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Carlo Mario Maria Bolchi

SATANA LE FIERE E GLI ANGELI


sul Vangelo di Marco
I

Alle persone carissime che mi hanno portato alla vita,


che a mia volta ho portato fino alle soglie della Vita,
e di cui ho voluto portare per sempre i nomi,
auspicio di comunione eterna.

Ai Signori Elena e Salvatore Magrì, amabili e munifici


nel seguirmi lungo gli anni degli studi teologici e biblici,
senza dei quali questo lavoro non avrebbe visto la luce.

La mia gratitudine agli ottimi amici Carla e Cesare


Pedrazzini che ne hanno generosamente sponsorizzato
la prima pubblicazione.

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Prefazione dell’autore

Da anni lavoro al Vangelo di Marco, e ora, avendo in corso la stesura


completa di quello studio che per più di una ragione si prolunga ben oltre le
attese, ho ritenuto di uscire prima di vederlo completato. Ci sono infatti
alcune linee emerse nitidamente e già mature in me che premono per esser
fatte conoscere. Questo scritto è dunque un’anticipazione e in buona misura
anche il succo di tutto quel lavoro.
Il titolo Satana le fiere e gli angeli viene direttamente dal testo di
Marco, l’allegoria che mi ha dal primo giorno affascinato; dice, “[…] fu nel
deserto per quaranta giorni tentato da satana e stava con le fiere e gli angeli lo
servivano” (Mc.1,13), contributo immortale alla comprensione di Gesù e del
suo messaggio.
Nei miei progetti questo scritto doveva vedere la luce a un secolo
esatto dall’apparizione nel 1901 dell’opera di W. Wrede (“Das Messias-
geheimnis in den Evangelien”) che rilanciò l’interesse intorno al Vangelo di
Marco. È comunque una risposta alla sua teoria del segreto messianico e intende
mostrare, al di là del segreto, quale ricchezza e forza si celava in questo
Vangelo di cui le chiese nei secoli sono andate così poco fiere.
Lo Spirito Santo ha fatto dono alla chiesa e per essa al mondo intero
del vangelo quadriforme. L’aver essa dimenticato assai presto che Marco era
il primo dei quattro Vangeli, e che la sua lezione era la base per una
interpretazione corretta e piena non solo della vita e missione del Maestro
ma altresì della vita e missione della chiesa, non ha vanificato almeno in parte
il dono dello Spirito? e che dire se non fosse stata solo dimenticanza, e si fosse
colpevolmente ignorato questo Vangelo e il suo insegnamento?

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Che questo nuovo scorcio di tempo, il millennio che si è aperto, nasca
sotto il segno di un Marco ritrovato, apprezzato quanto merita, pienamente
legittimato e restituito agli uomini: questa è una gran “buona notizia”! Per la
salvezza di coloro che sono nella chiesa, e per la salvezza di coloro che non
ne fanno parte e non hanno (a detta di alcuni di loro) altra materna protezione
che il nudo cielo.

L’autore

8 settembre 2003, nella festa della Natività della Vergine Maria.

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Parte prima
Alla riscoperta di Marco, il primo degli evangelisti.

Capitolo 1
La vicenda storica del Vangelo di Marco.

Il popolo cristiano in genere ignora molte cose che lo riguardano.


Questo dovrebbe forse scandalizzare, ma è cosa troppo comune la
trascuratezza dei cristiani per la loro storia e la loro grande tradizione, perché
qualcuno abbia voglia di scandalizzarsi.
Tra le molte cose, non sanno che per i primi 500 anni nessun
commentario del Vangelo di Marco, nessuna esposizione paragonabile a
quanto avvenuto per gli altri Vangeli canonici è uscita dalla penna dei Padri
vuoi latini vuoi greci; e non sanno che nei secoli successivi, se l’hanno
commentato, l’han fatto rimpallandosi una sequela interminabile di luoghi
comuni che solo la critica degli ultimi secoli ha in parte abbattuto.
Lasciamo stare adesso se sia più urgente vivere l’evangelo o scrivere
un commentario: certo che l’evangelo è fatto per essere vissuto! ma proprio
per questo guai a coloro che non si danno la pena di pensare, presto non
sapranno più che cosa vivono e perché.
Orbene, ci sono autori che riferiscono tali notizie di Marco
sottostimandone la gravità, soprattutto lasciando al lettore l’impressione che
quanto è capitato al Vangelo di Marco è fortuito, non abnorme, in sostanza
accettabile. Perbacco, no! Non è fortuito: se lo fosse non ci sarebbero

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responsabilità, le cose intorno a questo Vangelo si sarebbero combinate a
caso, quasi per magia come è dato vedere nei cartoni animati. È abnorme: se
Marco non fosse stato commentato, ponete, perché in quei secoli era caduto
in oblio, sarebbe comprensibile anche se resterebbe da chiedersi come sia
potuto cadere in oblio. Ma non è affatto andata così, Marco era letto al pari
degli altri Vangeli nell’ufficialità delle assemblee cristiane.
Cosa è dunque accaduto a Marco, dacché commentari mancati e
diluvio di luoghi comuni reclamano una giustificazione?
Ritengo che la vicenda storica di Marco sia legata indissolubilmente a
un errore iniziale: la rinuncia a difendere la sua priorità rispetto a Matteo. Fu
un errore dalle conseguenze disastrose, e non soltanto per il Vangelo di
Marco. Dirà qualcuno: che importanza poteva avere una questione di
cronologia, quando in gioco sono salvezza, regno di Dio, chiesa?
Giudicherete voi stessi.
Si era nel corso del II secolo: era dato per certo che fosse esistita una
raccolta (quasi un “vangelo”?) intorno a Gesù attribuita a Matteo e scritta nella
lingua degli ebrei (Papia), documento che poteva ben essere anteriore al
Vangelo di Marco; sempre a nome di Matteo si conosceva il Vangelo in lingua
greca che la critica unanimemente ormai considera posteriore a Marco. Cosa
fecero allora? Dall’identità del redattore (in realtà neppure il redattore fu
identico, ma passi!) conclusero all’identità del contenuto dei due scritti,
quello aramaico e quello greco, e alla sostanziale identità del tempo di
composizione. Nella realtà non ci fu alcuna di quelle identità, ci furono solo
nell’estimazione della chiesa di allora. Tanto però sancì la fine del primato
del Vangelo di Marco, non solo a livello cronologico. Eppure nelle comunità
qualche ricordo di tale primato doveva pur essere rimasto (e vedremo che in

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effetti è rimasto), se si pensa che Marco era stato letto per 20-25 anni prima
che apparisse il Matteo in lingua greca. Ma la cronologia a quel tempo la fece
il gradimento, e la chiesa storica gradì assai Matteo, considerato per
eccellenza il Vangelo ecclesiastico.
La conseguenza, implicita in quella prima rinuncia, fu che Marco non
solo sarebbe stato riconosciuto posteriore, bensì anche dipendente da Matteo
e di lui minore… Ciò era nell’aria: è quanto troviamo espresso
inequivocabilmente da Agostino quando scrive: “Marco fu valletto e
abbreviatore di Matteo” (De consensu Ev. I,2,4). C’erano non meno di cento
argomenti per dimostrare l’indipendenza di Marco da Matteo; tutto invece si
volse contro Marco, perfino una cosa innocente come la brevità (il Vangelo
di Matteo infatti è quasi doppio del Vangelo di Marco).
E pensare che Marco aveva a difesa una tradizione formidabile la quale
voleva che questo Vangelo fosse sotto l’autorità di Pietro, che anzi
conservasse “la predicazione e le memorie di Pietro”. In qual modo potesse a
un tempo essere “abbreviazione di Matteo” e custodire “le memorie di Pietro”
il grande Agostino non lo disse, come se non avesse lui spirito critico da
vendere!
Non sarà che fu comodo considerarlo l’ombra di Matteo? che ci
poteva essere di nuovo, di estremamente serio, in un riassunto? Se si cercava
come rendere inoffensive le punte di Marco, senza dare a vedere, non c’era
via migliore. In tal caso non sembra sufficiente affermare che Marco fu
emarginato dall’esegesi: fu emarginato, e basta! Così si rese vano per lunghi
secoli non solo il lavoro di Marco bensì uno dei doni che lo Spirito Santo di
Gesù aveva fatto ai discepoli per condurli “a tutta la verità”. Si può ipotizzare
una conspiratio ordita non si sa bene da chi. Il vangelo è per provvidenza

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quadriforme: Marco era il primo, andava letto seriamente e posto a
fondamento di una lettura del NT corretta e feconda; se non è stato fatto, un
danno ne è venuto all’evangelo alla comunità dei discepoli e al mondo! Ciò
che H. U. von Balthasar scrive a proposito dei trascendentali (verum bonum
pulchrum unum) può essere ripetuto in modo perfetto dei Vangeli: “I
trascendentali non sono assolutamente separabili e la dimenticanza di uno di
essi non può che avere un effetto distruttivo sugli altri” (Balthasar, Gloria, I,
pg.3).

Tentativo di omologazione

Se qualcosa di più si vuol sapere su ciò che bolliva in pentola, allora


bisogna capire perché, già a fine I secolo, qualcuno o qualche ambiente abbia
ritenuto necessario apporre un correttivo al Vangelo di Marco sotto forma di
aggiunta finale (Mc.16,9-20). Si è detto che forse era caduta la finale
originaria: non lo credo, non è mai esistita finale autentica se non quella che
leggiamo ancora oggi (Mc.16,1-8). Del resto perché mai sarebbe caduta? e
perché proprio quella di Marco? I guai di Marco non sono mai dipesi dalla
sfortuna o dal caso.
Forse quello che leggiamo a qualcuno non è sembrato un finale degno,
troppo inglorioso e tale da far storcere il naso, con quelle donne che alle
parole del giovinetto-angelo fuggono, e non dicono nulla a nessuno, perché
avevano timore. Cos’è questa voglia di contrariare a tutti i costi? devono essersi
detto; pazienza durante i giorni della Passione, ma ora che Gesù è risorto
perché non lasciare al lettore un ricordo edificante? Così hanno regalato a

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Marco una finale con fanfara, senza minimamente rendersi conto che ne
tradivano il genio.
Evidente nella finale aggiunta (ma sono addirittura due, una di un solo
versetto) è l’intenzione di avvicinare il Vangelo di Marco alla forma degli altri
Vangeli, di corredarlo cioè dei racconti del Risorto di cui era privo,
abbreviando (qui sì c’è riassunto, ma non è Marco a farlo!) le relazioni di
Giovanni Luca e Matteo sulle apparizioni del Risorto e la missione. Più
nascosto ma non meno determinato mi sembra l’intento di omologare questo
Vangelo, e si noti che sarebbe l’unico caso del genere per i libri del N.T.; è
vero, anche il Vangelo di Giovanni ha un'aggiunta finale (Gv.21), che tuttavia
non rivela alcun intento omologante.
Queste note iniziali, per indicare che esiste un problema chiamato
Marco, ed è tale da scuotere le fondamenta della chiesa stessa. Infatti neppure
il tentativo di omologazione messo in atto riuscì a salvare il nostro Marco
dall’emarginazione, come non l’aveva salvato l’unanime riconoscimento che
in esso erano conservate “la predicazione e le memorie di Pietro”: perché
tutto questo? …

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Capitolo 2
Le testimonianze

Gli scrittori del Nuovo testamento

Si può intravvedere, già in ambito neotestamentario tra gli autori


ispirati, qualche presa di distanza e qualche accenno di contrapposizione a
Marco. Non c'è da meravigliarsi! Il Vangelo di Matteo e la Lettera di
Giacomo, sulla questione della fede e delle opere, non si contrappongono
forse alle Lettere ai Galati e ai Romani? e Paolo non si trovò, per sua stessa
ammissione, a opporsi a Pietro (Gal.2,11)? anzi con chi non è venuto a parole
Paolo, fino a rotture anche clamorose, e non certo su questioni oziose?
Chi fu a contrapporsi a Marco?

- Non è certamente il caso di Giovanni, il quale sembra anzi scrivere il suo


Vangelo avendo come riferimento proprio Marco; con lui c’è profonda
sintonia, ne porta a frutto le intuizioni, anche se talvolta si distanzia o ne
corregge la prospettiva storica.
- Non è neppure il caso di Luca, che ha qualche motivo di gratitudine per
Marco, come avrò modo di dimostrare.
- È probabile invece che sia il caso di Matteo. Sono innumerevoli le volte
che Matteo prende le distanze da Marco. Mentre questi appare pienamente
emancipato dalla Legge, al contrario la Legge sembra costituire l’ambito
in cui si riconosce tuttora Matteo. Può scrivere, “Se uno scioglierà uno
solo di questi precetti anche minimi e insegnerà agli uomini a fare

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altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli” (Mt.5,19): nella
mente di Matteo, sarà Marco sfuggito alla categoria dei “minimi”? … Certe
aperture di Marco paiono osteggiate da Matteo: dove Marco ha “il sabato
fu fatto per l’uomo, e non l’uomo per il sabato” (Mc.2,27), Matteo non si
associa (Mt.12,8), e neppure Luca a dire il vero; se Marco ha “chi non è
contro di noi, è per noi” (Mc.9,40), Matteo ha invece questa parola “chi
non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde”
(Mt.12,30), parola che non è proprio dello stesso umore. Matteo tende a
far fluire nel tempo prepasquale la fede che fu solo dopo Pasqua, e così
può dare dei discepoli un’immagine più gradevole, a tratti quasi
oleografica; ma l’incomprensione fu la vera caratteristica di quel
momento, evidenziata a ogni passo da Marco, confermata da Giovanni, e
qua e là dallo stesso Matteo. Così egli dopo l’epifania sul lago può riferire
che “quelli sulla barca si prostrarono a lui dicendo: veramente tu sei il Figlio
di Dio” (Mt.14,33), bruciando d'anticipo la parola del centurione
(Mt.27,54); Marco al contrario scrive “provarono sgomento […] avevano
infatti il cuore indurito” (Mc.6,51s)! Sarebbe prematuro concludere che
l’impostazione vagamente trionfalistica di Matteo ha pagato, e che il suo
successo è la misura dell’insuccesso di Marco: prematuro ma non del tutto
infondato.
- C’è poi la grande incognita di Paolo: nelle Lettere ha mai fatto cenno al
Vangelo di Marco, soprattutto se si accetta la tesi di una composizione
precoce del primo Vangelo? E, sempre che si accetti l’identificazione
dell’evangelista con il Giovanni Marco degli Atti (cap.12.13.15), fin dove
proiettò la sua ombra l’improvviso distacco di Marco da Paolo (Atti
13,13), di cui non conosciamo con precisione il merito e che non fu una

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bazzecola se portò in fine alla rottura anche tra Barnaba e Paolo (Atti
15,37-39)? E che dire dell’attitudine di Paolo, da un lato a rivendicare di
aver “ricevuto dal Signore” e non da uomini tutto quello che occorreva alla
sua missione di apostolo (Gal.1,11-12), e dall’altro a ostentare
disinteresse in genere per quello che Gesù aveva fatto al di fuori della Cena
e della Passione, quasi che quest’ultimo fosse patrimonio irrinunciabile di
tutti e quell’altro accessorio superfluo in mano ad alcuni? Con intenzione
ho scritto “ostentare”: in realtà non penso che Paolo si disinteressasse delle
parole e dei gesti precedenti di Gesù, era piuttosto una reazione la sua; a
che cosa? era l’unico punto in cui non reggeva il confronto con i discepoli
storici: forse qualcuno gliel’aveva fatto pesare, o forse lui li vedeva
aggrappati al passato... Comunque sia: stante tale attitudine, quale poteva
essere la reazione di Paolo alla comparsa di uno scritto come il Vangelo di
Marco? mutò più tardi il suo atteggiamento? ci furono vere e proprie
divergenze su questioni fondamentali tra lui e Marco? … Interrogativi cui
vedremo se sia possibile dare una risposta.

I primi scrittori cristiani

Se ora lasciamo gli scrittori ispirati per venire ai primi scrittori


cristiani (i Padri apostolici) la cosa che colpisce è proprio il silenzio intorno a
Marco. Si citano a dovizia Matteo e Giovanni; le citazioni di Marco sono
rarissime, quasi introvabili. Chi allora ha sottratto Marco al silenzio, offrendo
la prima testimonianza sicura (e rivelando altresì i suoi umori), è stato Papia
vescovo di Gerapoli. Tra il 120 e il 130 egli scrisse cinque libri della

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“Spiegazione dei detti del Signore” andati perduti; Eusebio ne inserì alcuni
passaggi nella sua grande Storia Ecclesiastica. In uno di questi lo stesso Papia
racconta la sua preoccupazione e il suo metodo: non perdeva occasione,
quando gli occorreva di incontrare qualcuno che fosse stato “al seguito dei
presbiteri”, di interrogare “che cosa aveva detto Andrea o Pietro […] o Giovanni o
Matteo o qualcun altro dei discepoli del Signore; inoltre che cosa dicono Aristione e il
presbitero Giovanni, discepoli del Signore” (Hist.Eccl. III,39,4). Il testo è
interessante e problematico per più di un motivo:

1) La strana serie: Andrea prima di Pietro, Giovanni accanto a Matteo… Mai


nei libri ispirati gli elenchi dei Dodici vedono Pietro al secondo posto:
forse in quei luoghi era forte il ricordo e la venerazione per l’apostolo
Andrea? Mai Giovanni è accanto a Matteo: in tal modo Papia vuol forse
dirci che si tratta dei due evangelisti?
2) “Cosa aveva detto […] inoltre cosa dicono […]”: si può concludere dai
verbi al passato o al presente che i primi non sono più, quando Papia stende
i suoi appunti, mentre i secondi sono viventi? A ogni buon conto sembra
incontestabile che per Papia ci sono due omonimi come notava già
Eusebio, Giovanni l’apostolo e Giovanni il presbitero. In quale senso poi
Aristione e Giovanni sono “discepoli del Signore”? ci può realmente essere
qualcuno ancora vivo, all’inizio del II secolo, tra coloro che furono “al
seguito di Gesù”? infine cosa rende qualcuno “presbitero-anziano”, l’età
l’autorità il carisma? non anche l’essere stato al seguito dei Dodici se non
di Gesù, direttamente a contatto con la prima comunità? …

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Checché ne sia di questi problemi, per altro appassionanti, ecco il
testo che ci interessa da vicino: “Anche questo diceva il presbitero [Giovanni]:
Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse con cura ma non con ordine (táxei) quanto
si ricordò delle cose dette o fatte dal Signore. Egli infatti né udì il Signore, né fu al
seguito di lui bensì più tardi, come ho detto, di Pietro. Questi secondo le
necessità faceva le sue istruzioni, non quasi mirando a fare una coordinazione
(súntaxin) dei detti del Signore; cosicché Marco non incorse in alcun difetto
scrivendo talune cose come si ricordò. A un solo punto egli dedicò la sua
attenzione, a non tralasciare nulla di quelle cose che udì e a non mentire in
nulla in esse […] Matteo coordinò (sunétaxen) i detti nella lingua ebrei;
ciascuno poi interpretò gli stessi come era capace” (Hist. Eccl. III,39,15-16).
Gli studiosi ritengono per lo più che alla parlata diretta del presbitero
appartenga solo la prima frase, riprodotta in corsivo, (X.Leon-Dufour, Les
évangiles et l’histoire de Jésus, Ed.du Seuil, Paris 1963, pg.166), e considerano
il seguito un commento di Papia sulla base di informazioni in possesso suo o
dell’ambiente. Da questa iniziale constatazione discendono conseguenze
sorprendenti e mi pare non avvertite dagli studiosi:

- La prima osservazione è che il presbitero ha parlato di Marco, forse solo


di Marco, in ogni caso di Marco prima che d’altri: perché? Oggi che
sappiamo di nuovo essere Marco il primo e più antico dei Vangeli a noi
pervenuti, ci rendiamo conto che la chiesa ebbe tra mano per tanto tempo
una testimonianza formidabile, inutilizzata.
- Nelle brevi cose dette dal presbitero c’è la conferma del dato tradizionale:
il legame di Marco con l’apostolo Pietro, comunque si voglia intendere il

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termine “hermeneutés”. Papia nel suo commento mostra di avere familiare
quel legame.
- Ma Papia nei confronti di Marco è responsabile di sviluppi tutt’altro che
positivi. È stato lui e non il presbitero a suggerire il confronto tra il
mancato ordine di Marco e la coordinazione di Matteo (sunétaxen), anche
se interpretava forse umori diffusi.
- A proposito di ordine c’è da chiedersi se nella testimonianza del presbitero
l’accento non fosse sull’accuratezza di Marco piuttosto che sulla carenza
di ordine; invece non c’è dubbio che nel commento di Papia a tenere banco
è l’ordine che non c’è… A questo punto la domanda: di chi è il problema?
di Marco, del presbitero, oppure di Papia e del suo ambiente? Non
mancano parole di comprensione per l’impegno di Marco, però
nell’insieme il tentativo di addossare ogni responsabilità a Pietro e alle
necessità della predicazione finisce solo per attirare l’attenzione sulle
supposte carenze del redattore. E sull’esempio di Papia fino a oggi non
sono più mancate a Marco la pacca sulla spalla e la scarsa considerazione:
il colmo l’ha raggiunto Agostino che lo descrive come “il più divino (pacca!)
degli abbreviatori (la considerazione!)”.
- È proprio la difesa d’ufficio in cui si è imbarcato Papia a destare sospetto.
Perché evocare che Marco non ha nulla dimenticato, se non perché di
qualche lacuna era ritenuto responsabile? e perché evocare che non ha
mentito? se non erro di nessun altro degli evangelisti, almeno in antico, si
fa una simile difesa non richiesta.
- Soprattutto c’è la possibilità che Papia abbia grossolanamente equivocato:
oppone infatti il non-ordine di Marco alla co-ordinazione di Matteo. Ma la
coordinazione (súntaxis) che appassiona tanto Papia è esattamente il

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concetto che aveva in mente il presbitero? Non lo penso. Questi parlava
di táxis, cioè della successione dei fatti quale era presente alla coscienza dei
discepoli di Gesù e con la quale non sempre corrispondeva il racconto di
Marco, mentre Papia sembra pensare piuttosto alla composizione
ordinata, alla disposizione sapiente dei fatti che credeva di vedere in
Matteo e non in Marco. Detto brutalmente, egli è convinto che in Marco
le cose siano come giustapposte, senza la sapienza compositiva propria di
Matteo. Vedremo quanto erroneo e ingiusto sia stato questo giudizio di
Papia. In ogni caso nulla di simile nelle parole del presbitero; anzi se il
presbitero avesse dovuto esprimersi sull’ordine dei fatti in Matteo,
difficilmente non avrebbe ripetuto quanto detto prima di Marco. Tuttavia
l’esito è stato devastante, e ne ha fatta di strada!

Dopo Papia, l’apologeta Giustino (a.150 circa) qualifica il Vangelo di


Marco come le memorie di Pietro (Dial. con Trifone, 106); Ireneo (a.180 circa)
conferma il rapporto con Pietro e propone dei tempi: prima il Matteo
aramaico e, dopo la scomparsa di Pietro e Paolo, il Vangelo di Marco (Adv.
haer., III,1,1); Clemente Aless. (a.200 circa) ricorda “la tradizione degli
antichi presbiteri” circa la composizione dei Vangeli dicendo: che sono stati
scritti prima “i Vangeli con le genealogie” (cioè Matteo e Luca), e che il
Vangelo di Marco fu composto su richiesta di coloro che avevano ascoltato la
predicazione di Pietro e “Pietro risaputo ciò non volle esplicitamente né
impedire né incitare” (Hist.eccl. VI,14,5-7). Ciò fa parlare X.L.-Dufour di
inquietudine per i rischi che correva l’annuncio nel passaggio dalla parola viva
alla scrittura (ib.,48). Infine nel “frammento di Muratori” è conservata la lista
dei libri letti ufficialmente nella chiesa di Roma verso l’anno 180: vi sono

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elencati i nostri quattro Vangeli, manca solo il nome di Matteo perché il
documento non è integro.
Che dire di questa messe di notizie? Esce confermato il dato
tradizionale, però con generalizzazioni acritiche: 1) non un Vangelo, ma i
Vangeli con genealogia sarebbero anteriori a Marco (la priorità di Luca
rispetto a Marco è indimostrabile e cozza con quanto lo stesso Luca scrive nel
prologo, Lc.1,1-4); 2) è evidente la naturalezza con cui si identifica il Mt
aramaico con il Mt greco come se il Mt greco fosse una semplice traduzione
dell’aramaico; oggi nessuno sostiene più una simile tesi, il nostro Vangelo di
Matteo è opera di un redattore di notevole statura che ha integrato il Mt
aramaico in un’opera nuova e originale; 3) si dovrà chiarire se il Mt aramaico
fosse un vangelo vero e proprio, o non piuttosto una raccolta per quanto
ampia, che non aveva però le movenze di un Vangelo, cioè di un racconto
continuo con quell’inesorabile tensione di ogni parte verso la morte-
risurrezione del Signore.
Del resto a proposito di ciò che Luca scrive nel prologo circa i “molti”
che avrebbero “intrapreso a fare un’esposizione delle cose che si sono
compiute fra noi”, non si può certo dire che due o tre autori di Vangeli siano
“molti”: è probabile invece che egli si riferisca, oltre che ai Vangeli veri e
propri, ai molti documenti, alle raccolte come quella aramaica di Matteo, alle
narrazioni esistenti di cui la più antica sembra essere stata la narrazione della
Passione.

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In sintesi il panorama successivo

Nei secoli seguenti il Vangelo di Marco ha continuato a menare la sua


vita oscura: per vedere un primo commentario in latino si va al V-VI secolo,
uno pseudo Girolamo; e per vederne uno di tradizione greca bisogna salire al
IX-X secolo (GF. Ravasi, La Buona Novella, Mondadori Milano 1996, pg.31).
Nella Catena Aurea, san Tommaso propone tutta una serie di testi
patristici a commento dei quattro Vangeli; per quanto riguarda Marco, come
c’è da attendersi, la rassegna non è vasta: oltre allo pseudo-Girolamo c’è Beda
Teofilatto… Naturalmente cita anche i vari Ambrogio Agostino Crisostomo
come testimoni di una tradizione esegetica che però ha poco o nulla a che fare
con Marco.
La dichiarazione del Concilio di Trento sui Libri Sacri (D.783-84)
tocca ovviamente anche il Vangelo di Marco e la finale aggiunta di cui
abbiamo trattato sopra: essa è da considerarsi canonica come tutto il Libro e
dunque ispirata; nulla invece è definito circa la sua autenticità, se sia da
attribuire alla mano di Marco oppure no… E meno male!
Nel 1838 furono gli studiosi Weisse e Wilke, indipendentemente
l’uno dall’altro, a rivendicare la priorità di Marco rispetto agli altri Vangeli,
in ciò seguiti dal Bauer e via via da tutta la critica (cfr. G. Ricciotti, Vita di
Gesù Cristo, Poliglotta Vaticana Roma 1951, pg.217ss). In campo cattolico ha
fatto diga, resistendo finché ha potuto, la Pontificia Commissione Biblica
(D.2148-2156): si era in clima antimodernistico, ma questo è forse una
scusa?
Così R. Pesch nella sua prefazione: “Il Vangelo di Marco rimase
nell’ombra dei Vangeli maggiori (sic!) finché la ricerca esegetica nel secolo

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scorso non riscoprì che esso è il Vangelo più antico” (R. Pesch, Il Vangelo di
Marco, (trad.) Paideia Brescia 1980). E J. Gnilka: “Oggi il Vangelo di Marco
è forse lo scritto neotestamentario che produce più letteratura esegetica. La
cosa non può che essere gradita trattandosi del Vangelo meno considerato nel
corso dei secoli” (J. Gnilka, Marco, Cittadella Assisi 1987). A dispetto di
quanto scrive Gnilka però, nessuno ha tolto davvero Marco dal bozzolo
d’inconsiderazione in cui era chiuso, nessuno che ne abbia rivelato la potenza
dirompente e la geniale diversità.
Nei punti che seguono cercherò di rimuovere alcuni effetti del
pregiudizio a sfavore e a riportare fiducia sul nome cui è legato questo
Vangelo: si può dire con certezza chi è questo Marco?

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Capitolo 3
Chi è Marco, l’autore del primo Vangelo?

I Vangeli sono nati anonimi: non nel senso che ne fossero ignoti gli
autori o che si dovesse osservare il segreto, solo non figurava negli scritti il
loro nome. Non figurava, ma era conosciuto. La conoscenza nel caso di
Marco si riassumeva in quel “interprete di Pietro”; per Luca il riferimento
sarà Paolo; per il Vangelo di Matteo la cosa forse non è molto diversa. In una
società fraterna, come lo erano le primitive comunità cristiane dove tutto era
in comune, non poteva mancare la comunione della conoscenza; ne andava
della dignità dei fratelli. Che tenerezza queste finezze delle origini!
La tradizione primitiva ha mostrato di conoscere a chi doveva
ciascuno dei quattro Vangeli; anche se dobbiamo aggiungere che non si è
preoccupata di dotarsi di una documentazione storico-anagrafica, per cui oggi
siamo alle prese da un lato con grosse lacune e dall’altro con notizie di dubbia
storicità.
Almeno a partire dal II secolo gli autori dei Vangeli vengono indicati
in capo allo scritto mediante la preposizione greca “katá” con l’accusativo del
nome (katà Matthaîon, ecc…); ed è tale la forza con cui ciò si è imposto, che
scrittori latini come Cipriano o Codici antichi non traducono (katá
=secundum) ma preferiscono traslitterare (cfr. G. Ricciotti, op.cit., pg.121).
“La tradizione è unanime nell’attribuire il secondo Vangelo canonico
a san Marco e a riconoscere in esso le memorie di san Pietro; la critica
moderna non contesta gran che più questa attribuzione, benché si mostri
talvolta ancora reticente sulla parte dell’apostolo Pietro” (X. L.-Dufour,
op.cit., pg.166).

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La testimonianza degli Atti

Ora, è possibile dare un’identità precisa a Marco sulla base di


testimonianze certe? Gli studiosi si dividono di solito tra chi senza troppo
argomentare accetta l’identificazione con il Giovanni-Marco degli Atti, e chi
senza troppo argomentare la rifiuta.
Giovanni-Marco (il doppio nome ebreo-romano era comune) appare
la prima volta in Atti 12,12 e la casa di Maria sua madre sembra un cenacolo
(o il cenacolo?), dove si raccolgono i discepoli di Gesù. Qui probabilmente è
di casa, quand’è a Gerusalemme, “Giuseppe, quello che fu chiamato dagli apostoli
Barnaba, che significa figlio dell’esortazione” (Atti 4,36), un levita di Cipro,
cugino di Marco secondo Col.4,10 (notizia che Luca non fornisce però
sembra supporre). Qui approda in modo perfettamente naturale l’apostolo
Pietro appena liberato dalle catene di Erode (Atti 12,11ss). Marco si
accompagnerà in seguito a Barnaba e Paolo nel loro ritorno ad Antiochia
(12,25), gli stessi che precedentemente erano stati inviati con aiuti ai fratelli
di Gerusalemme (11,30). Poi è con Barnaba e Paolo nel loro primo viaggio
missionario in qualità di “huperétes-assistente” (13,5), ma una volta in Panfilia
si separa da loro per motivi che non sappiamo e fa ritorno a Gerusalemme
(13,13). Barnaba, dopo il Concilio di Gerusalemme, prende un’altra volta
con sé il cugino Marco nel ritorno ad Antiochia e lo vorrebbe nel secondo
viaggio missionario che si prepara: Paolo però è irremovibile, così che anche
Barnaba e Paolo finiscono per separarsi (15,37-39). Di conseguenza Barnaba
e Marco andranno a Cipro, mentre Paolo intraprenderà la nuova missione
con Sila.

21
Gli Atti non avranno più occasione di parlare di Giovanni-Marco
(l’ultima volta in Atti 15,39 Luca ce lo consegna con il nome con cui lo
ricorderà la storia, “tòn Márkon”), e neppure di Barnaba. C’è un’annotazione
da fare: proprio a partire dal secondo viaggio missionario iniziano negli Atti
le famose “sezioni-noi” (Atti 16,10ss…) dove Luca, l’autore degli Atti, sembra
attingere a un proprio diario di bordo, quasi che il posto lasciato vacante dal
nostro Marco sia stato preso da lui (come il posto di Barnaba da Sila) e la
definitiva forzata rinuncia dell’uno avesse aperto una via provvidenziale
all’altro. Ma non meno provvidenziale, vedremo, fu la via di Cipro per
Marco!

Marco, personaggio già noto quando Luca scrive.

Non è molto quello che Atti riferiscono di Marco, ma è sempre più


di quanto si dice altrove di Matteo o di Luca. Il guaio è che non si stanno ad
ascoltare i pochi cenni.
Qualcuno penserà: se questo Marco fosse l’autore del primo Vangelo,
perché Luca non lo direbbe chiaro e tondo fornendo altresì le circostanze di
tanto evento? Il fatto è che neppure di Paolo come autore di Lettere Luca ci
rilascia una dichiarazione tonda, anzi neanche un piccolo indizio, benché
l’apostolo avesse scritto più di una Lettera nell’arco di tempo raccontato dagli
Atti! Dunque non è lecito concludere alcunché dal silenzio di Luca. Una
conclusione in verità si potrebbe avanzare: Luca non riferisce ciò che era
arcinoto, di Marco come di Paolo, per raccontare invece particolari inediti
che potevano dare spessore a personaggi già per altro conosciuti.

22
Di qui sarebbe corretto partire per parlare di Marco: egli era persona
già nota, non fu Luca a cavarlo fuori dall’ombra citandolo negli Atti. Si veda
il testo di presentazione in Atti 12,12: Maria e il figlio Giovanni-Marco
appaiono persone conosciute. Con una differenza: Maria è nota al tempo dei
fatti (Pietro scampato alle carceri pensa subito alla casa di Maria e nella casa
di Maria sono riuniti in preghiera molti discepoli…), nel suo ambiente non
avrebbe bisogno di alcuna specificazione mentre non è nota a quelli per i quali
Luca scrive; al contrario Giovanni-Marco non è particolarmente noto al
tempo, lo è invece nel momento in cui Luca lo nomina, altrimenti a che pro
chiamarlo in causa per chiarire chi fosse questa Maria, “[…] Maria, la madre
di Giovanni toû epikalouménou Márkou”! A tale proposito va qui deplorata
l’enorme superficialità delle traduzioni. Non ci vuole alcuna genialità per
tradurre “toû epikalouménou Márkou” con “soprannominato Marco”,
espressione smorta e inadeguata all’originale! Dov’è finito nella traduzione
l’articolo? dove la peculiarità del participio presente greco? si doveva rendere
piuttosto con “colui che viene chiamato Marco”: si avrebbe così conferma di
quel che andiamo affermando, che cioè Marco era ben noto quando Luca
scriveva. Questa traduzione esce confermata solo che si confronti l’identica
presentazione di Pietro: “colui che viene chiamato Pietro” è espresso in
maniera inequivocabile, in greco, con il pronome e l’indicativo presente ma
anche con articolo e participio esattamente come nel caso di Marco (cfr. Atti
10, 5.18.32;11,13).
Ora, se Marco era noto, con che si era fatto conoscere? non certo per
le vicende ricordate negli Atti! Per quale ragione Luca insisterebbe a narrare
di questo Marco? forse per spiegare la separazione di Barnaba da Paolo? è così
importante in sé tale separazione? non sarà invece che la separazione sta lì a

23
dimostrare che cosa Marco significava, se Barnaba parteggia per lui al punto
da lasciare Paolo?
Perché Barnaba nella circostanza sceglierebbe Marco anziché Paolo?
Non per il vincolo di sangue: questo spiegherebbe l’interessamento di
Barnaba per Marco, non certo la rottura della societas con Paolo voluta e
consacrata dallo Spirito (cfr. Atti 13,2-3). Neppure per la nuova fratellanza
in Cristo, questa lo lega ugualmente a Marco come a Paolo. Dunque per quale
motivo? un motivo ideale, penso. Barnaba a un certo momento si trovò
idealmente più vicino a Marco che a Paolo: non che tanto sarebbe bastato a
separarlo dall’apostolo; è probabile che sia stato lo stesso Paolo a costringerlo
a una scelta, mostrandosi irremovibile (cfr. Atti 15,38). Qui Luca usa un
termine estremo, “paroxusmós- eccitazione, irritazione” per indicare la
tensione degli animi che portò alla rottura (15,39). Ma qual è l’oggetto del
contendere? se non è la persona di Marco, non saranno forse le ragioni di
Marco a convincere Barnaba? Egli da uomo prudente e pieno di saggezza
giudica che, quand’anche non siano migliori di quelle di Paolo, sono ragioni
comunque da prendere sul serio. Paolo non fu dello stesso avviso.
Riusciamo a precisare un po’. Il tema difficilmente è altro che la
proclamazione dell’evangelo. Nessuno ha dubbi sulla necessità di
evangelizzare, il dissidio può esserci sui modi di evangelizzare, e più in
profondità sui modi di fare chiesa… Marco aveva fatto parte nativamente della
comunità di Gerusalemme, e ci divenne grandicello. Benché non si abbiano
molti particolari, la cosa si può dire sicura. Oltre al testo che ci è ormai
familiare (Pietro che si dirige “verso la casa di Maria”), c’è un solo altro testo
che rimanda a Gerusalemme: allorché Marco lasciò Barnaba e Paolo in
Panfilia, gli Atti dicono “fece ritorno a Gerusalemme” (13,13).

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Era più breve e più facile tornare ad Antiochia da dove erano partiti,
ma lui ha un’altra meta: il suo cammino e il suo cuore dirigono su
Gerusalemme. Forse perché là c’era la sua casa e la madre? sì, soprattutto se
la casa e la madre per lui erano una cosa sola con la comunità. È per questo
esser figlio di tale comunità, che della tradizione di Gesù Marco conserverà
la forza e il colore primitivo. Solo a partire di qui si apprezza l’arcaicità di
Marco; il grande abbaglio della cristianità fu di non riconoscere la fornace che
vi brucia ancora. Le medesime tradizioni nei Vangeli successivi profumano
diversamente, altri luoghi altri tempi e altre passioni…
Orbene, Marco poté avvertire la distanza esistente tra la sua comunità
e le comunità che nascevano sotto la diretta autorità di Paolo, ricche certo
della stessa fede nel Cristo risorto e sovrabbondanti dei doni dello Spirito,
ma senza il ricordo vivo dell’umanità di Gesù che si respirava a Gerusalemme,
lontane da quell’incomparabile laboratorio in cui avevano ripreso vita e
pienezza di significato tutte le parole e i gesti del Signore, quando Paolo a
stento vedeva qualcosa a ritroso oltre la Passione… È lecito supporre che
Marco abbia rivelato a Paolo, e in particolare a Barnaba, il suo disagio e la
nostalgia per quella comunità?
È molto probabile che non si sia fatta abbastanza attenzione alla figura
di Barnaba, oltre ad aver trascurato quella di Marco. Se infatti questo Marco
è l’autore del Vangelo, come penso, non si sarebbe dovuto immaginare, sulla
scorta di ciò che scrivono gli Atti, la possibilità di un ruolo attivo del “figlio
dell’esortazione” (Barnaba) nella nascita del primo Vangelo? Si può dubitare
che Marco abbia fatto parte a questo meraviglioso cristiano del suo proposito
di arricchire tutte le comunità della stessa ricchezza presente in quella di
Gerusalemme? Supponiamo che il motivo del distacco di Marco fosse stata

25
l’importanza che egli attribuiva a tutto ciò, allora diventerebbe chiaro da
quale parte si schierò Barnaba, non a difesa di un parente ma di un’idea, una
bellissima idea missionaria che non avrebbe più avuto eguali!
Qualcuno ha annotato che il capolavoro di Barnaba fu il recupero di
Paolo alla proclamazione (Atti 11,25ss), dopo l’allontanamento dello stesso
da Gerusalemme (9,30): e se Barnaba avesse avuto una parte decisiva anche
a fianco di Marco nello stimolarlo a riunire le sparse membra della tradizione
di Gesù, non sarebbe questo un altro capolavoro?

Esiste una prova che il Marco degli Atti è l’autore del Vangelo?

Quello che ho evidenziato è affascinante: manca però ancora la prova


che il Marco degli Atti è l’autore del primo Vangelo!
Forse non è una fatica disperata, sempre che non si trascuri né si sciupi
quel poco che è dato, se pur indirettamente e velatamente. Ho ricordato
sopra che Luca inizia a raccontare di Marco in Atti 12 nel contesto della
liberazione di Pietro da un pericolo gravissimo. A quel tempo, siamo nei
primi anni quaranta, Marco non è più un fanciullo ma un giovane.
Ebbene, come notano alcuni commentatori, non è improbabile che
sia stato proprio Marco a fornire a Luca, anni dopo, il racconto dell’episodio
di cui era stato testimone a Gerusalemme. Non solo, essi trovano che nel
racconto ci sono evidenti tratti caratteristici dello stile dell'autore del primo
Vangelo (il modo vivido di narrare, l’attenzione ai piccoli particolari…). In
effetti è così. Pietro bussa “alla porta del portone d’ingresso” (Atti 12,13): si
tratta di un particolare insignificante e nessuno meglio di Marco poteva

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conoscerlo! Quando poi Rode (si noti, la ragazza chiamata col suo nome)
riferisce ai convenuti che c’è Pietro alla porta, qualcuno incredulo le dice:
“maíne-sei matta” (Atti 12,15) … Sono solo alcuni esempi. Aggiungo tuttavia
che accanto alle somiglianze ci sono significative dissomiglianze di stile
(scarso ricorso alla coordinazione “kaí-e”, assenza dei presenti storici tipici di
Marco…). Se però l’ipotesi sta in piedi, perché non cercare più a fondo? L'ho
fatto e ho scoperto quello che gli stessi commentatori avrebbero scoperto se
non si fossero fermati, accontentandosi della prima impressione.

1) Alcune espressioni presenti in quel racconto sono esclusive del Vangelo di


Marco e del cap.12 degli Atti. Sono ben tre gli hápax (si è soliti indicare
così qualcosa che è detto una sola volta - hapaxlegómenon): “automáte-da sé,
spontaneamente” in Mc.4,28 e Atti 12,10; “sandália-sandali” in Mc.6,9 e
Atti 12,8; anzi l’intera espressione “hupodéomai sandália-calzo i sandali” è
esclusiva dei due testi. Questi contatti non sono semplici curiosità, sono
spie e possono suggerire legami e risonanze insospettate. Ad esempio il
particolare dell’angelo che dice a Pietro “calza i tuoi sandali” (Atti 12,8),
se letto alla luce di Marco, può alludere a un lungo cammino. Infatti
Marco, nel riferire il discorso di missione, mostra un Gesù che concede ai
discepoli di portare bastone da viaggio e sandali (Mc.6,9) perché,
concordano i commentatori, Marco vede la missione già in prospettiva
universale, un lungo faticoso cammino “per tutto il mondo” (14,9). Così
quando poi Luca scrive laconicamente che Pietro “uscito se ne andò in altro
luogo” (Atti 12,17), noi siamo autorizzati a intendere che non si trattava
solo di mettersi in salvo da Erode lasciando la città, ma di recarsi altrove
anche molto lontano a proclamare... Qui si direbbe che Luca rivela di avere

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sottocchio non solo il racconto della liberazione di Pietro fattogli da Marco
bensì il primo Vangelo!
2) Di più, Luca sembrerebbe aver di mira una pericope in particolare del
Vangelo di Marco, di cui non disdegna le analogie: la carcerazione del
Battista da parte di Erode (Antipa) in Mc.6,17-29 deve essergli apparsa un
ottimo parallelo per il racconto della carcerazione di Pietro da parte di
Erode Agrippa I (cfr. Atti 12,3ss). Due re (il primo era tetrarca, però nel
racconto di Marco è detto “basileús - re”) omonimi e omologhi nella
malvagità; due figure venerande perseguitate a morte (il Battista e Pietro);
due coppie di donne che incarnano le une il male (Erodiade e la figlia) le
altre il bene (Maria e Rode); due gruppi di convenuti, i convitati di Erode
e i radunati in preghiera; due storie con esiti mortali rovesciati, da un lato
la morte violenta del Battista e dall’altro la morte ignominiosa del re
Agrippa. All’interno dei racconti poi numerosi contatti letterari. Ne
segnalo uno sulla comune radice del verbo “arésko-piaccio”: a Erode e ai
commensali “piacque” (Mc.6,22) la giovane figlia di Erodiade nella danza,
come re Agrippa era convinto che “piaceva” (Atti 12,3) al popolo
l’uccisione di Pietro dopo quella di Giacomo…
3) Ma il vero spettacolo è vedere Luca che si mette a comporre alla maniera
di Marco. Parlo della costruzione “a tenaglia” che è comunissima nel
Vangelo di Marco ma non lo è in Luca. Infatti l’episodio della carcerazione
e liberazione di Pietro è preso dentro tra la missione caritativa di Barnaba
e Paolo a Gerusalemme e il loro ritorno ad Antiochia (cfr.Atti 11,27 e
12,25: è probabile che Luca abbia forzato anche un po’ gli avvenimenti!),
allo stesso modo che nel Vangelo di Marco la pericope del Battista è presa
dentro tra la missione dei Dodici e il loro ritorno da Gesù (Mc.6,7-30)…

28
Ora si sa che Luca è in grado di imitare alla perfezione il greco della LXX
e certe sue costruzioni, ma perché qui dovrebbe imitare Marco? Questo
mi fa pensare fortemente che Luca con tale e tanto ammiccamento a Marco
intendesse offrirci un’indicazione precisa, leggibile da tutti. Se poi non è
stata letta, non è colpa di Luca. Forse era proprio un omaggio a Marco,
quello che voleva fare Luca, il suo tributo di stima e gratitudine all’amico
carissimo.

Quanto appena descritto è tanto impressionante che difficilmente,


ritengo, può essere spiegato senza riconoscere che il Marco degli Atti è in
realtà l’autore del primo Vangelo.
A questo punto confesso d’essere percorso ancora da vari
interrogativi: tutta questa attività di Luca non si concilia meglio con un Luca
ai primi cimenti, piuttosto che con il Luca maturo del Vangelo? e come si
accorda questo con il fatto che gli Atti sono posteriori al Vangelo (cfr. Atti
1,1-2)? Inoltre perché Luca nel suo Vangelo salterebbe a pie’ pari la pericope
del Battista (cfr. Lc.9,7-9)? forse perché aveva in mente di fare in Atti
qualcosa di simile ma più edificante, più consolante? non piuttosto perché
l’aveva già fatto? Avanzo perciò un’ipotesi: la prima idea di Luca non è stata
il Vangelo ma il libro degli Atti, gli è venuta quand'ancora non pensava di
scrivere un vangelo ma mentre leggeva il Vangelo di Marco: nel primo
progetto gli Atti avrebbero dovuto essere il complemento del Vangelo di
Marco non del proprio! Non sostengo che gli Atti furono scritti prima del
Vangelo lucano, solo che sono stati concepiti prima; e alcune cose sono nate
di fatto prima, come il racconto di Atti 12, o come il “diario di bordo” che

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tenne viaggiando al seguito di Paolo… Tanto contagiosa era stata la comparsa
del primo Vangelo!
È un tema che evidentemente non è mio compito approfondire qui,
mi è sembrato però doveroso segnalarlo.

La testimonianza delle Lettere

Siamo stati abituati nei nostri studi a cercare Paolo e la sua teologia
nei Vangeli. Se Marco ha composto nella prima metà degli anni 50, come
penso, bisognerà che incominciamo a cercare Marco nelle Lettere di Paolo!
Lo faccio incoraggiato dall’esito della ricerca in Atti.
Le Lettere parlano di Marco, a partire dagli anni 59-60. Vi è nominato
4 volte (Flm.24; Col.4,10; 2Tim.4,11; 1Pt.5,13), che aggiunte alle 6 volte
di Atti farebbero di Marco una delle persone più nominate di tutto il NT.
Ma, oltre al fatto che non vi si fa nessun cenno al Vangelo, la testimonianza
risulta indebolita da alcune circostanze: 1- Tranne che nella Lettera ai
Colossesi dove è detto “cugino di Barnaba”, non c’è certezza che si tratti della
stessa persona; è probabile che lo sia, in particolare per quanto riguarda la
prima Lettera di Pietro, dati i rapporti strettissimi del nostro Marco con
l’Apostolo. Detto ciò, in assenza di argomenti contrari mi attengo al principio
secondo cui gli scritti del NT non conoscono che un unico e identico Marco.
2 - L’attribuzione di queste Lettere secondo molti studiosi è dubbia, tranne
quella a Filemone sicuramente paolina; e tale incertezza finisce per riflettersi
su persone e situazioni che vi sono evocate. Va ammesso tuttavia che sono
quantomeno scritte a nome di Paolo (o Pietro) da qualcuno della sua cerchia,

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altrimenti si dovrebbe dire che contengono dei falsi. 3- Non vi è detto molto
per la conoscenza di Marco: solo che ha fatto il pendolo tra Pietro e Paolo, a
Roma e in Asia minore, rendendosi prezioso nel ministero, senza mai acquisire
una posizione di primo piano.
La ricerca di Marco nelle Lettere è ovvio che vada oltre questi casi. Si
appunta su un testo in particolare; prenderò però le mosse da due domande
pressanti che nascono qui.
La prima: Qualcosa deve essere successo tra il rifiuto di Paolo a
portare Marco con sé nel secondo viaggio missionario e la volontà di averlo
invece vicino poi nella prigionia e nel ministero. Cosa è stato? che cosa ha
potuto mutare l’atteggiamento di Paolo?
La seconda: Poteva Paolo (o Pietro) non far cenno al Vangelo quando
inviava i saluti di Marco? Rispondiamo che sì, se non ne fosse questo Marco
l’autore, oppure se il Vangelo non fosse ancora stato scritto… Ma
supponendo che l’avesse composto proprio questo Marco nei primi anni 50
(quando si recò a Cipro insieme a Barnaba, ad esempio, per citare un
soggiorno che conosciamo), sarebbe verosimile il silenzio? Il silenzio delle
Lettere, sì, qualora non fosse più una notizia! a voce chissà quante volte ne
avranno parlato ai fratelli? E quanto alle Lettere, può non essere stato fatto
espressamente, come non l’ha fatto espressamente Luca negli Atti, ma in
modo celato? …
C’è infatti un testo sicuramente paolino che potrebbe dare una
risposta esaustiva a tutte e due le domande, spiegare cioè il riavvicinamento
tra Paolo e Marco e costituire la più antica testimonianza per la storia dei
Vangeli. Si tratta della 2 ai Corinzi, Lettera composita, essendo costituita da
più missive di Paolo datate degli anni 57-58; più precisamente il nostro testo

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fa parte del primo di due “biglietti” relativi alla grande colletta per le chiese
della Palestina. Dice: “[…] Insieme con lui (Tito) inviammo il fratello la cui lode
nell’evangelo (è) per tutte le chiese; non solo ma egli è stato designato dalle chiese con
l’imposizione delle mani come nostro compagno in quest’opera di carità […]
Inviammo inoltre con loro il nostro fratello di cui abbiamo spesso
sperimentato lo zelo in molte circostanze…” (2Cor.8,18-19.22).
Il contesto. Paolo presenta la colletta, che per lui non è solo una
raccolta di masserizie e di denaro, essa è piuttosto una grazia (v.4). “Charis-
grazia” è termine che ricorre nel biglietto ben 7 volte. È una grazia per chi ne
godrà i benefici, lo è ancor più per chi mette a disposizione i suoi beni. In Atti
20,25 Paolo ricorda una parola del Signore dimenticata persino dai Vangeli
che dice:” C’è beatitudine più nel dare che nel ricevere”. Di questa grazia
Paolo è il ministro (v.19-20); nel momento della raccolta sarà però Tito a
rappresentarlo (v.6.17), del quale quelli di Corinto conoscono bene la
sollecitudine. Non sarà solo, in questo servizio gli sono affiancati due “fratelli”
che fungono da garanti, preoccupandosi Paolo d’esser trovato senza biasimo
“non solo davanti a Dio ma anche davanti agli uomini” (v.21). Non fa i nomi
di questi fratelli: esiste un qualche motivo? L’unico motivo che vedo è che
non ce n’era bisogno, né dal punto di vista di Paolo né da quello dei
destinatari: i due dovevano essere già noti, e quando giunge il biglietto essi si
trovano là, probabilmente ne sono loro stessi i latori. Dal nostro punto di
vista è diverso, un piccolo nome ci avrebbe tolti dal grande imbarazzo delle
ipotesi.
Ora la nostra attenzione si appunta sul primo dei fratelli anonimi
(testo in corsivo).

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1) Mentre del primo si dice “il fratello”, del secondo si dice “il nostro fratello”:
questo fa supporre che il primo a quel tempo non appartenesse alla cerchia
di Paolo a differenza del secondo. Inoltre l’elogio che segue, straordinario,
non è di Paolo; egli riconosce solo che “la sua lode è per tutte le chiese” e
se ne fa portavoce anche al fine di dar lustro alla sua delegazione (a tale
scopo infatti serve più l’elogio che il nome); nel presentare l’altro fratello
invece Paolo dirà cose sue, lui stesso avendone potuto sperimentare più
volte lo zelo. Infine, come c’era da aspettarsi, non è stato Paolo a scegliere
il primo dei due, sono state “le chiese” a designarlo con l’imposizione delle
mani: quali chiese? probabilmente non escluse le chiese da beneficare, per
una sorta di controllo sollecitato dallo stesso Paolo che voleva garantirsi
da critiche ognora in agguato. Due sono i compiti del primo dei due
fratelli: seguire la raccolta insieme agli altri della delegazione (forse
portando anche di suo la testimonianza aggiornata sulla situazione delle
comunità di Palestina), ed essere in seguito compagno di Paolo a
Gerusalemme per consegnare quella “grazia” a coloro che erano in attesa.
Luca ricorda negli Atti questo viaggio di Paolo a Gerusalemme e anche la
sua particolare finalità caritativa (Atti 24,17): a rigore doveva esserci, quel
fratello, ma non è nominato.
2) La lode. Non conosco elogio più vasto (un parallelo in Sal.21,26 LXX;
47,11). Della lode nella Bibbia il destinatario primo è Dio (cfr. Fil.1,11;
Salmi 146-150). Vera è anche la lode dell’uomo quando a farla è Dio stesso
(Rom.2,29; 1Cor.4,5). Nel nostro caso a uno sguardo distratto potrebbe
sembrare che Dio non è all'origine, non ha parte a questa “lode
nell'evangelo”; ma, condivisa com’è da “tutte le chiese”, non indotta per
imitazione bensì fiorita spontaneamente in ogni luogo, non può essere che

33
da Dio, un frutto dello Spirito (cfr. Ef.5,9). Ed è forse da questo punto di
vista che Paolo può accettarla e farla propria. Se si tratta di ciò che
pensiamo, Paolo ha cominciato a cambiare profondamente.
3) Quanto sia straordinario questo elogio si comprende solo se si pon mente
a chi è rivolto. Si trattasse di uno dei Dodici, non avremmo di che
meravigliarci. Degli altri nessuno, se non Paolo soltanto, avrebbe potuto
esser detto in tanto onore presso tutte le chiese senza stupirci. Ma qui è
affatto impossibile che si tratti di un Apostolo: come potrebbe Paolo
inviarlo, e per di più in subordine a Tito? … Proprio questo non finisce di
sorprendere: non è una figura di primo piano, eppure di lui si fa lode come
per nessun altro, soprattutto in ragione dell’unanime consenso. E, per
vanificarne la straordinarietà, non si dica che è un’iperbole. Resterebbe da
spiegare perché è stata usata, e la più vasta possibile!
4) Chi è infine questo fratello? Dico: Marco! A me sembra che, tra le persone
d’epoca neotestamentaria di cui ci è pervenuta notizia, nessuno
corrisponda alle caratteristiche del fratello in questione come il Marco
degli Atti e delle Lettere. Non era della cerchia di Paolo, e per quanto
riguarda Marco ne sappiamo anche la ragione. Era legato alle chiese della
Palestina, in special modo a quella di Gerusalemme, e chi più di Marco!
Non figurava tra i primi, pur essendo accreditato di tanta lode “a motivo
dell’evangelo”: sembra giusto l’istantanea dell’autore del nostro primo
Vangelo!

Si dirà che Paolo non pensava a un libro scrivendo “en tô euaggelío-


nell’evangelo”. Infatti, né le Lettere né i Vangeli usano mai euaggélion con tale
accezione. Lo stesso Marco quando scriveva “Archè toû euaggelíou…” (Mc.1,1)

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non pensava affatto a un libro, egli pensava molto più alto, al lieto annuncio
che è Gesù. A questo punto potrebbe diventare interessante l’ipotesi che
Paolo scrivendo en tô euaggelío abbia voluto di proposito il contatto letterario,
allusione e ammiccamento al titolo del Vangelo di Marco, “Principio
dell'evangelo[...]”, ricalcando una parola massimamente cara a ambedue.
Addirittura, se c’è metonimia, “la lode” sarebbe lo scritto stesso che circolava
ed era letto per tutte le chiese!
Perché dovrebbe essere proprio un evangelista? … Non sono io solo a
pensarlo. Il commento della Bibbia di Gerusalemme a questo testo
(2Cor.8,18) ha: “forse Luca”. La direzione è quella giusta e mi trova
d’accordo: un evangelista! dissento invece dall’identificazione. Luca a quel
momento non poteva aver composto il Vangelo: non aveva avuto né il tempo
né le conoscenze né la maturità per farlo. Abbiamo pensato a un evangelista,
ritenendo che nessun predicatore itinerante avrebbe potuto tanto facilmente
raggiungere “tutte le chiese”, e ancor meno ottenere tanto unanime
consenso… Quella lode straordinaria era invece la risposta a qualcosa di
nuovo e di diverso da tutto ciò che le chiese avevano fino allora conosciuto:
uno scritto, cui aveva posto mano e cielo e terra, contenente per esteso la
memoria di Gesù, la riproduzione fedele dell’impronta lasciata dal Maestro
su quel gruppo umano a cui aveva potuto aprire il suo cuore. Le chiese si
resero conto di avere tra mano un dono incomparabile per l’annuncio la
liturgia la catechesi la vita, dono che se non sostituiva la parola era però
sempre disponibile, anche quando la parola del testimone o del profeta fosse
mancata. Marco poteva essere arrivato dovunque, se non di persona, con il
suo scritto!

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2Cor.8,18 rappresenterebbe insomma il tassello che mancava: e la più arcaica
testimonianza a favore del primo Vangelo di cui cercavamo traccia, e la
spiegazione del riavvicinamento di Paolo a Marco. Non è stato Paolo a
cercarlo, è evidente, sono le chiese che gliel’hanno gettato di nuovo tra i
piedi: la cosa pare non sia riuscita sgradita ad alcuno degli interessati.

Il quadro riassuntivo della vita di Marco.

Per un quadro completo della vita di Marco può essere utile, essendo i dati
limitatissimi, procedere per decenni.

- Gli anni 20 non recano notizie di Marco, ma è in questo decennio che


dev’essere nato perché ci sia accordo verosimile con le notizie che più tardi
lo riguardano. I suoi occhi, occhi di fanciullo, possono aver incontrato
Gesù, la mano benedetta aver riposato sul suo capo (cfr.Mc.10,13).
Ricordiamo che la data più probabile della crocifissione è la Pasqua
dell’anno 30, avendo Gesù sui 36-37 anni.
- Gli anni 30 sono parimenti senza notizie dirette; alcuni fatti però si
potrebbero dare per sicuri. In questo decennio Marco è nato alla fede nel
Risorto e ha fatto parte della prima comunità di Gerusalemme,
succhiandone le delizie e dividendone l’amarezza nella morte tragica del
protomartire Stefano (Atti 6-7).
- Tornando un poco indietro, possiamo escludere che Marco sia stato il
protagonista del singolare episodio riferito solo dal primo Vangelo, la
scena è quella dell’arresto di Gesù nel Getzemani: “L’aveva seguito anche

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un giovinetto coperto da un lenzuolo sul corpo nudo e lo afferrano; ma lui
abbandonato il lenzuolo fuggì via nudo” (Mc.14,51-52). Un giovinetto (in
greco neaniskos, termine usato ancora soltanto per l’angelo che annuncia il
Risorto!) non ha meno di 12 anni, e per essere coerente devo dire che non
si tratta di Marco. Per qualcuno addirittura l’episodio non dovrebbe
neppure trovarsi in un Vangelo (Bundy). Altri autori però attribuiscono
all’episodio un valore simbolico, sarebbe un presagio enigmatico della sorte
di Gesù (A.Vanhoye, De Narrationibus Passionis Ch. in Ev. Sinopt., PIB
Romae 1970 pg.49s). Sono di questa opinione. Ma che l’episodio sia stato
inventato di sana pianta per introdurre un significato simbolico, non è da
Marco. A mio avviso lo narra sia perché è un fatto reale, sia perché vi ha
visto un presagio di morte-risurrezione. Ora, ammesso che è reale, quel
giovinetto non poteva che essere di Gerusalemme, come Marco; gli
doveva essere familiare il luogo, e familiare in qualche modo gli doveva
essere Gesù, altrimenti si sarebbe trovato a far marachelle altrove. Inoltre
quel lenzuolo, in greco sindóna, termine usato solo qui e nella sepoltura di
Gesù (!) è un lenzuolo di pregio (linteus elegantior, Zorell) e chi lo portava
doveva appartenere a famiglia agiata, della stessa estrazione di Marco.
Potrebbe dunque essere una testimonianza di prima mano, e non sarebbe
più tanto singolare che il solo Marco conosca l’episodio, sfuggito o
dimenticato persino dai discepoli là presenti. Del resto non è l’unica
notizia esclusiva che Marco mostra di conoscere nell’ambito della
Passione: di Simone di Cirene ad esempio, costretto dai soldati a portare la
croce di Gesù, lui solo ricorda che era padre di Alessandro e di Rufo (15,21).
Come lui solo ricorda che la pietra sulla bocca del sepolcro “era molto
grande” (16,4): forse tale era parsa ai suoi occhi di fanciullo!

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- Gli anni 40 sono per merito degli Atti i più ricchi d’informazioni intorno
a Marco. Quando Pietro viene liberato, Marco può essere sopra ai
vent’anni. Accompagna Barnaba e Paolo ad Antiochia; segue di lì a qualche
tempo (Luca non è molto preciso, ma possono essere trascorsi 4-5 anni)
la sua prima esperienza missionaria, interrotta anzitempo per far ritorno a
Gerusalemme. Sul finire del decennio si tenne nella città santa il primo
Concilio: vi salirono da Antiochia anche Paolo e Barnaba, “accolti dalla
chiesa dagli Apostoli e dai presbiteri” (Atti 15,4); di quella chiesa Marco
era divenuto ormai parte attiva.
- Sul far degli anni 50 ci sono notizie relative alla seconda venuta di Marco
ad Antiochia in compagnia di Barnaba, al rifiuto di Paolo a prenderlo con
sé nel II viaggio missionario, e alla conseguente partenza per Cipro insieme
a Barnaba. Sul finire degli anni 50 ho dato come probabile la sua
partecipazione alla grande colletta (2Cor.8,18-19); nel mezzo spicca
un’ampia parentesi di silenzio intorno a Marco: che cosa fece in quell’arco
di tempo che seguì alla partenza per Cipro? È in questi anni che io
collocherei la composizione del primo Vangelo, e Marco poteva superare
di poco i 30 anni.
- Gli anni 60. Sono di questo periodo le notizie provenienti dalle Lettere.
Marco vi appare impegnato a Roma a fianco di Pietro o di Paolo, ma anche
altrove in Asia minore. Di solito è questo il tempo indicato dagli autori
per la composizione del Vangelo. Io lo ritengo tardivo. A mio modesto
avviso tra il primo e gli altri Vangeli il lasso di tempo dovette essere
maggiore, troppo diverso il clima! La datazione da me proposta è più
realistica. Dopo le notizie delle Lettere cala il silenzio su Marco. Ricordo
che una tradizione testimoniata da Ippolito di Roma lo dava per

38
“kolobodáktulos-dalle dita brevi o monche”, notizia che l’antico Prologo latino
al Vangelo di Marco conferma, e proprio per la sua singolarità può essere
vera. Della cosa è convinto il Ricciotti (op.cit., pg.137), che fa notare
anche la corrispondenza geografica col ministero romano di Marco. Un’altra
tradizione (Eusebio) lo vuole fondatore e primo vescovo della chiesa di
Alessandria, la celeberrima città della cultura, tradizione peraltro poco
verosimile per più di una ragione. Continuo a ritenerlo persona che
nonostante i meriti e la lode non acquisì mai una posizione di primo piano
nella chiesa. Chi può dire che non sia un altro dei suoi meriti? …
* * *
Il nostro Marco non ha goduto della fama che meritava non solo nella
chiesa bensì anche nella storia del pensiero umano. Resto convinto che egli
fu grandissimo e, correggendo Agostino, che è primo e divino tra gli scrittori
(non tra gli abbreviatori) del NT! In aggiunta si può affermare che Marco sia
stato per il genere dei Vangeli quello che Eschilo fu per la tragedia greca, cioè
il padre. Né è da escludere che, cresciuto in una famiglia agiata di
Gerusalemme, con buona conoscenza del greco, e con parenti come Barnaba
nella diaspora a contatto con la cultura classica, egli non fosse del tutto
digiuno di quella letteratura. Allora è anche possibile che qualcuno dei
capolavori del grande tragico (metti il dramma del Prometeo incatenato, dio
sofferente e dalla parte degli uomini), come anche l’uso del coro nella tragedia
greca, gli sia rimasto impigliato nei ricordi della mente per sempre.

39
Parte seconda
Struttura del Vangelo di Marco e piano teologico.

Capitolo 1
Le sette settimane: elemento strutturale del primo Vangelo.

Uno dei luoghi comuni più battuti, da Papia ai tempi recenti, è che il
primo Vangelo non presenterebbe un ordinamento apprezzabile, tale da
reggere il confronto con i Vangeli “maggiori”. Eppure Marco non aveva
affastellato. Al contrario aveva dato alla sua opera una struttura complessa e
sapiente: sette grandi unità, che chiameremo sezioni, delimitate in modo
intenzionale e riconoscibile, a formare un disegno che oggi ci appare talmente
elaborato in tutte le sue articolazioni da far impallidire i Vangeli di Luca e
Giovanni. Così il pregiudizio contro Marco risulta ancora più ingiusto e
sospetto.
Qual è dunque, più precisamente, la struttura del Vangelo di Marco?
Se si esamina in qual modo l'evangelista ordina la sua materia, ci si avvede che
non su un vago gusto per il numero sacro sette, bensì sulla settimana risulta
strutturato il primo Vangelo, ciò probabilmente in continuità con il libro
della Genesi e il primo racconto della creazione (Gen.1,1-2,4a), avvisaglia di
un intreccio con le origini che segnerà l’intero Vangelo. Le sette sezioni
avranno a che fare con le sette settimane, ma la corrispondenza non è così
semplice come si sarebbe indotti a credere. Si prenda la settimana per
eccellenza, cioè la settimana di Pasqua, a cui tende ogni più piccola fibra del

40
Vangelo. Data l'importanza essa comprende non una ma due sezioni e si
sviluppa così chiaramente che si può distinguere il succedersi di ogni giorno
fino al sabato, cosa che non è di nessun’altra delle settimane: l’una sezione
descrive il breve ministero di Gesù a Gerusalemme principalmente nel
tempio (Mc.11,1-13,37); l’altra, l’ultima sezione (14,1-15,47), contiene la
narrazione della Passione cui segue l’annuncio di Risurrezione passato il sabato
(16,1-8); in quest’ultimo tratto siamo già a un nuovo giorno, il
cinquantesimo dall’esordio di Gesù in Galilea (1,14).
Ci sono indizi che mandano realmente in direzione delle settimane,
oppure quello della settimana di Pasqua è un caso a parte? Devo riconoscere
che il termine “settimana” non viene mai usato da Marco. Tuttavia, tolta la
sezione introduttiva (Mc.1,1-13) che merita un discorso a sé e appartiene ai
giorni del Battezzatore, le prime due sezioni che compongono il corpo del
Vangelo (1,14-3,6; 3,7-6,6a) parlano del sabato e terminano ambedue di
sabato (cfr.3,2; 6,2). Ora, se pensiamo che il sabato sta per essere
abbondantemente superato come osservanza religiosa, perché rimane questa
sottolineatura? non forse perché il sabato è il settimo giorno, vertice della
settimana e riposo di Dio? e non sarà che l’indicazione si estende alle
rimanenti sezioni del corpo del Vangelo, alla luce del fatto che il Vangelo di
Marco è un racconto continuo? Credo si debba prendere atto che l’interesse
dell’autore per la settimana è reale. Ne avremo presto conferma.
Si può addurre una difficoltà a questa tesi. Nella prima delle due
sezioni formanti il corpo del Vangelo vien fatto riferimento tre volte al sabato
(Mc.1,21;2,23;3,2): mentre il primo e il terzo fanno cadenza, quello di
mezzo mette a disagio la teoria; ma si può osservare che nel caso il
riferimento al sabato non interessa se non quale occasione d’insegnamento.

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Rispondo anche in quest’altro modo: il discorso delle settimane è ideale,
sappiamo infatti che l’attività di Gesù non poté abbracciare poche settimane,
come conferma il IV Vangelo. Marco lo sa bene e se ricorre alle settimane lo
fa sapendo di dar mano a un artificio letterario, allo stesso modo che era stato
un artificio letterario (oltreché potente motivo teologico) la settimana della
creazione. Così possiamo sfatare un altro luogo comune: Marco non ha
abbreviato per errore o leggerezza i giorni di Gesù, li ha soltanto
rappresentati letterariamente (è troppo dire poeticamente,
drammaticamente?) in una concentrazione straordinaria. Il suo disegno non
era di offrirne l’esatta durata bensì l’esatta interpretazione. Se abbreviazione
c’è stata, bisognerà chiederne conto a Matteo e Luca, i quali non si sono resi
conto che il disegno di Marco non era storia bensì rappresentazione della
storia.
Detto delle due prime sezioni che espressamente trattano del sabato,
e corrispondono ciascuna a una settimana (settimane prima e seconda),
rimangono la III e IV sezione del corpo del Vangelo: come le gestisce Marco,
tenendo conto che dovrebbero secondo questa tesi coprire quattro
settimane? Semplice, ognuna di quelle sezioni è doppia e abbraccia due
settimane. Che la III sezione (6,6b-8,26) sia doppia appare evidente, se si
considera che è costruita intorno al doppio miracolo dei pani. Né Marco la
lascia priva di allusione alla settimana; non lo fa questa volta nominando
direttamente il sabato ma evocando il riposo (“Venite in disparte in luogo
deserto, e riposate [anapaúsasthe] un poco” Mc.6,31). Così Gesù lontano dalla
sinagoga e dall’ufficialità celebra il riposo, a beneficio dei discepoli di ritorno
dalle opere della missione, come Dio “riposò il settimo giorno da tutte le
opere che aveva fatto” (Gen.2,2), con un banchetto ricco di parola e pane

42
(Mc.6,34ss). E sembra del tutto logico situare al sabato successivo il secondo
miracolo dei pani, caratterizzato dalla presenza dei lontani (8,3), partecipi a
loro volta degli stessi beni del popolo eletto, ivi compreso il riposo di Dio
(settimane terza e quarta).
Passando alla IV sezione (8,27-10,52), si sarebbe tentati di pensare
che è addirittura triplice perché costruita su tre predizioni della Passione. Ma
non è così, la terza predizione con il materiale che ha intorno (cfr.10,32-52)
non è sufficiente a reggere una settimana; più logico assegnarle il ruolo di
transizione, di preparazione immediata a ciò che sta per compiersi a
Gerusalemme. Dunque anche quest’altra sezione copre due settimane, e
Marco non dimentica di fornire l’indicazione di tempo necessaria. Così dopo
la prima predizione della Passione, introducendo il misterioso episodio della
Trasfigurazione scrive: “E dopo sei giorni Gesù prende Pietro Giacomo e
Giovanni e li porta su un monte alto” (9,2); Luca, che non sa perché proprio
sei giorni e pensa alla Risurrezione, evoca l’ottavo giorno (Lc.9,28). Marco
mostra così di aver immaginato un altro sabato in disparte, Gesù solo con i
più intimi cui è riservata una rivelazione unica; e con ciò ha dato anche
indicazione per la scadenza della successiva settimana (settimane quinta e sesta).
Risulta in tal modo quest'ordinatissimo complesso: dopo la sezione
introduttiva (i giorni del Battista), seguono tre serie di due settimane ciascuna
(I-II sezione e I-II settimana; III sezione e III-IV settimana; IV sezione e V-VI
settimana), in un crescendo drammatico di rivelazione-incomprensione-
ostilità fino all'epilogo della settimana di Pasqua (ultime due sezioni e vertice
del Vangelo).
A conferma delle sei settimane che costituiscono il corpo del Vangelo:
c’è un numero che non avrebbe potuto non attrarre l'attenzione, quei “40

43
giorni” di Mc.1,13. Perché attrarre, visto che lo stesso numero ripetono sia
Matteo che Luca? Gli è che in Mc.1,12-13 tutto è così diverso, carico di
simbolismo, il linguaggio usato e lo scenario evocato in bilico tra realtà e
allegoria: i 40 giorni del deserto a mio avviso servono a Marco proprio quale
allegoria del ministero di Gesù nel mondo. Qui i sinottici sono davvero
lontani, si ricordi che in Marco Gesù non digiuna (contro Matteo) e mangia
(contro Luca). Forse il famoso racconto delle tentazioni, con lo sviluppo che
ha preso in Mt-Lc, non esisteva ancora al tempo di Marco; e forse a tale
sviluppo contribuì proprio la scena immaginata dal nostro evangelista.
Ebbene il numero 40 non solo è legato al tempo del diluvio e del deserto;
non solo rammenta famosi digiuni (Mosè, Elia); è anche la cifra della vita. Ed
è a un di presso la somma di sei settimane: lo stesso arco di tempo che
interessa le 4 sezioni appena descritte! Quello che i giorni del deserto
rappresentano allegoricamente, le quattro sezioni centrali del Vangelo
narrano nel suo realizzarsi storicamente. Senza bisogno di decidere di quei 40
giorni, se per Marco siano stati solo allegoria o anche effettiva permanenza
nel deserto, essi fuor di dubbio sono rappresentazione dell’intero percorso
della vita di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, in vista della morte-
risurrezione: percorso che si compie entro i numeri simbolici, il 7 a evocare
la creazione (Genesi), il 40 a evocare la liberazione (Esodo).
Ulteriori conferme. “La settimana e il sabato non s’incontrano fuori
d’Israele” (De Vaux, op.cit., pg.472). Benché Gesù sembri far giustizia del
sabato, del quale erano così zelanti gli avversari fino a usarlo contro di lui (e
contro quanti andavano a farsi guarire di sabato), il ruolo della settimana non
viene intaccato. Marco ne è consapevole: alla base del suo Vangelo, che è
diretto a donne e uomini provenienti da culture diverse da quella ebraica e

44
biblica, ci sarà la cadenza settimanale. Non solo, ricordiamo che il numero di
sette settimane era nella tradizione delle feste ebraiche: la Pentecoste (Atti 2,1ss)
è per gli ebrei la festa delle settimane (sette settimane da Pasqua, Es.34,22);
inoltre il calendario di Qumran “enumera feste agricole che si celebravano
pressappoco ogni 50 giorni. L’applicazione difettiva di questo sistema
quinquagesimale si ritrova pure nel calendario cristiano nestoriano […] e nel
calendario dei contadini palestinesi, che conteggiano 7 cinquantine di giorni
andando da una festa all’altra” (ibid. pg.187). Tutto ciò che significa? È
possibile che Marco abbia strutturato il suo Vangelo su sette settimane in
ossequio ai canoni della tradizione cultuale, e che il suo Vangelo abbia di
conseguenza come destinatario naturale, non esclusivo, una comunità
cultuale. Ciò che Israele fu chiamato a essere da principio (“Manda via il mio
popolo perché mi renda culto nel deserto” Es.7,16) e ciò cui ha sempre
ambito, ora si realizza per un resto (Mc.6,34ss; cfr.Is.10,20 etc.) e per quanti
“vengono di lontano” (Mc.8,3). E ancora, Marco può aver concepito il
Vangelo come preparazione al battesimo e alla Pasqua, un percorso
catecumenale di 40 giorni, alla scuola di Gesù, nel deserto. Sono molti gli
elementi che spingono in questa direzione, e non è un caso che la sezione
introduttiva sia pervasa da tale tematica.
Non è però esaurito l’interesse di Marco per le settimane. Credo
infatti di individuare nella profezia delle settimane di Dan.9,24-27 l’estremo
limite di tale interesse. Non sarebbe una sorpresa: i contatti con il libro di
Daniele sono importanti e numerosi nel Vangelo. Inoltre l’apocalittica andava
forte nel I secolo: i qumranici, con la loro attesa dello scontro finale e della
vittoria sul male, erano in realtà degli apocalittici; anche le aspettative di
Giovanni Battista quali appaiono in Mt-Lc si possono ricondurre

45
all’apocalittica; e l’attesa a breve della parusia e della fine, presente nella
prima generazione cristiana, è giustificata più dal clima generale che dalle
parole di Gesù. In questo clima, poteva Marco pensare la missione di Gesù
nell’ordine di settimane, senza andare con la mente alla profezia di Daniele?
oppure, meglio, non sarà che Marco pensò le settimane di Gesù anche come
risposta e risoluzione delle settimane di Daniele? In ogni caso le settimane di
Gesù non potevano non intercettare quelle di Daniele, dal momento che
Gesù è il compimento di tutte le Scritture. Come “il tronco di Jesse”, ogni
cosa germoglia quando incrocia Gesù, tutto ritorna vivo significativo
contemporaneo.
Va detto subito che così com’è la profezia di Daniele non parrebbe
immediatamente assimilabile: si tratta di 70 settimane, e non sono settimane
di giorni ma di anni! I giorni di Gesù non potrebbero essere che una frazione
di quelle settimane, ne sarebbero però la punta. Dove l’inserimento? forse
dove si dice “ungere il Santo dei Santi” (Dan.9,24)? o “fino a un principe unto”
(v.25)? o “un unto sarà soppresso senza colpa in lui” (v.26)? … Quest’ultima
è forse la risposta? anche gli antichi Padri non si trovarono d’accordo
nell’interpretazione di questi passaggi, tenui tracce del mistero che si sarebbe
compiuto in Gesù. Marco non si affatica a collegare le sue settimane con
quelle di Daniele: come detto sopra, egli a differenza di Daniele non le
nomina mai. Tuttavia appena prima degli eventi pasquali, in quel punto
cruciale, ecco che ci fa trovare davanti il famoso Discorso apocalittico, che è
anche il più lungo discorso riportato dal primo Vangelo (Mc.13,4-37). Gesù
risponde alla domanda di 4 discepoli (v.3); in passato una simile domanda
sugli eventi finali difficilmente avrebbe trovato udienza, infatti fin qui Gesù
aveva gettato il cuore dei suoi appena oltre la propria morte (le tre predizioni

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della passione-risurrezione: Mc.8,31; 9,31s; 10,33s). Adesso però, a ridosso
della Pasqua, è ora di spingerli sin dove l’arco del tempo si chiude: a questo
obbedisce il Discorso in questione. Se poi qualcuno obiettasse che non si
tratta di un discorso ma di uno scritto (Mc.13,14 “chi legge capisca”), che non
è di Gesù ma di qualche giudeo-cristiano (teoria della piccola Apocalisse), che
comunque non fu Marco a introdurre le citazioni di Daniele e quindi
l’argomento non dimostra nulla, risponderei: è senza dubbio uno scritto, ma
i discorsi si possono anche scrivere (o no?); non fu certo Gesù a scriverlo, ma
chiunque sia stato a dare forma allo scritto ha inteso riprodurre nella sostanza
ciò che il Maestro insegnò in quel momento, fatti salvi i diritti del redattore
di esprimersi secondo il proprio genio nonché le preoccupazioni del suo
ambiente (attualizzazione); che Marco dipenda da un documento-base è
pacifico, ma quel che conta è che fu il primo a vedere la necessità di introdurlo
nel Vangelo (lui che ha lasciato il Discorso delle beatitudini) apportandovi
significativi ritocchi (uno su tutti, il v.10 “e prima deve essere proclamato
l’evangelo a tutte le genti”, che non ha riscontro né in Mt né in Lc), e che fu il
primo e forse l’unico a gustare appieno certi riferimenti a Daniele.
È probabile che sia stata questa la struttura pensata da Marco per il
suo Vangelo: le settimane di Gesù, volte a incrociare le settimane di Daniele
e risolvere l’apocalittica in escatologia, sottraendola ormai a ogni calcolo, in
una storica correzione di prospettiva. E se qualcuno pensa che una così vasta
costruzione non può poggiare sui pochi elementi che abbiamo in mano,
addirittura su una settimana che Marco non nomina mai, rimango tuttavia
convinto che i pochi elementi che ci ha fornito hanno forza sufficiente a
rivelarci il piano dell'opera e i suoi interessi.

47
Capitolo 2
La sezione introduttiva

Il Vangelo di Marco si apre con una sezione introduttiva (Mc.1,1-13),


la più breve ma densissima. È costituita: dalla sovrascritta o titolo (1,1); dal
midrash di Isaia (1,2-3); dal grande dittico “Giovanni Battista – Gesù di
Nazaret” (1,4-13). È delimitata da doppia inclusione: il termine angelo in
apertura e angeli in fine (vv.2 e 13), e l’espressione nel deserto (nei vv.3.4 e
13). A conferma della sua unità va aggiunto che è l’unica sezione in cui Gesù
è senza parola: questo non ha riscontro né in Matteo (cfr. Mt.3,14-15;4,4ss),
né in Luca (cfr. Lc.4,4ss). Vi risuona da un capo all’altro più di una voce, non
però la sua; come nel prologo del IV Vangelo, dove il Verbo non ha parola: si
lascia proclamare dai profeti dal Battista dal cielo, ma lui non ha nulla da
proclamare, al contrario di quanto avverrà nel seguito (Mc.1,14-15…),
finché non l’avvolgerà di nuovo il silenzio dopo l’ultimo immane grido
(15,37). Con lui risorto risorgerà anche la parola, in potenza.
Perché qui tace Gesù? Non ha appeso al salice la sua cetra quasi si
sentisse uno esiliato (Sal.136). Sarebbe ugualmente fuori luogo parlare di
passività: Gesù ha appena compiuto un gesto decisivo, venendo da Nazareth
per esserci all’incontro messianico al quale il Battista preparava nella
penitenza tutto il popolo di Dio. Piuttosto bisognerà dire che egli vive una
realtà inaudita in una situazione di obbediente libera totale privazione (perciò
il suo silenzio!). È colmato di titoli divini (vv.2-3.7-8.10-11), ma viene da
Nazareth, un luogo da cui non ci si aspetta nulla (Gv.1,46) e che nessuna
pagina della Bibbia ha mai avuto il piacere di ospitare, prima d’ora. Viene
chiamato dal cielo “tu, il mio figlio, l’amato (= l’unigenito)”, ma il suo posto

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non è in cielo, e nemmeno tra i potenti della terra; egli è al Giordano invece,
per prendere un battesimo di penitenza in compagnia dei peccatori; è poi
cacciato nel deserto ed esposto alle tentazioni di satana per quaranta giorni
con le fiere e gli angeli. Immerso in una condizione di contrasti estremi, li vive
senza conflitto. È e non potrebbe non essere Colui che è; e tuttavia Gesù non
possiede, non dispone di nulla che non sia proprio dell’uomo (e dunque
contingente), in più ha solo ciò che gli è dato: di sapere di dire di fare, in ogni
istante. Egli ne è grato nel più intimo. E il Padre trova in lui il suo
compiacimento.
* * *
La sovrascritta o titolo: “Principio dell’evangelo di Gesù Cristo” (v.1).
Poche parole scelte con cura, straordinarie per significato e storia. Ditemi
come fa a non essere accurato chi scrive così!
“Principio – Arché”. È la prima parola della Bibbia (“In principio Dio
creò il cielo e la terra.” Gen.1,1), ripresa dal prologo del IV Vangelo (“In
principio era il Verbo…” Gv.1,1); più vicina ancora letterariamente
l’espressione di Os.1,2 (LXX) “Principio della parola del Signore…”, lo
ricordo per la prossimità del profeta Osea a Marco anche in altri luoghi che
segnalerò. È anche la prima parola in filosofia, quella su cui si interrogarono
i primi pensatori greci: qual è l’arché di tutto? Principio non è solo ciò che sta
prima, è ciò cui fa capo tutto quel che segue, essendone causa modello
essenza.
“Euaggélion” è certamente una delle parole più fortunate della storia.
Nota già ai tempi di Omero (Odissea, XIV,152), nella romanità è in uso per
annunciare i lieti eventi che riguardano l’imperatore e la sua casa; in ombra

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nel VT greco LXX, dove è piuttosto il verbo euaggelízomai ad avere rilevanza
nelle promesse di salvezza di Dio (Is.40,9…), raggiunge il firmamento in
epoca cristiana nella doppia accezione di evangelo (l’annuncio cristiano) e
vangelo (il libro), anche per l’uso che ne ha fatto qui Marco.
Cos’è in concreto “principio dell’evangelo”? Se il titolo deve
riguardare l’intero scritto, come penso, allora “principio dell’evangelo” è
tutto quello che si è compiuto nei giorni di Gesù e fino alla sua morte-
risurrezione, a cominciare dai giorni di Giovanni Battista (“in quei giorni
venne Gesù da Nazareth di Galilea” Mc.1,9) la cui vita e morte è così
inestricabilmente intrecciata a quella di Gesù, che Giovanni sotto il suo nome
o quello allusivo di Elia è presente in tutte le sezioni del Vangelo di Marco.
“Gesù Cristo”: doppio nome, è hápax di Marco. Quando Marco
scriveva, Cristo (gr. Christós, ebr. mashiah – unto, consacrato) era ormai il
secondo nome, un uso che non ebbe riscontro nei giorni di Gesù. Infatti
prima di Pasqua Cristo era un titolo non un nome, e fu indirizzato a Gesù a
fatica e non senza contrasto; ricorre solo nelle ultime tre sezioni del Vangelo
(qui a parte), regolarmente preceduto dall’articolo (al contrario qui e
Mc.9,41): lo troviamo una volta sulla bocca di Pietro per confessarlo (8,29),
due volte sulla bocca dei sommi sacerdoti - al processo per condannarlo e
sotto la croce per deriderlo (14,61 e 15,32) -, tre volte infine sulla bocca di
Gesù stesso (in 12,35 e 13,21 riprendendo parole altrui; quanto a 9,41 così
come suona, “chi vi darà da bere un bicchier d’acqua[…] perché siete di
Cristo”, è già nome e non può appartenere al linguaggio prepasquale, cfr.
Mt.10,42). Dopo Pasqua invece il titolo, esclusivo di Gesù almeno nella
comunità dei discepoli, divenne nome al punto che potevano dire
indifferentemente di Gesù o di Cristo, se non fosse che Gesù era più legato

50
all’esperienza storica di lui e Cristo all’esperienza del Risorto. Uniti insieme i
due nomi esprimevano bene la fede nell’identica persona, prima e dopo
Pasqua.
Così diventa chiaro che, benché Marco sospenda il suo Vangelo a una
promessa (“vi precede in Galilea, là lo vedrete” Mc.16,7) e a un gruppo
tuttora smarrito (“fuggirono”14,50;16,8), in seguito qualcosa di inaudito e
potente deve essere accaduto, se si scrive di Gesù Cristo e di un evangelo che lo
riguarda, e se a scriverne è uno come Marco che prima non era neppure
discepolo. Gesù è risorto “con potenza [en dunámei]” (cfr. Mc.9,1): questa è
la caratteristica del Risorto, come l’attività storica di Gesù fu caratterizzata
da “autorità [exousía]” (cfr.1, 22.27). Risorto con potenza non per riavviare
la sua esperienza terrena con maggiori probabilità di riuscita, quasi per una
resa dei conti, bensì per avviare il cammino dei suoi a servizio dell’evangelo
in tutto il mondo (è questa la sfida cui Dio piega il suo cuore); i quali non
possono che essere quello che sono, in quanto hanno titolo da lui, e oltre
l’umano non dispongono di nulla che non sia ciò che è loro dato di volta in
volta di sapere di dire di fare e… di scrivere! Se dunque quello fu il principio
dell’evangelo, questo è il seguito: tutto ciò che si compie nei giorni dei
discepoli, in strettissimo rapporto col Risorto, infatti sono di Cristo.
Dunque, perché c’è stato un seguito, si evoca un principio; principio
che solo nel seguito si poté comprendere adeguatamente. Infatti Gesù attese
invano quella comprensione dai suoi prima di Pasqua (“non comprendete
ancora? [oúpo suníete;]” 8,21). Eppure il seguito è già tutto nel suo principio:
per questo Marco si sobbarca la fatica di mostrare quale fu il principio
dell’evangelo di Gesù Cristo. Quello che fece Gesù, saranno loro a farlo in Cristo,

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miracoli e tutto il resto compreso il dare la propria vita; e si ripeterà intorno
a loro quello che si verificò per Gesù: deserto e satana, fiere e angeli…
Dopo “Gesù Cristo” la maggioranza dei Codici aggiunge “Figlio di Dio
[huioû theoû]”. È possibile, sia che si rifletta all’importanza testimoniale dei
Codici, sia che si rifletta all’intento ultimo di Marco che è la confessione di
fede (abbozzata dal centurione “Veramente quest’uomo era figlio di Dio”
Mc.15,39). Tuttavia c’è da chiedersi se corrisponda allo stile di Marco
anticipare la conclusione nel titolo ed esporre a tal punto il mistero che ha a
cuore. Lo scoprirebbe così, colui che proprio per proteggerlo avrebbe
accentuato se non introdotto il segreto messianico? … Soccorrono questa prima
osservazione alcuni argomenti: un ottimo Codice come il Sinaitico* (prima
mano) e pochi altri non lo riportano; Origene che è pressoché
contemporaneo dei migliori Codici fa altrettanto; senza trascurare che era
più facile in ambito cristiano l’introduzione che non la soppressione di “Figlio
di Dio”. Mi sembra inoltre pertinente osservare che Mt.1,1 con “[…] figlio
di Davide, figlio di Abramo” si sarebbe trovato a fare un’operazione al
ribasso, cui non è solito, se avesse davvero trovato in Marco “Figlio di Dio”!
Del resto noi già sappiamo che Marco è andato soggetto a una grande aggiunta
in fine (Mc.16,9-20), chiaramente tardiva: “Figlio di Dio” potrebbe essere
frutto di un analogo intervento al principio. E per finire, non riesco a vederci
la mano di Marco in questo intervento: ci vorrebbe almeno una virgola
davanti a “Figlio di Dio” e non c’è; inoltre “Figlio di Dio”, apposto così senza
virgola, insinuerebbe il dubbio che “Cristo” sia anch’esso apposizione e
dunque titolo invece che nome proprio… Per lo stile, sembra più l’opera di
un elefante con ottime intenzioni.

52
* * *
Il midrash di Isaia (v.2-3). Di solito i commentari esordiscono
sottolineando l’incongruenza di Marco, che attribuisce a Isaia un testo non
suo: “Così com’è scritto nel profeta Isaia: Ecco, invio avanti al tuo volto il
mio angelo, che preparerà la tua via; voce di uno che grida nel deserto: approntate
la via del Signore, fate súbiti i suoi sentieri”. In effetti solo la parte in corsivo è
del profeta; tuttavia trovo giusto parlare di midrash e non d’incongruenza.
Ci sarebbero ben altre considerazioni da fare. L’aver posto all’inizio
la Parola di Dio, in citazione diretta, è un fatto unico per un libro del NT,
anzi per la Bibbia intera. Il che non è solo una curiosità. Così, se l’evangelo
ha un principio, è da Dio (Mc.1,14: “l’evangelo di Dio”); lo stesso che
l’emergere del cosmo dal Caos: è la stessa Parola a creare e a salvare, e
assicurare la continuità. E ancora: in Marco è la Parola a compiere gli eventi
(prospettiva storico-salvifica), mentre in Matteo gli eventi trovano conferma
della loro verità nella Parola delle Scritture (prospettiva dottrinale).
Il procedimento di cui si parla qui (midrash-commentario) era assai
noto al giudaismo e alla primitiva comunità cristiana, e consisteva nel “dar
corpo-arricchire la Scrittura mediante la stessa, in modo da svelarne un senso
nuovo, di portata più grande” (M.de Goets, RB.1959, 1, pg.32ss). Il Vangelo
ne conta parecchi, tre nella sola sezione introduttiva. Ora, se si esaminano i
due testi che Marco combina, si scopre che il primo (v.2) è già esso stesso un
midrash, elaborato dalla tradizione presinottica in direzione di Gesù, e
tramandato poi in un detto sul Battista (cfr. Mt.11,10; Lc.7,27). Abbiamo
infatti la fusione di Es.23,20 (LXX) “Ecco invio il mio angelo avanti al tuo
volto, perché ti custodisca nella via”, e Mal.3,1 (LXX) “Ecco invio il mio
angelo, e provvederà una via davanti al mio volto”. Il punto forte del primo

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sta negli attori, che sono tre: Dio - l’angelo - il tuo volto, che è il volto del
popolo uscito dall’Egitto; il punto debole sta nella scala decrescente, dove
l’ultimo posto conviene al popolo ma non alla dignità della persona che qui
si intende. Al contrario il punto forte del secondo è proprio nel livello divino
del volto; punto debole, che gli attori sono due e il volto non c'è modo di
distinguerlo da Dio. L’unione midrashica tende a confermare i punti forti,
sostituendoli a quelli deboli. Al nuovo testo (“Ecco invio avanti al tuo volto
il mio angelo, che preparerà la tua via”) alla fine rimane forse un po’ poco;
oltre ai tre attori, soltanto due allusioni per innalzare il rango del tu: il ricordo
del mio volto, e preparerà la tua via, meglio che ti custodirà nella via (l’angelo si
colloca in posizione subordinata, a servire); tu che rimane tuttora misterioso
e oscuro, quando si vorrebbe anche misterioso ma chiaro.
Evidentemente a Marco questo primo midrash dovette non bastare,
per la funzione che intendeva assegnargli di reggere l’impianto su cui poggia
l’intero Vangelo. C’era un altro testo, preparato dalla tradizione cristiana con
un piccolo eloquente intervento sull’originale di Is.40,3 (secondo la LXX);
diceva: “Voce di uno che grida nel deserto: approntate la via del Signore, fate
súbiti i suoi sentieri (invece dei sentieri del nostro Dio)”; era evidente
nell’intervento l’intenzione di dirigere ancora una volta il detto su Gesù,
riconosciuto come il Kúrios-Signore. Rispetto al midrash di Malachia, per la
verità, il testo di Isaia mancava di particolari essenziali: non c’è traccia di colui
che invia e manca di conseguenza il rapporto con quel tu misterioso; in
compenso però conteneva il particolare che finalmente avrebbe potuto
chiarire ciò che là era oscuro: è il Signore, colui al quale si prepara la via “tèn
hodòn Kuríou”. Neppure il testo di Isaia da solo bastava a coprire la funzione
che Marco aveva in mente; ma se si fossero uniti insieme, il midrash di Mal.3,1

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e il testo di Is.40,3 anziché lasciarli andare in giro separatamente…, nella
nuova unione midrashica i testi sarebbero stati costretti alla fine ad
abbandonare le rispettive oscurità e chiarirsi reciprocamente. A chi è brillata
questa idea del grande midrash? L’abbinamento dei due testi, benché assai noti
e utilizzati, non si riscontra in nessun altro luogo: è stato Marco a crearlo.
Perché dico che è una composizione midrashica e non un’infilata di citazioni,
che pure era in uso sia presso i rabbini sia ad esempio in s. Paolo? proprio per
l’appello iniziale di Marco al profeta Isaia, tanto vituperato dai suoi critici.
Anteponendo a quel modo il nome del profeta il redattore escludeva
precisamente che si trattasse di una infilata di citazioni; per lui era un testo
unitario, senza possibilità di dubbio.
Così Marco presenta da subito il mistero: il tu ha la dignità di Kúrios e
il Kúrios è Gesù. Quello che in tutto il VT era stato il nome esclusivo di Dio
(Kúrios rende l’ebraico Iahweh), nome con il quale creò il mondo, liberò il
suo popolo dalla schiavitù, riempì di prodigi la storia della salvezza, si rivela
ora essere in qualche modo distinto. Dio prepara la strada al suo Nome e gli
dà del tu! Più inaudito ancora, quel tu che veste la dignità di Dio si identifica
con l’uomo di Nazareth…
Se qualcuno ha pensato a una supposta timidezza di Marco (o mia),
quando ho ritenuto di escludere “Figlio di Dio” dalla sovrascritta del Vangelo,
può cominciare a ricredersi.
* * *
Il dittico (vv. 4-13) ha una forma deliziosa, una delle composizioni più
belle intense ed efficaci di tutto il NT. Appena 10 versetti, su due tavole di 5
versetti ciascuna, l’una dedicata al Battista l’altra dedicata a Gesù. Le

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corrispondenze però non si fermano lì, sono dappertutto e s’illuminano a
vicenda in un gioco di rimandi, tra convergenze e divergenze, per linee ora
semplici ora incrociate (chiasmo finale).
Naturalmente per ottenere una forma tanto essenziale (si pensi che
qui Mt-Lc hanno circa il triplo dei versetti di Marco), l’autore ha dovuto
scegliere tra il materiale a disposizione, lasciandone a terra una parte: la
parenesi di Giovanni, l’apocalittica! Inoltre Marco ha invertito la posizione di
alcuni versetti quali si avevano nella Fonte, al fine di ottenere le
corrispondenze volute (si confronti Mc.1,5.6 con Mt.3,4.5 che seriosamente
non segue le capriole di Marco ma conserva l’ordine primitivo).
Questa la struttura del dittico. La propongo in dettaglio per il suo
valore esemplare: la struttura di un testo non è un lusso, non è estetismo, è
comunicazione. Infatti il messaggio del testo in esame almeno in parte viene
comunicato, come si vedrà, proprio tramite la struttura. Ed è un messaggio
dalle conseguenze incalcolabili.

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(vv.4-8) (vv.9-13)
fu-egéneto E fu-kaì egéneto
Giovanni il Battezzatore nel
deserto a proclamare un
in quei giorni
battesimo di penit. per il
perdono dei peccati
E si recava da lui tutto il paese di
venne Gesù da Nazareth di
Giudea e tutti gli abitanti di
Galilea
Gerusalemme
e si facevano battezzare da lui nel e fu battezzato da Giovanni.
fiume Giordano nel Giordano.
Ed era Giovanni rivestito di E salendo dall’acqua vide
pelliccia di cammello squarciarsi…
e una cintura di pelle attorno ai e lo Spirito scendere come colomba
fianchi, in lui
mangiava locuste e miele e una voce dal cielo “Tu sei il mio
selvatico. Figlio,
E proclamava: viene dietro a me colui l’amato, in te mi sono
che è compiaciuto”.
forte ben più di me, di cui non sono E subito lo Spirito lo
atto caccia nel deserto.

a sciogliere chinandomi il laccio dei E fu nel deserto 40 giorni


calzari. tentato da satana
Io vi battezzai in acqua, stava con le fiere
ma lui (vi) battezzerà in Spirito e gli angeli lo servivano.
Santo.

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La prima parte del dittico, s'è detto, fa parallelismo per linee rette.
Alcune osservazioni.
La prima: Giovanni, il Battezzatore-ho baptízon, come preferisce
Marco, non è presentato da subito in parallelo con Gesù di Nazareth, e questa
è una sorpresa trattandosi dei sicuri protagonisti delle due tavole. Si potrebbe
pensare che Marco vuole evitare il confronto diretto, ma non corrisponde al
vero: il confronto c’è nelle parole stesse del Battista ed è tutto a favore di
Gesù (vv.7-8). In apertura viene delineato in esclusiva il ministero di
Giovanni, è lui a presiedere la grande liturgia battesimale, ciò per cui Dio lo
ha suscitato.
La seconda: Gesù è posto invece in parallelo con quelli che vanno a
farsi battezzare da Giovanni. Quant’è laconica la sua presentazione! Se ne
desume che Gesù non entra nelle grande liturgia da dignitario, con seguito e
titolo ad avere un posto speciale (diverso in Mt.3,14-15): è lì per fare corpo
unico con i penitenti, senza accampare privilegi o pretendere per sé la
presidenza; neppure fa come un imperatore o un papa che ci stanno a
prendere il segno penitenziale (metti il mercoledì delle ceneri) ma con tutto
l’apparato disposto a difesa del rango, perché nessuno approfitti della
momentanea debolezza… Gesù sta nel punto più basso, che nessuno gli
contenderà.
La terza: In apparente tensione con quanto appena detto, notiamo
che: - di tutti quelli che vanno al battesimo Gesù è l’unico di cui si fa il nome
(al pari dell’altro protagonista) ed è un nome che parla da sé, “Jehoshua-
Iahweh salva”; - non vi si dice venne anche Gesù…, il suo non è un esserci-anche-
lui, ma anzi è proprio il suo esserci che rende decisivo unico escatologico
l’esserci degli altri e dello stesso Giovanni; - degli altri penitenti è detto

58
“confessando i loro peccati”, nulla di simile invece per Gesù: un rimando
teologico importante, il minimo è che non ha peccato alcuno, il massimo che
non può avere peccato alcuno; potrà avere tentazioni come si vedrà ma non
peccati, condizione che fa di Gesù l’unica persona al mondo in grado di
distruggere il peccato del mondo, perché non ha alcun debito con il peccato
e non ha nulla di male da scaricare a sua volta sul mondo.
Ultima osservazione: Se gli altri “si facevano battezzare-ebaptízonto
(imperf. medio)”, Gesù semplicemente “fu battezzato-ebaptísthe (aoristo
passivo)”. Gesù è colui che lascia fare: non solo fa la volontà di Dio (cfr.
Mc.3,35), egli acconsente che Dio modelli a piacimento il suo destino senza
la pretesa di conoscere prima quanto lo riguarda, o di imporre le sue
preferenze, in un atteggiamento di abbandono totale; per lo stesso motivo si
affida alle mani dell’inviato da Dio (Giovanni), che così non potrebbe
ottenere legittimazione più alta.
Noto, in conclusione a questa parte del dittico, che Marco lascia
volutamente in sospeso le domande sulla pre-istoria di Gesù: perché questo
Gesù? cosa ci faceva a Nazareth? … Al contrario di Mt-Lc, Marco non ha un
Vangelo d’infanzia dove anticipare risposte a tali domande; ci arriverà però,
e prima degli altri, quando narrerà della visita di Gesù a Nazareth durante la
sua predicazione in Galilea (cfr. 6,1-6a); ma, come vedremo subito, già nel
seguito è supposto il mistero dell’incarnazione, anzi Atanasio e i grandi Padri
avrebbero potuto attingere qui a piene mani (se solo avessero conosciuto
meglio Marco) ciò che occorreva agli sviluppi della cristologia e della teologia
trinitaria.
La seconda parte del dittico, s'è detto, è in parallelismo chiastico:

59
Giovanni nel deserto Testimonianza dal cielo

Testimonianza di Giovanni Gesù nel deserto

Iniziamo dalle due testimonianze. La testimonianza dal cielo compie


quella del Battezzatore nei due sensi: indica nella persona di Gesù colui che
viene, il forte; indica inoltre quanto è forte e quale titolo gli è riconosciuto per
battezzare in Spirito Santo.
La testimonianza dal cielo è una teofania, per la quale Marco attinge
alla Fonte che ha in comune con i sinottici. Con quali strumenti essa ha potuto
ricostruire l’evento, visto che Gesù verosimilmente fu l’unico testimone? Si
fa l'ipotesi che lo abbia ricostruito mediante un pesher di Ez.1-2 (pesher-
similitudine, è una forma vicina al midrash, utilizzata per presentare i
lineamenti di un personaggio nuovo mediante un testo antico): il profeta
Ezechiele si trova tra i deportati in Mesopotamia, sul canale (la LXX ha
potamós-fiume, come per il Giordano!) Kebar; “si aprirono i cieli, e vidi
[enoíchthesan hoi ouranoí, kaì eîdon]” (Ez.1,1), praticamente lo stesso testo che
in Mt.3,16; quel che vede sono “oráseis theoû-visioni divine”, in conseguenza
cade faccia a terra, e ode la voce (phonén) di uno che parla (Ez.1,28), “Figlio
dell’uomo” gli dice, e intanto “venne su di me uno spirito (pneûma) che mi
prese e mi sollevò…” (2,1-2). La situazione, mi sembra, ha analogia con
quella evangelica, si tratta nei due casi di teofania; i contatti letterari sono
evidenti. Non si fatica ad ammettere che il redattore della Fonte possa aver
tratto di qui quantomeno l’ossatura del suo racconto: infatti ritroviamo cieli-
spirito-voce, mentre il contenuto di senso è certo superato. Ezechiele vede

60
ascolta ed è chiamato a missione, tuttavia appare spettatore di cose divine di
cui non fa parte, mentre nei Vangeli si ha l’impressione contraria; ne è prova
il fatto che Gesù non reagisce con gesti di timore, quando invece in presenza
di Dio sempre ci si copriva per non morire (nella Bibbia Adamo nel paradiso
non sentiva il bisogno di nascondersi a Dio, prima del peccato…).
Quanto alle redazioni sinottiche, Marco personalizza e racconta ogni
cosa dal punto di vista di Gesù (“… vide i cieli squarciarsi e lo Spirito
scendere… e una voce dai cieli: Tu sei il mio Figlio…”); Matteo oggettivizza,
rendendo in tal modo disponibile ad altri ciò che sta accadendo (è eloquente
che in Mt.3,17 la parola dal cielo sia “Questi è il mio Figlio…”); Luca
interiorizza, nel senso che fa della teofania un momento del rapporto intimo
di Gesù con il Padre (“e mentre pregava, si aprirono i cieli…” 3,21). Neppure
il testo di Marco esclude necessariamente l’esistenza di testimoni come il
Battista; ma si capisce che a questo punto, a differenza che alla
Trasfigurazione (Mc.9,2-10), ci siano o meno testimoni, la cosa per il
redattore è irrilevante.
Noto ancora che Marco antepone a ogni cosa il vedere: Gesù vide… È
una costante, lo farà nel corso di tutto il Vangelo; mi riservo di sottolinearlo,
ma è chiaro già ora che ognuno vede quello che è in condizione di vedere o
quello che vuol vedere. È un principio di capitale importanza ai fini
kerigmatici e catecumenali, che si confermano alla base del progetto del
primo Vangelo.
Qual è dunque il significato della teofania e della testimonianza che
contiene?
Qualcuno ha sostenuto che ci troviamo di fronte alla chiamata di Gesù
(nel testo citato di Ezechiele si trattava in effetti della sua chiamata a profeta),

61
non ce ne sono però gli elementi; la chiamata potrebbe spiegare semmai la
venuta di Gesù al battesimo, ma in questo caso è passata sotto silenzio.
Non è neppure la presentazione di Gesù al popolo o la proclamazione del
Figlio, almeno per Marco, che a questo punto non ha interesse ai presenti.
È invece la consacrazione di Gesù a Re davidico (Messia) e Servo di Dio
(con gli studiosi Schmid, Wellhausen, Bultmann…), per l’azione dello
Spirito e la parola del Padre: si potrebbe dire con ragione che qui c’è il
modello, la madre di tutti i sacramenti!
Infatti del Messia davidico è scritto nel profeta Isaia: “Un germoglio
spunterà dal tronco di Jesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di
lui riposerà lo Spirito del Signore” (Is.11,1-2.). Non basta essere discendente di
re per diventare re, ci vuole l’unzione regale. E del Servo di Dio: “Ecco il mio
servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio Spirito
su di lui” (Is.42,1.), “per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is.53,5). Anche
qui non basta a Gesù essere nella forma di servo, occorre l'unzione e la missio
quale Servo di Dio che paga per tutti.
Se per fare un giudice re-guerriero lo Spirito poteva “irrompere,
piombare” al modo di un rapace (cfr. Giud.14,6.19; 1Sam.10,6.10), qui per
fare un simile Re-Servo lo Spirito discende come colomba… Tuttavia non appare
ancora chiaro né perché né come vengano a saldarsi queste due figure di Re
e di Servo, normalmente divergenti.
Puntuale la parola dal cielo dice ciò che significa sia lo squarciarsi dei
cieli sia lo scendere su di lui dello Spirito. La forma della parola risulta essere
ancora una volta un bellissimo midrash: da un Salmo messianico, “Figlio mio
sei tu [huiós mou eî sú]” (Sal.2,7) e dal Carme del Servo citato sopra, “il mio
eletto in cui mi compiaccio” (Is.42,1), sono essi i due testi alla base del midrash.

62
Ma non è tutto. Il testo midrashico finito “Tu sei il mio Figlio l’amato [sù eî
ho huiós mou ho agapetós] in cui mi compiaccio” non si spiega su quella sola
base. Deve essere per forza intervenuto un altro testo a renderlo possibile.
Viene identificato in Gen.22,2 “Prendi il tuo figlio l’amato [tòn huión sou tòn
agapetón]”, parola rivolta ad Abramo per il sacrificio di Isacco, una tra le
pagine più amate e celebrate dalla tradizione ebraica. La combinazione dei tre
testi ha consentito di giungere alla magnifica forma del midrash, degna di stare
sulla bocca di Dio.
Per legare in superiore unità le figure di Re e di Servo, ma soprattutto
per raggiungere il pieno contenuto di senso, era necessaria la figura del figlio
(“l’unico” per l’ebraico, “l’amato” per il greco della LXX) che il padre non ha
risparmiato (Gen.22,12.16). A questo punto ci troviamo al culmine della
rivelazione, l’occasione che Dio si era riservata di annodare insieme tutte le
fila tese nel corso della lunga (per noi) storia della salvezza, e di manifestarci
in quale forma intendeva dar compimento al proposito, implicito già nella
creazione e poi espresso molte volte e in molti modi, d’essere presente
corporalmente (Col.2,9) in mezzo a noi: quel nodo e quella forma, è Gesù!
Messia-Figlio-Servo, tutto converge e coincide nell’uomo-Gesù (perché di
uomo certamente si tratta) quando viene unto di Spirito Santo; ma per essere
veramente il nodo in cui tutto s'annoda, l’uomo-Gesù ha dovuto in sé
realizzare l’inaudito, superando l’infinita differenza qualitativa tra Dio e la
creatura (v. Balthasar), unire insieme dovere di vivere e diritto di morire. Egli
deve essere nel medesimo tempo che figlio dell’uomo anche Figlio unico
eterno del Padre. Ora si capisce in quale senso andava inteso quel Kúrios
riferito a Gesù!...

63
“Non un inviato né un angelo, ma lo stesso Kúrios li salvò” (Is.63,9).
Vale la pena ricordarlo qui. Nel Vangelo di Marco, Gesù usa del titolo di
Kúrios in due luoghi e con molta enfasi per indicare la sua persona: dopo il
raccapricciante esorcismo in terra pagana, “Va’ a casa tua dai tuoi e annuncia
loro quanto il Signore ha fatto per te e che ti usò misericordia” (Mc.5,19); e
nei preparativi voluti da Gesù per l’entrata regale a Gerusalemme, a
proposito dell’asinello (strana cavalcatura per un re, ma era così in Israele,
cfr. Zc.9,9; più strano ancora che il re non la possegga e la chieda in prestito,
come qualcuno il frac per una sera), “Se qualcuno vi dirà[…] rispondete: il
Signore ne ha bisogno, ma subito lo rimanda qui” (Mc.11,3): un Signore che
ha bisogno, e (straordinario) che non impone il bisogno come regola e
rispetta il diritto di proprietà!… Ogni volta il titolo Kúrios è caduto nel vuoto.
In realtà non siamo certi che Gesù si sia espresso così; forse è un riflesso
pasquale che l’evangelista ha anticipato. Di certo Marco vuol dirci che chi lo
ascoltava non era in grado di comprenderlo allora: avrebbero assistito a ben
altro, i discepoli, senza aprire gli occhi… Eppure qualcuno già prima di
Pasqua deve essere stato catturato da quello sguardo, in cui aleggiava una
coscienza di sé superiore a ciò che percepivano i sensi distratti dei discepoli:
il IV Vangelo può essere stato scritto solo da una persona che allora fissò gli
occhi in quella consapevolezza e vide in sé stessa, e non solo nel suo contrario,
la grandezza di Gesù (cfr. Gv.1,14); lo stesso che nello sconcerto generale
seguito alla predizione del tradimento ha l’ardire di posare il capo sul petto
del Maestro. Il Vangelo della gloria è l’unico vero punto di vista alternativo e
complementare alla teologia della croce che incontrò la più pura espressione
nel Vangelo di Marco.

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I Padri hanno molto sottolineato la concomitanza della teofania con il
battesimo di Gesù. Credo a ragione (cfr. J. Gnilka, op.cit., pg.58-59): è il
modello del battesimo cristiano con i grandi doni che lo accompagnano e la
missione a cui consacra, fatte salve le prerogative uniche di Gesù. Lasciatemi
aggiungere tuttavia che per Marco qui c’è molto più che il battesimo
cristiano. Non vogliamo ricordare che il battesimo di Gesù ha il suo
compimento nella morte (Mc.10,38)? Marco richiama il legame battesimo-
morte con un ponte di luce grandioso, un balzo fantastico dalla teofania
battesimale all’evento del Calvario (cfr.15,37-39): qui Gesù emette lo Spirito,
il velo del tempio con i segni dello zodiaco si squarcia nel mezzo (il verbo
schízo nel solo Marco anche per lo squarciarsi dei cieli, verbo attinto
certamente a Es.14,21 LXX dello squarciarsi delle acque del Mar Rosso!), e
il centurione quasi facendo eco alla voce dal cielo dice: “Veramente
quest’uomo era Figlio di Dio”. Marco fu il solo a vederci, nel modo suo
paradossale, il risvolto terreno l’approdo della teofania celeste! E se qualcuno
cerca traccia del battesimo in Spirito, escatologico e universale, ebbene è qui in
Marco, nello spirare di Gesù per tutti sulla croce. È lui che dà lo Spirito, ma
è il suo spirito; ed è lui che dà la Vita, ma è la sua vita: può darli solo nella
morte. Vedremo più avanti quanto questa rivelazione sarà determinante!
Facciamo ora un passo indietro, alla testimonianza del Battezzatore
(Mc.1,7-8): è essenziale, tesa tutta a mostrare la superiorità non solo della
missione bensì della persona di colui che viene dopo. Questi è ben più forte di
Giovanni, che non è degno di slacciargli i sandali chinandosi a terra (“kupsas”,
Es.34,8 LXX); segue la parola sul battesimo in forma serrata a mo' di
parallelismo antitetico lontano sia dai sinottici che dal IV Vangelo: “Io vi
battezzai in acqua – egli invece (vi) battezzerà in Spirito Santo”. In questo

65
momento interessa il particolare del pronome che ho riportato tra parentesi:
l’assenza del pronome carica l’antitesi di mistero (“battezzerà chi in Spirito
Santo”?). È giustificata la caduta del pronome? Certo non l’ho inventata! La
sinossi di Aland nell’apparato critico mostra, pur non recependolo, che un
Codice dell’autorità del Sinaitico* (prima mano) non ha quel pronome. La
cosa sorprende, perché i sinottici l’hanno sempre, nel primo come nel
secondo membro (Mt.3,11; Lc.3,16); ma il IV Vangelo non l’ha mai (Gv.1,
26.31.33) e s'avvicina a Marco. Se si fa credito alla testimonianza del Sinaitico
si avrebbe conferma che Marco ha buone ragioni per modificare la Fonte; egli
infatti non solo forgia un parallelismo antitetico che non esisteva prima, ma
dicendo in modo assoluto battezzerà porta l’antitesi all’estremo, perché il
battesimo in Spirito ad opera di Gesù è davvero altra cosa: non solo è in Spirito
e non in acqua, ma va oltre i presenti al Giordano avendo destinazione
universale e, non essendo legato a meriti o azioni di sorta, è puro dono di Dio
in morte di Gesù a tutta l’umanità! È possibile che un solo Codice abbia
conservato in quel punto il testo originale di Marco, che gli altri hanno
smarrito? È possibile; sarebbe anche uno dei casi in cui la concezione
teologica dell’evangelista aiuta a risolvere un problema di critica testuale.
Il deserto. Gli altri due estremi del chiasmo portano nel deserto. Il
corno che riguarda Gesù (vv.12-13) è il tratto più personale e creativo di
tutto il Vangelo. Per me è chiaro che si tratta di un’allegoria, autentica
creazione poetica e teologica di Marco: una metafora insistita della vita di
Gesù, lampi d’immagini su un percorso storico unico. Alla luce di ciò,
chiedersi se Marco dipenda ancora dalla Fonte sembra superfluo.
E di botto incontri il verbo che ha sempre fatto scandalo: “E subito lo
Spirito lo caccia nel deserto”. Nessuno dei sinottici raccoglie, le traduzioni

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seguono imbarazzate, mentre gli studiosi hanno modo di confermarsi nei loro
pregiudizi antimarciani. Ma come? Dio invia il suo angelo, e lo Spirito caccia
il Figlio? e poi, perché il verbo “cacciare – ekbállein”, quello che caratterizzerà
l’azione di Gesù contro i demoni? e perché proprio lo Spirito, non dovrebbe
semmai essere il Padre? … Non sarebbe più facile per il Padre, se fosse cosa
che non istà bene! Ma non è cosa che non sta bene, evidentemente. Non è
un’azione volta contro il Figlio, e può ben essere compiuta dallo Spirito. Del
resto quello che altrove fa l’angelo del Signore (come per Abacuc in
Dan.14,36 “lo prese per i capelli e con la velocità del vento lo trasportò a
Babilonia e lo posò sull’orlo della fossa dei leoni”), in Ezechiele fa la mano del
Signore (Ez.1,3;3,14.22 ecc.) oppure lo spirito (“… mi sollevò e mi portò
via” 3,14).
E poi arriva così inatteso, dopo la teofania… È inatteso anche per
Gesù probabilmente, non solo per noi; non si dimentichi quel “subito”. S’è
già notato che per Marco Gesù può ignorare: è detto in Ebr.5,8 che Gesù ha
imparato da quello che patì, dalla vita dunque. È sempre un verbo troppo forte,
si dirà. Vero, questo fa concludere che è fortemente voluto! A conferma,
ricordiamo che Gesù era già nel deserto dove Giovanni operava: ragione in
più per considerare la cacciata di pura valenza teologica.
Un verbo difficile senz’altro. Ma quando c’è una difficoltà
bisognerebbe brindare, festeggiare: lì c’è qualcosa da capire, altro che
esecrare!
Ebbene, cosa ha in mente Marco, quali ricordi? infatti è messa in
campo una frotta di riferimenti biblici, e c’è il rischio reale che chi legge ne
esca confuso. Occorre individuare ciò che è primario nelle intenzioni di
Marco. A mio avviso, primario è il ricordo delle origini e di Adamo che più

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volte abbiamo riconosciuto essere presente nei pensieri dell’evangelista. Già
altri autori, come R. Pesch ad esempio, hanno ammesso l’esistenza di un tale
sfondo, in modo però del tutto diverso.
Se questa è l’immagine di riferimento, cioè la cacciata dal paradiso
dopo il grande peccato (Gen.3,1-24), con quali mezzi Marco poteva
alludervi? Di solito lo fa riprendendo un verbo, un termine o un’espressione
tipica (come nel caso del verbo schízo), con cui provoca un contatto
intenzionale. Nel Vangelo il verbo ekbállein ha questa funzione di richiamo (a
Gen.3,24: “E cacciò Adamo-kaì exébalen tòn Adam”) e la sua introduzione qui
è opera di Marco non certo della Fonte, se ce n’è una; lo conferma l’uso
marciano del presente storico che in questo luogo fa la prima comparsa: “caccia-
ekbállei”. Altri contatti: nel testo della Genesi c’è il serpente la tentazione e
infine i cherubini dalla spada fiammeggiante a impedire l’ingresso in paradiso
(vv.1ss.24); in Marco c’è satana e la tentazione e infine gli angeli a servirlo,
quasi a sigillare che nel caso di Gesù non c’è stata caduta. E c’è anche il
paradiso, tutto il paradiso in quella teofania! Si obietterà che per Gesù la
cacciata è venuta addirittura prima della tentazione… È vero, ma appena
dopo aver contratto in qualche modo il peccato del mondo al battesimo.
Non mancano all’elenco le fiere (Gen.3, 1.14 e Mc.1,13) che prima
erano in pace, ma secondo la letteratura giudaica dopo il peccato si
ribellarono all’uomo, in una generale situazione di violenza. Di ciò potrebbe
essere rimasta traccia nel testo che descrive la figura del Battista (Mc.1,6): la
pelliccia, la cintura di pelle, le locuste, persino il miele selvatico conteso agli
altri animali evocano un rapporto conflittuale, in cui gli animali hanno la
peggio; nella tavola riguardante Gesù il conflitto scompare, inizia un rapporto
nuovo: neppure il sangue per il sacrificio sarà più richiesto agli animali.

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Questo benché la descrizione del vestiario del Battista voglia prima di tutto
richiamare alla lettera la figura del profeta Elia (cfr. 2Re 1,8), essendo
Giovanni quell’Elia che doveva venire (Mc.9,11).
Qui dobbiamo anche solo ricordare due riferimenti biblici che Marco,
penso, ebbe presenti. Uno è l’episodio di Naaman (cfr. 2Re 5,1-19), generale
siriano lebbroso che sulla parola di Eliseo sette volte “si battezzò nel Giordano
[ebaptísato en tô Iordáne]” (v.14 LXX), singolare precedente letterario e
teologico del battesimo di Giovanni, e fu mondato, come lo sono le folle dalla
lebbra dei loro peccati! L’altro fa parte del rituale del Giorno della
purificazione (cfr. Lev.16), dove un capro era immolato a Iahweh per
l’espiazione, e un secondo capro era mandato via nel deserto carico dei
peccati del popolo e votato ad Azazel il demone cananeo del deserto
(vv.10.21.22) …
Si aggiunga che è quasi uno stereotipo: al peccato è legata la cacciata
non solo nel caso di Adamo; anche Caino viene cacciato per l’uccisione di
Abele (Gen.4,14), e le popolazioni di Canaan per la loro idolatria (Es.23,28;
33,2; 34,11); e persino il popolo eletto sarà cacciato per le sue infedeltà
(Os.9,15; Ez.36,20). Dopo il sogno di Nabucodonosor, la sua cacciata dal
regno (benché non espressa con lo stesso verbo greco) sembra voler ricordare
in alcuni particolari quella di Adamo, e forse ha attirato l’attenzione di
Marco: c'è scritto: “gli angeli ti invieranno in luogo deserto[...] e la tua
abitazione sarà con le fiere” (Dan.4,22); sembra che nel contesto Marco abbia
colto al volo l’espressione “con le fiere [metà tôn theríon]”, così come ha intuito
le potenzialità del tema della cacciata, che assurge a dignità di luogo teologico e
costituisce il primo tentativo di lumeggiare ed esprimere razionalmente il
mistero di Gesù e il suo tragico destino.

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Adamo è allontanato dall’Eden e dai privilegi connessi, e mandato ad
abitare e coltivare una terra maledetta a causa del suo peccato (Gen.3,27). Il
re Nabucodonosor è allontanato dalla “potenza” e dalla “gloria” del suo regno
(Dan.4,31) e mandato a vivere “con le fiere”. Marco non muta prospettiva,
la vicenda del re non si sostituisce ma si aggiunge a quella di Adamo,
arricchendola di alcuni particolari importanti: in questo modo egli può
attirare l’attenzione sul fatto che anche Gesù è senza potenza e senza gloria!
Marco parlerà di “regno venuto con potenza [en dunámei]” solo pensando alla
risurrezione di Gesù (Mc.9,1); quanto alla “gloria [dóxa]” si dovrà aspettare
la Parousia, quando “il Figlio dell’uomo verrà sulle nubi con grande potenza
e gloria” (13,26); mentre la missione si caratterizza unicamente per l’autorità
[exousía] (1,22.27). Nessuno ha così chiari, come Marco, questi tre momenti.
Come c’è arrivato Gesù alla presente situazione? Adamo e il re sono
due decaduti per propri demeriti gravi. Sembrerebbe non esserci nulla in
comune con Gesù che non è un re decaduto né ha demeritato, la teofania sta
lì a dimostrarlo. Eppure la conclusione è identica. Anch'egli viene cacciato:
il motivo? la sua solidarietà con i peccatori.
Non è quella però l’unica ragione, ce n’è una che è primordiale.
Potrebbe aver rinunciato già prima alla potenza e gloria proprie, prerogative
che depose liberamente, a differenza del re babilonese, per rendere possibile
la cacciata e quindi la via del Servo come piaceva al Padre. Infatti è
disponendosi in stato di abbassamento che l’ha di fatto consentita: chi avrebbe
potuto cacciarlo altrimenti il Kúrios? nessun dubbio invece che in tale stato di
spoliazione volontaria non solo il Padre ma anche lo Spirito sarebbe stato “più
grande di lui” (Gv.14,28). Se è così, quand'è avvenuta la rinuncia? al
battesimo?... Manifestamente, quando viene al battesimo Gesù è già in

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situazione: non lo accompagna nessun vessillo, anzi Marco fa in modo che
salti agli occhi lo scarto tra la presentazione del forte da parte del Battista e il
taglio umile dell’uomo che viene da Nazareth; d’altro canto, a rammentarne
il mistero, c’è il fatto che Gesù non si scompone neppure un po’ di fronte a
tanto interesse del cielo. Dunque qualcosa è avvenuto già prima di quel
giorno: forse a Nazareth? e quando?... Allorché Gesù nel corso del suo
ministero torna al suo paese, nessuno là ricorda altro che “l'artigiano, il figlio
di Maria”; e il rifiuto a credere sarà tale che Gesù, unica volta, si meraviglia
(Mc.6,1-6). Marco, si ha ragione di pensare, vuole condurci a questo preciso
punto: se qualcosa è avvenuto, è stato all’entrata sua nel mondo, entrata
verificatasi non in età adulta ma con l’incarnazione nel grembo di Maria, tanto
era importante garantire per intero l’umanità di colui che veniva nel mondo.
A questo punto preferisco parlare di “scelta” più che di rinuncia. Ma
come si concilia una scelta con lo status di concepito? Giusto, qui non esiste
analogia. Il Kúrios, Figlio di Dio fatto figlio dell’uomo, tra la condizione di
Dio e la condizione di uomo (per un Dio che si fa uomo tutte le scelte sono
possibili, soltanto bisogna chiedersi: quale ha senso?) scelse quest’ultima,
apparendo nel mondo rivestito soltanto della sua dignità umana; scelta con la
quale ha poi fatto i conti per tutta la vita, adottandola finanche a livello
linguistico per qualificare sé stesso (Mc.2,10: ”Perché sappiate che il Figlio
dell’uomo ha autorità di perdonare i peccati sulla terra[…]”, linguaggio
sicuramente inusitato per parlare di sé). La “scelta” necessariamente fu opera
del Kúrios, al cospetto di una coscienza umana di Gesù ancora da formarsi. E
qui inizia in qualche modo l’analogia: l’uomo impiegò qualcosa come
trent’anni (lo sappiamo non da Marco ma da Lc.3,23) per armonizzare il
passo, e aderire in piena libertà e consapevolezza a quella scelta. Fu al

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battesimo e alla teofania che si raggiunse, potremmo dir così, la massa critica.
Allora Gesù fu pronto non solo per essere unto ma anche per essere cacciato:
cacciato dallo Spirito a cacciare gli spiriti del male per far posto allo Spirito
di Dio! C’è una fretta dello Spirito qui, e si può capire: urge il battesimo in
Spirito annunciato da Giovanni. Come c’è una fretta del Padre che mette
fretta a tutti, angelo e tu e popolo, Spirito compreso. Il tempo aveva
sbadigliato per secoli, ora è in preda a una fretta irrefrenabile. E in un attimo
“il tempo è compiuto” (Mc.1,15)!
Ho detto sopra dell’allegoria: essa non riguarda solo i 40 giorni; in
un’allegoria ogni immagine, ogni metafora, esige d’essere tradotta altrimenti
non è allegoria.
E fu nel deserto. Il deserto è meno un luogo geografico e più un luogo
teologico, il modo d’essere del mondo dopo il peccato, disordinato inospitale
conflittuale, quasi un ritorno al Cháos di contro al kósmos della creazione. Non
solo è altro dal paradiso, porta i segni del peccato e della condanna. È Dio
infatti nella sua collera a far deserta la terra e le città, che diventano covi di
spiriti cattivi e di fiere di ogni specie (Is.6,11ss; 34,10ss); ed è ancora Dio,
quando lo voglia, a fare del deserto un giardino (Is.35,2 LXX: “fioriscano e si
allietino le solitudini del Giordano”!).
Per 40 giorni. I 40 giorni sono la storia della salvezza che sfida il
deserto, attraversandolo con la forza di Dio, e ne muta l’identità: i 40 giorni
o anni del popolo dell’alleanza, i 40 giorni di Mosè, di Elia, di Gesù; 40 giorni
per l’intero arco della sua attività di Messia-Servo, ma anche per il compendio
di tutta la storia santa; il gravitare di essa su quel punto in cui ha compimento,
per tornare ad espandersi finché il Padre vorrà. Si deve leggere infatti in
questa prospettiva di storia della salvezza lo iato che solo Marco presenta,

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quando scrive “Io vi battezzai-ebáptisa (aor.) in acqua, lui invece battezzerà-
baptísei (fut.) in Spirito Santo” (v.8). Matteo e Luca hanno il presente “io vi
battezzo”, dove Marco ha l'aoristo “battezzai”: il battesimo in Spirito si colloca
a una distanza abissale dal battesimo di Giovanni. Trascurando ciò, ci si
condanna a non conoscere Marco, a confonderlo con un’abbreviazione!
Tentato da satana. In greco satana ha l’articolo; la prima volta, Giovanni
e Gesù sono senza articolo: questo fa pensare che satana non sia nome proprio:
è l’avversario, come in Giob.1,6 passim. Può essere ora il serpente ora
Beelzebul principe dei demoni (Mc.3,22; Marco non usa mai il termine
diavolo, spesso invece demonio o spirito immondo). Chiunque si oppone alla
via di Dio che Gesù intende seguire è satana, fosse pure Pietro (Mc.8,33).
Marco però riserva nel seguito del Vangelo il verbo “tentare-peirázein” agli
avversari classici di Gesù, farisei scribi sacerdoti (cfr.8,11; 10,2; 12,15); la
loro ostilità arriva al punto di tramare (già in 3,6) e infine portare a termine
la sua uccisione. Dunque, fuori allegoria, nei giorni di Gesù sono essi
soprattutto satana, hanno qualcosa di lui, fanno il lavoro sporco per lui! Senza
generalizzare però: non si dimentichi che Marco, a differenza dei sinottici,
presenta il dottore della legge nell’atto di porre una domanda onesta a Gesù,
ottenendo in risposta un insolito riconoscimento “Non sei lontano dal regno
di Dio!” (12,34).
Stava con le fiere [ên metà tôn theríon]. È importante il modo d’essere di
Gesù. Con Gesù è entrata nel mondo la sim-patia di Dio. Il popolo aveva
conosciuto già l’operare potente di Dio, non ancora la sua sim-patia, il patire
insieme, l’affrontare la lotta dal di dentro per conto dell’umanità, financo
dove nessuno avrebbe potuto seguirlo e anche i migliori l’avrebbero
abbandonato. È falso ritenere, come spesso si fa, che qui si sia voluto ricreare

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l’atmosfera idillica del paradiso; se qualcosa di paradiso verrà, sarà dopo una
lotta tragica. Fuori allegoria, cosa si indica con le fiere-tà thería? Il termine è
un hapax dei Vangeli; le fiere sono tutti, uomini e donne, singoli e folle. Marco
non usa laós-popolo (eletto) se non per riferire o citazioni o stati d’animo dei
capi; dice invece abitualmente óchlos-folla, in un frangente plêthos-
moltitudine. Non s’è mai visto un deserto tanto affollato! Anche con
Giovanni lo fu? Infatti, fu l’uno la preparazione dell’altro.
Quella di “essere con-eînai metà (+genit. di compagnia)” è
un’attitudine di Gesù di valore assoluto per Marco. Se “essere fuori-eînai éxo”
(Mc.1,45) dipende dalla cacciata, essere-con precisa il rapporto che Gesù,
stando fuori, instaura con gli uomini. Per capire questo linguaggio bisogna
ricordare che nel VT questo era il modo della guerra santa: “Iahweh degli
eserciti è con noi” ripete come un ritornello Salmo 45, “Venite, ammirate le
gesta di Dio[...] fa cessare le guerre spezza gli archi rompe le lance brucia nel
fuoco gli scudi” (Sal.45,9.10), fino alla profezia dell'Emmanuele-Dio con noi
(Is.7,14). Detto ciò bisogna ricordare il racconto di Noè: vi ricorre
un’espressione simile, rovesciata, “le fiere che erano con lui [tà thería hósa ên
met’autoû]” (Gen.8,1.17 LXX); e ricordare Dan.4,17a “egli era con le fiere”,
senza dimenticare “l’alleanza con le fiere” di Os.2,20 LXX, espressione forte
che non può essere sfuggita a Marco, dato il contesto in cui si trova e su cui
torneremo. Il Kúrios partecipa non in via astratta all’umanità né a un’umanità
paradisiaca, bensì all’umanità nella condizione nella quale l’ha sprofondata il
peccato, pur essendo lui senza peccato; alla fine gli uomini si troveranno
salvati, per la potenza di Dio, da colui che per loro ha perduto sé stesso nella
più abissale lontananza da Dio.

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E gli angeli lo servivano. Dovremmo essere avvertiti: all’inizio del
grande midrash c’era un angelo, ed aveva i tratti di Giovanni Battista; qui al
termine del dittico cosa ci si può aspettare, se non che gli angeli abbiano i
tratti di uomini e donne? Il verbo “servire-diakoneîn” nel Vangelo di Marco
torna in tutto tre volte: due volte si dice delle donne che servono
(Mc.1,31;15,41); la terza volta (doppia) Gesù insegna ai discepoli il servizio,
che non è dunque una prerogativa femminile, e propone il suo esempio:
“Infatti il Figlio dell’uomo non venne per essere servito ma per servire…”
(10,45). Visto che delle fiere s’è detto che erano uomini e donne, è pertinente
la domanda: questi angeli sono un altro tipo di uomini e donne? sono forse gli
ebrei-angeli di contro ai pagani-fiere? … Mai più! non è questione di
discendenza o altro ma di rapporto. Sono tutti della stessa pasta, c’è però chi
si è posto, perché chiamato, in un tipo di rapporto con Gesù diverso tanto da
satana che dalle fiere. Essi sono le fiere che “stavano con lui” (Mc.3,14; 5,18),
se si vuole riprendere ora l’espressione da Noè, o che lo “avevano con sé”
(2,19; 8,14; 9,8), che dunque si lasciavano sollevare in qualche modo fino a
Gesù. Ma, e questa è la grande risorsa di Marco, dal momento che Gesù è
fuori perché cacciato non c’è più esclusione: se gli altri, le folle non sono con
lui, lui però “è con loro”. E da Risorto assicurerà un seguito a tutto ciò, in
potenza.

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Capitolo 3
Le 4 sezioni che formano il corpo del Vangelo

Dopo la sezione introduttiva, il corpo del Vangelo: è costituito da 4


grandi sezioni per 6 settimane le quali preparano e preludono alla settimana
di Pasqua in Gerusalemme (le due sezioni finali).
Esiste un forte legame fra le sezioni. In particolare le prime tre hanno
alla base una struttura comune: sommario iniziale e pericope dei discepoli;
un centro della sezione di proporzioni differenti ma sempre caratterizzato da
marcata dualità, con una o più pericopi a fungere da cerniera; una pericope
conclusiva tesa ogni volta a denunciare l’incomprensione nei confronti di
Gesù. Ed ecco il motivo dell’adozione di una struttura comune, i crescendo
dalla I alla III sezione: crescendo riguardante i discepoli (chiamata–elezione
dei Dodici–missione), e crescendo di rivelazione e d’incomprensione (degli
avversari–dei nazaretani–degli stessi discepoli). Non sfugga che in questo
secondo crescendo sono evocate le figure che si trovano accanto a Gesù nel
deserto: satana e fiere e angeli, tutti uniti nell’incomprensione! Un forte
legame fra le 4 sezioni lo esige infine l’unità tematica: Gesù è in Galilea a
proclamare insegnare cacciare demoni guarire, in una parola a seminare il
regno di Dio.

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La Prima delle sezioni centrali (Mc.1,14-3,6) e prima settimana

Esordisce uno stupendo sommario (1,14-15): due versetti che sono


una sintesi adorabile, divina direbbe s. Agostino, degli inizi dell'evangelo in
Galilea.
“Dopo che Giovanni fu consegnato, Gesù venne in Galilea proclamando
l’evangelo di Dio e dicendo: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi
e credete nell’evangelo”.
Marco si conferma attento: l’opera di Gesù inizia col compimento di
quella del Battista. Non scrive passati i 40 giorni perché fuori allegoria i giorni
di Gesù iniziano proprio qui. Ci torneremo più volte sul contenuto di
quell'annuncio.
Alla proclamazione rivolta a tutti e che tutti interpella, l’evangelista
fa seguire l’altro gesto fondante: la chiamata dei primi discepoli, i fratelli
Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, alla quale subito rispondono
lasciando tutto e andando dietro a lui (1,16-20). Le fiere e gli angeli
cominciano a prendere vita propria intorno a Gesù.
Il corpo della sezione si apre con un complesso che come tale non ha
traccia nelle Fonti scritte (Matteo, che solitamente è un ottimo testimone
della tradizione, qui tace): è noto agli studiosi come la giornata di Cafarnao, o
anche come la giornata-tipo di Gesù (1,21-39), ed è ascritta a Marco (l'eco di
Pietro?). Il racconto inizia con l’entrata in città in compagnia dei quattro
discepoli, l’insegnamento in sinagoga che impressiona subito “perché
insegnava come avendo autorità e non come gli scribi”, e l’esorcismo che è il
primo prodigio operato da Gesù ed è significativo che sia a favore dell’uomo,
indirettamente della sinagoga, perché l’uomo liberato da satana possa

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ospitare lo Spirito di Dio; poi, passando per la guarigione della suocera di
Simon Pietro (“la febbre la lasciò, e li serviva”) e di molti altri malati e
indemoniati nella serata, si giunge alla preghiera notturna di Gesù in luogo
deserto dove lo rintracciano i discepoli, per sentirsi dire che la sua missione
non è fatta a misura di chi lo vuole e lo cerca, è di tutti, anche di chi non si
dà pena di lui; e li coinvolge: “Andiamo altrove, nei villaggi circostanti,
affinché possa proclamare anche là”. E’ in questa occasione che dice “per ciò
uscii [exélthon]” (1,39), dove Luca ha “per questo fui inviato [apestálen]”
(Lc.4,43): l’espressione di Marco è straordinariamente pregna, infatti non si
riferisce solo al suo uscire nella notte, ma al suo esodo da Dio per farsi uomo
ed essere cacciato presa la forma del Servo che espia per tutti, e ancor prima
al suo uscire da Dio per generazione quale Figlio dal Padre; credo non sia
avventato parlare qui di una traccia di teologia trinitaria, ricercando l’origine
di quel exélthon in Sir.24,3 LXX, dove la Sapienza facendo l’elogio di sé stessa
dice: “Io dalla bocca dell’Altissimo uscii [exélthon]”… Differentemente dal
Vangelo di Luca (dove Gesù non ha ancora discepoli ed è la gente a
rintracciarlo nella notte), in Marco c’è l’occasione per Gesù di dire la prima
volta una cosa riservata ai discepoli (agli stessi quattro che in Mc.13,3). Se
non è la prima delle epifanie segrete (come ebbe a chiamarle Dibelius con
indovinatissimo ossimoro), certo quella notte ci fu rivelazione. Un motivo
ulteriore per attribuire il complesso a Marco si può individuare nel fatto che
egli pensa alla maniera romana (il giorno da mattino a mattino), mentre
conserva le indicazioni della giornata ebraica (da sera a sera, cfr.1,32: la sera
finito il sabato la gente può portare fuori i suoi malati).
E qui noi ci soffermiamo per rispondere brevemente a una questione,
sollevata un secolo fa dal libro di W. Wrede sul Segreto messianico nei Vangeli

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e divenuta celeberrima. Ricorre in questo luogo infatti, mentre Gesù scaccia
lo spirito immondo in sinagoga, la prima intimazione al silenzio: “Fa silenzio
e esci da lui” (Mc.1,25); poco dopo Marco ritorna di proposito sulla cosa
scrivendo: “Egli scacciò molti demoni, e non lasciava parlare i demoni,
perché lo conoscevano” (1,34); in seguito scrive ancora: “Gli spiriti immondi
quando lo vedevano si prostravano a lui e gridavano: tu sei il Figlio di Dio!
Ed egli intimava loro con forza di non farlo manifesto” (3,11-12). In 5,7
l'indemoniato grida: “Che c’è tra me e te, Gesù Figlio del Dio altissimo?”, ma
questa volta si è in terra pagana, in luogo deserto, al solo cospetto dei
discepoli, e non c’è imposizione del silenzio. E non è tutto: si impone il
silenzio ai miracolati (1,44;5,43 etc.), e anche ai discepoli (8,31;9,9); c’è poi
da rilevare l’atteggiamento di Gesù, che insegna in parabole alle folle e riserva
in disparte insegnamenti in chiaro ai discepoli (4,11-12.33-34). Sono una
messe di fatti tale da giustificare la domanda: perché tutto questo? perché un
segreto? Si noti infine che la cosa in Marco è assai più vistosa che non in Mt-
Lc.
Onore a Wrede che per primo capì che qui c’era qualcosa da capire.
Peccato che avesse alle spalle un secolo di razionalismo, e non solo alle spalle
bensì dentro. La soluzione del problema che prospettò era geniale (così
parve), risentiva però di quegli umori. Trascrivo la sicura sintesi che ne fa H.
Conzelmann (Teologia del NT, Paieia-Brescia 1972, pg.181s): “…il fatto che
Gesù nascose la sua messianità non corrisponde alla realtà storica. Si tratta piuttosto
di un’idea della comunità post-pasquale. Gesù stesso non si riteneva affatto Messia. Lo
divenne solo nella fede della comunità. Questo fa sorgere una difficoltà; la tradizione
pre-pasquale costrinse la comunità a trovare una spiegazione: Gesù conosceva la sua
messianità, ma la teneva nascosta” …

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Dato e non concesso che le cose siano andate come vuole Wrede, mi
chiedo perché la comunità (e persino i libri ispirati) avrebbe dovuto fare carte
false affermando che Gesù sapeva mentre in realtà non sapeva: qual era la
difficoltà? doveva forse la comunità nascondere l’ignoranza di colui che
chiamava Signore? oppure mascherare le proprie misere origini per non
doversi vergognare di lui e di sé stessa? Inizierebbe la nuova creazione al
seguito del Risorto falsificando i fatti? una violenza alla storia in nome della
fede pasquale? nulla sarebbe più stato innocente, altro che nuova creazione!
La spiegazione di Wrede, se accettata, comporta una frattura insanabile tra
fede e storia, e dunque tra fede e scienza, tra verità di fede e verità scientifica;
e questo per un cristianesimo che si vuole “religione storica”, dove non c’è
altro che caricarsi di tutto l’uomo e di tutta la sua storia e non è ammesso
fuggire davanti alle responsabilità. È disonesto presentarla come una religione
disancorata dai fatti, e poi punirla perché estranea alla realtà, illusoria e
alienante… E se fosse stato Wrede a tramare contro la storia e la dignità della
fede e della comunità? Si capisce poi un K. Barth che arriva a rifiutare
l'analogia entis per l’analogia fidei, o un R. Bultmann che nega ogni valore alla
storia di Gesù e insegna a non cercare più Gesù di Nazareth per dedicarsi a
conoscere la fede della comunità nel Signore Gesù! …
Più precisamente che s'intende, quando si dice “Gesù non si riteneva
affatto Messia”? ne era soltanto all’oscuro, oppure riteneva positivamente di
non essere il Messia? Nel primo caso, abbiamo già riconosciuto che Gesù sa
tutto e solo quello che il Padre gli dà a sapere, e quindi potrebbe anche
ignorare; ripugna tuttavia pensare che egli non sapesse appieno perché stava
facendo che cosa, come ha diritto ogni uomo, e ancor più l’uomo alla cui vita
e morte è appeso il destino del mondo. Tutti coloro che ebbero assegnato un

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compito nella storia della salvezza, da Noè a Giovanni Battista ai Dodici,
erano chiamati e messi a parte: proprio a Gesù toccherebbe l’unica eccezione?
Si dirà che Isacco sulla via del sacrificio non sapeva (“Padre mio […] ecco qua
il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?” Gen.22,7): non
sapeva, infatti non è stato sacrificato; ci fu solo il sacrificio del cuore
dell’uomo Abramo davanti ai progetti di Dio. Nel secondo caso, non solo
Gesù non si riteneva Messia, ma insegnò coerentemente che non lo era, e
disapprovò quanti come Pietro lo confessarono Messia… Lo divenne solo nella
fede della comunità: dunque non è mai stato storicamente Messia!
Conseguenze? a cascata! Se Gesù non era Messia, non era neppure Figlio di
Dio: lo sa bene Matteo che fa confessare a Pietro, “Tu sei il Messia, il Figlio
del Dio vivente” (Mt.16,16); infatti se non è il Messia promesso non è
neppure “Dio con noi” (Is.7,14), e non è la forma che annoda tutte le fila
della storia della salvezza. E se non lo è, la sua vita e la sua morte non sono
quell’obbedienza assoluta della prole benedetta che ha vinto il serpente
antico, né il suo è per intero il sacrificio del Servo che riscatta i suoi dai loro
peccati. Il peccato del mondo rimane. I discepoli l’hanno chiamato Maestro,
ma di lì a poco ne avrebbero saputo molto più di lui; peggio, lo avrebbero
saputo nonostante lui! in una linea non solo spezzata ma di senso opposto.
Si insiste che non ci fu continuità tra l’esperienza di Gesù prima di
Pasqua e l’esperienza della comunità dopo Pasqua. Certo ci fu discontinuità,
perché tutto ciò che costituì quell’esperienza non divenne pacificamente
patrimonio dei discepoli (al modo che passò a noi la fede della comunità), a
motivo della loro incomprensione e della morte che sigillò lo iato. Ci fu però
anche una continuità inattesa, perché gli spiriti umani che lo Spirito Santo
riunì nella fede pasquale erano quegli stessi che avevano visto e ascoltato e

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toccato con mano, e conservavano frammenti dell’esperienza con Gesù
(“dodici ceste” e “sette sporte”! Mc.6,43;8,8). Mai fu fatta cosa più inutile, si
direbbe, che raccogliere quei frammenti, anche se fu lo stesso Gesù a
ordinarlo: perché nessuno sa dove siano finiti o a che siano serviti; il loro
ingombro è subito scomparso… Finché Gesù non è risorto! Ci fu un risveglio
traumatico, e un incontro cui Marco rimanda senza violarne il mistero. Chi,
come le donne, aveva retto bene di fronte alla morte, davanti al solo annuncio
del Risorto fugge terrorizzato (16,8). Da quel momento, tutto ciò che Gesù
era stato, tutto ciò che egli aveva detto e fatto, è risorto vivo: chi oserà farlo
oggetto di menzogna? Le dodici ceste con quei frammenti dimenticati
acquistano di colpo il loro senso e il loro pregio: infatti lo Spirito Santo non
suscita una comunità qualsivoglia, ma la comunità dei discepoli di Gesù, che
appaiono adesso come api di ritorno: s’imbrattarono ingurgitarono polline
senza capirne niente, ora rigurgitano miele. Certo quei frammenti non erano
ancora l’evangelo, ma erano l’unica cosa in grado di diventarlo, alla luce della
Pasqua. Qualcosa di simile avvenne per pochi istanti delle povere vesti di
Gesù, alla luce della Trasfigurazione.
Non esiste delitto perfetto, e neppure a Wrede è riuscito. Se il
problema era costituito dall’ignoranza di Gesù, coperta furbescamente con il
segreto messianico, perché i discepoli non avrebbero tolto di mezzo anche il
battesimo di Gesù, un indizio ingombrante lasciato chissà come sul terreno:
incoerenza inesplicabile! della comunità o del sistema di Wrede? E non è
l’unica. Fu cura della comunità pasquale riconoscere onestamente la passata
incomprensione, tendenza che si va attenuando nel tardivo e un po’
agiografico Matteo, ma non in Marco, il quale fa addirittura del tema
dell’incomprensione (intimi di Gesù compresi) uno degli elementi strutturali

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del suo Vangelo: se fosse stata la comunità a provare difficoltà come vorrebbe
Wrede, perché avrebbe dovuto inventarsi il segreto quando aveva la risposta
bell’e pronta? Gesù è diventato Messia soltanto nella fede pasquale proprio
perché in antecedenza i discepoli non avevano compreso nulla… Già, non
sarebbe bastato, la difficoltà era di Wrede e non della comunità, si voleva
escludere che Gesù fosse Messia Figlio di Dio Kúrios! Ma a quel punto, di
grazia, che ci stava a fare l’incomprensione se non c’era nulla da
comprendere?
C’era un segreto, eccome! Ma non servì a nascondere quello che ha
sospettato Wrede. Marco l’accentuò fortemente, tuttavia era già presente
nella tradizione di Gesù (lo riconosce lo stesso Conzelmann), anzi risaliva
senz’altro a Gesù: un’esigenza vera di nascondimento su cui la teoria di Wrede
ebbe l’effetto di un depistaggio, a tutto danno della ricerca scientifica nonché
della fede. Gesù era in attesa di proclamazione, da parte del Padre però e
delle opere che gli dava a compiere (“Io ho una testimonianza più grande di
quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere[...] queste
mi danno testimonianza[...] E il Padre stesso che mi ha mandato mi dà
testimonianza” Gv.5, 36s), non dunque da parte degli uomini, tanto meno da
parte dei demoni: tutti costoro sapevano qualcosa, ma non erano disposti a
riconoscerlo Messia e Signore; che lasciassero parlare le opere dunque! Sul
tema del nascondimento torneremo.
Riandiamo al testo di Marco e al corpo della sezione nel punto in cui
l’abbiamo lasciato. L’episodio del lebbroso (Mc.1,40-45) funge da cerniera: da
un lato la giornata di Cafarnao, dall’altro i cinque contrasti con gli avversari
(2,1 – 3,6). In Marco l'episodio del lebbroso ha trovato una collocazione
eminente e la meritava, carico com'è di significati e di mistero. Subito appare

83
come un masso erratico, privo di indicazioni di tempo e di luogo; potrebbe
figurare in qualsiasi pagina del Vangelo, tanto è sprovvisto di contesto. Gesù
è solo, stranamente non ha discepoli con sé, anzi non ha nome e neppure
titoli (qui Marco presumibilmente de-pascalizza la sua Fonte: Kúrios, presente
in Mt.8,2 e in Lc.5,12, non compare in Marco e la sua caduta è coerente con
la scena), alla fine sarà anche senza volto! Tutto ciò non può che essere
intenzionale: il racconto è attraversato da grande tensione e risulta costruito
con cura, con una bella inclusione: E viene a lui…v.40, e venivano a lui…v.45.
Si deve leggere sullo sfondo del racconto di Naaman il lebbroso, già
sopra ricordato, con il quale ha più di un contatto, soprattutto la mondazione
espressa con raddoppio: “la sua carne tornò come la carne di un giovinetto e
fu mondato [kaì ekatharísthe]” (2Re 5,14), “e andò via da lui la lebbra e fu
mondato [kaì ekatharísthe]” (Mc.1,42). La lebbra non è qualcosa che si
guarisce o si cancella e tutto è finito lì; come il peccato, ha bisogno di un
sacrificio rituale, di qualcuno che la distrugga nel proprio corpo (compito a
cui in Israele erano chiamati gli animali). Così: che Gesù tocchi il lebbroso
che significa, se a quel punto “la lebbra andò via” dal lebbroso? e “Voglio, sii
mondato” che significa, se chi lo dice non è il Kúrios nella forma della potenza
ma nella forma del Servo “venuto […] a dare la vita in riscatto per molti”
(Mc.10,45)? Mentre monda il lebbroso, Gesù diventa lui stesso il lebbroso…
Quello che era implicito al Giordano, qui è dichiarato.
Alla fine sarà senza volto, ho detto: è il senso di quella frase
enigmatica in chiusura, “non poteva più entrare in modo manifesto in città, ma
stava fuori in luoghi deserti” (1,45), con cui ritengo che Marco intenda
richiamare lo statuto del lebbroso: “Il lebbroso […] si coprirà la barba […] se
ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento” (Lev.13,45-46).

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Tutto questo testimonia dell’enorme profondità con cui Marco
rilegge la tradizione di Gesù, lettura lontana da Mt-Lc e così vicina invece al
sentire del IV Vangelo. Marco pensa al Carme di Isaia in cui il Servo è
descritto come un lebbroso, “ultimo degli uomini, come uno che si copre il
volto” (Is.53,3 e non “come uno davanti al quale ci si copre la faccia” della
tradizione ebraica e della traduzione CEI). Questo stato del Servo è dovuto
al peccato degli uomini (53,5ss), il fine è il sacrificio nel quale si offrirà per
la loro salvezza (vv.10-12): in Isaia come in Marco, il Servo è un po’ lebbroso
e un po’ agnello del sacrificio. La vittima dell’espiazione non era un “agnello”
(v.10 ebr. asham, LXX amnós”) se non nel rito per il lebbroso e il nazireo (cfr.
Lev.14,12). In Marco manca solo il termine “agnello”; non manca però nel
IV Vangelo, là dove il Battista addita Gesù: “Ecco l’agnello [íde ho amnòs] di
Dio, che porta il peccato del mondo” (Gv.1,29)!
Che il sacrificio sia l’orizzonte della pericope marciana del lebbroso
lo rivela alla sua maniera l’evangelista: il termine leprós ritorna soltanto
un'altra volta in Marco (14,3) e siamo alla vigilia della Passione, Gesù è a cena
“in casa di Simone il lebbroso”, dove sarà “unto per la sepoltura”. Certo non
possiamo dirlo con sicurezza ma affascina pensarlo: il lebbroso mondato da
Gesù e questo Simone sarebbero la stessa persona; gli è rimasto l’epiteto ma
non la lebbra, altrimenti non starebbe lì: chi gliel'ha tolta? Marco non dice
espressamente che è stato Gesù ma sembra far di tutto per provocarci a
pensarlo: tre o quattro contatti letterari chiari legano l'episodio della
mondazione del lebbroso con ciò che si compie in questa casa. Quella sera in
casa di chi fu lebbroso si annuncia imminente la morte sacrificale di Gesù: ed
“era Pasqua di lì a due giorni” (14,1)!

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I cinque contrasti (2,1-3,6), di cui l’ultimo è anche la conclusione della
sezione (3,1-6). Era stata felice l’idea di offrirci in apertura una giornata-tipo
per farci gustare la trama intensa dei giorni di Gesù. Altrettanto felice mi
pare, dopo l’episodio-cardine del lebbroso, il proposito di passare in rassegna
mediante l’artificio dei confronti dialettici alcuni temi sensibili della
religiosità ebraica costretti d’ora in poi a misurarsi con la novità di Gesù.
Vengono alla mente i cinque “Avete udito…Ma io vi dico…” di Mt.5,21ss, dove
tuttavia non risultano coinvolte così direttamente le persone (Gesù - scribi e
farisei - discepoli e folla). È una serie di cinque quadretti, imitata dal solo
Luca (5,17–6,11); in Matteo infatti la si trova spezzata in due tronconi: in
9,1ss i primi tre; in 12,1ss gli altri due. È probabile che nella tradizione prima
di Marco fluttuassero senza una collocazione fissa. Il primo e l’ultimo
contengono un miracolo, ma sono come gli altri insegnamento [didaché]:
l’insegnamento di Gesù è costituito insieme da parole e fatti prodigiosi, come
si era già visto nella sinagoga di Cafarnao (Mc.1,21-28).
Si avverte a ogni passo la verginità degli inizi; solo l’ultimo già
incupisce e registra l’esplodere dell’odio (3,1-6). Fino a quel punto Gesù
stesso sembra non credere alla possibilità del rifiuto: nelle sue parole c’è
fiducia lirismo, come quando dichiara senza ambagi gli otri vecchi fuori corso,
inadatti al nuovo, perché “vino giovane in otri nuovi” (2,22). I presenti (“la
folla [ho óchlos]” compare la prima volta in 2,4) sono pronti all’entusiasmo
allo stupore alla lode di Dio. Gli avversari a loro volta (gli scribi evocati in
1,22 si materializzano in 2,6) appaiono timidi; avvertono subito il pericolo di
Gesù, ma esitano ad attaccarlo direttamente…
Solo Dio può perdonare i peccati, dicono tra sé e sé gli scribi (2,1-12).
Gesù non intende certo mettere in dubbio che il perdono è da Dio (Is.43,25;

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Es.34,6ss); e dunque l’accusa che gli sussurrano contro, di bestemmia, è
rozza. Egli afferma che il Figlio dell’uomo (non qualunque uomo; Matteo,
che pensa già alla chiesa, mostrerà la folla nell’atto di glorificare Dio “perché
ha dato una tale autorità agli uomini” Mt.9,8) “ha sulla terra autorità di
perdonare i peccati”: da chi l’ha, se non da Dio? È quindi solo una questione
di percorso: gli scribi pensano che l’uscita di Gesù non è ortodossa, perché
non rispetta il percorso rituale a loro noto. Allo stesso modo la samaritana
giudicava che per dar da bere bisogna disporre di un pozzo di un secchio e di
una tazza, e Gesù non ha nulla di tutto ciò, anche se vanta un’acqua che “chi
ne beve non avrà più sete” (Gv.4,5ss). Gesù non nega che c’è un percorso,
né che è Dio a dettarlo, ma (e qui sta la novità) proclama che lui è l’unico
percorso! L’uomo dovrà solo lasciarsi perdonare. E come scroscio
improvviso, “i tuoi peccati sono perdonati” (pres.); Luca spiega: “sono stati
perdonati” (perf.). Il perdono è talmente legato alla sua persona ed egli è tale
garanzia agli occhi del Padre, che il perdono è dato a sacrificio non ancora
consumato. Del resto dove prendevano i sacrifici antichi la loro efficacia sul
peccato, se non dal fatto d’essere figura e profezia dell’unico sacrificio? … Il
rapporto con la guarigione poi non è esteriore, non c’è forzatura né
strumentalizzazione: la malattia ha la sua radice nel peccato del mondo e non
è proporzionata al peccato della persona; c’è relazione col peccato non
proporzione, così che nessuno possa dire: la tua malattia è più grave, per ciò
il tuo peccato è più grande del mio! Con la guarigione Gesù dona al malato
un anticipo della sua risurrezione (e della sua morte sostitutiva, in vece
nostra), e ai presenti la prova che il suo perdono è ortodosso, infatti può
vantare l’approvazione di Dio. La folla, fuori di sé non per il timore questa

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volta (al contrario Mt-Lc) ma per la gioia a nome della terra intera, dà gloria
a Dio: “Non abbiamo mai visto tanto!”. Come si fa a non crederci?!
Perché mangia con i pubblicani e i peccatori? (2,13-17). A margine della
chiamata di un gabelliere, festeggiano Gesù con un bel banchetto. Gli scribi
ne fanno le meraviglie coi discepoli [mathetaí], che compaiono qui la prima
volta con questo nome. Nell’occasione gli scribi rimproverano a Gesù di
comunicare con gente scomunicata; il senso è: se fosse da Dio, saprebbe
scegliere altrimenti i suoi amici; lo fanno però con i discepoli, forse il primo
tentativo di subornazione e istigazione contro il Maestro. Anche nel paradiso
la tentazione aveva avuto a che fare con il mangiare… e fu un tentativo
riuscito di minare la fiducia in Dio! La risposta di Gesù basta a far sfumare il
pericolo. Egli cita un proverbio: “non hanno bisogno del medico i forti ma i
malati”! Che ci farebbe un medico tra gente che scoppia di salute? il posto del
medico è tra i malati. Sotto sotto s'indovina una punta nell’espressione
attribuita a Gesù, se sia precedente a Marco è difficile dire, ma c’è: è in quel
participio presente “hoi ischúontes” (il verbo greco ischúo significa riprendo le
forze, ma anche sono forte). Luca preferisce un’espressione più chiara (“i sani
[hoi hugiaínontes]” Lc.5,31), priva però di carica allusiva. I forti [ischúontes]
ricorre in alcuni testi di Isaia, che sono il rovescio delle beatitudini (un po'
come in Lc.6, 24-26): “Guai ai forti d’Israele: non si placherà il mio sdegno
nei confronti di chi mi avversa” (Is.1,24 LXX; cfr. Is.5,22-23). Nei forti che
confidano nella propria sufficienza (“Maledetto l’uomo che confida
nell’uomo” Ger.17,5) c’è qualcosa di satana che rende il loro peccato
imperdonabile (cfr. Mc.3,27ss). Gesù è uscito dal Padre con un mandato
preciso: “non son venuto a chiamare giusti ma peccatori”! con ciò egli mette
in chiaro che non esistono giusti, ma se proprio vogliono considerarsi tali a

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differenza di tutti gli altri, gli toccherà fuori (come a Pietro che non voleva
lasciarsi lavare i piedi, Gv.13,6ss). Tradurre “non a chiamare i giusti ma i
peccatori” come si fa di solito è grossolano oltreché non fedele al testo che
non ha articoli, sarebbe farne due categorie contrapposte quando c’è una sola
umanità mortalmente afflitta dal peccato. Bellissimo poi è l’uso secco del
verbo “chiamare [kaleîn]”; Luca dice “chiamare a conversione”, ma così è tal
quale abbatterne il vigore immenso: chiamare, certo anche a conversione, ma
perché non anche al banchetto del regno, a credere nell’evangelo, a lasciarsi
amare e perdonare da Dio?
Perché i tuoi discepoli non digiunano? (2,18-22). La preparazione (v.18a)
può sembrare elementare, ma l’originalità di Marco sta proprio lì: le
occasioni di confronto tra Gesù e i suoi avversari non sono scolastiche,
prendono le mosse dalla vita, come la conclusione tragica rivelata qui la prima
volta (“sarà tolto via da loro lo sposo” v.20). A domanda particolare, Gesù
come sempre dà una risposta universale. Marco, e lui solo, la offre nella veste
di due parallelismi del tipo più raffinato, quello chiastico:

“Forse che gli invitati alle nozze possono digiunare - mentre lo sposo è con loro?
fintantoché hanno lo sposo con loro - non possono digiunare.

Ma verranno giorni - quando sarà tolto via da loro lo sposo,


e allora digiuneranno - in quel giorno”.

Marco parlando di Gesù gioca volentieri con l’espressione con loro


[met’autôn]. Qui in particolare ottiene, più di Mt-Lc, di attirare l’attenzione
sullo sposo (3 volte); inizialmente parrebbe solo una similitudine, poi si

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comprende che Gesù parla di sé quando dice “sarà tolto via da loro lo sposo”.
Tornano alla mente le immagini nuziali che Iahweh aveva usato per esprimere
il suo rapporto con il popolo dell’alleanza (Os.2,21ss). La novità è nel motivo
dello sposo riferito a Gesù e al suo tempo: una festa per i discepoli, come lo
è per pubblicani e peccatori, e dovrebbe esserlo per tutti se solo volessero
prendervi parte. Colpisce l’incongruità di uno sposo tolto via da loro, un fatto
misterioso e tragico che segnerà la vita dei suoi amici: quello sarà il loro
digiuno. È il caso di ricordare che nel Vangelo di Marco Gesù è per
antonomasia il pane? Dunque verrà loro a mancare il pane! Digiuno di un
giorno: né Marco né Gesù, a quanto pare, traboccano di simpatia per il digiuno
come osservanza religiosa: nella linea dei profeti (Gl.2,13; Is.58,5ss), ha più
senso infatti se il digiuno viene dalla vita, massimamente da un rapporto di
fedeltà e di comunione con Gesù. Matteo invece, che non disdegna la pratica
del digiuno (è l’unico a scrivere che Gesù nel deserto digiunò 40 giorni e 40
notti, Mt.4,2), sembra non voler abbattere i tempi e dice “allora
digiuneranno” (9,15). Luca per parte sua fa la cosa più logica: avendo scritto
come Marco: Verranno giorni […], conclude con “allora digiuneranno in quei
giorni” (Lc.5,35), e potrebbe essere un’allusione al triduo pasquale. Perché
Marco ha preferito in quel giorno? … È difficile da spiegare, ma si può essere
certi che un’idea Marco ce l’aveva nella testa, e non disperiamo di scoprirla.
Seguono due similitudini: il panno grezzo e il vestito vecchio; il vino
novello e gli otri vecchi. Se facessero in origine parte della pericope,
discutono gli studiosi. La risposta di Gesù ha prospettato fin qui due tempi:
presenza dello sposo e dovizia, sottrazione dello sposo e digiuno. Le
similitudini prospettano anch’esse due tempi, ma sono altra cosa: ciò che
accade nell’opera di Gesù sembra più il NT di contro al VT. L’arrivo del

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nuovo decreta il tramonto del vecchio, non c’è un nuovo da cucire sul
vecchio; il NT compie e realizza il VT, se questi si lascia esaurire nel nuovo,
la sua vita essendo la sua morte. Lo aveva promesso Dio, che avrebbe fatto
una cosa nuova, nel deserto, tale da far dimenticare tutte le cose passate
(Is.43,18ss;65,17ss). Eccola! sembra dire Gesù. Non c’è condanna del
vecchio in nome del nuovo. Ma ci sarà condanna del nuovo in nome del
vecchio? … Se il vino novello è l’evangelo, gli otri nuovi sono quanti si lasciano
rinnovare da Gesù; in questo senso non c’è otre vecchio che non possa
diventare nuovo. Lo sposo le nozze il vino il nuovo: sono tutte immagini del
tempo messianico (cfr. Gv.2,1ss; Apoc.21,2.9).
Perché fanno di sabato ciò che non è lecito? (2,23-28). I farisei sono
preoccupati di difendere il confine tra lecito e illecito, riguardo al sabato. Ma
a che giova? sono sempre sotto la legge, dunque nel peccato, senza la novità
di Gesù. Recitava un detto rabbinico: “Il comandamento del sabato
controbilancia tutti gli altri comandamenti della Legge”. Significativa distanza
da Gesù! per lui il primo tra i comandamenti è l’amore: “Amerai il Signore
Dio tuo…Amerai il prossimo tuo” (Mc.12,29ss); Matteo chiosa: “Da questi
due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Mt.22,40). Il sabato
era insieme un dono (partecipare al riposo di Dio) e una responsabilità: “Israele
fu creato perché ci fosse anche sulla terra chi osservava il sabato”
(Giubil.2,18ss). La cosa era talmente grande, che un israelita poteva essere
sacrificato se violava il sabato (Num.15,32-36).
“Non avete mai letto cosa fece Davide quando fu nel bisogno ed ebbe
fame lui e quelli con lui [hoi met’autoû?]”. La risposta di Gesù passa per una
citazione che all’apparenza è fuori tema, non c’entra nulla col sabato; c’entra
invece col lecito e l’illecito, e c’entra ancora una volta (la terza) col mangiare.

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Soprattutto la citazione serve a Marco per alcune allusioni che gli interessano:
Davide e Gesù… Davide e quelli che stavano con lui, come Gesù e quelli che
stavano con lui (Mc.3,14)… Davide e la casa di Dio, Gesù e la casa di Dio (“La
mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli…” Mc.11,17)… Resta
una domanda: gli fu consentito mangiare di quei pani riservati ai sacerdoti,
perché Davide era il re o perché il pane rimane fondamentalmente fatto per
l’uomo e in caso di necessità non fa differenza se si tratta dei pani
dell’offerta?…
A questo punto si capisce il seguito di Marco: “Il sabato fu fatto per
l’uomo e non l’uomo per il sabato”. Si tratta di un’aggiunta di Marco che non era
nella Fonte: infatti non appare né in Matteo né in Luca né in alcun altro luogo;
inoltre Marco firma l’inserzione con il passaggio a lui abituale, “e diceva loro
[kaì élegen autoîs]”. Se l’è inventato? evidente che no! può aver attinto alla
tradizione orale, o più probabilmente può aver seguito il pensiero di Gesù
fino a esplicitarlo del tutto. La pericope (è detta apoftegma, sentenza
inquadrata) era tramandata certamente in funzione della sentenza finale “Il
Figlio dell’uomo è Signore del sabato” (v.28), come confermano i sinottici.
Sembra di capire: come il re Davide fu padrone di mangiare i pani
dell’offerta, allo stesso modo il Figlio dell’uomo è padrone di fare del sabato
quello che vuole. Marco non se ne sta: è una risposta troppo elitaria e troppo
poco nuova per soddisfare Marco. Beata insoddisfazione! ci ha regalato uno
dei pilastri su cui poggia non solo la nostra civiltà ma ogni civiltà degna di
questo nome. Tutto è per l’uomo: è lui la causa per cui fu fatto il sabato e
infinite altre cose, per lo stesso motivo il Figlio discese dal cielo (per noi uomini
e per la nostra salvezza!); non la causa finale (il fine) la quale non può essere

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che Dio e la sua gloria, ma il motivo la causa determinante (in gr. diá+acc.) è
l’uomo per Marco e, si badi, per Gesù!
Ci sono due latinismi nella pericope. Uno è di natura letteraria:
“hodòn poieîn” (v.23) come “iter facere-camminare”, quando in buon greco si
sarebbe dovuto usare il medio “hodòn poieîsthai”. L’altro di natura ideale:
l’incontro con la romanità, il mondo classico a cui Marco era già aperto e che
non poteva togliersi dalla mente (perché non ricordare Eschilo?), consentì
all’evangelo di sprigionare tutta la sua immensa energia. Paolo (e una gran
parte di quei discepoli), che era rappresentante di una monocultura ebraica e
biblica, poteva fare uso della cultura classica ma lo faceva strumentalmente
(cfr. Atti 17,28). Marco invece già pensava occidentale, fu il primo degli
occidentali; ed era troppo in anticipo sui tempi, anche per ciò non fu
compreso.
Di sabato è lecito far bene o far male, salvare una vita o ucciderla? (3,1-6).
La pericope finale richiama l’inizio del corpo della sezione, infatti fa il paio
con 1,21ss: siamo di nuovo nella sinagoga (di Cafarnao) di sabato, e in luogo
dell’indemoniato nella sinagoga c’è un uomo con la mano inaridita. Al centro
dell’interesse di Gesù come di Marco, ancora l’uomo! Ma il clima s'è
guastato, compare già l'incomprensione. La domanda di Gesù è provocatoria,
e il silenzio dei farisei denuncia ostilità. Il loro atteggiamento è immortalato
dal verbo “paratereîn-guatare, tenere sotto tiro” (v.2); da ricordare che “tereîn-
aver di mira” è il verbo che in Gen.3,15 LXX descrive il serpente nel suo
mirare al calcagno.
È vero che c’erano prescrizioni precise per il sabato, ma la prima
prescrizione non era forse questa: di non fare il male e di non impedire il bene,
di sabato come d’ogni altro giorno? … Il formalismo dei farisei sembrava

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preoccupato di tutto fuorché di ciò che conta davvero (cfr. Mc.7,1-23: uno
dei più lunghi discorsi del Vangelo di Marco!). Gesù vuol guarire
quell’uomo, e il sabato non glielo impedirà dal momento che il sabato è per
l’uomo: “Stendi la mano! e la stese”. Ancor più vuole salvare i suoi avversari,
guarendo loro il cuore e la mente; ma mentre lui si adopera per salvare, essi
meditano di uccidere, e questo di sabato! Qui Marco descrive Gesù nell’atto
di girare lo sguardo attorno, forse un gesto tipico rimasto nel ricordo dei
discepoli (cfr.3,34; 5,32; 10,23): in quello sguardo c’è l’ira di Dio, e la
tristezza di Gesù (come di fronte alla morte, cfr.14,34), a motivo della
“durezza [pórosis]” del loro cuore (non diversa da quella di Faraone dopo i
segni prodigiosi, e la mano tesa di Dio, Es.7,3.5 ecc.). Escono infatti, e si terrà
il primo conciliabolo per dargli la morte.
Accanto ai legami segnalati va ricordata la stretta analogia tra la prima
sezione qui e la prima delle due sezioni finali della settimana di Pasqua (11,1-
13,37): alla città di Cafarnao con la sua sinagoga qui, fa riscontro la città di
Gerusalemme e il tempio là; una sorta di purificazione della sinagoga (1,21-
27) rimanda alla purificazione del tempio nella città santa (11,15-18); c’è
infine la singolare coincidenza di cinque discussioni di fila nei due casi (cfr.
2,1-3,6 e 11,27-12,37). Marco è il solo ad averle concepite volute e
modellate, queste due sezioni, in modo speculare. Da qui si comprende un
altro intento di Marco: l’ostilità senz’altro prematura e un po’ velleitaria di
questi farisei di Cafarnao (3,6) prefigurava quella ben più consapevole e
determinata dei capi di Gerusalemme (cfr.12,12;14,1-2).
In questa rassegna di cinque quadretti Marco ci ha offerto un saggio
della bellezza che salverà il mondo. È lo splendore del bene, la bellezza; lo
splendore non può che perdersi, ed è così che dà luce e feconda il mondo.

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Che però Gesù venga alla fine soppresso, è indice che c’è una durezza delle
tenebre, che in questo eone la vittoria della bellezza giunge ogni volta non
attraverso la dispersione soltanto ma attraverso lo scempio (per questo la
bellezza dovrà essere sovrabbondante sempre se vorrà spuntarla!); e la
vittoria non sarà mai compiuta, se non nella speranza.

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La Seconda delle sezioni centrali (Mc.3,7 – 6,6a) e seconda settimana

Inizia con un corposo sommario (3,7-12), corposo perché in realtà


sono due sommari uniti insieme: l’uno che fa riferimento al mare (il lago di
Galilea) e alla barca, e presenta l’interlocutore principe, “la folla” (vv.7a.9-
12); l’altro che non ha nulla che fare col mare, e fa comparire un
interlocutore insolito per nome dimensioni e provenienza, è descritto come
“una gran moltitudine [polù plêthos]” (vv.7b-8). Questo secondo poteva ben
essere il sommario che introduceva il Discorso della montagna (cfr. Mt.4,25;
Lc.6,17). Ci sarebbe così la prova (si noti anche il particolare del monte in
Mc.3,13) che Marco è venuto a contatto con la Fonte contenente le
beatitudini. Perché Marco non ha riportato le beatitudini? Bella domanda! È
un peccato comunque che non l’abbia fatto, perché sarebbero state le
beatitudini della povera umanità (o delle fiere, folla e moltitudini insieme) così
come erano uscite dalla bocca di Gesù, e avrebbero potuto far bella mostra
di sé accanto alle beatitudini di Matteo e Luca, che rappresentano lo statuto
del popolo della nuova Alleanza (Mt) e la consolazione dei veri discepoli nelle
loro tribolazioni (Lc). Forse Marco non le ha riportate perché nella
trasmissione avevano perduto la laicità e universalità delle origini, diventando
appannaggio esclusivo dei discepoli; e per altri motivi che diremo di seguito.
Una ripresa invece del primo dei due sommari si rintraccia nella preparazione
della giornata delle parabole (cfr. Mc.4,1), con il motivo del mare, della folla
grandissima, della barca che questa volta Gesù usa davvero sia come stacco
dalla folla sia come cattedra da cui insegnare. Vien da pensare che per Marco
quella barca, con la sua doppia valenza, sia l’icona delle parabole anch’esse
ambivalenti come vedremo.

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Segue la pericope della scelta dei Dodici (3,13-19) che idealmente e
letterariamente è di Marco: non ha corrispondenze in Mt-Lc; è costruita
riprendendo elementi e della chiamata (Mc.1,16-20) e della missione (6,7-
13); elemento esclusivo, oltre all’elenco nominativo dei Dodici, è quel
“perché stessero con lui [hína ôsin met’autoû]”, che è apertamente marciano.
Viene introdotto così il tema principale della sezione che è la nuova famiglia
di Gesù, tema che avrà seguito in particolare nella IV sezione (8,27-10,52: la
comunità di Gesù in cammino, meta Gerusalemme).
Il corpo della sezione amplissimo (3,20-5,43) presenta la nota dualità:
alcune pericopi in formazione a tenaglia (i parenti di Gesù si preoccupano
v.21; gli scribi lo dicono posseduto dal demonio vv.22 - 30; i parenti di Gesù
e la madre vv.31-35) e poi il Discorso in parabole compongono la prima parte
(3,20 - 4,34); la cerniera è costituita dai racconti della burrascosa traversata
del lago (4,35-41: un’epifania segreta) e del primo prodigio in terra pagana
(5,1-20: un esorcismo); il ritorno sulla riva palestinese del lago, con due
miracoli (altra tenaglia) a beneficio di una donna e di una fanciulla (5,21-43),
forma la seconda parte; la pericope finale mostra l’insuccesso di Gesù in
patria, per il rifiuto dei paesani di Nazareth a crederlo (6,1-6a).
Segnalo come si va precisando la domanda che attraversa il Vangelo,
chi è Gesù?, alla quale per noi ha già dato risposta esaustiva la voce dal cielo
(Mc.1,11): nata la prima volta in sinagoga a Cafarnao ma ancora da mettere
a fuoco (“Che è mai questo?” 1,27), sono i discepoli dopo la tempesta sul lago a
formularla meglio (“Chi è costui, al quale obbedisce anche il vento e il mare?” 4,41);
in seguito la domanda passa di bocca in bocca (persino Erode ne è toccato), e
si tentano rudimentali risposte (cfr. 6,14-16); sarà poi Gesù stesso a porla ai
discepoli (“Voi chi dite ch’io sia? 8,29), quindi il sommo sacerdote la

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ufficializzerà al processo (Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?” 14,61): la
risposta di Gesù sarà degna di una condanna a morte. Infine ci sarà la
confessione del centurione (un non ebreo), “Veramente quest’uomo era figlio
di Dio” (15,39): ha l’aria di arrivare in ritardo con quell'imperfetto “era”, se
non fosse che…
Questa sezione appare fondamentale per chiarire il rapporto di
persone e gruppi con Gesù. C’è infatti una varietà di rapporti: ci sono le folle
che incombono e se ne tornano poi alle loro case, mentre c’è il gruppo di
coloro che chiamò “perché stessero con lui” i quali non lo lasciano mai; tra la
folla c’è chi s’accalca e quasi lo schiaccia senza beneficio alcuno (3,9;5,24) e
chi lo tocca con fede e guarisce (5,25-34); ci sono poi “quelli di casa [hoi
par’autoû]” (3,21) che lo credono esaltato-fuori di testa (exéste), e ci sono “quelli
intorno a lui [hoi perì autón]” (3,32.34) che facendo la volontà di Dio gli sono
“fratello sorella e madre”; c’è infine il contrasto tra “quelli di fuori [hoi éxo]”
e “quelli intorno a lui insieme ai Dodici [hoi perì autòn sùn toîs
dódeka]”(4,10.11), contrasto su cui ci fermeremo.
Fatti dunque i conti con gli avversari, Gesù se ne separa (3,7): è
relativamente facile, al momento, guardarsi da loro. Ma come regolerà i conti
con le folle che si abbattono su di lui (3,10)? In pericolo è non tanto la sua
incolumità fisica (3,9), quanto il significato della sua missione, la sua riuscita.
Le avvisaglie si erano avute già a Cafarnao: quella notte sembrava che l’intera
città lo andasse cercando, e lui per tutta risposta dice “Andiamocene altrove
[…]” (1,38). Vale un programma! È una vera presa di distanza, dalle folle
ancor prima che dagli avversari. L’abbraccio dei nemici giurati sarà brutale,
ma ora Gesù avverte il pericolo nascosto nell’abbraccio entusiasta della folla.

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Oggi si va pazzi per questo tipo di notorietà e di successo, e si vede dove
finiamo.
Marco ha un’espressione curiosa per indicare questa fase, dice: “una
grande moltitudine, sentendo quello che faceva [akoúontes hósa poieî], vennero
a lui” (3,8). Evidentemente chi vedeva quel che faceva Gesù, parlava e
parlava. Si era aperta una via mediatica spontanea incontenibile, che divulgava
entusiasticamente ciò che egli faceva, senza alcuna garanzia interpretativa, e
senza legittimazione da parte di Gesù. D’altronde se le moltitudini
accorrono, significa che i prodigi hanno una loro chiarezza e intelligibilità:
accorrono certi di ammirare la mano di Dio tesa infine a guarire il suo popolo,
d’essere testimoni del compimento delle promesse; da qui a sperare di
assistere alla comparsa del Messia e all’intervento escatologico di Dio, di
vedere con i propri occhi la sconfitta dei nemici, non ci correva molto date
le attese del tempo.
C’era però un’anomalia che doveva insospettire: la fonte mediatica,
per quanto diffusa per il paese, era uniforme nel propagare quel che Gesù
faceva, non anche quello che Gesù diceva. Rispetto alla sinagoga di Cafarnao
(1,27), dove rimasero ammirati perché “insegnava come chi ha autorità e non
come gli scribi”, l’interesse si era spostato sui soli miracoli. Essere interessati
all’una cosa e non all’altra significava essere poco interessati a ciò che Gesù
era veramente. Stava maturando una scelta arbitraria (haíresis), un uso affatto
strumentale di Gesù da parte delle folle. Se c’era il peccato di chi osteggiava
la sua opera quasi fosse di satana, non c’era meno il peccato di chi pur
riconoscendola da Dio non si faceva scrupolo di misurarla sul metro dei
propri interessi. Egli aveva creduto di poter controllare la folla con le
raccomandazioni al silenzio e con gli spostamenti continui, ma dovette

99
rendersi conto come fosse difficile dominarne il capriccio. È già tardi per le
beatitudini della povera gente! le cose sono ormai troppo avanti per Marco.
Né a questo punto bastano più le precauzioni: Gesù si trova di fronte alla
necessità di una risposta adeguata, ed ecco accanto all’elezione dei Dodici
come bocciolo della sua famiglia, le parabole.
La giornata delle parabole (più che Discorso in parabole) è un ottimo
osservatorio di tutto ciò, ed è costruito alla maniera sapiente cui Marco ci ha
abituati: questa struttura quinaria non ha riscontro nei paralleli; la parte
centrale, indirizzata ai discepoli in disparte, è il cuore dell’intera giornata.

- a - Introduzione (4,1-2)
- b - Parabola del seminatore (4,3-8)
- c - Prima riflessione (4,9-12), spiegazione allegorica (13-20), seconda
riflessione (21-25)
- b’- Parabole del Regno (4,26-32)
- a’- Conclusione (4,33-34).

Le parabole (gr. parabállein-accostare, confrontare) appartengono


non alla proclamazione (kérugma) ma all’insegnamento (didaché). È solo
Marco a sottolineare il valore di insegnamento delle parabole (2 volte nel
v.2). Il suo rapporto con le parabole è più complesso di quello che
riscontriamo in Mt-Lc: esse sono insieme cattedra e stacco, insegnamento e
presa di distanza. È loro propria una particolare pedagogia: sono un parlare
velato, per immagini, di un mistero che rimane tale: le parabole sono
insufficienti a svelarlo, e occorre stare intorno a lui insieme ai Dodici (v.10) per

100
averlo in dono. Né basta, perché i discepoli non lo comprendono prima di
Pasqua, pur avendo con sé Gesù che è quel mistero e la sua spiegazione.
Esiste un nucleo originario risalente a Gesù e costituito dalla parabola
del seminatore (essa dà il tono alla giornata) e dalla risposta alla domanda dei
discepoli (v.11): queste parti hanno grande probabilità di conservare anche
nella forma un legame assai stretto con la parola del Maestro. Non sono per
nulla d’accordo con la rassegnazione di R. Bultmann, il quale diffida della
possibilità di conoscere il senso originario della parabola (J. Gnilka, 212-
213): quella del seminatore è la parabola per eccellenza dell’operare di Gesù,
e insieme la parabola di quanti (folla e discepoli) sono lì a ricevere la semina
con cui prende avvio il regno di Dio (cfr. Mc.4,26: “Così è il regno di Dio,
come un uomo getta il seme nella terra […]”). Il terreno non è tutto uniforme
e solo il seme caduto sulla buona terra porterà frutto? ebbene il seminatore
non frena per ciò il gesto ampio della mano. Si può non ricordare l’analoga
parabola di Is.28,23-25? il verbo “sparge-speírei”, in ebraico è lo stesso verbo
“phus” che ricorre per la dispersione degli uomini in Gen.11,4 e per quella
del popolo di Dio in Is.11,12 o delle pecore in Ez.34,5.6 e Zac.13,7. Il tema
non è ignoto a Marco: avanti la Passione Gesù evoca l’oracolo del profeta
Zaccaria “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse. Ma quando sarò
risuscitato vi precederò in Galilea” (Mc.14,27s): la semina allora raggiungerà
tutto il mondo (14,9), e sarà il miracolo del seme disperso che ricondurrà i
popoli dalla dispersione. Può Marco aver avuto presente questa prospettiva?
Mi limito a rilevare che, oltre al verbo, potrebbero darsi due altri contatti
con l’episodio della torre di Babele: uno abbastanza diretto, “perché non
ascoltino più [hína mè akoúsosin] l’uno la voce dell’altro” (Gen.11,7), che se non
è identico non è lontano da uno degli scopi delle parabole (cfr. Mc.4,12);

101
l’altro curiosamente assonante, si veda infatti l’espressione “hósa poieî” di
Mc.3,8 e “hósa […] poieîn” di Gen.11,6.
Altri tratti caratteristici della parabola del seminatore: Marco indica
il seme con il plurale solo per la buona terra (Mt ha il plurale in ogni caso, Lc
sempre il singolare), ovvio intendere che c’è più terra feconda che pietraia o
altro secondo il pensiero di Marco, terra feconda che evidentemente non
allude solo ai discepoli bensì anche alle folle; illustra con cura i progressi della
semina (“crescendo e prosperando”) sino al frutto, e la fecondità la rappresenta
in ascesa (il 30-60-100 per uno, Mt ha il 100-60-30, Lc il 100 secco); tratti
che, oltre a preparare lo sviluppo allegorico della parabola, fanno concludere
al realismo ottimista di Marco.
Viene di seguito la domanda dei discepoli, in privato: in Marco è sul
significato delle parabole, in Luca sul significato di quella parabola, in Matteo
“Perché a loro parli in parabole?”. In Mt i discepoli danno sempre l’impressione
di saperne anche troppo, qui anticipano quasi la risposta di Gesù: era così
evidente che Gesù le parabole le riservava alla folla? un conto è che sia Gesù
stesso a dirlo, o un cronista 50 anni dopo (cfr. Mt.13,34), altro conto che ci
arrivino da soli i discepoli, a quello stadio! È possibile che la domanda vertesse
realmente sul significato di quella parabola (Lc); come altre volte, la risposta
di Gesù allargherebbe il discorso al significato del parlar in parabole (Mc).
Anche nel riferire la risposta del Maestro i sinottici si differenziano. Così
scrive Marco: “A voi è dato il mistero del regno di Dio; per quelli che stanno
fuori [ekeínois toîs éxo] invece tutto è in parabole”. Di solito si sottolinea la
prima parte della risposta di Gesù e si sorvola sulla seconda, nel confronto
con Mt-Lc; e invece no! “Tutto avviene in parabole” non è lo stesso che chiuder
la porta in faccia a quelli che sono di fuori, dare a qualcuno il mistero non

102
significa necessariamente negarlo ad altri; magari significa offrire un’altra via,
meno diretta e più lunga, per arrivare al punto. Ai primi uomini non si è
negato in assoluto l’albero della vita e l’immortalità, si è negata solo quella
via che Adamo e Eva avevano intrapreso (Gen.3,22). Secondo Mt-Lc ai
discepoli “è dato conoscere i misteri del regno”; quanto “agli altri”, Matteo è
categorico, semplicemente “non è dato” (Mt.13,11); Luca si trova a disagio,
l’esimio Teofilo potrebbe non comprendere, ed è reticente (“agli altri in
parabole” Lc.8,10): non si riesce a capire se a costoro sia dato-conoscere-che
cosa mediante le parabole.
Il cuore del problema è il trattamento riservato alle folle e la citazione
di Is.6,9s sulla loro ostinazione. Decisivo è il tipo di attualizzazione che i
sinottici hanno in mente. Per Matteo le parabole tendono a precludere la
conoscenza non a promuoverla, a dispetto dell’hóti causale che sembrerebbe
un addolcimento rispetto all’hína finale di Marco (“Per questo parlo loro in
parabole, perché (hóti) vedendo non vedono e ascoltando non ascoltano né
comprendono” Mt.13,13); per Matteo le folle sorde alle parole di Gesù sono
figura del giudaismo del suo tempo, che tuttora non comprende. La prospettiva
di Matteo è ecclesiologica: egli ha davanti agli occhi la sua comunità, che
comprende i misteri del regno, e la comunità giudaica ostinata nei confronti
della quale la sua chiesa è in aperta polemica sino alla completa rottura. (P.
Bonnard, L’evangile selon saint Matthieu, pg.9-10 dove l’autore riassume le
conclusioni dello studio dedicato al tema da L. Goppelt).
Quanto a Luca, nell’ambiente in cui opera sono ovunque presenti
comunità ebraiche che si chiudono all’annuncio dell'evangelo (cfr. Atti
13,45ss; passim). Ma esperimenta anche che le cose non vanno diversamente
tra i pagani: il contenuto della profezia di Isaia non è perciò un’esclusiva di

103
quel popolo; ed esce dal suo disagio quando può scrivere nella spiegazione
allegorica della parabola: “Quelli lungo la via sono quanti ascoltano e subito
viene il diavolo a portare via la parola dal loro cuore, perché (hína) credendo
non siano salvati” (Lc.8,12). Queste ultime parole sembrano ad integrazione
di ciò che non ha avuto il coraggio di trascrivere in coda al v.10, ora ne ha il
coraggio potendo spostare sul diavolo almeno in parte la responsabilità del
fallimento della parola. La prospettiva di Luca è dunque parenetica, e la posta
in gioco non è nulla di meno che la fede e la salvezza.
E Marco? Neppure a lui mancano motivi per attualizzare; ma c’è
un’attualizzazione che è nei fatti e ha la precedenza su tutto: non è un caso
che “il mistero del regno di Dio” (espressione preziosa, più dei misteri di Mt-
Lc) sia dato a coloro che stanno intorno a Gesù, perché tale mistero è tutto
ciò che riguarda il destino del Figlio dell’uomo (prospettiva cristologica). E
non è detto che chi gli è attorno lo comprenda, almeno per ora (cfr.
Mc.8,17.21.33 ecc.). Questo mistero, per compiersi, avrà bisogno oltre che
della ostilità dei capi anche della cecità delle folle. Mai pensieri e vie di Dio
(cfr. Is.55,8-11) furono tanto distanti da quelli degli uomini come ora che
Dio è tanto vicino! “Quelli che stanno di fuori” sono senza dubbio le folle
palestinesi del tempo di Gesù, affamate più di miracoli che di lui, disposte più
a trovargli un ruolo che a seguirlo: le parabole finiranno per chiuderle nel
loro accecamento, “perché (hína) guardando guardino e non vedano, e
ascoltando ascoltino e non comprendano, che non (mépote) si convertano e sia
loro perdonato” (si noti come Marco soltanto antepone il guardare
all’ascoltare…).
Ciò che più ha fatto problema è quell’hína con cui Marco introduce il
testo di Is.6,9s: si tratta di congiunzione finale o dichiarativa o causale,

104
discutono i critici (J. Gnilka, 216-222)? A mio avviso è un particolare tipo di
hína finale, che potremmo chiamare scritturistico (cfr. Mc.14,49): Marco, è
vero, attribuisce a Gesù il ricordo di Isaia; tuttavia con quell’hína Gesù non
dice che lo scopo del suo parlare in parabole è l’accecamento della folla, lo
scopo è invece il compimento delle Scritture circa la loro ostinazione,
funzionale al destino del Figlio dell’uomo: non è diversa l’ostinazione dei
discepoli (cfr.6, 52;8,17s)! Una volta ciò sia compiuto, con la morte di Gesù
in croce, folla e discepoli e persino avversari potranno ancora pervenire a
conversione. A differenza di Luca, in Marco non è questione di salvezza, qui; si
tratta di indurimento temporaneo, che rientra nei disegni di Dio. Non
avrebbero potuto credere tutti in Gesù, anche se sarebbe stato bello; fu
un’altra occasione perduta come quella di Adamo, perduta eppur
provvidenziale! Sino alla morte di Gesù folle e discepoli e lontani, tutti,
resteranno chiusi nel passato di disobbedienza; sarà la sua morte in
obbedienza al Padre che farà saltare il banco della vecchia economia. Da quel
momento si sarà perdonati per uscire dal passato, non più per restarci
correttamente come intendevano i profeti e anche il Battista. Non annuncia
Gesù il perdono proprio quando ha a che fare con uomini disposti a
smantellare la vecchia casa (“Vennero a portargli un paralitico[...] e, non
potendolo presentare a lui a causa della folla, disfecero il tetto dove era
Gesù[...] Mc.2,3ss)?
È istruttivo mettere a confronto i rispettivi testi che Matteo e Marco
hanno a conclusione della giornata delle parabole (Luca non ha nulla del
genere). Mt.13,34s scrive: “Tutte queste cose disse Gesù in parabole alle
folle, e fuor di parabola non diceva loro nulla, perché si adempisse…”, segue
citazione di Sal.77,2; dove invece Mc.4,33s scrive: “E con molte parabole

105
siffatte predicava loro la parola, come potevano ascoltare; e fuor di parabola
non predicava loro, in privato però ai propri discepoli spiegava ogni cosa”. È
abbastanza chiaro che i due hanno una Fonte comune la quale utilizzava il
verbo laleîn in senso forte, come in Marco (predicava la parola, parlava),
mentre Matteo ne dà una versione attenuata (disse, diceva). Inoltre, se
Matteo aggiunge la solita citazione, Marco di suo fa due aggiunte (non
raccolte da Matteo): come potevano ascoltare e in privato ai propri discepoli
spiegava ogni cosa. Matteo è perfettamente conseguente: per l’idea di parabole
che propone, non può ripetere che alle folle annunciava la parola, Gesù in
questa circostanza non annuncia e non insegna. Per Marco invece il suo
parlare in parabole era insegnamento, e questo alle folle; non parlava fuor di
parabola alle folle, perché era l’unico modo in cui potevano ascoltare. Se
questa non è benevolenza! C’è dunque una buona dose di continuità tra
l’insegnamento a tutti in parabole e l’insegnamento ai propri discepoli in
privato (considero quel “propri [idíois]” forte intenzionale e di Marco, non
della Fonte; cfr. Mc.15,20 secondo il testo del Sinaitico, che è il migliore).
Resta una parola di commento alla seconda riflessione (Mc.4,21-25):
“Viene forse la lucerna…? Non c’è nulla di nascosto…”. Nel primo caso è
una similitudine con parallelo in Lc.8,16. L’espressione però è
singolarissima: la lucerna [lúchnos] come soggetto del verbo “viene” non può
essere che una personificazione: di chi? … In Gv.5,35 la lucerna è il Battista;
in Mt.5,15s la lucerna è la vita dei discepoli che risplende nel mondo; per
Marco la misteriosa lucerna è Gesù: altre volte “viene-érchetai” è detto con
intenzione di Gesù (Mc.1,7; 6,48; 13,35). In ciò Marco è assai vicino
all’immagine giovannea della “luce che viene nel mondo [phôs erchómenon eis
tòn kósmon]” Gv.1,9). Ragionevole che la lucerna sia accesa, anche se non è

106
detto (vedi invece Luca); ma mentre viene non è ancora sul lucerniere,
benché sia fatta per esservi posta. Vive una fase di passaggio: nel IV Vangelo
si sottolinea il clima di ostilità (il mondo non lo riconobbe…i suoi non lo
accolsero…); in Marco non si sottolinea l’ostilità ma il nascondimento che è
preludio alla manifestazione (4,22). Il nascondimento è parte
dell’abbassamento del Figlio; ma se l’abbassamento ha a che fare con l’amore,
il nascondimento ha a fare con il peccato. Colui che pecca si nasconde
(Gen.3,10; 4,16…), non viene alla luce (Gv.3,19s); ma anche chi sopporta
il peccato altrui: sia perché non fa sfoggio delle piaghe della sua lebbra, sia
perché si protegge in tal modo dall’attitudine degli uomini a prevaricare su
chi è debole. Il nascondimento però non è per sempre: “non c’è nulla di nascosto
se non perché sia manifestato; e nulla divenne segreto se non per farsi manifesto”.
Quando sarà messo sul lucerniere? nella morte! qui cadono le squame dagli
occhi degli uomini e c’è chi comincia a vedere e confessa che “veramente
quest’uomo era figlio di Dio” (15,39). Ricordo che nella Passione ricorre
l’unica volta “la luce-tò phôs” in Marco (14,54), di Pietro che si riscalda
insieme ad altri presso la luce…
C’è un figlio d’uomo sulla terra che chiama Dio “Abbà, Padre”
(14,36). E questo modo di parlare è così poco improprio che chi parla è il
Figlio unigenito del Padre (“Tu sei il mio Figlio, l’amato…” 1,11). Il Figlio
non è presente nell’uomo-Gesù, è l’uomo-Gesù: egli ha lasciato la forma di
Dio, pur restando Dio, per prendere quella dell’uomo, anzi quella
dell’ultimo degli uomini, la forma del servo (Fil.2,6-7). Perciò può insegnare
“se uno vuole essere primo tra voi, sarà servo di tutti” (Mc.10,44). Attorno
a lui, quasi in un abbraccio, c’è il riserbo di Dio. A Dio non si addicono le
chiassate, tanto meno al servo (cfr. Is.42,2s). Però le cose che dice

107
quest’uomo in mezzo agli uomini sono così ai limiti del pensabile, le cose che
fa ai limiti del possibile, che non potrebbero non far rumore (Mc.1,28)! Gesù
deve esporsi e insieme salvare il riserbo di Dio; si tiene al riparo della folla,
all’interno di un gruppo di intimi o su una barca o in disparte, ma insieme
deve farsi conoscere, perché avanza una pretesa senza pari sugli uomini
(“convertitevi e credete nell’evangelo” e lui è lo stesso evangelo!); non deve
farsi manifesto, ora, e insieme non può non dire o non fare nulla, essendo
venuto perché Dio potesse compiere per il tramite della sua vita tutto ciò che
ha avuto in animo di fare dal primo istante della creazione! Da qui la ricerca
del nascondimento, non da una preoccupazione della chiesa primitiva, come
maliziosamente proposto da Wrede.
* * *

Pericope conclusiva della sezione: la visita a Nazareth (Mc.6,1-6a)

Una sera, recitando il rosario con papà e mamma, infermi, stimolai la


madre chiedendole: qual è la cosa per te più bella al mondo? Risposta
immediata, sicura: la nascita di Gesù nella capanna di Betlemme. Il mistero
dell’incarnazione è Dio in grembo al mondo, corporalmente: non so
immaginare davvero nulla di più adorabile, per questo mondo.
Nazareth, più ancora di Betlemme, fu la piccola “patria”
dell’incarnazione: luogo del tutto improbabile agli occhi dell’uomo, infatti
“può venire qualcosa di buono da Nazareth?” (Gv.1,46); eppure è là che Dio
posò il suo sguardo, là ebbe il desiderato sì di Maria (Lc.1,26-38); là il seme
silenziosamente maturò nel solco per più di 30 anni, e di là il Figlio partì per
il suo breve folgorante cammino...

108
Trent'anni a Nazareth e appena tre anni, nella più rosea delle ipotesi,
dedicati alla predicazione e alla semina del regno di Dio che è ciò per cui era
uscito. E poi qualcuno si meraviglia del fatto che Gesù “stava con le fiere” nel
deserto del mondo! In realtà non ha mai smesso di stare con le fiere dal primo
all'ultimo istante della sua vita quaggiù; anzi non era stato egli stesso fiera a
Nazareth, “il falegname”, uno del popolo? La sua personalità era impastata
delle conoscenze del linguaggio del lavoro delle relazioni e degli usi
nazaretani, cose che neppure il Figlio di Dio poteva strapparsi dalla carne.
Non è venuto soltanto per edificare la sua chiesa, ha portato in salvo il mondo
che era anche il suo, e massimamente suo.
Poteva non tornarci, a Nazareth, nel tempo delle messi bionde? e
poteva quella visita non sconvolgere la terra e la gente che ignari avevano
ospitato Dio nell’umiltà della nostra carne?
Questo lo spirito con cui accostiamo il racconto di Marco.

(1) “Partito di là, viene nella sua patria,


e lo seguono i suoi discepoli.
(2) E cominciò, venuto il sabato, a insegnare nella sinagoga
e tutti ascoltando stupivano,
e dicevano: donde gli vengono queste cose?
e che è la sapienza che gli è data?
e codesti prodigi che avvengono per le sue mani?
(3) Questi non è forse il falegname, il figlio di Maria
e fratello di Giacomo, Joses, Giuda e Simone?
e non sono qui da noi le sue sorelle?
E trovavano scandalo in lui.

109
(4) E Gesù diceva loro: profeta non v’è privo di onore
se non nella sua patria e in mezzo ai suoi parenti
e nella sua casa.
(5) E non poteva farvi alcun prodigio,
ma imposte le mani a pochi malati li guarì.
(6) E si meravigliava a motivo della loro incredulità.

Il racconto della visita a Nazareth è appartenuto in modo sicuro alla


tradizione presinottica: c'è prova che un documento primitivo riferisse del
ministero di Gesù a cominciare dalla visita a Nazareth, cui seguiva la sezione
dei pani e il viaggio a Gerusalemme (X. L.-Dufour). Marco rielabora il
materiale tradizionale e ciò permette di riconoscere i suoi interessi. Questi i
probabili interventi di Marco sulla sua Fonte: la sostituzione di Nazareth con
“la sua patria”, avendo egli già nel prologo presentato colui che veniva al
battesimo come “Gesù da Nazareth di Galilea” (1,9); la menzione dei
discepoli che “seguono”, cosa che Matteo deve aver ritenuto superflua (cfr.
Mt.13,54ss.), mentre per Luca Gesù al momento non ha discepoli,
costituendo l’episodio di Nazareth appunto l’atto inaugurale del suo
ministero (cfr. Lc.4,16 s.); l’espressione secca “il falegname”, e l’altra ancora
più singolare unica “il figlio di Maria”; l’aggiunta “in mezzo ai suoi parenti e
nella sua casa” (in parte ripresa da Matteo); e infine la nota sulla meraviglia di
Gesù. Ora se si volge indietro lo sguardo alla serie degli interventi, si rileva
che in primo piano negli interessi di Marco ci sono sì i compaesani di Gesù,
ma a cominciare dai più vicini, i parenti e i familiari, cosa del tutto assente in
Luca e secondaria in Matteo; inoltre al fianco di Gesù non ci sono i familiari,
come forse dovrebbe essere, ma i discepoli, loro sì stanno dalla sua parte. E

110
la madre? Una madre non si mette mai con altri contro il proprio figlio, meno
che mai Maria!
Del resto tutta la sezione è letteralmente presa dentro, nella tipica
composizione marciana a tenaglia, tra questo che è l’atto finale e la notizia
iniziale dei familiari che vengono da Gesù per riportarselo a casa (Mc.3,21),
preoccupati dalle voci che lo vogliono “pazzo” o comunque in procinto di farsi
molto male. Inoltre la nostra sezione esordiva, dopo il grande sommario, con
la scelta dei Dodici (v.13ss) “perché stessero con lui”, vera e propria nuova
famiglia di Gesù; e in v.31ss si gettano le basi di questa nuova parentela,
superiore alle divisioni come ai vincoli più profondi: “chiunque fa la volontà
di Dio, questi mi è fratello sorella e madre” (v.35). Ebbene, questa grandiosa
unità letteraria si presenta, nel ricordo di Nazareth, fragrante del mistero
dell’incarnazione. Perché diciamo questo? perché tutto, dall’indicazione nella
sua patria, passando per il falegname e il figlio di Maria, fino alla menzione dei
fratelli e delle sorelle di lui, e fino al martellante nella sua patria e in mezzo ai suoi
parenti e nella sua casa, tutto questo accento posto sui legami familiari ignoto
ai sinottici acquista senso nella prospettiva della nascita tra gli uomini del
Figlio di Dio. Marco dunque, assai prima che vedessero la luce le stupende
meditazioni della Natività che ammiriamo in Luca e Matteo, ha inteso
concentrare qui nell’episodio di Nazareth, come nella sua culla, l’impianto
essenziale di quella teologia, che non era evidentemente né di Luca né di
Matteo, ma apparteneva alla prima comunità.
Per Marco infatti l’episodio di Nazareth, con quelle espressioni
incredule dei paesani, è il solo a permettergli di aprire una finestra sul mistero
di Gesù e su un passato altrimenti ridotto a un troppo scarno “da Nazareth di
Galilea”! Laggiù, Gesù aveva avuto non un paese per caso, ma una patria; e

111
non solo dei compaesani, ma a detta degli stessi una madre Maria, dei fratelli
e delle sorelle, un mestiere reale e non di copertura: testimonianze
ingombranti per altri, non per Marco (che qui confeziona uno dei suoi
capolavori), né per lo Spirito... Marco non cerca altre pezze d’appoggio: non
la presenza di angeli a svelare il mistero, non la rivendicazione di antiche
celebri profezie; solo parole offerte da chi neppure aveva coscienza di
testimoniare, non era né credente né benevolo, e neppure conosceva il
meglio di quanto era avvenuto! È vero, furono pronunciate al momento della
visita a Nazareth, ma erano da prima, affondavano le radici in una
consuetudine di vita, in un tempo di Gesù nascosto a tutti gli altri: quanto di
più arcaico lo riguardava, reliquie pervenuteci fortunosamente da una zona
d’ombra.
Questo materiale in sé povero Marco assume, senza sentire il bisogno
di crearne di nuovo e più nobile, per la sua lezione sull’incarnazione! In
ragione di ciò, colui che al battesimo fu proclamato “Figlio” e su cui scese lo
Spirito Santo era un uomo vero, come noi: non aveva un’umanità fittizia,
senza nascita né infanzia né crescita, senza una famiglia né legami di sangue e
di cultura, senza appartenenza vera a un popolo. Se in lui si nascondeva un
mistero, è certo che non fu a spese della sua umanità. Marco ha visto un pieno
di luce in parole che ne sembravano prive, rivelazione dove nessuno
sospettava un mistero, grandezza nel suo rovescio! A noi è data la grazia di
accostarci a queste vestigia santissime, quasi fossimo come i pastori i primi
trepidi visitatori.
Ci limitiamo a considerare la forma data da Marco alla seconda serie
di domande dei nazaretani (6,3). Stando alla redazione marciana,
nell’opinione dei suoi compaesani Gesù non è tanto “il figlio del falegname”

112
(così in Matteo) quanto “il falegname” (rendo “il falegname” per rispetto di
una tradizione, ma il greco è più generico: “tékton” è costruttore-artigiano del
legno o della pietra o d’altro ancora); e non è tanto il “figlio di Giuseppe”
(così in Luca) quanto “il figlio di Maria [ho huiòs tês Marías]”; e non ci sono
tanto “ i fratelli di lui” (così in Matteo), ma è lui che è “fratello di Giacomo
ecc.”; il tutto in una forma stilistica deliziosa. Marco, famoso tra gli studiosi
per essere poco accurato! … In realtà sono gli studiosi che hanno peccato di
leggerezza nei suoi confronti e lungamente perseverato: i difetti di Marco
sono i difetti dello stile orale, perché così scrive Marco come se parlasse e non
come se non sapesse scrivere; prova ne è che quando vuole si esprime in
modo eccellente, come qui; inoltre può concedersi licenze nella forma, ma
nella sostanza non ha rivali: e questo gli studiosi e la chiesa hanno tardato
un’enormità a comprenderlo.
Bisogna ancora tener bene a mente che due sono i livelli di queste
autentiche perle di Marco: altra è la comprensione che hanno i nazaretani,
altra la comprensione che ne ha lui!

I - “Questi non è forse il falegname...?”.


A livello dei nazaretani questa domanda, una domanda retorica (in realtà
essi “sapevano” bene chi era), indicava:

1) Che lo stesso Gesù (e non soltanto “il padre” Giuseppe) finché visse a
Nazareth fece di mestiere il falegname, e ciò non spiegava ai loro occhi né
quella “sapienza” né quei “prodigi” (fatti per di più altrove);
2) Che lo stupore provato nell'ascoltare il suo insegnamento non li
conquistava a Gesù, al contrario li disponeva allo scandalo e al rifiuto (“a-

113
pistía” v.6, come rifiuto di credere che Dio fosse “coinvolto” direttamente
in Gesù!).

A livello di Marco invece il fatto che Gesù fosse stato “il falegname”
non pregiudicava proprio nulla. Anzi:

1) Ciò, ove occorresse, costituiva la prova certa ch’era stata presa sul serio
l’incarnazione. Infatti Gesù non visse la vita alla stregua di un angelo o di
un semidio, tanto meno la visse da annoiato figlio di papà; egli, senza segni
evidenti del mistero che si celava in lui, assunse in quell’ambiente e in
quella situazione le sue responsabilità di uomo, e “sudò il suo pane” per sé
e per i suoi, finché la parola portata dal vento del deserto non lo scosse
dall’albero;
2) Con ciò Marco riportava a galla un brandello di verità storica che sembrava
destinata a essere rimossa. Intendiamoci, non era falsità dire “il figlio del
falegname”, era a suo modo anch’esso un brandello di verità e tale senza
alcun dubbio lo sentì Matteo; ma poteva anche nascondere una
contraffazione. Era già in atto la tendenza a mettere la sordina, a sfumare
quanto appariva duro: secondo certuni, di Gesù si doveva dire solo quello
che era edificante; se ciò non era possibile, che si dicesse almeno in modo
edificante! Sembrava (calcolo miope!) che una presentazione più
ragionevole avrebbe assicurato al messaggio il massimo di penetrazione.
Portata alle ultime conseguenze, questa tendenza finì in eresia perché
arrivò ad affermare che l’umanità di Gesù fu solo apparente, vanificando
così l’incarnazione e tutto ciò che segue, compresa la morte in croce
(docetismo). Non furono certo Matteo e Luca gli esponenti di questa

114
tendenza, tuttavia non furono essi neppure i più intrepidi nel contrastarla;
avevano altri interessi prevalenti.

Gli epici eroi di questa lotta, contro un’immagine inautentica e


oleografica del Signore, che faceva di lui il migliore dei rabbi e lasciava tutti
nella loro sufficienza e nel loro peccato, furono Marco e Paolo (e in altri
tempi Giovanni). Quanto a Marco, disse tutto quanto era da dire, dal
falegname al crocifisso, senza temere la verità; e per giunta lo disse in modo
straordinariamente ruvido, senza sognarsi di alleviare lo scandalo: chi avesse
retto, per un dono di Dio (la fede è dono di Dio, non fluisce per
ragionamento; non è irrazionale, la fede, ma incomincia quando uno
abbandona i suoi ragionamenti per affidarsi tutto a Dio al pari di Pietro sul
lago, cfr. Mt.14,30s) avrebbe contemplato sub contrario, come il centurione
sotto la croce (15,39), la gloria del Figlio di Dio. Anche Marco, non meno di
Paolo, poteva affermare che davanti agli occhi di tutti, senza orpelli né
attenuazioni, “Gesù Cristo era stato rappresentato crocifisso” (Gal.3,1).
L’incarnazione esigeva dal Figlio di Dio che assumesse tutta la serietà della
condizione umana, e fino all’estremo dei dolori (Is.53,4): la diffidenza, la
contrarietà dei compaesani è lì a certificare la conclusione tragica, prima che
accada. I critici da parte loro sono concordi nel riconoscere che quanto scritto
da M. Kähler (i Vangeli sono “narrazioni della Passione con ampia
introduzione”) si attaglia specialissimamente al Vangelo di Marco.

II – “…il figlio di Maria e fratello di Giacomo...?”

115
Qui la cosa che si nota subito è un’assenza: assenza di padre! Viene
alla mente il “nato da donna” di Paolo in Gal.4,4. E dire che un padre c’è,
deve esserci, con un tale dispiegamento di figli e figlie! La cosa si fa ancor più
sorprendente se si considerano Matteo e Luca, dove il padre è sempre
nominato (e lo stesso doveva essere nella Fonte). Perché dunque questo
silenzio in Marco, che ha tutto il sapore dell’intenzionalità?
A livello di nazaretani la cosa si spiega facilmente: non si nomina il
padre perché quel che venivano dicendo bastava e avanzava per capire di quale
famiglia parlassero. Vero, ma rimane l’interrogativo, anzi due: perché non
dire senz’altro “il figlio di Giuseppe”, visto che i figli in Israele appartenevano
al padre e alla sua famiglia? inoltre, potevano i nazaretani esprimersi a quel
modo, oppure l’espressione “il figlio di Maria” l’ha prestata loro Marco?...
Lo potevano, quando un uomo aveva avuto più di una moglie (un classico è
il caso di Giacobbe, cfr. Gen.35,23ss: “I figli di Lia […] I figli di Rachele
[…]”), soprattutto se in aggiunta il ruolo della moglie risultava
particolarmente cospicuo (metti caso che il padre fosse mancato da tempo).
I nazaretani, così come li vede Marco, non sono stinchi di santi ma non
mentiscono, sono veri israeliti “in cui non c’è inganno”: essi testimoniano
esattamente quello che conoscevano. Marco poi aveva i suoi buoni motivi per
afferrare al balzo quella perla. A comunicarcela in tutta la sua preziosità ci
avrebbe pensato la lingua greca, capace com’è di riprodurre ogni più piccola
sfumatura: in greco (ma anche in italiano, a differenza del latino che non ha
articolo) di norma il predicato nominale è senza articolo perché indica il
“genus”; quando indica la “species” ha l’articolo, come qui: “ho huiòs tês
Marías”. Scrivendo “non è figlio di Maria?” si porrebbe l’accento sulla
generazione senza escludere che sia condivisa da altri; scrivendo invece “non

116
è il figlio di Maria?” si pone l’accento sulla persona e su quanto c’è di
esclusivo, a prescindere da ogni altra considerazione. Analogamente
scrivendo: “non è falegname?” si indicherebbe il mestiere che la persona
esercita; “non è il falegname?” invece indica la persona che quel mestiere ha
esercitato e ora, nel caso, non più.
Inoltre i grammatici insegnano che l’uso di un solo articolo per due
sostantivi (“il figlio di Maria e fratello di...”) indica che Gesù è “il figlio di
Maria” e nel contempo “fratello di...”, cioè non altrimenti che all’interno di
quella famiglia. Egli potrà prendere il largo, come ogni uomo, ma ha fatto
parte in modo del tutto naturale di una famiglia, di quel gruppo umano.
Prendiamo atto che la formula di Marco è divinamente feconda, che
nessuno degli evangelisti si è espresso in modo tanto appropriato, e che la
chiesa Greca leggendo il NT nella lingua madre ha colto ogni sfumatura e vi
si è attenuta sempre. È probabile che Giuseppe avesse già vissuto una vita,
prima che Maria gli fosse data in sposa, e il figlio di Maria andò ad aggiungersi
agli altri figli e figlie che il falegname, quale persona timorata, non poté certo
avere dalla strada ma da un precedente matrimonio (Laurentin). Né Maria né
Giuseppe (che peraltro Marco, unico tra gli evangelisti, non nomina mai)
sono lì per caso: se Maria ha fatto parte del disegno di Dio (cfr. Lc.1-2), non
altrimenti è stato per Giuseppe (cfr. Mt.1-2), ognuno con il suo dono. E se i
latini avessero letto con più attenzione, non avrebbero avuto bisogno di
arrovellarsi a spiegare come qualmente si trattava di “fratelli e sorelle” in
senso lato (come dire “parenti, cugini...”), cosa senz’altro possibile in ebraico
e più volte attestata nella Bibbia ma che qui non fa al caso: no, erano fratelli
e sorelle “veri” (a livello di nazaretani), essendo generati secondo il comune
sentire dei compaesani, dallo stesso padre benché da madre differente. Ma

117
quel che si capisce ancor meno è come mai nella chiesa Latina siano sorte
tante voci stonate (da quella prevalente nelle chiese Riformate, a quella di
non pochi teologi anche cattolici...), voci le quali rinculano ben dietro la linea
a suo tempo attestata dai nazaretani, attribuendo a Maria altri figli e figlie:
hanno mai letto seriamente il Vangelo di Marco?
Veniamo ora al livello del nostro evangelista: è qui che la sua
prospettiva teologica attinge il vertice.
L’assenza di padre, letterariamente vistosa e sotto gli occhi di tutti,
non era tanto in funzione dei nazaretani. Resta che fosse in funzione di Marco:
e in effetti è così. Che ci si può attendere da Marco, il quale non perde
occasione di proporre la gloria nel suo contrario? Per lui l’assenza di padre
equivale all’affermazione più alta della paternità, addirittura è l’affermazione
della Paternità più alta, quella di Dio. Per ciò il figlio di Maria non ha padre
sulla terra, perché è il Figlio del Padre dall’eternità. Nessun uomo ha mai
potuto dire: questo Gesù è frutto della mia potenza (K. Barth). Da un uomo
e una donna può nascere l’uomo e l’uomo soltanto, è il loro frutto e non è
poco ma nulla più; da una donna può anche nascere il Figlio di Dio perché
può averlo in dono: da chi se non da Dio? Ora, neppure a Dio s’addice aver
figli di rapina, dalla strada, e dunque doveva essere chiaro a Marco (prima
che ricorresse stupendamente in Luca) che Maria era stata “chiamata” a dare
tutta sé stessa per l’incarnazione del Figlio di Dio. Maria è sempre vissuta di
quell’attesa, sin dal suo sbocciare, per ciò fu Immacolata! Come la carne-
vergine da cui Gesù, così la terra-vergine da cui fu tratto Adamo (Ireneo). Essa
si lasciò tutta espropriare per quel Figlio, rapita alle cose di quaggiù, hortus
conclusus. Non ci furono altri figli per lei? quel Figlio non lasciò alcuno spazio
vuoto in lei? non fu certo perché fosse brutto conoscere uomo ed aver figli.

118
La verità è che con quel Figlio essa portò in grembo l’intera l’umanità. Colui
che è tutta la vita del Padre non poteva non essere tutta la vita anche della
Vergine-Madre!
C’è ancora qualcos’altro però che s’illumina sub contrario. Nella
sezione che segna tutta la distanza, fino al distacco vero e proprio, di Gesù
dalla sua famiglia; e proprio quando la famiglia umana è colta nella sua
inadeguatezza e impotenza e viene rilevata nel cammino del regno dalla nuova
famiglia di coloro che seguono Gesù e fanno con lui la volontà del Padre,
proprio allora c’è l’affermazione più categorica dell’appartenenza di Gesù alla
famiglia umana; colui che è “senza onore [átimos]” tra i suoi, si rivela essere
l’onore di tutto il genere umano. Ciò difficilmente, a livello di Marco, non è
da mettere in relazione con il cosiddetto “protovangelo”, allorché il Signore
Dio dice al serpente: “Porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua e la sua
discendenza: questa ti schiaccerà la testa” (Gen.3,15). L’espressione “il figlio
di Maria” infatti (che soltanto in Marco ricorre) corrisponde esattamente a la
discendenza della Donna, cui è promessa vittoria: chi altri se non la prole di
Maria ha potuto soddisfare quella promessa? e però senza l’appartenenza di
Gesù, il Figlio del Padre, alla famiglia umana essa avrebbe mai trovato
compimento?...
A questo punto non più Eva ma Maria, che in modo tanto esclusivo
su quell’Uno aveva concentrato la sua maternità, in ragione di quell’Uno “per
il quale è stato anche creato il mondo”, è da proclamare veramente “Madre
di tutti i viventi”.

119
La Terza delle sezioni centrali (Mc.6,6b – 8,26): terza e quarta settimana

La terza sezione è detta giustamente sezione dei pani: delle 22 volte


che si nomina in Marco il pane, ben 19 sono in questa parte; ma, a dispetto
della sua dovizia, il pane è uno solo, Gesù (specialmente in 8,14ss). Il IV
Vangelo svilupperà il promettente inizio di Marco (cfr. Gv.6). Questa
sezione è doppia, non per la sua ampiezza (infatti è grosso modo pari alla
precedente) ma per la sua struttura, il corpo della sezione essendo costruito
intorno al doppio miracolo dei pani, come ho anticipato.
Il sommario iniziale è il più breve (“Gesù andava in giro per i villaggi
insegnando” Mc.6,6b). La pericope dei discepoli presenta l’invio dei Dodici
in missione (6,7-13), missione che nell’economia del Vangelo occupa l’arco
di sei giorni; tra la missione e il ritorno dei Dodici Marco propone in flash
back, introdotta dalle opinioni su Gesù e dall’interesse sospetto di Erode, la
pericope del martirio del Battista (6,14-29); segue il primo miracolo dei pani
con l’invito al riposo rivolto ai Dodici, teso a preparare il clima del miracolo
nel segno del pastore (6,30-44); infine c’è la faticosa traversata del lago e
l’epifania sulle acque (6,45-52), che termina con la nota sull’incomprensione
dei discepoli (“il loro cuore era indurito”). Lo snodo tra i due miracoli dei
pani si apre con un denso sommario di guarigioni (6,53-56), e propone il
discorso di Gesù sull’essenziale della pulizia del cuore superando norme
rituali e tradizioni degli uomini a favore del comandamento di Dio (7,1-23).
Secondo miracolo dei pani (nel segno dello sposo?): siamo in territorio
pagano, e Gesù libera dal demonio la figlia di una donna sirofenicia (7,24-
30); poi nella Decapoli guarisce un sordomuto (7,31-37); quindi senz’altra
determinazione di luogo il miracolo, quando la folla che era rimasta con lui

120
tre giorni, presenti anche alcuni che venivano di lontano, ebbe fame (8,1-10);
infine, dopo un breve scambio con alcuni farisei che chiedevano un segno
(8,11ss), riecco l’incomprensione dei discepoli (8,14-21). La transizione alla
sezione successiva è assicurata dal miracolo a beneficio del cieco di Betsaida
(8,22-26), preludio alla confessione di Pietro: non è un caso che Pietro fosse
proprio di Betsaida (era lui in figura il cieco cui è data la vista? ...), Marco
però dimentica di riferire il particolare (cfr. Gv.1,44)!
Una mezza sezione qui ha luogo fuori di Palestina, non più un episodio
isolato come nella precedente sezione (cfr. Mc.5,1-20). Gesù provvede
ugualmente per quelli del suo popolo, i quali sono “come pecore che non hanno
pastore [mè échonta poiména]” (6,34), e per gli altri tra cui dei lontani “che non
hanno da mangiare [mè echónton tì phágosin]” (8,1): questa simmetria a livello
letterario è presente solo in Marco. Tra i secondi ci sono quelli che si
contenterebbero delle briciole (7,28) e che Gesù tratta ormai alla pari dei
primi. Non solo lo stesso pane, anche lo stesso tipo di rapporto (Gesù prova
pietà degli uni e degli altri, vedi il verbo greco splanchnízomai tanto in 6,34
quanto in 8,2). Si preannuncia in questo modo il superamento della
distinzione tra ebrei e pagani! E qualcosa di più…
È naturale chiedersi perché Marco (con Matteo) riporti due volte il
miracolo dei pani; infatti Luca e Giovanni hanno solo il primo. E innanzitutto:
sono due eventi, oppure sono due distinte versioni di un unico evento?
Benché tutto faccia pensare a due distinti eventi (cfr. 8,19-20), gli studiosi
per lo più ritengono probabile che all’origine ci sia un unico miracolo (J.
Gnilka, 414s). Questo rende la domanda iniziale ancora più urgente: perché
riportarlo due volte? Non basta rispondere che Marco si è trovato davanti
questi racconti e non se l’è sentita di tacerne uno! Detto di un Marco che

121
probabilmente ha lasciato le beatitudini, il Pater, non pare un grande
argomento. Marco deve aver avuto delle buone ragioni per agire così.
Neppure la ragione secondo la quale Marco voleva creare una sezione doppia
intorno ai due miracoli dei pani è sufficiente, perché sarebbe come dire che
la struttura di una sezione può prevaricare sul contenuto ed è sufficiente a sé
stessa. Dunque Marco si riprometteva di dire, con la seconda relazione del
miracolo, qualcosa di importante che non era stato possibile riferire nella
prima.

Il primo miracolo dei pani

Il primo racconto (6,31-44) è inquadrato in modo piuttosto inatteso


all’inizio dall’invito ai discepoli “Venite e riposate un poco in luogo deserto”
(perché era tale il viavai che non c’era modo neppure di mangiare un
boccone), e al termine dall’ingiunzione a partire da soli in barca col vento
contrario alla volta di Betsaida mentre Gesù da solo congedava la folla:
sembra la spia di un malessere, originato da che cosa? si dice, dall’eccitazione
messianica divenuta palpabile in quei giorni all’indomani della missione dei
Dodici, eccitazione che doveva aver contagiato anche i discepoli. La
sollecitudine di Gesù per i suoi, dunque. Ma hanno meno bisogno gli altri?
“Vide una grande folla e provò pietà di loro perché erano come pecore che
non hanno pastore, e cominciò a insegnar loro molte cose” (v.34s). Matteo
scrive che qui Gesù curò muti storpi ciechi…(Mt.15,30). Marco pensa che non
sono meno malati il cuore e la mente; adesso è più necessario liberare questi.

122
Egli è solito usare il verbo “insegno-didásko” senza oggetto: questa volta non
è difficile indovinare intorno a cosa s’aggira l’insegnamento di Gesù.
Al centro del primo miracolo dei pani è il Messia come lo intende Gesù
di contro al falso messianismo che incendia le folle: e non è una questione
oziosa, perché il Messia è presente, è lì! C’è una sorta di competizione in
atto, di cui è figura la gara estemporanea tra chi accorre a piedi e chi ha preso
il largo in barca (v.33). Gesù affronta la folla sul suo terreno: va fatto, oggi!
Questa è la relazione di un capolavoro riuscito a Gesù, che volse in positivo
e portò a espressione degna una situazione carica di pericolo, sia che la folla
vedesse in lui il Messia davidico (Is.7,14s;9,5s;11,1ss; Sal.77,70ss; Ez.34,
23s) sia che lo identificasse come l’araldo inviato a preparare l’intervento
escatologico di Dio (cosa più probabile: vedi le voci che lo volevano il Battista
risuscitato o Elia o uno dei profeti, Mc.6,14ss;8,28). Si trattò, attraverso la
figura del pastore e i motivi del pane e del riposo, elementi essenziali in Marco
per l’allestimento del grande banchetto messianico, di offrire alla folla
accorsa l’indicazione che il Messia era lì presente e quale ne era l’immagine
autentica. Egli è l’erede escatologico da Dio suscitato a Davide dopo un
plurisecolare iato, ma la figura che viene evocata non è quella del Messia
guerriero di Sal.2 bensì piuttosto quella mite del pastore: espressamente da
Num.27,17 (dove Mosé chiede a Dio una guida per il popolo dopo di lui,
perché “la comunità del Signore non sia come pecore che non hanno pastore”), e
velatamente con allusioni ripetute a Sal.22 (“Il Signore è il mio pastore…su
pascoli verdi mi fa riposare …davanti a me tu prepari una mensa…”).
Il banchetto, giacché non fu un mangiare disadorno e frettoloso tanto
per riempire un vuoto, si svolge sotto la regia di Gesù, a dispetto della scarsa
varietà delle vivande, con la ritualità (nei gesti, nella disposizione dei gruppi

123
di cento e di cinquantine adagiati sul verde) e la dignità del grande banchetto
messianico (Is.25,6ss, scritti giudaici, Qumran). Scontati i preliminari in cui
si mettono in luce i discepoli, al v.39 sotto la direzione di Gesù inizia un
movimento cadenzato, quasi una melodia e un canto, che si prolunga fino a
v.44, di un lirismo ignoto a Mt-Lc e in contrasto con la liricità macabra
dell’altro banchetto svoltosi presso Erode (Mc.6,21ss; c’è pure un contatto:
il verbo “êran-raccolsero” solo del corpo decapitato del Battista e dei
frammenti, vv.29.43). La composizione è in forma di settenario con al
centro: “E presi i cinque pani e i due pesci alzando gli occhi al cielo benedisse (Dio)
– e spezzò i pani – e li dava ai discepoli perché li distribuissero loro, e i due pesci
divise per tutti”. Al centro del centro come si vede sta il gesto di Gesù di
spezzare i pani. Ancora una volta lo strumento che egli usa per comunicare è
la parabola: la parabola del pane spezzato, ché in realtà il pane è uno solo, il
Messia Gesù! pane da mangiare certo, ma ancor più da comprendere: infatti
più che un miracolo questo è un segno (Gv.6,26), prova ne è che non termina
come di solito i miracoli con l’esplosione della meraviglia e della lode. Il
Messia si propone mite e buono come il pane, che non spezza ma vuol essere
spezzato mangiato e così nutre e si fa carne un’altra volta, nella loro vita. Il
passaggio a una lettura eucaristica è avvenuto senza sforzo già nella Fonte,
trasparente com’è l’identità tra i gesti di Gesù qui e nella Cena (Mc.14,22).
Il finale è contenuto: come i frammenti nelle loro ceste, così i
discepoli sulla loro barca a remare, e la folla nelle mani della notte che
incombe e di Gesù che la rimanda senz’ombra di fatica. Sono su per giù una
legione, cinquemila uomini, tanti sia da sfamare che da tenere a bada con
cinque pani due pesci e una parabola! … Infine dopo che ha congedata la folla
Gesù si ritira sul monte a pregare tutto solo, quadro che ricorda non poco la

124
notte di Cafarnao (1,35-38); questa volta però sarà lui a ricercare i suoi, sul
lago dove s’affaticano a remare (6,46-52) li raggiungerà sul far del mattino
(Es.14,24), camminando sulle acque come può solo Iahweh (cfr.Giob.9,8;
Sal.76,20); vorrebbe anche “oltrepassarli [pareltheîn autoús]” come appunto
fece Iahweh con Mosè ed Elia al Sinai (Es.34,6; 1Re 19,11), invece sarà sulla
barca con loro, e toccheranno riva senza sforzo, lontano da Betsaida.

Il secondo miracolo dei pani

Di fronte a questo complesso di rara potenza e bellezza, ricchissimo


di riferimenti biblici soprattutto nella redazione marciana, all’Esodo in modo
particolare, la narrazione del secondo miracolo (Mc.8,1-10) ha sempre fatto
la figura del racconto minore e un po’ scialbo, come appare nei commenti
degli studiosi. È proprio così, oppure non fu avvicinato con la dovuta
attenzione? ed è forse sufficiente liquidare la cosa dicendo che il primo
racconto è la versione più antica palestinese del miracolo, mentre il secondo
è la versione più recente ellenistica? Là il miracolo chiudeva la missione dei
Dodici in Galilea, appendice della più vasta peregrinatio di Gesù (sommario
iniziale: “era in giro per i villaggi [periêgen tàs kómas kúklo]”), peregrinatio che
qui approda in terra pagana.
Il legame con il primo racconto è assicurato dal v.1 (redazionale, di
Marco): in quei giorni c’è di nuovo molta folla, e non hanno da mangiare. Però
il luogo non è più quello, si trova sulla sponda orientale del lago in territorio
pagano (cfr.7,31); neppure la folla è più la stessa (“alcuni vengono di lontano”
v.3), e ancor meno le attese (qui, se la febbre messianica non è assente, certo

125
arriva molto attenuata). Nel primo racconto si tratta della folla di un giorno
(eff-imera); qui invece ormai da “tre giorni [hemérai treîs] (nominativo!)
perseverano presso di lui”: il verbo prosménein è un hápax e quel nominativo
tradisce un substrato semitico. Per Marco i tre giorni sono sempre un
riferimento alla risurrezione (6 v.), probabilmente lo è anche qui: questa
folla, le sue attese, il suo stare con Gesù e la sua eucaristia acquisteranno pieno
significato quando egli sarà risuscitato. Senza dimenticare Giona: non solo i
tre giorni che Giona passò nel ventre del cetaceo, prima d’esser rigettato sul
litorale (Gn.2,1), ma anche i tre giorni [treîs hemérai] (nominativo!), tempo
dato ai pagani Niniviti per convertirsi (3,4), sono letti nella prospettiva della
risurrezione! Ricordiamo infine che tre giorni di cammino nel deserto per
servire il Signore dovevano essere il principio del cammino di liberazione del
popolo eletto dal paese della schiavitù (Es.5,3; 8,23).
Il ricordo del deserto si fa più preciso nelle parole dei discepoli: “In
che modo [póthen] qualcuno potrà saziare costoro di pane qui in un deserto?”
(v.4). Questo non è tanto il preannuncio del miracolo (Gnilka), quanto
l’evocazione dell’Esodo e dei miracoli del deserto; in una di quelle occasioni
Mosé fa a Dio una domanda simile: “In che modo [póthen] troverei carne da
dare a tutto questo popolo?” (Num.11,13). Se Marco ripensa al deserto,
Matteo sembra avere in mente, com’è suo costume, la chiesa: “In che modo
a noi tanti pani da saziare una tale folla in un deserto?” (15,33). Altri
particolari ancora parrebbero rimandare a dopo la risurrezione, come
l’espressione “chiamando a sé i discepoli [proskalesámenos toùs mathetás]”; è
raro che Marco non scriva “i suoi discepoli”, con questo verbo è addirittura
un hápax (cfr. il parall. Mt.15,32): può aver trascritto dalla Fonte come ha
trascritto delle sette sporte (non più dodici ceste), tradendo la situazione nuova

126
in cui era maturato questo secondo racconto. Se infatti le dodici ceste erano
allusione ai Dodici, perché non sarebbero le altre una nuova allusione ai sette
di cui si conserva ricordo negli Atti (6,3ss) e che Marco doveva conoscere
assai bene?
A differenza del primo racconto, qui l’iniziativa è tutta nelle mani di
Gesù. Fatti venire a sé i discepoli dice a loro: “Provo pietà della folla
[splanchnízomai epì tòn óchlon]” (v.2), splánchnon è il grembo materno; il
plurale ebraico rachamim (viscere) indica amore pietà misericordia, e insieme
alla radice verbale rchm (che la LXX non rende però con il verbo
splanchnízomai) è classico per significare la tenerezza di Dio verso il popolo
dell’alleanza: ma qui c’è la folla con alcuni che vengono di lontano! Nel Vangelo
di Marco splanchnizomai è sempre detto di Gesù (4 v.); solo qui però è Gesù
stesso a dire di provare pietà, in ragione di alcuni ottimi motivi: 1) “perché
da tre giorni perseverano con me e non hanno da mangiare”; l’aver
privilegiato l’ascolto e lo stare appresso a Gesù è la ragione per cui la folla si
trova senza cibo; il bello della cosa è che non sono loro a farlo rilevare né se
ne lamentano; al contrario del popolo che nel deserto mormorava contro Dio
quasi l’avesse condotto fuori per farlo morire (cfr. Es.15,22ss;16,3), questa
folla sembra del tutto consapevole che “non di solo pane vive l’uomo, l’uomo
vive di tutto quello che esce dalla bocca del Signore” (Deut.8,3); 2) “se li
rimandassi digiuni a casa loro, verrebbero meno per via”, Gesù si prende in
carico la loro incolumità e coinvolgendoli insegna ai discepoli a fare
altrettanto (nel primo racconto i discepoli volevano scaricare la folla perché
pensassero da sé al necessario); 3) “e alcuni di loro vengono di lontano”, se la
tenerezza di Gesù è per tutti, è massimamente per loro (il particolare dei
lontani è ignorato da Mt.15,32).

127
Esauriti anche qui i preliminari e fatta accomodare a terra la folla (non
c’è né il verde né i gruppi) “prese i sette pani e detto il ringraziamento
[eucharistésas] li spezzò e ne dava ai suoi discepoli perché distribuissero…”
(v.6): si fa notare giustamente che eucharistésas era tipico delle comunità
ellenistiche nella loro celebrazione della Cena (cfr.Lc.22,19; 1Cor.11,24),
invece nel primo racconto c’è “disse la benedizione [eulógesen]” (Mc.6,41);
questo indicherebbe sia la provenienza ellenistica della narrazione (senza
dimenticarne il sustrato semitico) sia la prospettiva spiccatamente eucaristica
della sua lettura; così viene spiegata anche la retrocessione e
marginalizzazione del motivo dei pesci (v.7). La redazione marciana offre
tuttavia altre profondità, oltre al rimando al primo miracolo dei pani infatti
ci sono almeno altri due luoghi ai quali Marco sembra rimandare con
intenzione.
In primo luogo c’è l’esorcismo di Mc.5,1-20 il quale presenta
evidenti corrispondenze con il secondo miracolo dei pani. Innanzitutto
ricordo un contatto letterario assai significativo: “di lontano [apò makróthen]”
in Mc.5,6 e 8,3. Poi la coincidenza di luogo: nell’un caso e nell’altro ci
troviamo nella Decapoli, e si noti che sono le uniche due volte che Marco
nomina la Decapoli, anzi è il solo tra i sinottici a farlo in questi due testi (cfr.
5,20 e 7,31)! La prima volta nella Decapoli Gesù ci arrivò dopo una
burrascosa traversata, come Giona dai Niniviti (cfr. Mc.4,35-41 e Gn.1,3ss):
Giona nell’intento di sottrarsi, Gesù al contrario proprio nell’intento di
recarsi tra i pagani. Per Gesù dunque si tratta di un ritorno non casuale in
quella terra, come se avesse lasciato qualcosa d’incompiuto la prima volta.
Marco mostra subito dove tendono i suoi pensieri: in 8,2 Gesù dice “Provo
pietà-splanchnízomai della folla”, e il ricordo va a 5,19 dove dice a chi fu

128
indemoniato “Va’ a casa tua dai tuoi, e annuncia loro quanto il Signore ha
fatto per te e che ebbe misericordia di te [kaì eléesén se]”. Nell’occasione l’uomo
che fu indemoniato chiedeva a Gesù di poter “stare con lui [hína ê met’autoû]”
(identica espressione per i Dodici in 3,14!): non glielo consentì, tuttavia non
intese affatto rinunciare ai suoi servigi per il regno, lo mandò anzi dove nessun
altro al momento sarebbe potuto arrivare “a casa tua, dai tuoi”; la misericordia
del Signore non si fermava a lui, e Marco concludeva: “Partito incominciò a
proclamare nella Decapoli quanto Gesù aveva fatto per lui” (5,20); così
quell’anticipo di semina del regno tra i pagani non cessò, ma a motivo della
di lui proclamazione contagiò tutta la plaga. Per merito di un pagano (si noti
che non è ancora in grado di proclamare il Signore ma solo Gesù)!
Torniamo all’espressione unicamente marciana (non c’è né in
Mt.8,28-34 né in Lc.8,26-37, e non doveva figurare neppure nella Fonte)
“ebbe misericordia di te [éleesén se] (Mc.5,19)”. Il verbo eleeîn, anzi la stessa
espressione éleesén se, frequentissima nel VT, è usata qui per l’atteggiamento
di Gesù nei confronti del pagano indemoniato. E poiché Marco vi si impegna,
sarà il caso di prenderla in seria considerazione: infatti, letterariamente è un
azzardo sia perché appesantisce la frase sia perché la coordinazione riesce
tutt’altro che facile; biblicamente poi è una situazione del tutto nuova: un
pagano è stato liberato da una legione di demoni (5,9) e ha trovato misericordia
senza con ciò aver visto mutare il suo status (non è venuto a far parte
formalmente del gruppo di Gesù o del popolo eletto); e si noti che egli non
ha fatto nulla per meritare quella misericordia e nulla gli fu chiesto in cambio,
proprio come accadeva tra Gesù e il suo popolo, senza differenze: ci vuol
poco per convincersi che la cosa è straordinaria. Se poi si riflette a Dan.3,38
e alla selva di condizioni necessarie, in passato, al popolo stesso per trovare

129
misericordia, ci si rende conto che tutte le mediazioni sono saltate, e non solo
per chi è ebreo, ora che c’è il Signore!
Ho detto sopra che alla radice rchm si può ricondurre splanchnízomai
di Mc.8,2; ebbene, a maggior ragione vi si può ricondurre eléesen (nel libro
di Isaia, la radice rchm è resa dalla LXX il più delle volte proprio con il verbo
eleeîn, solo qualche volta con oikteírein o con agapân). Questo significa, ne
sono certo, che Marco ha un progetto e lo sta sviluppando, e la Decapoli è il
suo laboratorio: ha anticipato il tema in 5,19 con la precisa intenzione di
riprenderlo qui nel miracolo dei pani; la misericordia per l’uno, diventa la pietà
per molti; infatti è naturale pensare che intorno a Gesù vengano a confluire
in quei tre giorni insieme a colui che fu indemoniato tutti quelli che da lui
avevano ascoltato l’annuncio, compreso chi allora per timore o per interesse
(si ricordi il fatto dei porci) aveva pregato Gesù di andarsene dal territorio
(cfr.5,17).
Sono inoltre convinto che e l’esorcismo e il miracolo dei pani siano
stati composti avendo presente Isaia (forse già la Fonte, di certo Marco), e
precisamente: alcuni contatti tra Is.65,1ss e Mc.5,1ss; e ancor più tra
Is.60,1ss e Mc.8,1ss (“vengono di lontano [ékasin makróthen]” in Is.60,4 e
Mc.8,3 hápax; il verbo hupoméno in 60,9 come prosméno in Mc.8,2 hápax;
“deserto [eremía]” in 60,12 e Mc.8,4 hápax; infine “per grazia ti amai [dià éleon
egápesá se]” in Is.60,10 e Mc.8,2!). È impressionante la serie di hápax che lega
Mc.8 e Is.60; si aggiunga che con “egápesa” si rende un’altra volta ancora la
radice rchm, conferma ulteriore del legame tra esorcismo e miracolo dei pani!
Da notare anche Is.60,22 LXX: “il più piccolo (o colui che non ha compagni)
diventerà migliaia”, avverato pare da Mc.8,9…

130
Perché tutta questa tessitura e che cosa dovrebbe dimostrare?
Innanzitutto che dal punto di vista di Marco il racconto di 8,1-10 è tutt’altro
che uno scialbo doppione. E sempre dal suo punto di vista, che le escursioni
di Gesù fuori di Palestina sono tutt’altro che occasionali. Dalla parola del
profeta nel deserto (“Approntate la via del Signore”) al miracolo dei pani nel
deserto [ep’eremías], dalla traversata del lago e l’esorcismo in terra pagana ai
miracoli per la donna fenicia e per il sordomuto della Decapoli, dal pagano
che proclama prima ancora dei Dodici quanto ha fatto Gesù all’altro pagano
che sotto la croce lo confessa rubando il tempo ai favoriti ebrei, senza
dimenticare affermazioni come “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera
per tutti i popoli” (11,17), “prima deve essere proclamato l’evangelo a tutti i
popoli” (13,10), “dovunque sarà proclamato l’evangelo in tutto il mondo”
(14,9): come non riconoscere in tutto ciò la dignità di un disegno, con una
sottolineatura ignota agli altri Vangeli? Certo non è un vangelo alternativo o
parallelo, no!, ma è l’altro versante dell’unico vangelo che non sarebbe tale,
per Marco, se non sconfinasse abbattendo le divisioni.
Ciò che Isaia offre a questo complesso è la prospettiva del nuovo Esodo,
letto però non più come il ritorno degli ebrei deportati verso una città
abbandonata e un paese da ricostruire; piuttosto, come sembra suggerire lo
stesso Isaia, è l’affluire planetario dei popoli (non esclusi i figli di questo
popolo) dalla dispersione verso la nuova Gerusalemme raggiante della luce del
Signore (60,1-7; ricordo che allo stesso testo è ispirato il racconto dei Magi
di Mt.2 e la liturgia della solennità dell’Epifania).
C’è però un altro testo di Isaia che Marco ha sicuramente presente, il
quale conferma la prospettiva dell’Esodo, si tratta di Is.35. Come lo
richiama? Subito prima del secondo miracolo dei pani, in Mc.7,32ss si narra

131
la guarigione del “sordomuto [kophòn kaì mogilálon]” della Decapoli: è uno dei
due miracoli che solo Marco racconta (l’altro è quello del cieco di Betsaida
in 8,22ss). Ebbene il termine mogilálos è hápax di Marco e di tutto il NT come
è hápax di Is.35,6 e di tutto il VT (LXX)! Contatto troppo forte per essere
casuale, voluto proprio per attirare l’attenzione su quanto stava compiendosi
in quell’angolo remoto di territorio pagano. Non solo i beni messianici sono
estesi ormai ai lontani (“si schiuderanno gli orecchi dei sordi, griderà di gioia
la lingua dei muti [mogilálon]” Is.35,5-6), essi avranno parte anche al nuovo
Esodo (“Ci sarà una strada appianata e la chiameranno via santa, nessuna delle
male fiere [tôn theríon tôn ponerôn] la percorrerà, vi cammineranno i redenti,
verranno in Sion con giubilo, felicità perenne splenderà sul loro capo” vv.8-
10).
Forse qui Marco storicizza? cos’è la nuova Gerusalemme verso cui Gesù
condurrà il popolo messianico che si raccoglie intorno a lui? pensa forse a una
realtà di quaggiù, come farà più tardi Matteo pensando alla chiesa? Piuttosto
qui Marco tien ferma la prospettiva escatologica, lui che solitamente
storicizza!, e pensa al cammino verso la gloria… Nell’orizzonte di Marco c’è
il regno eterno di Dio!

Il secondo episodio a cui Marco sembra rimandare è la discussione sul


digiuno (Mc.2,18-22): Gesù vi dice “Possono gli invitati a nozze digiunare
[nesteúein] mentre lo sposo è con loro?”; e in 8,3 dice “se li rimandassi
digiuni[nésteis] a casa loro, verrebbero meno per la via”. Sono le due uniche
volte che in Marco ricorrono i termini digiunare e digiuni; e nei due casi la
presenza di Gesù evita il digiuno! Si vuol forse evocare qui la figura dello
sposo, allo stesso modo che nel primo miracolo dei pani ci fu il richiamo

132
esplicito al pastore (6,34)? sposo che un giorno sarà tolto (2,20), al pari del
pastore che sarà percosso (14,27)? … Se il contatto c’è ed è intenzionale, allora
il no al digiuno non è più solo per gli invitati a nozze: là lo scenario era
ristretto (Gesù e i discepoli), qui c’è una folla e una messe di espressioni che
parlano di amore! Non sarà il richiamo alla sposa di Os.1-3? una folla speciale,
composita (alcuni di loro vengono di lontano), a cui non più gli amanti danno il
pane da mangiare (Os.2,7) ma colui che l’ha sedotta e portata fuori nel deserto
(v.16), che chiamerà mio sposo e non più miei Baalim (v.18), con la promessa:
“ti farò mia sposa per sempre (la radice verbale ebraica ’rs è usata solo per una
vergine!), nella benevolenza (hesed) e nell’amore (rachamim), e conoscerai il
Signore” (vv.21-22; Ger.31,31-34). “Amerò non-amata [eleéso tèn ouk-
eleeménen] e a non-popolo mio dirò: Popolo mio; ed egli mi dirà: mio Dio”
(v.25)! Credo sia questo il profumo che aleggia intorno al secondo miracolo
dei pani. A tali suggestioni vanno poi aggiunti veri e propri contatti che
confermano essere stato Osea ben presente alla mente attenta di Marco,
come l’alleanza con le fiere [diathéken metà tôn theríon] di v.20, che è
programmatica nel suo Vangelo.
Si potrà dire ancora che è un racconto minore, il secondo miracolo
dei pani in Marco, se passa questa lettura?

La Quarta delle sezioni centrali (Mc.8,27 – 10,52): quinta e sesta settimana.

La IV sezione con la sua chiara divisione in 3 parti fa da sola il paio


con le 3 sezioni che l’hanno preceduta, riproducendone in piccolo la
struttura; quasi non bastasse, termina con la guarigione del cieco di Gerico

133
(Mc.10,46-52) allo stesso modo che il corso delle prime tre sezioni termina
con la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26). Essa propone tre volte lo
schema: predizione della passione + incomprensione dei discepoli +
istruzione + séguito per lo più aperto anche alla folla. Gli studiosi sono soliti
indicarla come la sezione “nella via” a motivo della ripetizione, che ritengono
giustamente intenzionale e tematica, dell’espressione en tê hodô (7 volte, ma
soprattutto nel primo e nell’ultimo versetto). È considerata anche la sezione
della comunità, sviluppo in particolare della II sezione dei veri familiari di
Gesù, che qui appare impegnato come mai altrove a istruire il gruppo dei
discepoli. E mi pare significativo che la sezione della comunità sia nella via,
destinazione Gerusalemme.
Ecco come si struttura la sezione. Indicazione del luogo dove il
gruppo è diretto in quel momento, dalle parti di Cesarea di Filippo: non c'è
sommario iniziale, c’è invece la pericope per eccellenza dei discepoli che
culmina nella confessione di Pietro (8,27-30), insieme verifica dello stato
attuale dei discepoli e inizio di una fase nuova in cui Gesù rivela per gradi ai
suoi la via del Figlio dell’uomo. Quindi fanno seguito le tornate che formano
i tre corpi della sezione (ma, ripeto, due settimane):

134
I. Prima predizione della passione (8,31-32a)
Incomprensione (8,32b-33)
Istruzione (8,34-9,1)
Segue: Trasfigurazione (9,2-10), chi è Elia (9,11-13), esorcismo (9,14-
29).
II. Seconda predizione della passione (9,30-31)
Incomprensione (9,32)
Istruzione (9,33-50)
Segue: insegnamenti sul matrimonio (10,1-12), i fanciulli (10,13-16), la
vita eterna (10,17-27), la rinuncia per il Regno (10,28-31).
III. Terza predizione della passione (10,32-34)
Incomprensione (10,35-41)
Istruzione (10,42-45)
Segue: il cieco di Gerico (10,46-52).

Dopo la confessione, Gesù proibisce che si parli di lui come Messia,


e questa volta i sinottici si mostrano perfettamente concordanti (cfr. 8,30 e
par.). Non è rifiuto del titolo da parte di Gesù, come pretendono molti di
scuola protestante: c’è un luogo privilegiato per la proclamazione del Messia
ed è Gerusalemme (cfr.11,7-10), e meglio ancora la Passione (“Sei tu il
Messia, il Figlio del Benedetto?” cfr. 14,61; sempre nella Passione altre 6
volte il titolo di “re [basileús]”, cfr. 15,2 etc.). A conferma di ciò,
immediatamente Gesù predice ai discepoli la passione che lo attende: e Marco
sottolinea che lo dice “apertamente [parresía]” (cfr. 8,32 hápax di Marco).
Pietro e gli altri suggerirebbero esattamente il contrario, tacere della
Passione (per sempre!) e divulgare buone nuove… È naturale che esploda

135
l’incomprensione, di cui si fa interprete un’altra volta Pietro rimediando
però un rimprovero bruciante (“Va' dietro a me, satana[...]” v.33).
Perché la Passione? Nelle tre predizioni non è mai espresso che scopo
abbia. Solo, nella prima è detto “deî-è necessario” (8,31), espressione nota
alla Bibbia per indicare che dietro c’è un disegno ineluttabile di Dio (cfr.
Dan.2,28; Apoc.1,1). Però nell’ultima delle tre istruzioni ai discepoli si
afferma con chiarezza che “il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito
bensì per servire e dare la sua vita in riscatto per molti” (10,45). È il compito
del Servo di Dio dei canti di Isaia (Is.42,1-9; 49,1-7; 50,4-10; 52,13-53,12).
A ben vedere, già prima c’era tutta una messe di allusioni: il battesimo di
solidarietà con il popolo peccatore, la parola dal cielo evocante il Servo di cui
Dio si compiace, l’episodio della lebbra che passa a Gesù, la profezia dello
sposo tolto ai suoi, la fine tragica del Precursore, il pane spezzato… Ora che
il Battezzatore è stato consegnato, è Gesù in persona a fare da precursore ai
discepoli, lui non solo con le parole la vita la morte, anche con la
risurrezione!
In 8,34 introducendo la prima istruzione ai discepoli, Marco mette in
scena anche la folla! In 9,35 e 10,42 quando Gesù torna a chiamare i suoi per
l’istruzione, non c’è mai la folla. Deve dunque trattarsi di un allargamento
intenzionale dell’uditorio: perché Marco l’ha fatto? Un motivo sta nel tipo
d’insegnamento: forse per ciò è presente anche la folla, perché quanto viene
insegnato qui vale per chiunque voglia seguire Gesù. Propendo anche per
un’altra ragione e cioè che la folla (il mondo) è chiamata a testimone di
quanto il Signore esige dai discepoli: “Se uno vuol venire dietro a me,
rinneghi sé stesso prenda la sua croce e mi segua […] Se dunque uno si
vergognerà di me e delle mie parole in mezzo a questa generazione adultera

136
e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui quando verrà nella
gloria del Padre suo con i santi angeli” (8,38). Mentre Luca si mostra
preoccupato perché troppi vanno dietro a Gesù (cfr. Lc.11,29; 12,1; 14,25),
Marco vede direttamente il pericolo in ciò, che chi si è messo al seguito di
Gesù non sia nei fatti tutto di Cristo. Il discepolo deve poter essere in mezzo
a “questa generazione adultera e peccatrice” quello che è stato Gesù, anche a
prezzo della cosa più preziosa che ha: ne va della vita di questa povera
generazione… Il discepolo sa che avrà resa la vita nel regno. Il mondo è dunque
testimone, testimone interessato, dell’esigenza che i discepoli siano autentici.
Quale sapienza, Marco! Ogni volta dopo la parola evocante la
Passione i discepoli vanno in profondo affanno, e Gesù paziente chiamandoli
a sé ricompone gli animi. Come chi dopo un tratto di faticoso cammino sosta,
aspettando il suo cuore.
Il tema della vita diventa centrale nella domanda di un tale, ricco:
“Maestro buono, che cosa debbo fare per ereditare la vita eterna?” (10,17ss).
Che sia un ricco a farla, o che in quel “ereditare” ci sia dentro un vezzo tipico
di chi è ricco, il quale vuol tutto possedere incluso un posto sicuro nell’aldilà,
non sono sufficienti a guastarla, la grande domanda!
Oggi c’è una forte domanda di vivere bene qui, e si interrogano
naturalmente altri maestri buoni cattivi interessati… L’attesa di vita eterna,
è ovvio, non è ignota e non è necessariamente in disaccordo con il desiderio
di vivere bene il presente. Vivere bene però non significa in primo luogo
vivere virtuosamente, piuttosto vuol dire vivere in modo soddisfacente il
rapporto con sé stessi, con il proprio corpo, il tempo libero e il lavoro, la
famiglia, la natura, gli altri. E Dio? … Se n’è parlato troppo, male e a
sproposito da parte di cattivi maestri (vedi il motto di Hitler o quello dei

137
terroristi islamici) e anche da parte di maestri cosiddetti buoni! Quanto poi a
quelli che vanno in tv a far mostra dei miracoli ricevuti, forse credendo di
rendere un servizio a Dio... Beh, perché li avrebbe privilegiati rispetto ad
altri? Cosa hanno che altri non abbiano? La cosa più sensata sarebbe il silenzio,
o almeno il riserbo; e gratitudine! qualcuno per quei miracoli ha sofferto,
pagando duramente. A chi non piacerebbe infatti fare miracoli? ma se fare un
miracolo volesse dire prendere su di sé il malanno dell’altro come ha fatto
Gesù…? ecco perché oggi ci sono pochi miracoli. Gesù ai miracolati
imponeva di tacere, con buona pace di Wrede. Di un Dio misterioso in verità
si tratta (Is.45,15), e qualcuno potrebbe trarne la conclusione, spiacevole,
che è un Dio dispettoso più che misterioso. Allora chi si darebbe ancora
pensiero di lui? Sta di fatto che di Dio si parla sempre meno: financo la
bestemmia è desueta, ma forse la gente è solo un po’ più educata! oppure, a
tal punto ha imparato a fare a meno di lui?!
Veniamo all’esegesi. La pericope Mc.10,17-27 muove per gradi: il
primo mette di fronte un tale e Gesù (vv.17-22), il secondo Gesù e i discepoli
(vv.23-27). La successiva pericope (vv.28-31), con presa di parola da parte
di Pietro e risposta di Gesù, fu probabilmente inserita qui dallo stesso Marco
come esemplificazione e completamento ideale del discorso. Abbiamo già
accennato alla predilezione di Marco per le strutture quinarie; in questa
circostanza ne elargisce due bellissimi esempi in successione per la nostra
ammirazione.

138
I. Il tale: Maestro buono, cosa debbo fare per ereditare la vita eterna?
Gesù: … Li sai i comandamenti: non uccidere, non adulterare…non frodare…
Il tale: Maestro, tutte queste cose le osservai dalla mia gioventù.
Gesù: … Ti manca una cosa: va’, vendi quanto hai…quindi vieni e seguimi!
Il tale: … se ne andò dolendosi, possedeva infatti molti beni.
II. Gesù: Quanto difficilmente i ricchi entreranno nel regno di Dio.
I discepoli: … si stupirono delle sue parole.
Gesù: Figlioli, com’è difficile entrare nel regno di Dio; è più facile che un
cammello…
I discepoli: … E chi può salvarsi?
Gesù: Impossibile agli uomini, ma non a Dio: perché tutto è possibile a Dio!

Alla fine si contano cinque opportunità d’intervento per Gesù e


cinque per gli interlocutori. La reazione alle parole di Gesù è di dolore e
sbigottimento; ma mentre il ricco è preoccupato della sua personale salvezza,
i discepoli si preoccupano della possibilità generale di salvezza (Pietro poi si
farà interprete delle attese di chi ha lasciato tutto). Così il tema della pericope
torna a essere quello che era all’inizio: non solo e non tanto la salvezza di chi
è ricco, ma la domanda di vita eterna e di salvezza dell’uomo.
È istruttivo come sempre il confronto tra i sinottici (cfr. Mt.19,16-
26; Lc.18,18-27). Sarà verissimo che la domanda chi può salvarsi? è identica
nei tre; ma, se c’è logica, in Mt-Lc significa “chi può salvarsi tra coloro che
hanno dei beni?”, mentre in Marco i discepoli possono riferirsi alle parole di
Gesù “Figlioli, com’è difficile entrare nel regno di Dio” (v.24), parole che solo
Marco ha e che amplificano il discorso a una dimensione universale. Da sé

139
stessi, non soltanto i ricchi non possono salvarsi: nessun uomo lo può! Infatti
“nessuno è buono tranne il solo Dio” (v.18) e solo “a Dio tutto è possibile” (v.27).
Continuando nel confronto, Marco si conferma lontano sia da Matteo
che da Luca, ma più da quello che da quest'ultimo. Solo Matteo conosce la
doppia proposta: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti… Se
vuoi essere perfetto [téleios], va’ vendi quello che è tuo…”. E’ la
formulazione dei due stati di vita, che ha caratterizzato nel bene e nel male la
vita della chiesa nei due millenni trascorsi. Ma era veramente questa
l’intenzione iniziale di Matteo, una proposta per tutti e una per i perfetti? non
sarà stato invece come dire “Se vuoi entrare nella vita (sarà un caso che non
si dica vita eterna?) incomincia con l’osservare i comandamenti”? … Forse la
chiesa di Matteo seguiva questa prassi: ammettiamo tutti, buoni e cattivi,
battezziamoli perché possano sedere a mensa con l’abito nuziale (Mt. 22,10-
12); in seguito potranno crescere. Sano realismo! Solo che, imboccata questa
strada, si scontano poi le conseguenze: la condizione d’ingresso diventa
perpetua, quelli che non si schiodano più di lì diventano la norma, la vita della
comunità viene trascinata dalla maggioranza a una deplorevole mediocrità.
Davanti a un evento tragico come una persecuzione, o uno assai meno tragico
come la secolarizzazione dei nostri tempi, in qual modo ne uscirebbero?...
Matteo conosce pagine inarrivabili per elevatezza, dalle beatitudini al “Voi
siete il sale della terra…Voi siete la luce del mondo” fino al “Siate perfetti
[téleioi] come è perfetto il vostro Padre del cielo” del Discorso della montagna
(Mt.5, 3ss. 13.14.48); ma è anche l’unico degli evangelisti che conosce una
clausola di rescissione del vincolo matrimoniale (cfr. 5,32 e 19,9). Del resto
prima di lui Paolo non fece molto diversamente: le sue comunità sono
dimostrazione dello Spirito, esempi di fede carità speranza, ma spesso anche

140
luogo di divisioni feroci, persino di trasgressioni vergognose (cfr. 1Cor.
passim). Quanto alle chiese nell’orbita di Giovanni, basta rileggere le lettere
con cui si apre il libro dell’Apocalisse (cfr.2,1ss fino a: “sto per vomitarti dalla
mia bocca” 3,16). Tuttavia fu Matteo di fatto, forse al di là delle intenzioni,
a rendere accettabile la mediocrità nella chiesa, si potrebbe dire a codificarla.
È stato un bene? Da un punto di vista relativo, sì: si è preoccupato della
misericordia per i più deboli (cfr. Mt.9,13;12,7), e ha consentito alla chiesa
di riempire il mondo, chiedendo assai e contentandosi di quel poco…
Se ora veniamo a Marco e Luca, notiamo che essi oltre a non
presentare nessuno dei due se vuoi (che sono quindi un’aggiunta da mettere
interamente sul conto di Matteo) hanno una prospettiva non dottrinale ma di
vocazione: il ricco non è posto davanti a due possibilità di cui può considerare
con calma la convenienza, ma a una decisione “va’ vendi tutto…e seguimi”;
soprattutto nella redazione di Marco (“guardandolo fisso lo amò e gli
disse…”) si tratta senza dubbio alcuno di una vera chiamata. Tornando un
poco indietro, Gesù per prima cosa risponde: “i comandamenti li sai [tàs
entolàs oîdas]” (Mc-Lc), non una parola diretta circa la vita eterna,
diversamente da Matteo; forse è l’esperienza con Paolo che li ha resi
guardinghi, la salvezza non viene dall’osservanza della legge.
Nell’elencazione dei comandamenti (tutti della seconda tavola, in Es.20,1-
17 e Deut.5,6-21 c’è l’elenco integrale) è il solo Luca a non operare aggiunte:
Matteo attingendo da Lev.18,19 può associare agli altri il comandamento
dell’amore, che sta a cuore particolarmente a Gesù (cfr. Mt.22,37-40);
Marco fa una cosa più ardita, vi associa “non frodare [mè aposteréses]”
(Mc.10,19), che non è in elenco (benché si trovi qualche volta nella Bibbia)
ma appartiene al codice dei popoli.

141
Questa divaricazione è così carica di conseguenze da non credere:
Matteo inserendo il comandamento dell’amore include idealmente il giovane
richiedente tra i discepoli di Gesù; Marco invece, al di là del fatto che il tale
è sicuramente ebreo, fa intendere che non sarebbe diverso per chi non
appartiene al popolo eletto. Come se dicesse: vivi nel rispetto delle leggi della
tua gente; non sono sufficienti a salvare, ma al resto provvederà il Signore
che è buono e cui nulla è impossibile (vedi quanto abbiamo detto e diremo
sul battesimo in Spirito). Siamo sotto un altro cielo; prego, non fatela passare,
quella del “non frodare”, per una delle sviste che si è adusi attribuire a Marco!
Udita la risposta di quel tale (soltanto Matteo dice che era un giovane
[neanískos]), “Maestro, tutte queste cose osservai dalla mia giovinezza”
(Mc.10,20), Gesù “lo amò [egápesen] e gli disse: una cosa ti manca…”. È
l’unica volta del verbo agapáo con soggetto Gesù, e si trova in una chiamata:
probabilmente bisogna sottintenderlo in ogni chiamata. Ma perché proprio
qui che Gesù fallisce (infatti l’uomo se ne andrà)? Uno dei motivi che può
aver indotto Matteo a tacere l’aspetto della chiamata, è giusto la sua
incapacità ad ammettere che Gesù possa fallire. Per Marco è diverso: l’amore
deve uscire sconfitto ora, e anche Gesù; non è stato lo stesso dell’amore di
Iahweh per il suo popolo (cfr.Os.3,1 etc.)? Ma risusciterà. Allora i semi del
deserto fioriranno: l’uomo che ora se ne va dolente potrà mai dimenticare lo
sguardo che lo ha trafitto? C’è un’altra piccola significativa differenza tra
Marco e i due sinottici: Mt.19,20 e Lc.18,22 hanno “una cosa ancora [éti]
manca”, un “ancora” di troppo rispetto a Marco. Se per Mt-Lc quello che
Gesù propone è in aggiunta all’osservanza dei comandamenti e si ha perciò
continuità, Marco pensa a un cominciamento nuovo: ciò che Gesù propone
è un salto di qualità, venire a far parte della comunità dei discepoli. “Va’ vendi

142
quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e qui seguimi”. I
poveri sarebbero i sacerdoti di questa liturgia: infatti come inviò il lebbroso al
sacerdote perché presentasse le offerte prescritte da Mosé (Mc.1,44), così
ora Gesù invia ai poveri il chiamato con tra le mani i doni da lui stesso
prescritti, perché ne certifichino la completa liberazione.
“Quello, rattristato dalla parola, se ne andò dolente perché aveva
molti beni”. La parola è fatta per liberare e comunicare gioia: qui al momento
addolora. Solo a questo punto si dice che era ricco; Luca aveva anticipato
all’inizio che si trattava di “un capo, un principe [tis árchon]” (Lc.18,18):
avendolo davanti e potendolo osservare, non sarebbe stato difficile capirlo.
La cosa non poté sfuggire a Gesù: lo sapeva ricco, molto ricco, e lo chiamò
lo stesso; non per finta, né per provarlo: infatti lo amò… Chissà se Marco ci
ha veduto qualcosa di sé in quello sguardo pieno di amore!?
Abbiamo conservato l’interrogativo: se Matteo indica due stati di vita
nella chiesa, gli altri che cosa propongono? Un unico stato, non per le cose
che vengono chieste ai discepoli, che possono essere diverse, ma per
l’esigenza di totale radicalità. Questo chiude il discorso, si dirà! la sequela di
Gesù, il cristianesimo non è fatto per l’uomo comune… È tutto da vedere;
in ogni caso il problema sarebbe di Luca non di Marco. Infatti nell’orizzonte
di Marco sembra poter trovare spazio in modo verosimile quello stato che
nei giorni di Gesù era rappresentato dalla folla (le fiere), la quale non
apparteneva a Gesù ma a sé stessa alle sue passioni e alle sue schiavitù, eppure
stava bene con lui e aveva un bisogno folle delle attese che lui solo riusciva a
suscitargli in cuore, mentre per parte sua Gesù lasciava intendere d’essere
uscito per le fiere ancor più che per gli angeli… Non dunque il cristianesimo
minimale interno alla chiesa cui pensava Matteo, ma un suo stadio liminale che

143
arriva fino alle soglie della comunità e non ne disdegna le tende, e interessa
tutta l’umanità amata da Dio, già destinataria dell’incarnazione e della morte
del Figlio e ora anche dell’evangelo; non estranea al regno di Dio e allo Spirito
effuso, dunque in situazione di salvezza, eppure esterna alla comunità-chiesa.
In Marco si troverebbe dunque una perla, perfettamente coerente, che gli
altri non hanno visto o non hanno osato vedere. Ci dovremo tornare su,
perché è su questo disegno che Marco ha giocato sé stesso e la sua teologia,
patendo 2000 anni di emarginazione.
“Quanto difficilmente quelli che hanno delle ricchezze entreranno nel
Regno di Dio” (v.23). Gesù stacca dall’accaduto facendo un giro con lo
sguardo e generalizzando (uso del plurale; non così in Matteo). Ciò che è
avvenuto e avverrà in quell’uomo, dacché non è mica finita lì, val bene questa
delicatezza. Difficile non è lo stesso che impossibile (v.27). Per il resto la cosa
più notevole è il futuro entreranno (Mc-Mt; Luca ha il presente entrano…):
non c’è un unico modo d’intendere il regno, qui l’immagine sembra quella
dell’approdo al regno glorioso. Di seguito lo stupore dei discepoli (solo
Marco), che diventerà poi sbalordimento.
“Figlioli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio” (v.24). Ho già
sottolineato quanto sia importante questo passaggio di Marco per un
allargamento del discorso, dal problema della salvezza di chi è ricco al
problema della salvezza (v.26), che a quel punto non interessa più solo i ricchi
ma tutti gli uomini. La maggioranza dei Codici testimonia che è stato fatto
più di un tentativo per introdurre qui nel testo di Marco il riferimento ai
ricchi e costringere la prospettiva; solo alcuni tra i migliori Codici hanno
resistito. “È più facile a un cammello passare per la cruna dell’ago che a un
ricco entrare nel regno di Dio (v.25). Messo così non è solo difficile, pare

144
impossibile! È chiaro che si tratta di linguaggio paradossale; ha il pregio
tuttavia di preparare gli animi a ciò che è davvero impossibile.
“E chi può salvarsi?” (v.26): i discepoli sbigottiti non osano fare la
domanda al Maestro, se lo chiedono tra sé [pròs eautoús] (preferita a pròs autón
nella sinossi di Aland perché lectio difficilior). Il verbo “salvare-sózein” ricorre
14 volte in Marco, di cui 6 al passivo; in questo caso c’è l’infinito aoristo
passivo sothénai. Si dirà che “salvarsi” non è passivo, ed è vero; gli è che la
forma media (riflessiva) è in regresso nell’ellenismo ed è sempre più sostituita
vuoi dalla forma attiva vuoi da quella passiva (Zerwick). Qui non si tratta
d’altro che della salvezza finale, di raggiungere la vita eterna. Come si vede
torna il tema di partenza (v.17), e vi s’indovina la convinzione comune che
la vita eterna sia alla portata degli uomini. La vita eterna invece è innanzitutto
un dono: è costato la vita eterna del Figlio Gesù. “Impossibile agli uomini,
ma non a Dio: tutto infatti è possibile a Dio” (v.27). Bisogna sottintendere
nella risposta di Gesù, “Che ci si salvi è cosa impossibile agli uomini”. Gesù
dice questo fissando lo sguardo sui discepoli, come in antecedenza sull’uomo
che confidava di aver osservato i comandamenti dalla giovinezza; discepoli
che, s’incarica di ricordare Pietro (v.28), hanno seguito Gesù abbandonando
tutto: tutte le cose che gli uomini possono portare in dono sono inutili agli
effetti della salvezza? Certo che no, tuttavia non farebbero massa senza la dote
recata in dono dal Cristo.
Dunque, entrare nel regno se si è ricchi è difficile; ma salvarsi da sé è
persino impossibile, a tutti! Sembrerebbe una cappa di piombo stesa sul capo
degli uomini, e invece il senso è tutt’altro. Per quale ragione infatti ci
verrebbe detto che tutto è possibile a Dio, se non perché Dio che è buono ha in
mente di andare oltre [pareltheîn] (come in Mc.6,48) ogni difficoltà offrendo

145
a tutti salvezza? Come? in Gesù (=Dio salva), nella sua morte vicaria, nel
battesimo in Spirito, nel perdono universale dei peccati… Naturalmente si
deve rinunciare da un lato a pretenderla come atto dovuto alla propria
ricchezza o sufficienza, dall’altro a considerarla un fatto compiuto a
prescindere dalla vita e dall’eticità delle sue decisioni. Viene così a crollare il
valore di azioni-pratiche-osservanze cui si dedicano da sempre le persone
religiose (come non ricordare qui la scarsa passione del Gesù di Marco per il
digiuno?); e nel contempo rialzano il capo le azioni che erano considerate
profane (ricordate il “non frodare”?), magari sospette, insignificanti dal punto
di vista cultuale, come le lotte per emanciparsi, la fatica di vivere in un mondo
diviso, il lavoro e il prodigarsi per la famiglia, le privazioni il pianto dei poveri
dei malati dei bimbi (“di costoro è il Regno dei cieli”), e via via tutte le
beatitudini della povera umanità. Viene anche a crollare il valore di una
chiesa-istituzione di salvezza, che aiuta gli uomini a farcela a salvarsi con le
pratiche i riti i sacramenti, come ci rimproverano inascoltati da secoli gli
evangelici. È la soluzione del dramma del principio, nato dalla presunzione
dei primi uomini di cogliersi il frutto, di fare da sé fosse anche contro Dio:
prospettiva delle origini mai assente dai pensieri di Marco.
Segue la terza predizione della Passione che fa transizione, abbiamo
detto, tra le sei settimane e la settimana di Pasqua. “Ecco saliamo a
Gerusalemme” (10,33): l’unica volta che in Marco il nome della città è sulla
bocca di Gesù. I 40 giorni sono terminati, non sono stati uno scherzo, ma
quello che li attende a Gerusalemme è senza confronto. Gesù precede e i
discepoli seguono con timore…

146
Capitolo 4
Le 2 sezioni finali: VI e VII sezione, settimana di Pasqua

La Sesta sezione (Mc.11,1–13,37): in Gerusalemme, Gesù e il tempio

Con la sesta sezione inizia l’ultima settimana del ministero di Gesù


che si concluderà con la Pasqua. La parola tematica della VI sezione è “tempio
[hierón]” (7 volte); fuori di questa ricorre soltanto nella VII sezione
(cfr.Mc.14,49), dove compare tre volte anche il termine “santuario [naós]”,
che è la parte più interna e sacra del tempio. Del rapporto tra la prima e la
sesta sezione (Cafarnao-Gerusalemme, sinagoga-tempio, cinque dispute in
ambedue i casi) abbiamo già detto.
Non c’è sommario iniziale. La pericope dei discepoli presenta i
preparativi del corteo, quindi l’entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme
(11,1-10). Va ricordato che entrata trionfale e purificazione del tempio sono
contigue nei sinottici ma non nel IV Vangelo (dove sono inoltre invertite,
all’inizio la purificazione in Gv.2,13ss e in fine l’entrata trionfale in
Gv.12,12ss). Segue il corpo della sezione in tre parti:

I. È sera: sguardo tutt’intorno al tempio e uscita per Betania (Mc.11,11)


a. Il giorno seguente: oracolo sul fico, purificazione del tempio, reazioni
(11,12-19)
b. Il mattino dopo: il fico seccato, istruzione su fede e preghiera (11,20-
26)

147
II. Nel tempio: prima disputa e parabola dei vignaioli (11,27-12,12)
a. Tre dispute in successione (12,13-34)
b. Ultima disputa, condanna degli scribi, la vedova poverella e istruzione
(12,35-44)

III. Uscita dal tempio, esclamazione e oracolo sul tempio (13,1-2)


a. Sul monte in faccia al tempio: domanda di 4 discepoli (13,3-4)
b. Discorso apocalittico e istruzione sulla vigilanza (13,5-37).

Da notare, al termine di ognuna delle tre parti, l’istruzione riservata


ai discepoli; da notare altresì: l’oracolo sul fico che prepara l’oracolo sul
tempio.
L’entrata trionfale in Gerusalemme. I Vangeli hanno in gran conto il
significato messianico di tale evento, e sottolineano gli elementi che lo
caratterizzarono, e che sono: la cavalcatura del Messia, la coreografia, le
acclamazioni. La cavalcatura è l’asino, tradizionale mezzo di trasporto dei re
d’Israele (cfr.1Re 1,38 con 1,5); ma qui c’è di più, viene richiamata in vario
modo la profezia di Zach.9,9 e la figura del Messia: “Giubila, figlia di
Gerusalemme! Ecco a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile,
cavalca un asino, un puledro d’asina”; Marco la richiama con l’inciso “sul
quale nessun uomo ancora sedette” (Mc.11,2), con la quale sembra rendere
“giovane-néon” riferito all’asinello dalla LXX. La coreografia. Non sappiamo
quanto Gerusalemme abbia giubilato, però ci fu chi si incaricò di rendere
festoso e anche adeguatamente rumoroso quel corteo, degno di un principe
consacrato che prende possesso del suo regno: c’era chi ornava con le sue
vesti l’asinello, molti le stendevano invece sulla strada, altri facevano lo stesso

148
coi rami presi dalla campagna intorno… Marco è misurato, Matteo mette in
campo una folla grandissima (Mt.21,8); quanto a Luca, egli è l’unico a parlare
di tutta la moltitudine dei discepoli (Lc.19,37). Le acclamazioni: coloro che
precedevano e che seguivano erano gli improvvisati araldi del re, e “gridavano
[ékrazon]” senza complessi; sul tenore delle acclamazioni ci sono come al
solito varianti, in questa occasione Marco è il più diffuso e alla comune
espressione del Salmo “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”
(Sal.117,26) aggiunge, a marcare la valenza messianica, “Benedetto il
veniente regno del nostro padre Davide”. Il riferimento a Davide (ce n’è stato
un altro pochi versetti prima, “Gesù, figlio di Davide” del cieco di Gerico,
Mc.10,47s) non lascia dubbi sulla pretesa di Gesù.
La cosa che più sorprende in questo inizio di sezione è il cambiamento
di Gesù circa il segreto messianico: d’ora in avanti non tiene più; ed è Gesù
stesso a compiere il primo passo, pretendendo la cavalcatura regale e di
conseguenza il corteo, per entrare da re non di soppiatto ma con tutta
l’ufficialità, come chi ne ha legittimo titolo, in Gerusalemme. Del resto non
abbiamo detto che la teofania al Giordano aveva il valore di consacrazione a
Messia-Servo? il pretenderne il riconoscimento da parte di Israele faceva
parte dell’obbedienza di Gesù ai disegni del Padre. Forse i discepoli, sorpresi
da tanto mutamento, hanno creduto che anche le fosche previsioni di Gesù
fossero tramontate, questo soprattutto li interessava! e si capisce che
gridarono di cuore.
La purificazione del tempio. Avrebbe più senso agli inizi della missione
(cfr. Gv.2,13ss) e non qui dove la collocano i sinottici; del resto adottando
l’artificio delle settimane Marco non aveva molte scelte. Egli, che ha
concentrato l’attività di Gesù per intero fuori di Gerusalemme, adesso ha

149
modo di rivelare il suo interesse per il tempio: è un andirivieni, Gesù sembra
non aver occhi per la città tanto cantata dai profeti, pare interessargli solo il
tempio; e la fa da padrone (cfr.Mc.11,16) così da suscitare la reazione offesa
dei sommi sacerdoti: “Con quale autorità [exousía] fai questo?” (v.28;
cfr.1,22.27). Non so dove E. Lohmeyer abbia attinto la convinzione che per
Marco Gerusalemme sia “la città dell’ostilità mortale a Gesù, del peccato e
della morte” (id., Galiläa, 34). Gesù la nomina nella terza predizione della
Passione (10,33), senza però imputare nulla alla città: Marco non intende
sottolineare le sue colpe né quelle del popolo; sono singoli e corpi organizzati
a volere la morte di Gesù non la città! È diverso sia per Matteo (2,1-
3;21,10;23,37-39) sia per Luca (13,34s;19,41-44;23,27-31). E tuttavia
l’oracolo che condanna il tempio (“non resterà pietra su pietra” Mc.13,2) non
può non riguardare anche la città, che resta perciò coinvolta con i suoi
abitanti; i quali avevano sì ricevuto il battesimo di Giovanni (Mc.1,5) al
contrario dei capi, ma adesso non fanno nulla per disgiungere le loro
responsabilità; come vi resta coinvolta la folla che al momento è tutta per
Gesù (11,18;12,37) del pari che in Galilea, al contrario dei capi, ma nella
Passione si lascerà orchestrare al punto da diventare essa determinante:
“crocifiggilo!”… Perché sia chiaro dove stanno gli uomini quando il Figlio
dell’uomo muore per loro.
Soddisfatto il suo zelo con l’espulsione di coloro che vi esercitano ogni
forma di commercio, Gesù insegna e spiega: “Non è scritto: la mia casa sarà
chiamata casa di preghiera per tutti i popoli? Voi però ne avete fatto una
spelonca di ladri” (v.17). La citazione è di genere midrashico: la prima parte
da Is.56,7 e la seconda da Ger.7,11. Sorprende che Marco sia l’unico a
riferire per intero il testo di Isaia. Perché Matteo e Luca non trascrivono per

150
tutti i popoli? … Non sarà certo perché mancano di universalismo!
Probabilmente, in vista della sentenza che sta per cadere sul tempio (“non
resterà pietra su pietra” Mc.13,1-3 e parall.), quel particolare lo ritengono
superato. Non così Marco: infatti egli, che a Nazareth colse un mistero nella
testimonianza onesta dei compaesani di Gesù, si appresta a coglierne uno
persino nella falsa testimonianza portata al processo contro Gesù. Qui alcuni
riferiscono: “Noi lo udimmo dire: io distruggerò questo santuario [naón] fatto
da mani d’uomo e in tre giorni ne costruirò un altro [állon] (!) non fatto da
mani d’uomo” (14,58). Questa testimonianza è riportata con varianti anche
da Mt.26,61. Matteo diciamo che la disdegna; Marco la conserva per quello
che è, una falsa testimonianza, e non afferma se ci sia qualcosa di vero oppure
no; ma nel consegnarcela sembra interpellarci: quanto c’è di Gesù in quelle
parole? possono non essere sue espressioni come “in tre giorni”, “manufatto-non
manufatto [cheiropoíeton-acheiropoíeton]” due hápax dei Vangeli: per dire che
quel tempio era “fatto da mani d’uomo”, cosa che gli ebrei erano soliti ripetere
con disprezzo degli idoli dei pagani, ci voleva tutto il coraggio di Gesù! E se,
almeno in certo senso, fosse tutto vero?
Qui il IV Vangelo (2,19-22) viene in soccorso di Marco chiarendo
quanto da lui espresso in modo paradossale: intanto, riconosce che Gesù disse
davvero una cosa del genere, in occasione della purificazione del tempio; e
precisa nel contempo che fu detto: “distruggete” e non “distruggerò”; soprattutto
conferma quanto avevamo già indovinato e cioè che Gesù “parlava del santuario
del suo corpo”: il più perfetto commento a Marco! Il quale ci tornerà di nuovo
alla sua maniera paradossale, mettendo in bocca ai beffardi sotto la croce “Tu,
colui che distrugge il santuario…”, e notando che alla morte di Gesù “il velo
del santuario si squarciò in due…” (15,29.38). A questo punto si viene a

151
capire anche perché Marco abbia usato állon anziché éteron (éteron è altro fra
due, állon è altro fra più): non tanto perché in effetti il presente tempio
riedificato da Erode era almeno il terzo tempio (cosa che a Marco
probabilmente non interessava), quanto per indicarne la novità, lo stacco tra
il santuario non fatto da mani d’uomo e qualsivoglia tempio al mondo.
Se torniamo ora al punto (l’interesse di Marco per il testo di Isaia “la
mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli”), come non
riconoscere che Marco è portatore di un grande insegnamento neppure colto
dai sinottici? Pur in presenza della prossima distruzione del tempio, la parola
conserva tutto il suo valore profetico universale perché ormai sarà il Risorto
il luogo non fatto da mani d’uomo deputato alla preghiera e all’incontro con
Dio per tutti i popoli (cfr.Gv.4,21-23)! Lo stesso corpo terreno di Gesù non
era a rigore fatto da mani d’uomo... ed era già a ogni effetto casa di Dio:
quanto più il suo corpo risorto.

152
La Settima sezione (14,1-16,8): in Gerusalemme, Pasqua Passione Risurrezione

Non c’è sommario né pericope dei discepoli in apertura.


L'indicazione tematica: di lì a due giorni la Pasqua (14,1a); segue cenno alla
cospirazione dei capi per catturare e uccidere Gesù (14,1b-2).

I. La Pasqua anticipata nei segni (14,3-25):


A cena in casa di Simone il lebbroso: l’unzione in vista della sepoltura.
Giuda si prepara a consegnare Gesù ai suoi nemici.
Due discepoli sono inviati a preparare la Pasqua rituale.
Ultima cena di Gesù e Pasqua col suo Corpo e il suo Sangue.

II. La Pasqua compiuta (14,26-15,47):


A - (14,26-72)
Oracolo sullo scandalo dei discepoli e il rinnegamento di Pietro.
Reazioni.
La preghiera di Gesù nell’orto (vv.32-42).
Il traditore, la cattura di Gesù, la fuga dei discepoli.
Processo notturno davanti alle autorità religiose (vv.53-65).
Il rinnegamento di Pietro e il suo pianto.

B - (15,1-47)
Processo davanti a Pilato: tu sei Re? … (vv.1-15).
Lo scherno della coorte: salve, Re dei giudei.
Via crucis e crocifissione: Questi è il Re dei giudei (vv.20b-27).
Lo scherno dei presenti: se sei il Cristo…

153
Grido di abbandono e morte di Gesù (vv.33-39).
Le donne contemplano assorte.
La sepoltura di Gesù (vv.42-46).
Le donne contemplano.

III. La Pasqua del primo giorno (16,1-8):


Le donne al sepolcro: il sole è sorto, la pietra ribaltata, il sepolcro vuoto.
Il giovane in bianco: annuncio di risurrezione…
Messaggio ai discepoli e a Pietro: vi precede in Galilea.
Le donne fuggono e non dicono nulla perché hanno timore…

Il racconto della Passione non può che aprirsi accennando alla


vicinanza della Pasqua da un lato, e dall’altro rinviando alla responsabilità dei
capi nella morte di Gesù. Allo stesso modo che la prima volta (cfr. Mc.3,6),
anche qui essi hanno il problema sul come mettere le mani su Gesù e
perderlo. Avrebbero potuto assassinarlo, farlo sparire senza clamore. Ma
come Gesù aveva scelto l’ufficialità e il clamore per entrare in Gerusalemme,
così loro optano per una condanna e una morte esemplari, al fine di cogliere
una vittoria piena per l’onore loro e delle istituzioni. Così essi finiscono per
coinvolgere, secondo il disegno eterno di Dio, non solo il mondo giudaico
ma tutto il mondo degli uomini nella responsabilità di quella morte, e senza
volerlo nel dono di grazia che ne scaturisce.
La prima e la terza parte della sezione (vedi prospetto) hanno una
struttura simile: 4 segmenti in relazione chiastica tra loro. Se la prima parte
(La Pasqua anticipata) introduce al mistero pasquale, la terza (La Pasqua del
primo giorno) ne rivela lo sbocco verso la luce, che in Marco non si risolve in

154
un’ulteriore salita al cielo di Gesù (la risurrezione non è pieno ritorno al
Padre?) bensì nel precedere i discepoli in Galilea (16,7). Solo perché possano
vederlo e costatare che è veramente risorto? Precedere ha sapore pastorale
(cfr.14,27-28): coloro che obbedendo all’invito andranno in Galilea,
ritorneranno a seguirlo come un gregge il suo pastore, da dispersi che furono;
inoltre la Galilea è il luogo dove essi udirono la chiamata, furono scelti per
stare con lui e per essere inviati a proclamare e a cacciare i demoni. La
promessa, a quegli stessi e a Pietro, che lo vedranno significa che è data loro la
possibilità di venire alla luce dal buio di quei giorni, e di ripristinare una
comunione di vita per quanto su basi nuove: lo vedranno e saranno anche in
qualche misura risorti con lui. La Galilea infine è la patria dell’evangelo, la
soglia del più vasto mondo, il trampolino di lancio dell’evangelizzazione dei
popoli.
Tutt’altro clima nella prima parte, che ospita una Pasqua da
consumare nei segni e ancora da compiersi in tutto il suo peso. Innanzitutto
la cena da colui che fu lebbroso e l’unzione, lo sdegno di alcuni per lo spreco
di denaro, e la cifra dei poveri usata come pugno nello stomaco: e Gesù che
aiuta a leggere invece il gesto della donna come profezia della sua sepoltura,
e dunque della morte imminente. L’occorrente per una sepoltura non si nega
a nessuno, sembra dire; quanto ai poveri, “li avete sempre con voi, e ogni
volta che volete potete far loro del bene” (14,7), quasi a dire: vedremo se
sarete così lesti a pensare al loro bene! “Ma non sempre avete me”: Gesù è lo
sposo che sarà tolto e questi sono i giorni che aveva predetto (2,20); in questa
forma non l’avranno sempre, lo riavranno risorto, non più in stato di
abbassamento e quindi di bisogno… Uno sposo cui si cerca sempre di
mandare il banchetto di traverso, là perché non osserva il digiuno né lui né i

155
discepoli, qui perché consente un tale spreco! e pensare che si prepara a
imbandire un banchetto (dopo il pane spezzato nel deserto) in cui lui stesso
sarà nel contempo l’ospite il commensale e il servo, il pane e il vino, l’agnello
immolato con il suo corpo e il suo sangue… Su questi racconti aleggia
un’ombra tristissima senza pace, quella del traditore, “uno dei Dodici!”
(14,10): secondo Gv.12,4 è stato Giuda a denunciare lo spreco; ed è sempre
lui, mentre altri preparano la Pasqua, a passare al nemico offrendo loro
l’occasione che attendevano e preparando a Gesù la sua Pasqua; ed ancora è
lui a reggere il peso della denuncia che tra i commensali della Cena c’è uno
che tradisce.
Il cuore della sezione (e del Vangelo! Cfr. prospetto: II A-B), contiene
il più antico racconto cristiano, il racconto della Passione del Signore. Che
sia il più antico sono d’accordo i critici; dove iniziasse precisamente, si
discute. L’opinione più probabile è che iniziasse con la cattura di Gesù
(preceduta dalla notizia della cospirazione dei capi), il punto a partire dal
quale anche il IV Vangelo si affianca nella narrazione ai sinottici (Vanhoye). I
Vangeli ci offrono dunque uno stadio più recente di tale racconto, in cui esso
appare arricchito da nuove tradizioni.
Marco dà avvio al racconto con l’uscita per il monte degli ulivi e una
serie di premonizioni (vedi II A): “Tutti vi scandalizzerete, perché sta scritto:
Percuoterò il pastore e le pecore andranno disperse (Zac.13,7). Ma dopo che sarò
risuscitato, vi precederò in Galilea”; seguono le reazioni di un Pietro sicuro di sé,
cui è predetta una altrettanto sicura defezione (cfr.14,26-31). La prima delle
due grandi unità prende dunque le mosse da queste premonizioni e passando,
per la preghiera nell’orto - la cattura di Gesù e la fuga dei discepoli - il
procedimento notturno contro Gesù e l'emissione della sentenza, termina

156
con tragica precisione nel rinnegamento, addolcito appena dal pianto
dell’apostolo. Si tratta di una splendida composizione quinaria con inclusione
tra inizio e fine (predizione e misera caduta di Pietro al canto del gallo). Ma
ecco cosa scrive Marco, in crescendo, della terza negazione: “Egli però
cominciò a imprecare e a giurare: io non conosco quest’uomo che voi dite”
(14,71) … lui che aveva confessato “Tu sei il Messia”! Un pagano però sotto
la croce riprenderà la parola dal punto in cui l’ha precipitata il primo dei
discepoli, dicendo “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio” (15,39).
La seconda grande unità (II B) è il vero cuore del racconto, e la
struttura si tende all’estremo per esserne degna. Sono 4 momenti di peso
assoluto, intercalati da altrettanti intermezzi beffardi o silenti, che non
possono non ricordare la funzione del coro nelle tragedie greche: ciò
comporta che non solo di lettura o di ascolto si tratti bensì di
rappresentazione in atto; e sfuma anche la distinzione tra chi è attore e chi
assiste e tutti sono coinvolti e contemporanei. La frequenza stessa di presenti
storici (una decina) mai vista prima in Marco - uno solo ne ha Matteo, Luca
nessuno - conferma l’intenzione dell’autore di rendere l’azione
contemporanea. Dovrebbe sorprendere poi che in campo avverso si registri
una tale esplosione di sentimenti, mentre in campo amico si sia così lontani
silenziosi, al confronto grigi e inespressivi (a parte il solo Giuseppe
d’Arimatea). Sorprende in particolare che le donne-discepole non si
incarichino di fare le lamentazioni d’uso; sono invece descritte tutte assorte
nel contemplare (solo Marco per due volte usa il verbo theoréo-contemplo
osservo, e la prima volta sottolinea col participio presente in costruzione
perifrastica “erano contemplanti [ésan theoroûsai]” 15,40): ciò che è dato loro
di vedere è la sapienza e l’amore di Dio tesi alla salvezza del mondo; ma le

157
donne contemplanti vedono morire colui che non doveva morire, e a
differenza del centurione non capiscono nulla, tranne forse che i piagnistei
non servono qui. Del resto Gesù tempo prima aveva dato indicazione,
espellendo quanti facevano chiasso e lamenti dalla casa dove risuscitò la
fanciulla dodicenne (cfr. 5,38ss): e quel segno preludeva alla sua morte-
risurrezione.
Il quadro B l’ho presentato in successione, per comodità; ma per
gustarne la forma andrebbe scritto su due colonne (come nella sezione
introduttiva le due tavole “il Battista e Gesù”):

(I) Processo romano (III) Morte di Gesù


Coro Coro
(II) Crocifissione (IV) Sepoltura
Coro Coro

Si può apprezzare in tal modo, nella forma raffinata chiastica scelta


dall’evangelista, il rilievo dato ai segmenti di eccellenza teologica (quelli in
corsivo) e di conseguenza ai rispettivi “cori” (quello blasfemo vv.29ss, e
quello contemplativo vv.40s) che qui raggiungono il massimo della intensità.
Inoltre è possibile valutare i reciproci rimandi: per esemplificare, Pilato è
nominato solo nel primo e nel quarto segmento; di crocifiggere si parla nel
primo e nel secondo, di croce poi solo in quest’ultimo (tre volte). Sorprende
che né alla croce né alla crocifissione sia fatto cenno nel terzo segmento,
quello della morte di Gesù, ma si sbaglierebbe a pensare che siamo in
presenza di un inizio di teologia della gloria: Gesù e in croce, non è sceso

158
come invece suggeriva satana (per bocca dei suoi accoliti, passanti e sommi
sacerdoti); egli sta sprofondando nella morte, consapevole di essere anátema
da Dio per amore, infatti pende dal legno (cfr. Deut.21,23; Gal.3,13) a
motivo del peccato del mondo che porta su di sé e che è meritevole di morte
(cfr. Gen.2,17;3,3.19).
Gesù dice qualcosa soltanto nel primo e terzo segmento. Là apre
appena bocca “Tu dici [sù légeis]” per dare risposta a Pilato che gli domanda
“Tu sei il re dei giudei?” (Mc.15,2); da quel punto lascia le cose fare il loro
corso senza più interloquire: la parola non ha più nulla da dire. Ciò che
premeva, l’aveva dichiarato quella notte davanti ai capi del popolo quando lo
interrogarono “Tu sei il Messia il Figlio del Benedetto?”, e rispose: “Io Sono,
e vedrete il Figlio dell’uomo che siede alla destra della Potenza e viene con
le nubi del cielo” (14,61s). “Io Sono” si scrive con lettera maiuscola perché
non è il semplice “sì”, è espressione forte, un vertice della rivelazione, dato
che nel VT la troviamo sempre sulla bocca di Iahweh! Quanto al seguito, si
tratta dell’ennesima citazione midrashica, dal Sal.110,1 (“Il Signore disse al
mio Signore: siedi alla mia destra”) e Dan.7,13s (“sulle nubi del cielo uno come
un figlio d’uomo veniva…”), messianica l’una e apocalittica l’altra. A chi lo
giudicava ritenendolo degno di condanna, Gesù sembrò dare appuntamento
alla parousía quando sarebbe apparso in tutta la sua gloria a giudicare; per i
discepoli invece l’appuntamento è prima, con il Risorto.
Gesù torna a parlare nei pressi della morte, se si può dire; infatti più
che parlare “gridò [ebóesen] (in Luca e Giovanni Gesù sulla croce parla più
volte), e lo fa all’indirizzo di Dio e non degli uomini; grida con le parole del
Salmo 21,2 (tutta la scena è cosparsa di contatti con questo Salmo) e con
chissà quali difficoltà, la lingua secca come un coccio, perché c’è chi

159
interpreta male “chiama Elia!”, mentre quello è il suo pregare, non nella
posizione plastica a braccia aperte dell’orante bensì del condannato: “Dio
mio, Dio mio Dio mio [Eloì, Eloì], perché mi abbandonasti?” (Mc.15,34;
Marco conserva la frase anche in aramaico). Non deve sfuggire che Marco, e
lui solo, riprende il verbo che fu del profeta del deserto, “il quale gridava
[boôntos]: approntate la via del Signore” (1,3). Sono le uniche due volte che
Marco usa quel verbo. Lo ha fatto in modo casuale? Marco non ci ha abituati
a far le cose a casaccio, ancor meno qui! Dunque è voluto: perché, se non per
richiamare i temi del Vangelo, il Battista-Elia il deserto la via del Signore
l’esodo…? Non era certo quella la via che erano esortati ad approntargli,
epperò la via del Signore passava per la croce secondo la volontà di Dio, e
hanno dato una mano tutti, nella misura della durezza del loro cuore, a
realizzarla.
La testimonianza del centurione, “Veramente quest’uomo era figlio di
Dio [Alethôs oûtos ho ánthropos huiòs theoû ên” (15,39). Viene a complemento
di altri due eventi: lo spirare di Gesù (che Marco richiama espressamente,
“vedendo che così spirò [exépneusen]”, cfr.15,37) e lo squarciarsi del velo del
santuario; la testimonianza è appunto resa possibile dai primi due eventi, non
ci sarebbe infatti un tale approssimarsi alla fede da parte di un pagano senza
che fosse donato lo Spirito e fosse aperto l’accesso al santuario a tutti i popoli.
Finché Gesù era vivo il centurione non fu capace di dire “è figlio di Dio”, ma
un istante dopo la sua morte, un istante che è un abisso, può attestare “era
figlio di Dio”! Testimonianza che ha il sigillo dello Spirito, perché non ha
puntelli di sorta: egli lo confessa nel momento di suprema umiliazione,
quando altri come i sommi sacerdoti e gli scribi pretendono “scenda ora dalla
croce perché vediamo e crediamo” (15,32: solo Marco crea la relazione vedere-

160
credere, che tanta importanza assumerà nel IV Vangelo), oppure quando altri
come Pietro lo ha visto far miracoli a piene mani e perfino trasfigurato e può
giurare “quest’uomo, io non lo conosco”.
Le parole del centurione hanno due punti di debolezza: il verbo
all’imperfetto e la mancanza di articolo davanti a figlio. Per questi motivi non
sarà mai un modello di professione di fede (cfr.1,11; Gv.20,31: “perché
crediate che Gesù è il Cristo il Figlio di Dio…”). L’assenza di articolo potrebbe
non essere un problema: i grammatici insegnano che in greco l’assenza di
articolo davanti al predicato, quando il predicato nominale preceda il verbo,
è di regola (Zerwick) e per ciò non c’è nulla che impedisca di tradurre
“Veramente quest’uomo era il figlio di Dio”. Il problema semmai, a livello di
centurione, è quale comprensione avesse della figliolanza, anzi addirittura
come poté dire “figlio di Dio” (ricordiamo che secondo Luca disse
“quest’uomo era giusto” Lc.23,47): forse i vicini, che hanno preferito le
tenebre (cfr.Mc.15,29-32), hanno lasciato dietro a sé barlumi di luce per i
lontani… Rimane l’imperfetto: in bocca al centurione dice forse il
rammarico di aver compreso quando ormai non c’era più rimedio, o l’orrore
di essere stato in qualche misura corresponsabile di quella morte!
A questo punto diventa importante capire che valore ha per Marco
questa testimonianza, ai fini della sua teologia. Ha valore che sia un pagano,
non un ebreo o un discepolo, ad attestare (in Matteo invece sono i discepoli
a prendere tutti sul tempo e a confessare ben prima della morte,
cfr.Mt.14,33); e ha valore che sia a partire dalla debolezza di Dio (non così
in Mt.27,54 dove l’attestazione arriva visti i fatti straordinari che
accompagnano la morte di Gesù, terremoti e tombe che si aprono), e dunque
frutto dello Spirito. Tuttavia il culmine della rivelazione si avrà nell’annuncio

161
del Risorto e poi nell’incontro con lui; qui l’imperfetto lascerà il posto al
presente “è il Cristo il Figlio di Dio” (Gv), perché diventa chiaro che il Figlio è
veramente tale se, assaporato l’abisso di abbandono e morte e inferi, non
rimane in loro balia. Credo infine che sia importante quell’imperfetto,
perché una volta pervenuti alla fede del Figlio di Dio i discepoli dovranno pur
tornare con la mente ai giorni di Gesù, e a tutti quei frammenti (ne avevano
da qualche parte ben 12 ceste e 7 sporte!) della sua vita incompresa dicendo:
“Gesù già allora, sotto il rivestimento della carne, era il Figlio del Dio vivente”
(Balthasar, Antico Patto, pg.167). Un discorso che non sarebbe andato giù a
Wrede e a quanti la pensano come lui, ma tant’è! Nel momento della morte,
anziché andare perduto, tutto diventa come roccia: colui che rende stabile il
mondo con il dito della sua potenza, ha reso vero per sempre tutto ciò che
disse e fece, uomo tra gli uomini, con la sua morte.

“Morirò in piedi come gli alberi / Mi uccideranno in piedi /


Il sole, testimone ufficiale, sigillerà / il mio corpo unto due volte /
E io dirò alle mie parole / non mentivo, gridandovi /
Dio dirà ai miei amici / certifico che ha vissuto aspettando questo giorno /
All’improvviso, con la morte / la mia vita si farà verità /
Finalmente avrò amato!”.
(Pedro Casaldaliga, vescovo in Amazzonia)

162
Le donne al sepolcro (16,1-8). Alle donne è riservata l’epifania estrema
del Vangelo di Marco. Non è stata apprezzata la sua idea di por termine al
Vangelo con le donne che fuggono dal luogo della sepoltura il dì di Pasqua: si
è pensato alla caduta della finale autentica, si è pensato a fornirgliene una
(addirittura due!). Su tutti i racconti pasquali aleggia il timore, ma non è così
dominante come in Marco; qui il timore è responsabile sia della fuga che del
silenzio delle donne, governa la scena come una bassa pressione le
perturbazioni. Fuggono tremanti e fuori di sé, e non dicono nulla, “infatti
avevano timore [ephoboûnto gár]” (v.8): così ha termine il Vangelo. Le donne
hanno timore, ma di che cosa esattamente?
La scena è questa: la grande pietra è ribaltata, il sepolcro è vuoto, del
corpo non c’è traccia, Gesù non si vede né redivivo né morto; tutte le
spiegazioni sono possibili, si potrebbe aprire un’inchiesta che forse andrebbe
avanti per secoli. Unico elemento a far discontinuità è quel giovinetto-angelo
senz’ali biancovestito seduto dal lato beneaugurale: le donne al vederlo sono
turbate, ma non fuggono, il timore è altra cosa. Sono le sue parole a
scuoterle, e soprattutto quel che d’improvviso devono aver compreso. Esse
fuggono come chi vede a rischio la sua vita (così i discepoli nell’orto e il
giovinetto coperto dal lenzuolo, cfr.14,50-51); ma temono come chi è
testimone di una epifania (cfr.4,41; 6,50; 9,6). I tre della Trasfigurazione in
particolare (9,2ss) sembrano vicini, dei quali si dice con espressione molto
simile “infatti erano spaventati [ékphoboi gàr egénonto]” (v.6), spaventati non
per la nube come in Lc.9,34, né per la voce come in Mt.17,6 ma per aver
visto l’uomo-Gesù nella forma di Dio (metamorphoûsthai-lett. passare da una
forma a un’altra), via sontuosa per capire Dio-in-forma-d’uomo, quando per
Matteo la Trasfigurazione è un’anticipazione di Parousia e per Luca

163
un’anticipazione di Risurrezione, che però può esporre a esaltazione
trionfalistica quanti non hanno ancor ben capito Dio che viene per servire e dare
la sua vita. Perciò bisogna che i tre della Trasfigurazione attendano il passaggio
della morte e non dicano nulla “finché il Figlio dell’uomo non sarà
risuscitato”.
Dibelius scelse ottimamente il nome di questi episodi (Epifanie
segrete), e si disse giustamente che caratterizzano il Vangelo di Marco; non è
stato definito invece ugualmente bene il tema comune a queste epifanie: è la
rivelazione del Kúrios (Iahweh), il Figlio di Dio. Se infatti la rivelazione del
Messia è legata principalmente ai miracoli-segni, e la rivelazione della via del
Figlio dell’uomo è riservata all’insegnamento [didaché] (si ricordino le 3
predizioni della Passione), per la rivelazione del Figlio di Dio ci sono le
epifanie, per pochi e in disparte, per ciò segrete: esse sono legate sempre al
mistero della persona di Gesù, così le epifanie sul lago (cfr.4,35ss; 6,47ss) e
quella sul monte (9,2ss). A dispetto però di tale pedagogia e di tanta dovizia
di mezzi disposta dal Padre, i progressi furono ben miseri prima di Pasqua; si
può dire che trassero profitto in termini di conoscenza più gli avversari o i
lontani come il centurione, senza epifanie! Per il salto di qualità, qualcosa
mancava che doveva fecondare tutto, qualcosa che stava alla morte di Gesù
come alla sua fonte: lo Spirito! Ora le donne comprendono cosa significa
l’annuncio del Risorto, e chi è colui che hanno servito intuendo un qualche
mistero, non certo l’infinito. I discepoli nel Getzemani fuggirono perché là
Dio era troppo lontano, pensavano; le donne fuggono perché qui Dio è
troppo vicino, e c’è il rischio (anzi ormai si può dire che è certezza) di averlo
toccato con mano. Il centurione ha gli occhi al passato e neppure sa se c’è un
futuro; le donne invece temono ciò che si è aperto davanti ai loro occhi.

164
L’epifania dell’assenza (“non è qui!” 16,6) invoca l’incontro con il Risorto, per
assaporarne la potenza e la pace.
A chi non dissero nulla le donne? Si è più volte accennato che la finale
aggiunta è doppia. Quella minore non conta più di un versetto e vuol
correggere l’impressione che le donne non abbiano assolto il compito di dare
l’annuncio ai discepoli: non dissero nulla agli estranei ma riferirono
immediatamente ogni cosa a quelli con Pietro; seguiva poi l’annuncio al
mondo. A quanto sembra, qualcuno non si ritenne soddisfatto e fu così che si
arrivò alla finale maggiore (16,9-20). Al contrario ritengo che Marco volesse
dire proprio quello che ha detto: “non dissero nulla a nessuno”! almeno sul
momento e immediatamente. Fu in particolare proprio ai discepoli e a Pietro
che le donne non dissero nulla… Marco non l’avrebbe neppure scritto
altrimenti, non era notizia tacerlo agli estranei, ancor meno era una notizia
con cui terminare un Vangelo. Senza dire che, essendo finito il segreto, la
cosa non aveva più nessun senso. E allora che cosa aveva in mente di dirci il
nostro evangelista?
L’espressione che usa è assoluta, tra le tante la più vicina è quella con
cui Gesù mette in guardia il lebbroso mondato: “Guarda di non dir niente a
nessuno, ma va’ mostrati al sacerdote” (1,44). Il lebbroso farà tutto fuorché
ciò che gli è comandato, sul momento; e le donne non fanno esattamente
quello che solo dovrebbero fare, sul momento! là è la felicità a dettare il
comportamento, qui il timore. Strano, perché ci sarebbe più gioia qui che
per novantanove mondati dalla lebbra… Negli altri Vangeli infatti è la gioia
il sentimento prevalente a Pasqua, insieme a timore e dubbi (cfr.Mt.28,8;
Lc.24,32; Gv.20,20). Piombano in grave angustia, le donne, non nella gioia:
tremore-trómos, rapimento-ékstasis, timore (ephoboûnto), fuga (éphugon)…

165
Marco non lo dice espressamente, ma la prima reazione delle donne fu di
correre via a nascondersi, rifugiarsi nella morte! Sanno da un lato che senza
Gesù non ci sono speranze, non c’è vita per loro senza di lui; dall’altro che
sarebbe meno complicato avere a che fare con un Gesù morto che con un
Gesù risorto… Forse non ci rendiamo conto, vista la facilità con cui gli altri
Vangeli raccontano il trapasso dalla tristezza alla gioia, dell’abisso nel quale
era caduto il gruppo degli amici di Gesù, ed è Marco il solo a tentarne in
modo velato il ricordo. Non avevano esperimentato il baratro della morte in
quel giorno (Mc.2,20)? essi di proprio ci avevano aggiunto il tradimento (“uno
dei Dodici”), la fuga-abbandono (“tutti fuggirono”), il rinnegamento (Pietro) e
la passività impotente (le donne). Viene il momento per Marco, ed è proprio
qui, di ricordare anche l’incomprensione delle donne, dopo che lungo tutto
il Vangelo ha fatto da contrappunto una generale incomprensione, intimi
compresi. Le donne che lo servivano dovettero scoprirsi anch’esse inferiori
alle attese, attrezzate per tutto ciò che è usuale e vecchio (gli aromi, l’unzione
del cadavere…), impari invece a quanto di grande e nuovo si annuncia.
I capi del popolo furono di fronte a un identico dilemma. Ma avevano
già scelto: qualsiasi cosa ma non un Gesù risorto! Ben venga la versione che i
suoi discepoli arrivarono di notte e ne trafugarono il cadavere; o quell’altra
diceria secondo cui in realtà non è morto e fu visto in Oriente a predicare…
tutto fuorché risorto! Per loro non c’è alcuna Galilea in vista, e nessun luogo
dove fuggire (cfr. Lc.21,20s). Si sentono sicuri in un mondo
deterministicamente chiuso, di cui Dio stesso è il creatore e il garante. Loro
sono i custodi di quel mondo a suo nome: per ciò lo difesero negando che i
miracoli di Gesù fossero da Dio, e lo difendono ora negando la Risurrezione.
Vogliono continuare a pensare che la malattia è un castigo dei peccati

166
(personali o al più familiari), che il pagano il pubblicano la prostituta sono in
odio a Dio e vanno condannati, che è “maledetto chi pende dal legno” e
nessuno potrà salvarlo dallo sheol… Cadrebbe il loro mondo, sennò!
I discepoli al contrario stando dietro a Gesù avevano imparato a
credere che i ciechi vedono e gli storpi camminano, che ai lontani è annunciato
l’evangelo, che i poveri i miti gli affamati hanno beatitudine. Avevano
incominciato a sognare con poeti (come Virgilio) e poveri della terra un
mondo nuovo: che non solo è lecito sognare ma che i sogni si avverano,
qualche volta, forse sempre. Non avevano capito una cosa ancora, che si può
morire per i propri sogni, senza perderli… La Risurrezione ecco! doveva
essere l’arché, la necessaria sorgente di tutto, dei miracoli delle beatitudini
dei sogni degli uomini e della libertà di lottare. Dio “fa vivere i morti e chiama
le cose che non sono” (Rom.4, 17): non il Dio del nulla di nuovo sotto il sole,
ma il Dio cui nulla è impossibile, che ha distrutto la condanna gravante
sull’uomo e nel Risorto lo ripropone quale signore del mondo (il sabato per
l’uomo!) come fu in principio.
C’era insomma per le donne e per i discepoli, posti di fronte al fatto
certo che Gesù è risorto, oltre al bisogno di quell’incontro, bisogno di
chiarirsi per sempre come sarà solennemente dato a Pietro (“Simone di
Giovanni, mi ami tu?” Gv.21,15ss), il timore di incontrare i suoi occhi e,
chiamati a render conto, doverne sopportare il rimprovero. Con l’annuncio
del Risorto, anziché essere scagliati in avanti, essi subiscono il rinculo…
Nessuno era stato come loro così vicino, e nello stesso tempo così lontano da
lui. Quanto bruciava ora l’incomprensione! Credevano di avergli dato il cuore
e la vita, avevano dovuto constatare che tanto vero non era. Con la folla (le
fiere) una differenza c’era però: se essa si era lasciata volgere contro Gesù

167
sobillata dall’avversario (Mc.15,11ss), dei discepoli-angeli nessuno tranne
(forse) Giuda fu indotto contro Gesù; certo era apparsa tutta la loro fragilità,
erano diventati gli spettri di sé stessi, guardateli! ma il cuore non aveva
defezionato da lui. Tuttavia non erano risorti. Fossero risorti, avrebbero
compreso che la sua morte-risurrezione aveva spazzato via ogni ombra.
L’umanità assunta era risorta con Cristo; i singoli, donne e uomini, non
ancora: sarà lenta laboriosa la loro risurrezione, come lo fu la guarigione per
gradi del cieco di Betsaida (Mc.8,22-26). E sarà lo Spirito, quello stesso
Spirito che aprì gli occhi al centurione, a liberarli della notte nella quale si
erano acquattati (come Adamo ed Eva dopo il peccato, con la felice differenza
che “ormai non c’è più alcuna condanna per quanti sono in Cristo”, Rom.8,1)
e metterli sulle tracce del Risorto, in Galilea. Le donne non sono, adesso, in
grado di dare l’annuncio ai Dodici: quelle parole, Gesù il nazareno-il crocifisso-
è risorto, non vengono alle labbra; è molto più di quello di cui al momento
sono capaci.
La vera finale di Marco è ciò che il Vangelo lascia indovinare:
l’incontro segreto ineffabile col Risorto, la comunità costituita intorno a lui
insieme ai discepoli e a Pietro, la proclamazione a tutto il mondo… Un finale
di cui non è dato vedere la fine, pur se è conosciuto il suo sbocco nella gloria.

168
Parte terza
Novità e fecondità della teologia di Marco

Capitolo 1
Primato della proclamazione dell’Evangelo

Nella Parte precedente si è parlato di Dio e di Gesù e di Spirito Santo,


di uomini e di donne che incontrarono il Figlio di Dio nell’umiltà della carne;
ma di questi ultimi come in secondo piano, perché il proscenio era occupato
dal protagonista del Vangelo. In questa Parte allora si parlerà, certo di Dio e
di Gesù Cristo e di Spirito Santo, ma in modo particolare di uomini e donne
nel tempo del Risorto, di battesimo in Spirito e di regno di Dio, di comunità
dei discepoli di chiesa e di popolo dell’alleanza, di elezione e di salvezza, il
tutto come ebbero a contemplarlo, così vorrei, gli occhi di Marco.

L’immagine di Dio

Dove porta infatti un discorso che prende le mosse da Dio, se non a


parlare degli uomini, in particolare dei suoi uomini (dal momento che ne ha
scelti alcuni), visto che tutti vantano la sua immagine? Infatti è l’immagine di
Dio a determinare l’immagine dell’uomo. Qui sia permesso un cenno non
all’immagine originaria (ebr. selem) dell’uomo fatto a somiglianza di Dio
(Gen.1,26), per la quale “è posto nel mondo come rappresentante di Dio e
della sua potenza sovrana” perché domini su tutto il creato, immagine che

169
non è andata distrutta con il peccato (sull’argomento v.Balthasar, Antico Patto,
81ss); piuttosto a quell’immagine che Dio diede di sé quando elesse un
popolo tra gli altri popoli, lo plasmò per 40 anni nel deserto e di forza lo
piantò nella terra che aveva scelto per lui (Sal.79,9ss), scacciando davanti a
lui altre genti; con il quale anche stabilì un’alleanza “tu sarai il mio popolo e
io il tuo Dio” (Ger.11,4...), “se farai quanto ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi
nemici e l’avversario dei tuoi avversari” (Es.23,22). Era tanto importante ciò
che stava facendo di quel popolo, che Dio sembrò non aver più occhi e cuore
per gli altri. Egli operava allora con braccio teso e mano potente, implorato
dagli uni, temuto e non certo amato dagli altri; e dev’essere stata quella
un’esperienza talmente chiara e forte, quale non era mai stata prima e non fu
mai più, che quel popolo ne uscì segnato per sempre.
Questa immagine di un Dio che è a fianco del suo popolo e per lui
non esita a mettere in campo tutta la forza del suo braccio, immagine in certa
misura vera e tuttavia non adeguata a definire Dio, destinata a rimanere
provvisoria, divenne anche l’immagine senza tempo del suo popolo
caratterizzandone per sempre la vita e la cultura. Ma un tale esercizio di forza
non poteva che dividere gli uomini, suscitare inimicizie, originare rivalse in
una catena infinita, se non veniva superato. In fondo quello era solo un
segmento della pedagogia di Dio che attendeva compimento, non era un
assoluto; anche quell’alleanza, che faceva discrimine tra i popoli al solo fine
di preparare la salvezza di tutti, doveva lasciare il posto a un’alleanza
universale ed eterna. Tale seguito, che il popolo d’elezione non seppe capire
e accogliere, era il punto d’arrivo di tutta la tensione anticotestamentaria: “il
tempo compiuto e il regno di Dio vicino” imponevano ormai di convertirsi
alla vera immagine che Dio aveva conservato sotto la rude scorza (cfr.

170
Es.34,6s), un Dio misericordioso che ama tutti i popoli e ogni sua creatura.
Dio è Amore (1Gv.4,8) d’ora in poi sarà l’evangelo in cui credere. L’immagine
del Dio forte e vendicativo è estinta: questo determina ormai la nuova
immagine dell’uomo. Ciò che era stato il giusto orgoglio di un popolo unico
aveva senso solo in questa prospettiva; pensare di farlo sopravvivere una volta
superato, sarebbe stato doppiamente funesto.
E’ evidente che, se il Figlio di Dio ha scelto a sua volta altri uomini in
questo mondo “perché stessero con lui e per inviarli a proclamare”, ciò non
dovrà mai intendersi sul modello di un’elezione che avesse quei caratteri,
dove tanto Dio amò un popolo da sembrare aver in odio tutti gli altri: per
tale motivo “Dio tanto amò il mondo che diede il suo Figlio unigenito”, e
Gesù ha dato tanto spazio all’amore-agápe, “Da questo vi riconosceranno che
siete miei discepoli, dall’amore…”(Gv.13,35); e per lo stesso motivo, nella
visione di Marco, ha tanto spazio il ritorno a un’alleanza universale (“per tutti
i popoli”), come era l’alleanza mai cassata delle origini (vedi il continuo
intenzionale risalire di Marco oltre Israele, ad Adamo e Noè), e come
indicano invariabilmente i bracci aperti della croce del Signore.
Allo stesso modo che Israele aveva esperimentato la potenza di Dio
contro i suoi nemici, così la comunità dei discepoli esperimenterà nel suo
cammino la potenza del Risorto, che la sua potenza spende non contro
qualcuno, neppure provvisoriamente, bensì a salvezza di tutti.

171
Primato della proclamazione dell’evangelo

L’ambientazione della sezione introduttiva tutta nel deserto


(cfr.Mc.1,1-13), e soprattutto l’allegoria della cacciata di Gesù nel deserto
tra satana e fiere e angeli, sono programmatiche. Il deserto ha la funzione di
evocare i vari esodi biblici; la via di Gesù è un esodo, anzi il vero esodo di cui
quelli precedenti furono figura e profezia. Questo solo Vangelo infatti
incomincia con l’angelo che grida nel deserto “approntate la via del Kúrios”!
E’ anche il Vangelo in cui il Cristo risorto sembra non aver bisogno di lasciare
la terra e i discepoli (in Marco non si parla di Ascensione), piuttosto li
“precede in Galilea [pro-ágei eis tèn Galilaían]” a guidare la lunga marcia di
quanti ascoltata la proclamazione si metteranno in cammino; allo stesso modo
nel VT era Iahweh a precedere il suo popolo, sia all’uscita dall’Egitto
(Es.13,21;14,19: pro-poreuómenos) sia al ritorno dalla terra della deportazione
(Is.52,12: poreúsetai próteros).

Necessità della proclamazione

Nel Vangelo di Marco c’è evidente un primato della proclamazione


dell’evangelo: lo si può verificare con facilità. Presentando infatti Gesù che
dà inizio alla sua attività, Marco scrive “venne in Galilea proclamando
l’evangelo di Dio” (Mc.1,14). Nell’attività di Gesù dunque la proclamazione
tiene il primo posto; seguono le chiamate (1,16ss), l’insegnamento (1,21s),
gli esorcismi (1,23ss). Quanto ai discepoli poi la cosa è addirittura
impressionante perché Marco fa dire a Gesù: “E a tutti i popoli prima deve

172
essere proclamato l’evangelo” (13,10). Qualcosa di assoluto, persino a
prescindere da chi sarà a fare la proclamazione! Così la proclamazione
pasquale sarà il compimento di quella di Gesù, la proclamazione “a tutti i
popoli” il compimento di quella al popolo eletto. Come era necessaria l’una
(“lascia prima che si sazino i figli” 7,27), è ugualmente necessaria l’altra. Ma
che cos’è questo prima che riecheggia qui? In ambedue i casi è meno
questione di precedenza che di preminenza: particolarmente in 13,10 quel
“deve [deî]” evoca la stessa necessità ineluttabile che per la morte di Gesù
(8,31); non tanto prima di qualcosa dunque (prima della futura persecuzione
dei discepoli o della caduta di Gerusalemme), la proclamazione dell’evangelo
esige piuttosto di essere fatta al di sopra di ogni cosa, stante ben inteso che
tutto è per l’uomo.
Se non ci fosse la proclamazione a tutti, significherebbe che il Figlio
non è venuto che per il popolo d’Israele (o per la chiesa) e perciò non sarebbe
morto e risorto per tutti. Ma se è venuto e la sua morte-risurrezione è per
tutti, allora deve essere proclamato a tutti, perché a tutti sia manifesto, di più
perché a tutti sia dato. Del resto, perché venire il Figlio se al popolo bastava
un profeta? e perché morire il Figlio per i peccati di un popolo quando erano
sempre bastati i sacrifici animali? e a che pro risorgere infine visto che a loro
bastava quello che avevano, un santuario “fatto da mani d’uomo”? … Il Padre
però ha giocato la carta del Figlio perché non era in causa un popolo per
quanto prediletto ma l’umanità, anzi si doveva ricapitolare l’intera creazione:
per ciò quel che si compie è irrevocabile, è una volta per sempre e per tutti
(Ebr.): e se è irrevocabile è anche incondizionato, precedente il nostro
consenso e dipendente dal sì del Figlio. Ciò non significa che sarà ormai
preclusa la proclamazione ai figli di questo popolo: sono crollati gli steccati e

173
non c’è più una loro preferenza, ma non sono figli meno degli altri né tocca
a loro questa volta vivere di briciole (7,28), ora che tutti i popoli sono alla
pari. Curioso e opinabile è il metodo seguito da Paolo: in ogni luogo dove
giunge, prima proclama ai giudei nelle loro sinagoghe e solo quando viene
cacciato passa ai pagani (cfr. Atti 13,46s). Nulla da eccepire sulle motivazioni
che facevano preferire un avvio tra gli ebrei; ma poteva essere d’accordo
Marco a subordinare al loro rifiuto la proclamazione ai pagani? un tale metodo
rendeva piena giustizia alla pari dignità di tutti i popoli?
Non sarà senza conseguenze che, mentre Marco insiste sul primato
della proclamazione dell’evangelo, per Matteo il primato sia invece del fare
discepoli (“Andate, fate discepoli-matheteúsate tutti i popoli,
battezzandoli[…]” Mt.28,19s); né sarà senza conseguenze che per Paolo e
Luca la proclamazione non sia finalizzata ad altro se non alla fede-conversione-
adesione alla chiesa (“convertitevi e si faccia battezzare ciascuno di voi nel nome
di Gesù Cristo” Atti 2,38) e che la finale aggiunta dica “proclamate
l’evangelo[…] chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, chi invece non
crederà sarà condannato”, (Mc.16,15-17). In Marco la proclamazione
dell’evangelo perché ordinata all’uomo non si subordina ad altro, ha senso in
sé stessa: chiede a tutti di convertirsi e di credere all'evangelo, ma non è
finalizzata a un frutto predeterminato per tutti (l’adesione alla chiesa con il
battesimo) che sarebbe una forzatura; ci sarà un frutto se c’è una semina, ma
sarà quello che Dio nella sua trascendenza ha in mente per ogni uomo, e che
l’uomo deciderà liberamente con il soccorso dello Spirito. Nell’antico Patto,
se l’elezione è gratuita, il seguito è obbligato: a parola risposta, a comando
obbedienza, con la punizione delle violazioni fino alla terza e quarta
generazione e fino alla denuncia del Patto… Il nuovo Patto nasce senza

174
gendarmi, lo Spirito ne è il custode; e “dove è lo Spirito del Signore, è la
libertà” (2Cor.3,17).

Unità e ricchezza dell’evangelo

Va da sé che l’evangelo è unico, né potrebbe essere diversamente,


però lo è in modo dinamico: infatti nei giorni di Gesù l’evangelo si andava
costituendo e si avviava alla forma piena. Se Gesù iniziò dicendo, come vuole
Marco, “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete
all’evangelo!” (1,15), quando i discepoli andranno a proclamare non si potrà
prescindere dall'annuncio della morte-risurrezione del Signore (cfr. Atti
2,22-24;10,37-39). Marco è anche qui, come di solito, straordinario. Nei
pochi versetti che egli dedica alla Risurrezione (Mc.16,1-8) trova il modo di
offrirci in sintesi, quasi cifrata ma a noi comprensibile, il messaggio: “Cercate
Gesù il nazareno il crocifisso: è risorto!” (Mc.16,6). Tale è il kérygma! Per ottenere
questo però Marco ha dovuto modificare la Fonte, la quale prima di “è
risorto” aveva “non è qui”, lo sappiamo dal confronto coi sinottici (Mt.28,6;
Lc.24,6); per quanto importante, “non è qui” è una notizia che non vale “è
risorto”: Marco non la cancella, la pospone per poterci dare un anticipo della
proclamazione affidata ai discepoli e colta in un baleno nelle parole
dell’angelo-giovinetto. Gesù il nazareno– il crocifisso – è risorto, a ben guardare
è anche in sintesi il contenuto del Vangelo: ecco perché Marco è
straordinario!
Deve aver fatto parte dell’annuncio dei discepoli anche l’immancabile
invito alla conversione (come in 6,12). La struttura della proclamazione

175
appare dunque uniforme: tanto nelle parole di Gesù che in quelle dei
discepoli, una prima parte annuncia l’iniziativa di Dio che nel Figlio Gesù è
gratuita e incondizionata, la seconda parte contiene una richiesta di decisione
a quelli che ascoltano. E non si dica che siamo allo scambio: ciò che Dio
compie di sua iniziativa non ha bisogno di approvazione né è sottoposto al
consenso degli uomini, anzi avviene in presenza del dissenso di molti, nel caso
della morte di Gesù il dissenso e l’ostilità sono addirittura organici al
compimento del disegno divino, nulla può dare in cambio l’uomo, la
sproporzione è la regola ed è incolmabile; solo successivamente, sulla base di
ciò che ha fatto Dio, l’uomo potrà fare la sua parte.
Per quanto il Figlio entri nel mondo destituito di potenza e gloria per
dedicarci la vita, il mondo non resta con ciò un solo istante allo sbando; il
Padre lo tiene saldo in mano (per alcuni la Trinità è un problema ma, se non
fosse, tutto sarebbe impensabile!); è lui che guida la danza del mondo in
modo sovrano (cfr. Mt.11,16ss): anche se ciascuno ha diritto di decidere
autonomamente la sua quota.
La gloria della chiesa è la proclamazione: ma oggi c’è ancora
proclamazione? Gesù non ha proclamato per fare discepoli, semmai ha fatto
discepoli per proclamare, perché la proclamazione non inaridisse. Nel
momento stesso in cui pescava uomini per la proclamazione, Gesù disse anche
a Pietro e Andrea “vi farò diventare pescatori d’uomini” (1,17): una catena
che non deve interrompersi mai, “finché non si spenga la luna”.
Il Vangelo di Marco è già l’eco della prima proclamazione, dopo il
bagno inaugurale nel bel mezzo dell’umanità e la messa in prova della potenza
del Risorto e della sua parola. L’evangelo proclamato al mondo tiene il posto
delle beatitudini della povera umanità nel primo Vangelo! non esiste infatti

176
annuncio lieto e beatificante per gli uomini (fiere o angeli) che non si trovi
specchiato qui.
Oggi si dà ancora proclamazione dell’evangelo, almeno qualche
brandello, ma il suo primato dov’è? c’è la predicazione, che però è altra cosa,
altri destinatari, altri comunicatori. E dove gli immancabili segni della
proclamazione? se c’è proclamazione, devono esserci anche i miracoli che
l’accompagnano e di cui avevan piene le mani quegli annunciatori! Persino la
finale aggiunta sapeva queste cose, infatti scriveva: “Questi saranno i segni
[…] nel mio nome scacceranno demoni, imporranno le mani ai malati e
questi guariranno […] mentre il Signore operava con loro e confermava la
parola con i prodigi che l’accompagnavano” (16,17ss). Non ci sono oggi né i
segni né gli uomini in grado di operarli: sfido che non c’è proclamazione!
La rete della chiesa sarà pur gonfia di pesci buoni e cattivi (Matteo),
ma è stato fatto un lavoro un po’ inutile (infatti ci si salva anche fuori) e un
po’ controproducente (a motivo della mediocrità): si doveva pescare uomini
non per la loro salvezza bensì per proclamare cacciare i demoni e dare la vita.

177
Capitolo 2
Effusione universale dello Spirito: il punto per sollevare il mondo

Il battesimo in Spirito

Nella parte di Dio c’è un aspetto trascuratissimo, e il motivo resta


inspiegabile: si tratta del battesimo universale in Spirito. Se in passato l’alleanza
del Sinai aveva promesso fecondità prosperità vittoria sui nemici, ora Dio
offre in dote grazia amore conoscenza del Signore: sono frutti dello Spirito;
ma a chi sono promessi?
Il tutto è da principio, non sappiamo con quale consapevolezza, nelle
parole del Battezzatore, “Io vi battezzai in acqua, egli battezzerà in Spirito
Santo” (Mc.1,8). Marco non è quello che si perde per strada le premesse,
dunque in qualche luogo ne ha indicato il compimento; ed è forse il regalo
più prezioso che ci ha lasciato, perché è una sorta di prima pietra su cui cresce
tutto l’edificio. Dove esattamente pone Marco il compimento di tale
annuncio? Come ho scritto commentando la sezione introduttiva, non c’è
altro luogo nel suo Vangelo dove si abbia battesimo in Spirito (per quanto in
maniera allusiva) che in morte di Gesù. La finale aggiunta, è vero, parla
espressamente di battesimo (“Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo…”
16,16) ma s’è detto sopra che non è di Marco; mentre tutto spinge in altra
direzione. Ricordate l’arco di luce che egli getta tra la teofania battesimale e
l’evento che si compie sul Golgota? egli sembra il solo a vederci uno stretto
rapporto (del verbo “schízo-squarcio” in questi soli luoghi 1,10 e 15,38
abbiamo detto). Si aggiunga che allorché Gesù parla del battesimo, se non si

178
tratta del battesimo di Giovanni (cfr.11,30), egli intende il battesimo della
sua morte (10,38s), dove si trova la pienezza cui è proteso il lavacro ricevuto
al Giordano. Ma il battesimo che per lui è la morte, quello stesso battesimo
è per gli uomini la vita: lì si trova la fonte dello Spirito.
Per il morire di Gesù in croce Marco (seguito da Luca) ha l’aoristo
“exépneusen-spirò” (da ek-pnéo; nell’aoristo si coglie bene la radice di pneûma-
spirito); c’erano almeno altre tre o quattro espressioni utilizzabili, ma egli ha
eletto questa. Può essere che il verbo fosse già nella fonte, insieme alla
probabile allusione allo Spirito; Matteo conferma e il IV Vangelo chiarisce
scrivendo “parédoken tò pneûma-consegnò, trasmise lo Spirito” (Volgata:
tradidit spiritum); consegna che nella linea di Luca è verso il Padre (“Padre,
nelle tue mani rimetto il mio spirito” Lc.23,46), e nella linea del IV Vangelo
è in direzione degli uomini (Gv.19,30 “reclinato il capo consegnò lo Spirito”).
Marco va oltre, arditamente, riconoscendovi senz’altro il battesimo in
Spirito, che va distinto dalla infusione dello Spirito ai credenti (Gv.20,22s
“[Gesù] soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo): infatti altra è l’effusione
universale dello Spirito che Marco intravvede qui, altra l’infusione dello stesso
ai credenti essendo l’una condizione dell'altra. In tanto ci potrà essere
infusione dello Spirito in quanto è versato su ogni carne a distruggere
inimicizia e peccato! Tale è appunto il verbo che si trova nel testo celeberrimo
di Gioele: “In quei giorni verserò [ekcheô] il mio Spirito su ogni carne […]
Anche sugli schiavi e sulle schiave in quei giorni verserò [ekcheô] il mio Spirito
[…] Il sole si cambierà in tenebra e la luna in sangue prima che venga il giorno
del Signore” (Gl.3,1ss). Nella morte di Gesù ci fu in nuce ciò che la
Risurrezione, vero e proprio big-bang, doveva scagliare per l’universo in
attesa. A questo dunque alludeva la parola del Battista, agli occhi attenti di

179
Marco: all’effusione universale escatologica dello Spirito. E dev’essere stato
proprio quel verbo usato in metafora (ekchéo, ebr. shaphak) a veicolare l’idea
del battesimo in Spirito; lo stesso verbo che Marco utilizza invece
letteralmente, nella forma ekchúnno, del Sangue di Gesù versato per molti
(Mc.14,24): mentre però il Sangue è versato hupér-per tutti, lo Spirito è
versato o effuso epí-su tutti. Ambedue fluiscono dalla libera preziosissima
morte del Figlio di Dio: il Sangue, per il riscatto e la nuova alleanza; lo
Spirito, per renderci capaci di vivere da liberi le responsabilità della nuova
alleanza.
Non si veda, in ciò che è scritto qui, una svalutazione del battesimo
cristiano, Marco non afferma l’uno a spese dell’altro. Il battesimo in Spirito
e il battesimo cristiano in acqua e Spirito si collocano su due piani distinti: il
primo riguarda tutti, il secondo coloro che entrano nella chiesa; e
soprattutto, il primo appartiene alle opere che Dio ha compiuto
indipendentemente da noi, gratuito dono all’umanità, l’altro alle opere che
esigono invece la nostra libera decisione. Del resto non ci possono essere
dubbi circa la considerazione di Marco per il battesimo cristiano, se è vero
che il suo Vangelo lo ha scritto, ma non solo, come percorso catecumenale
di preparazione al battesimo!

Il battesimo in Spirito nei sinottici

Che dire di Mt-Lc? Anch’essi riportano la parola del Battista, con due
varianti: “egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (Mt.3,11; Lc.3,16): ma
dove la vedono di fatto avverata? Possiamo escludere che abbiano identificato

180
lo spirare di Gesù con il battesimo in Spirito di Marco; ammesso che hanno
avvertito il legame tra lo spirare e lo Spirito, per loro è solo una premessa del
futuro battesimo; lo Spirito è come parcheggiato in attesa di sviluppi, questa
cosa non avrà mai la statura che Marco vi ha riconosciuto. Quali sviluppi?
Quanto a Luca, è sin troppo facile seguire i suoi pensieri e vedere in quello
che è da lui descritto a Pentecoste il compimento del suo discorso sullo
Spirito, allorché “all’improvviso ci fu dal cielo un rombo come di vento che
irrompe impetuoso e ne fu pieno il luogo dove stavano, e apparirono loro
lingue come di fuoco che si dividevano e stettero su ciascuno di loro, e furono
tutti ripieni di Spirito Santo” (Atti 2,1-4). La messinscena sembra fatta di
misura per ricordare anche nei particolari la teofania al Giordano (Lc.3,21s:
dal cielo, lo Spirito che là ha l’aspetto sensibile come di colomba, qui ha
l’aspetto di lingue come di fuoco, e in ambedue i casi c’è epi…). A Pentecoste
dunque, non in morte di Gesù, è per Luca il battesimo in Spirito, e la
destinazione è la chiesa; e perché non ci sia luogo a dubbio, lo fa dire
direttamente da Gesù risorto: “Giovanni battezzò in acqua, ma voi sarete
battezzati in Spirito Santo passati questi non molti giorni” (Atti 1,5). È una
prospettiva chiara ma estrema, se non corretta e completata da quella di
Marco; lasciata a sé stessa, infatti, essa fa intendere che lo Spirito è cosa per
soli discepoli: potrà far chiesa, ma taglierà via di netto il resto dell’umanità
che non diventa chiesa. Questo purtroppo è avvenuto, con esiti nefasti.
Con ciò si è anticipato anche un giudizio sulla concezione di Matteo.
Esiste, anche per Matteo, il momento in cui si realizza la parola circa il
battesimo in Spirito? Se esiste, come penso, non può trovarsi che nella finale
del Vangelo, quando il Risorto inviando i suoi discepoli impartisce le ultime
disposizioni: “Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del

181
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (Mt.28,19). Il battesimo in Spirito
per Matteo, diversamente da Luca, non è dunque altro che il battesimo
cristiano, presentato nella veste liturgica che ci è nota e con la formula di rito
trinitaria. Questa è la bellezza del Vangelo quadriforme, vi puoi trovare tutto
il tesoro di verità che il Padre ha inteso comunicarci nel suo Figlio. Ripeto,
bisognava non perdere per strada Marco! Infatti anche l’identificazione fatta
da Matteo, perfettamente legittima, non prevede alcuna ricaduta per chi è
fuori dal recinto. Un cenno al fuoco: Luca lo ha incluso brillantemente nella
sua costruzione; e Matteo? Dobbiamo dire che in Luca il termine “fuoco”,
usato in senso metaforico, ha soprattutto valenza positiva come è confermato
dal detto “Un fuoco venni a gettare sulla terra, e come vorrei che fosse già
acceso!” (Lc.12,49), detto da interpretare forse proprio in direzione dello
Spirito; mai invece appare in questa luce il fuoco nel Vangelo di Matteo, dove
è piuttosto fuoco purificatore o fuoco di giudizio (cfr. Mt.3,10.12; 5,22…).
Se per Luca Spirito e fuoco sono un concetto (il fuoco è immagine dello
Spirito), per Matteo essi sono alternativi, come si apprende se si fa attenzione
al seguito “Egli ha in mano il ventilabro e pulirà la sua aia; raccoglierà il suo
grano nel granaio ma la pula brucerà con fuoco inestinguibile”. Così sarà in
effetti nel Giudizio: “Venite, benedetti del Padre mio, ereditate il regno […]
Andate via da me maledetti nel fuoco eterno” (25,34.41).

182
Ecco dunque come sono disposte le forze in campo:

- Il riferimento allo Spirito nell’atto di spirare di Gesù è coscienza comune


non solo ai Vangeli ma anche alla Fonte; solo Marco però lo identifica con
sicurezza come il battesimo in Spirito predetto dal Battista; per Mt-Lc lo
spirare di Gesù potrà essere la premessa del futuro battesimo in Spirito
(che intendono altrimenti), nulla più.
- Marco Luca e Giovanni vedono il compimento della parola del Battista nel
dono dello Spirito, ma diversamente: come effusione universale (Mc),
come infusione particolare ai credenti (Lc-Gv); Matteo il compimento lo
vede nella forma del battesimo in acqua e Spirito, il sacramento cristiano.
- Nessuno, sembra, all’infuori di Marco ha avvertito l’importanza
dell’effusione dello Spirito in sé e per sé; egli ha capito che lo Spirito non
può essere appannaggio esclusivo della chiesa e dei credenti, ma in tanto
ha credenti da santificare in quanto è stato donato a tutti perché tutti
abbiano di che incamminarsi verso Cristo, nella fede o anche al di fuori
della fede. Il primo lavacro è lo Spirito! un battesimo benefico che anticipa
anche la fede e rigenera ogni carne, al pari di certi rovesci di pioggia che
d’un colpo mutano l’arido freddo inverno in tenera primavera (“la prima
pioggia l’ammanta di benedizioni” Sal.83,7). E questo è Marco.

Se il Figlio è dato per tutti, deve seguirne che lo Spirito è dato a tutti,
perché porti a destinazione la redenzione di Cristo e il perdono universale
frutto della sua morte; e del resto non ha molto senso che il Padre doni l’una
mano (Ireneo) e conservi in seno l’altra. Come si conosce il Padre solo per

183
mezzo del Figlio, così si può conoscere il Figlio solo nello Spirito Santo: non
disporre dello Spirito equivarrebbe già a una condanna. Gli uomini non erano
più un solo spirito: lo avevano smarrito nel paradiso ascoltando il serpente,
spirito del male e della divisione; e si erano dispersi. Il ritorno all’unità, che
Luca vede nell’irruzione dello Spirito a Pentecoste su un gruppo
rappresentativo dell’intera umanità, Marco lo aveva individuato già in morte
di Gesù, nell’effusione dello Spirito sull’intera umanità e non su una sua
rappresentanza.

Effusione dello Spirito e salvezza universale

Non è evitabile a questo punto una domanda: se si dice che soltanto


Marco avrebbe visto un battesimo-effusione universale dello Spirito, che gli
altri evangelisti non hanno sospettato, e che per 2000 anni non fu più
considerato (così mi risulta, salvo miglior fortuna), non sarà magari il caso di
pensare che quello attribuito a Marco è un abbaglio, un assunto sconsiderato
più che ardimentoso, contrario a una tradizione millenaria? oppure, dal
momento che è sfuggito a tutti e visto che se ne è fatto a meno per migliaia
di anni, non si potrebbe pensare che non era quantomeno essenziale
all’evangelo?… Eppure in Marco c’è, e dunque di diritto appartiene
all’evangelo! Quanto poi ad averne fatto a meno, non ci si illuda troppo: sia
perché lo Spirito ha operato comunque nel cuore del mondo, sia perché la
mancata consapevolezza della chiesa può essere stata pagata a carissimo
prezzo.

184
Non ho titubanze; questa interpretazione porta alla coscienza un dato
talmente organico all’insieme del Vangelo di Marco (e necessario
all’evangelo tout court, per non dire alla salvezza), che si sarebbe dovuta creare
la sua luce se non fosse stata già lì. E non intimorisce neppure dover
ammettere che la cosa è sfuggita perfino all’apostolo Paolo: dico perfino, non
perché egli debba essere per forza più intelligente o illuminato degli altri, ma
perché toccò gli argomenti, e ci arrivò così vicino da aver tutto sotto gli occhi
eppure non vide. Erano tutti quanti catturati dalla chiesa! e il sentimento della
prossimità della parousia ha fatto il resto, al punto che nessuno si preoccupò
di ciò che accadeva al di là del recinto. Già, ma non era stato “abbattuto il
muro di separazione”? Evidentemente no! Non ho niente contro fede e
battesimo, è chiaro; però non può esser questo il fondamento della salvezza
universale. Affermarlo significherebbe legare la salvezza all’opera della chiesa
tanto indissolubilmente che, se la chiesa prende il raffreddore o per un caso
della storia non arriva all’appuntamento, molti sventurati perderebbero il
treno per l’eternità. Chissà perché questa cosa, la scelta dell’imbuto, non mi
sembra degna di Dio! D’accordo, oggi non c’è più nessuno che parla in questi
termini della salvezza; tuttavia le giustificazioni che si danno sono surrettizie
fuori sistema frutto di disperazione; quando invece la risposta è lì, è biblica,
si regge sull’effusione universale dello Spirito. Solo bisognerebbe che la
chiesa rinunciasse ad avere l’esclusiva sullo Spirito! Quando arriva la chiesa,
nella persona dei suoi inviati, lo Spirito è già sul posto e ha fatto un sacco di
lavoro oscuro che darà i suoi frutti; mentre la chiesa ha proceduto col passo
degli uomini, legati al tempo e allo spazio, alla fatica e alle ostilità, all’errore
e al peccato… Così lo Spirito supplisce, ove occorre, anche la proclamazione
che la chiesa trascura di fare.

185
Paolo stesso ci offre un involontario argomento (anzi due) in
Rom.10,14-17: esordisce citando “Chiunque invocherà il nome del Signore
sarà salvo” (Gl.3,5); e incalza “Come invocherebbero colui in cui non
credettero? e come crederebbero in colui che non ascoltarono? e come
ascolterebbero senza chi proclama? e come proclamerebbero se non vengono
mandati?”; e infine conclude: “Dunque la fede dall’ascolto, l’ascolto poi per
la parola di Cristo”. Ora tutti questi passaggi (e ce ne sarebbero altri)
consentono un rapido cammino all’evangelo? Paolo ne era convinto. A 2000
anni di distanza siamo assai meno sicuri di lui: ci sono quattro o cinque
miliardi di persone oggi sulla terra che non hanno udito, o non hanno udito
in modo congruo… C’è una cosa curiosa però: Paolo in apertura cita il
profeta Gioele proprio al cap.3 dove si annuncia anche “verserò il mio Spirito
su ogni carne”; ebbene, non lo riporta né qui né mai altrove, eppure è il testo
che proietta lo Spirito in ogni angolo del mondo dove lo raggiungerà la chiesa,
se lo raggiungerà! C’è un motivo, mi sono chiesto, per cui Paolo tralascia
quel testo?

Lo Spirito effuso pareggia il conto col peccato originale

Si potrà sussumere che qui Paolo non aveva interesse a sviluppare il


tema; ma ci sono altri luoghi dove, pur trovandosi in ottima posizione non
ne ha tratto profitto, e si è lasciato dietro la medesima lacuna. Prendiamo
l’antitesi Adamo-Gesù che sviluppa in Rom.5,12-20: c’era occasione più
adatta? Con la nascita gli uomini non entrano in un mondo vergine,
innocente, è un mondo in situazione di peccato a causa della disobbedienza

186
di un solo uomo Adamo, così che tutti ne sono tocchi, “perché tutti hanno
peccato”; ma è anche un mondo che sovrabbonda di grazia per l’obbedienza
di un solo uomo Gesù, e tutto testimonia della superiorità della grazia
rispetto alla colpa. Il minimo che ci aspetteremmo da una tale premessa è:
come si è toccati da una situazione maledetta ancor prima di aver deciso
qualcosa personalmente (dogma del peccato originale), così siamo rapiti in
una situazione benedetta ancor prima di aver deciso qualcosa personalmente.
E invece qui Paolo ha la solita amnesia: mentre la prima condizione entra in
presa diretta senza guardare in faccia nessuno né presentare scuse, la seconda
non solo non morde ma ha bisogno di una valanga di passaggi e di mediazioni
per entrare nel vivo né è in grado di salvare alcuno se non interviene la fede
il battesimo… Su tutti gli uomini indistintamente grava la colpa di Adamo,
la grazia di Cristo invece collocherebbe su roccia di salvezza solo quelli che
credono! Dove è finita la tanto esaltata superiorità della redenzione? senza
dire che se si dovesse aspettare la chiesa, non sarebbe davvero né così
generosa né così tempestiva la grazia di Cristo come lo è la colpa di Adamo.
Manca sempre quel tassello: l’effusione universale dello Spirito è ciò
che davvero manca per pareggiare il conto tra colpa e grazia, allora sì in modo
sovrabbondante! Paolo, bisogna riconoscerlo, non ha avuto mai il coraggio di
tagliare questo nodo: ha affermato benissimo il principio “Quando ancora
eravamo peccatori Cristo è morto per noi” (Rom.5,8), ma la restrizione
mentale è in agguato in quel “noi”. Se non si esce di forza da questo orizzonte
ci sarà sempre una maggioranza estranea alla salvezza, mentre tutti sono posti
in situazione di salvezza anche prima della fede e del battesimo in Cristo. Il
contrario sarebbe umanamente insopportabile, e dunque teologicamente non
corretto! In tanto sta il dogma del peccato originale che è in sé insopportabile,

187
in quanto sta anche il dogma del battesimo in Spirito dono di Cristo all’umanità
nell’atto suo di morire (se poi dogma non è, lo si faccia: è il più importante
di tutti). Non sta l’uno? allora è giusto che non stia neppure l’altro. Infatti il
coinvolgimento di tutti nella colpa di Adamo diventa accettabile solo in
quanto figura e profezia del coinvolgimento di tutti nella grazia di Cristo,
mediante lo Spirito! È il battesimo universale in Spirito che toglie il peccato
originale, il battesimo in acqua introduce nella chiesa.
Gesù è morto per tutti, da qualche parte doveva risultare la valenza
del suo dono, radicale almeno quanto lo era stato il peccato di Adamo: Marco
l’ha indicata in modo cosciente nello Spirito effuso universalmente. Il cielo è
aperto e nessuno lo chiuderà più, ed è aperto per tutti altrimenti non lo è per
nessuno. Il velo del santuario, squarciato in due da cima a fondo, è rimasto
per troppo tempo al suo posto: non è venuto in mente ad anima viva che
poteva significare continuità col passato lasciarlo là a penzolare? …
L’abbiamo tirato giù.

188
Capitolo 3
Il Regno di Dio

Il regno di Dio è venuto

La sua attività in Galilea Gesù la inizia proclamando “Il tempo è


compiuto e il regno di Dio è vicino” (1,15). È vicino viene espresso non
staticamente con l’avverbio eggús, ma con il perfetto di un verbo di moto: è
vicino perché “éggiken-si è avvicinato”, ha fatto un passo decisivo non tanto
verso di noi (Luca) quanto verso la piena realizzazione (Marco). Troppo
solenne è stata la proclamazione che è vicino, perché non abbia un seguito
adeguato: Marco, non c’è dubbio, ha in mente anche di dirci che questo regno
è venuto. Lo fa infatti, appena avanti di narrare l’epifania sul monte (9,2-10).
Al termine dell’istruzione ai discepoli (8,34-38), a cui Gesù ha chiamato a
sorpresa anche la folla (v.34), Marco scrive: “E diceva loro: in verità vi dico,
ci sono alcuni tra quanti si trovano qui, i quali non gusteranno la morte prima
di vedere il regno di Dio venuto con potenza [tèn basileían toû theoû eleluthuîan
en dunámei]” (9,1).
È assai probabile che Marco abbia modificato il finale del detto,
perché Matteo (“vedano il Figlio dell’uomo” 16,28) e Luca (“vedano il regno di
Dio!” 9,27) non si accodano, e in nessun altro luogo del NT ricorre mai
l’espressione col participio perfetto “venuto con potenza” (del Figlio
dell’uomo nella parousia è detto, ma col participio presente, “veniente con
potenza grande e gloria [erchómenon metà dunámeos pollês kaì dóxes]” Mc.13,26).
Marco sapeva di dovercelo e non ha badato a spese! È cosa che fa sensazione

189
infatti, il regno venuto e visto con questi occhi. Solitamente si interpretano le
parole del detto (9,1) come allusione alla Trasfigurazione e ai tre (Pietro
Giacomo Giovanni) che salgono al monte con Gesù. Sarà così per Matteo
(16,28), forse anche per Luca (9,27), ma non per Marco: assistendo al
discorso anche la folla, esiste almeno la possibilità che si intendesse con quel
“alcuni dei presenti” l’intero gruppo dei discepoli e non solo i tre. Ne segue
la possibilità che il detto abbia che a fare soltanto indirettamente con il
racconto della Trasfigurazione. Perché affermo questo? perché la
Trasfigurazione è un’epifania, mentre il regno venuto è un evento dall’impatto
storico grandissimo. Se il regno dovesse venire in un’epifania, perché ci
sarebbe l’incarnazione, e perché la cacciata del Figlio, e a maggior ragione
perché la sua morte? sarebbero eventi svuotati di senso, si farebbe carta
straccia della fatica della storia, e lo gnosticismo ringrazierebbe. Il regno
invece, il suo essere vicino come l’essere venuto in potenza e l’essere atteso nella
gloria, è legato al destino del Figlio di Dio venuto nella carne. “Storia e destino
non maturano in puro spirito, ma solo nella carne” (R. Guardini).
Che cosa intendeva dunque Marco se non la Trasfigurazione?
intendeva l’evento insieme alla morte decisivo: la Risurrezione. E per una
serie di motivi. Se il regno è storicamente legato a Gesù e alla sua missione,
allora quando essa inizia si può dire “il regno di Dio è vicino”, e appena si
compie nella morte-risurrezione si deve poter dire “il regno è venuto”. E
ancora: cosa vedono i discepoli prima di morire che non vede la folla, se
escludiamo le epifanie? i discepoli saranno gli unici a vedere risorto colui che
fu crocifisso (16,6); non solo, si ricordi che la parola riguarda il regno venuto
non veniente: infatti, come non vedranno Gesù risorgere ma risorto, allo stesso
modo non vedranno il regno venire ma venuto! Nel Cristo risorto dunque,

190
per Marco, vedranno il regno venuto. Il Figlio dell’uomo “tutti” lo vedranno
venire alla fine dei tempi nella gloria; il Risorto e il regno venuto con potenza
(non ancora nella gloria) lo vedranno invece alcuni soltanto, in questo tempo,
prima di morire: l’appuntamento con la visione è alla parousia per tutti, alla
risurrezione di Cristo invece per quei discepoli. Resta da spiegare perché
Marco abbia collocato qui il detto di 9,1: tra le epifanie la Trasfigurazione è
quella che maggiormente evoca la Risurrezione (cfr.9,3.6.9), e questo può
essere un buon motivo; si ricordi inoltre che trattasi qui della sezione della
comunità (en tè hodô) e non c’è luogo più idoneo per una simile parola, pur
essendo oltremodo significativo che della parola sia testimone la folla, perché
la riguarderà. Coloro che vedono il Risorto (e il regno venuto, in lui) lo
vedono anche per la folla; la folla lo vedrà nei loro occhi e nella loro vita di
discepoli… Né sarà esclusa dallo sperimentarne la potenza (peraltro
pregustata già nei segni durante il ministero di Gesù: i miracoli come presagi
di Risurrezione!).
Non se ne concluda che il regno è unicamente da vedere: esso è fatto
per entrarci. Regno di Dio in Marco ricorre 14 volte, e ben 5 volte si dice
“entrare [eiseltheîn]” nel regno e il tempo è il futuro. Eppure è possibile non
esserne “lontani” (12,34), si “attende” (15,43), si “accoglie” (10,15), ad alcuni
“è dato” il suo mistero (4,11). E se per taluni è difficile entrare nel regno
(10,23), ci sono altri come i bambini per i quali è affatto naturale: è loro
proprio (10,14), senza sforzo, fors’anche senza saperlo. Per il regno come
per il Risorto vale l’ubiquità, è in questo mondo ma non è di questo mondo,
perciò non tengono le leggi di questo mondo: è qui e dovunque. Non è
sorpresa se anche l’ultima fase, la rivelazione gloriosa del regno, coincide con
l’apparizione gloriosa del Figlio dell’uomo (13,26;14,62). Rispetto

191
all’apocalittica giudaica e alle settimane di Daniele, la comunità dei discepoli
conosce meglio i termini del suo cammino: il terminus a quo è la risurrezione
di Cristo, il terminus ad quem è la sua apparizione nella gloria, come pilastri di
un ponte di luce che per ora non ha misura che in Dio.

Il regno di Dio nei sinottici

C’è una curiosa divergenza tra i sinottici: in Mt proclamano che il


regno di Dio è vicino Gesù i discepoli e persino il Battista, in Lc Gesù e i
discepoli, in Mc soltanto Gesù! Marco ha negli occhi la missione dopo la
Pasqua, e allora i discepoli dovranno annunciare non che il regno è vicino ma
che è venuto! Per Luca è diverso, i discepoli possono continuare ad annunciare
che è vicino, infatti dicono “è vicino a voi il regno di Dio” (Lc.10,9) o “il regno
di Dio è dentro di voi [entòs humôn]” (17,21), dove non rimane difficile
individuare la prospettiva personalistica propria dell’evangelista. Ma in Luca
il regno non viene in realtà che alla fine: “Quando vedrete accadere queste
cose, sappiate che il regno di Dio è vicino [eggús]!” (21,31). Per Marco alla
fine verrà nella gloria, ma è già venuto in potenza; non ha bisogno di
conquistare il mondo, è già suo, è il cielo aperto sul capo di tutti gli uomini.
Non meno interessante è il percorso di Matteo, il quale usa di norma
regno dei cieli (per evitare il nome di Dio, come si spiega di solito? forse no) e
talvolta un’altra bella espressione, evangelo del regno. Egli fa dire a Gesù nei
riguardi di sommi sacerdoti e anziani del popolo: “vi sarà tolto il regno di Dio e
sarà dato a un popolo che produrrà il suo frutto” (Mt.21,43): apprendiamo
così che il regno non era cosa nuova per il popolo ebraico, anzi con

192
espressione semitica essi potevano chiamarsi “i figli del regno” (8,12). Matteo
sa bene che il popolo dell’alleanza è proprietà particolare di Dio: Israele era
il suo regno a preferenza di tutti gli altri popoli, Gerusalemme la sede del suo
trono. Si osservi invece come si esprime più avanti: “Guai a voi scribi e farisei
ipocriti, perché chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini: così voi non
entrate e quelli che entrerebbero non lasciate entrare” (23,13). Si può
ipotizzare che in Matteo regno di Dio sia una nozione conveniente in modo
specialissimo al popolo eletto; e che regno dei cieli se ne distacchi per la sua
trascendenza, e sia legato in modo esclusivo alla persona di Gesù e alla
predicazione dell’evangelo. Finché teneva l’alleanza, si poteva dire che il
regno di Dio, pur essendo universale, coincideva singolarmente qui in terra
con il popolo eletto. Ecco tuttavia che si fa innanzi una cosa nuova, che
Matteo chiama con scelta felice regno dei cieli, e che immagina sovrapporsi
nonostante la sua trascendenza e coincidere con il nuovo Israele (la chiesa).
Non sorprende pertanto che in luogo di scribi e farisei l’evangelista prospetti
in futuro l’insediamento di Pietro: “A te darò le chiavi del regno dei cieli, e
quanto legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e quanto scioglierai sulla terra
sarà sciolto nei cieli” (16,19).

Il regno e la divisione del tempo in Marco

S'è detto più sopra che autorità-exousía, potenza-dúnamis, gloria-dóxa


in Marco caratterizzano tre distinti momenti della vita del Signore e del suo
mistero; possiamo aggiungere che gli stessi termini segnano con la vita del
Signore anche le tappe del regno e determinano la divisione del tempo della

193
salvezza (kairós): con la venuta di Gesù il regno si è fatto vicino, sono i giorni
di Gesù tra satana fiere e angeli, del ministero in autorità dalla Galilea a
Gerusalemme; con la morte-risurrezione il regno è venuto con potenza, sono
i giorni della comunità dei discepoli che si ricompone intorno al Risorto e
della missione al mondo intero, dove la potenza è del Risorto non dei
discepoli, lo status dei quali non potrà discostarsi da quello del Gesù
prepasquale; alla parousia infine, con il Figlio dell’uomo che appare sulle nubi
con grande potenza e gloria (Mc.13,26; cfr.Dan.7,13), ci sarà anche la
gloriosa rivelazione del regno e s’inaugurerà la sua fase definitiva: la via santa
avrà a quel punto ricondotto alla casa di Dio uomini e popoli dispersi.
Non è Luca dunque ad aver formulato per primo la divisione del
tempo (come kairós-tempo della salvezza). Luca ha senza dubbio potuto
caratterizzare con sicurezza il periodo tra Risurrezione e parousia come il
tempo della chiesa avendo scritto dopo la caduta di Gerusalemme, senza la
turbativa di quell’incognita: Israele–chiesa–regno di Dio; la chiesa è il vero
Israele, istallata qui in terra anche per un lungo periodo, nella prospettiva
della parousia e del regno glorioso. Marco non parla di chiesa: non perché
non conoscesse il termine, lui che è stato con Paolo e Barnaba; trattando di
Marco si parla di preferenza in termini di comunità dei discepoli (“quelli che
stanno intorno a lui insieme ai Dodici” 4,10), la quale è in grado di riprodursi
in mille luoghi e in mille popoli a formare una sola famiglia di Gesù. Ebbene,
confrontando le divisioni proposte da Marco e da Luca, ci si rende conto che
quella di Marco ha il pregio di evidenziare meglio la centralità non della chiesa
ma del Kúrios Gesù: ognuna delle tre fasi del regno e del tempo riposa infatti
in lui.

194
Qualcuno ha scritto che Marco trascura del tutto Israele: non è affatto
vero! Gesù con la sua venuta trascina dietro a sé tutta la storia della salvezza,
e non solo l’arco dell’alleanza con Abramo e la sua discendenza (che Marco
si guarda bene dall’assolutizzare, ciò è vero!), ma anche l’arco dell’alleanza
delle origini con Noé e con Adamo. Gesù è il punto su cui grava tutta la storia
alle spalle e da cui prende slancio tutta la storia a venire. Limitare l’orizzonte
a Israele, senza andare oltre fino alle origini, potrebbe nascondere agli occhi
e persino tradire la grandezza del disegno che Dio ha in animo di realizzare.

Il lancio del futuro

Il lancio del futuro, svincolato dalla fine di Gerusalemme, ha luogo


nel grande Discorso che Marco e i sinottici fanno precedere alla Passione
(Mc.13,4-37; Mt.24,4ss; Lc.21,5ss). Bisogna ricordare che i Vangeli
giungono quando l’ambiente è già caratterizzato da attese, e nel caso sono
attese di una fine ravvicinata sia della città che del mondo. Lo scritto
apocalittico che Marco utilizza, seguito in ciò da Mt-Lc (gli studiosi parlano
per lo più di piccola Apocalisse giudeo-cristiana), ha quell’orizzonte
ravvicinato; ed egli deve calibrarlo bene se vuol farlo ricomparire in modo
degno sulla bocca di Gesù: dico ricomparire perché sono convinto che Gesù
non può aver taciuto delle cose ultime, e infatti il discorso è costellato di parole
unicamente sue, quasi si potrebbe dire griffate.
Gesù dunque si trova sul monte degli ulivi, seduto in faccia al tempio,
sul quale ha appena pronunciato l’oracolo implacabile “non resterà pietra su
pietra!”; e ora risponde alle domande dei quattro, Pietro Giacomo Giovanni

195
e Andrea (ricordo della prima sezione e della chiamata: Mc.1,16ss): “Dicci
quando saranno queste cose, e quale sarà il segno che tutte queste cose stanno
per aver termine?” (13,4; precisi contatti con Dan.12,6.7 LXX). La seconda
domanda forse deborda dalla premessa, passando illegittimamente dalla fine
del tempio alla fine di tutto? … Già Daniele legava alla fine del tempio la fine
di tutte le cose. Gesù invece è alla sua morte che annette sia la fine del tempio
che la fine del tempo; di diritto tutto avviene contemporaneamente e i segni
sono lì a mostrarlo: quando Gesù muore sulla croce, il velo del santuario si
squarcia e il sole non dà più luce (Mc.15, 33; cfr.13,24). Se il Figlio di Dio
muore, come potrebbero gli uomini e la creazione pensare di sopravvivergli?
Di diritto tutto ha già fine, non necessariamente di fatto. Che i discepoli non
abbiano colto il sottile distinguo, che l’apocalittica del tempo spingesse in
altra direzione… Rimane che la prima generazione cristiana attendeva
prossima la fine del mondo, non solo di Gerusalemme.
Marco è probabilmente interprete della parte più illuminata della
comunità, arriva a pensare in modo disgiunto l’accadimento di fatto degli
eventi: come ci fu un giorno per la morte del Signore, così ci sarà un giorno
per la distruzione di Gerusalemme e un giorno per la fine del mondo. Ne è
talmente consapevole che quando scrive di quel giorno, il giorno finale, ha
un’espressione caratteristica così: tês heméras ekeínes (13,32;14,25), che noi
possiamo rendere in un solo modo quel giorno, mentre lui il dimostrativo che
di solito sta prima del nome lo pone curiosamente dopo (lo stesso sembra
fare Luca, non so se con la stessa consapevolezza). Così, descritta la grande
tribolazione che si abbatterà su Gerusalemme (13,14-23), prosegue “Ma in
quei giorni dopo quella tribolazione il sole si oscurerà”: “dopo” è sufficiente a
escludere l’accadimento simultaneo; quanto poi all’espressione “in quei

196
giorni” non dice nulla circa la prossimità, dice solo che sono i giorni
escatologici, di durata indefinibile. Diverso è il caso di Matteo: “E subito dopo
la tribolazione di quei giorni…” (Mt.24,29); nella trasmissione del testo quel
“subito” non è mai andato incontro a dubbi: dunque, se era nella Fonte (cosa
assai probabile) è sorprendente che sia rimasto in Matteo, redatto si ritiene
negli anni 75-80 quando la distruzione di Gerusalemme è del 69-70; a questo
punto però sorprende ancor più non trovarlo nel Vangelo di Marco, redatto
ben prima della caduta della città! L’interpretazione di Marco si fonda
appunto sulla rivelazione che gli eventi devono essere disgiunti, storicamente
almeno. Da qui la strada spianata alla spiegazione della sentenza di Gesù “In
verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutte queste cose avvengano”
(13,30), che rimaneva per altri una croce insuperabile: queste parole si
riferiscono alla distruzione di fatto della città di Gerusalemme, e non alla fine
del mondo come voleva l’interpretazione corrente, Fonte compresa.
Questa è la prima di tre sentenze (vv.30.31.32), la terza dice: “Quanto
poi a quel giorno e a quell’ora nessuno sa, né gli angeli in cielo né il Figlio, ma il
Padre” (v.32); essa non è presente in Luca e non è appartenuta alla Fonte,
penso, a differenza delle prime due che non solo ne facevano parte ma ne
erano i pilastri. Teologi liberali e dialettici la terza sentenza non la ritengono
di Gesù bensì di mano cristiana: certo doveva essere una gran manaccia di
cristiano se si è permessa di attribuire l’ignoranza al Figlio! Che sia il Figlio
stesso a farlo, passi; ma la comunità credente? … Si noti poi l’espressione gli
angeli in cielo: già, perché ci sono anche gli angeli in terra…
L’introduzione di questa sentenza nel discorso ha l’effetto di
disinnescare una bomba, se ce ne fosse stato bisogno. Infatti l’una sentenza
“non passerà questa generazione […]” (v.30) e l’altra “di quel giorno nessuno sa”

197
(v.32) come possono ragionevolmente riferirsi allo stesso evento? si
troverebbero in contraddizione tra loro! Gesù a proposito di quel giorno
saprebbe che interessa certamente questa generazione, mentre solo il Padre
sa… Se dunque l’ultima sentenza si riferisce com’è evidente all’estremo atto
della storia, la prima potrà solo riferirsi a quel che precede. E questo
dovrebbe bastare. Marco tuttavia ha una chiave che gli permette di leggere e
intendere molte cose: “Prima a tutti i popoli deve essere proclamato l’evangelo”
(v.10); penso sia stato questo principio a suggerirgli il dubbio circa l’asserita
prossimità della fine e l’esatta interpretazione di quella sentenza (v.30).
Esiste una ragione che trattiene il mondo nel suo precipitare verso la fine, ed
è legata a un disegno di salvezza in cui spicca il primato della proclamazione.
Egli pensa a tutto il cammino che ha davanti la comunità, assai più che
all’imminenza della fine del viaggio!
C’è dunque un limite alla brevità del tempo, e la cosa non può che
interessare il regno. Marco non teme di muoversi in controtendenza: se nella
Fonte l’autore della piccola Apocalisse si preoccupa che per il bene degli eletti i
giorni siano abbreviati (13,20), egli ha la preoccupazione opposta che a tutti sia
proclamato l’evangelo! Qui si coglie nitidamente la peculiarità di Marco rispetto
a tutto il NT: la salvezza non è questione di eletti, è per tutti i popoli! Chi sa
quanto è grande il mondo, e quanto grandi i popoli da evangelizzare? finite le
dodici ceste non verranno bene anche le sette sporte e così a seguire? e non
fa parte della vigilanza (vv.33-37) curare che la proclamazione non patisca
battute a vuoto a causa della cattiva qualità dei discepoli dell’improvvisazione
o dell’ignavia? Marco ha intuito assai bene la profondità dei tempi
dell’escatologia, benché non avesse immaginato quanto potevano essere
profondi. La qual cosa era ed è un segreto del Padre. Oggi a 2000 anni di

198
distanza possiamo dire, in aggiunta alle esigenze della proclamazione che
occupavano l’animo di Marco, che forse Dio vorrà esperire le potenzialità
della sua creazione prima di porvi fine; l’umanità, credente e non, perdonata
battezzata-in-Spirito seminata…, ha enormi risorse ancora da sviluppare:
forse non è saggio per il Creatore della saggezza troncarle troppo
precocemente!

Regno di Dio e Chiesa

“Dio ha agito in Cristo […] non come salvatore di un piccolo gruppo


o di un singolo popolo, ma come creatore del mondo che conduce a termine
il suo piano originario.” (v. Balthasar, Nuovo Patto, 170). Dunque, quale fu lo
scopo dell’opera di Gesù? fare discepoli, impiantare una chiesa, dar vita a un
ceto di eletti? Questo poteva essere al più l’obiettivo del ministero di Paolo:
“Mi son fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno” (1Cor.9,22).
Ma è lui stesso a denunciare la differenza sostanziale tra la sua opera e quella
di Gesù, quando scrive: “Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o nel nome di
Paolo siete stati battezzati?” (1,13) … Che Gesù sia venuto col proposito
secco di fare discepoli (da una massa dannata, si dirà poi), è una lettura non
insolita, fondamentalista e intollerante, della sua opera. Non è quella la figura
che traspare dai Vangeli, in particolare da Marco. Gesù, è vero, ha cura di
chiamare e stringere a sé dei discepoli: sono la famiglia che ha voluto, che fa
la volontà di Dio, a cui è dato il mistero del regno. Ma nel far ciò Gesù non
dà l’impressione di essere appagato, va agli altri, alla folla che accorre e alla
gente che neppure ha il tempo di muoversi dalle case nelle città e nei villaggi,

199
e ci va non per sottrarli ai loro doveri o per strapparli al mondo. Questo
conferma che la dimensione della sua vita e della sua missione non è il gruppo
degli eletti: è venuto a “dare la sua vita in riscatto per molti”, all’interno di un
orizzonte che è l’intera creazione. Non è venuto per salvarci qualcuno, ma
per portare tutto a salvezza!
I discepoli? fanno parte di questo disegno: li ha scelti per mandarli “in
tutto il mondo” (Mc.14,9). È forse meno profondo e ampio infatti l’interesse
che Gesù ha per le folle? Si pensi che tutta la sua predicazione, gran parte
dell’insegnamento, tutti i miracoli (se si vuole escludere il miracolo sul lago
in tempesta, cfr.4,35ss) hanno per destinatario la gente, e questo non solo in
Marco ma in tutti i Vangeli! Dirà qualcuno: appunto, faceva tutto ciò per
convertirli a sé, nella speranza di ottenerne dei discepoli. Per carità! Non si
vorrà dire che Gesù si interessava alla gente solo se era disposta a seguirlo, e
la amava solo nella misura che era disposta a riamarlo… cioè a dire che in
realtà della gente, salvo che si facesse discepola, a Gesù non importava
niente!? Ma questo, oltre a non corrispondere in alcun modo ai dati di fatto,
è fare scempio di Gesù. Il suo è l’evangelo della gratuità, tutta la sua vita è
gratuità, e persino la morte: lo ha mostrato sulla croce che il suo amore è a
perdere; se uno ama coloro che lo uccidono, è evidente che il suo amore è a
perdere. La gratuità è la negazione del do ut des, della logica di scambio. Tutto
quello che Gesù fa desta una risposta, e tuttavia egli non lo subordina a una
risposta, quale che sia. Allo stesso modo è gratuito, per lui, ciò che fanno gli
altri a lui: così se si ferma a pranzo da qualcuno con tutto il suo seguito, è
inteso che è gratuito; e se chiama alcuni a lasciare tutto e a seguirlo, è inteso
che è gratuito: potrà dir loro a che serviranno (“vi farò diventare pescatori
d’uomini”), ma non una parola circa la ricompensa. Se fa un miracolo, non

200
chiede nulla in cambio nemmeno il chiasso, infatti impone il silenzio; e dopo
una guarigione rimanda a casa, non al suo seguito, mai lasciando il più piccolo
sospetto che possa approfittare di chi ha bisogno: egli non lega mai un
miracolo all’obbligo se pur velato di diventar discepoli! Prima del miracolo
può chiedere la fede, ma non è in cambio, è semplicemente necessaria: e non
tanto la fede in lui ma la fede di Dio (11,22) con cui si riconosce la mano
dall’alto nel suo operare (mentre c'era invece chi ci vedeva la mano di satana
cfr.3,22). E se promette il centuplo e la vita eterna, insieme a persecuzioni,
queste cose non sono “in cambio”, non sono l'amo per pescare. Fa discepoli
solo per dare un seguito a ciò che ha egli stesso iniziato.
Insinuare che l’interesse di Gesù per la gente era strumentale e finiva
lì, è una bestemmia! e la cosa è ancor più grave, dal momento che il suo
esempio sarebbe normativo anche per la chiesa. Quale liberatore sarebbe
Gesù, se ci tenesse a renderci suoi più che a renderci a noi stessi? Certo,
credere nell’evangelo! non prima però di essersi convertiti (il corrispondente
ebraico è shub-ritornare) da fiere a uomini liberi di decidere se e in quale
misura essere di Cristo. Ora, rovesciando la prima impressione, non sarebbe
giusto considerare la premura di Gesù per i discepoli come una variante della
sua passione per l’umanità intera? anche la sua ragion d’essere Servo
sofferente non era forse quella di portare l’alleanza oltre il popolo eletto (“È
troppo poco che tu sia mio Servo per restaurare le tribù di Giacobbe. Io ti
renderò luce delle nazioni perché tu porti la mia salvezza fino all’estremità
della terra” Is.49,6)? e non è forse Gesù quella discendenza della donna che
schiaccerà la testa al serpente a nome di tutta l’umanità, grata o ingrata che
sia?

201
Il regno è esteso quanto il battesimo in Spirito, che è universale; la
Chiesa è estesa quanto l’altro battesimo, il sacramento che è particolare. Non
aver osservato questa distinzione, fu lo stesso che mietere guai. Loisy,
brillante studioso dei Vangeli, modernista, scrisse in modo malizioso e
graffiante che Gesù aspettava il regno di Dio e invece è arrivata la chiesa. Non sarò
mai d’accordo nell’attribuire errore a Gesù, neppure in buona fede: errore e
peccato s’accompagnano, e Gesù non ne ebbe di propri, portò nel suo corpo
quelli degli altri. Qualcosa però di vero indubbiamente c’è nelle parole di
Loisy. Gesù non ha predicato la chiesa ma ha predicato il regno! l’orrore non
sta nell’essere arrivata la chiesa mentre si attendeva il regno di Dio, ma nel
fatto che la cosa ha fagocitato il regno di Dio: se ciò fosse per sempre, Gesù
finirebbe tradito un’altra volta e ancor più gravemente…
Dal momento che Gesù aveva minato alla radice ogni ragione di
separazione e abbattuto il muro d’inimicizia, col suo stare con le fiere e il
morire per tutti, non si capisce perché con la chiesa si dovesse dividere di
nuovo il mondo in due, figli della luce e figli delle tenebre, qui stanno le
pecorelle et hic sunt leones… Che importa se non c’è più differenza tra giudeo
e greco, schiavo o libero, quando scopri che lo steccato è solo stato spostato
e te lo ritrovi un po’ più in là tra chi invoca il Nome e chi non lo invoca, tra
chi crede e chi non crede, tra chi è eletto e chi è escluso dalla salvezza? Si dirà
che anche Marco distingue, ad esempio tra discepoli e folla… Un conto è
distinguere, altro conto è separare tracciare un confine scavare un solco
costruire un muro; nella morte di Cristo lo Spirito è stato effuso
universalmente: è questo ormai che unifica e affratella il mondo, insieme
all’immagine di Dio e alla luce del Verbo.

202
La chiesa non doveva agire con la consapevolezza che l’amore di Dio
viene prima di tutto e non esclude nulla e nessuno, e lo stesso fa la morte
vicaria del Figlio Gesù e l’effusione universale dello Spirito? non doveva
sapere che per non escludere bastava guardare a quello che fece Gesù, il quale
annunciando il regno dell’amore chiedeva a tutti la conversione e la fede
nell’evangelo (Mc.1,15; cfr. 6,12; 13,10), ma solo alcuni chiamava a seguirlo
in modo più impegnativo e qualche volta fino ad abbandonare tutto (1,16ss;
2,14; 10,21)? perché?… per il semplice fatto che il mondo va salvato dal di
dentro, non per sottrazione dei migliori! E dunque era eccessiva sia la pretesa
della finale aggiunta di Marco per la quale sarà salvato unicamente “chi
crederà e sarà battezzato” (16,16), sia la pretesa di Matteo di “fare discepoli
tutti i popoli, battezzandoli” (Mt.28,19)! Se poi si vuol proprio identificare
la chiesa con la barca di Pietro, ebbene perché non ricordare che c’erano anche
altre barche con lui (Mc.4,36) che magari erano meno impegnative di quella?
e se la luce [tò phôs] alla quale si scaldavano nel cortile del sommo sacerdote
alludeva a Gesù, come non ricordare che intorno a essa quella notte erano in
molti a ricevere calore e un solo discepolo, Pietro (14,54)? …
Tutto ciò porta a riaprire il discorso su chi debba essere la sposa,
discorso che frettolosamente si è ritenuto chiuso mentre chiuso non è.

203
Capitolo 4
Chi è la sposa?

Una nuova figura

C'è una risposta scontata alla domanda: la sposa di Cristo è la chiesa!


I pochi testi che si possono citare vanno tutti in quella direzione (Gal.4,22-
27; Col.1,18ss; Ef.5,25ss; Apoc.21,9 “la sposa dell'Agnello”). Nel libro
dell'Apocalisse l'umanità viene rappresentata da due donne, l'una ha i tratti
della Babilonia idolatra e prostituta (17,1.7), l'altra della città santa la
Gerusalemme celeste (20,9;21,2): è essa la sposa. I limiti della prospettiva
duale li conosciamo: tutto ciò che non entra nella chiesa si ritiene in blocco
perduto. Non fidatevi mai di chiunque dica: la nostra parte è l'unica buona
onesta giusta; sia perché non è vero, sia perché la trovereste sempre pronta
ad assoggettarvi mai a collaborare. Può succedere a molti senza che se ne
rendano conto, succede ai grillini in politica, è successo alla chiesa lungo
un'eternità di secoli. Ora però la terna di Marco ci obbliga a allargare la
cascina. L'umanità non sembra rappresentata sufficientemente dalle due
donne.
A Marco Gesù ricorda l’innamorato che si circonda di amici per
avvicinare l’amata, si trova con loro quando vuole vederla parlarle farla
innamorare. Se nell’Apocalisse la sposa è la chiesa, per Marco in questo stadio
i discepoli sono soltanto gli amici dello sposo o gli invitati a nozze (Mc.2,19-
20); la sposa non ha ancora tolto il velo. Nei suoi giorni le espressioni più
cariche di tenerezza di passione (come splanchnízomai, eleéo, agapáo) Gesù le

204
riserva alle fiere, non agli angeli ma a quelli che stavano fuori! Allora, suprema
benedizione non era l’aver Gesù messo insieme un gruppo di discepoli che
“stessero con lui”, esperienza sfociata nel più completo insuccesso quando
“abbandonandolo tutti fuggirono”, testo che rimanda non senza un’ombra
d'ironia a quel “abbiamo abbandonato tutto e ti abbiamo seguito” (10,28);
suprema benedizione fu il totale abbassamento del Figlio, lo stare lui con loro
fino a morire per loro: dove loro vuol dire più che gli angeli le fiere (“ên metà
tôn theríon”), la prospettiva più sconvolgente di tutte quelle contenute nei
Vangeli! Perciò quando il Risorto condurrà fuori i discepoli e li precederà a
proclamare l’evangelo “in tutto il mondo”, non sarà solo per cavar fuori dal
mucchio un certo numero di eletti da salvare (chiave in cui si è soliti leggere
i Vangeli di Matteo e Luca), ma perché tutti i popoli e dunque l’umanità
intera riconosca di essere amata anzi l’amata (“Ti farò mia sposa per sempre
[…] e tu conoscerai il Signore […] A non-Popolo-mio dirò: Popolo mio, ed
egli mi dirà: mio Dio!” Os.2,21ss).
Avendo presente, come l’ha presente Marco, l’intera storia biblica
fino al progenitore Adamo (Matteo nella genealogia di Gesù risale appena a
Abramo), era logico pensare alla chiamata non di una parte ma della totalità
della famiglia umana, lettura questa che si fa strada già in Is.49,8 LXX: “Ti ho
plasmato e costituito come alleanza dei popoli”. Rimpiazzare l’antico popolo
con un altro popolo particolare (di particolarità diversa ma non meno
esclusiva della precedente), la chiesa-popolo di battezzati, fu una scelta dalle
conseguenze incalcolabili. Ciò che è avvenuto, a tutto danno dell’universalità
della gratuità della laicità: il mondo è tornato piccolo settario “o di qua o di
là”, le fiere private del loro spazio vitale, Iaphet senza più tende proprie. La
battaglia ciclopica di Paolo per porre la salvezza sotto il segno della fede, al

205
riparo della pretesa delle opere, meritava d’essere portata più a monte: dove
Dio ci ha amati per primo (1Gv.4,19) e la sua chiamata era per tutti, non solo
indipendentemente dalle opere ma indipendentemente dalla fede, perché
l’uomo là era del tutto nudo, incapace di contropartita. È in quel punto che
Dio ha creato il mondo nuovo, dal nulla del Figlio e dell’umanità nella morte
di croce.
Il testo di Ez.16,8 legge l’alleanza del Sinai come l’atto di matrimonio
tra Iahweh e Israele (“era l’età dell’amore […] giurai alleanza con te e
divenisti mia”). Ciò non avveniva in figura? e la nuova ed eterna alleanza non
andava letta come il contratto nuziale del Figlio (Iahweh-Signore)? e chi
sarebbe la sposa se non l’umanità, visto che il sangue è versato per tutti e lo
Spirito sopra ogni carne? Il nuovo esodo prende qui le movenze di un corteo
nuziale secondo rituale ebraico, il quale celebra le nozze un certo tempo dopo
la stipula del contratto: lo sposo incoronato (Cant.3,11) e la sposa velata
(4,1.3) procedono con il seguito di amici fino alla casa dello sposo. Là cadrà
il tuo velo… e sarai finalmente vergine! L’umanità rimane frattanto infedele?
non è poi cosa tanto nuova! non fu adultero il popolo eletto (cfr. Os.3,1)? e
non lo è stata forse la chiesa nella sua lunga storia? vuol dire che Dio non è
schizzinoso! Conta sapere dove è caduta la scelta, una volta compiuto il
tempo della pazienza. E tutto sta lì a dire che la scelta è caduta sull’umanità,
intesa da Marco quale soggetto sponsale e non quale massa da cui estrarre un
soggetto sponsale. L'umanità tutta è entrata nel patto!
Sono cosciente che si tratta di un’affermazione grave che
all’apparenza urta contro tutta la tradizione; ma non ci si può cullare come
se il NT in materia avesse un’unica monolitica visione: quella di Marco ha
piena cittadinanza. Non vi si nega che la chiesa abbia titolo a essere sposa, vi

206
si afferma che anche l’umanità ha questo diritto. Si fa torto a Gesù pensando
che l’umanità assunta sia esclusivamente la chiesa, dal momento che assunse
tutta quanta l’umanità, e con essa la creazione. L’esempio del VT è
illuminante: anche lì la sposa è ora il popolo (in Osea) ora Gerusalemme (in
Isaia: 54,5ss; 62,3ss). Perché fu possibile? per la perfetta continuità tra il
popolo e la città santa. E perché non dovrebbe essere possibile tra umanità
redenta e chiesa? forse non c’è continuità? basta riconoscere il battesimo
universale in Spirito! Dunque la chiesa è sposa, ma non al posto dell’umanità,
semmai quale sua primizia, come le primizie che gli ebrei portavano a Dio
nel tempio e che erano il meglio di tutto il raccolto. Ma allora la rivoluzione
copernicana è incompiuta: c’è ancora una terra costretta a girare attorno alla
luna, bisogna rimettere la luna al suo posto! Come Maria rappresentò e fu il
vertice del suo popolo nell’assecondare i disegni di Dio, così la chiesa
rappresenta ed è il vertice dell’umanità nel fare la Volontà.
Al di là di tutti gli argomenti dovrebbe bastare questo.
Nell'incarnazione del Figlio di Dio le due nature, quella divina e quella
umana, sono unite in una Persona e questa unione è più volte definita sponsale
dalla teologia. Qualcuno dirà sottilizzando che la natura umana non è
esattamente l'umanità: senza sottilizzare gli rispondo che la natura umana di
Gesù sarà ancor meno la chiesa! Si è consumato uno scippo, quando si è
voluto parlare in modo esclusivo di sposa per riguardo alla chiesa.
E ora Marco senza troppe cerimonie chiede alla chiesa quello che
Gesù impose ai Dodici prima di inviarli: “non indossate due tuniche!”
(Mc.6,9); quanto è di troppo sta bene sulla carne di chi non ne ha nulla. La
chiesa infatti si fregia d’essere e popolo santo e sposa di Cristo, nuova
Gerusalemme, tutto ciò in modo esclusivo. Le genti per le quali Cristo è

207
morto, se non entrate nella chiesa, sono rimaste ignude ai bordi della strada
e tendono le mani: sono senza statuto e chiunque può far loro offesa, come
chiamarle massa dannata. Non bastano più, cari, gli abbozzi stentati e le foglie
di fico; persino un papa quando parla della salvezza degli altri rischia di disdire
oggi quello che ha detto ieri… Ben altro ha in mente Marco. Che bisogno ha
la chiesa di riservarsi i titoli sia di sposa di Cristo sia di popolo santo di Dio?
l’antica Gerusalemme insidiava forse gli spazi del suo popolo o confondeva i
ruoli? Non pare, era invece la figlia del mio popolo (Ger.14,17) e una magnifica
corona nella mano del Signore (Is.62,3). O non ricordate che l’antica alleanza fu
stipulata nel sangue dei sacrifici con il popolo uscito dall’Egitto (Es.24,1-8) e
allora Gerusalemme, il suo fiore, non era ancora sbocciata ma il popolo la
portava in grembo? Non sarà lo stesso della nuova alleanza stipulata nel
Sangue del crocifisso? Quando Gesù muore la chiesa non è ancora nata,
secondo i sinottici, nascerà al momento dell’incontro col Risorto in Galilea
(Mc-Mt) o a Pentecoste (Lc): per un certo lasso di tempo l’umanità assunta
e riscattata nel corpo di lui ha portato in grembo la chiesa, il suo fiore!
Dopo Marco arrivarono i grandi teologi-scrittori del NT i quali
centrarono l’attenzione tutta sulla chiesa. Essi fecero un po’ come i Faraoni
che non avevano conosciuto Giuseppe (Es.1,8); e il popolo che Marco aveva
vagheggiato finì schiavo a confezionar mattoni… Intanto la chiesa catalizzava
menti e cuori, e occupava tutti gli spazi intorno. Marco ebbe ad apprendere
circa la chiesa dai teologi che seguirono, ma non rinunciò alla sua prima
passione: l'umanità è sposata. Egli non si sente forzato a considerare la chiesa
come l’unico luogo di salvezza, la salvezza è dovunque. Per questo può anche
proporre una sequela così severa a chi entra nella chiesa, e non pensa ad
aggiornarla come Matteo, perché il regno si estende al di là della chiesa; chi

208
non la regge può benissimo non entrarci nella chiesa e non sarà per ciò
dannato. Esiste un’area di salvezza che non va cercata dentro la chiesa; e
neppure fuori della chiesa va cercata, ch’è il fuori non esiste più dopo la morte
di Cristo. Come dice bene ancora una volta Marco, morto Gesù ed effuso lo
Spirito, un pagano come il centurione ormai gli sta “di fronte [ex enantías]” e
lo confessa, nel modo migliore che può (15,39). Ormai tutta l'umanità gli sta
in faccia come la sposa, e nessuno potrà non più dirsi di Cristo (9,41), perché
non c'è nessuno che non sia stato amato donato perdonato.
Due sono i grandi capostipiti biblici che Cristo è chiamato a
ricapitolare in sé: Adamo per l’intera umanità, e Abramo per il popolo di
elezione. E sono due le alleanze di cui il Cristo ha da raccogliere l’eredità:
un’alleanza universale in Adamo, confermata solennemente a beneficio
dell’umanità uscita con Noè dal diluvio; e un’alleanza in Abramo,
perfezionata con solennità ancor maggiore al Sinai a beneficio della
discendenza eletta uscita con Mosè dall’Egitto attraverso il Mar rosso. Alla
domanda se ci sia qualche relazione o legame tra l’una e l’altra alleanza (ebr.
berit, in ambedue i casi), la risposta non può essere che affermativa: l’alleanza
con Abramo e la sua discendenza è abbastanza chiaramente in funzione di
quella delle origini, infatti è promesso ad Abramo “in te saranno benedette
tutte le tribù della terra” (Gen.12,3), e lo stesso è promesso al Messia
davidico (Sal.71,17 LXX). Se si vuole, a legare insieme le due alleanze c’è
l’altra immagine, l’ebraico tebah dell’arca che portò in salvo Noè nel diluvio
e del cestello che portò in salvo Mosè sulle acque del Nilo (Es.2,3), un identico
battesimo per un comune disegno di salvezza! La nuova ed eterna alleanza nel
sangue di Cristo ha doppia valenza dunque, in direzione sia di Adamo sia di
Abramo. E, come fu battezzata l’umanità nelle acque del diluvio e similmente

209
la discendenza di Abramo in quelle del Mar rosso, in modo analogo
intervenuta l’unica alleanza nel sangue di Cristo l’umanità è battezzata in
Spirito Santo in morte di Gesù e ulteriormente la porzione eletta (la chiesa)
in acqua e Spirito nella fede di Cristo. Per questa via è possibile interpretare
anche il particolare della colomba evocata al Giordano (Mc.1,10): nella
teologia rabbinica, lo Spirito che “andava aleggiando sulle acque [epephéreto
epáno toû húdatos]” al principio della creazione (Gen.1,2 LXX) è identificato
alcune volte con una colomba (J. Gnilka, pg.54); e la colomba compare
ugualmente nel racconto del diluvio, annuncio di un nuovo inizio (Gen.8,8-
12). Gesù è questo nuovo inizio, perciò al battesimo nel Giordano scende su
di lui lo Spirito in forma di colomba: la colomba dello Spirito sembra essere
in azione ogniqualvolta è in gioco l’universalità delle creature!
Ma contro tutte le pretese di universalismo, il cristianesimo al modo
che è venuto somatizzando non è più aperto dell’ebraismo; il quale ha
peraltro nelle pagine del gustoso libretto di Giona un saggio stupendo di
universalismo, il più alto a cui potesse aspirare il VT: qui il vero profeta è
l’autore del libretto, Giona al contrario si attarda nel suo inguaribile
particolarismo, preferirebbe morire infatti piuttosto che arrendersi, non alla
vista di un certo numero di convertiti, ma alla vista di una Ninive convertita,
peggio di un Dio “misericordioso e clemente[…] di grande amore che si lascia
impietosire riguardo al male minacciato”(Gn.4,2)! Il cristianesimo è riuscito
malato della stessa malinconica malattia di Giona purtroppo, ma non è questo
il sentire senza confini a cui il Signore ci preparava. L’umanità è stretta in
alleanza non perché si converte diventando chiesa, ma perché (e qui sta il
superiore universalismo del NT) è perdutamente amata prima che essa abbia a
rispondere in qualunque modo, unita in alleanza sponsale già

210
nell’incarnazione e poi nel sangue di Cristo crocifisso. Per i doni di cui è fatta
segno essa è la sposa, a prescindere dall’uso che ne farà, anche se Dio coltiva
motivate trepide attese che non sarà invano.
Nel caso non fosse vera una simile prospettiva, cosa sarebbe il mondo
una volta scremato di quelli che Dio ama chiamandoli nella chiesa? null’altro
che una sentina di brutture e scelleratezze; e più ci si accanisce ad
evangelizzarlo più si priva di energie e si precipita nel baratro, così che la
proclamazione non sarebbe più un atto di amore ma la prova che si è tramato
alle spalle dell’umanità. Alla fine avrebbero ragione gli gnostici e Marcione e
i manichei, i quali giudicano irredimibile questa creazione e impietoso il Dio
del VT.

Il superamento del modello

Un passo decisivo verso il necessario chiarimento si compie con


l’adozione ad opera di Marco di un modello ad hoc, uno dei suoi meriti
immortali: è stato lui infatti a volerlo con forza quel modello a tre icone,
come nessuno tra gli scrittori del NT ha fatto, anzi al cospetto della loro quasi
completa indifferenza. Trattando della sezione introduttiva (Mc.1,1-13), si
disse a proposito dei vv.12-13 che è il tratto più personale e creativo di tutto
il Vangelo, forse di tutto il NT. Nel deserto dove lo Spirito lo ha cacciato,
allegoria del suo soggiorno-ministero sulla terra, Gesù si trova a contatto:
con colui che è l’avversario, satana, e i suoi complici; con le fiere, che
identificammo con l'umanità (le folle); con gli angeli, cioè quanti si dedicano
a lui come le donne e i discepoli e saranno complici di Gesù. Ora questi

211
personaggi, che sono comuni a tutti i Vangeli, diventano in Marco vere e
proprie icone, in ragione dell’atteggiamento degli stessi nei confronti di Gesù
e dell’evangelo; in realtà è Gesù a creare con la sua presenza tali icone, dentro
le quali poi ognuno trova il suo posto. E sono ben distinte, in altorilievo, sia
prima che dopo la Risurrezione. La folla in particolare assurge in Marco alla
dignità di destinatario non solo delle parole e dei segni di Gesù ma del suo
esserci: egli stava con loro, stava fuori in luoghi deserti e da ogni dove venivano a
lui… La folla non è semplicemente il serbatoio a cui Gesù attinge seguaci, o
la platea per discorsi prevalentemente diretti a discepoli, come spesso fanno
pensare Matteo e Luca. Né la folla è demonizzata, come in certe pagine del
IV Vangelo (cfr. Gv.8,44), anzi Marco più di tutti ne sottolinea la liberazione
dai demoni ad opera di Gesù, e ciò sia in terra santa che in terra pagana. Essa
agli occhi di Marco è indispensabile: non satana e discepoli, cattivi e buoni in
un epico confronto, ma satana e fiere e angeli affinché l’evangelo possa
sprigionare da sé tutte le energie di cui è ricco immensamente!
Ora i modelli non sono un’invenzione di Marco (sua è l'invenzione
della terna e delle fiere), ma li riscopre scorrendo la storia biblica. Vi si
trovano in duplice versione: l'una propria delle origini, l'altra nata a partire
dall'elezione di Abramo.
Il modello delle origini (orizzontale): il serpente (satana) -Adamo e Eva-
gli angeli (i cherubini dalla spada fiammeggiante, Gen.3,24), e c’è da chiedersi
se Marco abbia pescato qui la sua terna! Altro esempio: Adamo e Eva ebbero
tre figli, Caino e Abele e, quando il primo uccise il fratello, “Adamo si unì di
nuovo a sua moglie che partorì un figlio e lo chiamò Set. Perché, disse, Dio
mi ha dato un’altra discendenza al posto di Abele” (Gen.4,25s): Caino è
omicida e maledetto, come il serpente; Abele è colui che era gradito; Set

212
eredita il gradimento al posto di Abele. E tre furono i figli di Noè, Cam Sem
Iaphet: similmente Cam viene maledetto, Sem invece benedetto (da lui ha
origine Abramo e il popolo eletto), e anche Iaphet ha la sua benedizione
distinta da quella di Sem (“Dio dilati Iaphet e questi dimori nelle tende di
Sem” 9,27). A Ireneo non sfuggì il valore di questa benedizione ma
interpretò, lui testimone per eccellenza della tradizione, la dimora di Iaphet
nelle tende di Sem allegoricamente come l’adesione dei pagani alla chiesa. Il
rischio di questa interpretazione sta nell’alterazione del modello, che riduce
in pratica a due i protagonisti sulla scena: il destino di Iaphet non è quello di
sciogliersi in Sem bensì di dilatarsi; egli ha la sua ragion d’essere nel garantire
lo spazio dialogico, Sem nel far parte della sua benedizione fraternamente.
Del modello dell'elezione (verticale) si farà grande uso ovviamente
quando si tratterà di Abramo e della sua discendenza. Abramo viene scelto a
preferenza di tutti gli altri della sua casata: Dio che chiama, Abramo che parte
incontro all’ignoto (l’eletto), lasciati alle spalle la propria casa e il proprio
popolo (gli esclusi). In seguito egli genera due figli, uno dalla schiava l’altro
dalla libera, uno secondo la carne l’altro secondo la promessa: il primo sarà
escluso da Dio e il secondo eletto, elezione porta con sé esclusione (“Caccia
la schiava e suo figlio…” Gen.21,10; Gal.4,30). Lo stesso accade con Isacco
che ha egli pure due figli, Giacobbe ed Esaù: il primo è eletto, il secondo
escluso (“Ho amato Giacobbe e odiato Esaù” Gen.25,3). Successivamente è
un riprodursi continuo di questa dialettica: il popolo degli egiziani con
Faraone da un lato e Israele dall’altro, le popolazioni cananee cacciate e
Israele trapiantato nella terra promessa ai padri… Se ne ha una presa di
coscienza esemplare nella preghiera di Mosè: “Tu (Dio) cammini con noi?
Così saremo distinti, io e il tuo popolo, da tutti i popoli che sono sulla terra”

213
(Es.33,16). Questo popolo, lungo tutta la sua storia, fu espropriato di
proposito di una sponda umana perché Dio volle essere unico interlocutore
di un popolo unico, suo Re e Sposo e Vendicatore, di contro a tutti i popoli
con i loro dei e i loro idoli. Solo così, forse, si può comprendere la logica di
sterminio: pagine di autentico orrore, città votate per espresso ordine di Dio
alla distruzione e passate a fil di spada dagli israeliti. Ecco dove finiva la sponda
umana!
Gesù è venuto per espropriare di sé stessi, non del prossimo o della
sponda umana, quelli che lo ascoltano (“chi vuol venire dietro a me, rinneghi
sé stesso”), e mettere giusto al centro l’altro (“Amerai il Signore Dio
tuo…Amerai il prossimo tuo…”)! Il suggerimento di Marco? abbandonare,
con il compimento del tempo e con la morte di Gesù, il modello in versione
verticale inadatto perché finito ormai è il tempo dell’esclusione, per tornare
al primo in vigore alle origini dell’umanità: questa è la ragione profonda della
terna satana-fiere-angeli. Marco è rimasto solo? gli altri non lo hanno seguito?
Forse è prevalsa l’inerzia; forse la lezione della nascita del popolo eletto ha
condizionato la lettura della nascita della chiesa… E poi, direbbe Paolo,
l’elezione è tutt’altro che morta, e la chiesa ne è la prova vivente! E’ vero,
tuttavia Paolo e gli altri scegliendo la versione verticale Dio-la chiesa-il mondo
degli esclusi, hanno cagionato almeno due situazioni spiacevoli: l’una per cui
la chiesa è praticamente irriformabile e dunque incorreggibile, infatti non
esistendo un tertium ogni volta a materializzarsi è la sagoma del nemico con
conseguente sviluppo di aggressività, come la storia ha dimostrato; l’altra per
cui si rischia un’ingiustizia smisurata: nella storia d’Israele infatti l’elezione si
riferiva al ruolo o funzione a cui Dio chiamava qualcuno per realizzare il suo
piano, non riguardava la salvezza come nel caso della chiesa. Nel momento

214
in cui si sostiene che fuori della chiesa salus nulla est (Cipriano, Agostino…),
l’elezione mira alla salvezza e allora si comincia a far male!
A modo di esempio prendete il testo famoso e più volte citato “Ho
amato Giacobbe e odiato Esaù” (Gen.25,3; Rom.9, 13.22-24): a parte la
forte colorazione semitica che può impressionare, si tratta della scelta di una
discendenza, quella di Giacobbe piuttosto che quella di Esaù, semplicemente.
Chiunque, anche Dio perciò, può scegliersi i suoi collaboratori; ma se
scegliesse chi salvare e chi riprovare sarebbe ancora un Dio che ha dato il Figlio
per tutti e di tutti gli uomini vuole la salvezza? Paolo in Romani sfodera lo stesso
testo per spiegare l’esclusione attuale degli ebrei dalla chiesa e l’elezione dei
gentili: tutto bene, se non è esclusione dalla salvezza; ma se fuori non ci fosse
salvezza come il modello adottato lascia pensare…?
Gesù fece ancora elezione? bisogna rispondere di sì, e Marco è
sollecito a documentarla. Gesù tutti in qualche modo invita a seguirlo quando
proclama convertitevi e credete nell’evangelo, è escluso che si escluda qualcuno a
questo livello. Mi riferisco invece alla scelta dei Dodici (3,13ss): Marco la
presenta in maniera tanto forte da sembrare provocatoria, “chiama a sé quelli
che voleva lui, e andarono da lui. E fece Dodici…e fece Dodici…”: la
ripetizione è nel testo non è un mio errore; se il numero 12 è per evocare i
dodici capostipiti delle tribù, la ripetizione del verbo “fece [epoíesen]” fa
tornare alla mente piuttosto Dio che crea l’uomo e la donna (Gen.1,27 LXX
dove “epoíesen” vien ripetuto ben tre volte!). È abbastanza chiaro che una tale
elezione portò con sé l’esclusione di altri discepoli; qui dunque il modello è
verticale Gesù-i Dodici-gli altri discepoli, e Marco non fa nulla per nasconderlo.
Anzi in un’occasione lo ribadisce: allorché il pagano che fu indemoniato prega
di poter “stare con lui”, alla pari dei Dodici, Gesù non glielo permette

215
(Mc.5,18s). Ma qui l’elezione non fa torto ad alcuno, si tratta infatti della
scelta per un ruolo, dove nessuno può accampare pretese, essendo esclusiva
prerogativa di Dio l’assegnarlo. Fu così per Abramo Mosè Samuele Davide e
i profeti… “Non ero profeta né figlio di profeta, ero pastore e raccoglitore
di sicomori; il Signore mi prese di dietro il bestiame e mi disse: va’, profetizza
al mio popolo Israele…” (Am.7,14s). Non solo. L’elezione è ancora possibile
perché la sua gloria coincide con il massimo di pretesa da parte di Dio sulla
vita degli eletti. Chi non è disposto a portare la croce per gli altri, in attitudine
vicaria, non dovrebbe neppur augurarsi d’essere eletto… “Voi sapete come
coloro che sono ritenuti capi delle nazioni le dominano […] Fra voi però non
è così […] Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire ma per
servire e dare la vita in riscatto per molti” (Mc.10,42ss).
Confesso la mia inquietudine all’atto di uscire da un complesso di così
rara sapienza e equilibrio, come appare il pensiero di Marco. L’elezione, che
tutta ne determina la vita, sarebbe accettabile se la chiesa fosse anche l’unico
luogo di salvezza? Dio ha fatto un così largo giro di miliardi di anni per
arrivare a quest’uomo (cosa che né Paolo né gli altri sospettavano), certo allo
scopo di non eleggere alla vita alcuni a preferenza di altri prescindendo dalle
cause seconde; più vicino a noi, ha voluto chiamare a vita questi uomini e
donne mediante altri uomini e donne e persino mediante i loro errori, perché
nel suo Amore avrebbe difficilmente potuto dar vita a qualcosa meno di
un’infinità di uomini e donne…; e poi con un colpo di elezione si sarebbe
mangiato tutto il lavoro fatto in miliardi di anni, perdendo una gran parte di
questa umanità tratta a riva con tanta fatica? Dobbiamo essere grati alla
scienza e alla storia di averci aperti gli occhi.

216
E grati a Marco per aver visto nel dono dello Spirito “sopra ogni
carne” la via per immergere tutti nella grazia della redenzione di Cristo. In
Luca a Pasqua lo Spirito è ancora una promessa (Lc.24,49), e quando arriverà
il momento a Pentecoste sarà per la chiesa; al mondo giungerà mediatamente,
o forse non giungerà mai perché non ne è degno… Ma non è proprio perché
diventassimo degni di Dio che ci fu dato lo Spirito, in assenza del quale
l’uomo non sarà mai buono e gli sarà impossibile salvarsi? L’opera di Gesù senza
l’atto estremo dello spirare rimarrebbe come sospesa insoddisfatta per
l’eternità. Ora, dato che lo spirare appartiene indubitabilmente alla morte, se
la morte di Gesù è per tutti anche lo spirato (lo Spirito) dovrà essere per tutti.
Elezione alla salvezza, se c’è, può solo essere universale!
Chi potrebbe pensare di proporre un resto dell’antico popolo e una
rappresentanza dei pagani come l’universalità degli uomini? Per questo
insisto a dire che deve esserci un soggetto universale al di là della chiesa, un
soggetto a cui la chiesa è votata e che è chiamato a salvezza non meno della
chiesa stessa! È difficile dire se Giovanni, quando fa pronunciare a Gesù “Ed
ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche queste io debbo
condurre, e ascolteranno la mia voce e sarà un solo gregge, un solo pastore”
(Gv.10,16), abbia in mente qualcosa che somiglia al suggerimento marciano.
L’unico ad aver raccolto sembrerebbe dunque l’ignoto estensore della prima
a Timoteo, anche per lui vale la terna: ci sono e gli uomini sviati “da dottrine
diaboliche” (1Tim.4,1), e quelli che chiama i fratelli nella fede (4,6), ma
anche coloro di cui intravvede la salvezza pur senza la fede (“noi speriamo nel
Dio vivente, Salvatore di tutti gli uomini, in specie dei credenti” 4,10)! Non
so se ci sia una qualche sotterranea parentela tra Marco e le Lettere a
Timoteo; sappiamo però che da quelle parti veleggiava anche Marco, perché

217
di lui appunto si parla come di persona “preziosa nel ministero” nella
2Tim.4,11. E sarà un caso che, come sostiene C.P. Thiede, in alcuni
frammenti papiracei della Grotta 7 di Qumran siano stati riconosciuti versetti
del Vangelo di Marco e della 1Tim.? La cosa non è risolta tra i papirologi, ma
accostamenti siffatti sono già sufficienti a dare i brividi alla schiena.
Perché sia bella davvero e gratificante la vita nella chiesa, bisogna che
tutti sappiano, chi accetta di entrarci come chi ricusa di entrarci, che ci si sta
gratuitamente per amore senza esserci costretti dalla necessità di salvarsi. Ho
pensato lungamente alla voragine dovuta a questa divaricazione tra teologie,
e alla sua origine non ho trovato altro che quest’unica ragione: Marco,
riconoscendo il valore universale dell’effusione dello Spirito in morte di
Gesù, ha avuto tra mano la leva mancata agli altri per innalzarsi a una visione
più serena libera universale. La stessa leva che permette di parlare
dell'umanità come della sposa del Figlio, senza nulla togliere alla chiesa.

218
Capitolo 5
Chiesa, religione, peccato, morte

“Il mondo è lo scopo della redenzione di Cristo, la chiesa è missione,


qual mezzo che porta la salvezza di Cristo al mondo: come questi due si
devono incontrare?” (v. Balthasar, La mia opera, 50). La chiesa non sarà mai il
mondo intero, per la sua natura e per l’elezione che la caratterizza. C’è però
tra loro qualcosa della reciprocità che c’è tra il seme e la terra: hanno bisogno
l’uno dell’altra, e qui è la radice della loro fecondità (vedi Mc.4,26-29: la
splendida parabola che figura solo in Marco). La comunità dei discepoli era
capace di riprodursi in mille modi e in mille luoghi. Ma non era sufficiente:
si doveva arrivare alla chiesa. Fu una illuminazione nuova straordinaria, e si
comprende l’aver essa rapito la generazione dei teologi-scrittori del NT che
ne ebbero la subita rivelazione. Analogamente al modello trinitario, al
principio ci fu la prima comunità di Gerusalemme, la quale generò le altre
comunità che sono la sua immagine identica nell’essenza e molteplice nelle
forme, infine apparve la loro unità che è la chiesa. E non parve vero di
applicare all’ultima arrivata tutti i più bei titoli del passato. La chiesa è il
Corpo di Cristo visibile nel mondo, e in questo senso particolare “sposa”.
Gesù non intese chiamare tutti a far parte della chiesa. Intese portare
tutti a salvezza infatti morì per tutti, ma non intese portare tutti in chiesa. Se
avesse avuto come obiettivo di fare di tutti fin da subito un solo ovile, non
avrebbe agito come ha agito: avrebbe preteso da tutti quel che ha preteso da
alcuni. Ma si è guardato bene dal farlo. Invece alcuni ha voluto al suo servizio

219
(gli angeli lo servivano); per gli altri, era lui con loro molto più di quanto essi
fossero con lui (stava con le fiere).
Si è comportato con i pagani come se potessero aspettare; lo stesso in
sostanza ha fatto con le folle, che non ha avuto l’assillo di chiamare a volger
le spalle a tutto seguendolo: avrebbe agito in tale modo, sembra dire Marco,
addirittura rifiutando qualche volta dei discepoli, se appartenere al suo
gruppo fosse stato in assoluto necessario per tutti? Fu necessario che alcuni
ne facessero parte in vista di ciò che il Padre preparava, la proclamazione al
mondo. Ma perché non fu necessario che tutti in assoluto facessero parte di
quel gruppo? perché la redenzione non si operava nel gruppo bensì nella
carne di Gesù, nella sua umanità, di questa era essenziale far parte! In che
modo? Non ci è costato nulla, non si è dovuto scegliere noi, non è dipeso
dall’essere uomini o donne, ricchi o poveri, buoni o cattivi, bianchi o neri…
Tutto ha fatto l’amore immenso gratuito del Padre giocando la vita del Figlio.
Il quale, avendo tutto creato, tutto il creato poté assumere in sé, massime
l’uomo e la donna e tutta la loro discendenza fatta a propria immagine. In quel
punto il Figlio Gesù non s’aspettava nulla da quello che potevano fare gli
uomini, e neppure da quello che lui stesso era in grado di fare, ma tutto da
quello che il Padre avrebbe realizzato mediante la sua vita e la sua morte
obbediente. Egli fu veramente quell’arca che andava galleggiando sull’acqua
(stessa espressione “epephéreto epáno toû húdatos” dello Spirito in Gen.1,2 e
dell'arca in 7,18: così la LXX, non però l’ebraico): chi altri se non lo Spirito
e il Figlio (l'arca) potevano dominare a tal punto il caos di sotto? Per ciò Noè
vi dovette pigiare tutta la vita del mondo, su quell’arca, perché essa doveva
simboleggiare Colui che tutto portava in grembo al fine di sottrarlo alla morte
universale, e si capisce ora in che senso le fiere erano con lui (Gen.8,1.17); e

220
per ciò c’è la colomba, cui si chiede un segno di vita e che terminata la
missione abbandonerà l’arca, perché è immagine dello Spirito che, disceso al
battesimo in Gesù e operata la redenzione, lascerà alla fine il suo corpo
esanime; quindi nessuno dovrà più cercare l’arca sulle cime dell’Ararat o
altrove, come non s’avrà da cercare quaggiù la salma (ptôma) del Salvatore
crocifisso! Così fu rimpatriata l’umanità e l’intera creazione, nella linea
dell’incarnazione, intuita da Marco resa esplicita dal IV Vangelo e cara alla
tradizione Orientale da Ireneo in poi, l’altro autentico polmone con cui
avrebbe dovuto respirare la teologia.
Certo, verrà il momento della responsabilità, la salvezza del singolo
passa necessariamente attraverso la decisione personale. È giusto qui entra in
gioco la chiesa e la sua gloria che è la proclamazione dell’evangelo a tutti i
popoli. Così Marco. Altri, per i quali non ci può essere incorporazione a
Cristo se non nella chiesa, attribuirono a essa un ruolo ben più invasivo e
condizionante. I battezzati, essi sono incorporati a Cristo nella chiesa non
l’umanità che era invece stata assunta in lui già con l’incarnazione: non è
l’umanità a essere incorporata a Cristo nella chiesa, bensì la chiesa è
incorporata a Cristo nella sua umanità! Di tale abbaglio è vissuto il pensiero
teologico in tutti questi secoli.

221
La religione

“Nessuno può attraversare il mare di questo secolo, scrive Agostino,


se non portato dalla croce di Cristo”. Ne porta più la croce che la chiesa!
Come Gesù non intese intruppare tutti nella chiesa, ancor meno pensò di
strapparli a una religione per un’altra. È un problema che nella linea di Marco
non si pone più. Parliamo non del rapporto religioso con Dio, che è giusto e
degno, ma della religione come istituzione di salvezza con tutto il corredo di
credenze di norme di osservanze individuali e riti collettivi che promettono
agli uomini salvezza.
Anzi, dal momento che in nome di una religione, e proprio la
religione ispirata da Iahweh nel VT, fu ucciso Iahweh-il Signore, essa stessa è
coinvolta nella morte e con lei tutte le religioni. Quello fu il punto estremo
cui poteva giungere la religione per decretare la sua fine! Infatti a render
ciechi quegli uomini (per Marco si tratta dei capi non del popolo ebraico) e
fornir loro gli strumenti le giustificazioni per uccidere il Dio che veniva a
salvarli fu proprio la loro religione. Sennò perché Gesù profeterebbe della
distruzione del tempio? per consumare forse una vendetta? Ora, cosa si può
sperare ancora da una religione? anzi, che religione ci può ancora essere
quando si è fatto fuori Dio?! Lo hanno ucciso senza sapere? perché ha avuto
il torto di venire in forma d’uomo, quasi sotto mentite spoglie? cosa doveva
fare Dio, chiedere il permesso? Hanno ucciso per l’inquietante pretesa di un
uomo (“Io Sono-egó eimi” Mc.14,62), pretesa sorretta da opere inequivocabili
e tuttavia equivocate, benché coloro che ne decretarono la morte capissero
molte più cose che non il popolo. Agirono come dicono Atti 3,17 “katà
ágnoian-per ignoranza (di lui)” certo, secondo ciò che è sempre stato e che

222
Dio aveva promesso di estirpare un giorno (“e conoscerai il Signore-kaì
epignóse tòn Kúrion” Os.2,22; “Non dovranno più istruirsi a vicenda dicendo:
conosci il Signore, perché tutti lo conosceranno” Ger.31,34). Di ignoranza si
trattò, e di ignoranza colpevole: l’aver occhi e non vedere, orecchi e non
ascoltare (Is.6,9s)!
Non hanno inteso uccidere Dio? nessuno intende ucciderlo, eppure è
tra i più uccisi della storia! il primo peccato degli uomini non fu un tentativo
di liberarsi di lui? non uccidono Dio quando uccidono i suoi figli, la sua
immagine? Se si fosse presentato in un terremoto devastante o in un fuoco
divorante, certo non avrebbero osato (cfr.1Re 19,11s); ma se in veste di chi
“non fa sentire in piazza la sua voce e non spegne uno stoppino fumigante”
(Is.42,2s) …? Gli fecero tutto quello che era possibile fare anche a un Dio,
se presentandosi in forma umana mite e dimessa avesse osato minacciare quel
formalismo che si chiamava religione d’Israele (la fede c’era, incarnata in gesti
e istituzioni, ma pochi come i profeti sapevano distinguere): quale Servo in
effetti si presentò, e fu ucciso puntualmente. La traduzione che si fa di solito
della parola di Gesù in croce, “Padre, perdona loro perché non sanno quello
che fanno” (Lc.23,34), contiene un brutto errore: quello che fanno lo sanno
anche troppo! hanno costretto Pilato a qualcosa che non voleva. Il testo dice
“tì poioûsin-che cosa fanno” (interrogativa indiretta), cioè non sanno quale
peccato, quanta malizia e tenebra in quel gesto, quali responsabilità di fronte
al proprio popolo e la storia. Se ne verrà del bene non dipenderà da loro,
strumenti involontari della benevolenza di Dio.
Questo è ciò che ha chiuso la parabola, iniziata con il tentativo
d’essere come Dio, tentativo punito con la morte (Gen.3) e che ora rivela il
suo vero volto nel dare la morte a Dio sull’albero per essere eredi delle sue

223
spoglie (Mc.12,7s): nel crepuscolo la religione si assunse il ruolo e portò a
termine il lavoro che nel mattino era stato del serpente! Chi allora si trovava
al vertice della catena religiosa fece il colpo, e lo fece a nome di tutta
l’umanità! Con ciò la religione, non solo l’ebraica ma ogni religione, ha
meritato la sua morte.
Del resto Gesù non raccomandò ai suoi l’armamentario religioso, né
a parole né con l’esempio: il Gesù di Marco, l’abbiamo notato, non ha alcun
trasporto per il digiuno, critica il rituale delle abluzioni rinviando alla
mondezza del cuore (Mc.7,6-23), alle tradizioni degli uomini preferisce la
Legge ma all’occorrenza rimanda anche oltre la legge di Mosè (10,2-12), ha
rispetto della sinagoga del tempio della Pasqua ma perviene al loro
superamento in sé stesso. Giovanni porterà a termine questo pensiero
mettendo in bocca a Gesù le parole “né su questo monte né in Gerusalemme
adorerete […] Viene l’ora, e è adesso, quando i veri adoratori adoreranno il
Padre in Spirito e Verità” (Gv.4,21-23). Gesù pregava certamente, ma il suo
pregare non era il solito recitare le orazioni: la sua preghiera al Padre, nel
segreto della notte, risponde al bisogno non solo di proteggere il mistero del
suo rapporto, ma altresì di sprofondare nella preghiera, cose che non gli
riuscivano durante il giorno. Egli non pregava tre volte al giorno (Sal.54,18)
come il buon ebreo, ma si può scommettere sulla sua diuturna comunione
col Padre; né insegnò com’è ovvio ai discepoli a pregare tre volte al dì, verso
Gerusalemme (cfr. Dan.6,11), secondo ritmi e formule dettati dalla
precettistica religiosa, ma piuttosto dalla pienezza del cuore secondo
l’incalzare degli avvenimenti. E non credo che Gesù volesse insegnare solo
una preghiera, quando insegnò il Pater; era il suo proprio atteggiamento
interiore che voleva trasmetterci. Ci attirò nel suo mondo, partecipandoci il

224
suo modo di pregare. Altrimenti sarebbe l’unico caso in cui i discepoli la
sanno più lunga del Maestro, essi infatti chiesero “insegnaci a pregare”
(Lc.11,1): non una preghiera né tanto meno la sua ripetizione pedissequa e
petulante ci ha insegnato, a lui importava introdurci nel circolo del suo
rapporto vivo con il Padre.
Ma la religione cristiana…? Se le cose stanno in questo modo, non
doveva neppur nascere una religione cristiana, così come le altre religioni
arrivate fuori tempo massimo. Non tanto un mondo senza Dio dunque,
quanto un mondo senza religioni con i loro dei al servizio dei capricci distorti
degli uomini. È rimasto infatti l’unico Dio che non poteva morire, anche se
fatto uomo assaporò la morte dagli uomini; e questo è anche l’unico Dio che
non sarà mai possibile tenere a guinzaglio. Gesù non venne a portare una
religione, ma a portare a perfezione una fede, a compiere l’obbedienza che
non riuscì né a Adamo né al popolo eletto, a render praticabile un nuovo
rapporto con Dio, come quello del Figlio con il Padre. La chiesa doveva
esserne il sicuro testimonial in faccia al mondo. È forse questa la risposta al
cruccio del martire D. Bonhoeffer in mezzo alla tragedia scatenata da Hitler:
“Il problema che non mi lascia mai tranquillo è quello di sapere cosa sia
veramente per noi il cristianesimo” …
La chiesa non è una religione, benché ne sia diventata il naturale
supporto. Non aveva né sacerdozio né sacrificio né tempio che non fosse Gesù
Cristo il crocifisso risorto; si considerò tuttavia erede dell’ebraismo, e questo
lasciava porte aperte a tutti gli sviluppi: avrebbero resistito alla tentazione di
fare dei Dodici un collegio di sommi sacerdoti, magari con alla testa un
pontifex maximus alla romana? di fare degli anziani-presbúteroi di prossima
formazione dei comuni sacerdoti? di fare della cena eucaristica il nuovo

225
sacrificio, e delle case sempre più anguste luoghi di culto vastissimi per le
loro assemblee? Si consideri che essa operava in un mondo caratterizzato da
forte domanda religiosa, e che parecchie cose aveva di fatto in comune con le
religioni, e si potrà concludere che era pressoché inevitabile, per un certo
tratto del suo cammino, che la chiesa assumesse le movenze e l’autorità non
di una religione addirittura della vera religione (Agostino). Balthasar ha scritto
che “la vera battaglia tra le religioni ha inizio solo dopo l’avvento di Cristo”
(La mia opera,91), cioè proprio quando intervenuta la sua morte ne viene
decretata la fine: le religioni rifiutano di morire! Questo è accaduto anche
perché ci fu chi tra i discepoli si pose sul mercato in competizione con le
religioni pregiacenti, accendendo anzi che sedare la contesa.
Forse i discepoli non perdettero, in questo come in altri contesti,
nessuna delle conquiste legate a Gesù, ma non si può dire che furono tanto
precipitosi nel realizzarle; spesso si capisce che cercarono di non urtare
troppo l’ambiente. Ad esempio, non si opposero all’uso delle armi quanto
avrebbero dovuto, né alla consuetudine della schiavitù; se la libera
comunione dei beni apparve sin dagli inizi prassi del tutto conseguente (Atti),
ci rinunciarono assai presto, vista la fatica che Paolo si troverà a sudare per le
sue collette; pare non abbiano fatto molto inoltre per svecchiare i costumi in
difesa della dignità della donna, nella vita sociale e prima ancora
nell’ordinamento della chiesa stessa… Vissero d’inerzia assai più di quanto
fosse lecito aspettarsi. Che meraviglia dunque se si adeguarono al clima e non
si opposero alla prospettiva di investire in religione il loro capitale? E questo
benché Paolo mettesse in guardia dall’illusione di perseguire una propria
giustizia ottenuta con le opere, non escluse quelle religiose! È così che doveva
essere…Ma è questo, Signore, che volevi? una religione in aggiunta e in

226
competizione con le altre? non doveva essere suprema aspirazione di ogni
religione, a questo punto, portare gli uomini a confluire non in una sola
religione ma in una sola fede del Figlio di Dio? E comunque il mondo è
cresciuto ed è uscito di giovinezza (da un po’); la domanda religiosa è crollata,
è venuto il tempo di riportare tutto all’essenziale.
Trovo stupendamente profetico, sotto più di un profilo, il testo del
VT che racconta la mondazione dalla lebbra del siriano Naaman (2Re 5,1-
19), un pagano benché ci fossero “molti lebbrosi in Israele al tempo di Eliseo”
(Lc.4,27). Egli “si lavò sette volte nel Giordano secondo la parola dell’uomo
di Dio, e la sua carne ridivenne come la carne di un fanciullo e fu mondato”
(v.14). Torna allora da Eliseo deciso a lasciare ai suoi piedi i doni che aveva
con sé, ma inutilmente. Il rifiuto di Eliseo d’accettare doni è un chiaro
rimando a Dio, cui solo si deve il ringraziamento. E provoca l’uomo a un
gesto imprevedibile. Egli passa così dal dono di preziosi per il profeta
all’offerta di sé al Dio del profeta, offerta che osa esprimere in uno strano
modo: gli sia concesso di portar via tanta terra quanta ne sopportano due
muli, perché ormai per lui non ci sarà altro Dio cui sacrificare se non il Dio
d’Israele. E qui viene il più bello: Naaman deve far presente al profeta (c’è
qualcosa di provvidenziale in questo, visto che poteva tacerlo o almeno
poteva tacerlo l’agiografo!) che non gli sarà possibile disertare nel contempo
la religione patria nelle celebrazioni ufficiali al fianco del suo re. Su questa
miscela che in altri tempi avrebbe scatenato i fulmini di Elia, e che anche oggi
farebbe storcere il naso ai custodi dell’ortodossia, quale risposta ci si può
aspettare dal profeta? Eliseo ha una parola che non è né una benedizione né
un incoraggiamento né una licenza, ma neppure è un divieto, e non è neppure
semplice cortesia (non era una dote di cui si fregiasse il profeta Eliseo!): dice

227
soltanto “vai in pace”, che è parola assolutamente straordinaria non solo per
quei tempi, purché si conceda che non è risolutiva ma rimane come sospesa
desiderosa di chiarimento oltreché di compimento. Eliseo, da profeta qual
era, ha parlato in vista di Cristo e ha rimandato la cosa, troppo ardua per lui,
a colui che doveva venire. E Gesù puntualmente riprende la parola, e con
quella congeda in modo analogo la donna che ha cominciato a credere e
ottenuto guarigione: “Figlia, la tua fede ti ha salvata; vai in pace” (Mc.5,34).
Come torna Naaman mondo e carico della fede nel solo Dio al suo paese e
alle sue tradizioni, così la donna ritorna nel suo ambiente di vita con la
guarigione e la fede nell’inviato del Padre. Due vite rinnovate, tutte da
spendere! Noi non sapremo mai come hanno vissuto la nuova fede, avendo
alle spalle e di fronte un proprio retaggio religioso: di certo è stato possibile.
Ed è lecito pensare che sia possibile vivere la fede di Gesù in ogni religione,
finché la religione stessa (non la sua cultura) appaia nella sua vanità, perché
resa vana da Cristo.
La religione in quanto tale non migliora l’umanità (come denuncia in
questi tempi il fanatismo islamico, che è altro dall’islam tuttavia viene di lì e
lì trova anche chi lo giustifica), neppure la religione cristiana (lo dimostra la
storia europea e non solo, rossa di sangue): detto da prete, non ancora buttato
fuori... Talvolta può migliorare i costumi perché li comprime, gli uomini no!
Il cristianesimo come fede e come cultura ha fecondato l’Europa e il mondo,
l’ispirazione gliel’ha data l’evangelo con la sua incomparabile luce; in quanto
religione invece ha rappresentato e rappresenta il ramo caduco di una grande
esperienza. Sulla base di tale distinzione si può sciogliere, penso, la querelle
circa l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici: come emblema di una
religione non si giustifica più, per una quantità di motivi; come simbolo di

228
fede e cultura millenarie ha pieno diritto e non è ancora sorto ciò che lo farà
tramontare. Lo stesso valga per il dibattito sulle radici cristiane d’Europa.
Dunque, liberi dalla chiesa e dalla religione? non è un po' troppo?
Della chiesa si è liberi se non si è chiamati. Nel mondo ognuno quello che può
fa (dalla Didaché), nella fede in Gesù Cristo oppure senza tale fede, ma non
senza lo Spirito. E ciò che farà non avrà il cappello della religione, sarà libero
dall’illusione che le pratiche religiose e i vari sacramenti si sostituiscano a lui.
Le cose sante ridotte a narcotici della coscienza! Perché questo è successo: il
battesimo come assicurazione, al posto dell’impegno e della fatica di una fede
personale; la confessione, al posto di un pentimento che non c’è e costerebbe
troppo in termini di conversione della vita (da qui all'abbandono della
confessione il passo è inevitabile); la comunione, non come impegno d’amore,
perché comunemente non si è affatto disposti a coltivare “gli stessi sentimenti
ch'erano in Cristo Gesù”, ma come status simbol, per dire in faccia agli altri
“vedete bene che io sono a posto, mi comunico infatti”. E la chiamavamo
chiesa!
Come quei risposati che rivendicano il diritto alla comunione anche
contro la disciplina in materia, così succede che quanto è nato per unire
diventa motivo di divisione. Al pari della vigna di Nabot, questo è terreno di
contesa oggi, e non sarò io a infierire. Diciamo però che è male rivendicare
l’Eucaristia: perché l’Eucaristia non si rivendica, a costo di fare a pezzi il
Corpo di Cristo; perché davanti a Dio val più una rinuncia foss’anche
ingiustificata piuttosto che una rivalsa; perché infine l’Eucaristia è chiesa:
lasciate la chiesa agli eletti (alla maniera che li intende Marco), potrete sempre
godere delle tende di Sem senza averne l’enorme responsabilità! Con una
certezza: quelli che oggi sentenziano sui risposati, nella loro maggioranza una

229
chiesa altra non li tollererà nel suo seno. Allora appariranno anche i loro
peccati. Mica ci sono solo i peccati della carne! I peccati dello spirito son
peggio e più numerosi; non lasciano traccia, come si pretende? eppure le
disavventure della chiesa nella storia non sono dovute ai peccati della carne
bensì alla bieca idolatria del potere del comando dei privilegi degli onori del
denaro… che sono i peccati delle gerarchie, perversioni della sana sessualità:
e sono lì ben evidenti!
Se mai sono peccati, quelli della carne! … Noi possiamo cantare di
Abelardo ed Eloisa, perché c’è sempre qualcosa di grande e di tragico nella
carne, quando c’è amore; di quegli altri peccati invece è osceno perfin
parlare, se non per satira. Qualcuno nella chiesa deve aver rovesciato
interessatamente il giudizio. Di più: oggi chi risposa e ama una persona e perde
un po’ della sua vita, la chiesa lo tratta peggio di colui che s’abbrutisce chiuso
nel suo egoismo. Dov’è questo grande peccato della carne, visto che chi ama
così non sembra tanto lontano dall’insegnamento di Cristo? non sarà la
riprova che in questa forma di chiesa le cose non quadrano, i conti non
tornano mai? … Andate liberi dunque, abbiate rispetto degli altri e di voi
stessi, soprattutto abbiate rispetto dei bambini e della vita: e per il resto
amatevi! Non è quanto disse Dio in principio? Certo, parlò anche di una carne
sola (Gen.2,24); e lo stesso Gesù tornò sull’indissolubilità e sulla fedeltà:
nella chiesa come la vede Marco non c’è spazio per l’infedeltà, compresa
quella della carne (cfr.Mc.10,10ss); ma nel mondo che è il dominio del regno
c'è più tolleranza, anche sul fronte della fedeltà coniugale, che non dovrà mai
prendere le forme di una condanna! Non ci si fa condizionare la vita dal
passato, non da rancori, e dunque neppure da fedeltà oltre un certo segno.
Benché, dove sia possibile, un unico compagno e genitore dei propri figli

230
rimanga l’ideale anche fuori della chiesa: qui come altrove le parole di Gesù
sono l’esatta esegesi della idea originaria; e buon senso direbbe, una media di
due figli a rimpiazzare la coppia che li ha generati, affinché l’umanità prosperi
e non imploda sulla terra o sia spazzata via una nazione e la sua cultura.
Per questo Dio non pensò a una religione bensì allo Spirito Santo
effuso in morte di Gesù, per cambiare gli uomini e portarli a sé. Tutto ciò
che uno profonde in religione l’ha tolto allo Spirito per assegnarlo alle opere,
cioè all’industria dell’uomo, a qualcosa che non impedirà all’uomo di
impettirsi di fronte a Dio. L’istituzione religiosa anche con lo Spirito ha fatto
da imbuto, pretendendo di concederlo come quando a chi voleva, o almeno
ci ha provato. Ma “nescit lenta molimina spiritus”!
Lo Spirito non comanda, non affatica, è una presenza discreta la sua,
tanto discreta che se Marco non l’avesse resa manifesta (ma c’è riuscito? e la
chiesa si deciderà mai a proclamarlo?) passerebbe facilmente inosservata. Ciò
a cui concorre lo Spirito, gli uomini possono tranquillamente attribuirlo tutto
a sé stessi, lo hanno sempre fatto (dal faber est suae quisque fortunae, fino al mito
del self made man)! E lo Spirito non ha mai elevato formale protesta.
Tutto è per l’uomo, dice Marco. Ma l’uomo non è per sé stesso, è
per l’altro (amare, perdersi); la persona è relazione: è così a cominciare dal
Dio triunitario. Per realizzarsi come persona l’uomo e la donna hanno
bisogno di vedersi di riconoscersi in qualcuno che lo ama, che ama. Questo
qualcuno può essere addirittura Dio, se gli è fatto questo dono; non è tuttavia
per tutti né per molti, in questa terra. C’è chi s’incendia aspettando la sua
donna, mentre obbligato ad aspettare Dio sbadiglierebbe da morire. Se tu non
mi parli, io sono come chi scende nella fossa (Sal.27,1): chi lo dice a Dio come il
salmista, e chi alla creatura. Non si hanno da cancellare le differenze, né si

231
possono: infatti sono provvidenziali. Questa chiesa è scoppiata perché ha
creduto che tutti potessero ugualmente vivere aspettando Dio, quel Godot che
per molti non arriva mai… Bisognava aiutarli sul posto e non sottrarli alla
loro terra facendone degli spostati o degli alienati! Gesù (e con lui Marco)
questo voleva insegnare quando rimandava a casa dopo un miracolo: sennò
perché non si tenne stretti quei 5000 o quegli altri 4000 anziché rinviarli alle
loro case? li congedò invece, anche se gli appartenevano, un’appartenenza
che avrebbero potuto vivere ovunque: l’umanità aveva trovato finalmente lo
Sposo!

Chiesa e peccato

La chiesa è il luogo del culto in Spirito e Verità, meglio è il culto stesso


qui in terra, tutto quello che fa ed è ha significato di liturgia-servizio della
gloria di Dio in Cristo risorto a nome di tutta la creazione. Non potrebbe
essere tutto ciò, se facesse posto al peccato. Ciò che ho scritto di Maria, val
bene per la chiesa: Colui che è tutta la vita del Padre e fu tutta la vita della
Vergine Maria, non può che essere tutta la vita anche della chiesa! Per questo
la chiesa è per coloro che non hanno il minimo spazio da difendere dal
dominio del Signore. Fuori dunque gli intrallazzatori, e fuori i mediocri,
anche dai conventi! Non è posto per coloro che al Signore riservano una parte
di sé anziché tutto, spesso l’infima porzione… Questa chiesa massiva, magari
idonea ai tempi e provvidenziale, ha dato tutto quel che poteva. Sii finalmente
te stessa!

232
Ho osservato che Marco non immagina la mediocrità al seguito di
Cristo; mediocrità che non teme di riconoscere presente nei discepoli prima
di Pasqua, impossibile invece a norma dopo l’incontro con il Risorto. Al
contrario Matteo ammette perfetti e mediocri, buoni e cattivi (Mt.13,48;
22,10). Ora la chiesa che è vissuta del modello matteano è in piena crisi: la
sfida della secolarizzazione si rivela fatale più delle persecuzioni dei primi
secoli, mentre i molti nodi non risolti vengono al pettine tutti insieme
inesorabilmente. I cristiani comuni lasciano a frotte, denunciando in silenzio e
per lo più in modo inconsapevole con il loro abbandono che stare nella chiesa
a questo titolo non ha più senso. Adesso tocca a loro, ma verrà il turno anche
dei preti e di quanti si trovano all’identico livello di mediocrità, fossero pure
vescovi. Benché in questi casi si diano interessi molto concreti a rimanere
dove sono. Ma intanto la gerarchia che fa? si trastulla, qualsiasi motivo è
buono per gridare al ritorno della pratica religiosa: chissà, una tale invasione
di islamici non sta per provocare un rigurgito tra i cristiani? Forse maggior
consapevolezza della propria fede, della propria cultura… ma non illudetevi
che ciò possa riempire di nuovo le chiese!
Accettare la linea di Marco non significa immaginare i discepoli
“perfetti-téleioi”, se ciò volesse dire che non sono più perfezionabili. Il
discepolo che è risorto con Cristo non è infallibile né senza peccato; questo
lo caratterizza: si è consegnato senza riserve a Cristo e non ha motivo alcuno
che lo trattenga dal dire no a qualsivoglia cosa si frapponga tra lui e il suo
Signore. Ha soltanto i peccati che ancora non conosce, che non ha costatato
in sé benché ci siano in qualche anfratto o spazio della sua vita, perché nel
momento in cui fossero messi a fuoco (“Nella tua luce vediamo la luce”
Sal.35,10) sarebbero vinti e distrutti, non volendo egli nelle sue membra se

233
non essere tutto per il Signore. Libero per Cristo, egli è colui che dice senza
riserve: fa’ quello che vuoi di me.
Questi pensieri sono espressi nitidamente nella prima Lettera di
Giovanni: vi si afferma da un lato che “se diciamo di non avere (il) peccato,
inganniamo noi stessi” (1Gv.1,8); dall’altro che “chiunque è nato da Dio non
fa peccato, perché il suo seme rimane in lui; e non può peccare” (3,9). L’autore
distingue con sicurezza tra avere (il) peccato [échein amartían] e fare peccato
[poieîn amartían] o peccare [amartánein]: il secondo non dovrebbe essere se si è
da Dio; il primo non può non essere perché siamo discendenza di Adamo, e
va riconosciuto confessato e “se camminiamo nella luce […] il sangue di Gesù
Cristo ci purifica da ogni peccato” (1,7). Ciò significa che nella vita di un
discepolo del Signore si potrà sempre avere qualcosa d’imperfetto, che
tuttavia deliberatamente in quanto cattivo e contro il Signore non farebbe mai!
Di tale fardello senza nome son consapevoli i santi, e si tengono perciò umili.
Giovanni, con la sua distinzione tra chi ha e chi fa peccato, mette in
cascina per sempre un’importante conquista del NT; tuttavia si dovrà
distinguere all’interno di coloro che fanno peccato. Come? Le fiere fanno
peccato, ma non è quello che vanno cercando, lo bucano piuttosto alla ricerca
di spazi di libertà di creatività di felicità, in una parola in vista della
realizzazione di sé fosse pure ingannevole; c’è distanza dal Dio vivo e vero
ma non rifiuto. Satana e quelli come lui invece fanno peccato e vi si
identificano fino a odiare a morte quelli che non sono come loro. Satana non
può più ravvedersi; quelli che sono con lui sono in grave rischio ma non sono
esclusi dall’amore di Dio finché vivono questa vita: Gesù è morto anche per
loro.

234
Mi son sempre chiesto che senso ha quella parola del Risorto ai
discepoli la sera di Pasqua: “soffiò e disse loro: ricevete lo Spirito Santo. A
chiunque perdonerete i peccati sono perdonati, a chiunque li riterrete sono
ritenuti” (Gv.20,22s). Perché quest’ultimo membro, mi sono chiesto?
d’accordo, lo Spirito è necessario per il perdono: ma che bisogno c’è dello
Spirito per non perdonare? E si fa strada un’altra domanda: dove devono i
discepoli esercitare questa funzione? nella chiesa o nel mondo? nella chiesa,
in Giovanni non si vede altra possibilità! Quando va esercitata? sempre,
dall’ammissione al battesimo e sino al termine del percorso; lo Spirito
occorre per discernere gli spiriti: “da questo si distinguono i figli di Dio dai figli
del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, né lo è chi non ama il
fratello” (1Gv.3,10) … È una parola insomma che riguarda le chiese, non
interferisce con il discorso sull’universale perdono dei peccati in grazia della
morte di Gesù e non è almeno per questa volta la minaccia sempre
incombente dell’imbuto! Le chiese storiche hanno potuto avere peccato e
anche peccatori, ma non avrebbero dovuto fare peccato né peccatori:
accettando e codificando la mediocrità non solo hanno avuto in sé stesse
peccato e peccatori ma li hanno a tutti gli effetti coltivati! Non c’è nessun
catarismo qui, stiamo parlando di un Vangelo non di un’eresia, che tra l’altro
non potrà mai vantare la paternità di Marco, infatti è dualista, quanto di più
antimarciano!
Nella sala austera e preziosa dove si attende d’essere ammessi a
colloquio col vescovo, su una delle pareti è raffigurato un albero con i nomi
dei successori di s. Marziano sulla cattedra tortonese: immagino ce ne sia uno
simile in tutti gli episcópi. Ebbene, fino al VI secolo i vescovi sono tutti santi
(non sappiamo se si debba credere tanto, ma così è scritto a parete), nel VII i

235
santi si diradano, in seguito non ce ne sono più. È una sorta di dichiarazione
di non-santità lunga 14 secoli… e sciorinata senza un velo di pudore. Non si
può credere che la santità sia cosa tanto pleonastica per la chiesa! infatti non
lo è. Come possono santificare i loro preti e la loro gente, i vescovi, se essi
per primi non sono santi? d’accordo che i sacramenti operano al di là della
santità dei ministri, ma non disse forse Gesù “per loro io santifico me stesso,
affinché anch’essi siano santificati nella verità” (Gv.17,19)?
Cosa fa tutto il giorno un vescovo, quando non si santifica come fece
Gesù? Bisognerebbe chiederlo a don Milani; o a quei tanti preti colti e
generosi di ogni diocesi travolti dal sospetto nella campagna antimodernista
del primo novecento in Italia: eppure non era scritto da nessuna parte che la
chiesa avesse a fare dei martiri con le sue mani, i martiri semmai li avrebbero
fatti gli altri (Mc.13, 9.12). E poi ci si chiede perché la teologia italiana non
ha prodotto quasi nulla in quel secolo! Gesù ebbe a negare che satana facesse
del male a sé stesso (3,23ss); ma quante volte i secoli hanno visto la chiesa
divisa e intenta a ferire le sue membra migliori o più deboli?!

Se c’è gloria nella morte…

“[…] la stolta paura della morte, e perciò del tempo, che si procura
di ingannare ammazzare, invece di baciarlo e amarlo” (E. Zolla).
La miglior proposta religiosa è quella in grado di offrire agli uomini
la miglior risposta anche in faccia alla morte. L’evangelo di Gesù ce l’ha
questa risposta? Sì, io lo credo. Alcuni pensano che nella risurrezione i
cristiani hanno la risposta vincente. Non è l’unica e potrebbe essere una

236
risposta sbrigativa, che non costa nulla; la solita fuga in avanti che nasconde
la paura di confrontarsi a viso aperto con la morte. La stessa paura che
trattiene la chiesa dall’annunciare a chi viene al battesimo che si è consacrati
a dare la vita, perderla al seguito di Gesù. Il modello di fede neotestamentario
guarda unitamente alla morte e risurrezione di Gesù; Paolo giunge a scrivere,
senza offesa della risurrezione “io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi
se non Gesù Cristo, e questi crocifisso” (1Cor.2,2).
La comunità pasquale instaurò un rapporto nuovo fecondo con la
morte, cosa che l’ebraismo biblico non ha mai conosciuto. Per gli ebrei la
morte è un che di irrimediabilmente antidivino e tale resterà anche dopo
l’approdo alla fede nell’immortalità e nella risurrezione. Il patto interviene
tra Dio e chi è vivente, chi muore è fuori dal patto (Balthasar). Se l’osservanza
dei comandamenti allunga la vita, la rende piena e feconda, alla fine ogni
uomo buono o cattivo che sia scende tristemente nello sheol: “Nessuno tra i
morti ti ricorda; chi nello sheol canta le tue lodi?” (Sal.6,6). La morte non ha
visto il bene dell’atto creatore, e resta senza gloria. I capi del popolo
avrebbero accettato un Messia forte, così la folla, i nazaretani e gli stessi
discepoli, primo fra tutti Giuda e non ultimo Pietro. La debolezza di Dio ha
sempre fatto scandalo: figurarsi la morte! Gesù scelse la debolezza in
obbedienza al Padre, ma fu quanto nessuno forte nella debolezza, e sin nella
morte.
Come parlare agli uomini della loro morte? Semmai come non
parlarne, dal momento che per quanto rimossa essa costituisce l’orizzonte, il
mistero in faccia al quale essi vivono la vita?! Non si tratta di omologarla in
qualche modo, integrando la morte per vie esterne visto che ragioni interne
per accettarla non ce ne sarebbero, essendo la morte incomprensibile. Se la

237
morte è incomprensibile, non lo è meno applicandola a Gesù: perché infatti
la morte dell’innocente dovrebbe essere più comprensibile? A costo di
scandalizzare, dovremo dire che la morte ha senso; anzi ha una sua propria
gloria (per il IV Vangelo l’innalzamento in croce, la morte, è la glorificazione
di Gesù). Un filosofo ha potuto scrivere che “vivere per la morte” è il senso
autentico dell’esistenza (Heidegger), qualcosa che la chiesa non avrebbe
dovuto farsi ricordare! Secondo l’evangelo si vive per morire e si muore per
vivere (chi perde la sua vita, la troverà). Morire è nascere ad una nuova forma
di vita: il bimbo che nasce, muore al grembo materno e piange la nuova
condizione. Noi lo chiamiamo nascere perché ci troviamo da questa parte
della vita; in ugual modo il morire a questo mondo non lo chiamerebbero per
caso nascere coloro che si trovassero dall’altra parte? Non può infatti andare
perduto eternamente l’uomo, chiamato all’amicizia con Dio fin dalla
creazione del mondo.
Riconoscere tuttavia la gloria nella morte non è come affermare che
la morte è da Dio? e in qual modo si concilierebbe con ciò la convinzione
biblica che la morte è dal peccato (Gen.3; Rom.6,23)? “Dio non ha creato la
morte”, sentenzia l’autore sacro (Sap.1,13). Non sostengo il contrario:
l’aspetto attuale della morte le deriva dal peccato e dalla maledizione di Dio,
“mangerai la tua morte”! Con il peccato nulla è più come prima, né l’amicizia
con Dio, né il dominio sul creato e sugli animali, e neppure il rapporto di
coppia il lavoro, tutto è divenuto contrastato faticoso (il latino laboro è il
nostro fatico). Tutto ciò che fu benedizione porta in sé un che di maledizione:
se lo hanno dovuto imparare le donne e gli uomini! Ma Dio aveva pensato
uno stadio innocente del morire a questa vita, qui c’è un primo motivo per
parlare in positivo della morte! e per lo stesso motivo Gesù non poteva non

238
assumerla: portava anch’essa l’immagine. Nessuno ha mai detto infatti che gli
uomini sarebbero vissuti per sempre sulla terra, anche senza il peccato; e
d’altronde Adamo e Eva trascurarono del tutto l’albero della vita e puntarono
senz’altro sull’albero della conoscenza del bene e del male, con l’illusione di
poter essere Dio (Gen.2,9;3,1ss); per loro scelta avrebbero conosciuto (nel
linguaggio biblico provato esperimentato gustato) il bene e la vita, il male e la
morte, tutto. Scelsero di vivere tragicamente, non idillicamente. Ebbene, in
quella divisa la morte (il pio transito) era da prima; come la nudità, che aveva
la sua gloria e non era inquietante, mentre diventa un problema dopo il
peccato e se ne vergognano davanti a Dio. Così all’uscita dal paradiso Dio la
riveste, la nudità, come anche la morte avrà il suo rivestimento nei riti funebri
e nel culto dei defunti, che caratterizzano la cultura umana dagli albori. Non
è per caso che la nudità rispunta proprio in vista della Risurrezione di Gesù,
con i soldati che si spartiscono le sue vesti, con l’istantanea delle bende per
terra e del sudario ripiegato in disparte nel sepolcro: la prospettiva del
paradiso fa tramontare ogni bisogno di rivestimento. Ciò che il magnifico
Marco aveva anticipato nel giovinetto che sfugge nudo alla cattura, lasciando
in mano agli sgherri la sindone che lo copriva…
Se non furono come Dio, fu Dio come gli uomini e con il dovere di
vivere conobbe anche il diritto di morire. Non potendo far rientrare la scelta
originale (sarebbe stato un arbitrio da parte di Dio che vuole l’uomo libero:
su che si fonderebbe l’inviolabilità della persona, se fosse Dio stesso a non
rispettarla!), cosa avrebbe potuto fare un Dio che si fa uomo, oltre a rifiutare
il male (Is.7,15) che fu causa della morte? poteva scegliere per sé una morte
immeritata e infame (“Maledetto chiunque pende dal legno” Gal.3,13): non
il pio transito, ma una morte in tutto simile a quella degli uomini. Non è

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diverso per Maria: se fu insieme al Figlio corredentrice, allora gustò la stessa
morte immeritata. C’è gloria in tutto ciò? certo che c’è gloria, un accumulo
di gloria! Noi però ricerchiamo la gloria che sta all’origine.
Siamo nati dalle stelle… “Senza le stelle ora noi non saremmo qui
sulla terra. Durante la sua vita una stella trasforma gli elementi più leggeri in
elementi più pesanti, come carbonio silicio ferro… Per raccogliere tutti gli
elementi chimici che servono a formare il corpo umano occorrono ben tre
generazioni di stelle” (intervista a p. G. Coyne). Stupefacente! E non arrivò
subito l’uomo: il laboratorio dei viventi non è stato da meno. L’uomo infatti
è il culmine dell’evoluzione della vita sulla terra, cui tutti gli esseri che ebbero
vita contribuirono in attitudine propriamente oblativa, quasi un calice
sacrificale nel quale tutti hanno versato qualcosa di sé che avevano ricevuto,
in vista della forma-uomo. Ora egli ha l’occasione, perché ne è capace, di
rendere consapevole tutta questa immensa processione offertoriale, con la
coscienza di essere arrivato ultimo, di non essere dunque all’origine di sé
stesso e di dover a sua volta rendere qualcosa…
Dove ha preso immagine tutto ciò? in null’altro che nel Dio-Amore
(1Gv.4,8), del quale Gesù è stato l’esegesi (Gv.1,18). Se infatti Dio è Amore,
il presupposto è che in Dio ci sia l’Uno, l’Altro e la loro Unità: il Padre, la
sua Immagine increata eterna (il Figlio), lo Spirito Santo; il Padre che genera
eternamente il Figlio donando tutto ciò che è ed ha (a parte la Paternità), il
Figlio che a sua volta restituisce al Padre tutto ciò che ha ricevuto (a parte la
Figliolanza), e questo è il circolo dell’Amore. Nel Padre che tutto si dona al
Figlio e nel Figlio che tutto restituisce al Padre c’è traccia eterna del perdersi
per amore che Gesù è venuto a incarnare. Ma non è tutto: infatti il Figlio fatto
uomo non dovrà comprendere nella restituzione di sé al Padre anche la realtà

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umana che ha assunto? e ciò non si realizzerà nella morte, a nome di tutta
l'umanità? Da quel momento la nostra morte farà parte per sempre della
restituzione trinitaria. Ecco dov’è incastonata la gloria della nostra morte!
Anche il morire della creatura è restituzione di sé alla creazione e al Creatore,
quando si spegne a questa vita e lascia in mani eterne il proprio destino. Il
chiaro movimento oblativo che abbiamo rilevato nel mondo manifesta i
caratteri della sua fonte trinitaria, amore inconsapevole nelle stelle e nelle
cose, che prende forme anche tenerissime negli animali e diventa consapevole
libero appassionato amore nell’uomo.
Siamo romantici, non abbiamo occhi sufficientemente smagati? Oh!
li abbiamo, sul mondo degli uomini: e non per quel che essi sono in grado di
realizzare, ma su come sanno rovinare ciò che di bello creano. Non è il
mondo ideale, no! ci si sta male solo che uno si trovi nel bisogno, in
qualunque bisogno; e non per colpa di Dio bensì degli uomini (le fiere). Ciò
che brucia di più è che, a differenza di satana, la chiesa (gli angeli) non ha fatto
né fa per intero la sua parte, aggravando il senso di pena.
L’amore che Gesù ha vissuto e insegnato si inscrive nel circolo di
dono-restituzione (che è tutt'altra cosa dal do ut des!). Gesù ha insistito sul
comandamento dell’amore (“Il primo è: …Amerai il Signore Dio tuo…E il
secondo è questo: Amerai il prossimo tuo…” Mc.12,29.31) e si capisce:
Amore è tutta la vita di Dio, ed è impresso come un marchio di fabbrica su
ogni pur minimo elemento della creazione, anche là dove potrebbe sembrare
il contrario. L’uomo da principio ha pensato di sottrarsi all’universale
armonia imponendo la sua musica dissonante e andando regolarmente
incontro alla morte seconda. Abramo (la storia della sua discendenza ha dei
critici, quasi non sia opera del Dio-Amore) addirittura viene posto

241
forzatamente e anticipatamente di fronte alla logica dono-restituzione,
quando gli viene richiesto il sacrificio del figlio della promessa, Isacco,
richiesta che non verrà mai più avanzata in questi termini e che si comprende
solo alla luce del sacrificio di Gesù, il Figlio che lui sì! non sarà risparmiato.
L’amore così inteso non è rinuncia a vivere, il dare la vita sta con la scelta di
vivere intensamente, s’accorda di più con il bruciare la vita che con la
rinuncia; basti pensare a quello che fece Gesù nel breve lasso di tempo della
sua missione.
Non basta il morire per salvarsi; soltanto al supremo Giudice nella
sua misericordia è noto se e in quale misura la morte avrà contribuito a
pareggiare il conto della vita. Né voglio aver l’aria di chi indora la pillola. La
morte è una violenza atroce. Gesù di fronte alla morte ha pianto, e di fronte
alla sua morte ha provato orrore. Quanto abbiamo penato al pensiero che il
corpo della madre, i suoi occhi bellissimi sarebbero stati profanati dalla
morte! Non c’è da aspettarsi alcuna compassione dalla morte… Ma
all’interno, nascosta dalla cosa orrenda, c’è un’area serena come l’occhio
sereno del ciclone. Enormemente ha pesato sulla riflessione umana la
tristezza di una concezione della morte tutta fondata sulla colpa e la
condanna: abbiamo un dono così grande per l’umanità, che ne facciamo? Già
troppo abbiamo dato le spalle, fratelli; non decliniamo oltre le nostre
responsabilità!

242
Capitolo 6
Popolo e secolarità

Papa Paolo VI ebbe a dire che la più grande tragedia fu nel '800 la
perdita della classe operaia. Ma non si era già perduta nel ’6-700 la classe
colta? e non è vero che la perdita della classe operaia fu conseguenza dell’aver
perduto la classe colta? con la differenza che la classe operaia forse non doveva
molto alla chiesa, mentre la classe colta le era stata per lungo tempo debitrice
di tutto e persino della lingua? Perché dunque presero un’altra strada la
cultura la filosofia le scienze?
La chiesa che si era messa in cammino era la chiesa di Paolo Matteo...;
il suo motto era: o di qua o di là, chi non è con me è contro di me (Mt.12,30).
Non era precisamente una mentalità dualista, era piuttosto almeno per Paolo
la mentalità dell’elezione, che è indivisibile: o si è eletti o non lo si è, non c’è
via di mezzo. A increspare il mare e rendere la navigazione stimolante non
monotona ci pensarono sia l’ostilità della cultura (scrissero di proposito
contro i cristiani il retore Frontone e i filosofi Celso e soprattutto Porfirio),
sia le persecuzioni col lungo corteo di martiri ma anche con l’immancabile
strascico di lapsi-relapsi, sia le eresie dallo gnosticismo al donatismo al
manicheismo al pelagianismo. In mezzo a queste difficoltà non è difficile
veder vagare il fantasma della teologia di Marco: una chiesa meno massiva,
meno esposta sia agli attacchi della cultura classica (pagana) sia alle
persecuzioni, ma anche confortata dalla presenza diffusa dello Spirito e quindi
di una larga fascia di simpatie a far da scudo contro gli avversari.

243
La fine dell’Impero romano d’Occidente fa dell’Italia e dell’Europa
un crogiolo di popoli che a riprese si propongono da Nord-Est; e il cammino
della chiesa diventa faticoso, a tratti oscuro, eppure fecondo. Occorreranno
secoli (dal VI al XII), una lunga marcia di avvicinamento, ma alla fine con
ineffabile audacia la chiesa avrà conquistato a sé la città degli uomini (Agostino
non avrebbe creduto ai suoi occhi!), raggiungendo nel sec. XIII il massimo
splendore: per l’opera riformatrice di grandi papi (Gregorio VII, Innocenzo
III), per il rinnovamento introdotto dai nuovi ordini religiosi mendicanti
(Domenicani e Francescani) che coerentemente non predicano più la fuga dal
mondo come gli antichi ordini monastici, per la nascita delle Università e
l’intensificarsi degli studi filosofici e teologici, per il primato conseguito dal
papato nei confronti del Sacro romano Impero a seguito della lotta delle
investiture… Si realizza così il sogno di unificare tutto, città di Dio e città
degli uomini, fede e ragione, teologia e filosofia, tutto il sapere e tutto il
potere nelle mani di un solo arbiter mundi, il Vicario di Cristo. Fu la creazione
ambiziosa di una sorta di monade, di cui l’Impero era la faccia terrena e la
chiesa la faccia celeste. Era uno sbocco a suo modo necessario, perché la città
degli uomini era di fatto cristianizzata (l’Europa), più profondamente perché
quella chiesa concepiva la presenza dell’altro soltanto così: o assimilabile o
ostile (le solite due icone!).
Se il successo fosse la misura della verità, lì doveva esserci la verità!
ma allora sulla croce, insieme all’insuccesso tanto sottolineato da Marco, cosa
c’era? … In realtà gemme autentiche erano frammiste a molta bigiotteria, e
tutto era ottenuto a prezzo di drastiche semplificazioni: l’Impero non andava
oltre la Germania qualche provincia della Francia e parte dell’Italia, mentre
il cristianesimo con la sua fede e i suoi ordinamenti era penetrato dappertutto

244
fino all’estremo Nord; la vastità della penetrazione avrebbe dovuto essere
pari alla conversione del cuore e della vita delle persone, ma non era così
neppure tra il clero e i vescovi; furono vera gloria le Università e le Summae
come quelle di Tommaso d’Aquino, ma poteva la ragione essere sacrificata
in eterno al solo servizio della fede, la filosofia contentarsi di far da ancella
alla teologia? e potevano l’Impero e gli Stati nascenti soggiacere a un’autorità
posta fuori di loro?… Fu un sogno, e come i sogni labile.
Pesavano altri interrogativi. La chiesa sarebbe stata in grado di fornir
garanzie di libertà per tutti? l’Inquisizione, i bagliori del rogo di G. Bruno, lo
sciagurato processo a G. Galilei (in particolare il secondo) si sarebbero
incaricati di offrire esauriente risposta. Ma quel che è anche peggio, dal punto
di vista della chiesa, quanto sarebbe costato in termini non solo d’immagine
bensì di fedeltà alla missione e di efficacia quell’ingorgo di interessi temporali
in cui essa aveva voluto ficcarsi, ben peggio di quel che temeva s. Bernardo
di Chiaravalle (“La curia romana è sul punto di diventare un grosso centro di
affari mondani”)? non aveva per caso del tutto dimenticato che doveva
proclamare, che era inviata non solo all’Europa ma al mondo intero, che la spada
e le crociate non c’entravano nulla con la conversione dei popoli? Non si
fatica a indovinare in filigrana in quel disegno la teologia del “mi è stata data
ogni autorità in cielo e in terra” di Mt.28,18ss applicata in libertà, non certo
la teologia di Marco. Che invece si può intravedere nelle aspirazioni dei
movimenti spirituali, assai critici nei confronti della politica di potenza
portata avanti dalla gerarchia. “Come sempre il fondamento la sorgente di
simili correnti era la convinzione di dover far proprie le esigenze della vita
vere apostolica per realizzare pienamente la sequela di Cristo” (Storia della
chiesa, vol. V/1, 347). Essi erano alla ricerca di cose che Marco recava in

245
dote, ma che essi non sapevano leggervi perché la tradizione non lo aveva
accreditato di un pensiero proprio. Di solito poi non si contentavano di
scegliere per sé le esigenze della sequela, e pretendevano di imporle a tutti i
cristiani. C’era chi chiedeva a viva voce “che la chiesa istituzionale e giuridica
venisse superata (se non sostituita) da una ecclesia spiritualis che prendesse
radicalmente sul serio le richieste del Vangelo” (ibid.). E nel far ciò si
richiamavano al Discorso della montagna (Mt.5-7), senza rendersi conto che
si davano la zappa sui piedi offrendo argomento all’altra parte, visto che è
proprio il Vangelo di Matteo a introdurre il doppio stato di vita…
La massima espressione di questa tendenza fu la teologia apocalittica
e trinitaria della storia dell’abate Gioachino da Fiore (1130-1202): l’epoca
del Padre (e dell’uomo sposato e carnale – VT) ha ceduto il posto all’epoca
del Figlio (e dell’uomo insieme carnale e spirituale – NT) che in questo
tempo sarà sostituita dall’epoca dello Spirito (e dell’uomo completamente
spirituale o dell’ideale monastico). Gioachino si richiama a un evangelo eterno
e a una terza epoca dello Spirito altrettanto immaginaria, quasi sentisse il
bisogno di andare oltre i Vangeli, non avendo gli strumenti purtroppo per
fondare ciò che sentiva dentro, in un Vangelo che c’era (Marco) e sarebbe
stato in grado anche di tenerlo lontano da pericolose derive. Egli apre così
una strada per eccesso, inconsapevolmente; altri avrebbero fatto altrettanto
in modo consapevole e opposto, superando fede e Vangelo e chiesa: infatti
ciò che non farà il nostro nobile Rinascimento, lo faranno i deisti con il rifiuto
del Dio rivelato e del soprannaturale. Tanto mancò alla chiesa e al mondo
l’insegnamento del primo Vangelo!
Se l’ideale medievale era stata l’unità, pur con abbondanti forzature,
nel secolo XIV quell’ideale si dissolve: si affossa la filosofia Scolastica, non

246
solo si distingue ma si separa fede e ragione, il singolo dagli altri
(individualismo), il singolo Stato dagli altri Stati e dall’Impero. Da quel punto
la chiesa e il mondo sembrano diventare preda del demone della divisione;
ogni aspetto della vita sarà segnato progressivamente da lacerazioni: la chiesa
romana non solo non saprà far rientrare lo scisma d’Oriente, ma subirà la
riforma luterano-calvinista-anglicana e la proliferazione di centinaia di chiese
e chiesuole e sette; e gli Stati europei conosceranno tutte le guerre possibili.
Qualcosa di nuovo tuttavia, carico di promesse, cominciò a prender
corpo in quei secoli. L’Umanesimo non ruppe con la chiesa. Gli umanisti non
solo italiani (vedi Erasmo) ne condividevano la fede, si ritenevano come tutti
parte della chiesa; dissentivano però su talune questioni, e nel farlo succede
che prendono a muoversi quasi fossero terzi tra la chiesa e le realtà in conflitto
(l’Impero o gli Stati o i movimenti spirituali); non agiscono come un corpo o
una funzione della chiesa ma a proprio titolo, sanno di essere liberi dalle
auctoritates cui erano soggetti i medioevali (i barbari), hanno scoperto la
dimensione della laicità: dimensione che è altro da quella laicale (interna alla
chiesa) come da quella laicista (ostile, che non tarderà); la loro laicità è
secolarità, libertà; essi sono la ragione, non più serva ma amica della fede.
Significa che nella chiesa alcuni valori non riescono incarnati adeguatamente,
ed è necessario un soggetto laico per consacrarli in modo irreversibile!
Questi laici, pur non essendo contro la gerarchia come i movimenti
estremi, vogliono un papa che non interferisca a ogni passo e si occupi di cose
spirituali (“Non voglio […] esortare i principi e i popoli a fermare il papa
nella sua corsa sfrenata e a costringerlo a stare entro i suoi confini; voglio
soltanto che lo ammoniscano, e forse dalla casa altrui spontaneamente tornerà
alla sua” L. Valla). Se voltano le spalle alle grandi Summae e si dedicano di

247
preferenza alle scienze morali e alla natura, lo fanno senza spengere la luce
della fede, però con i soli strumenti della ragione umana. Il metodo, illustrato
già dal Petrarca, è essenzialmente fondato sulle humanae litterae: famosa è
rimasta, a proposito della Donazione di Costantino, la dimostrazione della
sua falsità guadagnata dal Valla con argomenti di esclusiva natura filologica. Il
quale Valla applicò poi il metodo agli scritti del NT, con il doppio intento e
di restituirne il testo genuino e di mostrare la superiorità degli strumenti
filologici su quelli filosofici in voga (metodo seguito anche da Erasmo, e ora
universalmente accettato).
Gli umanisti considerano la natura dell’uomo tale da realizzarsi
pienamente in una dimensione sociale e civile impegnata (“I giudizi dei
malvagi sono come i gusti dei malati, che in nulla afferrano l’esatto sapore[…]
Se dunque vogliamo essere felici, adoperiamoci per essere buoni e virtuosi”
L.Bruni); di qui l’esaltazione della vita attiva di contro alla contemplativa:
“lascio volentieri[…] a te e a chi alza al cielo la pura speculazione tutte le altre
verità, purché mi si lasci la cognizione delle cose umane. Tu rimani pure
pieno di contemplazione. Che io, invece, sia sempre immerso nell’azione
teso verso il fine supremo […] ch'io possa esser utile agli amici e alla patria e
possa vivere in modo da giovare all’umana società con l’esempio e con le
opere” (C. Salutati). Lo sguardo sereno alla natura e alla voluptas fa loro
rischiare persino una vena di pelagianismo…
Ecco, non stava per caso maturando per interna esigenza, ad opera
degli umanisti, quel tertium tra la chiesa e gli avversari, voluto fortemente da
Marco? Fiere o angeli che siano, gli uomini hanno sempre bisogno di élites a
tracciare la via, dei migliori in umanità saggezza coraggio… così fu degli
umanisti! Anzi, non fa capolino addirittura la terna di Marco nelle forme

248
dell’arte magica (quella dei santi, quella naturale, e quella demoniaca) descritta
dal Campanella? Fu così fino alla brutale aggressione a G. Galilei, capace di
gelare da sola una primavera. Come se nell’oscurità qualcuno congiurasse per
impedire il sorgere di un nuovo rapporto tra chiesa e mondo. E così, se
Cartesio (1596-1650) sorpreso dalla condanna dello scienziato “italiano e
anche ben voluto dal papa” dichiarava ancora che non avrebbe pubblicato uno
scritto “in cui si potesse trovare anche una sola parola disapprovata dalla
chiesa”, nel ’700 gli illuministi non si porranno più il problema.
Non che si possa liquidare con una battuta l’Illuminismo: sia perché
non tutto l’Illuminismo è ateo o deista, sia perché anche ove fosse ateo non
sarebbe per ciò stesso satana; benché lo sia stato nelle frange estreme. Vedo
anzi nell’Illuminismo un seguito della stagione degli umanisti con la sua
fiducia nella ragione, l’uso critico che ne ha fatto per rendere più libera e
felice la condizione dell’uomo, il suo grande messaggio di tolleranza
(Voltaire): sotto il laicismo, continuava a scorrere la laicità. Come
dimenticare la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” in Francia
(1789), che tien dietro all’americana “Dichiarazione dei diritti fatta dai
rappresentanti del buon popolo della Virginia riunito in piena e libera
convenzione” (1776), che sono ancor oggi alla base dello stato di diritto?
Quasi che nell’immobilismo della chiesa lo Spirito effuso su ogni carne si sia
messo, a un certo punto della storia, a spirare più forte fuori che dentro,
nello spazio libero più che al chiuso delle mura istituzionali dove viene dato,
si dice, per imposizione delle mani... Certo illuminismo e positivismo hanno
ecceduto, e dove hanno ecceduto hanno portato lacrime e sangue, fino alle
guerre mondiali e alle due dittature più bestiali della storia, con lager e shoah,
deportazioni e gulag. Nel ’900 si è visto il frutto maturo degli eccessi: “La

249
terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”
(Horkheimer-Adorno, 1947).
Alla luce di quanto emerso in questa veloce carrellata, sono due le
vere tragedie della chiesa, se ora vogliamo riprendere l’espressione di Paolo
VI.
La prima, che Paolo e Giovanni e Matteo e gli autori delle Lettere agli
Ebrei e ai Colossesi-Efesini non abbiano neppur lontanamente sospettato che
l’umanità potesse avere un destino proprio, distinto da quello della chiesa,
senza che con ciò fosse l’avversario né fosse a rischio la sua salvezza: per il
misericordioso disegno di Dio, che l’ha amata al punto da non risparmiare il
suo Figlio e da donargli il suo Spirito perché ogni uomo possa vincere con il
bene il male che ha in sé. Si può essere d’accordo con P. Ricoeur su “l’uomo
capace” e sul credito da accordare alla bontà di fondo degli uomini, proprio
perché c’è lo Spirito che consente il riemergere e l’affermarsi del meglio di
noi stessi.
La seconda tragedia sta nell’avere la gerarchia della chiesa cagionato
col suo comportamento insipiente e dispotico grave offesa agli uomini e alla
scienza, la conseguente disaffezione della classe colta e il suo abbandono,
proprio quando in epoca rinascimentale iniziava a sorgere per moto
spontaneo un nuovo rapporto col mondo, a conferma che quella chiesa non
aveva il Vangelo di Marco nel Dna e che la radice delle tragedie era proprio
quella lacuna nella sua spirale. Come il figlio più giovane della parabola
(Lc.15,11ss) che lasciò la casa non per colpa del padre bensì del fratello
maggiore, osservante servile capace di render triste la vita a sé e agli altri che
sono nella casa, così fu la fuoruscita della classe colta da quella che era stata

250
la casa comune. Sarebbe uscita comunque? non sarebbe stato però un
abbandono traumatico non pacifico foriero di tempesta.
Della nobile generazione degli umanisti intanto che ne è, appartiene
al passato ed è forse estinta? Per nulla, a chi somiglierebbe sennò un
parlatore-filosofo che redarguisce il cardinale o il papa?! Non ci sono anche
gli intellettuali? a dir vero non mi piace affatto il nome, dà l’idea che gli altri
l’intelletto se lo siano bevuto; e poi è un genere diverso… Quei laici non si
cedevano né a questa chiesa né ad altra; erano onesti con la ragione, uomini
e donne della parresía, del parlar franco, che nessuno spazio lasciano
all’adulazione e al servilismo (M. Foucault). E spesso hanno anche occhi fondi
di profeti. E siccome non solo lo Spirito ma lo stesso Gesù è di tutti, possono
ispirarsi a Gesù senza bisogno di pagar dazio ai professionisti della fede. Si dà
il caso che stimolino e rincuorino, loro, quelli dalla fede fiacca; possono talora
fustigare anche la chiesa, perché hanno un alto concetto magari non tanto di
quello che è, e neppure solo di quello che è stata o ha rappresentato, ma di
quello che indovinano dover essere... Né è un caso che il film più bello serio
e forte su Gesù lo abbia girato Pierpaolo Pasolini.
La chiesa delle grandi riforme (Riforma gregoriana, Concilio di
Trento, Concilio Vaticano II) non ha neppure iniziato la transizione anzi non
sa neppure da dove incominciare. Da Marco, chiesa, da Marco! E visto che la
storia non è finita, che sia da qui una storia di cui andar fieri senz’ombra!
È bello sapere che non si è soli. Tutto il mondo è un immenso cantiere
dello Spirito, abbiamo più complici che nemici intorno. Japhet, messo in
chiaro che non tollera d’essere annesso, guarda con simpatia alle tende di
Sem. E questo conta moltissimo, ad esempio nelle lotte ideali cui guarda la
chiesa, concernenti la ricerca della pace la lotta contro la fame e le malattie il

251
rispetto della vita umana e le frontiere aperte alla genetica dopo che sono
caduti tanti segreti sulla vita. Sarebbe inutile sperare che gli altri condividano
la vostra ispirazione, se non concedete loro che hanno il medesimo Spirito.
Su questa posizione, potete contarci, terremo fermo: a costo di essere
anátema dalla chiesa, disposti a essere anátema persino da Dio, sapendo che
anche a Gesù capitò di esserlo, per un momento.

252
Allegoria

Marco aveva aperto il suo Vangelo con un’allegoria, e chiuso con la


metafora vuoi del pastore che precede il suo gregge vuoi dello sposo alla testa
del corteo nuziale; chiusa che qualcuno volle in seguito corredare di una finale
che gli fa torto. Vorrei tornare al linguaggio allegorico.
La donna incontrò la fanciulla di là dell’orrido, nessuno sa come, ci
furono varie dicerie, tra le altre che fossero madre e figlia. Per arrivare alla
terra del Sole dovevano attraversare l’orrido: forre buie e gole di acque
irruenti, scoscendimenti improvvisi e risalite vertiginose, la morte in
agguato.
Si assicurò la fanciulla sul petto, come usano spesso le mamme; non
avendo però una sacca o un marsupio, la legò a sé con lembi della sua veste
lunga che portava, con salici e corteccia d’albero giovane, quello che trovò.
Quando fu ben sicura si avviò. Cadde più volte, si ferì; ma ciò che guardò
bene fu che la fanciulla non patisse alcun male. Fu un momento sul punto di
tornare indietro, invocò: Dio non abbandonarmi! Se continuò fu per quella
fanciulla.
Quando arrivò finalmente a rivedere il sole ed ebbe liberato illesa la
piccola, la veste lacera lasciava vedere la sua schiena segnata e sanguinante
come fosse stata flagellata. Ma non era nulla in confronto alla gioia di essere
salve. E subito incontrarono un manipolo di guardiani del tempio, i quali si
credettero in dovere di separarle: la donna aveva scritto in faccia che
apparteneva al popolo nomade, la piccola invece era solo una fanciulla
spaurita. Così la donna tornò al suo popolo che viveva ospite sulla terra del

253
Sole, mentre la fanciulla fu cresciuta nella reggia del Signore di quella terra,
tanto attraente che il giovane principe la volle sua sposa.
La donna intanto ebbe figli e figlie. Un giorno cadde malata e venendo
a morire li chiamò a sé quasi avesse un tesoro da conferire loro, e rivelò il
segreto della fanciulla divenuta sposa del principe. Anche la giovane sposa
ebbe a sua volta dei figli, quattro; essa però aveva rimosso del tutto il ricordo
né mai aveva cercato di rivedere la donna e il popolo che viveva maltollerato
sulla terra del Sole. Solo il principe sposo sembrava sapere ogni cosa, anche
se non aveva mai voluto forzare la mano alla sposa.
A uno dei quattro figli, ormai cresciuto e valido, piaceva cavalcare un
leone dagli artigli monchi che all’occorrenza correva come un folle,
altrimenti aveva l’aria di camminare sulle uova. Un bel giorno s’avventurò
dove soggiornano quelli del popolo nomade, e i figli della donna lo seppero.
Buon per lui che non lo conobbe prima il nemico, chi per principio è contro
la pace… Non erano cattivi, i figli della donna, tuttavia quando c’era da
divertirsi non si tiravano indietro; quella volta avevano deciso di divertirsi
alle spalle del giovane e del suo leone. Prepararono accuratamente la
trappola, e il leone finì trafelato nella rete col suo cavaliere.
Anziché adirarsi il giovane fraternizzò, e in un momento di grande
amicizia lo misero a parte del segreto della loro madre: egli ascoltò con
sorpresa, commosso. Tornando alla reggia in groppa al suo leone rifletté che
doveva chiedere conferma a sua madre; e, se il racconto era vero, perché essa
non avesse mai lasciato trapelare nulla, perché avesse ignorato la donna e il
suo popolo per tanto tempo pur dovendole tutto.
La madre aveva gli occhi lucidi di pianto mentre il figlio raccontava;
disse solo “così doveva essere”. Il giovane rivolto ai fratelli maggiori

254
raccomandò che l’esclusione non aveva più da essere, che non ha mai avuto
senso, che siamo un popolo di fratelli! Ma non gli dettero ascolto. Allora
scrisse di questi pensieri un poema. E rimase celato per secoli.
Ora che il popolo nomade, evoluto nel frattempo e consapevole di
sé, sta per colonizzare i pianeti di quel sistema, mentre il popolo della terra
del Sole è in decadenza, ascolteranno ciò che dice il suo poema? Dipenderà
tutto da qui se le tende dorate del regno del Sole saranno risonanti come non
lo furono mai di grida di gioia e canti di festa…

255
Biografia dell’autore

Carlo Mario Maria Bolchi è prete da oltre quarant’anni per la chiesa


tortonese. Lombardo di nascita da Montù Beccaria (PV), trapiantato dalla
tenera infanzia in terra piemontese a Serravalle Scrivia (AL), dopo gli anni di
formazione nei Seminari diocesani fu associato a quella grande fucina che è il
Seminario Lombardo in Roma, dove perfezionò gli studi frequentando la
facoltà di Teologia presso l’Università Gregoriana e quindi s. Scrittura presso
il Pont. Istituto Biblico e conseguendo ambedue le licenze. Ha pubblicato
alcuni scritti in ambito locale, ed è al suo debutto con il presente studio sul
Vangelo di Marco.

256
Indice

PREFAZIONE DELL’AUTORE ................................................................ 3


PARTE PRIMA
ALLA RISCOPERTA DI MARCO, IL PRIMO DEGLI EVANGELISTI....... 5
CAPITOLO 1
LA VICENDA STORICA DEL VANGELO DI MARCO. ............................................. 5
Tentativo di omologazione ................................................................................ 8
CAPITOLO 2
LE TESTIMONIANZE ............................................................................... 10
Gli scrittori del Nuovo testamento ..................................................................... 10
I primi scrittori cristiani ................................................................................. 12
In sintesi il panorama successivo........................................................................ 18
CAPITOLO 3
CHI È MARCO, L’AUTORE DEL PRIMO VANGELO?............................................ 20
La testimonianza degli Atti ............................................................................. 21
Marco, personaggio già noto quando Luca scrive. ................................................... 22
Esiste una prova che il Marco degli Atti è l’autore del Vangelo? ................................. 26
La testimonianza delle Lettere .......................................................................... 30
Il quadro riassuntivo della vita di Marco. ............................................................ 36
PARTE SECONDA
STRUTTURA DEL VANGELO DI MARCO E PIANO TEOLOGICO. ...... 40
CAPITOLO 1
LE SETTE SETTIMANE: ELEMENTO STRUTTURALE DEL PRIMO VANGELO. ................. 40
CAPITOLO 2
LA SEZIONE INTRODUTTIVA ..................................................................... 48
CAPITOLO 3
LE 4 SEZIONI CHE FORMANO IL CORPO DEL VANGELO ...................................... 76
La Prima delle sezioni centrali (Mc.1,14-3,6) e prima settimana ............................... 77

257
La Seconda delle sezioni centrali (Mc.3,7 – 6,6a) e seconda settimana ........................ 96
Pericope conclusiva della sezione: la visita a Nazareth (Mc.6,1-6a) ........................... 108
La Terza delle sezioni centrali (Mc.6,6b – 8,26): terza e quarta settimana ................. 120
Il primo miracolo dei pani ............................................................................. 122
Il secondo miracolo dei pani ........................................................................... 125
La Quarta delle sezioni centrali (Mc.8,27 – 10,52): quinta e sesta settimana.............. 133
CAPITOLO 4
LE 2 SEZIONI FINALI: VI E VII SEZIONE, SETTIMANA DI PASQUA .......................... 147
La Sesta sezione (Mc.11,1–13,37): in Gerusalemme, Gesù e il tempio ....................... 147
La Settima sezione (14,1-16,8): in Gerusalemme, Pasqua Passione Risurrezione ........... 153
PARTE TERZA
NOVITÀ E FECONDITÀ DELLA TEOLOGIA DI MARCO ................... 169
CAPITOLO 1
PRIMATO DELLA PROCLAMAZIONE DELL’EVANGELO ...................................... 169
L’immagine di Dio ...................................................................................... 169
Primato della proclamazione dell’evangelo ......................................................... 172
Necessità della proclamazione ........................................................................ 172
Unità e ricchezza dell’evangelo ...................................................................... 175
CAPITOLO 2
EFFUSIONE UNIVERSALE DELLO SPIRITO: IL PUNTO PER SOLLEVARE IL MONDO ....... 178
Il battesimo in Spirito .................................................................................. 178
Il battesimo in Spirito nei sinottici ................................................................... 180
Effusione dello Spirito e salvezza universale ....................................................... 184
Lo Spirito effuso pareggia il conto col peccato originale ......................................... 186
CAPITOLO 3
IL REGNO DI DIO................................................................................ 189
Il regno di Dio è venuto ................................................................................ 189
Il regno di Dio nei sinottici ........................................................................... 192
Il regno e la divisione del tempo in Marco .......................................................... 193
Il lancio del futuro ...................................................................................... 195
Regno di Dio e Chiesa.................................................................................. 199
CAPITOLO 4
CHI È LA SPOSA? ................................................................................. 204
Una nuova figura ....................................................................................... 204

258
Il superamento del modello ............................................................................ 211
CAPITOLO 5
CHIESA, RELIGIONE, PECCATO, MORTE ..................................................... 219
La religione .............................................................................................. 222
Chiesa e peccato ......................................................................................... 232
Se c’è gloria nella morte… ........................................................................... 236
CAPITOLO 6
POPOLO E SECOLARITÀ ........................................................................ 243
Allegoria .................................................................................................. 253
BIOGRAFIA DELL’AUTORE .............................................................. 256

259

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