica fa allusione a Gen 3: il rapporto con la vita è di fatica e di
lotta, ma se c’è Dio allora tutto si risolve nell’abbondanza e nella gratuità del sonno.
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Nel v. 4 si parla dei “figli della giovinezza” che sono considerati più vigorosi e solidi, più
robusti di quelli nati da genitori anziani. Così, colui che ha figli robusti, nati dal suo vigore
giovanile, può affrontare il futuro sicuro, come un poderoso guerriero (gibbôr), armato di
queste frecce acuminate e vincitrici che sono i figli. L’immagine bellica si espande nel v. 5
che è introdotto da una “beatitudine”. I figli sono come frecce, munizioni che servono a
respingere ogni attacco.
Poiché il tono è tipicamente militare, così la radice dbr in un contesto bellico può
significare: “respingere”, “cacciare”. La “porta” era per eccellenza il municipio della città
dove si affrontavano tutte le questioni giuridiche e politiche, si stipulavano contratti e si
rilasciavano documenti.
Il termine “eredità” indica qualcosa che si ottiene per donazione; la “ricompensa” indica
qualcosa che si ottiene per ciò che si è fatto.
Os 11,4: “Io ero per voi come chi solleva un bimbo alla sua guancia; mi
chinavo su di lui per dargli da mangiare”.
Is 66,11: “Così succhierete al suo petto e vi sazierete delle sue consolazioni;
succhierete deliziandovi, all’abbondanza del suo seno … Come una madre consola
un figlio, così io vi consolerò”.
Is 49,15: “Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non
commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si
dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”.
Tagore: “Tu giocherai nel mio cuore, per questo sono sulla terra”.
Elisabetta della Trinità: “Egli ha messo nel mio cuore una sete infinita e un
grandissimo bisogno di amore che Lui solo può saziare. Allora io vado a Lui come il
bambino va da sua madre, perché egli mi colmi e mi invada tutta, mi prenda in
braccio. Bisogna essere semplici con il buon Dio!”.
S. Teresina: “La santità non consiste in questa o quella pratica, ma è una
disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli tra le braccia di Dio, coscienti
della nostra debolezza. Ciò che al buon Dio piace nella mia anima è il vedermi
amare la mia piccolezza e la mia povertà. Più saremo povere, più Gesù ci amerà”.
P. Charles de Foucold: “È necessario che la croce generi in noi, anno dopo
anno, il piccolo bambino, il solo ammesso a varcare con Gesù le porte del Regno
dei cieli”.
Mounier: “Sai tu cos’è l’infanzia spirituale? È l’avere un’anima toccata dalla
grazia, che può non aver fatto nulla nella vita, ma che ha ricevuto da Dio il dono di
uno sguardo semplice rivolto a Lui e quella freschezza dove a Dio deve essere
tanto caro riposarsi, visto che non vi sono più se non uomini preoccupati, tesi,
inaspriti dal lavoro e dalla serietà. Dio vuole fanciulli che possa prendere come si
solleva un bambino; popi è un’altra questione che ci sollevi più o meno in basso, più
o meno in alto”.
Simon Weil: “Dio e l’umanità sono come due amanti che hanno sbagliato il
luogo dell’appuntamento. Tutti e due arrivano in anticipo sull’ora fissata, ma in due
luoghi diversi. E aspettano, aspettano, aspettano. Uno è in piedi, inchiodato sul
posto per l’eternità dei tempi. L’altra è distratta e impaziente. Guai a lei se si stanca
e se ne va!”.
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SALMO 135: INNO HALLELUIATICO AL SIGNORE VIVENTE
DEL COSMO E DELLA STORIA
Il salmo è composto di vari frammenti tolti da altri salmi e da alcuni passi di altri libri
della Scrittura. Era destinato all’uso liturgico.
Nei vv. 1-4 c’è un invito a lodare il Signore rivolto ai Leviti che stanno nel Tempio. Poi si
espongono i motivi della lode che si possono riassumere nell’onnipotenza di Dio e nella
grandezza delle sue opere. Egli, infatti, è il Creatore dell’universo (vv. 5-7); salvatore e
benefattore di Israele, per il quale ha colpito gli Egiziani a altre potenti nazioni. Di fronte al
Dio d’Israele gli altri idoli sono un nulla (vv. 15-18).
Il salmo termina chiamando quasi a raccolta i sacerdoti leviti, il popolo e quanti temono
il Signore, a benedire l’Onnipotente che ha scelto Gerusalemme per sua dimora.
Tale salmo è un’affermazione della trascendenza e della grandezza di Dio di fronte al
quale l’autentico atteggiamento dell’uomo è quello della lode e dell’adorazione. È stato
considerato un invito rivolto agli uomini di ogni tempo di abbandonare i propri idoli per dare
lode a Dio.
La grandezza di Dio non ha confini, ma tale grandezza è posta a nostro servizio, si è
manifestata con un volto tenero e amoroso di Padre che “si muove a pietà dei suoi servi”
(v. 14b).
SALMO 137
Struttura
vv. 1-3: evocano la passata liberazione
vv. 4-6: lode corale alla parola efficace e alla gloria di Dio
vv. 7-8: aprono il canto al futuro, introducendo nel carme il tema della fiducia
che l’azione liberatrice di Dio sarà efficace contro i nemici.
Interpretazione
Nel v. 1 si parla di “Elohim” davanti ai quali l’orante intona il suo canto (tradotto della
LXX e dalla Vulgata con “angeli”). Si può tradurre come “dei”, poiché vi era la convinzione
che Jahvè era un sovrano circondato dalla sua corte di dei inferiori. Ciò esprime che
dinanzi alla gloria e alla potenza di Jahvè, tutto si piega, anche le divinità delle nazioni.
Secondo un’altra interpretazione si può tradurre “in faccia agli dei”, “in contrasto con gli
dei”, in modo polemico, per esprimere l’unicità della fonte della salvezza, ironizzando sulle
altre divinità che sono nulla. La preghiera diventa quindi anche accusa dell’idolatria.
La Chiesa con questo salmo rende grazie a Cristo per la misericordia e la fedeltà verso
di lei
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SALMO 144
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