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SPECIALE

Scegliere il nuovo CEO


RAFFAELLA SADUN, JOSEPH FULLER, STEPHEN HANSEN, PJ NEAL, MARC A. FEIGEN,
MICHAEL JENKINS, ANTON WARENDH, AIYESHA DEY, NITIN NOHRIA

LUGLIO 2022
Illustrazione di Chad Hagen

Le competenze più importanti per la C-Suite


Oggi più che mai, le imprese hanno bisogno di leader in grado di gestire bene le
persone.

Raffaella Sadun, Joseph Fuller, Stephen Hansen, PJ Neal

Fino a non molto tempo fa, tutte le volte che volevano assumere un CEO o un altro
membro del gruppo dirigente, le aziende sapevano cosa cercare: qualcuno che
avesse expertise tecnica, competenze amministrative superiori ed esperienze di
successo nella gestione di risorse finanziarie. Quando corteggiavano dei candidati
esterni, preferivano spesso dirigenti di aziende come GE, IBM e P&G, e di colossi dei
servizi professionali come McKinsey e Deloitte, che godevano di una buona
reputazione per lo sviluppo di quelle competenze nei loro manager.
Oggi questa pratica sembra appartenere alla preistoria. Negli ultimi due decenni è
cambiato così tanto che le imprese non possono più dare per scontato che dei
leader con il pedigree manageriale "giusto" avranno successo nella stanza dei
bottoni. Devono assumere executive in grado di motivare una forza lavoro
eterogenea, tecnologicamente avanzata e globale; di agire da “statisti” aziendali,
interagendo produttivamente con interlocutori che vanno da governi sovrani a ONG
influenti; e di applicare rapidamente ed efficacemente le loro skill in una nuova realtà,
non di rado in un settore che non conoscono e spesso con colleghi di cui fino a poco
tempo prima non sospettavano neppure l'esistenza.
Questi cambiamenti rappresentano una sfida enorme per il reclutamento degli
executive, perché le capacità richieste ai top leader includono competenze nuove e
spesso "più soft" che non vengono quasi mai riconosciute o promosse
esplicitamente nel mondo delle imprese. In poche parole, sta diventando più difficile
e meno prudente affidarsi a indicatori tradizionali del potenziale manageriale.
Cosa dovrebbero fare le organizzazioni per rispondere a questa sfida? Un primo
passo, decisivo, è mettere meglio in chiaro cosa occorre attualmente ai massimi
dirigenti per avere successo. Sì, la gamma delle competenze necessarie sembra
essersi allargata - ma esattamente come? Per esempio, cosa significa realmente
l'espressione "competenze soft"? E quanto varia l'esigenza di assumere executive
dalle competenze allargate?
Curiosamente, anche se negli ultimi anni sono stati esaminati a fondo quasi tutti gli
aspetti della leadership, mancano evidenze rigorose su questi aspetti cruciali. Per
scoprire di più - sulle capacità attualmente richieste, su come si sono modificate nel
tempo e su quali aggiustamenti stanno apportando le imprese al loro processo di
selezione dei candidati - abbiamo analizzato recentemente i dati forniti da Russell
Reynolds Associates, una delle società di executive search più importanti del mondo.
Russell Reynolds e i suoi concorrenti hanno un ruolo di primo piano nei mercati della
"manodopera" manageriale: tra l'80% e il 90% delle aziende che figurano nelle
classifiche Fortune 250 e FTSE 100 usano i servizi di queste società quando devono
prendere una decisione in tema di successione che comporta una scelta tra
candidati. (Avvertenza: Russell Reynolds ha effettuato recentemente ricerche di
manager per Harvard Business Publishing, la casa editrice della Harvard Business
Review).
Per questa ricerca, Russell Reynolds ci ha fornito quasi 5.000 job description che
aveva sviluppato in collaborazione con i suoi clienti tra il 2000 e 2017. Erano dati
sufficienti a studiare le aspettative in atto non solo per il CEO ma anche per altri
leader aziendali: il chief financial officer, il chief information officer, il responsabile
risorse umane e il chief marketing officer. A quanto ci consta, i ricercatori non
avevano mai analizzato prima d'ora una raccolta così esauriente di job description
per questi profili di vertice. (Per maggiori dettagli su come abbiamo elaborato i dati, si
veda il box "La ricerca").
Il nostro studio ha prodotto numerose indicazioni. La principale è questa: negli ultimi
due decenni le aziende hanno ridefinito significativamente i ruoli di vertice. Le
capacità tradizionali citate in precedenza - in primis la gestione di risorse finanziarie
e operative - rimangono preziose. Ma quando cercano dei top manager, in
particolare nuovi CEO, oggi le imprese attribuiscono meno importanza di prima a
quelle capacità, e danno invece la priorità assoluta a un altro requisito: un forte
orientamento alle abilità sociali. (Si veda il box: "Cercansi CEO che sappiano trattare
con le persone").
Quando parliamo di "abilità sociali" facciamo riferimento a certe abilità specifiche, tra
cui un elevato livello di autoconsapevolezza, la capacità di ascoltare e di comunicare
bene, la disponibilità a lavorare con diversi tipi di persone e di gruppi, e quella che gli
psicologi chiamano "teoria della mente" - ossia la capacità di intuire ciò che pensano
e provano gli altri. L'ampiezza del cambiamento intervenuto in questi ultimi anni in
direzione delle predette capacità è particolarmente significativa per i CEO, ma molto
pronunciata anche per gli altri quattro ruoli di vertice che abbiamo studiato.
La nostra analisi ha rivelato che le abilità sociali sono particolarmente importanti
dove la produttività dipende da una comunicazione efficace, come avviene
invariabilmente nelle grandi imprese complesse e ad alta intensità di competenze
che impiegano abitualmente società di executive search. In queste organizzazioni, i
CEO e gli altri senior leader non possono limitarsi a svolgere compiti operativi di
routine. Devono anche dedicare una quantità significativa di tempo a interagire con
altri e a promuovere il coordinamento - comunicando informazioni, facilitando lo
scambio di idee, costruendo un team di supervisione, e identificando e risolvendo
problemi.
Curiosamente, l'evoluzione del fabbisogno di competenze nella stanza dei bottoni
rispecchia gli sviluppi intervenuti complessivamente nella forza lavoro. Oggi, a tutti i
livelli della struttura organizzativa, sempre più mansioni richiedono abilità sociali
sofisticate. David Deming di Harvard, tra gli altri, ha dimostrato che queste posizioni
sono cresciute più rapidamente del mercato del lavoro nel suo complesso - e che
vengono pagate più della media.
Come si spiega questo cambiamento in direzione delle abilità sociali? E quali
implicazioni ha per lo sviluppo dei dirigenti, per il succession planning dei CEO, e per
l'organizzazione della C-Suite? In questo articolo offriamo delle considerazioni
preliminari.

LA RAGIONE PRINCIPALE DEL CAMBIAMENTO


Noi abbiamo identificato due driver principali della domanda crescente di abilità
sociali.
Dimensioni e complessità dell'azienda. La focalizzazione sulle competenze
sociali è particolarmente evidente nelle grandi imprese. Inoltre, tra aziende di
dimensioni analoghe, la domanda di abilità sociali è maggiore nelle multinazionali
quotate in borsa e in quelle impegnate in fusioni e acquisizioni. Questi pattern sono
coerenti con l'idea che, nelle organizzazioni più grandi e più complesse, i top
manager siano chiamati sempre più a coordinare conoscenze eterogenee e
specialistiche, ad abbinare i problemi dell'organizzazione a persone in grado di
risolverli e a orchestrare efficacemente la comunicazione interna. Per tutti questi
compiti, è fondamentale saper interagire bene con gli altri.
Ma l'importanza delle abilità sociali nelle grandi imprese non deriva solo dalla
complessità delle operations. Riflette anche la rete di relazioni critiche che i leader di
queste imprese devono coltivare e mantenere con referenti esterni.
L'eterogeneità e il numero di quelle relazioni possono essere sconfortanti. I dirigenti
di aziende quotate in borsa devono preoccuparsi non solo dei mercati dei prodotti,
ma anche dei mercati dei capitali. Devono informare analisti, corteggiare asset
manager e confrontarsi con la stampa economica. Devono rispondere a vari tipi di
regolatori, in più giurisdizioni. Si chiede loro di comunicare bene con clienti e
fornitori-chiave. Nelle fusioni e nelle acquisizioni, devono interagire oculatamente
con persone ed entità importanti per la conclusione dell'operazione e per
l'integrazione post-merger. Delle abilità sociali altamente sviluppate sono critiche per
il successo in tutte queste aree.
Tecnologie di processazione delle informazioni. "Più automatizziamo la gestione
delle informazioni", scriveva il grande esperto di management Peter Drucker vari
decenni or sono, "più dovremo creare opportunità di comunicazione efficace". La sua
era prescienza: le aziende che oggi dipendono significativamente da tecnologie di
processazione delle informazioni tendono anche ad aver bisogno di leader in
possesso di abilità sociali particolarmente spiccate.
Ecco perché. Quando le aziende automatizzano compiti di routine, la loro
competitività dipende sempre più, a tutti i livelli dell'organizzazione, da capacità che i
sistemi informatici non possiedono - aspetti come il giudizio discrezionale, la
creatività e la percezione. Nelle imprese ad alta intensità di tecnologia, dove
l'automazione è largamente diffusa, i leader devono allineare una forza lavoro
altamente diversificata, rispondere a eventi inattesi e gestire il conflitto nel processo
decisionale, tutte cose che vengono fatte al meglio da manager in possesso di
competenze sociali evolute.
Inoltre, oggi quasi tutte le aziende impiegano molte delle stesse piattaforme
tecnologiche - Amazon Web Services, Facebook, Google, Microsoft, Salesforce,
Workday. Vuol dire che hanno meno opportunità di differenziarsi unicamente in base
a investimenti tecnologici tangibili. Quando tutti i principali attori di un mercato
sfruttano lo stesso pacchetto di strumenti, i leader devono distinguersi attraverso
una gestione superiore delle persone che li utilizzano. Devono essere perciò ottimi
comunicatori sotto tutti gli aspetti, in grado sia di sviluppare i messaggi giusti sia di
trasmetterli con empatia.
Insomma, poiché un maggior numero di compiti verranno affidati alla tecnologia,
serviranno a tutti i livelli operatori dotati di abilità sociali elevate, che saranno
particolarmente appetiti sul mercato del lavoro.

ALTRI FATTORI
La nostra ricerca indica che il sempre maggior interesse per le competenze sociali
viene stimolato da altri due driver, che sono più difficili da quantificare ma possono
avere anch'essi un ruolo importante nel cambiamento in atto.
Social media e tecnologie di networking. In passato, i CEO non erano oggetto di
una particolare attenzione e non cercavano la luce dei riflettori. Mentre altri manager,
investitori e giornalisti si occupavano di loro, il grande pubblico li ignorava quasi
sempre, tranne nei casi di "celebrità" come Jack Welch di GE, Akio Morita di Sony e
Lee Iacocca di Chrysler.
Quell'era è finita. Poiché le aziende stanno abbandonando il vecchio primato degli
azionisti per focalizzarsi più ampiamente sul capitalismo degli stakeholder, i CEO e
altri senior leader sono destinati a finire sempre più nel mirino dell'opinione pubblica.
Sono obbligati non solo a interagire con una gamma sempre più vasta di referenti
interni ed esterni, ma anche a farlo personalmente, in modo trasparente e
responsabile. Non possono più affidarsi a funzioni di supporto - il team della
comunicazione, l'ufficio relazioni pubbliche e così via - per gestire tutti quei contatti.
Per giunta, i top manager devono gestire le interazioni in tempo reale, grazie alla
sempre maggiore prevalenza sia dei social media (che sono in grado di cogliere e
pubblicizzare passi falsi pressoché istantaneamente) sia di network come Slack e
Glassdoor (che permettono ai dipendenti di diffondere ampiamente informazioni e
opinioni sui loro colleghi e sui loro capi).
In passato, inoltre, gli executive dovevano essere in grado di spiegare e difendere
tutto quanto, dalle loro strategie di business alle loro pratiche di gestione delle
risorse umane. Ma lo facevano in un ambiente controllato, quando e dove faceva
comodo a loro. Oggi devono sapere costantemente come le loro decisioni vengono
percepite dai pubblici di riferimento. La mancata realizzazione delle loro finalità,
anche solo con un gruppo ristretto di dipendenti o di altri stakeholder, può essere
dannosa.
Dunque, le abilità sociali contano moltissimo. Gli inquilini della stanza dei bottoni
devono saper comunicare spontaneamente e prevedere quale sarà l'impatto delle
loro parole e delle loro azioni al di là del contesto immediato.
Diversity e inclusione. Un'altra nuova sfida che si pone ai CEO e ad altri senior
leader è la necessità di confrontarsi con i temi della diversity e dell'inclusione -
pubblicamente, empaticamente e proattivamente. Occorrono anche qui competenze
sociali elevate, in particolare la teoria della mente. Gli executive che possiedono
questa capacità di percepire la condizione psicologica degli altri possono muoversi
più agevolmente tra vari gruppi di dipendenti, farli sentire ascoltati e rappresentare i
loro interessi all'interno dell'organizzazione, in consiglio di amministrazione e con dei
referenti esterni. Ma soprattutto, possono promuovere un ambiente in cui
prosperano talenti eterogenei.

NUOVE AREE DI FOCALIZZAZIONE


Alla luce del ruolo critico che ricoprono oggi le abilità sociali nel successo dei gruppi
dirigenti, le aziende dovranno focalizzarsi sulle seguenti aree quando assumono e
sviluppano nuovi leader.
Costruire sistematicamente abilità sociali. I board e i senior executive hanno
sempre coltivato i futuri leader facendoli ruotare tra reparti e funzioni d'importanza
critica, affidando loro incarichi in varie sedi geografiche e investendo nella loro
formazione teorica. Si assumeva che il modo migliore per preparare dei manager
promettenti a un futuro nella stanza dei bottoni fosse metterli in condizione di
crescere in diversi ruoli amministrativi e operativi.
Con questo modello, valutare il successo e l’insuccesso era ragionevolmente
semplice. I processi erano o non erano efficienti; i risultati arrivavano o non
arrivavano. Le abilità sociali contavano, naturalmente: man mano che gli astri
nascenti passavano da una funzione all'altra e da una location all'altra, la capacità di
creare rapidamente rapporti costruttivi con colleghi, clienti, regolatori e fornitori
incideva sensibilmente sulla loro performance. Ma queste competenze si
consideravano un "di più". Erano un mezzo per raggiungere obiettivi operativi (un
requisito per la promozione) e non venivano valutate quasi mai in un modo esplicito,
sistematico e obiettivo.
Oggi le imprese apprezzano maggiormente l'importanza delle abilità sociali nella
performance degli executive, ma hanno fatto pochi passi avanti nello sviluppo di
processi per valutare l'efficacia di un candidato da questo punto di vista e per
determinare la sua attitudine a una crescita ulteriore. Poche aziende investono nella
formazione specifica di coloro che poi dovranno selezionare i candidati a ruoli di
vertice - men che meno quella dei senior executive o dei consiglieri di
amministrazione indipendenti, che si presume abbiano già il background e la
sensibilità necessari per fare le scelte giuste.
È complicato anche procurarsi delle referenze: a questo livello, le aziende fanno
quasi sempre le ricerche in un clima di grande riservatezza, sia per proteggere se
stesse (una fuga di notizie potrebbe costare loro la perdita del candidato migliore) sia
per proteggere i candidati stessi (che di solito non vogliono far sapere ai loro datori di
lavoro che sono interessati ad altre offerte). Inoltre, coloro che effettuano le
interviste a questi livelli e coloro che forniscono referenze tendono a far parte dello
stesso network, piccolo e omogeneo, a cui appartengono quasi tutti i candidati, il
che aumenta significativamente il rischio di pregiudizi nel processo decisionale. Per
esempio, i membri del consiglio di amministrazione tendono a sostenere i candidati
che sono stati segnalati da amici o che hanno un background simile al loro.
Potrebbero assumere erroneamente che quelle persone possiedano competenze
sociali generalmente applicabili per il solo fatto che si sono comportati
disinvoltamente nei colloqui di selezione.
Per valutare meglio le abilità sociali, oggi alcune aziende fanno test psicometrici o
simulazioni. I test psicometrici (che sono progettati per misurare tratti di personalità
e stile comportamentale) possono aiutare a stabilire se una persona è estroversa e a
suo agio con gli sconosciuti, ma non dicono quanto sarà efficace nell'interazione con
vari gruppi sociali. Gli esercizi di simulazione, da parte loro, vengono usati da un po'
di tempo per capire come rispondono gli individui a situazioni sfidanti, ma sono
progettati quasi sempre intorno a uno scenario specifico, come una crisi legata
all'integrità del prodotto o l'arrivo sulla scena di un investitore attivista. Le
simulazioni vanno benissimo per misurare le competenze amministrative e tecniche
dei candidati in situazioni di questo tipo, più che la loro capacità di coordinare team o
di interagire spontaneamente con referenti diversificati. Ciò nonostante, questi
esercizi non vengono usati più di tanto, perché per gestire bene ci vogliono tempo e
denaro.
Oggi, nei loro programmi di executive development, le imprese hanno bisogno di un
approccio sistematico alla costruzione e alla valutazione delle abilità sociali. Forse
dovranno addirittura anteporle alle competenze "hard" preferite attualmente dai
manager, perché sono molto più facili da misurare. Le aziende dovrebbero mettere i
leader ad alto potenziale in posizioni che li obblighino a interagire con vari segmenti
della popolazione aziendale e con vari referenti esterni, per poi monitorarne
attentamente la performance in questi ruoli.
Valutare in modo innovativo le abilità sociali. I criteri tradizionalmente usati per
selezionare i candidati a posizioni di vertice - come la storia lavorativa, le
qualificazioni tecnico-professionali e il percorso di carriera - sono scarsamente utili
nella valutazione delle competenze sociali. Le aziende dovranno creare nuovi
strumenti se vogliono avere una base obiettiva per valutare e confrontare le abilità
delle persone in quest’ambito. Possono agire indipendentemente o in collaborazione
con le aziende di servizi professionali che le supportano, ma in entrambi i casi
dovranno progettare soluzioni ad hoc per soddisfare i loro bisogni specifici.
Anche se si devono ancora sviluppare strumenti appropriati per le ricerche ai livelli
più alti della struttura organizzativa, un’innovazione considerevole è già in atto per
accertare le competenze dei candidati di più basso livello, in modo da collocarli nelle
posizioni giuste. Aziende come Eightfold e Gloat, per esempio, usano già
l'intelligenza artificiale per migliorare l'abbinamento tra candidati e datori di lavoro. Si
usano nuovi strumenti customizzati anche per identificare adiacenze tra le skill e
creare mercati interni del talento, aiutando così le imprese ad assegnare più
rapidamente persone qualificate a compiti importanti. Gli algoritmi sottostanti si
basano su enormi data set, il che pone una sfida tecnologica, ma questo approccio
sembra promettente per la selezione degli executive.
Analogamente, Pymetrics, come diverse altre società, sta analizzando i migliori studi
comportamentali per stabilire l'adattabilità di determinati candidati a
un'organizzazione o a una posizione specifica. Un approccio di questo tipo si è
dimostrato utile nella valutazione di un'ampia gamma di competenze soft e nella
riduzione dei pregiudizi nella selezione. Ricerche accademiche recenti confermano
l'utilità degli studi comportamentali. Ben Weidman e David Deming di Harvard, per
esempio, hanno scoperto che il Reading the Mind in the Eye Test, un indicatore
consolidato di intelligenza sociale, può predire efficacemente la performance degli
individui all'interno dei team. Se le aziende sviluppano nuovi test basati sugli stessi
principi di progettazione, loro e i rispettivi consigli di amministrazione dovrebbero
essere in grado di ottenere una comprensione più completa e più oggettiva delle
abilità sociali dei candidati alle posizioni di vertice.
Enfatizzare lo sviluppo di abilità sociali a tutti i livelli. Le aziende che si
rivolgono all’esterno per trovare executive in possesso di abilità sociali superiori
rischiano parecchio. Da una parte, la competizione per queste persone diventerà
sempre più intensa. Dall'altra, è intrinsecamente rischioso mettere un esterno - per
quanto accuratamente selezionato - in una posizione senior. Le imprese trarranno
pertanto beneficio da un approccio di "crescita interna" che consenta alle stelle
nascenti di affinare e dimostrare tutta una serie di capacità interpersonali.
Valutare le competenze sociali collettive del gruppo dirigente. Consigli di
amministrazione e top manager dovranno sviluppare e valutare sempre di più le
abilità sociali, non solo dei singoli leader ma anche dell'intero comitato direttivo. La
debolezza o l'inettitudine di un solo componente del team avrà un effetto sistemico
su tutto il gruppo - e in particolare sul CEO. Le imprese dovrebbero rendersi conto
che le competenze sociali stanno crescendo d'importanza relativa nei criteri di
selezione per tutte e cinque le posizioni che abbiamo studiato. Inoltre, poiché i CEO
continuano ad avere un ruolo primario nella gestione degli stakeholder e del
personale, le responsabilità all'interno della C-Suite si potrebbero modificare, per cui
anche altri executive avranno bisogno di competenze sociali.

LA VIA DA INTRAPRENDERE
Come abbiamo visto, le aziende valutano ancora i senior leader sulla base di
competenze amministrative e operative tradizionali. Ma sono sempre più alla ricerca
di persone in possesso di competenze sociali sofisticate - specie se si tratta di
organizzazioni grandi, complesse e ad alta intensità di tecnologia.
Ma riusciranno davvero a cambiare le loro politiche di selezione? È una domanda
ancora aperta. La risposta dipenderà almeno in parte dalla capacità di imparare a
valutare efficacemente le abilità sociali dei candidati e dalla decisione di fare dello
sviluppo di queste competenze una componente essenziale delle loro strategie di
talent-management.
A nostro avviso, le imprese dovranno fare entrambe le cose per restare competitive.
A questo scopo, dovrebbero invitare business school e altre istituzioni educative a
mettere più enfasi sulle abilità sociali nei corsi MBA e nei programmi di executive
development, e dovrebbero chiedere alle società di executive search e ad altri
intermediari di mettere a punto meccanismi innovativi per l'identificazione e la
valutazione dei candidati. Ma dovranno agire diversamente anche loro. Nella
selezione e nella valutazione dei candidati esterni, dovranno dare la priorità alle
abilità sociali. Lo stesso discorso vale per la misurazione della performance dei
dirigenti in essere e per la fissazione dei loro pacchetti retributivi. Dovrebbero anche
fare delle abilità sociali un criterio decisivo per gli avanzamenti di carriera, e invitare i
capi a promuoverle nei collaboratori ad alto potenziale.
Negli anni a venire, alcune aziende potrebbero concentrarsi sul tentativo di
identificare e assumere leader "con le carte in regola"; altre potrebbero dedicare più
attenzione alla formazione e alla retention dei senior manager. Ma quale che sia
l'approccio che adotteranno, è chiaro che per avere successo in un ambiente di
business sempre più complesso, dovranno ripensare profondamente le loro pratiche
attuali.

Raffaella Sadun insegna Business Administration nella Strategy Unit della Harvard
Business School. Joseph Fuller è professore di Management Practice alla Harvard
Business-School e condirettore del suo progetto Managing the Future of Work.
Stephen Hansen è Professore associato di Economia alla Imperial College Business
School. PJ Neal è Global head of knowledge and operations per il Board & CEO
Advisory Group di Russell Reynolds Associates.

È ora di nominare dei co-CEO?


È una soluzione più praticabile di quanto non potreste immaginare.
Marc A. Feigen, Michael Jenkins, Anton Warendh
Per lungo tempo, l’opinione prevalente ha ritenuto opportuno affidare la guida delle
imprese a un solo leader forte. Nel corso degli anni, varie aziende hanno nominato
dei co-CEO, ma sono ancora casi sporadici. Delle 2.200 che componevano le
classifiche S&P 1200 e Russell 1000 tra il 1996 il 2020, meno di 100 erano guidate da
co-CEO. Inoltre, in quel periodo, specie nelle fasi di stress, alcune aziende guidate da
due leader - tra cui Chipotle Mexican Grill, la società di software SAP e il pioniere
della telefonia mobile Research in Motion (che nel 2013 è stato ridenominato
BlackBerry) - hanno fatto particolarmente male.
Molti osservatori non lo trovano sorprendente. Mettere al vertice due decision maker,
dice la teoria, crea pressoché invariabilmente problemi, sotto forma di conflitti,
confusione, incoerenza, indecisione e ritardi. Marvin Bower, uno dei fondatori di
McKinsey, invitò espressamente Goldman Sachs a non avere co-CEO. «La
condivisione del potere», disse, «non funziona mai».
Invece funziona spesso.
Abbiamo esaminato recentemente la performance di 87 aziende quotate in borsa i
cui leader venivano identificati espressamente come co-CEO. E abbiamo scoperto
che quelle aziende tendevano a creare più valore per gli azionisti delle altre. Mentre
erano in carica, i co-CEO generavano un ritorno medio per gli azionisti del 9,5% -
nettamente superiore alla media generale del 6,9%. Questo risultato eccezionale non
dipendeva da alcuni high-flier: quasi il 60% delle aziende guidate da co-CEO
facevano meglio delle altre. E la "durata" dei CEO non era più breve - era più o meno
la stessa del CEO unico - circa cinque anni in media.
Non stiamo dicendo che tutte le organizzazioni dovrebbero adottare
immediatamente la soluzione del doppio CEO. Avendo a disposizione così pochi dati
(meno di 100 aziende in 25 anni non sono molte), dobbiamo essere cauti. Per le
aziende che operano in settori relativamente stabili, avere un solo CEO potrebbe
ancora essere l'opzione migliore. Ma oggi gestire un'azienda è diventato un lavoro
così complesso e articolato, e la gamma delle responsabilità è diventata così ampia,
che il modello dei co-CEO merita una valutazione fredda e imparziale. Ciò vale in
particolare per le aziende che stanno passando decisamente al management agile e
per quelle che sono impegnate in trasformazioni tecnologiche. «Amo questo
modello», dice Jeff Horing, un managing director della società di private equity
Insight Partners, che supervisiona un portafoglio di oltre 350 aziende tecnologiche.
Nelle circostanze giuste, quello che possono fare i co-CEO è davvero straordinario.
Possono apportare competenze, esperienze e prospettive profonde e diversificate.
Possono essere - letteralmente - in due posti nello stesso momento. Possono
formare una partnership che massimizza il contributo dell'emisfero destro e
dell'emisfero sinistro. Un CEO può concentrarsi sulla trasformazione tecnologica
mentre l'altro segue aspetti più tradizionali del business. come il marketing, la finanza
e le operations. Uno può guardare all'interno e l'altro all'esterno. Insieme possono
governare al meglio le funzioni sempre più complesse che devono gestire oggigiorno
i CEO, incluse le relazioni con gli investitori, le HR e il rispetto delle norme fissate dai
regolatori. Se uno dei due se ne va, l'altro può assicurare una transizione agevole. E i
co-CEO raddoppiano la possibilità di diversificare la C-suite.
Inoltre, due CEO possono anche tenersi reciprocamente coi piedi per terra. Come
spiega Chip Kaye, oggi CEO unico (e prima co-CEO per 17 anni) di Warburg-Pincus, la
condivisione del potere aiuta i leader «a tenere a freno i loro ego».
Ma quali sono le condizioni per una partnership efficace?
Per rispondere a questa domanda, abbiamo studiato tutto ciò che potevamo su
come ha funzionato - o non ha funzionato - la co-leadership dei CEO in dieci
aziende che hanno sperimentato il modello negli ultimi decenni: Chipotle, Goldman
Sachs, Harris Poll, Jefferies Financial Group, Oracle, PIMCO, Research in
Motion/BlackBerry, SAP, Unilever e Warburg Pincus. Il nostro lavoro ci ha portati a
concludere che nove condizioni possono facilitare il successo dei co-CEO.
Notate che non tutte le organizzazioni che abbiamo studiato approfonditamente
attribuivano effettivamente ai loro top leader il titolo di "co-CEO". In realtà, nel mondo
delle imprese, la compresenza di due numeri uno è molto più comune del titolo -
molte aziende sono gestite di fatto da co-CEO, anche se non si chiamano così. Per
esempio, il Jefferies Financial Group è guidato contestualmente da 20 anni da un
presidente e da un CEO. «Pur avendo due titoli diversi», dice Brian Friedman, il
presidente, «lavoriamo insieme come partner dello stesso livello».
Ecco quali sono i fattori critici per il successo.

1. Buona disposizione dei partecipanti


Sembra ovvio, ma è fondamentale. I co-CEO devono accettare seriamente l'idea di
una partnership. Secondo Eric Schwartz, che è stato due volte co-CEO in Goldman-
Sachs (prima per la divisione Global Equities e poi per la divisione Investment
Management), «la formula dei due CEO funziona solo se dicono entrambi: "Mi sta
benissimo. Avrò più tempo, e una prospettiva più diversificata. Sono disposto ad
accettare il compromesso e a comunicare maggiormente perché due teste
ragionano meglio di una sola"».
Il modello fallisce quando, come spiega Horing di Insight Partners, «uno dei due
vuole fare tutto». È quello che è accaduto in Carlyle Group, un fondo globale di
private equity, in cui l'ex co-CEO Kewsong Lee è durato più del suo omologo, Glenn
Youngkin. «Erano due tipi molto diversi», ha detto un ex dirigente di Carlyle al
Financial Times. «Era come cercare di mischiare acqua e olio».

2. Competenze complementari
Quando pensano alla successione del CEO, oggi i board si trovano spesso di fronte a
una scelta imbarazzante tra due leader di talento che hanno aree di expertise molto
diverse - e sono entrambe necessarie al top dell'azienda. Come ci ha detto un
direttore delle risorse umane a proposito di due candidati alla posizione di CEO in
un'azienda della classifica Fortune 100, «Vorrei poterli fondere».
I co-CEO possono rappresentare una soluzione per questo dilemma frequente. In
Harris Poll, per esempio, John Gerzema e Will Johnson dicono che, condividendo il
ruolo di vertice, possono «dividere e imperare». Johnson dirige la funzione HR e le
business unit, mentre Gerzema è responsabile dello sviluppo commerciale,
dell'assistenza ai clienti e dell'innovazione. Ognuno può fare leva sui suoi punti di
forza. In Warburg Pincus - che è stata gestita congiuntamente per due decenni da
Lionel Pincus e John Vogelstein - Pincus raccoglieva i fondi e Vogelstein li investiva.
Più specifiche sono le competenze di ogni co-CEO, meglio è. Quando si
sovrappongono, il conflitto diventa più probabile.

3. Responsabilità precise e diritti decisionali chiari


Occorre anche creare aree separate di controllo, responsabilità e decisione. «La
chiave del successo», dice Bill Janeway, un ex vice president di Warburg Pincus, è
creare «ambiti complementari di competenza specifica». Questa filosofia ha guidato
Manny Roman, CEO di PIMCO, nella sua partnership con Dan Ivascyn, il chief
investment officer dell'azienda, che è un co-CEO in tutto e per tutto tranne che nel
titolo.
Oggi Roman supervisiona il marketing, le vendite e le operations, mentre Ivascyn
dirige gli investimenti. Nessuno dei due invade il terreno dell'altro. Un co-CEO di
un'altra azienda ha descritto la relazione operativa con il suo omologo in questi
termini: «Il più delle volte sappiamo già cosa compete a me e cosa compete a lui.
Quando non lo sappiamo, ci mettiamo a tavolino e decidiamo chi deve fare cosa,
oppure affrontiamo insieme il problema e cerchiamo di risolverlo di comune
accordo».

4. Meccanismi di risoluzione del conflitto


Quando sono in disaccordo, quasi tutti i CEO si limitano a chiudere la porta e a
discutere a fondo la questione. «Anche se eravamo ai ferri corti», spiega Schwartz
rievocando i suoi trascorsi in Goldman Sachs, «continuavamo a comunicare
apertamente. Ci sedevamo intorno a un tavolo e ne parlavamo, cercavamo di arrivare
a un accordo e, se non lo trovavamo, ci rispettavamo abbastanza da lasciare la
decisione finale al più coinvolto dei due».
Altri co-CEO hanno usato membri del board o facilitatori esterni per far emergere il
conflitto e superarlo. In Oracle e in SAP il modello dei co-CEO era supportato da un
presidente esecutivo energico in grado di ricomporre i dissensi e creare
focalizzazione. Per funzionare, i co-CEO devono concordare preventivamente un
approccio alla risoluzione del conflitto.

5. Unità apparente
Anche quando hanno opinioni divergenti, i co-CEO devono parlare ai dipendenti con
una voce sola, perché il dissenso tra pari può creare confusione e indecisione in
tutta l'organizzazione. «Sono persone intelligenti», ci ha detto Ivascyn di PIMCO.
«Fanno in fretta a mettere in discussione l'autorità». Se i co-CEO entrano in conflitto
davanti al loro team, è importante che poi si ripresentino con una soluzione
condivisa. Quando si è trovata in gravi difficoltà e i suoi co-CEo non riuscivano a
mettersi d'accordo sulla direzione da intraprendere, Research in Motion ha avuto un
tracollo (anche se poi si è ripresa dopo aver cambiato leadership, strategia e nome).
In Jefferies, il team di vertice riporta a entrambi i leader. «Parlare con uno di noi
due», dice Friedman, «è come parlare con tutti e due».

6. Responsabilità pienamente condivisa


Entrambi i co-CEO devono rispondere della performance complessiva. Dovrebbero
firmare ambedue il rapporto finanziario trimestrale e dovrebbero percepire la stessa
retribuzione. In un'azienda che abbiamo studiato, i co-CEO pretendevano di essere
pagati esattamente nella stessa misura, «al centesimo», come ci ha detto uno di
loro.

7. Supporto del board


I co-CEO hanno bisogno di un appoggio continuo, e non intrusivo, da parte del
board. I consiglieri indipendenti dovrebbero effettuare una verifica annuale con
ognuno dei due per essere sicuri che non ci siano tensioni latenti, ma il board non
dovrebbe intromettersi. È normale che un membro del consiglio di amministrazione
voglia prendere in disparte l'uno o l'altro e domandargli sottovoce: "Come sta
andando?" Ma può rivelarsi un comportamento divisivo. Inoltre, i board dovrebbero
evitare di trasformarsi in corti d’appello a cui si può rivolgere un co-CEO o l'altro tutte
le volte che insorge un conflitto. I dissensi andrebbero portati al consiglio di
amministrazione solo se i due CEO lo decidono assieme.

8. Valori condivisi
I co-CEO falliscono quando hanno valori diversi. Per avere successo, devono
sviluppare una relazione fondata sulla trasparenza, sul rispetto, sulla fiducia e sul
compromesso.

9. Strategia di uscita
Il modello dei co-CEO può essere difficile da abbandonare, perciò è essenziale
definire un approccio chiaro al cambiamento di rotta. In Warburg Pincus, la
bipartizione del ruolo di CEO ha funzionato per anni, ma quando è venuto il momento
di tornare a un solo "comandante in capo", l'azienda non aveva un piano d'azione
adeguato. Un'opzione da considerare è consentire ufficialmente a qualunque co-CEO
di dire "basta" e di lasciare l'incarico senza polemiche, nel rispetto di un piano
concordato in precedenza.
Alcune aziende hanno trovato comodo usare alternativamente i due modelli.
Workday, per esempio, ha avuto dei co-CEO dal 2009 al 2014, poi è passata al CEO
unico e nel 2020 ha annunciato il ritorno al modello duale.

Molti diffidano del doppio CEO per via di alcuni precedenti infausti. Ma un fiasco
occasionale non implica affatto l'inefficacia strutturale di questo modello di
leadership. Del resto, nemmeno avere un solo CEO è garanzia di successo.
Visto il ritmo del cambiamento e della disruption, possiamo aspettarci che sempre
più aziende tentino di insediare dei co-CEO - e speriamo che le nostre indicazioni le
aiutino ad avere successo. Le organizzazioni agili sono particolarmente brave a
gestire l'ambiguità e la labilità dei confini, perciò potrebbero scoprire che per loro il
modello dei co-CEO è particolarmente facile da implementare e da mantenere nel
tempo. Questo approccio non andrà mai bene per tutti, ma se la vostra azienda si sta
lasciando alle spalle una leadership basata sul comando e sul controllo, mettere al
vertice due leader potrebbe avere molto senso. Non è un'idea nuova: i duumvirati
governarono l'antica Roma per quasi 500 anni. E alcuni executive apprezzano da
tempo i benefici della condivisione del potere. Come ha scritto John Withehead a
proposito della co-conduzione di Goldman Sachs con John Weinberg nei remoti anni
Settanta e Ottanta, "Due teste funzionavano meglio di una sola"

Marc A. Feigen è il fondatore di Feigen Advisors LLC, una società di consulenza che
assiste i CEO di grandi imprese globali. Michael Jenkins è un partner di Kearney,
società globale di consulenza manageriale, dove dirige le unità strategia e
trasformazione per le Americhe. Anton Warendh è il director of client service and
operations di Feigen Advisors LLC.

Quando dovete assumere dei CEO, concentratevi sul carattere


Il comportamento personale può indicare quali leader potrebbero smarrirsi

Aiyesha Dey

Il 19 dicembre 2018, Carlos Ghosn, il presidente di Nissan, è stato arrestato appena


sceso dal jet aziendale a Tokyo. Le autorità giapponesi lo accusavano di una serie di
reati finanziari che avrebbe commesso in Nissan, tra cui l'appropriazione indebita di
cinque milioni di dollari e la mancata dichiarazione di circa 80 milioni di dollari
percepiti nell'arco di otto anni.
Per Ghosn, che dopo essersi insediato al vertice di Nissan nel 1999 l'aveva salvata dal
fallimento, era un terribile smacco. Aveva la cittadinanza brasiliana, francese e
libanese, ma era diventato uno dei leader aziendali più rispettati del Giappone -
soprannominato "Mr. Fix-It" da un pubblico adorante, celebrato nei manga e insignito
da una medaglia dall'imperatore Akihito. Dopo il suo arresto, Ghosn ha dichiarato che
quelle accuse erano «infondate e indimostrate», inventate di sana pianta da nemici
interni alla Nissan. Ciò nonostante, invece di farsi processare, Ghosn ha ingaggiato
un ex commando che l'ha nascosto in una cassa di quelle usate dai musicisti per
trasportare gli altoparlanti e l'ha condotto con un jet privato in Libano, dove continua
la sua latitanza.
La vicenda di Ghosn ha scioccato il mondo. Chi avrebbe potuto immaginare un
epilogo così romanzesco? In realtà c'erano già degli indizi.
Nel 2014 e nel 2016, aveva dato sontuose feste di compleanno per sé e per la moglie
nella Reggia di Versailles, probabilmente coi soldi dell'azienda. Lui e la sua famiglia
possedevano uno yacht di 35 metri e case di lusso a Tokyo, Parigi, Rio de Janeiro,
Amsterdam, Beirut e New York. Aveva investito in aziende vinicole e in opere d'arte
contemporanea. E, pur avendo una retribuzione quattro volte maggiore di quella del
suo omologo di Toyota, durante il suo mandato in Nissan Ghosn si era sempre
definito "sottopagato".
Questi comportamenti - spese folli, focalizzazione sui propri guadagni e un evidente
disprezzo delle politiche aziendali - dovrebbero essere segnali d’allarme per i board.
In una serie di studi effettuati nel decennio scorso, i miei colleghi e io abbiamo
cercato di identificare dei comportamenti extralavorativi che predicono la
propensione di un executive alle violazioni dell'etica. Abbiamo individuato così due
caratteristiche - materialismo e inclinazione a violare le regole - che si correlano a un
trading sospetto, a errori nel reporting finanziario e all'assunzione di rischi eccessivi.
Abbiamo stabilito anche modalità innovative per identificare executive che
esibiscono tali comportamenti.
Esaminare la vita personale dei CEO è un metodo poco ortodosso per prevenire le
frodi. Quando board, regolatori e investitori studiano la maniera di limitare i
comportamenti antietici, l'enfasi tende a stare su aspetti sistemici, come leggi e
regolamenti, grandi uffici legali abbondantemente finanziati, rafforzamento della
supervisione e meccanismi di reporting come le linee telefoniche riservate ai
whistleblower. Quell'approccio standard è in linea con la teoria economica, in base
alla quale gli individui sarebbero esseri razionali che rispondono tutti nello stesso
modo a incentivi e regole.
Le mie ricerche suggeriscono l'utilizzo di una tattica diversa: assumere che le
personalità dei leader abbiano un ruolo significativo nel modo in cui si comportano e
che le loro azioni private possano incidere sul comportamento organizzativo. Se è
vero, allora, soprattutto quando devono assumere dei CEO, i board dovrebbero
prendere in considerazione il carattere di una persona, specie se mostra segni di
materialismo o di costante violazione delle regole. Ignorare questi segnali e nominare
un leader la cui vita al di fuori dell'ufficio crea fondati motivi di allarme può mettere
inutilmente a rischio un'azienda.
In questo articolo, spiego anzitutto l'evoluzione delle mie ricerche e le scoperte
specifiche che hanno prodotto. Poi illustro le implicazioni pratiche per i regolatori e
per i board aziendali che devono selezionare e scegliere i top executive.

ANALIZZARE IL COMPORTAMENTO PERSONALE


Le radici di queste ricerche risalgono a 20 anni fa. Nei primi anni Duemila, quando
sono esplosi gli scandali che hanno infangato aziende come Enron, WorldCom e
Tyco, frequentavo la scuola di specializzazione. Poco dopo, il Congresso degli Stati
Uniti ha reagito approvando il Sarbanes-Oxley Act, che rafforzava la supervisione
esercitata sulle imprese da regolatori e board. Ma a distanza di pochi anni c'è stata
una nuova ondata di scandali - in Wells Fargo, Countrywide e altre aziende. Le
imprese investivano risorse in controlli interni e i regolatori si affidavano a nuove
leggi per rafforzare ulteriormente la supervisione, ma nessuna delle due azioni
sembrava eliminare gli illeciti. Allora ho cominciato a chiedermi se invece di
concentrarci sui sistemi e sui controlli, non dovevamo studiare più attentamente i
leader delle aziende "incriminate".
Man mano che si succedevano quegli eventi, gli studiosi iniziavano a dedicare più
attenzione al modo in cui i singoli manager possono influenzare la performance di
un'azienda. Questa prospettiva ha preso slancio dopo la pubblicazione, nel 2003,
dello studio di Marianne Bertrand e Antoinette Schoar in cui si affermava che gli
executive hanno stili personali che incidono su decisioni critiche e sulla performance
aziendale, e che quegli stili perdurano anche quando le persone passano da
un'azienda all'altra. Altri ricercatori hanno iniziato a esaminare la propensione al
rischio e il comportamento narcisistico dei CEO, e i loro effetti sul processo
decisionale e sulla performance dell'azienda.
In questo contesto, ho deciso di esplorare insieme a due colleghi, Robert Davidson e
Abbie Smith, gli stili di vita dei CEO alla testa di aziende coinvolte negli scandali.
Abbiamo scoperto così che dei consumi ostentati ed eccessivi potevano essere
correlati a comportamenti illeciti. Per esempio. il CEO di Tyco, Dennis Kozlowski,
aveva speso 6.000 dollari per una tenda da doccia e 15.000 per un portaombrelli da
mettere nel suo appartamento di New York; tempo dopo, è stato condannato per 22
reati e si è fatto sei anni e mezzo di carcere.
I miei colleghi e io abbiamo cominciato a esaminare anche la propensione delle
persone a seguire o a infrangere le regole. In uno studio del 2007, gli economisti Ray
Fisman ed Edward Miguel hanno scoperto che i funzionari del'ONU più multati a New
York per violazione dei divieti di sosta provenivano in larga maggioranza dai Paesi
che facevano registrare i massimi livelli di corruzione. Ci siamo allora chiesti se gli
executive inclini agli scandali fossero altrettanto inclini a commettere reati
bagatellari come la violazione delle norme sul traffico. Così ci siamo messi a
investigare sia gli illeciti sia le spese incontrollate dei CEO.
Violazione delle regole. I criminologi hanno scoperto che chi viola delle regole,
anche secondarie, comunica di non sentirsi vincolato da norme restrittive. Con
l'aiuto di alcuni investigatori privati, i miei colleghi e io abbiamo passato in rassegna i
precedenti penali di oltre 100 executive americani che operavano in vari settori.
Ebbene, il 18% dei CEO erano stati citati in giudizio per reati che andavano da piccole
violazioni delle norme sul traffico alla guida in strato di ebbrezza, al disturbo della
quiete pubblica, all'abuso di stupefacenti, alla guida pericolosa, alla violenza
domestica e alle molestie sessuali.
Abbiamo cercato di capire anzitutto se gli illeciti commessi da quei leader erano
legati in qualche modo ai risultati delle loro aziende. Siamo partiti dalle domande più
intuitive: le denunce di frodi sono più frequenti in un’azienda se il suo CEO ha
precedenti penali? Il CEO (o il CFO) tende maggiormente a essere implicato in una
frode se ha precedenti penali? Come ci si poteva aspettare, la risposta a entrambe le
domande era positiva. Confrontando due gruppi di aziende - quelle in cui c'erano
state delle frodi e quelle, comparabili alle prime, in cui non c'erano state - abbiamo
scoperto che se il CEO aveva dei precedenti penali, l'azienda aveva più del doppio
delle probabilità di essere coinvolta in frodi e il CEO aveva probabilità sette volte
maggiori di esserne autore. Inoltre, anche l'incidenza di infrazioni minori (come le
violazioni del codice della strada) commesse dal CEO era nettamente superiore nelle
aziende vittime di frodi, rispetto alle altre.
Pur essendo dei risultati intriganti, sapevamo che la frode è un evento piuttosto raro.
Avremmo osservato lo stesso andamento per una forma più diffusa di illecito
aziendale? Abbiamo perciò deciso di andare a vedere se gli executive già macchiatisi
di qualche reato avevano anche maggiori probabilità di fare insider trading -
operazioni non necessariamente illegali ma presumibilmente scorrette alla luce dei
risultati sproporzionati e della tempistica "perfetta". E abbiamo scoperto che gli
executive con precedenti penali (per reati sia gravi sia lievi) traevano profitti
nettamente superiori dall'acquisto e dalla vendita di azioni della propria azienda
rispetto a quelli che non ne avevano, e che la profittabilità di quelle operazioni
aumentava significativamente in base alla gravità dei precedenti stessi.
Poi siamo andati a vedere se certi meccanismi di governance aziendale - come le
blackout policy che vietano il trading azionario in determinati periodi, la trasparenza
dei grandi investitori istituzionali e l'indipendenza dei board - erano in grado di
scoraggiare l'insider trading. Abbiamo appurato che riducevano effettivamente i
profitti degli executive che prendevano multe per infrazioni stradali, ma incidevano
poco sugli executive che commettevano reati significativi. A quanto pare, dunque,
strutture di governance e sistemi formali di controllo non sono in grado di tenere a
freno i più incalliti. È una notizia scoraggiante per board e regolatori che vorrebbero
contenere l'insider trading opportunistico e limitare altri comportamenti
indesiderabili.
Materialismo. Eravamo ugualmente interessati allo studio dei CEO materialisti. Il
materialismo, nella nostra definizione, non è rappresentato necessariamente dal
numero dei beni posseduti, e nemmeno dal loro valore economico; consiste
piuttosto nel perseguimento costante della ricchezza e del lusso, quale che sia il
costo sociale da sostenere.
Identificare il materialismo nei CEO è complicato perché hanno quasi tutti dei
patrimoni ingenti. Ma un criterio efficace è stabilire se i beni che possiede un
determinato individuo sono eccessivi rispetto a quello di colleghi e vicini di casa.
Dopo un'attenta analisi, abbiamo scelto tre comportamenti acquisitivi - quelli per i
quali abbiamo potuto ottenere dei dati - come indicatori di materialismo: possedere
una casa privata di valore doppio rispetto alla mediana della zona; possedere una
macchina che costa più 75.000 dollari (all'epoca del nostro studio era il prezzo di un
veicolo di super lusso); e possedere una barca di oltre sette metri. Nel nostro
campione di CEO, il 58% aveva due o più di questi indicatori e rientrava nel novero
dei materialisti; per noi, l'altro 42% andava considerato parsimonioso.
Abbiamo cercato - e trovato - anzitutto un legame tra frodi e CEO materialisti. E
abbiamo notato un progressivo indebolimento dei sistemi di controllo nelle imprese
guidate da executive le cui spese personali erano eccessive. Abbiamo osservato, in
particolare, un maggior uso di incentivi azionari (che possono indurre i manager a
fuorviare i mercati dei capitali "gonfiando" la performance dichiarata), più nomine di
CFO materialisti, un monitoraggio meno intenso da parte del board e una maggiore
probabilità di punti deboli nei controlli interni. Tutte quelle condizioni creavano un
ambiente in cui era più probabile il reporting fraudolento - e abbiamo riscontrato più
frodi (da parte di executive diversi dal CEO) e più errori involontari di reporting.
Poi abbiamo concentrato la nostra attenzione sulle banche, il cui modello di business
facilita la misurazione di comportamenti orientati al rischio. Su un campione di circa
300 banche, abbiamo scoperto che quelle con dei CEO materialisti avevano sistemi
relativamente laschi di risk management, e quindi più possibilità di performance
negativa rispetto alle banche guidate da CEO frugali. Abbiamo scoperto, inoltre, che i
CEO materialisti contribuivano anche a un deterioramento della cultura aziendale
che ha indotto i dipendenti a sfruttare più aggressivamente le opportunità di insider
trading durante la crisi finanziaria del 2007-2009. Tuttavia, le imprese dirette da CEO
materialisti si associavano anche a ritorni più elevati rispetto a quelle che avevano al
vertice CEO frugali.
In un altro studio, siamo andati a vedere come incideva il materialismo dei top
executive sulla performance delle imprese in termini di responsabilità sociale (CSR).
Abbiamo scoperto che quelle guidate da CEO materialisti ricevevano un rating più
basso dalle agenzie specializzate rispetto a quelle guidate da CEO frugali (per via di
donazioni più misere, per esempio, o per la diffusione di sostanze inquinanti
nell'ambiente circostante). Le nostre scoperte sono in linea con quelle di altre
ricerche da cui risulta che i materialisti mostrano scarsa preoccupazione per il
benessere degli altri e per l'ambiente.

LE REAZIONI ALLE NOSTRE RICERCHE


Quando parlo di questo lavoro con dirigenti, consiglieri di amministrazione e
investitori, essi reagiscono generalmente con sorpresa. Alcuni si chiedono
inizialmente come possano dei ricercatori accademici ottenere informazioni sui
precedenti penali e sui beni personali dei CEO. (Io spiego loro che, negli Stati Uniti, gli
investigatori privati possono accedere legalmente a molti registri pubblici).
Nei membri del board e in altri soggetti coinvolti nel processo di successione al
vertice, le nostre scoperte promuovono spesso una riflessione sulla qualità della loro
due diligence. Anche se potrebbero ordinare delle verifiche sulle credenziali dei
candidati esterni (che includono a volte il controllo dei precedenti penali), non lo
fanno quasi mai per i candidati interni che aspirano a entrare nella stanza dei
bottoni. Come ha detto una persona con cui ho parlato, «Non guardiamo nemmeno
a questi aspetti. Non ci interessa cosa fanno fuori dal lavoro, e probabilmente
dovremmo interessarcene».
Altri ci dicono che le nostre ricerche concordano con ciò che hanno sentito o letto
su alcuni CEO particolarmente noti. Per esempio, si sa che Steve Jobs ignorava le
regole che gli davano fastidio: si rifiutava di esporre la targa sulla macchina, e nel
quartier generale di Apple parcheggiava regolarmente nei posti riservati ai disabili.
Anche se Job non è mai stato accusato di comportamenti illeciti, Apple è stata
coinvolta in uno scandalo legato alla retrodatazione delle sue stock option.
Un altro esempio riguarda la fondatrice di Theranos, Elizabeth Holmes, condannata
recentemente per aver defraudato gli investitori della sua azienda, poi fallita, che
avrebbe dovuto rivoluzionare gli esami del sangue riducendo al minimo i prelievi.
Durante il processo (quando viveva in una proprietà da 135 milioni di dollari), i
rappresentanti della pubblica accusa hanno ipotizzato che il desiderio di continuare
a vivere nel lusso fosse una delle motivazioni del suo comportamento criminale.
I regolatori hanno reagito alle nostre ricerche con vivo interesse. Nel 2016 ho
lavorato tutto l'anno presso la U.S. Securities and Exchange Commission, che mi
aveva ingaggiato anche per questi studi. La SEC è convinta che l'entità delle perdite
subite dagli investitori sia spesso legata alla mancata rilevazione degli illeciti; perciò,
ha tutto l'interesse a scoprire le frodi il più presto possibile. A questo scopo, spera di
migliorare nella capacità di predire quando potrebbero avvenire, anziché aspettare la
denuncia. Una parte di questo sforzo richiede l'uso della modellistica finanziaria per
identificare imprese i cui rapporti finanziari presentano analogie con casi precedenti
di frode. Aggiungere a questi segnali di pericolo un comportamento "sospetto" dei
leader o altri segnali di allarme esterni al lavoro è un'idea promettente, ma i regolatori
procedono con cautela per rispettare la privacy e per altre preoccupazioni di
carattere etico.
Intanto, le nostre ricerche vanno avanti. Nel 2021, due colleghi e io abbiamo
pubblicato un saggio sugli effetti degli incentivi per i whistleblower aziendali:
contrariamente alle affermazioni dei critici, le ricompense che alcuni Governi (tra cui
quello degli Stati Uniti) pagano ai whistleblower aiutano veramente a far emergere le
frodi, senza alcun apparente incremento delle accuse infondate. In un'altra linea di
indagine, continuo a cercare nuove soluzioni per distinguere più accuratamente i
CEO materialisti dai CEO frugali. Ecco una domanda che vale sicuramente la pena di
farsi: dovremmo andare a vedere se la filantropia personale di un CEO compensa i
suoi acquisti di lusso, e quel comportamento benevolo può fare da contrappeso al
materialismo?
Man mano che si evolve il mio lavoro, spero di riuscire a offrire risposte più chiare a
questi interrogativi. Per ora, posso affermare con certezza che i board non devono
scartare dei potenziali CEO solo perché hanno preso una multa per eccesso di
velocità o perché hanno una casa eccessivamente costosa. Ma i consiglieri di
amministrazione dovrebbero vedere in queste cose dei segnali d’allarme, specie se
un illecito è stato commesso recentemente o ripetutamente. I dati indicano che è un
rischio troppo grosso per essere ignorato.

Ayiesha Dey è Associate Professor of Business Administration alla Harvard business


School.

Se il mondo cambia, così devono fare i leader


Le ricerche dimostrano che ere diverse richiedono approcci diversi
Nitin Nohria

Più di vent'anni fa, il mio collega Anthony Mayo e io abbiamo lanciato il più ambizioso
progetto di ricerca che abbia mai intrapreso. Siamo partiti una domanda: quali sono
le caratteristiche che definiscono i migliori leader aziendali? Per rispondere, abbiamo
creato un elenco di 1.000 grandi top manager americani del XX secolo e li abbiamo
studiati a fondo uno per uno.
Ciò che abbiamo scoperto ci ha sorpreso: i grandi leader non erano definiti tanto da
caratteristiche permanenti, quanto dalla capacità di riconoscere e cogliere le
opportunità create da un determinato momento storico. Erano in grado di percepire
lo zeitgeist - lo spirito, il mood, le idee e le convinzioni che definiscono un periodo - e
di sfruttarlo appieno.
La leadership efficace, in altre parole, è largamente situazionale. La stessa persona
che ha successo in un'era potrebbe fallire miseramente in un'altra. Lo spirito dei
tempi, stando alla ricerca che abbiamo pubblicato per la prima volta su HBR nel
2006, viene identificato da sei fattori: eventi globali, intervento pubblico, rapporti di
lavoro, trend demografici, costumi sociali e panorama tecnologico. Chi è in grado di
riconoscere dei mutamenti in quei fattori e di sfruttarli possiede quella che
chiamiamo "intelligenza contestuale".
L'ultimo avvicendamento al vertice di Apple dimostra quanto conti l'intelligenza
contestuale. Negli anni Duemila, Steve Jobs aiutò l'azienda a prosperare mettendo
assieme una serie di innovazioni rivoluzionarie, tra cui l'iPhone e l'iPad. Dopo la
prematura scomparsa di Steve Jobs, nel 2011, Tim Cook ha guidato Apple in un'era
caratterizzata da una concorrenza sempre più feroce sugli smartphone. Cook, un
MBA che aveva fatto carriera gestendo la supply chain di Apple, è perfettamente in
linea con questa situazione competitiva che non enfatizza i nuovi prodotti, ma dei
servizi che creano un ecosistema dinamico e redditizio intorno al sistema operativo
iOS. Rendendosi conto che probabilmente l'innovazione di prodotto sarebbe stata
incrementale, Cook ha trovato un vettore alternativo per il successo di Apple. E, in
un'era nella quale i dipendenti si aspettano che i propri leader prendano posizioni più
ferme sulle questioni sociali, è diventato un acceso sostenitore delle problematiche
LGBTQ. Non è un leader carismatico come Jobs, ma la sua intelligenza contestuale
l'ha aiutato ad adeguarsi prontamente al nuovo spirito dei tempi. E i risultati sono
stati spettacolosi: sotto la sua guida, la capitalizzazione di mercato di Apple è
cresciuta di otto volte.

I SEGNI DEL CAMBIAMENTO


Perché rivisitare questa ricerca proprio adesso? Perché quando la pandemia da
Covid-19 diventa endemica e il conflitto in Ucraina rilancia la guerra fredda, è chiaro
che stiamo entrando in una nuova era. Passiamo in rassegna i sei fattori che ho
menzionato in precedenza.
Eventi globali. Ancor prima che la Russia invadesse l'Ucraina, sia la Russia sia la
Cina avevano già segnalato la loro sempre maggiore intolleranza per il predominio
dell'America sull'ordine mondiale. La guerra in corso in Ucraina, tuttavia, ha cambiato
radicalmente la situazione geopolitica - con implicazioni profonde per i leader
aziendali. Molti hanno dovuto decidere se smettere di fare affari con la Russia - una
scelta che implica considerazioni etiche, economiche e politiche per le quali alcuni
CEO si sentono impreparati. La combinazione tra tensione geopolitica e pandemia ha
spinto i leader a rivedere le priorità geografiche e le supply chain. Molti pensano che
l'era della globalizzazione sia essere ormai alla fine e stanno cercando nuove
opportunità di localizzazione delle loro imprese per renderle più resilienti all'instabilità
dei rapporti internazionali.
Intervento pubblico. Negli Stati Uniti, un elettorato polarizzato e la paralisi
legislativa che ne deriva creano confusione sugli sviluppi normativi che possiamo
aspettarci nel prossimo decennio. Ma considerate l'entità della risposta fiscale e
monetaria offerta dal Governo alla pandemia e gli sforzi che sta mettendo in atto per
frenare la ripresa dell'inflazione. L'aumento dei tassi di interesse metterà fine a un
lungo periodo di allentamento dei vincoli monetari, farà lievitare il costo del capitale e
avrà effetti a cascata su tutta l'economia. Si profilano una maggior regolamentazione
delle aziende tecnologiche e nuove imposte a carico dei super ricchi. Forse queste
proposte di legge non verranno mai approvate, ma l'appoggio che hanno ricevuto da
politici di primo piano indica che nei prossimi anni potremmo ragionevolmente
aspettarci un maggior intervento del Governo nell'economia.
Rapporti di lavoro. Con l'uscita dalla pandemia, i lavoratori stanno ripensando il
concetto stesso di carriera - e la propria relazione con il lavoro. In oltre 30 anni di
insegnamento alla Harvard Business School, mi sono abituato a vedere allievi ad alto
potenziale dei corsi MBA che spostavano di volta in volta la propria attenzione sul
business più in voga del momento - quello che prometteva le migliori opportunità e
lo status più elevato: la finanza in un decennio, la consulenza in quello dopo, e poi
l'imprenditoria e il private equity. Ma oggi, dipendenti di tutti i livelli socioeconomici
stanno riesaminando criticamente l'impegno che hanno assunto nei confronti dei
datori di lavoro e l'equità del rapporto che esiste attualmente tra capitale e
manodopera. Lo vediamo in Amazon, dove per la prima volta si è votato per
introdurre il sindacato. In altre aziende, i dipendenti chiedono autonomia e
reclamano il diritto di vivere e di lavorare dove vogliono. Sempre più persone
decidono di entrare nella gig economy. Nello stesso tempo, i progressi intervenuti
nell'intelligenza artificiale stanno eliminando altri posti di lavoro. Tutti questi sviluppi
potrebbero costringere i leader aziendali a re-immaginare il futuro del lavoro.
Trend demografici. I tassi di natalità sono in calo in tutto il mondo. Negli Stati Uniti,
la popolazione in età lavorativa si sta riducendo e, mentre i Boomer e la Gen X si
combinano per creare una massa enorme di neopensionati, tra pochi anni la forza
lavoro sarà dominata dai Millennial e dalla Gen Z. Con il costante aumento dei
pensionati, potremmo assistere a tensioni politiche sempre più aspre tra generazioni.
E i nativi digitali della Gen Z potrebbero adottare entusiasticamente il metaverso,
mentre persone più anziane preferiranno la connessione interpersonale. Dunque, le
imprese potrebbero diventare più rigidamente segmentate per fasce di età.
Costumi sociali. Un tempo si considerava scorretto parlare di politica sul lavoro o a
cena. Che stranezza! Cambiamenti generazionali e social media si sono combinati
per creare un'era di libere discussioni su tutto - e l'aspettativa che leader e datori di
lavoro siano pronti a prendere posizione su questioni controverse. La velocità con cui
i temi della diversity, della parità di diritti e dell'inclusione sono diventati prioritari per
le imprese illustra bene questa dinamica. Anche altri problemi sociali - in particolare
le diseguaglianze economica, sanitaria ed educativa, il cambiamento climatico e la
stagnazione della mobilità economica - chiederanno attenzione.
Tecnologia. Alla vigilia del loro ventesimo compleanno, l'impatto di social media
come Facebook e Twitter continua ad aumentare. Nello stesso tempo, nuovi
cambiamenti sono in atto nella tecnologia. Tecnofinanza e criptovalute stanno
creando alternative ai sistemi bancari tradizionali. Web3 e metaverso preludono a
una nuova arena digitale per il lavoro, per il commercio e per il tempo libero. Eppure,
questa primavera le azioni di molte delle aziende tecnologiche che si sono quotate in
borsa nel 2021 erano sotto il prezzo di collocamento. Ciò potrebbe innescare
un'ondata di consolidamenti in alcuni settori, simile a quelle che abbiamo visto in
tutta la storia economica. Per esempio, appena un secolo fa, nell'industria
automobilistica e nei cereali per la prima colazione competevano centinaia di
aziende; oggi in ciascuna dominano le Big Three, ossia General Motors, Ford e
Chrysler nelle automobili e Kellogg's, General Mills e Post nei cereali. La storia
dimostra che nelle fasi di consolidamento servono qualità di leadership diverse da
quelle che occorrono nelle fasi di sviluppo.

CHE TIPO DI LEADER CI OCCORRE ADESSO?


Il nuovo spirito dei tempi richiederà executive istintivamente in grado di controllare
forze esterne in continua evoluzione, di percepire al volo nuove opportunità
economiche e di esercitare la leadership e il coordinamento in un'era diversa.
Per gli imprenditori, è tempo di identificare e sviluppare innovazioni - non solo nelle
tecnologie che ho già menzionato ma anche in altre. Per esempio, possiamo
aspettarci la creazione di nuovi strumenti per supportare attività che sono fiorite
durante la pandemia, come il lavoro a distanza, l'intrattenimento in streaming e la
telemedicina. Per dei manager che eccellono nello sfruttamento delle economie di
scala e di scopo, e nel consolidamento di settori sovrappopolati, ci potrebbero essere
opportunità in settori in via di maturazione come il cloud computing, il software as a
service e la cybersecurity. Infine, settori che mostrano segni di declino - tra cui il
retail tradizionale, i servizi bancari, l'industria manifatturiera e la distribuzione -
avranno bisogno di leader orientati alla ristrutturazione e alla reinvenzione-
La nuova era richiede anche leader naturalmente portati ad avvertire il peso della
politica e dell'opinione pubblica nel processo decisionale, perché i costi degli errori di
valutazione sono destinati ad aumentare. Considerate la situazione che il CEO di
Disney, Bob Chapek, si è trovato ad affrontare questa primavera. Disney è uno dei più
grandi datori di lavoro della Florida, dove i legislatori hanno proposto una legge
controversa che vieta alle scuole di discutere di identità di genere o di orientamento
sessuale con gli studenti. Dipendenti Disney e commentatori esterni hanno criticato
l'azienda per non essersi opposta pubblicamente al progetto di legge prima della sua
approvazione. Di lì a poche settimane, i dipendenti hanno messo in atto scioperi
quotidiani e alcuni clienti hanno proposto un boicottaggio. Un articolo del Wall Street
Journal definiva la situazione "un clamoroso esempio del dissenso che hanno
cominciato a vedere molte aziende nel momento in cui i dipendenti esercitano il
potere di influenzare la cultura organizzativa, e chiedono ai datori di lavoro di usare la
propria influenza per partecipare attivamente alla politica". Chapek si è scusato per
non aver preso una posizione decisa a favore della parità dei diritti e ha detto che
Disney si sarebbe adoperata per l'abrogazione della legge. Poi i legislatori e il
Governo della Florida si sono "vendicati" revocando il privilegio fiscale dell'azienda.
Evitare le mine sul percorso parte dalla capacità di prevedere come reagiranno i vari
stakeholder a eventi che si manifestano all'interno e all'esterno dell'azienda. Significa
che i leader devono anzitutto ampliare la propria visione del business. C'è stato un
tempo in cui il CEO poteva dire: "Cosa c'entra con la mia azienda? Non è una
questione personale o politica?". È improbabile che una prospettiva di questo tipo
serva bene gli executive negli anni a venire. Anziché opporre resistenza, i CEO
dovranno farsi carico delle più ampie responsabilità che verranno a gravare su di loro
e sulle aziende che guidano. Dovranno entrare in sintonia con persone le cui identità
e i cui interessi potrebbero differire dai loro. Raccogliere un'ampia varietà di opinioni
e ascoltare attentamente - anche idee e punti di vista che potrebbero apparire
stravaganti - aiuterà i CEO a sintonizzarsi meglio con coloro che dirigono.
Gli executive che operano in questo modo vengono definiti anche "diplomatici" o
"statisti". Agire da statisti vuol dire non solo avere il polso di vari referenti, ma anche
saperli mobilitare. Due leader-statisti sono certamente Ken Chenault, l'ex CEO di
American Express, e Ken Frazier, il presidente esecutivo (ed ex CEO) di Merck. Sono
due tra i più noti executive di colore degli Stati Uniti e, quando è nato il movimento
Black Lives Matter dopo l'uccisione di George Floyd, hanno guidato la risposta delle
imprese americane. Andando oltre le solite dichiarazioni di solidarietà che
rischiavano di apparire stucchevoli, Chenault e Frazier hanno lanciato OneTen, un
progetto di collaborazione tra grandi aziende per formare, assumere e promuovere
un milione di neri - soprattutto non laureati - nell'arco di dieci anni. Un altro esempio
è Larry Fink di BlackRock, che ha mobilitato investitori e leader aziendali intorno alla
sostenibilità di lungo termine delle imprese e del pianeta.
Il nuovo zeitgeist richiederà anche un'enfasi più forte sulla capacità di gestire le crisi.
I leader non possono più dare per scontato che si presentino solo ogni tre o quattro
anni e che vengano gestite da consulenti esterni. Invece, le aziende devono
prepararsi a un flusso continuo di sconvolgimenti - e affinare le competenze interne
che occorrono per affrontarli. Non possono limitarsi a reagire; dovrebbero prevederli,
e pianificare la propria risposta, anche in termini organizzativi. Per esempio, le
decisioni della Corte Suprema degli Stati Uniti sul diritto all'aborto continueranno a
suscitare accesi dibattiti politici e a richiedere una presa di posizione netta da parte
dei CEO, che dovrebbero essere pronti a dire apertamente ciò che pensano.
I leader aziendali avranno bisogno di tante altre capacità, tra cui utilizzare
efficacemente i social media, motivare dipendenti che chiedono alle proprie aziende
finalità e significato, soddisfare tutti gli stakeholder anziché solo gli azionisti, e
guidare la trasformazione digitale. L'importanza di queste competenze sta
assumendo sempre maggiore visibilità da oltre un decennio; il nuovo spirito dei
tempi le porterà in primo piano.

L’obiettivo di questo articolo non è predire ciò che sta per accadere. È accrescere la
consapevolezza di un fatto storico: l'ambiente socioeconomico si trasforma ogni 10 o
20 anni. Ogni trasformazione crea nuove opportunità di business e richiede dei
cambiamenti negli approcci di leadership. È evidente che siamo di fronte a uno di
questi cambiamenti epocali. I leader avveduti ne prenderanno in considerazione le
implicazioni - e si prepareranno ad affrontarle.

Nitin Nohria è l'ex rettore della Harvard Business School.

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