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OTORINOLARINGOIATRIA

Sbobine anno 2017/18


SUCCO 8/3/18 Bombaci Francesco

INTRODUZIONE ALL’OTORINOLARINGOIATRIA
L’orecchio, il naso e la gola fanno parte del “network della comunicazione” quindi il loro studio confluisce nel
grosso ambito dell’otorinolaringoiatria (ORL). All’interno di questo network si riconoscono un apparato
ricevente (l’orecchio) e uno emittente (la gola e le strutture ad essa connesse).

ORL è sia un’attività medica che un’attività chirurgica. Tra le due, è quella medica a prevalere (60-70%).
Inoltre, l’attività otorinolaringoiatrica influenza circa il 30% del lavoro di un medico di medicina generale,
quindi è una materia molto importante in ambito generale.

Le attività di tipo chirurgico si suddividono in due:


 Chirurgia funzionale (ad esempio il trattamento dell’otosclerosi), che può riguardare diversi ambiti:
o Rinologia
o Estetica
o Otologia
o Vie aero-digestive (vie che presentano una commistione aria-cibo prima che si suddividano
nelle due rispettive strade)
 Chirurgia oncologica (ad esempio il trattamento dei polipi nasali), che si distingue in:
o Chirurgia endoscopica
o Chirurgia open
o Microchirurgia
o Chirurgia ricostruttiva

Le attività di tipo medico sono:


 Visite ambulatoriali
 Diagnostica endoscopica
 Audiologia
 Otoneurologia
 Foniatria

DIAGNOSTICA
La diagnostica mira ad evidenziare patologie che tendenzialmente sono di carattere tumorale.
La diagnostica endoscopica non è solo statica ma è anche dinamica, infatti il suo obiettivo è sia quello di
vedere se c’è una patologia, sia quanto essa ha impattato sull’attività di strutture che hanno a che fare col
movimento (la fissità è un segno di cattiva salute in una struttura normalmente mobile).
La diagnostica ORL non si ferma alle corde vocali ma si estende anche alla trachea e all’esofago (cervicale,
medio e basso).

[Il professore ha proseguito la lezione presentando numerosi esempi di interventi eseguiti da un


otorinolaringoiatra, con il principale scopo di presentare in maniera generale la varietà di ambiti che riguarda
l’attività otorinolaringoiatrica. Praticamente, non sono stati spiegati concetti importanti per il programma
d’esame, però consiglio agli interessati di visionare le immagini sulle slide (se saranno fornite) per fini didattici.
Ho riportato comunque i concetti più rilevanti sotto forma di elenco di frasi.]

La diagnostica può essere eseguita in narcosi per riuscire a spostare più facilmente alcune aree anatomiche.

Un’insolita raccolta di cellule epiteliali all’interno dell’orecchio medio viene definita colesteatoma.
SUCCO 8/3/18 Bombaci Francesco

La fonochirurgia non è solo resettiva ma è anche additiva, cioè si possono ad esempio impiantare delle corde
vocali se necessario.

L’OSAS viene trattata chirurgicamente mediante interventi correttivi sul palato (tonsillectomia a cui segue
una ugulo-palatoplastica, cioè una rimozione dell’ugola, che in tal modo non può più collassare
posteriormente causando ostruzione). Infatti è il palato il responsabile del russamento e delle apnee
notturne.

La malattia di Forestier è un’iperostosi scheletrica idiopatica diffusa che consiste nella formazione di osteofiti
a livello spinale. Quando questi becchi osteofitari si localizzano a livello cervicale, possono arrivare a grattare
contro la laringe quando questa si muove, fino a bloccarne i movimenti in alcuni casi. Il compito
dell’otorinolaringoiatra è quindi quello di spianare queste strutture e ripristinare la funzionalità laringea.

La chirurgia della tiroide è praticamente diventata appannaggio dell’ORL.

CONCLUSIONI
L’ORL è una specialità molto varia, in quanto dà un ampio spazio alle anime medica e chirurgica. Infatti, se si
è interessati a questo distretto, si è praticamente sicuri di trovare il proprio ambito di maggiore interesse
(chirurgia microvascolare, chirurgia dell’orecchio, chirurgia del naso, chirurgia endoscopica, audiologia,
foniatria, ecc). La si può quindi definire una specialità debordante in più ambiti.
L’approccio medico è fondamentale, perché da un suo corretto inquadramento ne consegue un corretto
inquadramento chirurgico.
Gli approcci chirurgici stanno diventando sempre meno invasivi ma non per questo più facili, anzi: mentre
una volta il motto era “grande taglio, grande chirurgo”, oggi la situazione si è capovolta completamente.
Un concetto fondamentale è l’appropriatezza dell’iter diagnostico, cioè la capacità di eseguire una diagnosi
secondo un ordine logico che segua l’epidemiologia e le relative manifestazioni cliniche delle possibili
patologie, al fine di limitare al massimo gli sprechi.

Dove studiare per l’esame (testi):


 “Otorinolaringoiatria” di Albera e Rossi (TESTO DI RIFERIMENTO): alla fine dei capitoli di questo libro
ci sono approfondimenti che costituiscono alcune delle classiche domande d’esame.
 “Compendio di Otorinolaringoiatria” di Albera e Ralli: simile al testo precedente ma compattato.
 “Audiologia e foniatria” di Albera e Schindler.
DALLE VIE AERO-DIGESTIVE SUPERIORI AL SISTEMA INTEGRATO DELLA COMUNICAZIONE

Filogenesi: come evolve una specie

Il network della comunicazione ha come espressione clinica la specialità di otorinolaringoiatria e come


espressione patologica le patologie che impattano negativamente su questo network e che determinano
esigenze complesse per quanto riguarda la cura e la riabilitazione dei pz.

Il primo testo dove appare un tentativo di descrizione anatomica dell’orecchio umano deriva da Antonio
Maria Valsalva nel 1741: egli è il primo che ha tratto considerazioni di tipo anatomico e fisiologico unendo
l’orecchio esterno (dove arriva la materia prima, cioè il suono, un’energia meccanica) e dall’altra parte, a
seguito di un processo di trasformazione di questo segnale fisico, il prodotto finito: energia elettrica.
Devono passare quasi duecento anni affinché un altro anatomico di nome Brodel codifichi tutto il processo
di creazione di energia elettrica da una energia meccanica quale è il suono, vincendo il Nobel.

Tutto ciò che sta esternamente rispetto alla membrana timpanica è considerato orecchio esterno; dopo di
che iniziano delle strutture molto concentrate e molto piccole al termine delle quali c’è una manipolazione
e una trasformazione di energia meccanica in altri tipi di energia, che sono sempre energia elettrica.

È molto importante chiedersi il “perché” delle cose, capire cosa sta a monte, capire il fine delle strutture
anatomiche che si studiano.
L’orecchio interno è conosciuto come il “labirinto” e ha una unità neuro-sensoriale: il vestibolo cocleare; in
questo labirinto ci sono delle strutture che hanno una morfologia molto particolare per pensare che siano
casuali, infatti compare una parte anteriore fatta a chiocciola e una parte posteriore composta da canali
semicircolari. Si chiama unità neuro sensoriale o, meglio, sensoro-neurale; meglio perché la parte
sensoriale viene prima e ad essa segue la parte neurale (i fili che portano via l’energia elettrica). Questi fili
vanno verso il cervello che domina, coordina e integra tutte le afferenze ed efferenze di natura nervosa
attraverso un complesso sistema di fermate intermedie. Il segnale nervoso, prima di arrivare alla meta,
comunica con altre strutture del nostro corpo; questo avviene perché il lavoro che il segnale elettrico deve
determinare è poco specializzato e molto rapido, quindi tutte le fermate intermedie servono ai riflessi, i
quali sono automatici.

Il labirinto è una struttura sensoriale complessa ma anche unitaria. La parte anteriore del labirinto governa
l’aspetto acustico, mentre la parte posteriore è deputata al mantenimento dell’equilibrio, quindi sono due
parti che sono nello stesso luogo ma svolgono funzioni diverse. Perché allora comunicano e sono una
struttura unitaria visto che la parte uditiva non c’entra nulla con l’equilibrio? In realtà questa problematica
deriva da un nostro vecchissimo antenato, lo squalo: lo squalo sente attraverso una striscia che ha in tutto il
corpo, sentendo per esempio il rumore dei pesci che si dibattono attraverso una sorta di orecchio
corporale; altre specie che si sono distaccate dall’acqua, invece, man mano che son diventate più anfibi o
decisamente non pesci, hanno cominciato a sviluppare una morfologia di sistema stato-acustico che
assomiglia a quello dell’uomo, con canali semicircolari e una parte cocleare simile, mentre per esempio nel
rettile il canale semicircolare è identico a quello dell’uomo e la parte cocleare invece no.

Il mammifero è spinto nella sua evoluzione dal fatto di dover stare su due zampe e in uno spazio
tridimensionale. La spinta evolutiva verso modifiche anatomiche e fisiologiche nell’uomo è data proprio da
questi due fattori.

Il labirinto posteriore è quello che governa un importante stato, l’equilibrio (l’equilibrio NON è un senso, è
uno stato). Il sistema vestibolare è molto simile a quello di altri animali, mentre la coclea è molto diversa.
D’altra parte, non risulta che gli scambi di informazione tra animali siano così fini: gli scambi di
comunicazione tra gli animali sono tendenzialmente focalizzati su quello che riguarda il richiamo amoroso
per mantenere la specie. Non stupisce quindi che le camere acustiche di questi animali siano primordiali. In
alcuni ad esempio, come il topo, si comincia a vedere un abbozzo: sembra che i topi comunichino
maggiormente rispetto ad altre specie.
Nell’uomo ci sono due porzioni distinte del labirinto. Ma allora perché il canale semicircolare (cioè la
porzione posteriore del labirinto, che è quella porzione che serve per raggiungere uno stato di equilibrio) è
simile a quello che si vede in altri animali e la camera anteriore invece è così dissimile? Perché nell’uomo
filogeneticamente c’è stata un’altra spinta evolutiva, la quale ha portato alla creazione dell’attuale specie
umana con una camera uditiva molto differenziata. Il fatto che questa camera sia soggetta a un’alta spinta
evolutiva è dimostrato dal fatto che è facile trovare delle patologie congenite in questa sede (es la sordità
congenita, che colpisce 1.5/1000 casi). Questo è molto significativo dal punto di vista evolutivo e
probabilmente nel corso dei millenni, a forza di creare errori, tenderà a migliorare ulteriormente.

La coclea è presente solo nei mammiferi. Perché la coclea ha questa forma? Perché in questo modo riesce
ad occupare poco spazio e perché la spinta evolutiva voleva che in questo spazio ristretto ci stesse tutto
quanto. La coclea è una specie di tastiera di pianoforte dove risuonano e si creano dei segnali nervosi in
base a una stimolazione tonotopica. La coclea umana è all’apice della scala evolutiva dell’organo cocleare.

Che cosa hanno quindi in comune il sistema uditivo e dell’equilibrio insieme? Non solo la coclea migliora dal
punto di vista evolutivo, anche i canali semicircolari continuano ad evolvere, soprattutto in alcune specie
dove l’equilibrio è fondamentale (come i lemuri): in queste specie i canali non sono semicircolari ma quasi
rotondi.
Il motivo per cui la spinta evolutiva ha fatto sì che il labirinto umano governasse l’udito e il sistema
vestibolare è che il sistema vestibolare è connesso attraverso un sistema riflesso con gli occhi, perché serve
coordinazione tra vista ed equilibrio al fine di non cadere. La spinta evolutiva è stata necessaria perché nel
momento in cui si è passati da 4 zampe (con una visione stereoscopica) a 2 zampe, è aumentato l’angolo
buio, quindi l’organismo ha avuto bisogno di surrogare la vista dello spazio buio con l’orecchio: si ha una
tridimensionalità attraverso più sensazioni, davanti si guarda e dove è buio si sfrutta l’udito. Questa
anatomia complessa riesce a coniugare la vista governata dal sistema riflesso e l’apparato vestibolare e
l’udito che funziona da vista per gli spazi bui. Questo è il motivo per cui la parte uditiva è così sofisticata e si
trova sempre sotto pressione da parte dell’evoluzione per migliorare.

La parte uditiva ha una funzione complessa non solo nell’ambito del controllo del mondo che ci sta intorno,
ma anche perché è fondamentale per l’espressione vocale e questo rappresenta un’ulteriore spinta
evolutiva. Una persona nata sorda è anche muta perché la laringe non riesce a modulare la produzione
sonora visto che non ha il controllo dell’udito, in quanto i propriocettori della laringe sono l’udito. Una
persona sente prima di tutto sé stessa, dà una plasmatura a quello che si dice e poi si ha il messaggio
vocale. L’uomo comunica e dà dei significati che sono una spinta all’evoluzione. Anche se siamo soggetti a
delle forze esterne il sistema vestibolare mantiene l’oggetto che sta guardando sulla fovea e l’udito si
integra anche con la vista perché l’udito è la trasformazione sonora di messaggi che sono identici a quello
che si sta leggendo.

Geronimo Fabrizio di Acqua Pendente scrive un trattato di anatomia nel 1600, inserendo il titolo “locuzione
et eius strumentis”. La laringe emette 5 suoni (le vocali), dopo di che la locuzione impasta questi suoni e
viene emessa la voce parlata. Più la voce parlata è confusa più c’è bisogno dell’orecchio (anche per allenare
una lingua straniera è importante parlare ad alta voce e sentirsi). È la prima volta che nell’ambito della
storia dell’anatomia vengono descritti le vie aeree come unità.

Le vie aeree sono un luogo in cui c’è un’interfaccia tra mondo liquido e gassoso. Perché questi organi sono
stati messi in periferia e non vicini a dove entra l’aria? Perché abbiamo bisogno di protezione. Anche nella
cavità sinusale e timpanica ci sono degli scambi, più lenti rispetto all’alveolo, ma comunque ci sono. Sono
distanti perché abbiamo bisogno di difenderli con la laringe: la laringe protegge il polmone. Una via aerea
non protetta determina la morte dell’individuo in pochissimo tempo. C’è correlazione anatomica e
funzionale tra orecchio e laringe, quindi la laringe lavora, comunica, emette dei suoni che vengono
impastati con l’orecchio e poi svolge anche il lavoro di protezione. Per fare due mestieri, considerando che
quello più importante è respirare (quindi proteggere), la laringe ha un problema, cioè non può mai
sbagliare (pena la morte dell’individuo). Deve essere uno sfintere che lavora in maniera opposta rispetto
alla solita azione degli sfinteri che si trovano nel nostro organismo. La laringe ha un anello rigido, la cricoide
(la quale dà la certezza che la laringe rimanga pervia), e ha cartilagini che si chiudono rapidissimamente per
proteggere le vie aeree inferiori da qualsiasi agente esterno che penetra nelle vie aeree al di fuori dell’aria,
l’unica permessa.

Questa spinta filogenetica è avventura circa 20 milioni di anni fa quando i nostri antenati sono usciti
dall’acqua e hanno cominciato un’evoluzione prima verso la condizione anfibia, poi verso il mammifero, per
arrivare alla situazione anatomico-funzionale attuale.

La complessità anatomo funzionale è grande. La laringe serve per respirare, ma è anche l’organo dove si
trovano le corde vocali e dove si produce la voce. La voce si produce e poi viene articolata a livello del
vocal tract. Studi comparativi tra laringe di diverse specie animali dimostrano che le caratteristiche
fonatorie delle laringi di un cane e di un porcellino sono modelli molto adeguati a simulare l’emissione
sonora dell’uomo. Quindi quello che è diverso non è la laringe: al di là delle qualità della laringe quello che
cambia è l’organo della locuzione, il vocal tract. Nell’uomo il vocal tract è lungo, come una lunga catena di
montaggio per produrre un suono articolato. Le scimmie hanno una conformazione molto diversa
dall’uomo: nel gatto c’è un vocal tract molto corto, nel leone è molto lungo. Il vocal tract diverso comporta
nelle diverse specie, per quanto simili, una emissione di un suono diverso. La dimensione del vocal tract,
quindi la distanza tra la cricoide e la base del cranio, è direttamente legata all’evoluzione del linguaggio.
L’homo erectus aveva un vocal tract molto corto e quindi da un punto di vista filogenetico non poteva fare
molti sforzi. Inoltre, era anche un antenato con minor massa cerebrale. Questi studi sono molto
interessanti in quanto hanno iniziato a correlare la qualità del vocal tract con il messaggio che veniva usato.
Per esempio, la scimmia cercopithecus diana ha due nemici naturali, il giaguaro e l’aquila, che quindi
arrivano da due luoghi diversi: essa ha bisogno di distinguere quando arriva un segnale di pericolo relativo a
un nemico e quando arriva l’altro per poter fuggire in alto o in basso, perciò l’emissione sonora deve essere
diversa e deve anche essere recepita in maniera diversa. Andando a traslarlo nell’uomo, i messaggi diversi
stimolano aree del cervello diverse. Nel caso di pazienti cerebrolesi si è visto che con un determinato treno
di parole si riesce a far arrivare il messaggio all’area danneggiata attraverso una strada differente rispetto al
normale. In sintesi: l’orecchio comanda la laringe, la laringe protegge i polmoni e insieme emette dei suoni
che devono arrivare all’orecchio stimolando una diversa area cerebrale.

La spinta evolutiva è fortemente legata all’aspetto della comunicazione e del linguaggio. Il nostro cervello si
è evoluto dimensionalmente in virtù del fatto che l’uomo ha avuto sempre di più la necessità di comunicare
e più si cerca di comunicare più c’è una spinta evolutiva al dimensionamento e anche alla specializzazione;
questa spinta evolutiva si vede anche nell’ambito di patologie congenite: non ci si accontenta di capire una
persona nella stesa lingua, abbiamo necessità per esempio di tradurre in contemporanea (sentire in italiano
e parlare in inglese), il bi/trilinguismo è una spinta evolutiva enorme e per farlo c’è bisogno di cervello, visto
che questa abilità è direttamente proporzionale alla quantità di materia grigia che si possiede. Man mano
che l’homo erectus ha avuto bisogno di comunicare ha subito un’ulteriore spinta evolutiva che ha
“ipertrofizzato” il cervello. Il cervello ha delle aree connesse con il linguaggio sia per quanto riguarda il
linguaggio parlato che per quanto riguarda il linguaggio sentito, non si tratta solo di suoni che vengono
ripetuti e immagazzinati a caso. Quando c‘è un problema legato a uno solo di questi comportamenti, ci si
deve domandare cosa succede agi altri compartimenti in quanto è tutto connesso.

Nel 1700 Jacques Fabin Gautier Dagoty, ha capito che c’era una correlazione tra cervello (direttore
d’orchestra), vocal tract, corde vocali, vocal tract visto da sotto, bocca… aveva compreso che c’è necessità
di coordinazione. Probabilmente questo era già stato capito da qualcuno prima di lui: Michelangelo, nel
dipingere il soffitto della Cappella Sistina, pone Dio in una nuvoletta a forma di cervello, quindi è possibile
che avesse già intuito che c’era un direttore d’orchestra, probabilmente però con il meccanismo inverso
rispetto a oggi, cioè una persona colpita in testa perdeva delle funzionalità in diversi distretti. Tutto quello
che avviene nel nostro organismo ha come controllo il nostro cervello.

Non basta solo pensare al fatto che si respira e si parla, un’altra cosa essenziale è il cibo: per garantire una
adeguata funzionalità della deglutizione c’è necessità che questo tratto (che lavora molto intensamente per
quanto riguarda produzione di voce e messaggio verbale) garantisca che il cibo venga incanalato nella
porzione digerente e non nella porzione respiratoria. Si potrebbe pensare che la cosa migliore sia
posizionare meccanicamente le vie aeree in una zona protetta e questa è una modalità (le vie aeree sono in
posizione anteriore e quindi quando si deglutisce vengono nascoste sotto la protezione della lingua, perciò
è attuata una protezione meccanica), ma c’è anche una protezione attiva neuromuscolare dove la
muscolatura in meno di un secondo si accartoccia e poi si rilascia tornando come prima: tutto questo
avviene in maniera automatica.

Queste cose vengono studiate con dei meccanismi radio-metabolici, per cui quando si vuole fare una
determinata cosa si stimola una determinata area del cervello che viene vista con una risonanza magnetica
funzionale che guarda appunto il metabolismo. La deglutizione, ulteriore fardello sulle spalle del network
della comunicazione, attiva molte strutture: 55 muscoli, 6 nervi cranici, 2 radici cervicali, l’area motoria
primaria, l’area sensitiva primaria, l’area motoria supplementare…perciò è sì un grande rischio, ma anche
un’ulteriore spinta evolutiva su questo segmento di questo corpo.

Per la prima volta quindi, grazie a Jacques Fabin Gautier Dagoty, si è definito quello che è un software, il
cervello, un software compreso di aree anatomiche che sembrano ininfluenti (come la parete posteriore
della faringe che, addossata alla colonna vertebrale, sembra servire a poco, ma in realtà compartecipa al
meccanismo di protezione della laringe).

C’è bisogno del massimo dell’intelligenza per fare tutto quello che si deve fare. Si può perdere questo
controllo superiore quando ci sono patologie neurologiche (traumi, emorragie, ictus…) e quindi succede che
si perde coordinazione ma non le funzioni: si ritorna ad essere meno specializzati, più simili agli animali che
ci hanno preceduto, quindi anche l’aspetto rieducativo sarà tendente a sviluppare quello che di animalesco
rimasto piuttosto che quello che è rimasto di “umano”. Quando rimangono ancora delle funzioni intatte, se
si stimolano con la rieducazione i soggetti a potenziare i comandi automatici, si ottengono delle risposte
migliori. Il grande campione di calcio è in grado mentre riceve il pallone di pensare a cosa fare l’attimo
dopo. Ci si può allenare a diventare campioni: si deve chiedere al nostro organismo sempre di più, provare
e riprovare delle cose sempre più velocemente, è necessaria la costanza. Non dovrebbero esistere limiti alla
rieducazione: si deve far capire ai pazienti che la costanza è necessaria per recuperare le normali
funzionalità (leggere ad alta voce, mantenere un certo tipo di abilità equilibrista, muoversi, esercizi
potenziativi della muscolatura per deglutire…).

Per quanto riguarda la protezione della laringe durante la deglutizione c’è da ricordare che, oltre a mettere
la laringe sotto la lingua per proteggerla e oltre al meccanismo neuromuscolare di chiusura totale della
laringe, c’è anche un ulteriore meccanismo di difesa molto importante: la tosse. Ovviamente il nostro
organismo non si può permettere di tossire continuamente, quindi questo sistema gerarchico deve
funzionare bene e quando non funziona bene entrano poi in gioco i meccanismi di riflesso.

L’archeologia della sopravvivenza, attraverso il nostro atteggiamento, ci consente di condizionare le


risposte di chi abbiamo davanti. Più le persone riescono con la loro mimica e la comunicazione extra
verbale a comunicare, più riescono a vicariare determinati canali logici di comunicazione che sono andati
persi (es molte persone che non ci sentono leggono le labbra, ma non si limitano a questo, infatti leggono
anche quello che si comunica con la mimica).
Sempre nell’orecchio, non ci sono solo coclea e vestibolo, ma c’è anche il nervo faciale: esso serve per
poter avere sincronismo, così da potenziare il messaggio che si sta dando.
L’ontogenesi è la ripetizione della filogenesi in termini molto rapidi, cioè in termini di un essere vivente che
viene concepito e si sviluppa: l’ontogenesi ripercorre molto rapidamente le tappe avvenute in milioni di
anni in tempi più ristretti: la laringe di un bambino è simile a quella di un primate, mentre la laringe di un
adolescente è simile a quella di un adulto. Il bambino quando nasce non ha bisogno di comunicare, ha
bisogno di mangiare e dormire, perciò non ha bisogno di nascere con una laringe molto bassa per produrre
messaggi particolari, ma ha bisogno di una laringe assolutamente molto protetta per poter alternare
efficacemente la suzione e la respirazione. Dal momento che la laringe è molto immatura è logico che il
cibo possa andare di traverso, così come possono accadere le morti bianche dovute all’immaturità della
laringe.

Il messaggio è che ci sono state e continuano ad esserci delle spinte evolutive che hanno permesso
all’essere umano di evolversi: se ci si interroga sul perché delle cose e si riesce a capire il loro meccanismo e
funzionamento si potranno avere chiari i meccanismi patogenetici. L’impegno nello studio è alla base del
rispetto verso i pazienti.
Sbobina della lezione del 12 Marzo
Prof. Succo

[Le parti in corsivo sono state prese dal libro, così da poter integrare al meglio la lezione. Occorre
comunque studiare dal libro, in quanto è molto più specifico]

ELEMENTI DI FISICA ACUSTICA


Il SUONO è energia vibratoria che si propaga in un mezzo ed è costituito da onde di rarefazione e
compressione, che corrispondono ad una variazione dello stato di riposo delle molecole generata
da un oggetto vibrante.
Le modificazioni di pressione del mezzo attraversato dall’onda acustica, rispetto al tempo, sono
rappresentate graficamente da una linea curva posta sopra e sotto una retta che identifica il teorico
stato di riposo del mezzo stesso. Nel caso più semplice, l’oscillazione delle particelle ha un andamento
sinusoidale (tono puro) che è caratterizzato da:
o Frequenza delle oscillazioni;
o Ampiezza delle oscillazioni.

La frequenza del suono è il numero di volte in cui il fenomeno ciclico, di compressione e rarefazione
delle molecole, si verifica nel tempo e si misura in Hertz. Si distinguono, in relazione alla capacità della
percezione dell’orecchio umano:
o Tonalità gravi, fino a 500 Hz;
o Tonalità medie, tra 1000 e 3000 Hz;
o Tonalità acute, oltre 3000 Hz;
o Ultrasuoni, oltre i 15000-20000 Hz;
o Infrasuoni, sotto i 20-50 Hz.

Gli ultrasuoni e gli infrasuoni non sono percepiti dall’uomo come sensazione acustica.

1
Il suono puro è caratterizzato da una frequenza
d’onda costante, o meglio da onde di
compressione e rarefazione che sono tutte
uguali. Ci sono strumenti come il diapason che
sono in grado di produrre i suoni puri, ma in
natura sono piuttosto rari.
I segnali che normalmente percepiamo, invece, sono la
risultante di una serie di frequenze diverse e vengono quindi
definiti suoni complessi. Essi sono forme d’onda irregolari,
ossia non sinusoidali, che possono però essere ricondotti,
mediante analisi di Fourier, ad un insieme di toni puri tra loro
associati.

I segnali acustici sono poi distinguibili in:


o SUONI PERIODICI, costituiti da una frequenza
fondamentale (la più grave) e da frequenze armoniche
che sono multipli interi della fondamentale;
o RUMORI, se il moto non presenta alcuna periodicità.

L’intensità della sensazione acustica (LOUDNESS) è determinata dall’ampiezza delle vibrazioni; tanto
maggiore è l’ampiezza tanto maggiore sarà la sensazione acustica di intensità. Essa può essere
misurata in termini di potenza o di pressione.

Le altre misurazioni sono:


1. Potenza del suono: è l’effettiva capacità che ha una sorgente sonora nel produrre un rumore
e si misura in Watt (lavoro/tempo).
Quindi più una cassa produce un’energia forte e più mette in agitazione le molecole nell’aria,
tanto sarà maggiore la potenza con cui il suono arriverà al nostro orecchio andando ad
esercitare una maggiore pressione sul timpano. Applicando questo concetto all’uomo, più si
preme con il diaframma con la cassa toracica e con tutti i muscoli, più la voce avrà un’intensità
forte, perché sarà stata aumentata la potenza della cassa toracica;
2. Percezione del suono: è la misura della pressione acustica e si misura in Pascal (Newton/m2),
unità di misura che valuta l’effettiva intensità del suono nel punto in cui viene misurato e che
è correlata con la distanza esistente tra la sorgente sonora e il punto di rivelamento. Il Pascal
è un’unità di misura fisica che rispecchia le caratteristiche funzionali dell’orecchio umano, il
quale, nell’analisi dell’intensità segue una curva logaritmica e non lineare (legge di Weber e
Fechner), con un range molto ampio tra il minimo suono percepibile e quello la cui percezione
provoca dolore (almeno 106).
È importante anche questa misurazione, in quanto il suono viene attenuato in relazione
all’aumento di distanza: infatti, subisce un calo fisiologico nello spazio e nel tempo. Per cui, a
livello percettivo, non si può considerare la misurazione assoluta del suono appena emesso
dalla sorgente, ma occorre considerare quello che arriva alla sorgente. Il suono, infatti, viene
percepito in virtù della pressione reale che si misura a livello di una superficie, creando un
colpo di maglio. Quando una sorgente luminosa emette un suono, lo stesso va a perturbare le

2
molecole che ci sono tra la sorgente emittente e quella ricevente. Quella ricevente percepisce
una pressione a livello dell’orecchio, la quale non è la misurazione funzionale delle
caratteristiche del corpo umano, bensì una misurazione di tipo fisico;
3. L’intensità della percezione acustica: è una misurazione convenzionale, che misura la
pressione acustica che la sorgente emittente determina in perturbazione delle molecole che
raggiungono poi l’orecchio (sorgente ricevente) e si misura in decibel (dB). È intesa come 20
volte il logaritmo in base 10 della pressione effettivamente rilevata rispetto alla pressione di
riferimento (P0), definita per convenzione pari a 2x10-5 Pascal (valore identificato come
minima intensità acustica percepibile da parte di un soggetto giovane e non affetto da
patologie acustiche a 1000 Hz).
L’intensità del suono determina, di per sé, una misurazione dell’energia cinetica posseduta,
in quel punto, dalle particelle vibranti nel mezzo.
𝑃
𝑑𝐵 = 20 𝑙𝑜𝑔10
𝑃0
Il dB non deve essere quindi inteso come un’unità di misura assoluta, ma come un’unità di
misura relativa, correlata alle caratteristiche della sensibilità dell’orecchio umano, in cui lo 0
corrisponde all’assenza di suono (condizione presente solo nel vuoto, in cui non vi è alcun
mezzo di propagazione), ma al minimo suono che l’orecchio può percepire. Inoltre,
l’introduzione della misura logaritmica consente di ridurre l’ampio range di intensità
percepibile con una modalità di analisi simile a quella svolta dall’orecchio stesso.
In termini di dB il range dell’udibile nell’uomo è compreso tra circa 0 (minimo suono
percepibile) e 100-120 dB (soglia di fastidio o di dolore).
Al fine di correlare il valore espresso in dB ad una sensazione acustica può essere utile
ricordare che in un ambiente giudicato silenzioso il livello di rumorosità è pari a circa 40 dB; la
normale voce di conversazione di pone su valori di 60 dB, mentre in un ambiente
particolarmente rumoroso (fabbrica, discoteca) può arrivare a valori di 85-100 dB. Rumori di
tipo esplosivo (armi da fuoco) o prodotti da motori molto potenti (aerei, razzi, ecc.) possono
superare i 120 dB.

È anche importante ricordare la dicotomia presente tra la pressione che giunge


effettivamente al sistema uditivo di un individuo e la sensazione. Per quando riguarda la
sensazione sarà ovviamente presente anche una componente di variabilità individuale,
ciascuno può poi essere più o meno sensibile ai suoni e dunque essere in grado di sentire
meglio o peggio. Possiamo quindi usare la pressione che giunge all’orecchio e la sensazione
come misurazioni rispettivamente assoluta e relativa. In genere si preferisce dare una
misurazione indicizzata a quella che è la sensazione uditiva in quanto è quella che corrisponde
meglio alla realtà, considerando che la media degli esseri umani ha più o meno le stesse
performance.

ANATOMIA DEL SISTEMA UDITIVO


L’orecchio è concentrato in uno spazio molto piccolo e vengono gestiti sia l’udito che l’equilibrio, il
quale viene governato non solo dall’orecchio, ma anche dal labirinto posteriore e da altre espressioni
sensoriali, tra cui per esempio la vista.
L’organo dell’udito, sotto il profilo anatomico-funzionale, è composto dal sistema di trasmissione
dell’energia meccanica vibratoria, dal sistema che la trasforma in energia nervosa e dal sistema che la
trasferisce alla corteccia del lobo temporale, ove viene trasformata in sensazione acustica.
Le parti anatomiche che partecipano alla funzione uditiva sono:
o Orecchio esterno,
o Orecchio medio,
o Orecchio interno,
o Nervo acustico,

3
o Vie uditive centrali.

1. ORECCHIO ESTERNO: è formato da tutto ciò che sta all’esterno della membrana timpanica
(limite dell’orecchio medio): padiglione auricolare e condotto uditivo esterno.

Il padiglione auricolare è costituito da un lembo di cartilagine a forma di conca e ricoperto di


cute, che si proietta ai lati del capo. Al centro del padiglione auricolare si apre l’orifizio del
condotto uditivo esterno. I rilievi anatomici sono importanti nel convogliare il suono all’interno
del condotto uditivo.
Per quanto riguarda la forma, la si può descrivere come un cono che si allarga con un’anatomia
particolare. Nell’essere umano, al contrario di molti animali, questa porzione ha perso
abbastanza la mobilità. Il significato dell’orecchio esterno è quello di essere un “canestro” che
convoglia l’energia meccanica che riesce a catturare su un’area ristretta, il timpano. La sua
funzione è quindi quella di amplificare la potenza del suono.
Il condotto uditivo esterno è un canale che si estende in profondità per circa 24 mm e la cui
struttura è fibro-cartilaginea nel terzo laterale e ossea nei due terzi mediali. Il punto di
passaggio tra parte cartilaginea e ossea è caratterizzato da un restringimento, detto istmo.
Ha una forma ellittica e un decorso non perfettamente rettilineo, in quanto caratterizzato da
una curvatura verso l’avanti e il basso. In profondità il condotto uditivo esterno è chiuso dalla
membrana timpanica ed è rivestito in tutto il suo decorso, compresa la superficie esterna del
timpano, da cute.

Il condotto uditivo esterno è importante perché costituisce l’interfaccia tra il mondo esterno
e l’orecchio medio-interno. È inoltre una cavità profonda, in cui possono ristagnare
microrganismi patogeni (germi, funghi, ecc), per esempio a causa del ristagno di acqua al suo
interno.

L’orecchio produce il cerume1, segno di salute. Esso abbassa il pH del condotto uditivo
esterno, dà un certo grado di impermeabilizzazione e protegge da possibili infezioni (otiti
esterne). La pulizia dev’essere fatta solo nella parte visibile esternamente (e quindi dove arriva
lo sguardo altrui) perché con il cottonfioc si spinge il cerume verso il timpano, quando esiste

1
Il cerume, materiale di colorito giallo-brunastro, è prodotto dalle ghiandole ceruminose (ghiandole sudoripare
modificate localizzate al terzo esterno del condotto uditivo esterno) ed è associato a cellule epiteliali desquamate.
Grazie al movimento verso l’esterno dello strato superficiale della cute del condotto, il cerume tende ad essere
progressivamente espulso (in 6-12 settimane).
Ha un ruolo di protezione per la delicata pelle del condotto uditivo esterno.

4
un sistema di trasporto del cerume verso la parte esterna, e si va a rimuovere una componente
utile e benefica per la salute dell’orecchio.

2. ORECCHIO MEDIO: è una centrale di trasformazione dell’energia meccanica ed è posto tra la


membrana timpanica e la coclea.

È suddiviso in:
-Tuba uditiva o di Eustachio.
-Cassa del timpano,
-Apparato mastoideo.

La tuba di Eustachio è un canale che pone in comunicazione la rinofaringe con la cassa del
timpano. È costituita da un canale osseo, nel suo terzio più vicino alla cavità dell’orecchio
medio, e fibro-cartilagine, nei suoi due terzi più vicino alla rinofaringe. Sulla superficie esterna
della parte fibro-cartilaginea della tuba uditiva si inseriscono i muscoli peristafilini (elevatore
e tensore del palato). Questi muscoli trovano come altro punto di inserimento il palato molle
e sono innervati dai rami motori della terza branca del trigemino.
La cassa del timpano è una fessura appiattita a forma di lente biconcava; vi si distinguono due
pareti, laterale e mediale, e una circonferenza suddivisa in quattro pareti: anteriore,
posteriore, superiore e inferiore. La parete laterale è costituita quasi interamente dalla
membrana timpanica. Quest’ultima è posta su un piano diretto in basso e in avanti e ha forma
ellittica.

La membrana del timpano appartiene all’orecchio medio, ma rappresenta il punto di


passaggio tra l’orecchio esterno e quello medio. Essa è tesa mediante un anulus (anello non
circolare, perché nella parte superiore è mancante) e si riconoscono due parti:
1. PARS TENSA, più estesa, in cui è presente lo strato fibroso;
2. PARS FLACCIDA, che costituisce la porzione superiore della membrana timpanica,
caratterizzata dalla mancanza dello strato fibroso.
Per quanto riguarda l’anatomia topografica, nella porzione superiore e centrale della pars
tensa, si inserisce il manico del martello, con un decorso obliquo, dall’alto in basso e
leggermente dall’avanti all’indietro. Esso permette di dividere schematicamente la membrana
del timpano in 4 quadranti, tracciando una linea parallela e lungo l’asse maggiore e una
perpendicolare, passando per l’estremità del martello (ed equivale ad una depressione della
membrana timpanica, chiamata umbo): anterosuperiore, anteroinferiore, posterosuperiore e
posteroinferiore. Questo, per esempio, aiuta ad identificare la posizione di una perforazione.

La membrana timpanica non ha l’anulus nella porzione superiore perché vi è una sorta di
soppalco della cavità dell’orecchio medio, dove alloggiano gli ossicini, i quali devono vibrare

5
ed entrare quindi in contatto con una superficie morbida, elastica e aerea. La catena
ossiculare (martello, incudine, staffa) è appesa mediante dei legamenti, che la mantengono
in sospensione, in modo che sia libera di muoversi e vibrare.
Dall’altra parte dell’orecchio medio abbiamo i rilievi di quelle che sono le componenti
dell’orecchio medio. Il promontorio è l’espressione del giro basale della coclea, che sporge
nell’orecchio medio e si rileva, in posizione centrale, a livello della parete mediale della cassa
del timpano.

Si hanno anche dei rilievi:


1. Il nervo timpanico (ramo del nervo glossofaringeo), che solca la superficie del
promontorio;
2. Il nervo faciale, che crea una sporgenza a livello del segmento timpanico del segmento
osseo, superiormente e inferiormente rispetto alla finestra ovale;
3. Il labirinto posteriore, attraverso i canali semicircolari.

Vi sono poi dei fori:


1. FORO DELLA TUBA DI EUSTACHIO, anteriormente, nel terzo superiore;
2. ADITUS AD ANTRUM, posteriormente, che permette la continuazione e la comunicazione
dell’orecchio medio con la cavità della mastoide;
3. FINESTRA OVALE, che mette in rapporto la staffa con l’orecchio interno. L’elasticità della
membrana che chiude questo orifizio è fondamentale per la trasmissione della pressione
all’orecchio interno e permette alla staffa di approfondarsi nella cavità dell’orecchio
interno;
4. FINESTRA ROTONDA, situata più in basso, che permette il movimento del liquido
all’interno dell’orecchio interno e funge da punto di dispersione dell’onda che viene
generata a livello della finestra ovale. In questo modo quando qualcosa entra da una parte
(in genere la staffa a livello della finestra ovale), la membrana che sigilla questo orifizio
può estroflettersi per compensazione.

Rappresentando schematicamente la cavità della cassa timpanica si hanno:


o un pavimento, che corrisponde all’IPOTIMPANO;
o un tetto (EPITIMPANO), che corrisponde al pavimento della fossa cranica media;
o una parete posteriore (RETROTIMPANO), in cui si trovano tutta una serie di strutture
tra cui si distingue il foro che ci fa comunicare con la mastoide;
o una parete anteriore;
o una parete mediale, che è rappresentata dall’estroflessione della coclea, a livello della
quale vi sono due fori:

6
 la finestra ovale, sigillata dalla staffa;
 la finestra rotonda, coperta da una membrana, che permette la trasmissione
delle onde meccaniche attraverso i fluidi presenti all’interno della coclea, così
che queste possano avere una via di fuga.

L’orecchio medio, in realtà, non corrisponde al timpano. Infatti, esso è più grande della
dimensione del timpano e si compone di:
1. ATRIO, rappresentato dalla cassa timpanica che può essere esaminata attraverso il
condotto uditivo esterno; l’atrio contiene il manico del martello, parte del processo lungo
dell’incudine e il capitello della staffa;
2. EPITIMPANO (o ATTICO), localizzato dalla parte più alta della cassa del timpano e
delimitato lateralmente dal muro della loggetta, su cui si inserisce la PARS FLACCIDA della
membrana timpanica. L’epitimpano contiene la testa del martello e il corpo e l’apofisi
breve del martello;
3. PROTIMPANO, cavità vuota posta anteriormente in cui si apre la tuba di Eustachio;
4. RETROTIMPANO, cavità dalla morfologia estremamente complessa posta nella parte più
posteriore della cassa del timpano e in cui si trovano le due finestre, ovale e rotonda, e la
staffa;
5. IPOTIMPANO (con il golfo della vena giugulare interna, curvatura che viene effettuata da
questa vena subito prima di entrare nel cranio attraverso il seno sigmoideo).

La catena ossiculare è composta da


martello, incudine e staffa.
Il martello presenta un manico, un collo e
una testa. Sul collo del martello si inserisce
il tensore del timpano. La superficie
postero-mediale della testa presenta
un’area ellittica che costituisce la superficie
di articolazione con l’incudine.
Esso produce un maggiore effetto, risponde
ad un principio ergonomico. La presenza di
un manico lungo ed una testa più pesante
amplifica la forza trasmessa.
L’incudine ha un processo lungo e un
processo corto. La faccia anteriore del
corpo dell’incudine si articola con la testa
del martello e ha due piccoli processi che
servono per bilanciare l’azione del martello
e trasmetterla al capitello della staffa,
mediante il processo lungo.
La staffa è composta di un capitello, che si collega direttamente mediante l’articolazione
incuno-stapediale, un collo, una crus anteriore, una crus posteriore e una platina. La platina
della staffa, che ha contorno ovalare, presenta una faccia laterale rivolta verso la cassa
timpanica e una faccia mediale rivolta verso l’orecchio interno. La platina della staffa è
contenuta nella finestra ovale. Fra la platina della staffa e la finestra ovale è interposto un
anello fibroso, chiamato LEGAMENTO ANULARE DELLA STAFFA.
Sulla crus posterior della staffa si inserisce il muscolo stapedio.
I muscoli, con un meccanismo di tipo riflesso, si contraggono e irrigidiscono la catena
ossiculare, così da proteggerla da suoni troppo intensi, che potrebbero addirittura causare
la rottura delle membrane e della catena ossiculare.

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È un sistema di trasmissione meccanica che permette, quando si giunge alla staffa, un
aumento di pressione (energia, non sensazione) di circa 18 volte della pressione assoluta,
non di più. Un’eccessiva sensibilità uditiva crea disagi e disturbi, sia a livello di sonno che di
mancata protezione dai suoni forti.
Questo sistema è performante perché va appunto ad amplificare con un sistema di leve di
secondo grado con due fulcri che corrispondono alle due articolazioni. Abbiamo quindi una
prima amplificazione data dal martello, una seconda generata dall’incudine per via dei piani
di articolazione e poi l’energia viene trasmessa alla staffa che, attraverso un sistema a pistone,
la trasmette alla finestra ovale e in questo modo all’orecchio interno.

L’apparato mastoideo è costituito da un insieme di cellule ossee che occupano il processo


mastoideo. La cellula più grossa è denominata antro e comunica con la cassa del timpano
mediante l’ADITUS AD ANTRUM. Tutto il restante apparato mastoideo è costituito da un
insieme di piccole cellule ossee che fanno capo all’antro e che occupano tutto il processo
mastoideo, estendendosi fino alla radice dell’osso zigomatico e circoscrivendo il labirinto
osseo.
È un sistema simile ai seni paranasali. È una cavità ossea piena d’aria. Alleggerisce il peso
dell’osso in questa regione e co-partecipa alla salute della cavità dell’orecchio medio.
Permette un buon livello di areazione e permette la generazione di un flusso di aria in
collaborazione con la tuba di Eustachio. Quindi permette di gestire meglio i fenomeni di
accumulo di catarro o muco o pus (quando c’è infezione), così che le secrezioni vengano
portate verso la laringe.
Nei bambini, dove la tuba è molto piccola, se è piena di catarro impedisce la corretta
percezione dei suoni.

3. ORECCHIO INTERNO: è una centrale di trasduzione del segnale elettrico a segnale


nervoso.
È una cavità con struttura labirintica e costituita da:
o vestibolo (porzione centrale);
o coclea (a forma di chiocciola, anteriore);
o labirinto posteriore, costituito da una serie di
canali semicircolari (ossei e membranosi) disposti sui
diversi piani dello spazio.

(A è il foro della finestra ovale, B è il foro della finestra rotonda)

È costituito da un labirinto osseo e da un labirinto membranoso, tra i quali si pone lo spazio


perilinfatico, nel quale è contenuto un liquido denominato PERILINFA.
Il labirinto osseo è formato da una cavità centrale, il vestibolo; da esso hanno origine
posteriormente i tre canali semicircolari ossei e anteriormente il canale spirale della chiocciola.
Il labirinto osseo comunica lateralmente con la cassa del timpano attraverso la finestra ovale
e rotonda.

Anche se la finestra ovale costituisce un punto mediano tra le due componenti labirintiche,
anteriore e posteriore, tutto ciò che si pone al davanti è il labirinto anteriore, organo
dell’udito, mentre il labirinto posteriore è coinvolto nel mantenimento dello stato di

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equilibrio. L’equilibrio non è uno dei cinque sensi, ma è una condizione fisiologica del nostro
organismo, nato in particolare quando l’uomo ha assunto la posizione eretta.
NOTA BENE: nonostante siano due mestieri diversi, essi sono svolti all’interno dello stesso
concentrato anatomico poiché vanno a braccetto: l’udito infatti rappresenta l’espressione di
controllo del mondo che ci sta alle spalle, quasi come se avessimo degli occhi dietro.

La chiocciola ossea è costituita da un blocchetto osseo di forma conoide, della lunghezza di 1


cm circa, nel cui interno è scavato il canale spirale della chiocciola. Questo canale si appoggia
ad un corpo centrale detto MODIOLO e si sviluppa in tre giri, basale, intermedio e apicale.
Dentro il canale osseo vi è una sporgenza ossea, la LAMINA SPIRALE OSSEA, sulla quale si
inseriscono le strutture membranose della coclea.
Il LABIRINTO MEMBRANOSO COCLEARE (canale cocleare), contenuto all’interno della
chioccola ossea, è lungo circa 36 mm e termina in prossimità dell’apice della chiocciola con
un’estremità a fondo cieco. Al suo interno contiene un liquido detto ENDOLINFA.
La coclea non è un canale unitario, ma è suddivisa, mediante il canale cocleare, in tre scale
[l’ultima è descritta più avanti]:
o Scala vestibolare che corrisponde alla finestra ovale, da cui origina questo canale
semimembranoso. Essa si dirige verso l’apice della chiocciola (elicotrema), da cui
parte la scala timpanica. Essa comunica con la cavità del vestibolo;
o Scala timpanica, che inizia a livello dell’elicotrema e termina a livello della finestra
rotonda.
o Scala media.
All’interno della scala vestibolare e della scala timpanica è contenuta la perilinfa.

All’interno del canale, delimitato appunto da queste membrane, si trova sostanzialmente


acqua con una composizione chimica simile ai liquidi intra ed inter cellulari in base alla
porzione considerata. Dunque, la trasmissione della perturbazione passa dal mezzo aereo, al
timpano, alle ossa e infine a questo ambiente liquido. Il pistone (staffa) va a generare dalla
finestra ovale un movimento del liquido che si sposta prima all’interno della rampa vestibolare
e poi, grazie ad un forellino di comunicazione, denominato elicotrema, si torna indietro sulla
rampa timpanica che termina con un’estroflessione della membrana della finestra rotonda. Si
genera quindi un vero e proprio circolo del liquido.
All’interno la coclea presenta una scala vestibolare (andata), una scala timpanica (ritorno) e in
mezzo si trova il dotto cocleare chiuso tra la membrana di Reisner superiormente e la
membrana basilare inferiormente. Quest’ultima è tesa tra la parete esterna della chiocciola e
il modiolo, una sporgenza ossea.

L’anatomia di quest’organo consente un lavoro perfetto: l’onda entra a livello della scala
vestibolare, arriva in cima e torna indietro attraverso la scala timpanica. Nell’ambito di questo

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movimento tutte le membrane si metteranno a vibrare. All’interno del dotto cocleare si trova
l’organo del Coorti, che è deputato a tradurre la vibrazione in un impulso elettrico. Esso è

costituito dalle cellule cigliate interne e dalle cellule cigliate esterne, di cui le prime sono le
vere cellule acustiche. Quindi la trasformazione di questa energia meccanica a vario titolo
(aerea, tra ossicini, onda) viene trasdotta in energia nervosa e permetterà di sentire un suono
complesso.

Il canale cocleare ha forma triangolare. Il suo lato esterno, addossato alla parete della
chiocciola, è costituito dalla stria vascolare formata da cellule epiteliali a contatto, in
profondità, con un ricco sistema di capillari. Il lato superiore (vestibolare) è costituito dalla
sottile MEMBRANA DI REISNER. Il lato inferiore (timpanico) è costituito dalla MEMBRANA
BASILARE, che si presenta come un prolungamento della lamina spirale ossea. La membrana
basilare è caratterizzata da una notevole elasticità nella sua parte più distale.

Esiste poi la scala media o dotto cocleare, sempre


all’interno della chiocciola, a livello della quale vi è
una membrana basale su cui poggia l’Organo di
Corti, apparato di trasduzione che trasforma
l’energia elettrica in energia nervosa. Da questo
partono le fibre nervose cocleari che costituiscono il
nervo cocleare. L’organo del Corti è costituito da una
serie di cellule di sostegno che fanno da appoggio per
le cellule cigliate interne ed esterne. Le cellule
cigliate interne sono disposte in fila singola e sono
circa 4000. Le cellule cigliate esterne, invece, sono
disposte in triplice fila e sono circa 12000. Insieme
creano un tunnel all’interno del quale circola la
perilinfa (cortilinfa).
Le cellule cigliate, sia interne che esterne, sono
caratterizzate dalla presenza di stereociglia,
estroflessioni della membrana cellulare che protrudono nello spazio endolinfatico.

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4. VIE UDITIVE CENTRALI: espressione di trasporto dei segnali elettrici verso la corteccia
cerebrale.

Il nervo acustico, che dà origine con i due nervi vestibolari, superiori e inferiori, all’VIII nervo
cranico, è situato nel condotto uditivo interno, canale osseo lungo circa 2 cm, localizzato nella
parte più interna della rocca petrosa. Il condotto uditivo interno è diretto lungo un piano che
è l’ideale prolungamento del condotto uditivo esterno e che si apre nell’angolo ponto-
cerebellare, a metà della superficie interna della rocca petrosa.
La componente nervosa cocleare è costituita dalle cellule nervose che partono dall’organo
del Corti; i nervi vestibolari superiori e inferiori, invece, partono dalle macule dei canali
semicircolari, dall’utricolo e dal sacculo, e portano le afferenze di natura vestibolare.
Fuoriuscito dal condotto uditivo interno, il nervo acustico attraversa la cisterna magna
dell’angolo ponto-cerebellare e penetra nella parte inferiore del ponte per raggiungere i nuclei
cocleari ventrale e dorsale. Dai nuclei cocleari ha origine la via acustica centrale. Le fibre

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nervose che emergono dai nuclei cocleari, attraverso il lemnisco laterale, si dirigono al corpo
genicolato mediale. In questo tragitto sono presenti numerose stazioni nucleari intermedie
[vedi il libro, pg.10]. La via acustica si dirige poi verso le aree corticali, in particolar modo verso
l’area acustica primaria situata nella corteccia del lobo temporale (AREA DI BROADMANN) e
nelle aree acustiche secondarie nella CIRCONVOLUZIONE DI HESCHL e nella circonvoluzione
temporale superiore.
Le vie cocleari efferenti sono costituite da fibre a partenza dal complesso olivare superiore e
dirette alle cellule cigliate interne ed esterne.

FISIOLOGIA DELL’ORECCHIO
È molto importante conoscere l’anatomia e la funzionalità, in modo da capire quelli che sono i sintomi
e i meccanismi fisiopatologici di qualsiasi patologia.
L’organo dell’udito, sotto il profilo anatomo-funzionale, può essere diviso in tre parti:
1. APPARATO DI TRASMISSIONE DELL’ENERGIA MECCANICA VIBRATORIA, costituito
dall’orecchio esterno e dall’orecchio medio. La sua funzione è quella di condurre il segnale
acustico, inteso come vibrazione aerea, alle cellule neurosensoriali con la minor perdita
possibile di pressione acustica.
Qualsiasi patologia a questo livello darà inizialmente un deficit uditivo, di tipo trasmissivo.
Questo vuol dire che manca l’amplificazione meccanica, ma non si è sordi perché il suono è
un fenomeno che si trasmette anche attraverso l’osso. Esso raggiunge il timpano e perturba
anche le ossa craniche, andando a determinare un meccanismo di compressione e quindi
perturbazione. Infatti, il suono può raggiungere l’organo di Corti anche attraverso una via
alternativa rispetto alla classica via del timpano e dell’apparato ossiculare. Verrà persa però
l’amplificazione in termini meccanici e quindi verranno persi 50-60 dB di udito, per cui il
soggetto percepisce solo suoni, caratterizzati da valori di intensità maggiori di 50-60 dB.
Ad esempio, se una patologia inchioda la staffa il soggetto avrà una ipoacusia di trasmissione,
ma non totale (anacusia o cofosi) perché l’organo del Corti è comunque in grado di funzionare
e la perturbazione del liquido all’interno della coclea può essere trasmessa attraverso qualsiasi
mezzo. Si è paradossalmente in grado di sentire anche dai piedi. La vibrazione viene poi
trasmessa da tutte le ossa fino a quelle craniche che indurranno una perturbazione del liquido
e una vibrazione dell’organo del Corti, che è il meccanismo definitivo della trasduzione da
energia meccanica a elettrica. Vengono persi però il fattore di amplificazione e la via più
ergonomica, quindi ci sarà comunque una ipoacusia.

2. APPARATO DI TRASDUZIONE DELL’ENERGIA MECCANICA-VIBRATORIA IN ENERGIA


NERVOSA, costituito dalle cellule cigliate dell’organo del Corti. Esso svolge la funzione di
trasformare un evento meccanico, qual è la vibrazione delle molecole di un mezzo fisico (aereo,
solido o liquido), in un segnale bioelettrico che possa essere inviato e analizzato da parte dei
centri nervosi, per dare origine alla sensazione acustica (trasduzione meccanoelettrica). La
funzione di trasduzione è svolta dall’organo del Corti, che analizza il segnale acustico,
definendone principalmente frequenza e intensità.
Se si hanno delle alterazioni a questo livello, non si avrà la produzione di un segnale elettrico.

3. APPARATO DI TRASFERIMENTO DELL’ENERGIA NERVOSA E DI TRASFORMAZIONE IN


SENSAZIONE ACUSTICA, costituito dalle fibre nervose del nervo acustico, dalla via acustica
centripeta e dai suoi nuclei.
Il corredo nervoso, invece, è l’apparato di trasferimento e trasformazione. Se si ha un deficit,
quale un anziano con problemi di tipo ischemico, il segnale elettrico arriva, ma non riesce ad
essere interpretato a livello cerebrale, indipendentemente dall’intensità del suono.
I giochi visivi servono come diagnosi per individuare quei pazienti che occorre protesizzare.
Infatti, se il paziente non è in grado di fare una correlazione tra una parola e un’altra similare,

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si avrà un difetto di interpretazione del messaggio verbale e quindi un problema a livello della
resa dell’apparato acustico, come nel caso di danno ischemico.

Ovviamente le patologie sono poi anche più complesse. Ad esempio, l’otosclerosi, che è una delle
principali patologie che causa un blocco della staffa, causa a lungo andare un avvelenamento cronico
del liquido all’interno del labirinto e causa poi anche una morte delle cellule acustiche, effetto che si
manifesta a distanza di 20 anni.

Esiste una correlazione per quanto riguarda l’apparato di trasduzione. Così come l’apparato di
trasferimento e di trasduzione in sensazione acustica.

Il padiglione auricolare e l’orecchio esterno riescono ad amplificare il segnale acustico di circa 10-15
dB alle frequenze del campo tonale comprese tra 2 e 4 kHz. In particolar modo, il padiglione
auricolare esercita un’azione di convogliamento dell’energia meccanica vibratoria nel condotto uditivo
esterno, concentrandola in un’area più ristretta con conseguente incremento della pressione sonora.
Il condotto uditivo esterno, invece, conduce l’onda sonora sulla superficie della membrana timpanica.
Con il tappo di cerume si ha una perdita di 10-15 dB, soprattutto per quanto riguarda le frequenze
tra 3000 e 4000 Hz.
L’apparato ossiculare e la membrana timpanica, che costituiscono il sistema di amplificazione,
amplificano di circa 50-60 dB. L’apparato di trasmissione comprende anche la tuba di Eustachio,
elemento molto importante. Nel momento in cui si va sott’acqua e si scende anche di 2 metri, aumenta
la pressione e questa tende a far introflettere la membrana timpanica, perdendo di elasticità.
Il timpano è soggetto, naturalmente, a delle pressioni importanti, per esempio dell’acqua o
atmosferica, le quali devono essere equivalenti ai due lati della membrana timpanica (il timpano è una
membrana elastica e ha un limite di rottura. Per far sì che il timpano abbia sempre la medesima
performance si ha un fenomeno di equiparazione continua delle pressioni ai due lati del timpano e
questo fenomeno si chiama COMPENSAZIONE. Si ottiene mediante la tuba di Eustachio e mediante
l’azione dei muscoli del palato, che ne permettono l’apertura, mediante il processo di deglutizione (9-
13 volte al minuto). Questo accade sia per le variazioni di pressione positive che per quelle negative,
ad esempio quando si vola.
La tuba di Eustachio permette la comunicazione tra la cavità dell’orecchio medio e la rinofaringe;
inoltre ha anche una caratteristica difensiva: meccanicamente tende ad asportare, mediante la
pressione negativa originata dall’apertura, le secrezioni verso la cavità nasale e quindi verso l’esterno.
Si ha anche un’azione di drenaggio per evacuare le secrezioni.

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Esistono poi degli archi riflessi, o meglio un sistema di difesa dai suoni con potenza troppo elevata.
Nel caso in cui ci sia un suono troppo forte, prima si prova dolore e poi si può arrivare alla rottura del
timpano, perché viene esercitata una grande pressione sul timpano. Per questo motivo ci sono dei
sistemi automatici, controllati da dei riflessi, che irrigidiscono la catena ossiculare andando a ridurre il
suo effetto di amplificazione. Come effettori del riflesso intervengono muscoli, in particolare il tensore
del timpano e lo stapedio. Essi scattano automaticamente e si irrigidiscono (contrazione) quando a
livello dei nuclei del tronco viene registrata un’alta intensità sonora. In questo modo viene bypassato
un meccanismo che sarebbe altrimenti troppo lungo, che vedrebbe il coinvolgimento della corteccia.

A livello della coclea vi sono dei liquidi:


o Endolinfa: all’interno delle membrane;
o Perilinfa: all’esterno delle membrane:
o Cortilinfa: all’interno dell’organo del Corti.
Il movimento dei liquidi è qualcosa di estremamente preciso, con un funzionamento simile ad una
tastiera. L’affondamento della staffa costituisce un’onda, ma i suoni complessi sono composti di suoni
a diverse frequenze, che devono essere registrati come differenti ma integrati in contemporanea. Ciò
che ci permette di farlo è il fatto che un’onda va a stimolare la membrana tettoria in modo massimale
in un punto diverso in base alla sua frequenza. L’integrazione poi di tutte le onde che hanno un
massimale in diversi punti della coclea permetterà di percepire il suono complesso. Il sistema per il
quale ad ogni punto della membrana tectoria corrisponde una determinata frequenza prende il nome
di localizzazione tonotopico, quindi un suono complesso determinerà in contemporanea diverse
vibrazioni della membrana tectoria, con ampiezza differente in punti diversi della chiocciola. Questi
daranno origine a potenziali d’azione di fibre nervose che correranno tutte insieme nello stesso nervo
arrivando a stimolare aree differenti del cervello che genereranno successivamente la percezione del
suono.

A livello delle cellule ciliate, in base alla direzione del movimento, si avrà una depolarizzazione o una
ripolarizzazione. Se la deflessione avviene in direzione del chinociglio si ha una depolarizzazione,
quindi la cellula si eccita, grazie all’apertura dei canali di trasduzione e alla conseguente penetrazione
all’interno della cellula cigliata di ioni K+; al contrario, nella direzione opposta, si ha ripolarizzazione.
Questo avviene grazie a correnti in entrata e in uscita di ioni potassio e sodio. È però necessario che
avvenga un contatto meccanico con la membrana tectoria, posta a livello dell’apice del chinociglio.
Le cellule cigliate INTERNE sono le uniche cellule che trasducono il segnale meccanico in segnale
elettrico, mentre le cellule cigliate ESTERNE fanno un lavoro meccanico di contrazione e di
avvicinamento della membrana tectoria alle cellule cigliate interne quando i suoni sono troppo

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intensi (meccanismo di protezione) o quando i suoni sono talmente minimali che non si riesce ad
ottenere l’eccitazione delle cellule. In quest’ultimo caso la membrana tectoria si avvicina alle cellule
cigliate.
Le cellule cigliate esterne sono anche implicate nel processo di amplificazione della vibrazione della
membrana basilare per stimolazioni acustiche di intensità inferiore ai 40-50 dB. Infatti, esse sono
sempre a contatto con la membrana tectoria e sono in grado di attivarsi anche in presenza di
oscillazioni meno ampie della membrana basilare. La loro depolarizzazione determina la contrazione
delle proteine contrattili presenti al loro interno; l’accorciamento così ottenuto delle cellule cigliate
esterne causa una trazione sulla membrana tectoria, che viene portata a contatto con le stereociglia
delle cellule cigliate interne, che vanno così incontro a depolarizzazione.

L’apparato uditivo quindi è composto da una componente meccanica, con meccanismi di difesa e di
rinforzo, e da una nervosa, più intelligente ed in grado di amplificare il contatto tra le cellule ciliate
interne e la membrana tectoria. Così è possibile sentire anche suoni molto deboli.

Non siamo in grado di percepire né gli infrasuoni né gli ultrasuoni. Sentiamo bene i suoni, le cui
frequenze sono comprese tra 125 e 8000 Hz, ossia le frequenze tipiche della voce. Quindi il nostro
sistema uditivo è progettato per amplificare le frequenze tipiche della voce (all’interno delle quali
rientrano anche altri tipi di suoni). [In realtà, come di dice il libro, l’orecchio umano di un soggetto
giovane è in grado di percepire suoni di frequenza compresa tra 20 e 20.000 Hz. La sensibilità uditiva
è massima per le frequenze centrali del campo tonale, ambito in cui sono contenute le frequenze che
caratterizzano i segnali vocali. I toni più gravi e più acuti, per determinare una sensazione acustica,
debbono essere presentati ad un’intensità più elevata].

La percezione acustica è la trasformazione di un suono in un suo significato. È indispensabile perché


tutto ciò che ci giunge tramite il canale uditivo, senza dubbio uno fra i più importanti dei cinque sensi
per la specie Homo sapiens sapiens, possa essere utilizzato al meglio. Il ruolo di questa abilità è legato
non solo al benessere dell’individuo adulto, ma anche al suo normale sviluppo in età evolutiva.

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Inoltre, la percezione acustica è fortemente influenzata dalla memoria: quando siamo piccoli
nasciamo in grado di sentire i suoni, ma non siamo ancora in grado di interpretarli. L’unica cosa che
sappiamo è che il feto, immerso in un liquido, per esempio, ha già imparato a riconoscere la voce della
madre perché il suono ha già raggiunto l’orecchio del bambino. Infatti, l’unico suono che è in grado di
tranquillizzarlo è la voce della madre perché la conosce e l’ha memorizzata.

Le categorie di sonorità pervengono dal mondo esterno, da altri individui, possono essere di natura
linguistica e caratterizzate da sonorità particolari, che ci permettono di distinguere i diversi suoni (per
esempio, ci aiutano a distinguere i diversi tipi di soffi cardiaci).
La percezione uditiva è un atto di categorizzazione delle sonorità che giungono all’orecchio. L’input
acustico è analizzato dai centri nervosi e riferito ad una classe di cose ed eventi. Le classi si sviluppano
in base all’esperienza con certi attributi definitori, detti tratti distintivi. Nella percezione acustica
giocano quindi un ruolo di fondamentale importanza memoria e apprendimento.

La categorizzazione degli stimoli acustici avviene grazie ad alcuni parametri propri della percezione
uditiva:
o COORDINAZIONE UDITIVO-MOTORIA: abilità precoce per cui ad uno stimolo corrisponde
un movimento (per esempio tutte le volte che nella seconda guerra mondiale si sentiva il
rumore di una bomba, ci si buttava a terra);
o SEPARAZIONE FIGURA-SFONDO: abilità nel concentrare l’attenzione sullo stimolo che ci
interessa (che non è necessariamente il più forte); fra tutti quelli presenti ne deriva che
buona parte delle informazioni, non utili o non interessanti, non giungono alla corteccia e
non occupano il canale percettivo, che si può concentrare sulle componenti interessanti
del segnale acustico;
o COSTANZA TIMBRICA: abilità nel riconoscere una sonorità per le proprie caratteristiche
timbriche (per esempio, il timbro di voce che cambia determina un mantenimento
costante dell’attenzione;
o SEPARAZIONE SILENZIO-SONORITÀ: abilità che permette di determinare la durata dello
stimolo acustico;
o SEPARAZIONE IMPULSIVO-COMPULSIVO;
o SEPARAZIONE DEL SUONO E DEL RUMORE: intendendo come suono la parte del segnale
acustico che ha interesse (per esempio, la voce della persona con cui si sta parlando) e
come rumore quella che non ha interesse (per esempio, il rumore di fondo in un ambiente
frequentato da molte persone che parlano contemporaneamente);

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o DINAMICA DI ALTEZZA: abilità di giudicare l’andamento della frequenza nel tempo;
o DINAMICA DI INTENSITA’: abilità nel trarre informazioni dal variare nel tempo dei rapporti
fra l’intensità di sonorità successive;
o SEPARAZIONE FRA SONORITA’ CONTINUE E SONORITA’ CONTINUE REGOLARMENTE
INTERROTTE.

La via acustica è la via, fra tutti gli organi di senso, ad avere il maggior numero di nuclei sottocorticali
(6-50). Ha imparato quindi a specializzarsi in assenza di un cervello, inteso come corteccia cerebrale.

La via acustica, attraverso sistemi riflessi, determina anche comportamenti emotivi: per esempio, una
persona che mette in soggezione lo può fare anche solo cambiando il tono della voce. Il pianto di un
bambino, d’altra parte, in una madre determina un aumento della montata lattea. Questo avviene
grazie all’amigdala e alla sostanza reticolare, per cui mediante delle connessioni, un trigger uditivo
diventa espressione ormonale e quindi espressione fisica.

Inoltre, a livello del tronco encefalico, si ha l’esatta localizzazione della sorgente sonora, grazie
all’EFFETTO STEREOFONICO. Esso determina il fatto che il rumore arriva in modo diverso rispetto alla
posizione sia della sorgente emittente che ricevente. La capacità di localizzare, infatti, si basa sulla
differenza di intensità percepita e soprattutto in base al ritardo nella percezione tra due orecchie. Per
questo motivo, per esempio, in una camera anecoica, in cui non si sentono arrivare le cose e non si
hanno suoni intorno da decodificare, viene a mancare la componente della localizzazione sonora che
ci dà sicurezza.

Si parla invece di ORECCHIO ASSOLUTO, facendo riferimento all’abilità di un direttore d’orchestra, il


quale è in grado di distinguere il suono di un triangolo da tutti gli altri strumenti, durante il concerto.

Altra cosa importante è che il sistema uditivo agisce in presenza di un eccesso di informazioni, ossia
in RIDONDANZA. La ridondanza può essere distinta in: intrinseca (dovuta ad un eccesso di strutture
anatomiche) ed estrinseca (dovuta ad un eccesso di informazioni contenute nei segnali acustici che
percepiamo. Ne deriva che:
o È sufficiente solo parte del contenuto di un messaggio affinché questo possa essere
correttamente compreso, quindi la presenza di rumore disturbante non necessariamente
impedisce il riconoscimento del segnale utile.
Unendo quindi il significato di quello che si percepisce, di quello che si conosce, il contesto
in cui ci si trova e la gestualità, si è in grado di capire di cosa si stia parlando. Questo è il
motivo per cui molti tardano a mettere la protesi acustica: capiscono ma non sentono;
o Buona parte dei segnali acustici presenti nell’ambiente non giungono alla coscienza in
quanto non utili, o addirittura fastidiosi;
o È possibile che la perdita di alcuni elementi neuronali non sia causa di un difetto della
funzione percettiva.

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19 marzo 2018 Otorinolaringoiatria Professor Succo

Filippo Lacatena

SEMEIOTICA DELL’APPARATO UDITIVO

Per quanto concerne l’anatomia topografica dell’apparato uditivo, lo abbiamo differenziato in quattro aree
distinte: l’orecchio esterno, l’orecchio medio (che insieme formano l’apparato di trasmissione), l’orecchio
interno (l’apparato di trasduzione) e l’area di trasferimento del segnale nervoso dall’orecchio interno alla
corteccia cerebrale, ossia l’apparato di trasferimento.

RACCOLTA DEI DATI ANAMNESTICI

Di fronte ad un paziente che riferisce di avere problemi uditivi l’elemento fondamentale è interrogarlo,
richiedere maggiori informazioni sulla sua sintomatologia e cominciare così a farsi strada tra le ipotesi
diagnostiche, senza richiedere subito esami strumentali. L’esame obiettivo infatti, prima di ricorrere a
strumenti sofisticati che ci forniscono una visione migliorata e amplificata, deve partire sempre dalla pura
osservazione del paziente, visiva e tattile: ad esempio è molto importante provare a premere sulla mastoide
per valutarne la dolorabilità.

La diagnostica strumentale poi permette, in seguito alla pre-selezione del paziente ottenuta tramite
l’anamnesi e l’EO, di identificare una sede di malattia (orecchio esterno, medio, interno, zona retrococleare
e cerebrale), o anche la severità della malattia stessa: questo perché l’insieme globale dei sintomi è scarno.

I sintomi tipici delle patologie dell’orecchio sono infatti:

 ipoacusia

 acufeni

 otodinia

 otalgia

 otorrea

 prurito

È necessario definire l’entità dell’alterazione dell’udito che deve essere trattata, e per farlo si utilizza l’esame
audiometrico tonale: si esegue facendo indossare al paziente delle cuffie e trasmettendo un suono puro a
frequenze differenti, che egli riferirà di aver percepito o meno. Questo esame permette di capire se il
soggetto è in grado di rispondere ad una stimolazione sensoriale.

L’ esame audiometrico vocale invece, che si effettua tramite una serie di parole o frasi stabilite dette al
paziente per valutare se è in grado di comprenderle e riferirle a sua volta, dà una informazione ben precisa
di quanto il paziente riesca ad elaborare la stimolazione sonora come messaggio verbale, e poi a ripeterlo.
Quest’ultimo esame è mirato a verificare la funzionalità di tutto l’apparato uditivo, compresi i centri di
integrazione.

IPOACUSIA

Si definisce normoacusico un soggetto che sente suoni puri a 20-25 dB.

Bisogna tener presente che dal momento della nascita siamo costantemente sottoposti a traumi acustici
(petardi, auricolari per la musica, ecc): il nostro udito quindi, sottoposto a queste pressioni, fin dalla giovane
età ha tendenza a calare.

Per convenzione però è stato dimostrato che fino a 20-25 dB si riesce a comprendere la maggioranza della
popolazione che non ha avuto nessun evento patologico, ed è da qui che deriva quindi la definizione di
normoacusia. Quando si supera la soglia dei 20-25 dB si comincia ad entrare nella patologia.

Le riduzioni di udito vengono classificate in:

 Unilaterale; il paziente viene definito anacusico destro o sinistro.

 Bilaterale; il paziente è definito cofotico.

 Lieve

 Media (nella fascia di perdita uditiva equivalente al potere di amplificazione dell’apparato


trasmissivo).

 Grave (quando ci si colloca nella fascia oltre la perdita di udito legata ad un deficit di trasmissione).

 Gravissima (nell’ordine di poche unità percettive).

Un problema che impatta il nervo uditivo, quindi oltre la coclea, determina un deficit neurosensoriale: viene
chiamato così perché nel momento in cui c’è una riduzione di udito che interessa sia la via aerea sia quella
ossea non è possibile localizzare il problema che ha determinato l’ipoacusia in questione. Quindi quando si
ha un'ipoacusia che interessa la via aerea, dove c’è un potere di amplificazione meccanico, e la via ossea,
dove invece la stimolazione arriva direttamente all’organo che effettua la trasduzione da energia meccanica
ad energia vibratoria, deve essere definito neurosensoriale: non percettivo o recettivo, perché tale
definizione sottintende il fatto che si è riusciti con esattezza a localizzare la sede del problema.

Se invece ci si trova davanti ad un esame dell’udito che rileva una perdita della via aerea importante, che non
corrisponde ad una perdita analoga per via ossea, in quel caso c’è la precisa indicazione che quello sia un
deficit di tipo trasmissivo. Ciò significa che per via aerea non c’è una stimolazione sufficiente a determinare
una sensazione uditiva, mentre per via ossea c’è la capacità di stimolare una sensazione uditiva, ma a molta
minore intensità. Infatti se si considera che il sistema trasmissivo è un insieme di leve che potenzia l’effetto,
si comprende perché la sensazione uditiva che viene evocata per via ossea, dove la trasmissione avviene
attraverso il tessuto, sia molto inferiore rispetto a quella che viene evocata dalla via aerea. Dunque da un
esame audiometrico che evidenzia una discrepanza tra via aerea e via ossea, vi è la possibilità di identificare
la sede del problema, che può essere quindi o a carico dell’orecchio esterno (il quale amplifica di circa 10-15
dB) o a carico del timpano o a carico degli ossicini (i quali invece hanno la capacità amplificativa di 18 volte il
segnale iniziale).
Ovviamente, ci può essere anche un insieme di deficit, ossia le ipoacusie miste. Ad esempio, se consideriamo
una patologia infettiva che interessa sia l’orecchio esterno che quello medio, questa determinerà una
ipoacusia di tipo trasmissivo, magari per perforazione del timpano o per compromissione della catena
ossiculare. Nel caso in cui però il processo infettivo si propaghi vicino e colpisca l’orecchio interno, accadrà
che anche le sue componenti siano danneggiate e si abbia una ipoacusia mista, trasmissiva + neurosensoriale.
La difficoltà quindi sta nella valutazione corretta di una compromissione dell’apparato di trasmissione e una
ipotetica compromissione concomitante dell’apparato di trasduzione.

Bisogna ricordare però che fisiologicamente con l’invecchiamento si ha un deficit uditivo. Quindi si deve tener
presente, nell’approccio al paziente, della sua età, di quale sia stato il suo trascorso, delle sue abitudini: viene
qui evidenziata l’importanza della anamnesi. Nell’invecchiamento, quando per ragioni degenerative è stata
compromessa la proiezione sulla corteccia del significato di un suono, ci sono due possibili esiti: o si riesce a
bypassare le vie normali e si cerca di ricreare degli schemi che aiutino il paziente, ad esempio con degli
esercizi che lo aiutino a tornare a capire oltre che a sentire, oppure si hanno dei pazienti che sono
comunicativamente persi.

ACUFENI

Si definiscono percezioni sonore in assenza di stimolazione fisiologica. Sono simili concettualmente ad una
allucinazione. Si possono avere delle sensazioni parafisiologiche, ma soggettive: possono essere degli acufeni
che derivano da lesioni dell’orecchio esterno o medio, come certi tumori vascolari che determinano un
iperafflusso di sangue all’interno dell’orecchio, e che causano un acufene di tipo pulsante. Vi è quindi una
sorgente sonora che emette un suono che viene percepito dall’orecchio, solo che questa sensazione è
soggettiva, perché è propria solo dell’individuo malato.

Esistono poi degli acufeni che derivano da lesioni di coclea, o dal nervo cocleare o anche dalla sfera psichica,
che determinano una stimolazione non più fisiologica ma patologica delle vie uditive, determinando un
acufene. Esso causa, in ogni caso, un effetto di mascheramento sui normali stimoli uditivi.

L’ultima frontiera nella cura degli acufeni sfrutta i nuclei ipotalamici attraverso cui passa la via uditiva prima
dei centri corticali: questi smistano il messaggio contenuto all’interno di una sensazione sonora, cercando di
eliminare quelli che possono dare origine ad archi riflessi (es. il pianto di un neonato che stimola la montata
lattea nella madre). L’apparato uditivo è costruito per focalizzarci sul messaggio verbale, dunque anche se
c’è un altro suono di fondo che tende a coprirlo, i nuclei della base riescono ad elaborarlo lo stesso. Per
eliminare gli acufeni oggi si sfrutta questo principio: si crea un suono con un significato, di frequenza simile
all’acufene, e lo si propone al paziente, ad una intensità molto elevata. Dopo un po’ il paziente lo cancellerà
o lo ridurrà. A questo punto, se si sospende il suono, il paziente non avvertirà più la presenza dell’acufene,
perché è stato attivato un meccanismo automatico di difesa dell’organismo. Questa tecnica viene utilizzata
in coppia con tecniche di rilassamento muscolare o ipnosi, ottenendo risultati soddisfacenti. L’effetto di
questa terapia è abbastanza duraturo perché stimola risorse fisiologicamente già presenti nel nostro
organismo.

OTALGIA

È il comune male all’orecchio, ossia dolore a carico delle strutture auricolari. Può essere dolore intrinseco,
ovvero riferito a strutture interne (otite, perforazione timpanica), e in questo caso si parla di otodinia, oppure
estrinseco, quando ad esempio è associato alla deglutizione, e in questo caso si parla di otalgia. Questo
fenomeno è possibile perché il nervo glossofaringeo, che innerva la base della lingua, le tonsille e la parte
superiore del vestibolo laringeo, dà anche dei rami per il timpano. Quindi quando il nervo è irritato, per
analogia di direzione dello stimolo nell’ afferenza sensitiva, si percepisce anche dolore al timpano.

OTORREA

Fuoriuscita di materiale liquido dal meato acustico esterno.

Può essere:

 Sierosa

 Mucosa

 Purulenta

 Emorragica (otorragia)

Un’ otorrea può determinare il mascheramento visivo di una patologia ben evidente, quindi bisogna cercare
di capire la sede da cui avviene la perdita, se è dovuta, per esempio, ad una escoriazione dell’orecchio
esterno, o ad una perforazione timpanica.

PRURITO

Di norma ha a che fare con una affezione dermatologica della cute del condotto uditivo esterno (eczemi,
irritazioni, micosi).

ESAME OBIETTIVO

Partendo dall’ispezione e dalla palpazione, che devono essere effettuate accuratamente, si cercano di
rilevare segni di infiammazione (irritazione e rigonfiamento della cute nella regione mastoidea che è indice
di mastoidite) o di asimmetrie nella proiezione dei padiglioni, indici di ipertrofia. L’esame prosegue con
l’otoscopia, che si serve di un otoscopio, una fonte di luce che permette di vedere l’interno del condotto
uditivo. Oggi questo tipo di esame è stato progressivamente sostituito da delle fonti di esaminazione che
sono i telescopi (otoscopi dotati di un’ottica endoscopica rigida e di una telecamera). In questo modo si ha
la possibilità di magnificare fino a 10-20 volte l’immagine che si vedrebbe normalmente all’interno
dell’endoscopio. Utilizzando invece l’otomicroscopio si ha la possibilità di lavorare con entrambe le mani
libere, poiché non è necessario occuparne una per tenere l’endoscopio: perciò anche per piccole manovre
chirurgiche o parachirurgiche l’otomicroscopio è molto pratico. L’unico svantaggio è il costo elevato.

Quadro otoscopico normale: il timpano è simile ad un vetro con un certo grado di opacità e smerigliatura. La
caratteristica di un timpano normale è quella di essere molto luminoso, perché la struttura membranacea è
tesa e riflette bene la luce. I quadri presentati nella slide mostrano vari gradi di alterazione a livello del
condotto, dell’orecchio medio, della membrana del timpano, o del complesso orecchio esterno + orecchio
medio. In tutti questi casi è evidente come il timpano perda le sue caratteristiche di riflessione.

Il punto E è il cosiddetto triangolo luminoso, ossia l’espressione speculare che il timpano fornisce al soggetto
quando osserva.
DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Fornisce prove che sono soggettive, semi-oggettive od oggettive. Nelle prove oggettive si può solo
dimostrare che il messaggio è arrivato alla fine della via uditiva, non si può dimostrare la ricezione corretta o
errata del messaggio inviato.

Le prove hanno come obiettivo quello di evidenziare un deficit uditivo, definire la sede della lesione, ricercare
la possibilità di correggere il deficit mediante protesizzazione e valutare l’efficacia di quest’ultima. La
valutazione dell’efficacia si basa sulla collaborazione del paziente, che ha interesse nell’ottenere la massima
resa protesica, e si effettua facendo prima delle prove senza protesi, poi con.

Bisogna evitare che la protesi causi il fenomeno di automascheramento dei nuclei della base citato prima:
invece di lasciar passare il segnale, essi lo bloccano. Nelle prove è necessario mantenere un certo grado di
linearità e semplicità per essere efficaci anche con pazienti anziani o bambini che non collaborano bene.

PROVE SOGGETTIVE

Dipendono dalle risposte fornite dal soggetto.

Quelle effettuate con il diapason sono:

 Test di Rinne: è la comparazione di una stimolazione fatta con lo stesso diapason, che emette un
suono puro, presentato prima per via aerea e poi per via ossea (appoggiandolo sulla mastoide). In
questo secondo caso la vibrazione passa direttamente nell’osso, stimolando la coclea, bypassando
l’apparato trasmissivo che ha un potere amplificativo di circa 18 volte. Dunque da questa valutazione
comparativa ci si aspetta che il suono nel secondo caso sia meno performante di quello per via aerea.
Comparando anche la durata, ci si accorge che il suono presentato per via aerea viene percepito più
intensamente e più a lungo. Ammettendo di avere un’interruzione a livello dell’orecchio medio ed
esterno, quindi con perdita dell’apparato di trasmissione, il paziente sentirà il suono del diapason
molto affievolito o non lo sentirà proprio per via aerea. Lo stesso suono presentato sul mastoideo
arriverà subito a livello cocleare e il paziente avrà un test di Rinne negativo: il test in questo caso
evidenzia che il paziente sente meglio per via ossea che per via aerea. Se il paziente fosse un
soggetto con un orecchio meccanicamente perfetto, ma invecchiato, sentirebbe meglio il suono per
via aerea che per via ossea, ma tutto molto più ridotto (su entrambe le vie, aerea e ossea): sente
meno per ipoacusia neurosensoriale inveterata.

 Test di Weber. Le orecchie, essendo due, portano ad un effetto stereofonico, ossia che misura la
latenza di fase (la discrepanza nel tempo di percezione di un suono tra un orecchio e l’altro) e
permettono così di conoscere la direzione di provenienza del segnale. Il test si effettua stimolando
per via ossea con un diapason posto sull’apice del cranio del paziente, in posizione il più possibile
centrale: in tal modo si rende equivalente la trasmissione ossea del segnale verso un orecchio e verso
l’altro. Questo, normalmente, dovrebbe esitare in una sostanziale equivalenza di stimolazione
acustica: il paziente non dovrebbe capire da dove provenga il suono. Il test deve essere effettuato
sempre dopo il test di Rinne, perché mentre quest’ultimo indica se l’ipoacusia è di tipo trasmissivo o
neurosensoriale, il test di Weber indica un’ipoacusia trasmissiva se il paziente sente dalla parte dove
sente meno, oppure indica ipoacusia sensoriale se sente dalla parte dove sente di più. In un orecchio
dove c’è una ipoacusia trasmissiva, si ha inibizione: non si sente, anche se l’orecchio funziona. Nel
momento in cui arriva una stimolazione per via ossea (test di Weber), quell’orecchio percepisce di
nuovo il suono, e il paziente riferirà di sentirlo da questo lato, perché dall’altro è abituato a sentire il
suono normalmente, mentre dal lato “ipoacusico” non più. Il suono arriva da entrambe le parti, ma
la sensazione sarà di sentirlo dal lato in cui c’è il problema di trasmissione: il diapason infatti manda
di colpo una stimolazione equivalente ad entrambe le coclee, e l’orecchio meno utilizzato ha la
sensazione di essere sovrastimolato.

AUDIOMETRIA TONALE LIMINARE

È un esame che si fa in una cabina silente che elimina il rumore di fondo (è stato notato che anche in una
stanza silenziosa c’è un rumore di fondo di 40-50 dB). Non si fa in una camera anecoica perché può essere
fastidioso, soprattutto per i pazienti anziani o bambini, in quanto la totale assenza di rumore toglie punti di
riferimento e può indurre agitazione.

L’ audiogramma si costruisce attraverso dei simboli di colore diverso (rosso= orecchio dx; blu= orecchio sx)
con una differenza a seconda che l’orecchio controlaterale sia o meno mascherato, perché il suono può
propagarsi per via ossea e bypassare un orecchio che non sente, per essere percepito dall’altro. Infatti
quando si fa diagnostica di un paziente con l’otosclerosi, in caso di ipoacusia trasmissiva secca si pone un
diapason sul malleolo della persona, che percepirà il suono trasmesso per via ossea (si usano suoni a tonalità
molto bassa). Da notare che anche questi sono esami soggettivi, perché è essenziale la collaborazione da
parte del paziente.

Recruitment: distorsione della sensazione di intensità presente in caso di ipoacusia cocleare.


I test utilizzati per palesarlo sono: Fowler, Luscher-Zwislocki, SISI.
Adattamento: diminuzione della sensazione acustica in seguito a stimolo prolungato nel tempo (tipico delle
patologie retrococleari). Determinabile con il test di Rosenberg.

AUDIOMETRIA SOPRALIMINALE

Sfruttano fenomeni che si verificano in caso di una lesione cocleare e retrococleare. Consistono in una scala
di suoni da 1 a 10 crescenti in intensità, che vengono sottoposti al paziente. I soggetti con ipoacusia cocleare
hanno la stessa gamma di sensazioni, ma la scala è ridotta: a 5 non viene percepito il suono, mentre a 8 viene
percepito un suono molto intenso, come un soggetto sano: presentano il fenomeno del recruitment, tale per
cui fino a metà della stimolazione sonora normale non hanno sensazione, cominciano ad avvertire una
sensazione a metà, per poi risultare subito fuori scala. In questi casi bisogna considerare che un apparecchio
acustico dovrà essere tarato in un range molto ridotto: c’è il rischio di portare la regolazione fuori scala a
causa del disturbo del paziente. Una lesione retrococleare determina invece il fenomeno di adattamento,
per il quale c’è stimolo fino ad una certa intensità e dopo un po’ questa stimolazione non si ha più, per lo
stesso motivo per cui i nuclei sottocorticali filtrano i rumori in eccesso.

AUDIOMETRIA VOCALE

Questi test possono avere una morfologia tipica, ossia ad S, dove si arriva ad una soglia di intellezione
(ripetendo correttamente le parole che vengono dette). Alcuni soggetti fino ad una certa soglia (es. 70dB)
capiscono la maggior parte delle parole dette, dopodiché iniziano a fallire: dopo questa soglia quindi è inutile
andare ad indagare; come rappresentato dalla curva, dopo quel valore-soglia c’è un calo per effetto distorsivo
del recruitment sul messaggio vocale. Tutti questi esami però sono soggettivi. Il bambino può essere
condizionato a dare delle risposte accoppiando due messaggi, uno visivo e uno uditivo: disaccoppiando i due
messaggi si valuta la reazione. Si parla in questo caso di audiometria semi-oggettiva.
Esempio 1: due bambole fanno un suono diverso, associate alla loro illuminazione. Ripetizione della prova.
Emissione solo del suono senza illuminazione: si valuta la reazione del soggetto. Se c’è ugualmente una
reazione significa che nella fase precedente del test era stato percepito anche il suono, non solo la luce.

Esempio 2: esistono dei riflessi condizionati tali per cui il bambino viene stimolato visivamente con qualcosa
che lo attiri e lo interessi (oggetti colorati). Dopo aver catturato la sua attenzione, si fanno suonare dietro di
lui dei campanellini per vedere se si gira: lo farà solo se ha sentito, perché non poteva vederli.

Questo tipo di audiometria comportamentale è a basso costo ed è servita negli anni per fare uno screening
neonatale dei disturbi dell’udito.

AUDIOMETRIA OGGETTIVA

Gli esami sovracitati si usano ancora nell’ambito della pratica medica, ma devono essere confermati da esami
oggettivi strumentali.

1) Ad esempio dall’ esame impedenziometrico: misura la cedevolezza del sistema orecchio medio (come un
foglio con sopra dei pesi dopo un po’ si rompe perché ha raggiunto il massimo della sua elasticità, allo
stesso modo il timpano, con dietro tutto l’apparato ossiculare, con l’applicazione progressiva di forze
arriverà al punto di rottura o irrigidimento). Questa è la timpanometria, che dà origine ad una curva a
campana che dimostra come il timpano possa essere elastico in maniera normale oppure sbilanciato nella
sua elasticità. Se il timpano è rotto si può applicare una pressione, ma questa pressione non dà origine a
nessuna variazione di elasticità, perché l’aria passa attraverso la rottura.

2) Nel sistema ossiculare ci sono dei muscoli, tra i quali il muscolo stapedio, che tramite un arco riflesso
ammortizzano l’eccessiva pressione (protezione contro i suoni troppo forti), per evitare danni all’orecchio.
Questo si attiva a 90dB: stimolandolo e osservando che il sistema pneumatico si irrigidisce, si capirà che
quel paziente sente normalmente. Se questo riflesso non si attiva, o il paziente non sente o ha qualcosa
che blocca la catena ossiculare. Anche questa è una prova oggettiva impedenziometrica.

3) Un’altra prova oggettiva sono i potenziali evocati uditivi1: si mettono degli elettrodi lungo il decorso del
segnale nervoso uditivo che misurano la velocità con cui il segnale è trasmesso. Se questo è passato con
timing corretti si deduce che la via acustica è libera. Può essere una prova polifrequenziale oppure essere
selettiva sulle singole frequenze (inviando una singola frequenza e osservando se questa si interrompe).
Questa prova è utile per i bambini neonati, per capire a che livello è il problema e per poterlo bypassare
con una protesi impiantabile, prima che questi sviluppino la loro capacità linguistica.

4) Infine c’è l’esame con cui si effettua lo screening delle ipoacusie congenite: si basa sul principio per cui
qualsiasi struttura meccanica emette un rumore quando funziona (anche l’orecchio, quando l’energia
meccanica colpisce la coclea e stimola le cellule ciliate). Se si è in grado di catturare il rumore emesso
dall’orecchio interno, si può capire se questo funziona o no: si parla di otoemissioni. L’orecchio viene
stimolato con un rumore polifrequenziale, si cattura con un apparato di registrazione inserito
nell’orecchio il rumore emesso dalle cellule ciliate in movimento, e si ha la dimostrazione che la coclea
funzioni. Questo è un esame oggettivo che permette di fare uno screening audiologico neonatale ma solo
dei danni cocleari. Per poter fare diagnosi precoce completa si deve accoppiare l’esame delle emissioni
otoacustiche con quello dei potenziali evocati.

1
Risposta elettrica che origina dalla via acustica in seguito a una stimolazione sonora.
ANATOMIA E FISIOLOGIA DELL’APPARATO VESTIBOLARE
L’apparato vestibolare, anche detto labirinto posteriore, è formato sia da una porzione ossea che da una
porzione membranosa. Tutte le cavità ossee presenti nel labirinto sono formate solo da un’intercapedine
contenente acqua che ricopre un labirinto membranoso. La divisione è funzionale alla protezione di tutte le
strutture interne da traumi sia meccanici che termici. I liquidi presenti sono alimentati da una circolazione
propria che permette di regolarne le caratteristiche in base alle necessità.
I nervi vestibolari superiore e inferiore conducono i messaggi efferenti ed afferenti che costruiscono un
flusso bidirezionale di informazioni nervose, che veicolano da una parte le informazioni al SNC e dall’altra le
veicolano verso i recettori periferici.
I nuclei vestibolari tronco-encefalici, a livello sotto-corticale, sono delle “scorciatoie” utili al cervello per far
sì che la risposta a una variazione sia efficiente e mediata da un sistema riflesso tramite la vista e i nervi
oculomotori (per mantenere l’equilibrio è spesso utile fissare un punto a distanza).
Una forza che possa variare la posizione di equilibrio del soggetto deve essere interpretata e compensata
tempestivamente
Le vie e i centri nervosi spinali e sopranucleari sono il mezzo attraverso cui il SNC governa gli input in ingresso
in modo molto fine e preciso. Sono il centro di integrazione di tutti gli stimoli provenienti dall’esterno.

Il labirinto osseo è ospitato nell’osso temporale ed è formato da una porzione anteriore (acustica) e una
posteriore (vescicolare). Il vestibolo permette la comunicazione tra i canali semicircolari e la componente
della porzione anteriore. L’organo di senso a livello del labirinto membranoso si trova a livello di zone
particolari dette macule. I liquidi presenti all’interno del labirinto sono ricchi di ioni a diverse concentrazioni
che rendono l’ambiente particolarmente adatto alla trasmissione del segnale elettrico. Tra labirinto osseo e
membranoso si trova lo spazio perilinfatico che ospita la perilinfa. Tramite l’acquedotto cocleare arriva allo
spazio subaracnoideo e comunica quindi con il liquor. La perilinfa ha una concentrazione ionica simile ai
normali fluidi extracellulari. Dentro il labirinto membranoso si trova lo spazio endolinfatico, contenente
l’endolinfa, che tramite l’acquedotto vestibolare arriva al sacco endolinfatico. L’endolinfa ha una
concentrazione simile ai fluidi intracellulari.
I canali semicircolari sono composti da tre tipi diversi di canali:
- Superiori
- Laterali
- Posteriori
Il sistema labirintico è inserito all’interno della rocca petrosa, a sua volta disposto obliquamente all’interno
del cranio. Tutta la struttura vestibolare e il sistema labirintico è costituito dai canali semicircolari.
Essi sono disposti su tre piani tra loro perpendicolari (sono coplanari). Essendo loro fatti nella stessa maniera,
ma inseriti in un osso obliquo rispetto alla normale posizione del cranio, hanno un accoppiamento sullo stesso
piano solo quei canali semicircolari che sono rispettivamente a 30° di inclinazione tra loro, a sinistra e a
destra. Nel complesso, l’insieme dei canali è orientato obliquamente. Forniscono ottime analisi quando il
soggetto si muove sullo stesso piano. L’asse dei canali semicircolari posteriori di un lato si trova sullo stesso
piano dei canali semicircolari posteriori del controlaterale.
La loro anatomia permette quindi di ottenere un canale semicircolare posteriore e un canale semicircolare
superiore controlaterale sullo stesso piano sempre.
Il semicircolare posteriore di destra è sullo stesso piano del semicircolare anteriore/superiore di sinistra. Il
semicircolare posteriore di sinistra è sullo stesso del semicircolare anteriore/superiore di destra.
I canali semicircolari laterali sono invece sullo stesso piano tra loro: forniscono quindi delle ottime sensazioni
uditive quando ci si muove in una direzione parallela a quella con cui essi sono disposti (es. traslazione
laterale).
Quando si fanno movimenti più complessi rispetto a una normale traslazione, vengono invece coinvolti i
canali semicircolari superiori e posteriori, accoppiati reciprocamente in modo da governare gli spostamenti
in tutte le direzioni. Ciò significa che il movimento in una determinata direzione stimola sia il canale
semicircolare superiore a sinistra che il posteriore a destra e/o viceversa.
I recettori dell’apparato vestibolare sono costituiti da una serie di cellule ciliate, disposte in ordine di altezza,
dalla più lunga alla più corta. Tutte queste ciglia si flettono e si deflettono in direzioni opposte, verso il ciglio
più lungo o verso il ciglio più corto.
Il ciglio più lungo della cellula è detto chinociglio (o kinociglio).
Quando lo spostamento delle ciglia, immerse nel liquido, si dirige verso il chinociglio le cellule si
depolarizzano, mentre quando si dirige dal lato opposto la cellula si ripolarizza.
Il sistema permette di trasformare un movimento meccanico in un movimento elettrico, trasferito per via
elettrochimica attraverso le fibre nervose.
La necessità di rilevare anche movimenti molto delicati della testa per dare origine a risposte riflesse, implica
che il nostro organismo tenda ad accentuare meccanicamente ogni movimento delle ciglia stesse: sulla parte
apicale delle cellule ciliate infatti è presente una cupola ampollare costituita da una sorta di membrana e da
dei cristalli di carbonato di calcio chiamati otoliti, che “appesantiscono” la parte alta e più mobile della
struttura. Il sistema, composto da una cupola ampollare, cellula ciliata e cristalli di carbonato di calcio fa sì
che anche il più piccolo movimento riesca a creare uno spostamento utile delle ciglia e tale da essere rilevato
in maniera chiara, con un segnale di tipo on/off a seconda dell’orientamento del chinociglio.
Gli otoliti hanno la funzione meccanica di spostare in alto il baricentro del ciglio in modo da amplificare ogni
spostamento per renderlo sufficiente a provocare un gradiente di depolarizzazione o iperpolarizzazione
utile alla produzione di un segnale trasmissibile e di intensità variabile.

L’apparato vestibolare, come prima citato, non è costituito solo da fibre efferenti ma anche da fibre afferenti,
in modo che queste possano inibire le cellule cigliate e limitarne temporaneamente la funzionalità in
particolari contesti. Le fibre nervose afferenti alle cellule cigliate servono per inibire l’azione delle cellule
cigliate stesse e per controllarne la depolarizzazione.
Il diverso orientamento delle stereociglia/chinociglio nell’apparato vestibolare (creste e macule) all’interno
di utricolo e sacculo permette l’eccitazione/inibizione dei recettori per ogni posizione o movimento della
testa: infatti è praticamente impossibile, data la disposizione ad S dei recettori utricolo-sacculari, non sapere
in che posizione si trovi la testa.
I nervi vestibolari ricevono informazioni da sedi diverse: il nervo vestibolare superiore riceve dall’utricolo e
dai canali semicircolari laterale e superiore, mentre l’inferiore riceve dal sacculo e dal canale semicircolare
posteriore.
Tutti questi nervi fanno parte dell’VIII paio di nervi cranici insieme al nervo vestibolare e al cocleare. Dentro
il fascicolo decorre anche il faciale, che però si allontana dai primi due e si dirige ad altre strutture
anatomiche.
I nuclei vestibolari sono 4: superiore, laterali e inferiore (o discendente). Sono localizzati nel tronco encefalico
(bulbo-ponte). Sono costituiti anche da fibre inibitorie che decussano ai nuclei vestibolari controlaterali.
La costituzione di queste strutture implica che qualsiasi segnale, positivo o negativo, si proietti sui
corrispettivi omolaterali ma invii anche un segnale inibitorio ai corrispettivi controlaterali. Non sempre il
segnale inibitorio è coinvolto nella regolazione del controlaterale. Sono il punto in cui l’afferenza dalle
orecchie si proietta. Le fibre del nucleo vestibolare controlaterale sono inibitorie nei confronti delle prime.
Le connessioni sottocorticali sono finemente regolate da queste intricata struttura: da una parte si dirigono
verso la corteccia, ma dall’altra arrivano alle vie reticolo-spinali, alle vie ceruleo-spinali, al tratto vestibolo
spinale-laterale, al fascicolo longitudinale mediale, peduncolo cerebellare anteriore, tratto reticolo spinale-
mediale.
Le connessioni centrali vanno a comunicare con i nuclei del III, del IV, del VI, con la corteccia vestibolare, con
il cervelletto (centro finale di controllo dell’equilibrio) e con altre strutture anatomiche: queste connessioni
sono sia rapide che allenabili (cioè, cercare di stare in equilibrio è allenabile, perché si ha un potenziamento
a livello cerebrale di funzioni già innate, tanto è vero che tutto questo si fa anche nella riabilitazione).

L’equilibrio è l’adeguato rapporto tra individuo e spazio, che si esplica con un corretto mantenimento della
postura e con un’esatta percezione della posizione del corpo nello spazio e dei suoi movimenti.

Una caratteristica fondamentale del sistema vestibolare, che non è una caratteristica del sistema uditivo, è
che esso ha un’attività bioelettrica di base costante. In una situazione di completo silenzio, assenza di
rumore, le cellule cigliate della membrana tectoria non avrebbero nessun tipo di scarica ma questo non
avviene col sistema vestibolare. Anche quando si è apparentemente fermi immobili, il sistema vestibolare
scarica perché è sensibile alla presenza della gravità. Chiunque, in qualsiasi posizione si trovi e per tutto il
tempo per cui ci rimane, è consapevole della posizione della sua testa rispetto all’ambiente (a testa in su, a
testa in giù).
L’aumento o la diminuzione dello stimolo sulle cellule del sistema vestibolare (cioè le cellule ciliate) modula
l’attività elettrica di base, con modificazioni eccitatorie o inibitorie. La stimolazione e inibizione avviene a
seconda della direzione in cui si piega il chinociglio. In base alla frequenza di scarica di ognuno dei due lati e
del rapporto della frequenza tra ognuno dei due, il nostro cervello interpreta la posizione rispetto alla realtà.
Nei recettori ampollari, ad esempio, in risposta a uno stimolo che può essere l’accelerazione rotatoria, si ha
da un lato un aumento della corrente di endolinfa nel canale semicircolare per via della forza di inerzia, con
una deflessione della cupola della cresta ampollare e dall’altro, il sistema agisce in coppia con il recettore
controlaterale co-planare.
I recettori ampollari, quando invece sono sottoposti a un’accelerazione gravitaria/lineare, la macula
dell’utricolo e del sacculo sono sottoposti a un’accelerazione verticale/orizzontale (e non laterale).

Le funzioni dell’apparato vestibolare, quindi, sono:


 Informazione della posizione del capo nello spazio: durante un tuffo carpiato, l’atleta non può
stabilire la posizione del capo solo con gli occhi, ma si basa solo sull’apparato vestibolare
 Mantenimento dello sguardo nello spazio: una curva in moto ad alte velocità dovrebbe impedire di
mantenere lo sguardo fisso solo con i riferimenti visivi. Mantenere lo sguardo sulla linea
dell’orizzonte è possibile solo con un buon apparato vestibolare.
 Mantenimento della postura: uno sciatore che rimane posizionato correttamente rispetto agli sci,
nonostante i costanti cambiamenti della pista e dell’ambiente circostante.

SEMEIOTICA CLINICA E STRUMENTALE


DEI DISTURBI DELL’EQUILIBRIO

Si compone di:
 Anamnesi
 Esame obiettivo
 Prove strumentali
Con la sola anamnesi e l’esame obbiettivo, un buon medico fa la diagnosi nel 90% dei casi. Si ricorre alle
prove strumentali sono nel 10% dei casi e di solito succede per confermare una diagnosi o fare un’analisi
differenziale tra patologie molto simili.

Qualunque patologia a carico degli organi di senso che partecipano al mantenimento dell’equilibrio può
essere causa di vertigine:
- Patologia dell’apparato vestibolare
- Patologia della vista (es. operazione di cataratta)
- Patologia del sistema propriocettivo muscoloarticolare (es. cervicalgia)
- Patologia del tatto
I sintomi provocati sono diversi.
Il labirinto posteriore è l’unico fra gli organi di senso (nonostante non sia un organo di senso vero e proprio)
ad avere come esclusiva funzione il controllo dell’equilibrio ed è l’organo che, in caso di sofferenza acuta,
determina una vertigine più intensa rispetto a tutte le altre.
VERTIGINE VESTIBOLARE

Quando si ha la sofferenza di uno dei due organi vestibolari, ad esempio per la perdita del sistema vestibolare
di un lato, si ha la modifica della scarica elettrica basale del lato controlaterale (vedi sopra), con un input
asimmetrico ai due gruppi di nuclei vestibolari. Ad esempio, durante uno spostamento da destra a sinistra, il
lato sinistro scaricherà molto velocemente mentre il lato destro scaricherà a un livello più basso rispetto al
suo ritmo basale. In caso di una lesione, di un’infezione o di un’altra patologia in cui uno dei due lati non
scarica (nemmeno al ritmo basale), il nostro cervello interpreterà il rapporto come una iperstimolazione del
controlaterale. Questo corrisponde in pratica al movimento rapido verso un unico lato e dà un’impressione
erronea di movimento, come se uno dei due lati scaricasse il segnale di continuo e l’altro no (riproduzione
della condizione fisiologica del movimento roto-acceleratorio del capo).
Bisogna tenere presente però che il sistema vestibolare comunica con il SNC, che riceve afferenze anche dagli
occhi e dalla muscolatura. La postura corretta è tenuta anche in funzione dell’integrazione di queste
afferenze, basate su un punto di riferimento e sulla visione dell’ambiente esterno.
Le alterazione dell’appratao vestibolare provocano il nistagmo: un movimento lento degli occhi seguito da
un movimento rapido. Il nistagmo è utile per mantenere un punto di riferimento all’interno del campo visivo:
se il punto si muove lentamente e poi cambia improvvisamente la sua posizione, gli occhi sono in grado di
recuperarne la posizione con il semplice nistagmo.

La vertigine vestibolare provoca:


◊ Sensazione di rotazione in assenza di movimento reale
◊ Nistagmo: è un movimento involontario e coniugato dei bulbi oculari, distinto in una fase lenta
(diretto in un senso) e in una fase rapida (diretta in senso opposto, è il parametro che indica per
convenzione la direzione del nistagmo). Il nistagmo è fisiologico quando c’è movimento, per
mantenere il fuoco su ciò che si sta vedendo, ma diventa patologico quando non c’è il movimento
del capo. La direzione degli occhi in fase rapida indica la prevalenza del lato coinvolto, destro o
sinistro, ma non dà informazioni su quale sia il lato che ha subito un danno. Nella fase rapida gli occhi
si dirigono verso il lato prevalente, che scarica di più del controlaterale, ma non è possibile
distinguere quale sia il tipo di alterazione e quale sia quindi il lato malato. Ad esempio, il movimento
potrebbe dirigersi verso dx perché a dx l’apparato vestibolare scarica in eccesso o perché a sx
l’apparato vestibolare scarica in difetto.
◊ Atteggiamento posturale anti-gravitario (deviazioni segmentario toniche): il movimento degli arti
superiori si direziona dal lato della fase lenta del nistagmo. Il soggetto tende a estendere le braccia e
a direzionarle in modo da posizionare il baricentro sempre al centro del busto, compensando uno
spostamento del busto con uno spostamento dal lato opposto degli arti. Quando il movimento non
è effettivo, ma solo percepito, gli arti tentano in ogni caso di compensare.
Un soggetto convinto di spostarsi verso un lato per differenza di scarica vestibolare, tenderà a
spostare le braccia verso il controlaterale se gli viene chiesto di estenderle davanti a sé.

Queste tre situazioni danno origine alla sindrome vestibolare armonica.


La sindrome vestibolare aromnica è così chiamata perché riproduce una condizione potenzialmente
fisiologica, cioè che può avvenire nella vita quotidiana in assenza di patologia.

La sindrome vestibolare armonica si divide in:


- Sindrome irritativa
- Sindrome deficitaria

La sindrome armonica è tipica della forma periferica unilaterale acuta, mentre più raramente sono coinvolti
i nuclei vestibolari.
Nella sindrome vestibolari disarmonica, sono coinvolte alcune forme periferiche bilaterali, unilaterali
progressive e alcune lesioni centrali.
L’anamnesi e l’esame obiettivo aiutano molto nella definizione della sindrome coinvolta.
L’apparato vestibolare è sempre interpretato dal SNC e una sua alterazione può comunque essere
compensata, nell’arco del tempo, portando a una guarigione autonoma.
Quando il SNC si accorge che un lato del sistema vestibolare predomina rispetto al lato affetto, che non riesce
a scaricare, produce una serie di segnali efferenti che vanno a diminuire l’attività del sistema vestibolare che
scarica troppo. Dopo 24-48 ore (fino a 72), si ha un rimodellamento funzionale che coinvolge tutti i sistemi
sensoriali che intervengono nel controllo dell’equilibrio. Questo fa sì che non si abbia più la vertigine, ma
provoca comunque la perdita di percezione dell’equilibrio dal lato malato.

Come detto prima, alcune delle fibre decussano verso il controlaterale a livello del SNC: il sistema vestibolare
comincia allora a proiettare sul lato controlaterale le stesse informazioni afferenti, ma al contrario (compenso
vestibolare). In questo modo è possibile recuperare l’equilibrio dopo un po’ di tempo e quindi recuperare la
funzionalità del sistema anche in presenza di un organo vestibolare completamente malato da uno dei due
lati.

Ai fini terapeutici, questo sistema fisiologico può essere utilizzato per guarire dalle patologie vestibolari in
cui il lato malato scarica in maniera casuale.
Il sistema di compenso perde la sua funzionalità quando uno dei due lati del sistema vestibolare dà un input
non coerente (ora scarica troppo, poi poco, poi un po’ di più).
Una simile situazione di incoerenza e frequenza casuale (sindrome di Menier 1) non permette la correzione
da parte del sistema utilizzando il controlaterale. La soluzione a questa condizione è la neurectomia
vestibolare: identificando e tagliando il nervo vestibolare implicato, il soggetto peggiorerà e avrà una forte
sensazione di vertigine subito dopo l’operazione, ma avrà risolto per sempre il suo problema nell’arco di 15
giorni.

L’apparato vestibolare è unico: non è un organo di senso percepibile come tale e il deficit funzionale di un
lato può non essere evidente (compenso vestibolare).

Al contrario, a volte può essere necessario identificare un soggetto che abbia subito un danno a uno dei due
organi vestibolari e che abbia poi compensato: né lui né il medico possono accorgersi dell’alterazione in una
situazione di normalità.
Per identificare un simile caso è sufficiente iperstimolare selettivamente uno dei due lati e verificare quali
siano le conseguenze di questo stimolo asimmetrico. Per ottenere un’iperstimolazione viene utilizzata
l’acqua fredda (20°C) o l’acqua calda (40°C) in modo da modificare il volume del liquido presente nel labirinto
stesso.

1
Alternanza di un periodo si sindrome irritativa e di sindrome deficitaria.
MALATTIE DELL’ORECCHIO ESTERNO

PERICONDRITE

È un’infiammazione dovuta a un’infezione del padiglione auricolare. In particolare, è la cartilagine del


padiglione ad andare incontro a un processo flogistico che da qui si può propagare. È una patologia molto
diffusa tra i pazienti diabetici ed è spesso associata ad una raccolta di sangue dolorosa di cui è necessario
valutarne la presenza tramite una puntura esplorativa diagnostico/terapeutica, che permette di sgonfiare la
raccolta ematica che si è accumulata nel padiglione (otoematoma).
Si esegue una medicazione e un’applicazione con corticosteroidi con visita di controllo successiva di questi
pazienti per evitare che la raccolta si riformi.

ATRESIA AURIS CONGENITA

Si intende un insieme di malformazioni congenite del padiglione auricolare. Quest’ultimo può essere
assente e associato all’assenza del meato acustico esterno o a una malformazione della catena ossiculare
(martello, incudine, staffa). La diagnosi avviene alla nascita e in soggetti che in età avanzata vanno incontro
a interventi ricostruttivi del padiglione. Il meato può essere stenotico oppure completamente obliterato
mentre gli ossicini difettosi danno un’ipoacusia trasmissiva.

OTITE ESTERNA DIFFUSA

Interessa il condotto uditivo esterno, la porzione che sta anteriormente alla membrana del timpano in
soggetti di qualsiasi età, soprattutto nel paziente diabetico, immunodepresso e in chi sta molto a contatto
con l’acqua.
È associata a un’infezione e a una conseguente infiammazione della cute del CUE e talvolta anche della
superficie esterna della membrana timpanica. La flogosi provoca un edema della pareti, che si gonfiano,
restringono il canale uditivo esterno e provocano dolore.
L’eziologia è per lo più batterica per P. aeruginosa e S. aureus, ma è spesso preceduta da una forma virale.
L’infezione virale crea già la patologia e predispone la cute all’esposizione batterica e perciò la prima
terapia potrebbe anche solo essere locale, e non antibiotica.
I fattori favorenti sono microtraumatismi, macerazione della cute, dermatosi.
Alla semeiotica si ha un’otorrea purulenta, un’otalgia spontanea o provocata, un’ipoacusia lieve/moderata
con dolore notturno e pulsante.
La terapia consiste nell’applicazione di un antibiotico per os e/o per via locale (gocce nel condotto) per 7
giorni associata ad una pulizia del CUE dietro guida otomicroscopica, che sebbene non sia sempre possibile
(a seconda della sede in cui viene diagnostica la patologia) risulta fondamentale per permettere l’effettiva
azione delle gocce.
L’applicazione topica deve essere applicata il più possibile nella regione dolente perché i farmaci per os non
raggiungono correttamente la sede e non permettono quindi una buona guarigione dell’area sia per quanto
riguarda l’età adulta sia per quella pediatrica.
La terapia corticosteroidea invece si somministra per togliere immediatamente il dolore.
Si riscontrano casi in cui l’otite esterna diffusa può essere causata da un’eziologia virale e il trattamento
verrà scelto di conseguenza.
Tutti i pazienti di questo tipo vanno inviati in ORL perché solo l’otorinolaringoiatra è in possesso della
strumentazione necessaria per pulire il CUE.
OTITE ESTERNA BOLLOSO-EMORRAGICA

Si caratterizza come una patologia flogistica, con bolle a contenuto siero-ematico sulla superficie esterna
della membrana timpanica. È frequente soprattutto nei mesi invernali ed è molto dolorosa.
Si presenta come un’otalgia pulsante che provoca anche una riduzione della capacità uditiva, con otorragia,
ovattamento auricolare, otalgia lieve-moderata.
L’eziologia è per lo più virale a seguito di virosi delle alte vie aeree.
All’otoscopia si rilevano bolle o croste ematiche e la terapia consiste nell’applicazione di
antinfiammatori/analgesici per os. Si possono somministrare eventualmente antibiotici per os o per via
locale per 5 giorni, ma solo con lo scopo di prevenire la sovra-infezione batterica.

HERPES ZOSTER OTICUS

È una patologia flogistica della conca secondaria alla riattivazione di Varicella Zoster Virus, che rimane
latente nei neuroni del VII o del VIII nervo cranico.
Frequente, in particolare in caso di riduzione delle difese immunitarie, può interessare qualsiasi età: si ha
otalgia intensa, febbre, astenia, lesioni cutanee.
Nei casi gravi si possono avere:
- Paralisi del nervo faciale (sindrome di Ramsay-Hunt di tipo II1 per lesione del VII)
- Sordità improvvisa (cocleare)
- Vertigine oggettiva (vestibolare), per interessamento del VIII nervo cranico (faciale).
Bisogna verificare che il nervo non sia rimasto lesionato dall’infezione attraverso lo studio dei riflessi
stapediali2
La terapia consiste nella somministrazione di Aciclovir, corticosteroidi e analgesici, associati a un
antibiotico per os per prevenire l’infezione batterica.
Questi pazienti vanno seguiti per osservare come evolve la malattia e per evitare le complicanze.

MICOSI DEL CUE

È una patologia non rara, dermatite del CUE su base micotica sostenuta da C. albicans o Aspergillus.
Copre il 6% delle flogosi acute del CUE ed è più frequente nei mesi estivi e nei pazienti diabetici.
Si ha prurito, ovattamento, otorrea e all’otoscopia si vedono ife fungine biancastre e vellutate (Candida) o
nerastre con otorrea (Aspergillus).
La terapia consiste prima di tutto nella pulizia del CUE mediante aspirazione, seguita da antimicotici per via
locale, mentre il lavaggio auricolare è sempre sconsigliato perché l’utilizzo dell’acqua potrebbe danneggiare
la membrana timpanica e se questa è perforata il liquido passerebbe nell’orecchio medio.
L’antibiotico viene dato solo se c’è infezione batterica.
Vengono prodotte gocce ad azione anti-fungina molto efficaci, ma se dopo il trattamento l’invasione
fungina è ancora presente potrebbe essere necessario un tampone per identificare la specie di fungo
coinvolta con un antibiogramma.
È infine necessario rivedere a breve il paziente per verificare l’evoluzione della malattia e per evitare le
complicanze: questa patologia può riformarsi a breve distanza e deve essere trattata tempestivamente.
Anche solo a due giorni dalla fine del trattamento e dalla guarigione, il paziente potrebbe ripresentarsi con
la stessa patologia.
I pazienti diabetici sono i più interessati.

1
sindrome neurologica caratterizzata da manifestazioni cutanee a carico dell'orecchio e deficit del nervo facciale
omolaterale.
2
Misurazione della riduzione di complianza indotta dalla contrazione del muscolo stapedio in seguito a una
stimolazione acustica.
OTITE ESTERNA MALIGNA

È una patologia flogistica del CUE che evolve verso la necrosi dell’osso temporale, sostenuta da P.
Aeruginosa, da ricercare con tampone auricolare che ne permette la diagnosi se positivo.
È rara e interessa perlopiù gli immunodepressi.
Causa otorrea purulenta, otalgia ingravescente, paralisi dei nervi cranici, tromboflebite dei seni cavernosi
(attraverso il seno petroso).
Può essere letale e per questo motivo va posta in DD con altre forme di otite meno severa (come quelle
precedenti, specie nell’età avanzata).
Si può fare anche una TC delle mastoidi per vedere se l’infezione è diffusa oppure contenuta. Nel primo
caso l’infezione può giungere alla mastoide, ai nervi cranici più profondi e fino a tutto il fascio muscolo-
nervoso del collo.
Si può trattare con un intervento chirurgico di bonifica per evitare complicanze quali la paralisi del nervo
faciale o una mastoidite, che può avere a sua volta complicanze molto più gravi, fino a un interessamento
del seno laterale e a una flebite di tutti i seni cavernosi.
Questa patologia va sospettata quando si è provato a fare una terapia medica nel sospetto di un’otite che
non guarisce e si ricorre quindi alla chirurgia per bonificare l’area dall’infezione e limitarne la diffusione,
solo se associata a terapia antibiotica per sei settimane con beta lattamici e amminoglucosidi.
Normalmente è più frequente negli anziani.

TAPPO DI CERUME

È il frequente accumulo di cerume nel CUE di consistenza più o meno dura, prodotto dalle ghiandole
sudoripare del terzo esterno del CUE. Si può formare per ipersecrezione, modificazione delle componenti
del secreto, ridotta clearance, manovre di pulizia del CUE.
Si ha sensazione di ovattamento e ipoacusia, soprattutto dopo il contatto con l’acqua, infatti si rende di
solito manifesto nei mesi estivi e se compare otite esterna si avrà otalgia.
Il trattamento viene eseguito mediante estrazione e lavaggio, con rimozione di più materiale possibile se si
pensa di entrare a contatto con l’acqua perché il cerume è igroscopico e si gonfia nel CUE.

ESOSTOSI DEL CUE

Sono neoformazioni ossee benigne che aggettano nel CUE, relativamente frequenti (1% della popolazione)
specialmente nei sub o negli aviatori.
Si formano per stimoli che agiscono sul periostio (irritazione cronica, sbalzi pressori e termici), provocando
accumuli anomali di osso.
I sintomi sono di solito assenti, ma possono comunque favorire la comparsa di un tappo di cerume, una
sensazione di ovattamento o un’ipoacusia.
La terapia è chirurgica se ci sono sintomi nel momento in cui la formazione raggiunga grosse dimensioni e
occupi il 50% della membrana timpanica, con l’exeresi per via trans-meatale o retro-auricolare.

NEOPLASIE DEL CUE

Sono molto rare e un fattore favorente è un’infiammazione cronica del CUE che mantiene la parete del
condotto continuamente macerata.
È silente nelle fasi iniziali, poi si manifesta un’otorrea mucopurulenta ed ematica per il sovrapporsi di
fenomeni ulcerativi e flogistici, con associata ipoacusia e otalgia. Si possono notare neoformazioni
vegetanti o ulcerate e sanguinanti. La diagnosi è basata sempre su una biopsia, che però viene richiesta
solo dopo una TC delle rocche mastoidi con mdc.
La terapia è chirurgica con exeresi del CUE.
MALATTIE DELL’ORECCHIO MEDIO
È formato dalla catena ossiculare al di là del timpano e comunica attraverso la tuba uditiva, il condotto che
mette in comunicazione l’orecchio medio con la rinofaringe. Tramite radiologia si possono fare scansioni
coronali o assiali delle rocche mastoidi, grazie a cui è possibile vedere bene la catena ossiculare.

 Traumatiche
o Traumi della membrana timpanica: percosse sull’orecchio o uso errato del cotton-fioc.
Bisogna attendere che la membrana del timpano si ripari senza dare né gocce locali (per
evitare danni all’orecchio interno) né terapia antibiotica. Questi pazienti vanno piuttosto
seguiti per vedere come evolve la malattia e per evitare le complicanze,con risoluzione del
tutto solitamente nel giro di due mesi: se ciò non avviene si può operare chirurgicamente
(ossiculoplastica). Possono capitare anche a seguito di incidenti o a cadute e si possono
generare fratture longitudinali e trasversali a seconda del tipo di trauma. In questi casi è
opportuna una TC delle mastoidi specialmente nel paziente ipoacusico: l’ipoacusia può
essere data da una raccolta di sangue (emotimpano post traumatico) a questo livello
oppure perché c’è un interessamento della catena ossiculare.
In caso di emotimpano, se non passa da solo, per consentire il passaggio dell’aria si può
creare una piccola lesione iatrogena del timpano che si presenta di un colorito brunastro o
bluastro, associato appunto all’accumulo di sangue al suo interno.
Bisogna verificare anche attentamente un possibile danno dello scutum (la parte laterale
del recesso epitimpanico, la parte squamosa dell’epitimpano).
Gli orletti della perforazione timpanica non devono passare all’interno dell’orecchio medio,
per evitare la formazione di un colesteatoma iatrogeno, anomalo accumulo di cellule
epiteliali sul timpano e sugli ossicini dell’orecchio interno causato da un’invaginazione della
cute esterna nella parte interna del timpano.
Si può decidere di fare una TC delle rocche mastoidi per verificare soprattuto i soggetti che
hanno subito un trauma cranico e una possibile frattura dell’orecchio interno.

 Flogistiche
o Otite media acuta
 Sieromucosa: si ha un versamento endotimpanico a timpano integro. È la più
comune patologia flogistica dell’orecchio medio. È molto frequente in età
pediatrica per via delle adenoidi che occupano la rinofaringe e impediscono il
corretto passaggio di aria alla tuba di Eustachio.
Si ha ipoacusia trasmissiva, otodinia e all’otoscopia si ha velatura e retrazione della
membrana timpanica, con eventuale formazione di bolle al di là della membrana
timpanica che si spostano con i movimenti del capo.
La parete del timpano risulta inspessita e introflessa, indicando un accumulo di
catarro e il disagio nel paziente non è provocato dal dolore, spesso assente, ma da
una diminuzione dell’udito.
Soprattutto nelle fasi iniziali, si può osservare invece la presenza di bolle: se si
chiede al paziente di muovere la testa, quest’ultimo sentirà qualcosa nell’orecchio.
Bisogna cercare di far defluire il muco verso le fosse nasali, che passa attraverso la
rinofaringe e incontra la tromba di Eustachio entrando nel naso.
Più il catarro rimane nell’orecchio medio e più è difficile la guarigione con la sola
terapia medica quindi il paziente va attentamente seguito per verificare la
necessità di un’asportazione meccanica del versamento.
La terapia è medica con antinfiammatori, mucolitici, decongestionanti nasali,
oppure insufflativa (per normalizzare la pressione endotimpanica) o chirurgica.
Questa consiste in un drenaggio transtimpanico, per cui viene eseguita un’incisione
(un microtrauma perforativo) sulla membrana del timpano e l’aspirazione del
catarro formato a livello dell’orecchio medio. Si posizionano poi tubi di drenaggio
che fungono da condotti di ventilazione e fanno passare l’aria dall’esterno fin
dentro all’orecchio medio.
Maggiore è la permanenza di questi meglio è, e dopo pochi mesi si espellono
fisiologicamente.

 Purulenta: è una flogosi dell’orecchio medio su base microbica con essudato


purulento, relativamente frequente nei mesi invernali e nei bambini.
Nell’80% dei casi è provocato da S. pneumoniae, H. influenzae, M. catharralis e di
solito fa seguito a flogosi delle alte vie aeree per diffusione tramite la tuba.
La forma purulenta è associata a 4 fasi: iperemica, essudativa, perforativa e della
guarigione.
All’otoscopia si hanno quadri diversi in base alle diverse fasi, che diventano
particolarmente gravi quando il timpano si estroflette e il dolore risulta pulsante
specialmente nelle ore notturne.
La terapia è antinfiammatoria e antibiotica per 7 giorni con associazione di
corticosteroidi se c’è notevole edema.

o Otite media cronica


La cronicizzazione dell’otite media dipende da diversi fattori e si presenta in forme variabili
che dipendono dalla forma acuta. Anche una perforazione del timpano può esitare in una
forma cronica se la sua guarigione richiede più di 3 mesi.
Esistono forme:
 Sieromucosa: è l’evoluzione dell’otite media acuta siero-mucosa.

 Purulenta: si ha la flogosi dell’orecchio medio su base microbica con perforazione


timpanica che non manifesta tendenza alla chiusura spontanea. La prevalenza è
9/10.000 e solitamente è la conseguenza di un’otite media acuta purulenta cui non
ha fatto seguito la chiusura della perforazione timpanica. Si ha ipoacusia
trasmissiva con otorrea e all’otoscopia è presente un’ampia perforazione con
pseudomembrane.
L’otomicroscopia consente di aspirare le secrezioni e di osservare la membrana del
timpano correttamente, in maniera da eseguire una diagnosi precisa.
La terapia consiste nella somministrazione di antibiotici e corticosteroidi per os o
per via locale con guarigione ottenuta mediante un intervento di miringoplastica. È
necessario associare esami audiometrici per verificare la capacità uditiva del
paziente stesso.

 Colesteatomatosa: è la presenza di epitelio squamoso cheratinizzato nell’orecchio


medio associato alla flogosi cronica dello stesso o a un danno timpanico. Ha una
prevalenza pari a 6/10.000 e può essere congenita, acquisita primaria o secondaria
(se ci sono fenomeni flogistici). Sono normalmente aggressive e associate sia a
traumi che a inspessimenti idiopatici, che possono essere accompagnati da polipi
che coprono l’effettivo inspessimento dell’epitelio squamoso cheratinizzato
dell’orecchio medio. Si hanno ipoacusia progressiva e otorrea fetida per necrosi
ossea e flogosi da anaerobi.
La patogenesi non è ancora totalmente nota, ma in ogni caso la presenza e la
migrazione di perle cutanee epidermiche dal CUE al CUI, in presenza di una
perforazione della MT che si invagina all’interno dell’orecchio medio, è la causa
principale della formazione del colesteatoma.
Può provocare un’infezione della fossa cranica media e una conseguente diffusione
anche al cervello.
Ha come complicanza l’otomastoidite: nell’orecchio passa il nervo faciale e il
colesteatoma che erode il canale del faciale ne provoca paralisi. L’erosione della
catena degli ossicini invece dà una importante riduzione della capacità uditiva.
Ci può anche essere l’erosione della base della fossa cranica media che può
provocare ascessi cerebrali quindi è necessaria sia una valutazione radiologica per
l’analisi delle complicanze, sia una valutazione chirurgica per verificare se sia
necessario un intervento.
Viene utilizzato anche il fluoroscopio, dopo una corretta toelettatura della zona,
per approfondire la diagnosi.
Durante l’esame obbiettivo deve essere osservata la membrana del timpano, la sua
eventuale perforazione, e un colesteatoma associati a patologie disventilative
croniche.

I reliquati delle otiti sono:


- Perforazione timpanica semplice
- Timpanosclerosi: sono esiti cicatriziali visibili come aree biancastre spesse sulla membrana del
timpano, più o meno diffusi. Se il timpano è integro non richiede intervento chirurgico.
Un simile segno indica che il paziente è andato incontro negli anni a una serie di otiti croniche con
perforazione che hanno provocato la formazione delle cicatrici.

Le complicanze sono:
- Mastoidite esteriorizzata (adulto) o otoantrite (bambino, che non ha ancora un orecchio
completamente sviluppato)
- Paralisi del VII cranico
- Fistola labirintica (canale semicircolare laterale)
- Ascesso del lobo temporale
- Labirintite con vertigine
- Meningite, ascesso cerebrale
- Ascesso endotimpanico
- Tromboflebite seno-sigmoide

 Osteodistrofiche
o Otosclerosi: è una patologia associata alla formazione di tessuto osseo distrofico
localizzato nella capsula labirintica con interessamento della nicchia della finestra ovale e
conseguente ipomotilità della staffa.
È relativamente frequente (10% della popolazione), sintomatica nello 0.4% della
popolazione, specie in donne giovani, ma non è nota l’eziologia seppure si pensa ci siano
una componente genetica, disendocrina, vascolare, autoimmunitaria, virale.
Si caratterizza per un’ipoacusia trasmissiva ingravescente, acufeni.
La diagnosi si può fare con un esame impedenzometrico ma normalemente il paziente non
si accorge di questa ipoacusia, che viene rilevata spesso in caso di esami di routine in cui è
tipicamente assente il riflesso stapediale.
La terapia è chirurgica con esecuzione di una stapediotomia, che consiste nel
posizionamento di una protesi in teflon a forma di uncino dopo aver asportato una
porzione della staffa, eseguito un piccolo foro laterale e agganciandola a livello dell’apofisi
lunga dell’incudine con inserimento a livello del piccolo legamento anulare.

 Neoplastiche
o Paraganglioma timpano-giugulare: è un tumore benigno a partenza dai chemocettori
giugulari e timpanici.
Il paraganglioma timpanico origina dai chemocettori del nervo di Jacobson.
Il paraganglioma giugulare origina dai chemocettori del bulbo della giugulare e invade in un
secondo tempo l’osso temporale.
Si hanno ipoacusia e acufeni pulsanti sincroni col polso ma soprattutto se è giugulare, la
sintomatologia è tardiva. Normalmente vengono scoperti per otiti croniche e che non
rispondono alla terapia, in seguito a indagini radiologiche sull’orecchio.
Ha un’incidenza di 1/100.000 abitanti/anno.
Il primo esame è quasi sempre la TC, associata ad angioRMN perché sono tumori molto
vascolarizzati.
Nel sospetto di paraganglioma non va mai bucato perché l’uscita di sangue può essere
imponente, infatti in alcuni casi l’estensione è fino alla carotide interna ma lo stesso è
possibile l’ischemizzazione della regione per permettere la resezione del tumore.
L’angioRMN è utile per verificare l’estensione del tumore e valutare la possibilità di una
sclerotizzazione prima dell’asportazione chirurgica. Durante la chirurgia, in casi molto gravi,
viene clampata la carotide interna per verificare se la controlaterale è in grado di
compensare l’aumento di pressione e poi si esegue l’occlusione definitiva con palloncino.
Simili tecniche vengono utilizzate circa 30 giorni prima dell’intervento.
La terapia consiste in un’exeresi previa embolizzazione della lesione mediante arteriografia
perché il rischio di sanguinamento è alto (prima dell’intervento si fanno delle
autotrasfusioni). L’astensione dalla chirurgia è possibile solo in alcuni casi selezionati.
I soggetti non trattati possono andare incontro a un ingrandimento sensibile del tumore
nelle aree circostanti.
Durante l’analisi di un orecchio arrossato e pulsante non bisogna mai bucare la membrana
timpanica per verificarne il contenuto: nel caso in cui il paziente avesse un paraganglioma il
rischio di sanguinamenti gravi sarebbe molto alto.

o Carcinomi dell’orecchio medio: sono neoplasie maligne a partenza dalla mucosa


dell’orecchio medio. È molto raro (7/1.000.000) e si tratta di carcinomi squamocellulari
nella maggior parte dei casi, di solito provocati dalla flogosi cronica dell’orecchio medio.
È silente nelle fasi iniziali, successivamente può essere causa di otorrea.
Il sospetto può sorgere all’otoscopia in caso di formazioni ulcerate o sanguinanti e si
diagnostica con TC e RMN. La terapia è chirurgica con svuotamento anche dei linfonodi
latero-cervicali.
Otorino, prof. Succo. Sbobina del 28/3/2018
Sbobinatrice: Camilla Jaretti Sodano
Revisore: Amedeo Feneziani

PATOLOGIE DELL’EQUILIBRIO

L’apparato vestibolare non è un organo di senso, ma collabora nello stabilirsi dell’equilibrio,


lavorando in maniera armonica in modo tale che a un movimento della testa corrisponda una
reazione dell’organismo che gli permetta così di mantenere l’equilibrio.
Si riflette sugli occhi attraverso la creazione del nistagmo fisiologico, movimento rapido e lento degli
occhi con lo scopo di tenere a fuoco il bersaglio anche se ci si muove velocemente.
Attraverso i nuclei troncoencefalici comunica invece con altri componenti che mirano a ottenere lo
stesso obiettivo con effettori soprattutto muscolari.
Tutto è coadiuvato da altri organi di senso come occhi, propriocezione muscolo-tendinea che se
colpiti da patologia possono esitare in un’alterazione dell’equilibrio, ovvero la vertigine.
Se si impara la fisiologia normale è automatico comprendere la patologia che affligge un sistema
labirintico o entrambi.
Sulla base dell’anamnesi un buon otoneurologo riesce a fare diagnosi. Una tipica domanda che si
può rivolgere al paziente per discriminare quale vertigine lo affligge è se percepisce una rotazione
dell’ambiente attorno a lui (oggettiva) o se lui ruota con il mondo esterno fermo (soggettiva).
Quando c’è perdita di equilibrio con svenimento non si pensa alle vertigini, ma piuttosto a un
problema cardiaco, centrale o di altra natura.
Una distinzione successiva importante si valuta in base al numero di crisi:

1. Crisi ripetute:
- Stop and go
- Patologia che si ripresenta in determinate azioni.
- Epilessia: può colpire alcune aree cerebellari e dare informazioni distorte direttamente
alla corteccia.
2. Crisi singola: patologia che coinvolge un labirinto con morte o infiammazione di questo.

Un ictus ischemico colpisce un nucleo della base e dà una crisi perché viene letta dall’organismo
come fosse una mancanza di afferenze, ma in realtà non è possibile che il segnale giunga a causa
della perdita del nucleo stesso.
Tutti gli episodi di vertigine soggettiva sono orientati verso una forma di alterazione dell’equilibrio
che può anche coinvolgere le strutture periferiche.
Il sistema vestibolare è coinvolto solo nell’equilibrio quindi quando viene colpito porta
inevitabilmente a una sua alterazione, mentre gli altri sistemi che partecipano non si occupano solo
di questo aspetto quindi i danni che li affliggono sono letti dal nostro cervello come soggettivi.
La vertigine oggettiva proietta un movimento, mentre quella soggettiva è più sfumata perché
causata anche da piccole alterazioni di strutture che globalmente partecipano al mantenimento
dell’equilibrio.
NEVRITE VESTIBOLARE

Infiammazione del nervo vestibolare che dà vertigine ad esordio improvviso che dura più di 24 ore
con nausea/vomito e nistagmo spontaneo.

Quando si infiamma una struttura è sempre un evento improvviso, prima si comincia a sentire
qualcosa e poi di colpo si ha dolore.
Di regola i pazienti si mettono solo a letto e in casi estremi vanno al pronto soccorso.
Nausea e vomito sono sempre presenti perché si ha la sensazione che il mondo si muova attorno a
noi ed è inevitabile che si abbiano questi sintomi.
Non si sa se ci sia stata irritazione o morte di un labirinto, ma è sicuro che il coinvolgimento sia
unilaterale con disequilibrio di scarica che risulta eccessiva se c’è irritazione o nulla nel caso di
morte.
Questa patologia dà come informazione al SNC e ai nuclei sottocorticali che di colpo tutto si è messo
in movimento a causa di un input vestibolare asimmetrico.
La vertigine è quindi un’erronea sensazione di movimento rotatorio con un moto fisiologico degli
occhi in maniera patologica con l’instaurarsi del nistagmo grazie a cui si mette a fuoco un obiettivo
mediante movimenti alternati rapidi e lenti: fintanto che c’è uno squilibrio vestibolare che dice al
SNC che ci si sta muovendo, questo si comporterà di conseguenza quindi gli occhi cercano sempre un
obiettivo che cambia.
È sempre importante valutare l’epidemiologia anche per quanto concerne l’economia sanitaria e in
questo caso la nevrite vestibolare rappresenta la terza causa di vertigine periferica.
Nel momento in cui il paziente giunge al pronto soccorso con una sintomatologia di questo tipo in un
periodo in cui è epidemica l’influenza, si pensa a una nevrite vestibolare dato che ha un’eziologia
virale.

Segni e Sintomi
 Vertigine oggettiva e intensa
 Esordio improvviso
 Nausea
 Vomito
Il paziente in genere è allettato e dopo 48h comincia un compenso vestibolare spontaneo sebbene
l’instabilità permanga per settimane anche senza il vomito.
Quando si ha questo compenso il paziente starà in equilibrio fino a quando non si toglieranno
elementi fondamentali come la vista.
Diagnosi
All’esame obiettivo non si riscontra nulla ad eccezione di nistagmo spontaneo e alterazioni
posturali, poiché si è sottolineata l’armonia che contraddistingue questa sindrome rispetto al
normale movimento del corpo.
Il nistagmo ha una fase rapida e una lenta, a cui si aggiunge una deviazione degli arti superiori che va
a compensare il baricentro per mantenere l’equilibrio. Guardando il timpano non si trovano
evidenze di danno perché il problema è a monte.
Il nervo vestibolare corre nell’VIII paio di nervi cranici ed è importante valutare un coinvolgimento o
meno del nervo cocleare (componente anch’esso dell’VIII nervo cranico) secondario alla lesione dato
che in tal caso si avrebbe ipoacusia neurosensoriale.
Si possono fare prove vestibolari ed esami radiologici, ma questo solamente nel momento in cui la
situazione si sia stabilizzata con l’instaurarsi del compenso.
Terapia
In acuto si possono somministrare vestiboloplegici1 che addormentano tutto il sistema (anche il lato
sano) e il vantaggio sarà dato dall’annullamento della differenza tra i due lati: ci sarà un compenso al
ribasso per cui si riduce la vertigine, ma il soggetto avrà scarso equilibrio.
Il paziente prendendo il farmaco sta meglio ma barcolla, quindi dopo che è stata calmata la vertigine
viene tolto perché se si ha la certezza che sia una sindrome vestibolare armonica bisogna lasciar
compiere alla natura il suo compenso.
Si somministrano piuttosto stimolanti per tale processo e si invita il paziente a muoversi in modo tale
che l’organismo agisca come è stato programmato.
La prognosi vede la guarigione in alcune settimane o mesi grazie al compenso, non alla restitutio ad
integrum.

Il professore fa vedere alcuni video di pazienti affetti da tale patologia:


Nistagmo di primo grado: si osserva solo quando gli occhi sono ruotati nella direzione della fase
rapida. Per esempio un paziente guarda a destra e al centro e non ha nistagmo, mentre questo è
presente quando guarda a sinistra. In questo caso la fase rapida sarà verso sinistra e diremo che si
tratta di un nistagmo di primo grado a sinistra.
Nistagmo di secondo grado: si osserva solo quando gli occhi sono in posizione mediana e ruotati

1
Esistono alcuni medicinali grazie ai quali è possibile perlomeno attenuare il fastidioso sintomo; si tratta dei
cosiddetti farmaci vestiboloplegici, principi attivi che agiscono a livello delle strutture vestibolari e
oculomotorie inibendo gli impulsi nervosi che provengono dal nervo vestibolare; fra i più utilizzati si ricordano
le fenotiazine, le benzodiazepine, le difenilpiperazine. [Albanesi]
nella direzione della fase rapida. Ad esempio un paziente guarda a destra e non ha nistagmo,
mentre il nistagmo è presente quando guarda al centro e a sinistra. In questo caso la fase rapida sarà
verso sinistra e diremo che si tratta di un nistagmo di secondo grado a sinistra.
Nistagmo di terzo grado: si osserva solo quando gli occhi sono ruotati nella direzione della fase lenta.
Il paziente guarda a destra, al centro e a sinistra ed ha sempre nistagmo.

Il nistagmo nella fase rapida muove verso il lato prevalente quindi nel caso in cui la paziente muova
gli occhi verso sinistra le opzioni sono due:

- Nevrite vestibolare irritativa a sinistra


- Nevrite vestibolare con morte del
labirinto destro

Nell’anamnesi è importante chiedere anche alla


paziente se ha problemi di udito: nel caso non
sentisse a destra si ricadrebbe nel secondo caso con
morte del labirinto di questo lato.
Il giorno successivo la paziente sta meglio grazie alla
terapia che le è stata somministrata comprendente
antiemetici, cortisone, ansiolitici (deprimono il
sistema vestibolare).
La tendenza compensativa porta in molti casi a una
scoperta casuale di uno scompenso vestibolare.

LABIRINTOPATIA TRAUMATICA

Il trauma determina la rottura del sistema


vestibolare con fuoriuscita di liquido e i sintomi saranno gli stessi di prima.
Un paziente che abbia subito un danno con perdita di equilibrio e udito per causa traumatica avrà
una rottura di labirinto e coclea.
C’è una deafferentazione acuta del sistema cocleovestibolare con tali caratteristiche, ma in
anamnesi si ha un trauma, che permette la diagnosi differenziale con la nevrite.

LABIRINTITE VIRALE O BATTERICA

Anche i germi possono essere causa di problemi del sistema vestibolare, con la necessità che siano in
loco e attraverso meccanismi differenti penetrino nel labirinto per creare una sintomatologia tale.
Dal punto di vista obiettivo si cerca qualcosa nella camera dell’orecchio medio quale un’otite che
può avere come complicanza una labirintopatia virale o batterica.
Ci si rende conto dell’erroneità delle diciture popolari per cui chi ha vertigine ha labirintite: se manca
qualcosa che propaghi elementi irritativi e infiammatori non è possibile che sia la labirintite la causa
del sintomo.

LABIRINTITE IATROGENA

Può essere determinata dall’azione del chirurgo, anche coscientemente in patologie refrattarie alle
terapie mediante il taglio del nervo che determina sintomi prima che si instauri il compenso.
MALATTIA DI MENIERE

È una malattia causata da un aumento di volume dell’endolinfa con ipoacusia neurosensoriale


fluttuante e crisi recidivanti di vertigine oggettiva.
È la seconda causa più comune di vertigine vestibolare (10-200 persone su 100'000 abitanti),
soprattutto in paesi con abitudini al consumo di cibi molto salati.
Nel labirinto c’è un’intercapedine che è la perilinfa con dentro vescicole di endolinfa comunicanti
con lo spazio perilinfatico e il canale cocleare.
Se per qualche motivo nel labirinto membranoso si crea una pletora di acqua ovvero endolinfa, la
pressione porta a dilatazione e compressione dei recettori dove ci sono le cellule cigliate con
chinociglio e ciglia.
Quando la pressione è troppa si flettono e deflettono determinando una condizione di sofferenza
fino allo scoppio delle vescicole e delle membrane.

Prima che scoppi c’è un quadro irritativo e successivamente deficitario, quindi è una malattia
fastidiosa per il paziente a causa dell’iniziale distensione irritante delle membrane seguita da
compressione paralizzante i recettori.
Il nostro sistema vede al principio una prevalenza del labirinto irritato che poi smette di funzionare
divenendo deficitario e portando a un’inversione della sensazione del movimento con iniziale
nistagmo che batte maggiormente da un lato (quello irritato) e poi dall’altro (l’unico rimasto dopo
l’instaurarsi del deficit).
C’è fluttuazione perché il meccanismo è creato da accumulo di acqua che porta a gonfiamento e
sgonfiamento alternato delle vescicole.
Seguendo il soggetto in modo quantitativo si nota il cambiamento nel battito del nistagmo.
Se il paziente ha anche riduzione di udito o acufene si pensa che la patologia abbia colpito tutto lo
spazio perilinfatico e ci siano tutte le membrane tese a creare questo tipo di problematica.

Dati audiometrici:
- Neurite vestibolare: rischio di ipoacusia o anacusia grave
- Malattia di Meniere: si ha una curva caratteristica con frequenze gravi interessate da
ipoacusia neurosensoriale.

Nell’ipoacusia da vecchiaia invece le frequenze medio gravi sono normali con interessamento di
quelle acute.
A distanza di giorni nel caso della malattia di Meniere l’esame cambia mentre se c’è ipoacusia
neurosensoriale per neurinoma dell’acustico rimane uguale perché c’è compromissione di
determinate fibre nervose e non solamente una paresi funzionale dei recettori implicati causata
dall’aumento della pressione.
Quando si hanno patologie così c’è la possibilità di ridurre la pressione con diuretici osmotici, ma non
possono essere somministrati per tutta la vita quindi si cerca di equilibrare la situazione con terapie
che prevedono di bere tanto e mangiare poco salato. Si ha perdita di sali che porta con sé liquidi
intracellulari e si riduce la pressione.
Si possono somministrare antiedemigeni come il cortisone o iniettare nel timpano farmaci ototossici
che filtrano nel labirinto dando sofferenza che però colpiscono a volte maggiormente sul versante
vestibolare o cocleare con ottimi risultati terapeutici.

VERTIGINE PAROSSISTICA POSIZIONALE BENIGNA

È data da depositi endolinfatici all’interno dei


canali semicircolari che determinano vertigine
oggettiva a seguito di movimenti del capo.
È la più comune causa di vertigine periferica con
150 casi su 100'000 abitanti ogni anno, ovvero 200-
300 casi per ogni pronto soccorso della città di
Torino.
Nella macula dell’utricolo e del sacculo ci sono
degli otoliti posti sopra la gelatina delle cellule
cigliate che servono ad appesantire la membrana e
fare in modo che a seconda dei movimenti si
velocizzi il moto delle ciglia.
Se per qualche motivo gli otoliti si staccano dalla
macula dell’utricolo e si perdono nell’endolinfa dei
canali semicircolari, girano a seconda dei
movimenti e finendo nelle ampolle avranno un moto differente da quello dell’acqua a causa di una
diversa inerzia.
L’otolite impattando sulle cellule della cupola di un canale semicircolare darà informazioni diverse da
quelle che fisiologicamente dovrebbe dare.
Quando viene compiuto un movimento
l’acqua agisce di conseguenza mentre gli
otoliti è come se restassero indietro e si
ha una vertigine nel momento in cui
piegano le ciglia con il loro passaggio, a
causa dell’arrivo di un’informazione
differente rispetto all’azione del
soggetto.
La caratteristica anamnestica che
differenzia questa patologia dalle
precedenti è la breve durata del
movimento dell’otolite che quindi
determina una vertigine parossistica,
improvvisa e posizionale.
Per la risoluzione del problema bisogna
far cadere l’otolite nel vestibolo che è un
canale più largo, facendo in modo che
venga buttato via da dove dà fastidio.
Dopo aver fluttuato in uno spazio
maggiore si decompone fino a non recare
più danni.
A destra l’immagine riporta la manovra di Semont.
Di fatto una volta identificata questa patologia può
essere gestita in modalità meccanica rimuovendo la
causa della vertigine.
Si risolve solo con anamnesi, osservazione del
paziente e due mani dell’operatore.
Le manovre di Semont, di Lempert (del barbecue,
rappresentata nell’immagine a lato ) o di Gufoni
attuano un movimento veloce e i materiali liberi
hanno una loro inerzia a seconda del movimento.
Bisogna indurre il meccanismo che si desidera per
togliere l’otolite che ha causato danni, quindi a
seguito dell’identificazione della localizzazione lo si
rimuove con le manovre.
Spostando la testa in determinate posizioni, il
canale semicircolare prenderà anatomicamente una posizione per cui l’estremo del canale è come se
pescasse dentro un pozzo quindi è necessaria un’estrema precisione per avere la giusta angolazione.
Dopo la manovra si dice al paziente di non girare la testa, sedersi, dormire supino e il giorno
seguente non avrà più le vertigini.
Il paziente dopo aver subito la manovra avrà nistagmo perché l’otolite si è spostato battendo sulle
pareti del canale semicircolare.
Dando un vestiboloplegico invece la paziente sarebbe caduta tutte le volte che fosse scesa dal letto
o che si fosse chinata a prendere qualcosa.
La diagnosi si fa posizionando il paziente in una posizione che stimoli i canali semicircolari.
Se la manovra non è compiuta nel migliore dei modi si può avere sollievo perché l’otolite si trova
lontano dal recettore ma non significa che sia uscito dal canale semicircolare.
Inoltre se vi è la presenza di più otoliti per causa degenerativa è possibile che alcuni vengano rimossi
mentre altri permangano continuando a determinare la patologia.
Se non si riesce a liberare il paziente ci si riprova magari
con una manovra diversa.

FISTOLA PERILINFATICA

Soluzione di continuo delle membrane della finestra


ovale o rotonda (immagine a destra)

FISTOLA LABIRINTICA

Soluzione di continuo della capsula labirintica.


In questo disturbo e nel precedente c’è una perdita di liquidi che determina un movimento.

DISTURBI ASPECIFICI DELL’EQUILIBRIO

Forme labirintiche
1. Deficit vestibolare bilaterale idiopatico
2. Insufficiente compenso dopo deafferentazione periferica: deficit acuto, unilaterale e
irreversibile del recettore vestibolare cui non ha fatto seguito un adeguato compenso
vestibolare.

Forme extralabirintiche
1. Malattie neurologiche degenerative e demielinizzanti
2. Tumori cerebrali e cerebellari
3. Vasculopatie cerebrali e difetti di perfusione
4. Esiti di traumi cranici
5. Vertigine cervicale
6. Vertigine emicranica
7. Vertigine oculare
8. Vertigine psicogena
9. Cinetosi
10. Cadute

Sono disequilibri e non vertigini di causa rotatoria, causati da aspetti che determinano o una lieve
sofferenza vestibolare o sofferenza a livello periferico.
La cervicale per esempio dà fenomeni di disequilibrio, ma non è un problema che riguardi il vestibolo
bensì la periferia che dà scariche erronee di movimento determinate da tensione cronica a livello
muscolare dovuta ad una postura non corretta.
Si ha quindi una sensazione di disequilibrio e non di movimento come nel caso della vertigine vista
precedentemente.
I propriocettori danno scariche erronee di movimento perché la tensione cronica a livello muscolare
determina posture anche scorrette.
VERTIGINI IN RAPPORTO ALLA DURATA DEL SINTOMO

1. PAROSSISTICHE: vengono improvvisamente e durano poco.


2. IPOTENSIONE ORTOSTATICA: pooling venoso con raccolta di sangue negli arti inferiori e
ridotto ritorno venoso all’atrio destro e successivo scarso flusso a livello cerebrale.
3. FISTOLA PERILINFATICA E FISTOLA LABIRINTICA: quando aumenta la pressione a livello
encefalico si ha la sensazione vertiginosa.
4. FORME ACUTE: malattia di Meniere, nevrite vestibolare, labirintopatia post traumatica,
iatrogena, infettiva2.
5. FORME SUBCONTINUE: determinano uno stato di malessere cronico e sono dovute a un
sistema vestibolare che non è riuscito a compensare per cui nel caso si compiano movimenti
che stimolino il sistema dell’equilibrio, questo entra in crisi.
6. CENTRALI: tutte le informazioni come stazione finale giungono al cervelletto che le mette
insieme l’una con l’altra e dà informazioni corrette.
7. FORME CRONICHE: anche inconsciamente.

2
Determinano un’infiammazione o una morte acuta del sistema labirintico.
Malattia Testa-Collo – Otorinolaringoiatria, Succo
16/04/2018
Sbobinatore: Francesca Priotto
Revisore: Maria Vittoria Parola

ANATOMO-FISIOLOGIA DEL NASO E DEI SENI PARANASALI


Scheletro osteo-cartilagineo del naso
Il naso viene identificato dalla maggior parte delle persone con quella che è la parte esterna. In realtà,
quest’ultima è solo una parte di tutto il complesso nasale. Il naso è una delle parti del corpo che più riflettono
la proiezione di quella che è la nostra percezione corporea.

Il naso, inteso come piramide nasale, è composto da una parte ossea e una parte cartilaginea. Se fosse
composto totalmente da tessuto cartilagineo, e quindi totalmente elastico, collasserebbe; se fosse formato
solo da tessuto osseo, si romperebbe facilmente perché protrude dal massiccio faciale. È quindi importante
la presenza di entrambe le componenti, cartilaginea e ossea, perché in tal modo si sfrutta sia la robustezza
dell’osseo in termini protettivi, sia l’elasticità della cartilagine per evitare fratture traumatiche.

La parte più importante e grossa


del naso è quella che si trova
all’interno della cavità nasale,
suddivisa in cavità nasale destra
e sinistra. La parete mediale
della fossa nasale (setto nasale)
è costituita internamente dalla
cartilagine quadrangolare, dalla
lamina perpendicolare
dell’etmoide e dal vomere. Il
pavimento settale è formato
dall’osso palatino. La
caratteristica anatomico-
funzionale del setto nasale è
quella di essere una parete muta
(resistente). La parete laterale
della fossa nasale è invece
totalmente diversa da quella mediale: presenta dei turbinati che
sono il turbinato inferiore, medio e superiore. I turbinati medio
e inferiore proteggono orifizi che permettono una
comunicazione tra la fossa nasale e le cavità paranasali.

Qual è la funzione dei turbinati? I turbinati dividono il flusso


aereo in tre diversi rivoli. Essendo il setto nasale riccamente
vascolarizzato, grazie alla presenza
di corpi cavernosi (come nel pene
e nel capezzolo), i quali si gonfiano
e si sgonfiano di sangue, l’aria
viene scaldata dal calore del sangue ma anche filtrata. Si tratta quindi di una
valvola idro-pneumatica che determina una variazione di flusso e una
variazione delle caratteristiche chimico-fisiche dell’aria che passa all’interno.
Mucosa
È formata di cellule pavimentose, cellule con ciglia corte e cellule con ciglia lunghe. Sulle ciglia passano le
sostanze di scarto presenti nel naso, invischiate con il muco e trasportate verso la rinofaringe dove poi
cadranno nel sistema digerente per essere digerite e riciclate. La superficie mucosa del naso è molto
specializzata. Il muco, che contiene cellule immunitarie, “aggancia” le particelle che entrano nel naso e le
porta verso apparati più resistenti agli insulti batterici (es. apparato digerente).

Vascolarizzazione
Il naso è caratterizzato da un’importante
vascolarizzazione. Questo è legato al fatto
che nel naso esistono delle strutture
vasomotorie che sono fortemente legate
all’irrorazione arteriosa e venosa. È
presente una rete mirabile arteriosa,
anastomosi tra l’arteria carotide interna ed
esterna, in particolare tra alcuni rami della
carotide esterna, la quale irrora tutto il
massiccio faciale, e l’unico ramo della
carotide interna, il quale fuoriesce dal
cranio per dirigersi verso le cavità nasali
ovvero l’arteria oftalmica. Dopo essersi staccata dalla carotide interna, l’arteria oftalmica dà origine
all’arteria etmoidale anteriore e posteriore: entrambe fuoriescono dall’ orbita ed escono dal cranio
scendendo verso il basso. Questo fa sì che la pressione sanguigna all’interno del naso sia il doppio di quella
circolante: si tratta di una sorta di salasso, necessario in caso di aumento della tensione intracerebrale. Per
quanto riguarda il drenaggio venoso, dal comparto nasale anteriore, il sangue viene immesso nella vena
faciale che poi raggiunge le vene sottomandibolari, mentre tutte le altre aree nasali vengono drenate dalle
vene profonde. Le patologie che riguardano il complesso naso-sinusale possono dare come complicanza una
trombo-flebite.

Innervazione
Il naso è sede di una ricchissima arborizzazione nervosa di tipo parasimpatico. Il sistema naso-sinusale dal
punto di vista fisiologico è legato all’attività cardiaca: il sistema vagale è legato al cuore, abbassandone la
frequenza. Durante lo sport è importante respirare con il naso (l’attivazione parasimpatica è importante per
evitare un eccessivo aumento della frequenza cardiaca che renderebbe l’organismo incapace di affrontare
un’attività fisica prolungata). Un’eccessiva stimolazione vagale (es. cocaina) può, però, portare ad arresto
cardiaco.

Seni paranasali
I seni paranasali sono cavità aeree che comunicano con la cavità nasale, circondandola, e sono: seno frontale,
seni etmoidali e seno mascellare. I seni paranasali hanno diverse funzioni:

 Funzione di condizionamento dell’aria: isolano (ad esempio fanno da interfaccia tra una temperatura
esterna di -8°C e quella faringea che è di 35°C);
 Formano un deposito per il muco;
 Alleggeriscono le ossa;
 Funzione fonatoria: creano una sorta di cassa di risonanza della voce. Tappando il naso, infatti,
cambia la risonanza nasale e quindi la voce;
 Proteggono le strutture cerebrali: in seguito a traumi, il massiccio faciale, grazie alla presenza dei seni
paranasali che sono cavi, non si spacca completamente ma si frantuma;
 Funzione detersiva (in maniera aspecifica o più specifica);
 Funzione reflessogena: entrando nel naso siamo in grado di riconoscere le caratteristiche dell’aria ed
eventuali particelle nocive che vengono eliminate mediante lo starnuto;
 Controllo dello stato di contrazione dei muscoli della faringe, dei muscoli respiratori e dell’apparato
cardio-circolatorio;
 Funzione olfattiva: il bulbo olfattorio si trova sopra il naso. La funzione olfattiva avviene con un
meccanismo diretto, ma anche con un meccanismo indiretto: l’aria raggiunge queste aree attraverso
un meccanismo continuo di entrata ed uscita.

Guardando in profondità nella narice, mediante dei dilatatori, si può


vedere la valvola turbinale: si tratta di un restringimento naturale formato
dal fatto che le cartilagini incontrano la testa del turbinato. Si forma in
questo modo una valvola che può essere più o meno stretta: l’aria
all’interno dei turbinati accelera per la legge di Bernoulli e andrà più
lontano. Questo ha due vantaggi: la frequenza cardiaca non crescerà e con
atto respiratorio più lento si riesce a scambiare ossigeno nei polmoni
esattamente come avviene durante gli atti respiratori effettuati con la
bocca.

Semeiotica rinologica
I possibili sintomi associati a patologie nasali sono:

- Ostruzione respiratoria (saltuaria, permanente, progressiva, improvvisa, unilaterale, bilaterale,


alterata, inspiratoria, espiratoria etc.);
- Disturbi olfattivi (iposmia, anosmia, parosmia, cacosmia);
- Alterazione del timbro vocale;
- Rinorrea: riguarda qualsiasi liquido che esce dal naso (sierosa, purulenta etc.);
- Epistassi;
- Dolore: proiezione dei seni paranasali;
- Starnuto.

E.O.

 Ispezione;
 Palpazione;
 Rinoscopia una volta l’osservazione delle narici veniva effettuata a occhio nudo e successivamente
mediante rinoscopia anteriore, fibroscopia anteriore e posteriore. Attualmente la fibroscopia è il
gold standard della diagnostica naso-sinusale;
 Endoscopia retrograda: permette di vedere le coane;
 Specchio di Glatzel;
 Rinomanometria;
 Citologia faciale.

Imaging

L’esame rinologico va spesso associato a un esame radiologico (TC del massiccio faciale). Si possono
effettuare anche RM.
Lezione del 19/04/2018 - Succo
Sbobinatore: Matteo Prizzon
Revisore: Mirko Caprioglio

PATOLOGIA NASO-SINUSALE
Si tenga presente che il naso ha una duplice composizione: ossea e cartilaginea. Sia la piramide nasale sia il
setto sono composti da entrambe le componenti.
I sintomi della patologia naso-sinusale (epistassi, rinorrea, naso chiuso) sono molto conosciuti; il problema
fondamentale è riuscire a capire la patologia in questione quando si ha sotto agli occhi un sintomo uguale
per tutti: è necessario trovare un modo per differenziare i vari casi. Per esempio, per distinguere
un’infiammazione da corpo estraneo da una poliposi basta osservare il paziente, poiché la poliposi è
generalmente una malattia bilaterale mentre chiaramente il corpo estraneo coinvolge una sola fossa nasale;
tuttavia i sintomi di base sono simili. Sono dirimenti anche l’esame obiettivo e soprattutto la TC, ma la
soluzione è spesso intuibile con anamnesi ed osservazione del paziente.
Patologia monolaterale, sanguinolenta, purulenta, con ostruzione respiratoria e cacosmia: spesso è un
corpo estraneo.

Le cause di patologia naso-sinusale possono essere congenite od acquisite. Si individuano principalmente:


 Malformazioni, che possono appunto essere congenite oppure acquisite, come la deviazione del
setto nasale.
 Traumi, che possono portare a malformazioni acquisite. La patologia traumatica è importante
poiché, essendo questo un distretto proiettato al di fuori dell’organismo, è molto suscettibile al
danno.
 Malattie del naso e seni paranasali, soprattutto le infiammazioni:
o rinite acuta virale o còriza;
o rinite cronica (infiammazione che non guarisce nel tempo);
o rinite allergica: dovuta a reazione specifica contro un antigene in individui predisposti;
o rinite non allergica: stesso funzionamento ma trigger diverso, cioè un fattore aspecifico,
anche psicologico o legato alle condizioni atmosferiche (caldo e freddo), scatenato da
modificazioni della sottomucosa a seguito di infiltrato di cellule infiammatorie (es. linfociti);
 Poliposi naso-sinusale, che
non è in realtà una causa a sé,
bensì il risultato conseguente
alle patologie infiammatorie.
Quando si crea un edema
infiammatorio nelle strette
camere nasali, si ha un esubero
di mucosa che quindi straborda
e si presenta con forma
poliposa.

Deviazione del setto nasale


Il setto nasale è una parete muta, statica, composta da cartilagine ed osso; non ha alcuna funzione particolare
se non separare le due fosse nasali. Nel momento in cui esso va incontro, o congenitamente o a seguito di
un trauma, ad una deviazione, determina un ostacolo al transito dell’aria. La deviazione può essere molto
varia, sia sul piano assiale sia sul piano coronale. È veramente difficile che ci sia una deviazione tale da
bloccare completamente la respirazione. Si potrebbe
essere portati a pensare che, avendo due fosse nasali ed
essendo il setto deviato da un lato, l’altro lato abbia più
spazio e sia più grande; tuttavia non è vero, perché la
parete laterale del naso è vitale, ci sono strutture
dinamiche che si riempiono o svuotano di sangue in
funzione di mantenere un certo tipo di attività del naso,
di resistenza e di temperatura ottimale dell’aria e quindi,
pur essendoci potenzialmente più spazio, il volume
viene riempito da un’ipertrofia compensatoria dei
turbinati. Ciò porta ad una riduzione del transito
dell’aria, talvolta di grado anche maggiore del lato
colpito dalla deviazione del setto. Quindi il naso, nel complesso, ha una compromissione notevole nella
respirazione.
Tutto quello che viene proiettato sulla fossa nasale, automaticamente si proietta anche sulle cavità
paranasali, perché avendo esse una parete con orifizi comunicanti con la camera e la fossa nasale, se si ha
deviazione del setto nasale ed ipertrofia dei turbinati l’aria difficilmente avrà un flusso rettilineo ma tenderà
ad assumere un atteggiamento vorticoso. Un flusso vorticoso determina due effetti negativi: le secrezioni
ristagnano e l’aria non raggiunge bene le cavità limitrofe. Le cavità non vengono dunque areate, c’è ristagno
di sostanze, infiammazione ed infezione. Il seno mascellare rischia notevolmente di avere complicanze
infettive e sinusitiche. Bisogna avere un chiaro riferimento anatomico, che si può visualizzare tramite un
esame radiologico o un esame endoscopico. Si vedrà uno sperone nella parete laterale del naso, fino ad
occludere la strada per l’aria. Anche trattando la sinusite, se non si risolve la deformazione il paziente avrà
nuovamente problematiche dopo poche settimane.

Traumatismi
Il traumatismo del naso è frequente, per via della sua anatomia. La situazione in questo caso può diventare
molto grave, poiché il naso, in virtù della sua resistenza in alcuni punti ed elasticità in altri, può essere l’origine
di un processo traumatico che non si esaurisce al naso ma si irradia da esso alle strutture circostanti. Se il
colpo interessa un’area elastica spesso non si hanno conseguenze rilevanti; tuttavia, se sono coinvolte le zone
più rigide e resistenti, o c’è una frantumazione delle ossa nasali oppure l’energia cinetica ceduta dal corpo
contundente alle ossa del naso (che sono come detto molto resistenti) porta alla creazione di una vera e
propria crepa. Tale crepa può irradiarsi ed estendersi; la frattura del naso può quindi essere come la punta
di un iceberg, con una sottostante frattura del massiccio-facciale. Le più gravi sono le fratture irradiate alla
base del cranio, perché tale regione è un tavolato osseo che da una parte comunica con il settore
endocranico, dall’altro con le aree sinusali, e dato che subito sopra le ossa nell’endocranio ci sono le meningi,
il rischio è che le meningi abbiano una soluzione di continuo, con comunicazione tra cavità endocranica e
cavità naso-sinusali. Ciò porta alla contaminazione di un’area che invece non dovrebbe essere a contatto con
l’esterno, con un rischio grave di complicanze anche mortali.
Gli agenti lesivi possono agire direttamente oppure con incidenza obliqua, con vario coinvolgimento osseo e
cartilagineo.

Le fratture della piramide nasale con coinvolgimento delle ossa massiccio-facciali sono raggruppate in tre
categorie, secondo la classificazione di Le Fort:
 Frattura di LeFort I: detta anche
bassa o orizzontale, può risultare da una
forza diretta verso il basso sul bordo
alveolare della mascella. È conosciuta
anche come palato fluttuante e
coinvolge solitamente la porzione
inferiore dell'apertura piriforme.
 Frattura di LeFort II: detta anche
media o piramidale, può risultare da un
trauma alla mascella media o inferiore,
e di solito coinvolge il bordo inferiore
dell'orbita.
 Frattura di LeFort III: detta anche
alta, trasversale o anche disgiunzione
cranio-facciale, coinvolge solitamente
l'arco zigomatico.

Il trattamento della frattura delle ossa nasali, alla luce della conformazione a “sandwich” dell’area (pelle-
osso-mucosa interna), prevede una contenzione a cielo chiuso, per cercare di ricostruire la piramide nasale
con sostegni sia interni sia esterni. Si possono usare archetti o mascherine all’esterno e un tamponamento
all’interno; in genere la ricostruzione è ottimale per via della ricca vascolarizzazione dell’area. Nel caso invece
di fratture coinvolgenti il massiccio-facciale, è imperativo intervenire tempestivamente con un sistema di
contenzione a placche e viti, per evitare danni gravissimi: l’arcata superiore dei denti può cadere (soprattutto
nel Le Fort I), l’intera faccia può subire danni irreparabili.
Quando il colpo è forte e in un punto molto resistente, l’irradiamento alla base cranica è più probabile e
dunque la situazione più grave.

Nell’immediato segni e sintomi sono molto chiari, ma nel lungo termine un paziente può presentare sintomi
classici di allergia e sinusite e magari non voler raccontare o non dare peso all’episodio di anni prima in cui si
era fratturato il naso. Quindi l’episodio acuto è facile da diagnosticare, ma la sequela di un fatto acuto è
spesso difficile, anche se in realtà basta porre le giuste domande durante l’anamnesi.

Rinite
Con rinite si intende l’infiammazione della mucosa nasale. Le riniti possono essere batteriche, virali,
allergiche o non allergiche. Molto importante è l’anamnesi, per identificare la causa ed indirizzare la
diagnostica. Per esempio, un soggetto di circa trent’anni che si presenta per la prima volta con i segni e
sintomi di una rinite è improbabile che abbia una rinite di natura allergica, poiché vorrebbe dire che fino a
quel momento della sua vita non aveva mai avuto interazioni con l’antigene responsabile (è possibile se si è
trasferito o ha cambiato di recente le sue abitudini); se i sintomi invece si palesano grossomodo ogni anno
nello stesso periodo, allora è molto probabile che si tratti di allergia. Spesso per i problemi al naso i pazienti
tendono all’automedicazione, e ciò può alterare l’anamnesi o l’esame obiettivo.

Negli Stati Uniti, il raffreddore costa ogni anno 100 milioni di giorni di lavoro e in tutto 7 miliardi di dollari. Si
tratta dunque di una patologia dal notevole impatto socio-economico; ciò viene amplificato dal fatto che
generalmente nessuno si rivolge al medico per un raffreddore ma molta gente a seguito di un’inappropriata
automedicazione sviluppa una complicanza che la porta ad avere problematiche più gravi, fino all’intervento.
Ciò, ovviamente, aumenta il costo.

Un’infezione che inizia come virale può poi svilupparsi ed essere sostenuta anche da batteri, portando a danni
nasali e sinusali. I fattori che comportano che nella maggior parte delle persone il raffreddore guarisca da
solo e solo in una ridotta percentuale della popolazione vi sia maggior durata della malattia o sviluppo di
complicazioni sono:
 predisposizione immunitaria, ovvero se c’è una situazione di immunocompromissione la malattia
potrà svilupparsi di più; è sufficiente anche solo una terapia a base di cortisone per essere più
suscettibili alle infezioni.
 predisposizione anatomica, più importante. Quando si crea un edema della mucosa in una fossa già
di ridotte dimensioni si sigilla la struttura, non c’è più il fattore più importante per la cura dalla
malattia, che è l’ossigeno. È importante che, anatomicamente, possa continuare a passare almeno
un po’ d’aria.

La terapia mira dunque al ripristino funzionale su base anatomica: dal momento che la fossa nasale ha un
meccanismo vasomotorio, la terapia è ricreare lo spazio usando vasocostrittori. Si tratta di uno dei pochi casi
in cui i vasocostrittori trovano un valido utilizzo terapeutico. Il vasocostrittore non è solo la terapia
sintomatica (unitamente ad altri strumenti farmacologici come gli antistaminici), ma crea la predisposizione
fisiologica alla risoluzione della malattia. A causa del gonfiore e dell’edema della zona, la rinoscopia è di
difficile esecuzione.
Bisogna tenere presente che gran parte delle infezioni ed infiammazioni di strutture limitrofe al naso partono
spesso dal naso. Se c’è una rinite acuta che chiude il naso, impedendo il passaggio dell’ossigeno, si ha la
proliferazione di germi anaerobi. Si crea una camera chiusa in cui l’aria viene riassorbita dalle mucose, si
genera una pressione negativa ed un accumulo di secrezioni, che poi si infettano e tracimano arrivando a
coinvolgere anche le strutture circostanti.

Riniti croniche: deficit immunologici possono compromettere le difese rendendo la risposta insufficiente
all’eliminazione dei fattori esterni dannosi. Inoltre, a seconda dell’età, la risposta sarà più (fase adulta) o
meno (infanzia e vecchiaia) efficiente. Anche durante la gravidanza si ha riduzione delle risposte immuni e
maggiore suscettibilità all’insorgere di riniti croniche per depauperamento delle difese. Nell’anzianità
l’efficienza del sistema immunitario è più bassa. Da un punto di vista eziologico e patogenetico, le forme
croniche non si distinguono in maniera evidente dalle acute: in genere queste ultime sono più pesanti,
mentre nelle croniche l’organismo si abitua; il problema però è che il medico deve imparare a declinare e
distinguere le due forme sulla base di un semplice criterio, ossia la durata della sintomatologia. Se dura una
settimana - 10 giorni è acuta, se dura da molto tempo è con ogni probabilità una forma cronica. Si può anche
considerare una fase subacuta, in cui c’è una sintomatologia di durata intermedia tra acuta e cronica, per
avere più margine di diagnosi. È preferibile comunque classificarle solo come acuta e cronica, considerando
la subacuta un sottoinsieme delle acute.
Le riniti croniche, a causa del perdurare delle situazioni favorenti l’infezione, andranno ad aggravare
anatomicamente i problemi già preesistenti: una rinite cronica, che determina blocco, impedisce
progressivamente il passaggio dell’aria, fino alla completa occlusione e alla proliferazione dell’infezione.
Quando un processo cronicizza bisogna ricorrere allo specialista che deve fermare alla base il processo
patologico: spesso è necessario operare per risolvere la condizione anatomicamente favorente la malattia.
In tutte queste condizioni c’è qualcosa che ostacola il passaggio dell’aria.

Una forma cronica importante da conoscere è l’ozena, in cui l’infezione cronica non riesce più ad avere un
filtro da parte della mucosa; si ricordi che questa ha una sottomucosa dove c’è il circolo del sangue e quindi
se c’è un’infezione che interessa la mucosa c’è ancora un ulteriore linea di difesa. Se però l’infezione riesce
ad arrivare all’osso e a dare un’osteomielite, si hanno dei sequestri, l’osso viene espulso e la piramide nasale
dopo un po’ crolla. L’ozena è quindi una particolare forma di rinite cronica, caratterizzata da una marcata e
diffusa atrofia della mucosa nasale. Il disturbo si estende a coinvolgere anche le ghiandole, lo scheletro dei
turbinati e le terminazioni nervose che si distribuiscono al naso. Si tratta di una forma grave di rinite cronica
che arriva ad interessare l’osso. Dal naso emerge un odore molto forte di marcio, e la tendenza di queste
infezioni è di estendersi nel comparto naso-sinusale costringendo ad interventi aggressivi per risolvere la
situazione.
Riniti allergiche: Il 20% della popolazione è affetta da rinite allergica; si sviluppa per la presenza di una
predisposizione genetica, familiare, ma c’è anche un fattore ambientale. Se un bambino è maggiormente
esposto, nell’infanzia, ad antigeni ambientali, è più difficile che sviluppi un’allergia verso tali antigeni: nei
paesi ricchi l’allergia è infatti 5 volte più diffusa che nei paesi poveri. Anche l’abuso di farmaci ed antibiotici
tende a variare equilibri del sistema immunitario, per cui si favorisce l’insorgenza della patologia. Quindi, la
tendenza all’allergia cresce con il migliorare delle condizioni generali di vita. C’è una immunoreazione di
tipo 1, una reazione antigene-anticorpo, quindi per fare diagnosi bisogna ricreare tale reazione per
dimostrare quale antigene è quello coinvolto nell’allergia. Le prove allergometriche, Prick test e RAST test,
sono dunque utilizzate nella diagnosi.

Ciò che causa la reazione allergica è un improvviso e consistente rilascio di istamina, la quale è liberata anche
in altre situazioni, ma la sintomatologia sarà comunque la medesima. La prova allergometrica serve appunto
a dirimere i dubbi in quest’ambito. Una sintomatologia simile ma in soggetto non allergico produrrà una
situazione pseudoallergica, in cui il mediatore è sempre l’istamina ma la causa scatenante non è la reazione
antigene-anticorpo. Ci saranno quindi altre situazioni da indagare con l’anamnesi. Una di queste
pseudoallergie è il cosiddetto naso dello sciatore: quando si passa da un ambiente molto freddo ad uno
molto caldo, si ha rinorrea, starnuti, altri sintomi simili all’allergia; questo avviene perché si ha un rilascio di
istamina in risposta al repentino cambio di temperatura. Ipoteticamente, assumendo un antistaminico si
avrebbe comunque miglioramento dei sintomi essendone il rilascio di istamina la causa. La distinzione non è
il mediatore, ma ciò che ha portato al suo rilascio.

A seguito di una crisi allergica si riscontra naso pallido, i turbinati si gonfiano, è importante l’anamnesi
familiare; in forme di difficile diagnosi di certezza è fondamentale la citologia nasale, un esame che, a seguito
della raccolta di cellule del naso, permette di visualizzare la numerosità di alcune cellule rispetto ad altre e
fare una diagnosi di conseguenza. In una rinite allergica si avranno tante IgE, quindi tanti linfociti eosinofili;
in una rinite di tipo infettivo si troveranno tanti neutrofili. La citologia nasale è dunque importante perché
permette di distinguere, soprattutto nelle forme più complicate, patologie simili tra loro.

Terapia della rinite allergica:


 La scelta più efficace e banale è semplicemente quella di evitare il contatto con l’antigene a cui si è
allergici, se possibile.
 L’immunoterapia specifica consiste nell’iposensibilizzazione: ad un paziente allergico ad una
sostanza, si somministrano piccole dosi di quella sostanza nel tempo in modo da sviluppare una
tolleranza verso l’antigene.
 L’antistaminico ha un enorme vantaggio sintomatico e non va incontro a riduzione dell’efficacia:
agisce legandosi con più affinità ai recettori a cui si legherebbe l’istamina, impedendone l’azione.
Tuttavia, si tratta di un farmaco solo sintomatico, che non risolve la situazione di fondo.
 I corticosteroidi locali e sistemici servono perché agiscono a livello della sottomucosa, la reazione
allergica determina un’infiammazione e il cortisone può alleviare molto i sintomi.
 Decongestionanti e vasocostrittori: anche questi sono sintomatici ma il problema è che a lungo
andare bruciano la potenzialità vasomotoria nasale, determinando vasoparalisi a carico delle
strutture vasomotorie.
 La chirurgia può essere indicata nella rinite allergica, perché quest’ultima si somma in termini
negativi alle deformazioni, come la deviazione del setto nasale, amplificando i sintomi.

Le riniti pseudoallergiche (non allergiche) hanno le stesse caratteristiche sintomatologiche delle allergiche,
ma le cause sono molto varie: reazione a temperatura ambientale, esposizione al sole, stress emotivo,
squilibrio psicosomatico, periodo premestruale o menopausale, ingestione di elementi caldi, microtraumi. È
uno dei fenomeni in aumento nelle stagioni fredde per via della concentrazione delle polveri sottili durante
il periodo invernale: la polvere determina a lungo andare all’interno della mucosa dei fenomeni che portano
a reazione simil-allergica, ma senza reazione antigene-anticorpo specifica. D’estate si respira meglio perché
l’aria è più pulita e queste polveri sono meno concentrate.
PATOLOGIA NASO SINUSALE
POLIPOSI NASO SINUSALE
“Polipi nasale” è una dicitura clinica.
La poliposi nasale è caratterizzata dalla presenza di formazioni che hanno vagamente la morfologia della
testa di un polipo, che si apre un po’ sfasata, a superficie liscia e sono espressione clinica di una patologia
con eziologia multifattoriale.
C’è un certo tipo di controversia sulla reale origine dei polipi perché, essendo una manifestazione clinica, ci
possono essere più cause o concause che possono incidere sullo stesso soggetto.
Tendenzialmente l’aspetto patogenetico generale è quello dell’edema della mucosa che è una condizione
clinica per cui, se in una cavità ristretta c’è una mucosa che cerca di crescere, questa ernia e assume una
formazione a testa di polipo, quindi con una parte peduncolare più stretta e una terminale più larga a
superficie liscia.
Le cause possibili vanno dalla rinite allergica, che è una condizione che tende a far edemizzare le mucose
nasali, a forme pseudoallergiche e infettive, come l’infezione della mucosa da parte di funghi la cui crescita
è facilitata dall’abuso di cortisone e da situazioni di scarsa areazione.
Quando si è raffreddati infatti, l’aria non passa e se c’è una cronica assenza di esercizio naturale da parte di
una cavità nasale, si creano le condizioni favorenti per il ristagno delle secrezioni e quindi per la
propagazione di un’infezione a mucosa e sottomucosa.
Il persistere di una situazione di continua irritazione è legata nel caso delle forme pseudoallergiche ad un
fattore specifico, mentre in quelle allergiche al rilascio di istamina.
Ci sono forme che sono invece l’espressione locale di una malattia generale (es. fibrosi cistica).
Queste sono le diverse cause che portano una quota assolutamente non trascurabile di popolazione
normale a presentare la poliposi nasale. Colpisce il 4% della popolazione, più frequentemente i maschi
rispetto alle femmine e soprattutto di età avanzata, visto che è necessaria una certa quota di tempo prima
che si creino le condizioni che favoriscano la formazione dei polipi.

A livello macroscopico si vede una formazione peduncolata che fuoriesce dalla mucosa naso sinusale,
mentre a livello microscopico si vedono fibre con epitelio respiratorio normale a indicare che c’è edema
della sottomucosa essendo l’epitelio normale, con stroma invece molto lasso.
La poliposi nasale è una neoformazione di elementi che sono abbastanza deserti e quando si fanno
interventi distruttivi si fa anestesia locale.

La sintomatologia è legata essenzialmente all’ostruzione nasale.


Non respirando bene e occludendo aree di passaggio dell’aria verso aree a funzione specifica, come
l’epitelio olfattivo, le particelle non raggiungono il detector di questa sensazione per cui si avrà un’iposmia
o anosmia proprio per assenza di contatto tra la particella odorosa e il recettore che dà origine a tutta la
sensazione olfattiva.
Quando si iniziano ad occludere cavità si creano accumuli di catarro e di muco che possono finire per
esempio nei bronchi, ma si possono avere anche fenomeni che si orientano verso un’altra sede, come il
distretto tubarico.
Da un punto di vista anatomico la poliposi nasale avviene nella fossa nasale che è però formata da diversi
componenti portando ad aree in cui la poliposi nasale si sviluppa preferenzialmente. È importante però
ricordarsi che ad un determinato distretto corrispondono determinate aperture e la poliposi avrà quindi
effetti diversi in base alla zona che colpisce e alla sua estensione.

La diagnosi è a volte automatica in seguito a un’anamnesi positiva (per la presenza di tutta una serie di
sintomi), con uno speculum nasale e una luce frontale con cui si dilata l’orifizio e si vedono i polipi.
Quando però la poliposi non è massiva bensì ridotta si usano determinati strumenti.
Bisogna sempre correlare le immagini cliniche con quelle radiologiche per fare una prediagnosi o diagnosi
precoce delle complicanze delle rinosinusisti croniche dovute alla poliposi nasale.
La poliposi non determina più frequentemente la comparsa di un carcinoma in questo distretto.
Non è infrequente però che ci sia una poliposi sentinella rispetto alla presenza di un cancro.
Essendo la poliposi figlia di una situazione di irritazione locale con problematiche legate alla cattiva
aerazione, un cancro che cresce in maniera abbastanza aggressiva non fa altro che disporsi in una zona
senza far passare aria. A monte si crea un’area di sofferenza che crea edema cronico della mucosa
portando così ad una situazione di iperplasia ed ipertrofia e quindi alla formazione di un polipo.
La poliposi in questo caso è di solito monolaterale e visto che il cancro mangia le strutture molto
vascolarizzate si avrà una poliposi sanguinante.
Pertanto una parete che sanguigna monolaterale va tenuta sotto osservazione e grazie alle immagini
radiologiche si può vedere l’aspetto aggressivo ed erosivo di queste poliposi sentinella.

L’algoritmo diagnostico vuole dare una causa alla poliposi nasale.

All’interno di una massa carnosa se ci sono sepimenti ossei (anche assottigliati) vuol dire che non è
presente un atteggiamento erosivo della massa, mentre se si ha invece una formazione sentinella, questi
non si vedono.

Altri esami possono essere utili per dare un’ipotesi di una causa perché in tale momento oltre ad asportare
i polipi con approccio chirurgico si danno anche farmaci che vadano a diminuire il grado di reattività della
mucosa nasale determinante la crescita dei polipi.
C’è una classificazione legata al grado di coinvolgimento della fossa nasale da parte della poliposi.
La gradazione di tipo 1 corrisponde al polipo antrocoanale, un polipo che nasce nel seno mascellare e
arriva fino alla coana.
Si cerca di togliere il polipo sempre dalla radice/base di impianto, permettendo così di avere meno recidive
perché altrimenti se si tira dalla parte opposta si rischia di romperlo nel punto in cui il passaggio è più
stretto.
Per capire correttamente dove si trova la radice del polipo si ricorre all’ischemizzazione che fa diminuire il
volume delle strutture nasali e non facendo sanguinare permette di identificare esattamente da dove
derivano i polipi.
Quando la poliposi è massiva e associata a rinosinusite cronica si toglie il più grosso identificando le sedi
possihili e poi si procede (debulky).
Queste forme di poliposi sono affrontate con chirurgia endoscopica e quando è massiva si crea uno
strumento che possa aspirare e tagliare in modo selettivo senza che aggredisca troppo la parete con il
rischio di formare coaguli che fanno poi da ponte per l’instaurarsi di sinechie. Si usano cannettini di
aspirazione che sono lisci e non rovinano la parete con la parte non tagliente verso le strutture da
risparmiare, mentre la parte che aspira e taglia verso la parte del lume.
In base al grado della patologia si può decidere se intervenire con un approccio chirurgico (FESS) o con la
terapia medica (che può essere coniugata con la FESS in caso di fallimento).
La terapia medica può essere: antiedemigena, antiallergica, antibiotica ecc.

EPISTASSI

Un sanguinamento forte dal naso può finire in un’altra cavità e questo porta a volte a situazioni di
incomprensione.
La caratteristica dell’epistassi/rinorragia/emorragia è la fuoriuscita di sangue dal naso e rappresenta
l’urgenza più frequente della pratica otorinolaringoiatrica con la possibilità di essere determinata da diverse
cause e di essere lieve o grave.
Esistono picchi circadiani e circannuali di insorgenza dell’epistassi. I primi si riferiscono ai momenti della
giornata in cui la pressione è più alta, cioè la mattina quando appena svegli e la sera.
Ci sono anche fattori circannuali che dimostrano come questo tipo di sintomatologia sia più frequente nei
mesi ad alta insorgenza di infezione di tipo virale, l’influenza (dicembre, gennaio e febbraio) e in quelli
molto caldi, durante i quali si crea una sorta di ipotensione con però vasodilatazione che si manifesta anche
a livello nasale.

Da un punto di vista patogenetico il problema fondamentale è che a livello della fossa nasale si ha un flusso
bidirezionale: uno che dal cuore va verso la periferia e uno che, avendo già penetrato la cavità endocranica,
fuoriesce da questa e ritorna verso la fossa nasale. Quindi, pur essendo sangue arterioso, che tenderebbe
normalmente ad allontanarsi dal cuore con direzione centrifuga, si ha un flusso centrifugo e uno centripeto
che si incontrano nelle reti mirabili arteriose a livello della porzione inferiore del setto nasale ma anche a
livello posteriore e laterale dove ci sono strutture arteriose che fuoriescono dalla parete della fossa nasale.
Si ha la sommatoria di valori pressori che dipende dalla velocità e quindi dall’energia cinetica dei due flussi.
Ci sono poi fattori predisponenti legati a scarso tropismo della mucosa o locali, come soggetti che mettono
in continuazione le dita nel naso creando piccoli tagli a livello della mucosa che formano croste che con il
muco talvolta anche infetto tendono ad infettarsi. Se infilando le dita il soggetto toglie queste croste
essendoci al di sotto tessuto di granulazione, a causa del picco pressorio si ha un sanguinamento.
Questa situazione si presenta anche nei soggetti che tirano di cocaina, che essendo un potente
vasocostrittore determina un’ischemia della mucosa, portando alla formazione di tessuto di granulazione
che però viene continuamente insultato da queste abitudini voluttuarie portando così alla formazione di
buchi nel setto nasale che determinano il collasso della piramide e sanguinamento.
Ci sono arterie che sono di pertinenza del circolo della carotide esterna che vanno poi ad anastomizzarsi
con arterie della carotide interna che derivano nella fossa nasale da emergenze delle arterie collaterali
rispetto all’oftalmica.
Sotto il turbinato medio c’è l’emergenza dell’arteria sfenopalatina e se si creasse un danno
iatrogenicamente in questa sede o in seguito a una crisi ipertensiva si avrebbe la rottura dei capillari a
causa del fatto che non hanno un’avventizia e una tonaca media ma solamente un endotelio che è più
debole rispetto a quelle delle arterie.

Quando ci si trova di fronte a qualcuno che presenta epistassi non bisogna subito elencare le possibili cause
che potrebbero averla determinata, ma dal punto di vista pratico bisogna subito capire se il paziente è in
una condizione di shock emorragico o meno.
Come seconda cosa se si è in un luogo attrezzato è necessario mettere in sicurezza le condizioni del
paziente e bisogna rendersi conto che ci sono epistassi legate al fatto che il sangue coagula poco, oppure ci
sono condizioni generali predisponenti, come malattie dell’apparato gastroenterico e cardiocircolatorio.
Ci sono anche fattori locali: botta, trauma chirurgico o qualsiasi cosa che vada ad incidere negativamente
sul tropismo della mucosa nasale.
Anche le neoplasie sono considerate tra i fattori locali ma intervengono più cronicamente.

L’approccio al paziente è un aspetto fondamentale.


Prima bisogna valutare le condizioni generali, poi attraverso l’anamnesi identificare la possibile causa e poi
bloccare l’epistassi attraverso un artifizio tecnico che deve essere il più mirato possibile.
L’epistassi può essere determinata da diverse cause generali: scarsa coagulazione del sangue, come in caso
di cirrosi per scarsa sintesi di vitamina K, piastrinopenie, emofilia; oppure per iperpressione. Se non si
capisce da dove sanguina si può mettere un tampone nella fossa nasale con delle pinze: questo però
inizierà a grattare mentre passa lungo la zona creando così un ulteriore sanguinamento.
Le condizioni generali sono quindi le cose più importanti da valutare prima di scegliere un trattamento.
L’anamnesi è fondamentale se si considera che 2 milioni di cittadini italiani fanno terapia anticoagulante e
antiaggregante.
Un paziente in stato di shock si presenterà pallido, con sudorazione fredda, una PAOS che magari è partita
molto alta con un rilievo di pressione arteriosa di 250 a casa e 60 in ospedale, e polso superficiale molto
frequente.
Bisogna chiedere al paziente quando è comparsa l’epistassi, se sta facendo qualche terapia, se ha altre
comorbidità e patologie ecc.
Anche l’esame obiettivo è molto importante perché a volte è difficile capire anche da dove sta
sanguinando. Un paziente che ha un sanguinamento passivo, può avere una fuoriuscita di sangue dalle due
narici ma anche dalla bocca e il sito potrebbe essere solo monolaterale, ma il sangue cominciando a creare
un vortice a livello della rinofaringe viene deglutito, sputato e magari buttato anche fuori con un respiro.

Se le condizioni generali sono governate (magari prendendo anche una vena e mettendo una fisiologica che
aumenti la volemia), attraverso l’ispezione, che può avvalersi anche di strumenti ottici per lavare e aspirare,
si cerca di capire da dove arriva il sangue.
L’epistassi è di solito anteriore se parte da una zona vicino alla narice, posteriore se parte da zone vicine
alle coane e guardando quindi anche in orofaringe si può capire se la maggior parte del sangue va fuori in
avanti o viene deglutita.
Tutti gli eventuali ausili radiologici sono presidi che si chiedono in maniera mirata perché bisogna risolvere
un problema che si manifesta in forma acuta.

Una volta che si ha assicurato il governo delle problematiche, si ha un armamentario di terapia medica
correttiva che non prevede solo coagulanti, infatti questi rappresentano la correzione delle situazioni dove
è presente un fenomeno anticoagulante. In caso di piastrinopenie per esempio o si mettono piastrine o si fa
in modo che vengano spremute fuori dagli organi in cui si stabiliscono come il fegato (con il cortisone) in
modo da aumentare i fattori procoagulanti. I coagulanti, infatti, sono già presenti nel nostro corpo ma in
determinate condizioni (per la presenza di specifiche patologie) non siamo in grado di utilizzarli.

C’è anche una serie di manovre chirurgiche. Un esempio, è la coagulazione bipolare che permette di fare
una coagulazione selettiva di zone sanguinanti. Ci sono anche forme di emostasi vascolare, come la
legatura selettiva di vasi o l’embolizzazione, attraverso cui si chiude il vaso in maniera precisa e in modo da
conservare aree che altrimenti non verrebbero conservate. Se il paziente presenta un’epistassi posteriore
importante si deve legare la mascellare interna portando però tutto il comparto irrorato da questa a
devascolarizzazione acuta. Se invece si vanno a bloccare solo i rami terminali della mascellare interna, come
la sfenopalatina, si lasciano liberi tutti i rami a monte dell’emergenza di questa.

La forma più classica di occlusione della fossa nasale è il tamponamento: questo consiste nel riempimento
della fossa nasale con strutture di garza imbevute in materiale emostatico e talvolta si usano creme che
riempiono i vasi.
Con l’abbassalingua si guarda sempre se il sangue finisce anche in gola e viene deglutito.
Le pinze a baionetta permettono di vedere all’interno della fossa nasale mentre le si usano, perché la parte
inferiore della baionetta è più bassa rispetto alla fossa nasale.
La canula di aspirazione permette di capire aspirando dove si rifornisce il sangue.
Le fibre ottiche permettono invece di vedere da dove arriva il sangue e specialmente se esso giunge da una
parte profonda della cavità nasale.

Nel naso c’è una ricca innervazione parasimpatica e in un soggetto con pressione bassa e quasi in uno stato
di shock può insorgere un arresto cardiaco. Si dà quindi un anestetico locale con vasocostrittore
permettendo di ottenere un piccolo innalzamento della pressione, una riduzione del sanguinamento e una
riduzione della propriocezione della fossa nasale.
Grazie a queste manovre si diminuisce la comparsa di eventuali crisi vagali.

Il dolore che determina lo zaffamento di una cavità viene evitato con tamponi di cellulosa compressa di 8-
10 cm che possono essere lubrificati con lidocaina gel, ma sono rigidi e stretti e possono essere inseriti nella
fossa nasale (deve essere inserito in senso anteroposteriore e non puntando verso l’alto).
Nel tamponamento nasale a garza si inseriscono due metri di garza che però fa male al momento della
rimozione. Un tampone di cellulosa viene invece gonfiato con dell’acqua e riempie così tutta la fossa
nasale, gonfiandosi quando viene inserito anche perché assorbe il sangue determinando all’interno della
fossa nasale una pressione uniforme.
La rimozione del tampone avviene nella stessa maniera, però tirando un tampone del genere, di
consistenza abbastanza molle a causa del fatto che è imbevuto di acqua, il paziente non prova molto
dolore. Questo non si ottiene se si usano le garze perché normalmente, per ottenere un tamponamento
efficace, bisogna usare due metri di garza che causano dolore al paziente durante la rimozione.
Alla fine della procedura bisogna guardare in gola perché così si capisce se il tampone ha determinato o
meno una compressione sui vasi provocando la fine del sanguinamento.
Il tamponamento nasale posteriore è molto particolare.
Quando si ha un sanguinamento così forte da non permettere al medico di capire da che zona abbia
origine, per ottenere il massimo dell’effetto emostatico, da una parte bisogna chiudere la porta di ingresso,
da una parte quella di uscita e nella cavità ottenuta bisogna stipare tutto quello che si riesce per avere un
effetto compressivo adeguato.
Il tamponamento nasale posteriore si ottiene con un tappo infilato per bocca e tirato dal naso: si incastra al
di là della coana e si riempie poi la fossa nasale con della garza che chiuda anteriormente.
Oggi questo si ottiene con un catetere vescicale che è abbastanza rigido e liscio da poterlo infilare nella
fossa nasale, arrivare in rinofaringe, gonfiare con acqua creando un tappo che viene tirato nella coana in
modo da chiuderla e poi si fa un tamponamento anteriore.

È fondamentale capire dall’ispezione e dall’anamnesi che il paziente con epistassi non è a rischio di vita.
Una volta individuato il paziente critico, bisogna metterlo in sicurezza e poi tamponargli il naso
anteriormente, posteriormente o da entrambi i lati.
Se dall’anamnesi non si riscontrano informazioni particolari relativamente a farmaci o a patologie,
l’epistassi del paziente sarà un’epistassi essenziale che per le pazienti di sesso femminile di regola si associa
al momento delle mestruazioni, dove avviene uno sbalzo ormonale che tende a favorire l’epistassi.

Se un paziente ha un’epistassi in atto ed è collaborante bisogna fargli mettere la testa in avanti (all’indietro
manda il sangue in gola) e premere a livello delle narici così da bloccare almeno tutta la parte di sangue che
arriva dal basso, che è statisticamente la maggior quantità. Nel caso in cui anche con queste manovre il
sanguinamento non si bloccasse, molto probabilmente esso arriva da dietro e si deve mettere del ghiaccio a
livello della radice del naso determinando così vasocostrizione dei vasi che provengono dalla carotide
interna.
Rinosinusiti

Si parla di rinosinusiti e non solamente di sinusiti perché tendenzialmente la causa delle sinusiti parte
sempre da una rinite. Considerando che le cavità sinusali sono delle camere che si affacciano su un corridoio
chiamato cavità ostiomeatale, se c’è un problema a livello delle fosse nasali molto probabilmente anche le
camere avranno un problema. Se invece tutto funziona bene a livello del corridoio, anche le camere a loro
volta funzioneranno correttamente.
Nella patologia rinosinusale il difetto è sempre a carico della parete laterale del naso che, dando
comunicazione alle camere presenti, permette la pervietà del canale garantendo il flusso dell’aria. Se l’aria
circola bene difficilmente si sviluppano sinusiti.
Quali motivi sono alla base di una mancata circolazione dell’aria? C’è sempre un ostacolo di natura
anatomica (come la deviazione del setto nasale o un turbinato paradosso), di natura patologica (come un
polipo, un corpo estraneo, un tumore) oppure ci può essere una vera e propria chiusura dell’ostio di natura
iatrogena.

Vie di drenaggio dei seni paranasali


I seni paranasali non sono dei “lavandini” che drenano il liquido dall’alto verso il basso facendolo passare da
un foro di coniugazione posto inferiormente.
I seni paranasali anteriori, ovvero le celle etmoidali anteriori, il seno frontale e il seno mascellare drenano
nel compartimento rinosinusale anteriore: COM (complesso ostiomeatale). L’orifizio di drenaggio delle celle
anteriori si apre in vicinanza degli osti del seno mascellare e frontale, verso il meato medio.
Il seno frontale ha un funzionamento simile a quello del lavandino, ma il seno mascellare è differente. In
quest’ultimo il drenaggio avviene stile “letamaia”: la sostanza presente nei seni viene trasportata dal basso
verso l’alto proprio come una letamaia trasporta il letame dal terreno verso l’alto. Questo implica che
qualsiasi forma di terapia chirurgica volta a correggere il drenaggio del seno mascellare non vedrà mai la
neoformazione di un buco preternaturale più in basso, perché le forze fisiologiche che guidano il drenaggio
spingeranno sempre verso l’alto. Sarà invece finalizzata all’allargamento di un buco già esistente.
I seni paranasali posteriori, ovvero le celle etmoidali posteriori e il seno sfenoidale drenano nel
compartimento rinosinusale posteriore: RSE (accesso sfenoetmoidale). Le celle etmoidali posteriori si
aprono nel meato superiore nel recesso sfenoetmoidale.

L’etmoide è un osso che mette in comunicazione il naso con la fossa cranica anteriore. È caratterizzato da
una elevata fragilità anatomica dovuta alla presenza di molti piccoli seni paranasali, i quali hanno l’utilità di
creare una sorta di elemento elastico tra le ossa che tendono a comprimere verso il centro della testa. Così
compensano delle deformazioni della scatola cranica anche importanti dovuti ad urti o alla spinta evolutiva,
che nella razza caucasica porta ad una chiusura dell’angolo fra il cranio e la faccia. È, sostanzialmente, un
elemento utile ad ammortizzare le forze fisiche.
L’etmoide essendo rivestito di mucosa può dare origine a decine e decine di piccole sinusiti:
tendenzialmente è uno dei primi posti in cui si manifesta la malattia della poliposi nasale. Essendo una
cameretta piccola basta un po’ di edema per far sviluppare il polipo.

L’indagine radiologica di prima scelta è la TC, in proiezione coronale, assiale e sagittale. Le immagini ottenute
possono evidenziare un dismorfismo del complesso ostio-meatale: quando un turbinato non è nella sua
conformazione anatomica corretta si crea un effetto dislocativo sul setto nasale, cioè il complesso ostio-
meatale oltre a non funzionare correttamente dal lato del turbinato non anatomico, funzionerà di meno
anche il controlaterale in quanto il setto nasale è dislocato.
Il turbinato medio è una struttura piana: corrisponde ad un soppalco all’interno di un monolocale. La cavità
nasale è unica, divisa in etmoide anteriore e etmoide posteriore proprio dal turbinato medio. Il turbinato
medio non ha una pendenza lineare unica, ma è caratterizzato da diverse pendenze, assimilabile ad uno
scivolo. Ciò contribuisce a conferire una particolarità anatomica molto spiccata della morfologia nasale che
influenza molto lo sviluppo e la cronicizzazione delle patologie rinosinusali, ovvero le rinosinusiti inizialmente
acute, poi subacute ed infine croniche.

Eziologia
Attraverso un antibiogramma si è individuato che le forme batteriche sono sostenute principalmente da
Staphylococcus Aureus e Streptococcus Pneumoniae.
Le forme micotiche sono sostenute principalmente da Aspergillus Fumigatus.
Bisogna fare attenzione perché l’infezione da S. Aureus non esclude la presenza di un fungo e viceversa,
spesso infatti si hanno entrambi.

Patogenesi
Si tratta solitamente di infezioni secondarie a rinosinusiti legate alla mancata areazione.
Le cause della mancata areazione sono:
 Cause anatomiche: strutture con alterazioni, deviazioni, rotture;
 Cause patologiche: neoplasie, formazioni benigne occupanti spazio (polipi).

Dal punto di vista diagnostico per individuare la causa bisogna prendere in considerazione l’anamnesi per
distinguere l’insorgenza tardiva da una forma congenita. Per trovare la causa possibile, per esempio, di una
sinusite mascellare monolaterale con un richiamo controlaterale bisogna fare le domande corrette. Per
esempio: ha preso una botta? Ha fatto un’operazione ai denti, si è fatto mettere un impianto dentario?
Dopodiché, si procede con l’esame obiettivo:
 Ispezione: anche tramite un esame endoscopico
 Palpazione: può essere anche strumentale.
 Percussione
 Auscultazione
Si procede poi con l’imaging per confermare l’ipotesi: TC.
La sinusite può colpire diversi distretti, interessando uno o più seni paranasali. Ci può essere la sinusite
mascellare, la sinusite etmoidale, la sinusite sfenoidale, la sinusite frontale oppure una sinusite che interessa
tutti i seni paranasali. Può essere una pansinusite ed interessare entrambi i lati oppure monolaterale, in base
al fatto che ci sia una causa sistemica o locale.

Terapia
La terapia può essere sia medica che chirurgica, quest’ultima è molto precisa e puó prevedere per esempio
un’uncinectomia parziale.
In caso di una conca bollosa, si divide in due il turbinato e si crea una cavità da cui si ripulisce la zona dal pus,
garantendo una ventilazione corretta e quindi una guarigione.
Tuttavia, anche la terapia medica deve essere la più precisa possibile quindi prendere Oki e antibiotici a caso
non fa che tardare la diagnosi rendendo cronico un problema altrimenti risolvibile in poco tempo con una
terapia corretta.
Bisogna subito fare un’endoscopia ed individuare immediatamente il problema, mentre la TC conferma poi il
sospetto e si può impostare una terapia medica consona alla problematica.
Se fallisce si procede con una terapia chirurgica.
Complicanze delle sinusiti croniche
Le complicanze possono essere distinte in:
 Ossee:
 osteomielite frontale e del mascellare superiore;
 fistole con la bocca;
 etmoidite acuta infantile.

 Endocraniche:
 ascesso subdurale;
 meningite;
 tromboflebiti, se il processo si propaga attraverso il sangue.

 Orbitarie:
 flemmone;
 ascesso orbitario;
 neurite ottica retrobulbare: infezione del nervo ottico che può portare alla cecità in caso di
mancate o ritardate cure.

Caso particolare di fistole iatrogena con la bocca: un impianto dentario può erniare nel seno mascellare
grazie alla forza a cui sono sottoposti i denti permette la migrazione di un impianto dentario non stabile
verso l’alto.
La particolarità del tragitto verso l’alto è data dal fatto che la forza che lo spinge è la stessa forza che guida il
drenaggio fisiologico.
Bisogna procedere con un intervento chirurgico per rimuoverlo.

Fare attenzione ad un altro caso particolare: un tumore del basicranio a volte può simulare la presenza di
una sinusite.
CARCINOMA DIFFERENZIATO DELLA TIROIDE
ANATOMIA
La patologia neoplastica della tiroide è di pertinenza prettamente chirurgica.
La tiroide occupa la regione anteriore del collo (definita sottoioidea); i limiti anatomici di questa regione
sono: osso ioide in alto e muscoli sternocleidomastoidei sui lati. In linea tratteggiata nell’immagine c’è il
decorso della classica incisione di Kocher (Kocher era un chirurgo svizzero che ha gettato le basi della
chirurgia tiroidea moderna); verso la metà del 1800 si stava rinunciando alla chirurgia della tiroide per
l’eccessiva mortalità (> 50%), mentre Kocher l’ha portata a meno dell’1%.
Sotto la pelle c’è il muscolo pellicciaio platisma (piano anatomico ben identificabile), poi l’aponevrosi
cervicale superficiale su cui ci sono le vene giugulari anteriori. I muscoli davanti alla tiroide formano un piano
separato da un interstizio che può essere aperto per arrivare sulla tiroide: sono i muscoli sterno-ioidei e al di
sotto gli sterno-tiroidei.
La tiroide è riccamente vascolarizzata come la maggior parte delle ghiandole endocrine. Il drenaggio venoso
avviene in tre direttrici: verso l’alto con un peduncolo venoso che va nella giugulare interna, lateralmente
con le tiroidee medie (che vanno sempre alla giugulare interna) e in basso tronchi venosi variabili che vanno
nelle vene anonime. Ciascun lobo della tiroide ha una doppia vascolarizzazione arteriosa: arteria tiroidea
superiore (primo ramo collaterale della carotide esterna) e arteria tiroidea inferiore (uno dei rami del tronco
tireocervicale, un ramo della succlavia; questo va verso l’alto, fa una specie di S, incrocia da dietro il fascio
vascolare del collo e poi raggiunge il lobo tra terzo medio e inferiore). Nel 10% dei casi c’è un piccolo ramo
arterioso, la arteria tiroidea ima (dall’arteria anonima): non è un problema dal punto di vista pratico.
L’aspetto più delicato della chirurgia tiroidea sono due strutture:
- Nervi laringei inferiori o ricorrenti (implicati nella fonazione) e nervi laringei superiori. Sono branche
del nervo vago.
I nervi ricorrenti hanno funzione mista (sensitiva e motoria), nascono dalla porzione toracica del vago
e descrivono un’ansa a destra intorno alla succlavia e a sinistra intorno all’arco aortico. Nel collo
quello di sinistra sale in posizione profonda nell’angolo tra tiroide ed esofago, quello destro emerge
da dietro la carotide comune e si addossa alla trachea. Decorrono nel loro ultimo tratto a contatto
con il versante posteriore della tiroide, quindi attraversano le fibre del muscolo costrittore inferiore
della faringe ed entrano nella laringe distribuendosi alla sua muscolatura. Determinano la motilità
della corda vocale corrispondente.
Effetti della lesione del nervo laringeo ricorrente: la funzione motoria è legata alla motilità delle
corde vocali (può dare paralisi), la sensitiva è legata alla chiusura della glottide (può dare disfagia o
inalazione). Può essere però ben compensata dalla corda vocale controlaterale. Se la lesione è
bilaterale si ha posizione addotta delle corde vocali, che chiudono lo spazio respiratorio; ciò porta a
reintubazione, attesa di 24-48h e controllo successivo.
Il nervo ricorrente può avere un’anomalia di percorso: il destro ha un decorso non ricorrente
(anziché formare un’ansa al di sotto della succlavia, si porta direttamente dal vago alla laringe con
un decorso molto breve e diretto: potenzialmente a rischio). Ciò è legato a una anomalia di sviluppo
dei tronchi sovraortici (insieme all’arco aortico sono ciò che resta della formazione nell’embrione di
arcate vascolari corrispondenti alle arcate branchiali, alcune delle quali restano, mentre la maggior
parte va incontro a involuzione: l’arcata a destra dà l’arteria anonima, l’arcata a sinistra l’arco
aortico); se questo processo di involuzione avviene in maniera anomala, la carotide comune di destra
nasce direttamente dall’arco aortico e la succlavia destra dalla porzione sinistra dell’arco aortico.
Il nervo laringeo superiore nasce dal vago nella porzione cervicale. Si porta in basso e ha un decorso
satellite all’arteria tiroidea superiore. All’altezza dello ioide si divide in una branca sensitiva (branca
interna che va alla mucosa della laringe) e branca motoria (branca esterna per il muscolo
cricotiroideo, unico muscolo della laringe non innervato dal ricorrente).
Effetti della lesione del nervo laringeo superiore: determina una paralisi del muscolo cricotiroideo
che ha una funzione secondaria sulla fonazione (è tensore della corda vocale, quindi si avrà
appiattimento della gamma tonale e difficoltà a emettere toni acuti). I fattori che possono favorire
una sua lesione sono i suoi rapporti anatomici variabili con l’arteria tiroidea superiore, che deve
essere legata durante l’intervento.
- Paratiroidi: sono normalmente 4 e molto piccole (massimo 5-6 mm). Hanno un colore caratteristico
(distinguibile da tessuto adiposo e linfonodi nella zona). Spesso si hanno ectopie: in alcuni casi sono
un problema (in caso di funzionamento anomalo), in altri un vantaggio (in caso di tiroidectomia
totale). Si trovano sul versante posteriore del lobo tiroideo. Le inferiori sono più spostate verso il
polo inferiore. Spesso sono avvolte in un lobulo di tessuto adiposo. Se non si riesce, in corso di
tiroidectomia, a salvaguardare le paratiroidi o la loro vascolarizzazione, la conseguenza è una ridotta
produzione di PTH, che porta a ipocalcemia (può essere un danno transitorio o permanente);
l’ipoparatiroidismo scompensato è molto grave.

TUMORI MALIGNI DELLA TIROIDE


Nella tiroide ci sono due popolazioni cellulari che possono dare tumori:
1. Epitelio follicolare: produce T3 e T4. Sono tumori molto più frequenti. Possono essere ben
differenziati (papillifero e follicolare), meno differenziati o indifferenziati/anaplastici
2. Cellule parafollicolari o cellule C: producono calcitonina. Sono i K midollari
Questa classificazione è importante perché ha correlazioni molto evidenti sul piano del comportamento
clinico: passando dalle forme differenziate alle indifferenziate c’è una aggressività progressivamente
maggiore.
Negli anni ’50 e ’60 i carcinomi indifferenziati non erano ancora stati definiti. Si fa tuttora riferimento alla
classificazione di Torino (2007).
Prevalenza: il 97% dei tumori maligni della tiroide nasce dall’epitelio follicolare (dominante è il K papillifero,
mentre gli anaplastici sono in minoranza), il 3% dalle cellule C.

Tipi istologici:
- Differenziati: bassa aggressività locale, basso rischio di metastasi ematogene, ma rischio di linfatiche
(soprattutto in linfonodi regionali), sopravvivenza > 80-90% a 20 anni
- Scarsamente differenziati: più aggressivo con maggiori metastasi linfatiche ed ematogene,
sopravvivenza del 40-60% a 5 anni
- Anaplastici: estrema aggressività locale, tante metastasi linfatiche ed ematogene (più del 50% dei
pazienti alla diagnosi ha metastasi polmonari), sopravvivenza 10% a 1 anno

EPIDEMIOLOGIA
Circa 15000 casi l’anno, tasso di sopravvivenza a 20 anni del 90%, recidive loco-regionali o a distanza del 5-
20%. I tumori differenziati infatti hanno un alto tasso di recidiva.
Dagli anni ’70 l’incidenza è aumentata in modo netto in tutto il mondo; ciò è dovuto pressoché
esclusivamente a un aumento del tasso di K papilliferi (soprattutto i piccoli K, fino a 2 cm). Una volta il tumore
della tiroide era considerato raro, mentre oggi in molti Paesi è il 2° tumore per incidenza nella donna (dopo
quello della mammella). La mortalità invece è rimasta quasi costante con una tendenza al miglioramento.
Quali sono le cause di questo fenomeno?
- Secondo gli epidemiologi è un fenomeno apparente e conseguente a una over-diagnosi: piccoli
focolai tumorali possono essere nascosti in una tiroide normale e restarci per tutta la vita. La
disponibilità dell’ecografia, dell’agoaspirato e di ecografisti più abili ha portato a un maggior numero
di diagnosi di piccoli K papilliferi che probabilmente non sarebbero mai arrivati ad avere una
espressione clinica. Questo porta a un over-trattamento
- Secondo un’altra scuola di pensiero, la teoria precedente spiega non più del 50% dell’aumento
dell’incidenza, perché aumentano anche quelli più avanzati e di dimensioni maggiori. Inoltre, se così
fosse, ci sarebbe dovuta essere una diminuzione della mortalità, mentre è rimasta stabile. Ci sono
anche fattori ambientali, di cui solo uno è certo ovvero le radiazioni ionizzanti (hanno un ruolo
causale certo nell’insorgenza del K papillifero); altri fattori non provati sono l’obesità, la diminuzione
del fumo negli ultimi anni (infatti il fumo potrebbe diminuire in realtà il rischio). Soprattutto la tiroide
del bambino è uno degli organi più sensibili all’effetto delle radiazioni. Non esiste una dose soglia: è
presente anche a dosi basse, aumenta progressivamente fino a 10 Gy, poi si stabilizza e decresce a
causa della necrosi (che prevale sugli effetti mutageni). Le possibili cause di esposizione sono:
contaminazione radioattiva e procedure mediche diagnostiche o terapeutiche (per esempio TC
cranio in bambini piccoli con lievi traumi, panoramiche dentarie in bambini che devono mettere
l’apparecchio…). La contaminazione nucleare ha dati importanti in Chernobyl: si è verificata una
epidemia di tumori papillari per intensità del fenomeno e precocità; ciò ha messo in luce anche la
sottovalutazione e scarsa considerazione del fenomeno. Sono a rischio anche i giovani adulti
sopravvissuti a tumori dell’età pediatrica (soprattutto di tipo ematologico, del SNC e sarcomi); questi
sono generalmente trattati con radioterapia esterna. Una volta la maggior parte di questi pazienti
moriva, oggi sopravvive ma ha un rischio aumentato.
C’è stato uno studio su 197 pazienti che ha evidenziato: prevalenza di tumori della tiroide del 7%
comparsi in un intervallo fra RT e diagnosi di 8-24 anni (13 in media), con prevalenza in soggetti in
terza decade di vita, soprattutto tumori in stadio tendenzialmente più avanzato nonostante la
costante sorveglianza.

ASPETTI CLINICI
Modalità di presentazione dei tumori differenziati della tiroide:
 Tumefazione nella regione tiroidea (nodo tiroideo clinicamente evidente): più usuale
 Linfadenopatia laterocervicale: rara ma non eccezionale (metastasi rivelatrice di un K papillare)
 Metastasi a distanza: molto rara (più frequente in K follicolari)  spesso metastasi ossea (in biopsia
si trova tessuto tiroideo)
 Nodo tiroideo scoperto a seguito di accertamenti diagnostici (ecografia del collo per esempio in un
paziente con tiroidite cronica; PET in follow-up di altri tipi di tumore e in questo caso si ha il 50% di
probabilità di avere una neoplasia maligna): piuttosto frequente  fase preclinica

I nodi tiroidei sono molto frequenti: nodi palpabili nel 5% della popolazione adulta, nodi di riscontro
ecografico nel 40-70% della popolazione adulta (soprattutto donne e proporzionale all’età). Più del 90% sono
lesioni piccole, non palpabili e benigne che non diventeranno mai clinicamente rilevanti.
Il problema è selezionare appropriatamente quelli che richiedono un approfondimento diagnostico ed è uno
dei pochi tumori in cui è sconsigliato uno screening di massa.

Gli elementi clinici da valutare in un nodo tiroideo, che sono caratteristiche evocative di malignità, sono:
- Storia familiare di K della tiroide
- Storia di radioterapia su testa e collo
- Nodo tiroideo in < 14 anni e > 70 anni (più in bambini-adolescenti)
- Sesso maschile
- Caratteristiche di crescita del nodulo
- Durezza e fissità
- Linfonodi laterocervicali palpabili
- Sintomi (sono però presenti solo in malattia avanzata): disfonia (voce abbassata e rauca a seguito di
paralisi non chirurgica del nervo ricorrente per invasione tumorale), disfagia o dispnea (infiltrazione
di esofago e trachea)

Nella maggior parte dei casi la sintomatologia non è presente e le caratteristiche cliniche del nodulo non sono
evocative.

DIAGNOSI
In un paziente con nodo della tiroide si fanno:
 Esami di laboratorio: dosaggio del TSH per escludere un ipertiroidismo. Se il nodo tiroideo
corrisponde a una formazione iperfunzionante si avranno ormoni tiroidei aumentati e TSH soppresso;
si ha così indicazione a fare una scintigrafia tiroidea, che potrà evidenziare un nodo “caldo”
(iperfunzionante) o “freddo” (ipofunzionante). Il rischio di malignità in un nodo caldo è
estremamente basso. Se il TSH è normale non si fa la scintigrafia, ma l’ecografia.
 Ecografia: evidenzia gli aspetti del nodo. Le caratteristiche allarmanti sono: ipoecogenicità marcata
(il nodo ha una struttura cellulare molto compatta), microcalcificazioni (caratteristiche del K
papillifero), margini irregolari/sfumati/microlobulati, sconfinamento nei tessuti peritiroidei,
linfonodi sospetti, nodo più alto che largo. Si distingueranno vari gradi di rischio, che porteranno o
meno a un agoaspirato. C’è un gradiente di indici che portano a malignità (quando due o più
coesistono si ha quasi certezza di malignità). Nelle lesioni a rischio alto e intermedio è indicato
l’agoaspirato
 Agoaspirato ecoguidato (2° livello): un ago sottile è inserito sotto guida ecografica nella lesione e si
staccano dei frammenti o delle singole cellule. Il patologo può dire se: c’è sufficiente materiale per
una diagnosi (nel 10-15% dei casi non c’è: poche cellule o contenuto liquido/cistico), benignità e
malignità. Ci sono zone grigie con caratteristiche dubbie. Ci sono più classificazioni, la più utilizzata
nel mondo è quella BSRTC, le cui categorie sono: 1 (non diagnostico), 4 e 5 (maligni), 2 (benigni), 3
(dubbio).

Classificazione italiana:
1. TIR 2: benigni > 95%
2. TIR 3:
a. 3A: basso rischio
b. 3B: alto rischio
Tra i due varia la terapia: asportazione chirurgica o osservazione.
3. TIR 4: maligni > 80-90% (ma non certezza assoluta)
4. TIR 5: maligni > 99-100%

TRATTAMENTO
Il trattamento dei tumori della tiroide è quasi sempre chirurgico. La chirurgia spesso richiede una terapia
sostitutiva con ormoni tiroidei; talvolta la terapia sostitutiva ha anche una valenza terapeutica: i tumori della
tiroide sono ormono-dipendenti, quindi sono sensibili alla stimolazione da parte del TSH che si deve
mantenere soppresso.
La terapia radiometabolica è molto utilizzata (iodio radioattivo): le cellule follicolari sono in grado di
concentrare attivamente lo iodio presente nel sangue.
Fondamentale è il monitoraggio a lungo termine del paziente.
Attualmente con la frequenza di piccoli tumori della tiroide si fa un trattamento più articolato sulla base di
una previsione del rischio. Le linee guida sono quelle del 2015 che suddividono i pz in:
- Basso rischio (recidiva < 5%)
- Rischio intermedio
- Alto rischio
Distinguono indicazioni a intervento, iodio-radioattivo o soppressione TSH.
Nei microK (< 1 cm) unifocali localizzati e senza metastasi si asporta il solo lobo tiroideo che contiene il nodo.
Nei tumori di 1-4 cm (T2) localizzati e senza metastasi si fa una lobectomia. In Italia in realtà il cut off tra
lobectomia e tiroidectomia è di 2 cm.
In tutti quelli > 4 cm, con metastasi, non localizzati, si fa tiroidectomia totale.
Se i linfonodi sono interessati si asportano.

Ci sono situazioni in cui si può decidere di non operare il paziente? In Giappone si è iniziato a proporre
l’opzione di essere inseriti in un programma di sorveglianza (circa 1500 pazienti): a 10 anni l’8% dei casi ha
avuto un incremento volumetrico (> 3 mm) e il 3.8% metastasi linfonodali.
Oggi il concetto di active surveillance con ecografia a 6 mesi è entrato nelle linee guida dal 2015, ma il
problema è che non si sa come predire l’evoluzione di un K papillifero.

Nei TIR 3 (citologicamente indeterminati), se non ci sono motivi di tiroidectomia totale, si fa una asportazione
completa del lobo con valutazione istologica (una eventuale valutazione intraoperatoria spesso non è
dirimente). Se il tumore è maligno si termina qui il trattamento se a basso rischio, se è ad alto rischio o
intermedio si fa tiroidectomia totale talvolta con anche iodio radioattivo.
Nei TIR 4 ci sono spesso piccoli K papilliferi in cui l’esame istologico è solitamente dirimente: loboistmectomia
totale + esame istologico estemporaneo + eventuale immediato completamento della tiroidectomia.

Chirurgia delle metastasi linfonodali


I K papilliferi sono i più frequenti e hanno una certa propensione a dare metastasi linfonodali. In caso di
linfonodi francamente positivi, la localizzazione può essere più ampia di quella macroscopicamente evidente
in quanto ci possono essere metastasi microscopiche.
La diffusione linfatica dei K papilliferi segue due direzioni:
- Comparto cervicale centrale (area più colpita): linfonodi davanti alla laringe e nel connettivo che
circonda la trachea. È l’area preferita dalle metastasi dell’istmo e dei 2/3 inferiori dei lobi tiroidei
- Comparti laterocervicali (decorso della giugulare interna): tumori del polo superiore e dei 2/3
inferiori dopo aver interessato il comparto precedente
Accanto a linfonodi macroscopicamente patologici è frequente avere micrometastasi non visibili, ma
riscontrabili all’istologico.

L’atteggiamento terapeutico è differente nei due comparti:


- Comparti laterali: agevole sorveglianza ecografica e facile ripresa chirurgica in caso di necessità. La
linfadenectomia è solo terapeutica (non profilattica) quando ci sono metastasi evidenti con tecnica
compartment oriented (che svuoti completamente il comparto anatomico)
- Comparto centrale: sorveglianza ecografica poco accurata (frequenti falsi negativi) e ripresa
chirurgica non facile e potenzialmente rischiosa (per strutture anatomiche adiacenti fuse da tessuto
cicatriziale). Si fa linfadenectomia profilattica (sui limiti anatomici, non sui singoli linfonodi)

Dal punto di vista anatomo-topografico il collo è suddiviso in più settori. Il comparto laterale comprende i
livelli 2-5, quelli più coinvolti sono 3 e 4. L’intervento è sui limiti anatomici e solitamente si asporta almeno il
livello IIA e parte del V e solitamente l’intervento sui linfonodi è fatto prima di quello sulla tiroide.

Il comparto centrale è delimitato in alto dall’osso ioide, lateralmente dalle guaine carotidee e in basso arriva
nel mediastino superiore all’altezza dell’arteria anonima. Le difficoltà maggiori sono dovute al transito dei
nervi ricorrenti e delle paratiroidi inferiori: queste ultime determinano il dubbio sulla validità della
linfadenectomia profilattica perché danneggiabili: è meglio un reintervento difficile sul comparto centrale
oppure un possibile ipoparatiroidismo? Le percentuali di successo sono molto variabili (dall’1 al 30% di
ipoparatiroidismo). Una alternativa alla dissezione profilattica completa è una dissezione dell’emicomparto
centrale omolaterale: si portano via solo i linfonodi su un versante con possibile asportazione di una sola
paratiroide.

Mentre a sinistra il nervo ricorrente è appoggiato sull’esofago (sul piano posteriore della dissezione), a destra
è sul piano anteriore (linfonodi sia davanti che dietro); questa diversità spesso viene dimenticata portando a
eventuali recidive. Le paralisi del nervo possono anche essere transitorie.

Morbilità della chirurgia tiroidea


La mortalità è virtualmente nulla.
Le complicazioni sono:
 Nervose
 Ipoparatiroidismo
 Sanguinamento postoperatorio
Le più gravi sono le paralisi bilaterali dei nervi ricorrenti e il sanguinamento non immediatamente
riconosciuto (può determinare un ematoma nella loggia tiroidea profonda che può portare a insufficienza
respiratoria acuta talvolta drammatica che può richiedere riapertura della ferita). Il problema non è il
sanguinamento, ma il fatto che avvenga in un comparto anatomico chiuso: determina una pressione che
induce problemi respiratori.
I dati sul rischio di complicazioni non sono molti e provengono soprattutto da centri con dati pubblicabili
(quindi buoni). Studio italiano multicentrico del 2004 su circa 15000 tiroidectomie in ospedali specializzati:
tasso di paralisi permanente del nervo dell’1.3% in tiroidectomia totale e 0.6% in subtotale e tasso di
ipoparatiroidismo del 2.2%. Studio tedesco del 2003 su 5000 pz in ospedali non selezionati: paralisi 2.3% e
ipoparatiroidismo 12.5%. Al San Giovanni Battista di Torino su 305 tiroidectomie nel 2008: 4% paralisi
transitorie e 1% permanenti, 21% ipoparatiroidismi transitori e 1.3% permanenti, 1% sanguinamento.
Il problema oltre a salvaguardare le paratiroidi è soprattutto salvaguardarne la vascolarizzazione.

Terapia con radioiodio


Spesso complementare al trattamento chirurgico.
Gli obiettivi sono:
- Distruggere residui di tessuto tiroideo normale e focolai neoplastici
- Eseguire una scintigrafia total body a elevata sensibilità diagnostica
- Facilitare il follow-up aumentando la sensibilità del dosaggio della tireoglobulina come marker di
malattia residua o recidiva (dovrebbe essere 0 in assenza di tessuto tiroideo)

Non è indicata nei soggetti a minimo rischio, è da valutare nei soggetti a basso rischio (noduli di 1-4 cm), è
indicata nei soggetti a rischio medio-alto.

Si deve creare una situazione biologica che esalti al massimo la capacità di concentrare lo iodio: o si induce
ipotiroidismo (si sospende la terapia sostitutiva per 4 settimane) o si somministra per via intramuscolare
rhTSH in 2 giorni di seguito. È una terapia molto costosa e richiede il ricovero in reparto di “degenza protetta”
(il paziente non può uscire o ricevere visite e ha servizi igienici non collegati con la rete fognaria). Le dosi sono
di 40-100 mCi1 (nell’ipertiroidismo si usano dosi di 5-10 mCi). Il paziente è dimesso dopo circa 3 giorni: verifica
della radioattività ritenuta nell’organismo e precauzioni nei contatti interpersonali per 8-15 giorni
(soprattutto con bambini piccoli e donne in gravidanza).
A distanza di 2-3 giorni si fa una scintigrafia totale corporea (se è concentrato solo in letto tiroideo è regolare,
se ci sono focolai nel collo o a distanza sono metastasi).
Ha valenza sia diagnostica sia terapeutica (entro certi limiti).
Precauzioni pre-trattamento: limitare l’apporto iodico nella dieta ed evitare fonti di contaminazione esogena
(esami con mdc iodato o disinfettanti a base di iodio). Per donne in età fertile: escludere una gravidanza,
evitare concepimento in 6 mesi successivi e sospendere allattamento. I possibili effetti collaterali transitori
sono irrilevanti, tranne che in pazienti sottoposti a ripetute dosi (aumento del rischio di incidenza di tumori
ematologici e della mammella).

Soppressione del TSH


Essendo tumori ormono-dipendenti si fa una terapia sostitutiva con ormone tiroideo per os quotidianamente
a dosaggio sovrafisiologico (circa 2 μg/kg, solitamente invece è di 1.6). Una volta veniva portata avanti per
tutta la vita, anche se induceva un lieve stato di ipertiroidismo, oggi si tende ad attuarla solo in situazioni a
rischio medio-alto e poi si tende a portare il paziente a dosaggio sostitutivo o a una moderata soppressione
del TSH (0.1-0.5).

Follow-up
Poggia essenzialmente su:
- Scintigrafia totale corporea se si è fatto iodio radioattivo
- Ecografia
- Laboratorio: tireoglobulina e anticorpi anti-tireoglobulina. È una proteina specifica della tiroide che
dovrebbe essere ai limiti inferiori dopo una tiroidectomia. Alcuni pazienti sviluppano anticorpi, che
possono essere un surrogato misurabile (dovrebbero diminuire progressivamente)
Tra i 6 mesi e 1 anno se tutti i test sono negativi si fa un test di stimolo con rhTSH per stimolare le cellule
tiroidee eventualmente presenti e dosare Tg: se resta indosabile le probabilità di guarigione sono prossime
al 100%, se ricompare è probabile che ci sia ancora del tessuto.

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milliCurie
SUCCO 10/5/18

TUMORI DELLA PAROTIDE


La parotide è la più grossa delle ghiandole salivari ed è anche quella, in ordine di frequenza, maggiormente
colpita da tumori (il rapporto tra tumori maligni e benigni è di 1:9).

ANATOMIA

La parotide è la più voluminosa ghiandola salivare ed ha una secrezione sierosa, quindi produce un secreto
salivare molto acquoso, mentre le ghiandole sottomandibolare e sottolinguale hanno una secrezione
mucosa, quindi più densa.
La parotide si posiziona nella regione parotidea, che è una regione laterale del collo localizzata sotto il
padiglione auricolare e il meato acustico esterno, dietro al ramo della mandibola e davanti al muscolo
sternocleidomastoideo. È una struttura ampia, infatti il suo estremo superiore raggiunge praticamente
l’attaccatura superiore del padiglione auricolare, quindi appena sotto la radice del processo zigomatico.
Anteriormente sormonta la mandibola, sul monte del muscolo massetere. Inferiormente arriva a sporgere
nel collo e, a seconda del suo grado di utilizzo, si può ingrossare al punto di arrivare a sormontare il muscolo
sternocleidomastoideo.
Dalla parotide origina il dotto di Stenone che drena la saliva prodotta nella cavità orale, mediante un orifizio
di uscita collocato a livello del 2° molare superiore.
La sezione della parotide sul piano assiale permette di evidenziarne la notevole profondità; infatti,
nonostante la parotide sia collocata in posizione immediatamente sottocutanea, la sua porzione terminale è
collocata in profondità della loggia tonsillare. Questo significa che passa attraverso il “canyon” formato
posteriormente dall’osso temporale, dal condotto uditivo esterno cartilagineo, dal condotto uditivo esterno
osseo e anteriormente dalla mandibola. Lungo il suo decorso, il suo volume ingloba anche grossi vasi come
l’arteria carotide esterna.
È una ghiandola unitaria (quindi non si suddivide anatomicamente in lobi), ma è attraversata dal nervo
facciale (VII nervo cranico), il quale ne permette la suddivisione chirurgica in lobo superficiale (più
voluminosa) e lobo profondo (meno voluminoso). Sulla base di questa suddivisione topografica, si possono
quindi definire parotidectomie superficiali, profonde o complete a seconda dell’area asportata.
All’entrata nella parotide il nervo facciale si presenta unitario, ma quando esce dalla ghiandola si dirama nelle
sue branche terminali (similmente ad un braccio, che entra nella parotide e ne esce suddiviso in rami come
le dita di una mano). Il tronco principale si divide inizialmente in due rami (branca temporo-facciale e branca
cervico-facciale), da cui poi si diramano le branche terminali. La branca temporale innerva i muscoli della
fronte, la branca zigomatica innerva il muscolo orbicolare dell’occhio, la branca buccale innerva il muscolo
buccinatore, la branca mandibolare innerva la parte inferiore del muscolo orbicolare delle labbra e infine la
branca cervicale innerva il muscolo platisma (la morfologia delle varie branche è ovviamente influenzata da
una componente di variabilità individuale). In ogni caso, la presenza di arcate anastomotiche garantisce
l’efficienza del nervo, l’omogeneità e la precisione dei movimenti della mimica facciale.

La ghiandola parotide occupa lo spazio parafaringeo del collo, il quale viene ulteriormente diviso in due dal
diaframma stilieno, che è formato dai muscoli che partono dal processo stiloideo dell’osso temporale e vanno
a inserirsi su varie strutture del collo come l’osso ioide (muscolo stiloioideo), la lingua (muscolo stiloglosso),
la faringe (muscolo stilofaringeo). Questo diagramma suddivide lo spazio parafaringeo in una porzione pre-
stiloidea, dove si localizzano la ghiandola parotide e l’arteria carotide esterna, e una porzione profonda
rappresentata dallo spazio parafaringeo retrostiloideo, dove si localizzano i grossi vasi del collo (arteria
carotide interna, vena giugulare interna) e i nervi misti (IX, X, XI e XII).

I tumori delle ghiandole salivari, rappresentano il 5% di tutte le neoplasie del distretto cervico-cefalico (quindi
sono rilevanti). La ghiandola parotide è la più colpita tra le ghiandole salivari perché è la più voluminosa (c’è
SUCCO 10/5/18

un rapporto volume-incidenza tumorale, infatti è più raro che una ghiandola minore, costituita da un ridotto
numero di acini, possa svilupparsi in senso neoplastico). Nel 90% dei casi sono benigni e nel restante 10%
sono maligni.

TUMORI BENIGNI

L’adenoma pleomorfo è il più frequente (50-65%). Si tratta di un tumore misto, cioè la sua componente
cellulare è epiteliale, mioepiteliale e stromale fibromixoide, le quali possono prevalere una sulle altre a
seconda dei casi (es: tumore misto a prevalenza fibromixoide o epiteliale, tumore misto bilanciato, ecc).

Il tumore di Warthin (cistoadenolinfoma) è il secondo per frequenza. Ha una predilezione per i lobi inferiori,
può essere bilaterale nel 10-15% dei casi, è multicentrico nel 30% dei casi. Macroscopicamente, si presenta
come una grande cisti con annessa una piccola componente solida.

I restanti tumori sono più rari (possono interessare, oltre agli acini, anche le altre strutture di una ghiandola
salivare come i dotti, il connettivo, il tessuto linfatico): adenoma a cellule basali, mioepitelioma, oncocitoma,
adenoma canalicolare, cistoadenoma, adenoma sebaceo, lipoadenoma, papilloma duttale.

È anche possibile che i tumori provenienti dai tessuti vicini si estendano direttamente alla parotide (es: tumori
cutanei aggressivi).

TUMORI MALIGNI

Sono abbastanza rari (3-4% dei tumori maligni di testa-collo). L’incidenza è di 1-2 per 100000 abitanti.
In base alla malignità si dividono in tumori a basso e ad alto grado: i primi sono più gestibili rispetto ai tumori
ad alto grado, che sono invece più aggressivi.
Recenti studi immunoistochimici e biomolecolari hanno rilevato che a livello dei tumori parotidei è possibile
avere un’espressione di recettori ormonali analogamente ai tumori della mammella. Pertanto, in aggiunta ai
caposaldi terapeutici costituiti da chirurgia e radioterapia, è possibile ricorrere alla chemioterapia e agli
inibitori dei recettori per gli estrogeni.
I principali tumori parotidei maligni sono:

 Carcinoma mucoepidermoide: cellule mucosecernenti con elementi squamoidi e fibrosclerosi.


 Carcinoma adenocistico (cilindroma): cellule mioepiteliali piccole e aggregate
 Carcinoma ex adenoma pleomorfo: parte da un tumore misto che improvvisamente inizia ad
accrescersi in maniera rapida e con un andamento molto aggressivo.

È importante conoscere le caratteristiche cliniche che distinguono un tumore benigno rispetto ad uno
maligno, inoltre nei secondi è sempre necessario valutare la presenza di metastasi a livello linfonodale e la
loro localizzazione, distinguendo tra:
- Tumori che non presentano metastasi e che rimangono in un contesto stadiativo di tumore precoce
- Tumori locoregionali, che possono anche essere piccoli a livello locale ma in virtù della loro
aggressività biologica hanno dato metastasi nella prima stazione linfonodale satellite (“linfonodo
sentinella”) che costituisce l’area principale di drenaggio linfatico di quella determinata area.
- Tumori a distanza, che si diffondono oltre il linfonodo sentinella.
È pertanto opportuno indagare sempre su un’eventuale diffusione metastatica, infatti la prognosi è
direttamente influenzata dal grado di diffusione (più il tumore è confinato localmente, migliore è la prognosi).
SUCCO 10/5/18

ESAME OBIETTIVO E SINTOMI

Generalmente i tumori della ghiandola parotide non sono dolorosi, di conseguenza la presenza di dolore
deve spostare l’indagine diagnostica verso altre cause. Alla palpazione vanno valutate la superficie, la
consistenza, la mobilità della tumefazione, l’eventuale presenza di adenopatie.
È anche importante indagare il momento di esordio e la sua evoluzione, infatti l’insorgenza di tumori
parotidei è lenta e progressiva nel tempo, non immediata.
Uno dei segni patognomonici della malignità di un tumore parotideo è la presenza di disturbi del nervo
facciale; infatti quando il tumore è benigno il nervo facciale non viene mai interessato, mentre quando è
maligno esso può determinare uno scarso funzionamento del nervo facciale o di alcune sue parti con
conseguenti paresi (ad esempio, vengono spesso coinvolti i muscoli masticatori con alterata motilità
mandibolare).
All’ispezione è importante osservare la presenza di eventuali asimmetrie non solo esternamente (quindi a
livello delle guance) ma anche internamente. Infatti, è opportuno osservare sempre anche il cavo orale e la
faringe (talvolta, il tumore può sporgere più internamente che esternamente).
È importante fare diagnosi differenziale con altre possibili cause di tumefazione come le raccolte ascessuali,
gli aneurismi carotidei (anch’essi determinano una tumefazione, ma a livello retrotonsillare, quindi più
posteriormente) e i tumori originati da strutture posteriori al diaframma stilieno.

ESAMI STRUMENTALI

Non servono solo per la fase diagnostica, ma anche per l’orientamento anatomo-chirurgico.
 Ecografia: molto utile, pratico, non dà raggi, permette di studiare la ghiandola con varie angolazioni.
Inoltre può essere utilizzata durante l’esecuzione dell’agobiopsia
 TC e RM con mdc: hanno grande potere diagnostico sui tessuti molli, permettendo di capire non solo
se il tumore è superficiale/profondo rispetto al nervo facciale, ma anche per valutare i rapporti con
le altre strutture limitrofe
 PET: utile nella stadiazione e nel follow-up dei tumori maligni della parotide
 FNAB sotto guida ecografica: è il caposaldo diagnostico

La classificazione TNM consente di dare un’idea del significato prognostico del tumore che si sta analizzando.
Si basa su criteri di natura anatomica e dimensionale.
Il TNM viene correlato al grading (I-III), che definisce l’aggressività biologica del tumore (maggiore è il grading,
maggiore è l’aggressività).

APPROCCIO CHIRURGICO

La parotidectomia può essere parziale o completa. Nella procedura di asportazione dei tumori benigni non si
coinvolge mai il nervo facciale, mentre nei maligni può essere necessario resecarne alcune parti.
1. Il primo passo consiste nell’eseguire l’incisione.
2. Successivamente si eleva il lembo cutaneo (si segue il detto “up the fat, down the fat”, cioè i tagli che
vengono eseguiti per sollevare il lembo devono sempre essere collocati in mezzo al tessuto adiposo,
quindi si deve vedere del grasso sia sopra che sotto il taglio; in tal modo si è sicuri di non danneggiare
le strutture importanti circostanti).
3. Sollevare lo SMAS (sistema muscolare aponeurotico superficiale), che è un complesso di formazioni
fasciali e muscolari (muscoli pellicciai) contenuti nel sottocute. È una struttura analoga ad un lenzuolo
su cui si poggia una coperta (la pelle); per permettere un’adeguata tensione della pelle è quindi
necessario che sia teso anche il “lenzuolo” sottostante.
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Le principali strutture vascolo-nervose che decorrono in vicinanza della parotide sono:


o vena giugulare esterna
o nervo grande auricolare (da non confondere col nervo facciale), sensoriale, che origina nel
plesso cervicale e innerva la zona della cute pre-parotidea e dell’orecchio. Durante
l’intervento, le sue branche anteriori devono essere sezionate, mentre quelle posteriori
vengono di norma risparmiate.
o Arteria e vena temporali superficiali, le quali decorrono entrambe all’interno della parotide
quindi, durante l’intervento, devono essere legate per limitare il sanguinamento.
4. Prima di aggredire la parotide, si esegue la ricerca del tronco comune del VII nervo facciale. I punti
di repère sono 3:
o Muscolo digastrico, che si inserisce sul processo mastoideo a livello della cresta digastrica.
Grazie al muscolo digastrico è quindi possibile giungere al processo mastoideo.
o Solco timpano-mastoideo: costituisce lo spazio compreso tra il processo mastoideo e l’osso
timpanico, a livello del quale si ha l’emergenza del nervo facciale dal forame stilo-mastoideo.
o Cartilagine triangolare dello schwalbe (anche detta “pointer del facciale”), che sarebbe la
punta del condotto uditivo esterno cartilagineo.
Il nervo facciale può anche essere ricercato in modalità retrograda, cioè a partire dalle sue branche
periferiche. Ovviamente questo tipo di approccio presenta un maggiore rischio di causare eventuali
danni al nervo.
Come già detto prima, in alcuni casi il nervo facciale deve essere “sacrificato”, tuttavia può essere
ricostruito interponendo un segmento di un altro nervo asportato in un’altra sede anatomica (è
comunque necessario un certo quantitativo di tempo per permettere un adeguato recupero della
sensibilità dell’area innervata).

In seguito all’asportazione si può eseguire un lipofilling (iniezione di tessuto adiposo) con finalità estetiche,
per pareggiare eventuali depressioni che si sono create in seguito al “vuoto anatomico” generato dalla
parotidectomia. Successivamente, questo tipo di intervento estetico può essere ripetuto.
Malattie Testa-Collo – Otorinolaringoiatria, G. Succo
14 maggio 2018 – M. Caprioglio

CARCINOMI ANAPLASTICI DELLA TIROIDE


Sono caratterizzati da un comportamento molto aggressivo, con metastasi locali linfatiche e a distanza.

La prognosi è infausta nella maggior parte dei casi, con una sopravvivenza media inferiore ai 6 mesi dalla
diagnosi e con sopravvivenza ad 1 anno <20%; il 50% abbondante dei pazienti ha già metastasi al momento
della diagnosi. Sono generalmente pazienti anziani, spesso con storia di gozzo di vecchia data oppure che
sono stati trattati per un tumore differenziato della tiroide che ha recidivato cambiando caratteristiche.

Il quadro clinico è dominato dalle manifestazioni locali, causate da una massa in rapido accrescimento
(nell’arco di settimane) con caratteristiche molto tipiche di fissità e durezza. La sintomatologia è
caratterizzata, tipicamente, da disfonia dovuta alla paralisi delle corde vocali per sconfinamento posteriore
del tumore, nella zona dove decorrono i nervi ricorrenti; spesso ci sono linfoadenopatie satelliti.

La chirurgia, da sola, può fare poco o niente; inoltre questi soggetti rispondono scarsamente alla
chemio/radioterapia. Alcuni risultati si ottengono solo utilizzando tutte le opzioni appena citate: usare
chirurgia per attaccare in modo diretto la malattia e poi proseguire subito con chemio/radioterapia. In verità,
l’estensione locoregionale e la velocità di diffusione della malattia, insieme alle metastasi a distanza,
precludono nella grande maggioranza dei casi qualunque possibilità terapeutica. L’approccio terapeutico
allora varia, in modo anche marcato, in base ai diversi centri, e può consistere in: astensione terapeutica
totale; chirurgia, ma solo se ci sono buone probabilità di resecare il tumore e in assenza di metastasi a
distanza; chirurgia in qualunque caso, a scopo palliativo.

L’atteggiamento, da noi, è dell’ultimo tipo (chirurgia palliativa). Quindi, anche in casi di malattia incurabile
come spessissimo lo sono questi tumori, si offre un trattamento che cerca di migliorare almeno un po’ la
qualità della vita che resta al paziente: già solo la massa del tumore stesso, per la sua localizzazione, provoca
molti problemi. Purtroppo, anche adottando questa linea di condotta, non tutti i pazienti sono operabili per
cause come l’età, patologie associate, caratteristiche del tumore etc.

Come esempio si riportano i dati di uno studio del 2014 che riassumeva l’esperienza fra il 1989 e il 2012 su
una serie di 55 pazienti con carcinoma anaplastico; di questi, il 75% era operabile. Ben 31 pazienti (56%)
erano di classe 4C, ossia con metastasi a distanza.
Il protocollo di trattamento che si era deciso di seguire è il seguente:

TUMORE RESECABILE?
 Sì  Chirurgia  Chemio/radioterapia
 No  Chemio/radioterapia  Rivalutazione della resezione
o Ancora non resecabile  Cure palliative
o Ora resecabile  Chirurgia  Chemio/radioterapia

Il trattamento chirurgico usato è quello di debulking massimale (maximal debulking): completa resezione del
tumore primitivo e di tutti i tessuti circostanti infiltrati, linfonodi inclusi. Salvaguardando le strutture vitali
come esofago e trachea, però, è possibile che sia necessario lasciare dei residui (minimal residual disease).
Nei casi in cui questo programma terapeutico non sia possibile perché l’estensione della malattia non
consente altro che rimozioni subcutanee delle masse, l’intervento è allora da considerarsi come solamente
palliativo.

Dei 55 pazienti presi in esame, 34 erano femmine e 21 erano maschi: in questa patologia il rapporto F:M è
fortemente squilibrato a sfavore della donna. Ad oggi la differenza è diminuita, ma il rapporto si attesta
ancora intorno a 1,5:1. L’età media dei pazienti era avanzata, andando dai 65 agli 80 anni.
Di tutti i soggetti in esame, solo il 19,7% ha superato l’anno di vita. La sopravvivenza mediana fra operati e
non operati è stata di 5 mesi e mezzo. Non c’è stata nessuna differenza di sopravvivenza fra gli stadi 4B o 4C
(rispettivamente senza o con metastasi a distanza), a conferma che quello che controlla l’evoluzione della
situazione, in termini di probabilità di decesso del paziente, è l’andamento locale della malattia piuttosto che
le metastasi. È stato notato un netto miglioramento della sopravvivenza nei casi in cui è stata possibile la
chirurgia rispetto a quelli in cui essa non era possibile, e ciò era valido sia per i pazienti 4B che per quelli 4C.
Infine, gli operati in cui era stato possibile eseguire un debulking massimale, in termini di sopravvivenza,
sono stati estremamente avvantaggiati rispetto ai pazienti in cui la chirurgia era solo parziale e palliativa.

La rete oncologica regionale, in Piemonte, ha creato un gruppo di studio dedicato ai tumori anaplastici della
tiroide, e sono state delineate delle linee di condotta:
1. Lasciar passare meno tempo possibile fra le prime manifestazioni cliniche e il momento in cui si
valutano le possibilità di trattamento. L’indicazione è di far visitare il paziente in un centro di
riferimento entro 3 giorni, e completare entro la settimana successiva gli esami essenziali per
stadiare la malattia e valutarne l’operabilità. Sono quindi casistiche ad alta urgenza.
2. Se il paziente è giudicato operabile, l’intervento va programmato in urgenza ed eseguito entro 7
giorni. L’operazione chirurgica non è facile e deve perciò essere eseguita in centri con chirurghi
esperti nel campo. Se si riesce ad eseguire l’intervento nei termini appena descritti, c’è la possibilità
di offrire al paziente terapie aggiuntive, come la chemio/radioterapia. Il soggetto va poi seguito e
rivalutato.

La situazione, solitamente, tende a peggiorare, spesso nel giro di 6-12 mesi: dei 55 casi esaminati, solo 2
pazienti (5%) sono in vita e liberi da malattia a distanza di anni, e possono essere considerati come guariti.

CARCINOMA MIDOLLARE TIROIDE


È raro, ma molto interessante dal punto di visto biologico. Origina dalle cellule parafollicolari, che sono
neuroendocrine. Non secernono i classici ormoni tiroidei, ma rilasciano in circolo della calcitonina e hanno la
potenzialità di produrre altre sostanze neurotrasmettitoriali. La calcitonina, nell’uomo, non ha quasi più
funzione biologica: è un residuo dell’evoluzione. Questi tumori, quasi sempre, mettono in circolo calcitotina
che funge quindi da marcatore sensibile e specifico.

Dal punto di vista clinico ci sono 2 varianti di carcinoma midollare della tiroide (CMT): una forma sporadica,
con origine ignota; una forma ereditaria, causata da una mutazione genetica trasmissibile che può
coinvolgere interi nuclei familiari e ripresentarsi di generazione in generazione. Quest’ultima variante può
presentarsi da sola, oppure essere associata ad altre endocrinopatie in quelle che vengono chiamate
sindromi MEN (neoplasie endocrine multiple); in questo caso si tratta di MEN2A/B.

Le mutazioni sono state identificate negli anni ‘90, e coinvolgono l’oncogene RET sul cromosoma 10. L’origine
genetica della malattia ha una prevalenza del 25% nelle casistiche chirurgiche, ma va notato che 1-7% dei
casi apparentemente di tipo sporadico sono in realtà le prime manifestazioni della variante genetica.

Dal punto di vista anatomopatologico, l’iperplasia delle cellule C è l’elemento di partenza, nonché la
situazione precancerosa. In seguito, in più foci, si sviluppano carcinomi midollari che tipicamente evolvono a
diverse velocità.

Nell’ambito della clinica, tutte le sindromi ereditarie sono caratterizzate da una probabilità di sviluppare il
carcinoma midollare che è virtualmente del 100%: chi ha la mutazione svilupperà sicuramente il CMT a
meno di non morire prima per qualche altro motivo. Il decesso per altre cause è il motivo per cui le
percentuali reali sono leggermente inferiori del 100% nel MEN2A; sono ancora un po’ più basse per le forme
isolate. Quest’ultimo punto è giustificato dalla diversa aggressività dei vari tipi: le forme isolate sono meno
aggressive e tendono a manifestarsi più tardi, e dunque c’è più probabilità che il paziente possa morire per
altre cause prima della comparsa del tumore; i CMT associati a MEN2A sono più precoci, mentre quelli dovuti
a MEN2B sono precocissimi e solitamente i peggiori.

Ci sono una serie di patologie associate alle MEN2:


 Con la MEN2A c’è un rischio del:
o 50% di sviluppare un feocromocitoma, un tumore della midollare del surrene che secerne
catecolamine;
o 25-30% di sviluppare una forma lieve di iperparatiroidismo, generalmente sostenuta da
iperplasia simmetrica di tutte le paratiroidi;
o 10-15% di avere manifestazioni cutanee di tipo licheniforme, legate probabilmente alla
deposizione di calcitonina.
 Con la MEN2B c’è un rischio del:
o 50-60% di sviluppare feocromocitoma;
o 100% di sviluppare neuromatosi della cute e delle mucose, sia quelle visibili (lingua,
congiuntiva etc) che quelle viscerali;
o 60-80% di avere habitus costituzionale di tipo marfanoide, che è evidente in giovani
adolescenti dall’aspetto allampanato, con una caratteristica lassità dei legamenti e un
quadro di aracnodattilia.

Resta una differenza marcata nelle età di esordio di queste sindromi: per la MEN2B sono riportati casi in cui
il tumore ha colpito bambini di soli 2 anni, mentre generalmente le manifestazioni cliniche sono evidenti nella
prima o seconda decade di vita; per la MEN2A esistono casi di comparsa di tumore in pazienti di 10 anni,
mentre le manifestazioni cliniche di solito compaiono fra i 20 e i 40 anni; l’età di insorgenza è più tardiva per
i casi di CMT isolato.

In generale il CMT si manifesta perlopiù con nodulo tiroideo, talvolta associato a linfadenopatia
laterocervicale che a volte può essere la prima manifestazione clinica. Ultimamente si tende a richiedere il
dosaggio della calcitonina sierica nell’ambito della valutazione iniziale dei casi con patologia tiroidea; ci sono
quindi una serie di CMT che vengono scoperti grazie a valori di calcitonina anomali: <10pg/mL normale;
≥30pg/mL sospetto; ≥ 100pg/mL diagnostico di carcinoma midollare. Nelle forme su base genetica, nel
momento in cui è stata accertata la mutazione nel paziente con il tumore, la prassi è di effettuare uno
screening genetico di tutti i familiari a rischio con la potenzialità di scoprire CMT in fase preclinica.

DIAGNOSI
L’agoaspirato è l’esame diagnostico nella quasi totalità dei casi, e la citologia è utile non tanto per le
caratteristiche peculiari delle cellule, quanto per la frequentissima positività alle colorazioni
immunocitochimiche per la calcitonina. Inoltre, è possibile dosare la calcitonina lavando la siringa con cui è
stato fatto l’agoaspirato, raccogliendo il liquido di lavaggio e mandandolo al laboratorio: generalmente si
ottengono dei valori estremamente alti, che non lasciano dubbi sul fatto che è stata punta una lesione
contenente cellule secernenti la sostanza.

Come già accennato, spesso oggi si effettua un dosaggio sistematico della calcitonina nei pazienti con
patologia tiroidea di qualunque tipo. Questo atteggiamento è stato oggetto di controversie: l’orientamento
europeo prevalente è di farlo; viceversa negli USA stanno accettando, con riluttanza, di proporre questo
esame solo nei pazienti con noduli tiroidei.
I dati probabilmente più importanti dal punto di vista numerico provengono da uno studio del 2004,
pubblicato dal centro di Pisa. Si è effettuato uno screening su migliaia di pazienti e si sono riscontrati livelli
elevati di calcitonina nello 0,47% dei casi (1 pz su 200) e carcinoma midollare nello 0,40% dei casi (1 pz su
250): questo significa che si può presumere che, con un dosaggio sistematico della calcitonina, ci sia una
probabilità di trovare un CMT in 1 su 250 casi. In Europa è stato visto come un buon risultato, che dava la
possibilità di fare diagnosi anche in stadi precocissimi; in USA questi risultati sono stati invece visti come
segno di un basso rapporto costo/effetto dello screening, in quanto sono necessari 249 test inutili (50-60
euro l’uno) su 250.

È da precisare che, oggi, praticamente ogni paziente valutato per una patologia nodulare della tiroide esegue
un dosaggio della tireoglobulina: questo, nella valutazione del paziente con noduli tiroidei, è un inutile spreco
di denaro. I valori della tireoglobulina sono infatti mossi nella maggior parte dei pazienti con alterazioni della
tiroide, a volte più e a volte meno, ma non c’è nessuna correlazione fra il tipo di patologia e i livelli di
tireoglobulina circolante. L’unico ruolo della tireoglobulina riguarda il monitoraggio di pazienti che hanno
subito tiroidectomia totale per tumore di origine follicolare: la tireoglobulina, in questi casi, dovrebbe essere
assente dal circolo. Dato che il dosaggio della tireoglobulina costa grossomodo quanto quello della
calcitonina, per non aumentare i costi basterebbe eliminare il primo ed eseguire sempre il secondo; inoltre,
guarire precocemente un paziente che avrebbe poi sviluppato CMT comporta risparmi ancora maggiori.

TRATTAMENTO
Le possibilità terapeutiche sono molto limitate, in quanto il CMT: non concentra lo iodio radioattivo perché
le cellule non sono di derivazione follicolare; non è sensibile al TSH, che non lo sopprime; risponde molto
poco a radio/chemioterapia. L’unico trattamento valido è quello chirurgico, che però ha possibilità di
successo solo se è un intervento precoce (ecco perché il dosaggio della calcitonina è importante).

WORK-UP PREOPERATORIO
Calcitonina e CEA sono markers tumorali affidabili. Il CEA non è specifico come la calcitonina, ma i suoi livelli
correlano abbastanza con quelli della seconda ed entrambi sono indicativi di metastasi.

Mentre la maggior parte dei pazienti scoperti tramite il dosaggio della calcitonina è in fase preclinica, e ha di
solito una malattia localizzata, il 70% dei casi diagnosticati a causa di nodi palpabili ha invece linfonodi
metastatici, i quali richiedono dunque una valutazione precisa della situazione del collo mediante ecografia.
Come già detto, casi apparentemente sporadici possono avere una base genetica. Ciò ha conseguenze
pratiche per quanto riguarda i familiari, ma anche per il paziente in quanto quel tipo di malattia implica spesso
patologie associate. Il feocromocitoma, per esempio, è molto pericoloso perché può avere una secrezione
episodica con conseguenti pousseé ipertensivi, talvolta di estrema gravità, che possono evolvere in infarto
miocardico, emorragia cerebrale etc; uno degli eventi che possono scatenere un pouseé ipertensivo è
l’intervento chirurgico: non si deve portare il paziente in sala operatoria prima di aver escluso la possibile
concomitanza di patologia surrenalica.
Il work-up preoperatorio consiste quindi nel:
 Dosaggio di calcitonina e CEA.
 Ecografia del collo per una stadiazione quanto più possibile accurata della malattia a livello
locoregionale.
 Effettuare uno screening genetico/biochimico:
o Ricerca gene RET;
o Dosaggio delle metanefrine plasmatiche o urinarie, che sono metaboliti delle catecolamine
e dunque indici di feocromocitoma;
o Dosaggio calcio e PTH per escludere iperparatiroidismo.
 In casi selezionati, con tumori che al momento della diagnosi sono molto avanzati e/o hanno livelli
significativamente elevati di calcitonina (≥1000pg/mL):
o TAC collo e torace;
o RMN del fegato, in quanto tipicamente i carcinomi midollari danno metastasi piccole e
multiple, con aspetto ecografico molto simile agli angiomi epatici; è dunque preferita una
angiorisonanza per ottenere informazioni più precise.

INTERVENTO CHIRURGICO
Solitamente si parla direttamente di tiroidectomia totale extracapsulare, in quanto non si può sapere con
certezza se si tratta di un CMT ereditario o meno. In realtà, se il test genetico ha già fornito una risposta
negativa, la tiroidectomia totale potrebbe anche essere messa in discussione nei casi di tumori di piccole
dimensioni e con livelli di calcitonina ≤ 100pg/mL. In linea di principio, comunque, si preferisce eseguire la
rimozione totale della tiroide, e sapendo che nei tumori su base genetica tutte le cellule parafollicolari sono
soggette ad iperplasia e potrebbero progredire verso la malignità, non bisogna assolutamente lasciare
residui: la tiroidectomia è extracapsulare.

Considerando che sono tumori che danno metastasi, che lo iodio radioattivo non serve a niente, e che il
comparto centrale del collo è una zona difficile da rioperare più volte, tutti concordano che, per questo tipo
di tumori, una linfoadenectomia completa del comparto cervicale centrale vada eseguita sempre. Differente
è l’atteggiamento nei confronti della linfoadenectomia dei comparti laterali (omolaterale o bilaterale); in caso
di CMT sì è più propensi a farla comunque per principio, anche senza metastasi evidenti, perlomeno nei casi
in cui la calcitonina è elevata o nei casi in cui il tumore è grande. Il nostro atteggiamento consiste
nell’effettuare uno svuotamento laterocervicale, almeno omolaterale al tumore, se la calcitonina supera i
200pg/mL e se le dimensioni del tumore superano i 2cm; se, però, si tratta di una forma su base genetica, si
effettua necessariamente uno svuotamento laterocervicale bilaterale.

PROGNOSI
Con l’intervento si spera di ottenere una guarigione biochimica: nessun segno di malattia residua, con
calcitonina inferiore a prima e al di sotto della soglia di dosabilità. Una volta si effettuava sistematicamente
anche un test di stimolo della calcitonina, o somministrando pentagastrina o con infusione rapida di calcio;
la pentagastrina è però scomparsa dal commercio, e il calcio può dare effetti avversi sul cuore: si è quindi
smesso di fare questo test, e ci si accontenta dei dosaggi, che sono diventati più precisi.

La calcitonina non va misurata prima di 3 mesi dall’intervento, perché il declino della calcitonina circolante è
bifasico, con prima un declino precoce e poi un plateau che si attenua lentamente: un dosaggio troppo
precoce rischia di misurare valori ancora falsamente alti.

Le probabilità di guarigione biochimica duratura dipendono molto dalla rapidità di intervento, ma l’indice
prognostico più significativo è la presenza di metastasi nei linfonodi regionali:
 75-90% nei casi pN0 (senza metastasi)
 20-30% nei casi pN1 (con linfonodi metastatici)
o <5% se >10 linfonodi positivi (il numero di linfonodi metastatici è fortemente correlato)
La maggior parte dei pazienti richiede solo una sorveglianza attiva. La persistenza di elevati livelli dei
marcatori biochimici non preclude una buona aspettativa di vita, ciò che è importante è la loro variazione nel
tempo, e in particolare il tempo di raddoppio della calcitonina: un tempo di raddoppio inferiore 6 mesi è un
indice prognostico sfavorevole e fa pensare ad una malattia con rapida progressione.

In presenza di malattia residua/recidiva a livello locoregionale o a distanza, bisogna innanzitutto considerare


un nuovo intervento chirurgico per trattare zone locoregionali o masse a distanza di piccolo volume. Se il
paziente ha poi delle metastasi a distanza, si può decidere di concentrarsi sul loro trattamento. Esiste oggi la
possibilità di terapie sistemiche, con chemioterapici che si sono dimostrati efficaci contro malattie a rapida
progressione. Il problema di queste terapie è che funzionano solo finché vengono fatte: bloccano la crescita
del tumore e ne inducono una regressione, ma quando il trattamento viene interrotto (perché spesso ha
effetti collaterali) la malattia ritorna.

PREVENZIONE
Nei casi che hanno mutazione del gene RET non sempre è possibile escludere la presenza di una sindrome
MEN2; o meglio, se il paziente appartiene ad una famiglia in cui notoriamente c’è una sindrome MEN2, è
chiaro che potrebbe manifestare nel tempo altri elementi della stessa (iperparatiroidismo, feocromocitoma
etc). Allora, se in una famiglia compare il primo caso di CMT associato a mutazione di RET, non si può sapere
in partenza se si tratta di un CMT familiare isolato oppure se il paziente svilupperà il quadro clinico più
complesso della sindrome MEN2: andrà quindi sorvegliato nel tempo con test biochimici per feocromocitoma
(metanefrine) e iperparatiroidismo. Poi, siccome il paziente è il primo caso con la mutazione predisponente,
è necessario sottoporre a test genetico tutti i familiari a rischio. Se si scoprono pazienti portatori della
mutazione predisponente, si pone allora il problema della chirurgia profilattica. In realtà, molte volte nei
portatori si scoprono livelli di calcitonina già elevati, e dunque il problema della chirurgia profilattica non si
pone più: sono pazienti che molto probabilmente hanno già il CMT in fase preclinica, ed è quindi più corretto
parlare di chirurgia precoce.
In ogni caso, tornando ai casi in cui c’è la mutazione senza nessun’altra evidenza di malattia, è necessario
decidere a che età effettuare la chirurgia profilattica: basta osservare le età medie di insorgenza delle
malattie, ricordando che le MEN2, soprattutto le 2B, sono aggressive e precoci. Negli ultimi 10-15 anni è stata
messa insieme una massa di dati sufficiente per stabilire delle correlazioni abbastanza chiare fra il tipo di
mutazione genetica e il tipo di manifestazioni cliniche associate.

Nella pratica, le mutazioni sono state divise in 4 classi di rischio:


 BASSO: la maggior parte dei CMT familiari isolati  ci si basa anche sulla calcitonina, aspettando i
primi segnali oltre i limiti, anche se sarebbe meglio eseguire l’intervento entro i 10-12 anni.
 ALTO: alcune MEN2A  come le precedenti.
 PIÙ ALTO: le restanti MEN2A  intervento raccomandato prima dell’età scolare, entro i 5-6 anni.
 ALTISSIMO: MEN2B  intervento possibilmente entro il primo anno di vita.

È da notare che gli interventi di chirurgia profilattica vengono eseguiti su pazienti che in quel momento
sono sani: è dunque fondamentale cercare di non creare nessuna sequela per il paziente.

Il vantaggio pratico di una chirurgia profilattica è che consente di evitare la linfoadenectomia del comparto
cervicale centrale, che è una procedura che aumenta il rischio di non riuscire a salvaguardare la funzionalità
delle paratiroidi.
Sbobina della lezione a Candiolo

IPERPARATIROIDISMO

Nell’ambito chirurgico vi sono l’iperparatiroidismo primario, secondario e terziario: verrà trattato solo il
primario, ovvero quello dovuto ad un eccesso di produzione di PTH da parte di una o più paratiroidi.
La storia delle paratiroidi è relativamente recente: non se ne sapeva niente fino a metà ‘800, quando Owen
le descrisse per la prima volta, facendo l’autopsia ad un elefante indiano morto a Londra. Invece la prima
descrizione delle paratiroidi nell’uomo è di 35 anni dopo, fatta da uno svedese. Bisogna arrivare alla prima
metà del ‘900 per capire che c’è correlazione fra alcune patologie (es. osteolite fibrosocistica) e le paratiroidi.
Nel 1934 ci fu la prima asportazione chirurgica di un tumore paratiroideo.
È una patologia oggi abbastanza frequente. Fra gli anni ’70 e ’80 sono stati commercializzati dei sistemi di
dosaggio automatico di vari ormoni e parametri, fra i quali quelli del calcio.
È più frequente nella donna post menopausa, è sporadica ma nel 5% dei casi può essere familiare (isolata
oppure correlata alle MEN1 e 2).
Le forme sporadiche sono dovute nel 80-90% ad un adenoma solitario. Per il 10-20% c’è invece
coinvolgimento di più ghiandole, che aumentano di dimensioni. La patologia tumorale maligna è molto rara.
Tutte queste condizioni sono caratterizzate da un aumento cronico di immissione in circolo di PTH.
Questo ormone serve nella regolazione del calcio, della sua componente ionizzata. Le fluttuazioni devono
essere ridotte al minimo in quanto lo ione è coinvolto nelle trasmissioni neuromuscolari, e non solo, dunque
ha funzioni essenziali.
Il PTH fa salire le concentrazioni di calcio in circolo: interviene principalmente sul riassorbimento osseo
attivando dei recettori osteoclastici, poi sull’assorbimento intestinale e sul tubulo renale aumentando il
riassorbimento.
In condizioni patologiche, l’aumento cronico di paratormone determina elevazione di calcio nel siero e, se si
superano le possibilità di riassorbimento renale, un’elevazione anche nell’escrezione.

Manifestazioni cliniche:
- Patologia scheletrica dovuta alla demineralizzazione
- Patologia urinaria dovuta a calcolosi recidivanti
- Alterazioni meno specifiche (neuromuscolari, digestive, cardiovascolari con ipertensione)
- Crisi ipercalcemica: nel periodo estivo, con disidratazione, induce a coma e arresto cardiaco.

Oggi la maggior parte dei casi che si presentano sono del tutto - o quasi - asintomatici. La patologia si scopre
per riscontro di alti livelli sierici di calcio durante altri esami, oppure perché si richiedono esami specifici dopo
riscontro di osteoporosi.

La diagnosi si basa su:


- Calcio alto o valore soglia.
- PTH alto o soglia, inappropriatamente alto.
- Calcio urinario nelle 24h alto.

Eziologia:
- Litio
- Diuretici tiazidici
- Altre (ricordarsi che nel 90% c’è iperparatiroidismo primario)
In caso di patologia tumorale maligna il calcio è elevato, ma c’è feedback su PTH che quindi risulta basso.

Algoritmo diagnostico terapeutico: quadro di ipercalcemia

1. Escludere errore di laboratorio


2. Anamnesi farmacologica
3. Fare sospendere eventuali farmaci e rifare dopo 3-4 settimane le analisi
4. Se la calcemia rimane alta: dosaggio PTH
5. PTH alto/ valore soglia: iperparatiroidismo primario MA potrebbe anche essere IPERCALCEMIA
IPOCALCIURICA FAMILIARE BENIGNA: malattia genetica data da una mutazione eterozigotica a livello del
recettore del calcio delle cellule paratiroidee. In questo caso non serve l’intervento chirurgico. C’è
ipocalciuria: <100 mg/24h.
6. Test per DD: rapporto fra calciuria e creatinina nelle 24h.
7. Terapia per iperparatiroidismo primario: è una malattia cronica quindi le terapie mediche possono solo
contenere il danno a livello osseo. L’unica possibilità è l’asportazione delle ghiandole.

L’operazione non è sempre da fare, anche perché negli ultimi anni i pazienti sono sempre meno sintomatici.
Negli USA dal 1992 sono state create delle linee guida per il trattamento chirurgico, di cui lo spazio è
aumentato negli anni. Nei pazienti che sono stati operati i sintomi generali solitamente vanno incontro a un
miglioramento rapido, anche se bisogna dire che la risposta è variabile da caso a caso, la sintomatologia
generale non è detto che dipenda dall’iperparatiroidismo quindi non è necessario enfatizzare troppo queste
aspettative con il paziente perché si potrebbero indurre delle aspettative che non sono realistiche. L’osso
generalmente risponde bene: entro 6-12 mesi al massimo gli esami finalizzati a dimostrare la
mineralizzazione ossea dimostrano un buon miglioramento della situazione dell’osso. Gli effetti
cardiovascolari restano quelli che sono, non ci sono benefici evidenti sulla ipertensione arteriosa. Se le
calcolosi recidivanti e i depositi di calcio nel rene hanno creato dei danni sulla funzione renale rimarranno lì,
non c’è rischio che peggiorino. Dal punto di vista del trattamento chirurgico, il problema è quello di rimuovere
tutto il tessuto iperfunzionante lasciando possibilmente una funzionalità tiroidea residua normale. Gli
aspetti delicati di questa chirurgia sono in primo luogo il fatto che non è sempre facile trovare le paratiroidi:
può capitare che in un intervento di ricerca delle paratiroidi il chirurgo concluda l’intervento senza averle
individuate, questo perché la posizione non è sempre così evidente e inoltre perché non sono rare delle
ectopie di posizione che pongano la ghiandola patologica al di fuori dell’area esplorabile nel collo. In secondo
luogo, non si deve misconoscere una patologia multighiandolare: fra il 10 – 20% dei casi di iperparatiroidismo
primario sono sostenuti da più paratiroidi iperattive. Se si toglie la prima che si incontra e si è sicuri di aver
risolto la malattia, è possibile rilevare la presenza di una seconda ghiandola malata e che il problema sia
risolto solo parzialmente; in questo caso dopo alcuni mesi gli esami di laboratorio dimostreranno che la
patologia sussiste ancora. Questo porta al problema di dover rimettere le mani su un collo già operato e
questo non crea mai delle situazioni facili.

Basi anatomiche ed embriologiche dell’iperparatiroidismo


Per lo più le paratiroidi sono quattro, ma il 13-20% dei pazienti presenta delle ghiandole patologiche
soprannumerarie e non si può escludere che quella malata sia proprio una di queste: il problema è quando
la ghiandola malata è sovrannumeraria ed ectopica. Le dimensioni sono piccole (5mm x 3mm x 1mm), il
colorito è caratteristico e consente in genere di differenziarle dal grasso, linfonodi e connettivo che spesso è
adiacente. La localizzazione classica viene in genere definita come “un cerchio di raggio di 2 cm centrato sul
punto di intersezione tra il nervo laringeo ricorrente e la arteria tiroidea inferiore”. Le paratiroidi superiori
sono in genere in una posizione più profonda rispetto alle inferiori e questo per motivi legati anche alla
embriologia di queste ghiandole.
Le paratiroidi infatti nascono nelle prime settimane di vita embrionale dalle tasche branchiali, precisamente
dalla terza e dalla quarta tasca branchiale: dalla terza tasca branchiale si formano gli abbozzi del timo e delle
paratiroidi inferiori; dalla quarta tasca branchiale si formano gli abbozzi delle paratiroidi superiori e poi di
una struttura chiamata corpo ultimo branchiale, non ben definita per quanto riguarda le sue funzioni, che in
qualche modo andrà a fondersi con la tiroide. Nelle settimane successive, si verifica una migrazione per cui
le strutture che nascono più in alto, ossia nella terza tasca branchiale, migrano più in basso verso la parte
inferiore del collo e mediastino superiore. Questa migrazione coinvolge contemporaneamente le paratiroidi
inferiori e il timo. Poi se tutto segue l’evoluzione normale, arrivate nella parte bassa del collo le paratiroidi
inferiori si sganciano e rimangono a contatto con il lobo inferiore tiroideo e il timo continua la sua migrazione
verso il mediastino. Le paratiroidi superiori invece, hanno una migrazione molto più breve e vanno a ridosso
del versante posteriore dei lobi tiroidei. Questo fa sì che ectopie riguardino soprattutto le paratiroidi inferiori,
che possono occupare teoricamente una area di distribuzione anatomica che va dalla parte alta del collo –
angolo della mandibola e biforcazione carotidea – se per caso la migrazione non dovesse avvenire, al
mediastino, anche in profondità, se invece non dovesse avvenire lo sgancio dal timo nella parte inferiore del
collo; in questo caso il timo incorpora le paratiroidi e le porta in basso. Lungo tutta questa via di migrazione
si possono verificare delle locazioni ectopiche intermedie a seconda che lo sgancio avvenga più o meno in
alto. Quindi l’area di distribuzione complessiva può andare dall’angolo della mandibola al pericardio, e questo
rappresenta un problema significativo per il chirurgo. Le paratiroidi superiori invece sono molto meno
soggette ad alterazioni di posizione su base embrionaria; è molto più facile che ingrossando tendano a
scivolare caudalmente dalla zona posteriore del lobo tiroideo in basso, lungo l’esofago verso il mediastino
posteriore. Probabilmente questo può avvenire in alcuni casi perché c’è già una mobilità anomala e poi
ingrossandosi, a causa della respirazione o dei movimenti peristaltici tendano ad essere risucchiate verso il
mediastino posteriore.
Dove cercare quindi una paratiroide che non si trova? Se quella mancante è una paratiroide superiore è
probabile che sia migrata posteriormente e in basso lungo l’esofago, quindi verso l’imbocco del torace e il
mediastino posteriore. Se invece quella mancante è una inferiore le cose sono più complicate. Secondo uno
schema classico, il percorso di migrazione delle paratiroidi viene descritto come una autostrada e il timo è
paragonato ad un dito che punta verso la paratiroide inferiore; nella maggior parte dei casi la paratiroide
inferiore normalmente si trova in questa zona: qualche volta essa è localizzata “sotto l’unghia” del dito, quindi
nel polo superiore, più raramente verso la base del dito e qualche volta invece è “rimasta nel garage”, quindi
nella parte alta del collo dove si è formata originariamente.

È quindi evidente che per il chirurgo è importante se possibile partire con una idea di dove dover andare a
cercare. Il discorso degli studi di localizzazione in realtà è molto vecchio ed è stato molto dibattuto. Negli
anni ottanta era diventata celebre questa frase di un noto radiologo americano, il quale affermava che
“l’unico studio di localizzazione che vale la pena di fare nell’iperparatiroidismo è quello di localizzare un
chirurgo esperto a cui affidare il paziente”. In effetti all’epoca non vi erano molti strumenti per fare uno studio
di localizzazione: l’ecografia era agli inizi e non c’erano apparecchiature ad elevata risoluzione, mentre la
scintigrafia non era utile. Oggi le cose sono cambiate, ed è possibile arrivare nell’80-85% dei casi con una
diagnosi di localizzazione preoperatoria ragionevolmente precisa. È però necessario ricordare che la
diagnostica per immagini serve al chirurgo per guidare l’intervento, non per fare la diagnosi di
iperparatiroidismo primario. La malattia deve essere diagnosticata sulla base degli esami di laboratorio;
pensare di chiedere una ecografia o una scintigrafia paratiroidea per avere ulteriori elementi di supporto nei
casi dubbi è sbagliato metodologicamente e pericoloso per il paziente, perché questi esami possono dare
delle utili indicazioni, ma talvolta anche dei falsi positivi ed essere così fuorvianti.
Attualmente ci si basa soprattutto su ecografia e scintigrafia. Quest’ultima usa un tracciante, il MIBI marcato
con Tecnezio; non è un tracciante specifico per le paratiroidi, tende solo a concentrarsi nei tessuti ricchi di
mitocondri e spesso le paratiroidi lo sono. Purtroppo però a volte ci sono dei nodi tiroidei ricchi di mitocondri,
quelli cosiddetti a cellule ossifile e per questo la scintigrafia può dare dei falsi positivi. Ha una sensibilità
variabile nelle diverse casistiche e in generale la accuratezza dell’esame attualmente è dell’80-85%. Dal punto
di vista tecnico, a pochi minuti dalla somministrazione del tracciante questo si localizza tanto nella tiroide
quanto nel tessuto paratiroideo; successivamente viene eliminato rapidamente dalla tiroide e tende a
persistere nelle paratiroidi. Per questo, se si osservano delle immagini precoci (pochi minuti dalla infusione
venosa del tracciante) con delle immagini tardive a distanza di circa due ore si può fare un confronto.
Il secondo test di localizzazione, solitamente abbinato al primo, è l’ecografia che ha il limite di non vedere
certe zone quali il mediastino e lo spazio retrotracheale ma vede bene delle zone che sono addossate alla
tiroide. L’accuratezza di questo esame è simile a quello della scintigrafia. Di solito quindi l’abbinamento di
ecografia e scintigrafia permette di partire con una idea spesso precisa per l’esplorazione chirurgica. Ci sono
poi delle indagini di secondo livello che vengono utilizzate quanto la scintigrafia e l’ecografia danno risultati
contraddittori o nelle situazioni in cui si deve rioperare un paziente perché il primo intervento non è stato
risolutivo, oppure ancora per chiarire delle situazioni di ectopia maggiore che potrebbero mettere in difficoltà
il chirurgo. Sono soprattutto TAC, la RMN e la PET con fluorocolina.
11.06.18

Prof.ssa Crosetti

PATOLOGIA NEOPLASTICA DELLA LARINGE


Nella lezione sono state viste molte immagini con individuazioni dei vari elementi anatomici. Per mancanza
di slide e perché le immagini di per sé sono molto più esaurienti viste ho evitato di riportare le descrizioni,
che la professoressa ha svolto con puntatore.

Anatomia della laringe

La laringe ha una funzione respiratoria, una fonatoria ma la sua principale funzione è quella sfinteriale,
separando la via aerea. La dimostrazione della sua importanza è che le altre funzioni si possono vicariare,
mentre le principali complicazioni sono legate al recupero deglutitorio.

La laringe ha una struttura molto complessa, che presenta:

 uno scheletro cartilagineo che comprende: l’epiglottide, cartilagine detta cribriforme perché
presenta dei fori (se c’è un problema tumorale spesso le cellule tumorali riescono ad andare nello
spazio preepiglottico), la cartilagine tiroide, la cricoide, da immaginare come una poltrona, con una
parte davanti più bassa (anello) e una parte posteriore (il castone) più alta, e le due aritenoidi;
 uno scheletro elastico, formato dai legamenti e da varie membrane. Importante è la membrana
cricotiroidea, zona in cui viene fatta la tracheotomia in urgenza (molto rara), perché è molle e si è
sicuri di non danneggiare le corde vocali. Il legamento vocale è il legamento tiroaritenoideo.

Anteriormente è coperta dalla tiroide, che è come un papillon sulla base del collo, e si articola con l’osso
ioide tramite legamenti.

Da una visione dall’alto si evidenziano le corde vocali vere e le false corde, tra cui si trova il ventricolo di
Morgagni, che è spesso visibile solo in anestesia.

Sopra la laringe ci sono dei muscoli, prima ancora della tiroide: i prelaringei o sottoioidei/nastriformi. Sono
divisi in due strati: il primo formato dal muscolo omoioideo, con un ventre superiore, un tendine e un
ventre inferiore, e dallo sternoioideo. Sono dei muscoli accessori: quando una persona è disfonica, ha un
abbassamento della voce, contrae molto la muscolatura del collo, perché esercitano una forte pressione
sulla laringe modificando l’intensità vocale. Il secondo strato è composto da sternotiroideo e tiroioideo.

Nella funzione respiratoria intervengono i muscoli tensori, tra cui il cricotiroideo, muscolo estrinseco della
laringe formato da una parte obliqua e una parte retta, che permette l’avvicinamento della cartilagine
tiroide, con allungamento e assottigliamento delle corde vocali, e i muscoli dilatatori, come il
cricoaritenoideo posteriore, e costrittori. Tutti i muscoli laringei sono innervati dal nervo ricorrente o
laringeo inferiore, tranne il cricotiroideo innervato dal laringeo superiore. Il nervo ricorrente è un ramo del
vago, presente a destra e sinistra, come il laringeo superiore, che è un nervo misto, motorio e sensitivo,
importante nel recupero deglutitorio. Quest’ultimo ha due branche: una interna e una esterna, che innerva
il cricotiroideo. Il laringeo inferiore ha due andamenti diversi a destra e sinistra

Ci sono poi i muscoli vocali, o tiro-aritenoidei.

Per quanto riguarda la vascolarizzazione si ha l’arteria laringea superiore, che è un ramo della tiroidea
superiore, accompagnata dalla vena e dal nervo omonimi. Il tutto prende nome di peduncolo laringeo
superiore.
È un organo rivestito da mucosa, in continuazione con quella faringea e tracheale, che è rivestita da una
membrana fibroelastica tesa dal legamento ari-epiglottico in alto e in basso. Gli altri legamenti da ricordare
sono il vocale e il vestibolare.

Tra i due scheletri ci sono degli spazi, chiamati paraglottici: uno in alto, nella sopraglottide, che si chiama
loggia io-tiro-epiglottica, uno spazio paraglottico superiore e uno inferiore. Questa definizione dei diversi
spazi è classificativa, perché anatomicamente gli spazi si continuano, quindi un tumore può passare
attraverso questi spazi.

N.B: Un tumore nello spazio cricotiroideo posteriore o laterale determina fissità della laringe.

Un tumore alla commessura anteriore, la zona dove si inseriscono le due corde vocali, attaccata alla
cartilagine tiroide, può bucare e diventare extralaringeo.

La laringe è distinta in 3 sedi:

- Glottide: presenta le corde vocali, la commissura anteriore e posteriore (il cono elastico è ancora
un elemento della glottide)
- Sottoglottide: (inizia un cm sotto il piano glottico) non ha sottosedi
- Sovraglottide: tutto ciò che è sopra le corde vocali, con epiglottide, aritenoidi, false corde e
ventricolo di Morgagni.

Per quanto riguarda il tumore laringeo il sesso maschile è più colpito, l’età media è tra i 40 e i 60 anni.

I fattori di rischio sono il fumo, l’alcol (soprattutto per il sovraglottide), problematiche da reflusso (non ci
sono conferme scientifiche), ci può essere un ruolo dell’HPV, non così marcato come nell’orofaringe.

Ci sono molti istotipi: i più frequenti sono gli squamosi, più rari sono i tumori maligni “salivary gland type”.

Ci possono essere tumori neuroendocrini molto rari, o tumori cartilaginei (osteosarcomi, condrosarcomi).

Si possono avere anche tumori stromali maligni (rabdomiosarcoma, angiosarcoma,…), molto rari (già i
tumori del testa-collo sono rari), linfomi o sedi metastatiche.

I più frequenti sono gli squamosi, i sarcomi e i linfomi.

Le cartilagini e le membrane rappresentano barriere anatomiche naturali per la diffusione del tumore,
mentre ci sono zone che facilitano la diffusione extralaringea, perché sono di minor resistenza: gli orifizi
dell’epiglottide, a livello della membrana cricotiroidea e della commessura anteriore.

SINTOMI:

I più subdoli sono i tumori sovraglottici perché sono a lungo silenti, sono facilitati dal fumo e dall’alcol, che
rendono meno sensibile la zona. In fase più avanzata si ha odinofagina, ma si può lamentare anche otalgia
monolaterale, qualche volta emoftoe o adenopatia laterocervicale. Raro che siano dispnoici, solo nelle fasi
avanzate quando il tumore scende.

Nella laringe sovraglottica fino al 50% presenta linfonodi laterocervicali ingrossati, per metastasi, perché la
zona presenta una ricca rete linfatica. È quindi importante effettuare lo svuotamento dei linfonodi.

La stadiazione non è da conoscere, ma è da ricordare che nello stadio T3 si ha già una corda vocale ferma,
nel T1 si ha una sola sottosede interessata, mentre nel T2 più di una.

Nei tumori glottici si ha disfonia abbastanza evidente (motivo per cui i tumori glottici sono quelli
riconosciuti prematuramente), sclerofonia per paralisi cordale e dispnea molto tardiva. La rete linfatica è
molto scarsa, motivo per cui è aggredibile con chirurgia laser. Più facilmente si ha interessamento delle
cartilagini. Lo staging corrisponde al precedente.
I più rari sono i tumori primitivi della zona sottoglottica, che si manifestano con dispnea inspiratoria. Anche
in questa area la rete linfatica è vasta, con frequenti metastasi linfonodali.

DIAGNOSI:

Lo specchietto laringeo è ormai superato, oggi si fa diagnosi tramite endoscopia, con un endoscopio rigido
(si passa attraverso la bocca), o flessibile (attraverso il naso). Se si utilizza il rigido spesso è necessario un
anestetico locale perché provoca molto fastidio, con il flessibile si possono anche superare le corde vocali.
Per fare diagnosi sono necessari anche la stroboscopia, eseguibile con strumento rigido o flessibile, che
permette di visualizzare il movimento molto rapido (onda mucosa) delle corde vocali con luce
stroboscopica. Questi sono tutti esami che si svolgono in ambulatorio.
Si hanno poi nuovi strumenti di bioendoscopia: l’endoscopia ad autofluorescenza, basata sulla presenza di
molecole, fluorofori, in tutti tessuti, con minor capacità fluorescente in presenza di lesioni tumorali o
preneoplastiche, e NBI, che permette di evidenziare la rete vascolare sottomucosa.
Fa vedere dei piccoli video esemplificativi

L’endoscopia indiretta è effettuata a paziente sveglio, quella diretta a paziente addormentato, in cui si
riesce ad andare molto più vicino alla lesione.
Naturalmente è importante l’imaging: fondamentali sono la TC e la RM del collo, sempre con mezzo di
contrasto, fatti sempre prima di andare in sala operatoria.
L’anestesista deve usare un piccolo tubo a cui è collegato un piccolo monitor, perché è importante evitare il
sanguinamento. Poi si inserisce il laringoscopio e si impiegano le ottiche.

TRATTAMENTO:

- chirurgia endoscopia laser


- chirurgia open: laringectomia parziale, laringectomia totale, con tracheostomia permanente.
- trattamento non chirurgico: radioterapia (35 sedute consecutive), chemio-radioterapia (con
agente chemioterapico che è un sensibilizzante per la radioterapia), proposte in casi più avanzati
senza invasione extralaringea (rispondono poco).

CASI CLINICI:

 soggetto di 86 anni, donna, con disfonia, non fumatore, presenta arrossamento della corda vocale
di sinistra; fa le indagini endoscopiche che evidenziano con l’autofluorescenza ridotta fluorescenza.
Si determina la presenza di una lesione superficiale, si fa endoscopia diretta che conferma e si
propone cordectomia laser, che permette tagli micrometrici.
 Soggetto di 50 anni, uomo, non fumatore. Da 4 mesi ha disfonia. Indagine endoscopica mostra una
corda vocale un po’ più spessa e irregolare, l’onda mucosa manca in una corda vocale, dopo
imaging si propone cordectomia di tipo 3, in cui si toglie anche una parte di muscolo, quindi nella
stessa seduta si fa iniezione di grasso centrifugato per sopperire alla mancanza.

Nella chirurgia open, che prevede una temporanea tracheostomia, si può avere una
- laringectomia sovraglottica, che spesso prevede svuotamendo dei linfonodi del collo a distanza di
15 giorni. Il problema maggiore è la rimozione dell’epiglottide perché può compromettere la
deglutizione.
- Laringectomie parziali
- Laringectomia totale, con tracheostomia permanente.

Per la riabilitazione si può inserire una valvola fonatoria, che si apre solo dalla trachea all’esofago.

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