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Ernesto de Martino (1908-1965)

Si forma nel Mezzogiorno e durante il fascismo, insieme ad altri intellettuali, si schierò contro il
regime quando si ebbe la promulgazione delle leggi razziali e quando l’Italia entrò in guerra a
fianco della Germania. Ernesto de Martino nasce a Napoli, si laurea in “Storia del Cristianesimo”
alla Federico II e uno dei suoi maestri fu Benedetto Croce. L’autore nel 1941 pubblica il primo libto
“Naturalismo e storicismo” che successivamente sconfessò, dirà che trasudava di scolastica
ingenuità. L’intento di De Martino, attraverso quest’opera, era di iniziare la radicale riforma del
sapere etnologico alla luce della filosofia crociana. La radicale riforma coincideva con una forte
critica di ciò che egli chiamò “naturalismo”, riferendosi sia alla scuola francese di ispirazione
durkheimiana, sia a quella storico-culturale austro-tedesca, sia alla prospettiva funzionalista di
origine britannica. Critica il relativismo culturale di Boas, l’approccio degli evoluzionisti, i quali
postulavano che i fatti culturali seguissero le leggi del mondo fisico, della natura. La polemica di De
Martino si incentrava sulla carenza fondamentale per lui di questi indirizzi: l’incapacità di pensare
l’esperienza storica dei primitivi all’interno di una filosofia dello spirito che fosse in grado di
restituirne il senso. In questo libro, difatti, De Martino utilizza lo storicismo crociano, grazie al
quale pensava che non fosse possibile ridurre l’esperienza umana ad un’indagine di tipo scientifico.
Per Croce le scienze erano delle pseudo-conoscenze destinate ad avere semplici finalità pratiche,
mentre la vera conoscenza era solo ed esclusivamente storica, storia che era “storia dello spirito”,
della conquista, da parte dell’uomo, di autoconsapevolezze sempre maggiori. De Martino seguiva la
metodologia di Croce ma se ne distaccava per il progetto che si proponeva di attuare,
concentrandosi sullo studio degli individui del Mezzogiorno d’Italia.
Il secondo libro pubblicato da De Martino è “Il mondo magico. Prolegomeni (introduzione) a una
storia del magismo” del 1948. Questo libro è diviso in tre capitoli nei quali l’autore si impegnava in
una ricostruzione della “struttura” del mondo magico. Il primo e il terzo capitolo si concentrano
sulla magia vera e propria. De Martino si chiede se la magia sia realmente esistita mentre, nel
secondo capitolo, formula la nozione di presenza e crisi della presenza. Recuperare alla storia il
mondo magico significava ribaltare la prospettiva crociana che De Martino critica perché, nella sua
prospettiva, ogni sistemazione che riconosca solo le forme tradizionali esprime il momento
metodologico di un’esperienza storiografica limitata alla società occidentale. Tali forme non
costituiscono, in relazione al mondo inagito, un interesse dominante perciò, se si utilizza solo questa
categoria, è destinato a non essere utile alla comprensione di esso.
La filosofia di Croce postulava l’esistenza di quattro categorie dello spirot: la categoria del bello,
l’estetica, la categoria del vero, la filosofia, la categoria dell’utile, l’economia e la categoria del
giusto, l’etica. Le categorie crociane non comprendono la religione. Croce non sosteneva che non si
potesse fare la storia delle religioni, non era contrario ma sosteneva che i fatti religiosi sono sintesi
di legge, economia, logica, morale e poesia. Le religioni non hanno autonomia, ma si nutrono di
questi elementi. La religione non la considera una categoria autonoma, ma non era contrario al suo
studio: storia dell’Islam, del Cristianesimo. De Martino, invece, mira a svincolare lo studio del
mondo magico da una filosofia fondata su una ripartizione categoriale dello spirito tale per cui,
all’interno di essa, non potevano trovare spazio e cioè divenire oggetti di vera conoscenza,
atteggiamenti mentali come il pensiero magico. COLLEGAMENTO CON ETNOCENTRISMO
CRITICO E UMANESIMO ETNOGRAFICO ( ciò che reale e cio che non lo è. Ma questo deriva
dalle diverse società. Non ci si può liberare dalle categorie). Nel primo e terzo capitolo, De Martino
sostiene che si è data poca importanza al problema di carattere epistemologico che riguarda,
appunto, l’esistenza della magia che si configurava come il problema di costruzione della realtà. La
risposta che dà l’autore è che l’individuo non può accettare l’idea che la magia sia realmente
esistita. La nostra convenzione culturale vuole che ci siano cose possibili e altre no, c’è una nozione
condivisa di realtà in occidente che si è costruita attraverso l’espulsione dei poteri magici infetti, la
caccia alle streghe venne istituita perché non erano accettate dalla società. Per accettare l’idea
dell’esistenza della magia, dovremmo cambiare la nostra idea di realtà. Ci si rende conto che il
problema non ha per oggetto solo la realtà dei poteri magici, ma anche il nostro stesso concetto di
realtà e che l’indagine coinvolge non solo l’oggetto del giudizio (poteri magici), ma anche la
categoria giudicante (concetto di realtà). Distacco netto da Croce poiché una realtà storica, come
quella del mondo magico, non poteva essere compresa dall’esterno, dall’alto di una visione ispirata
alle categorie dello spirito, il mondo magico andava rivisitato dall’interno. Il secondo capitolo è
intitolato “Il dramma storico del mondo magico” ed è qui che De Martino formula la nozione di
presenza e crisi della presenza. De Martino effettua un’analisi della costruzione della realtà magica,
che ruota attorno al processo di costruzione della presenza. L’autore formula un’ipotesi
indimostrata secondo cui l’idea di Io (noi in noi stessi), il sentimento che abbiamo noi in noi stessi,
distinta dall’esistenza degli altri e dal mondo esterno, non è un dato naturale, ma è una conquista
storica e culturale, un’acquisizione culturale e storica, che fa capo alla dimensione magica. Grazie
ad una serie di esempi della letteratura etnografica, De Martino descrive come la magia fosse il
primo tentativo coerente, da parte dell’uomo, di affermare la propria presenza nel mondo. Lo
stregone è la figura centrale di questo dramma storico (se da un lato, demolisce Frazer, accetta la
magia come elemento storico dell’umanità, che considera come una lotta degli esseri umani per
esistere, affermare la propria presenza). La conquista della presenza, dice De Martino, non è una
acquisizione definitiva, ma può essere persa in modo volontario o meno.
Sempre nel secondo capitolo, De Martino descrive dei comportamenti di indistinzione tra io e
mondo, che chiama “coinomici”. Distingue l’ecolalia, ripetizione di parole in modo monotono, farsi
eco del mondo, e l’ecocinesi, ripetizione di gesti. Questi sono segni che l’Io perde i confini della sua
autonomia rispetto al mondo esterno e c’è un’indistinzione. Nella nostra società, se questi
comportamenti riguardano un singolo individuo, si parla di psicopatologia, se invece riguarda più
soggetti, si parla di riti. De Martino giunge a sostenere che l’Io sia una conquista storica che nella
storia umana si è compiuta, e così com’è stata conquistata, così può essere persa. Il tentativo di fare
qualcosa per controllare il mondo (come fa lo stregone con la magia) indipendentemente dalla sua
riuscita, ha come effetto quello di creare l’idea di se stessi, di affermare la presenza. De Martino
cerca un mondo in cui la presenza non era ancora data.
Attorno alla nozione di presenza, ci fu una polemica a livello nazionale: ci si chiese se davvero ci
sia un popolo primitivo senza autocoscienza. Non esiste. Ma allora è un’acquisizione storica o no?
Benedetto Croce rimprovera De Martino per la storicizzazione delle categorie. La storicità della
formazione dell’Io, infatti contraddice la filosofia di Croce, secondo il quale non si può fare storia
del negativo, non si può fare storia su qualcosa che non c’è e De Martino, invece, sosteneva che l’Io
non fosse stato sempre così ma fosse una conquista storica, l’effetto della magia. Croce sosteneva
che nel passato non ci siamo stati, quindi bisogna accontentarsi di quello che ci dicono, ma per fare
la storia, c’è bisogno di far riferimento a delle categorie storiche immutabili. Per Croce gli errori di
De Martino erano logici perché se si storicizza la storia di una persona si fa un errore logico. Se si
fa la storia degli uomini, dice Croce, bisogna partire da cosa hanno in comune con noi, solo così si
possono comprendere le differenze.
Alla fine del “Mondo magico”, De martino pone l’attenzione sui modi diversi della storia delle
società che hanno plasmato, formato le diverse concezioni della storia, mettendo insieme soggetto-
mondo-divinità. Egli giunge a sostenere che se nelle discipline accademiche era stato utilizzato il
naturalismo è perché effettivamente, in quel periodo, certi uomini erano considerati come oggetti
ridotti a natura (fatti culturali riconducibili a fatti organici).
Un’altra opera di De Martino è “Morte e pianto rituale” del 1958. All’inizio di quest’opera, l’autore
cita un saggio di Croce “Frammenti di etica”, di cui riporta un lungo estratto che si riferisce
all’atteggiamento che si ha nei confronti dei morti. Croce sostiene che il modo di celebrazione dei
morti viene considerato il teatro caratteristico di una civiltà. Ogni civiltà ha un fardello da
metabolizzare: gli avvenimenti che accadono contro il nostro volere. La morte produce uno
scandalo, uno shock, paura, angoscia e le tecniche rituali sono un lavoro culturale importante che
consentono di superare lo scandalo della morte e trasformarlo in ricordo. La memoria dei morti, il
ricordo è un’azione culturale per avere un’idea di continuità di io-soggetto-mondo. Nel cordoglio si
esprimono le tecniche, l’apparato per entrare nelle dinamiche che sono alla base della plasmazione
continua tra io-soggetto-mondo.
La prospettiva che pone De Martino in occidente, ma in generale vale per tutte le popolazioni, è che
la morte genera uno scandalo. Pratiche e credenze mettono in ordine lo scandalo, tentando di
trasformare un segno negativo in segno positivo. Nel fare quest’operazione, ci salviamo dalla
perdita dell’assenza che viene trasformata in continuità.
L’autore in questo libro, a partire dallo shock documentato da Levi nel libro “Cristo si è fermato ad
Eboli”, tratta del folclore del Mezzogiorno d’Italia, che si inserisce in una dinamica complessa fatta
di politica. In “Morte e pianto rituale”, De Martino analizza il lamento funebre nei paesi della
Lucania. In queste zone, quando avviene la morte di qualcuno, si chiamano le prefiche, lamentatrici
professioniste, soprattutto donne. Queste donne piangono attraverso due dispositivi che mimano due
modi di perdere la presenza:
- EBETUDINE STUPOROSA: le donne si dondolano, facendosi eco del mondo, rispondendo
meccanicamente agli stimoli esterni, volutamente queste donne simulano la perdita della
presenza, lontano da sé (attassamento).
- PAROSSISMO: eccesso di scarica psichica irrelativa, la presenza si perde a causa di
quest’incontrollata energia psichica, ma che non ha alcuna relazione col mondo esterno (fare
il pazzo). Si tira i capelli, testa nel muro.

Solitamente c’è la guida del pianto che dice di passare da uno all’altro aspetto. Il lamento funebre è
interpretato come forma culturale, il cui scopo è di far fronte allo scandalo dalla morte, che pone
l’uomo e la comunità di fronte al rischio della perdita della presenza. Con la nozione di scandalo, si
avvicina alla scuola sociologica francese, impiegando il termine di Hertz. De Martino, quando vede
piangere queste signore, vede che queste piangono come si piangeva nel mondo antico (greco-
classico). De Martino fa riferimento a Achille quando scopre della morte di Patroclo e si chiede
come mai c’è un modellamento del pianto che ha a che fare con il mondo della tragedia greca
antica. La prima domanda che si pone è di carattere descrittivo-funzionale. Il lamento funebre è
legato ai miti, alla modellazione del tempo delle popolazioni greco-romane. Perché proprio qui?
Perché è ancora utile in Lucania questo modo di fare: questo posto è piccolo, anche se muore un
asino, succede una tragedia. Queste donne mimano la perdita della presenza perché si auto-
proteggono dalla morte). La seconda domanda che si pone è: ma queste donne non sono parenti,
allora che significato ha qui il pianto e nel mondo antico, visto che neanche Achille era parente?
Questi pianti hanno un carattere rituale, sono artificiali, ma corrispondenti al reale. Le lamentatrici
mimano un comportamento euforico e distruttivo. Attraverso il rito si riproducono le manifestazioni
di uno stato di coscienza modificato e quando si ritorna allo stato di coscienza, si ritorna rafforzati.
Qui rientra il concetto di De Martino di ETICA DEL TRASCENDIMENTO, cioè il riscatto
culturale avviene tramite il rito (ad es. quello funebre) e permette all’uomo di spostare su un piano
valoriale e culturale la minaccia della perdita della presenza, dando così senso alla sua vita. Ad
esempio, nel caso della morte, si trasforma quell’evento naturale inaccettabile, viene trasformato in
valore culturale. Si continua l’opera che la morte ha interrotto, attraverso il farne memoria. Il lavoro
culturale consiste proprio nel trasformare le cose che accadono senza la nostra volontà in valore. Il
Cristianesimo, sostiene De Martino, riplasma la relazione tra soggetto-mondo-divinità stabilendo tre
momenti. Il Cristianesimo introduce e riplasma l’immagine di tempo, stabilendo nella storia un
fine, il momento della creazione e del divino. Secondo De Martino, anche la laicità è figlia
dell’avvento del Cristianesimo.
Un altro libro di De Martino è “La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del sud” del
1961. L’autore effettua una ricerca nel Salento e analizza il rito del “tarantismo”. Il rimorso è
dell’intellettuale che si identifica con gli oppressi e si fa testimone delle consuetudini degne di
attenzioni. De Martino assiste a questi riti terapeutici che si tenevano nella cappella di Galatina. Ci
sono delle donne, giovani che hanno delle crisi che l’autore sostiene essere competenze dello
psichiatra nella società occidentale, lì invece le crisi sono concepite come conseguenza del morso di
un regno, il cui veleno ritorna e può produrre i suoi effetti (rimorso). De Martino si chiede se
davvero sono state morse queste donne, ma ciò è vero solo in alcuni casi: il morso del ragno è la
credenza che si associa al tentativo di spiegazione di comportamenti che indicano una crisi della
presenza. Battaglia tra l’esserci o cedere al mondo in una dimensione in cui il mondo entra dentro di
noi.
Dimensione del folclore religioso: il rito terapeutico che si svolge, consiste in un’esplorazione
musicale, cromatica e coreutica, fatta degli astanti il cospetto della tarantata (la donna che ha la
crisi). Il suonatore accenna delle melodie e le cambia finché non cambia il comportamento delle
donne. Inoltre, viene mostrata alla donna una serie di fazzoletti di diverso colore, ai quali reagisce
in modo diverso. La tarantata doveva rientrare in se stessa grazie al rito. Carattere rituale e
terapeutico. De Martino quindi dà degli spunti per un’etno-psichiatria.
L’autore effettua poi un excursus in cui entrano in gioco le sue argomentazioni intorno a presenza e
crisi della presenza, plasmazione della persona in occidente, le resistenze, “coni d’ombra” definiti
da De Martino, zone in cui Cristo non era arrivato, l’azione civilizzatrice dell’uomo non era arrivata
in quelle zone.
Alcune nozioni importanti di De Martino:
- RELITTO FOLKLORICO: ciò che gli evoluzionisti chiamavano sopravvivenza. De Martino
nobilita questa nozione ed è una specie di sopravvivenza di elementi culturali presso zone
dove non è arrivata la modernità.
- DESTORIFICAZIONE (CONTROLLATA): prende questo termine dal lessico psico-
patologico. Essa è la negazione delle cose che non si riesce a sopportare. Secondo l’autore,
ogni forma di riscatto magico-religioso è da intendersi come alienazione da un sé
angosciante e come processo che a sua volta consentirebbe di stare nella storia come se non
ci si stesse. Meccanismo per cui è solo pensandoci al di fuori della storia e della realtà, che
diventa possibile sopportare entrambe, la storia e la realtà. La destorificazione controllata
serve per preservare la perdita dell’Io. I rituali la mimano perché è protettiva (la
destorificazione controllata).
- ETNOCENTRISMO CRITICO: l’etnocentrismo è la tendenza a giudicare le altre culture ad
interpretarle in base ai criteri della propria, proiettando su di essi il nostro concetto di
progresso, evoluzione. L’etnocentrismo critico pose una critica al relativismo culturale su tre
dimensioni: logica, storica, etica. La critica che riguarda la dimensione logica è che, per
quanto uno studioso osservi un’altra società, non può liberarsi delle nozioni che ha acquisito
nella sua. Più si ignora questo limite e più è un danno. La critica alla dimensione storica
riguarda il problema dell’etnologia che nasce in Europa, che è una potenza storica e in
espansione, che ha creato la scienza, il punto do riferimento nello studio delle differenze
culturali. La critica alla dimensione etica: il relativismo culturale non ci consente di dire ciò
che è giusto e ciò che non lo è. L’aspetto proposito è che questa dimensione etnocentrica
come ci fa uscire da noi stessi? Questo lo permette solo l’altro, ed è solo in questo modo che
possiamo fare un esame di coscienza. De Martino dice che l’esperienza aliena, cioè con altri
popoli che non hanno partecipato alla storia dell’occidente, è l’occasione per misurare,
valutare la nostra cultura. Egli immagina l’antropologia e l’etnologia come il modo più alto
dell’umanesimo occidentale. L’unico umanesimo possibile è quello etnografico: si privilegia
l’altro da sé. Esame di coscienza è l’anamnesi storica: rivedere la storia
(ETNOCENTRISMO CRITICO). Per De Martino, la storia non è mai asettica, bisogna dire
cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ordiniamo il passato in funzione delle cose che viviamo. Si
ricostruisce il passato a partire dal risultato finale. ETNOCENTRISMO CRITICO: presa
di coscienza dei limiti che riguardano le categorie che lo studioso ha e che derivano
dalla sua cultura, delle quali non può liberarsi.
Claude Levi-Strauss (1908-2009)
Levi-Strauss è un antropologo e filosofo francese. Sviluppa l’etnologia francese di ispirazione
durkheimiana, anche se poi rigetta filosofia e sociologia. Dopo varie ricerche in Brasile e in
Amazoonia, in seguito all’occupazione della Francia da parte dei tedeschi, si rifugia negli USA.
Negli USA entra in contatto con gli etnologi della scuola di Boas e conobbe filosofi e linguistici tra
cui il russo Roman Jakobson, dal cui lavoro egli fu profondamente influenzato. Lo strutturalismo
linguistico influì molto sul suo lavoro e costituisce un elemento centrale per la comprensione del
suo lavoro. Campi di applicazione: parentela e miiti.
La sua prima opera di rilievo è “Le strutture elementari della parentela” del 1949, nella quale
fornisce una definizione di strutture elementari della parentela, ovvero i sistemi nei quali la
nomenclatura permette di determinare il giro di parenti consanguinei e quello dei parenti acquisiti.
Egli parte dalla domanda sul perché la proibizione dell’incesto sia presente in tutte le società.
Secondo Levi-Strauss, le spiegazioni fornite sul tabù dell’incesto, degli altri autori (Morgan:
prevenire gli esiti dannosi dell’unione tra consanguinei, Durkheim: conseguenza dell’esogamia
(identificazione al totem), effetto di un’evidenza religiosa) non sono valide, egli sostiene che la
proibizione dell’incesto è un fatto naturale, poiché possiede un carattere universale, ma è culturale
in quanto è l’imposizione di una legge. La proibizione dell’incesto è una regola che possiede il
carattere dell’universale, con universalità si intende il fatto che, indipendentemente dalla categoria
di parenti toccati dalla proibizione, il divieto in quanto tale è sempre presente in tutte le società.
Questo fenomeno segna il passaggio dalla natura alla cultura. L’autore ritiene che l’incesto sia
regolato da una regola negativa e una positiva. Prendendo l’esempio di due famiglie: nella famiglia
A il padre si vieta la figlia e il fratello si vieta la sorella, questi sperimentano questo divieto come
una regola negativa, il significato che gli attribuiscono i membri è fortemente negativo. Nella
famiglia B, avverrà esattamente la stessa cosa. Ma la regola negativa apre alla regola positiva. La
famiglia A dà in sposa la figlia alla famiglia B. C’è un passaggio da una regola inconsapevole di
carattere puramente formale ad una regola consapevole positiva perché si ha l’esogamia e si
favorisce lo scambio. Senza tutto ciò, non si avrebbe la società.
Levi Strauss fornisce la definizione di ATOMO DI PARENTELA, l’unità minima parentale,
l’elemento irriducibile senza il quale non potrebbero essere pensabili né lo scambio matrimoniale,
né l’esogamia e quindi la parentela stessa. L’atomo si compone di quattro individui: padre, madre,
figlio e fratello della madre. Quest’ultimo che rappresenta il gruppo della donna ceduta, ha sempre
sul figlio della donna un’autorità inversamente proporzionale a quella esercitata dal padre sulla
moglie e nei confronti del figlio (se il marito è affettuoso, allora lo zio sarà autoritario e viceversa).
Questa è secondo l’autore, la teoria generale della parentela, ma elabora anche la cosiddetta
TEORIA RISTRETTA della parentela. Quest’ultima coincide con l’analisi delle strutture
elementari, cioè di quei sistemi che prescrivono il matrimonio. Fra certe categorie di parenti,
distinguendo in maniera netta tra individui proibiti e coniugi possibili. Alle strutture elementari
Strauss oppone le strutture complesse, sistemi di parentela come quello delle società occidentali,
che si limitano a proibire certi individui, ma senza indicare l’obbligo di determinati partner
matrimoniali. La struttura più elementare di unione è il matrimonio tra cugini incrociati, figli di
fratelli di sesso differente. La distinzione tra cugini incrociati e paralleli discrimina gli individui
consentiti da quelli proibiti. Cugini paralleli: figli di fratelli dello stesso sesso.
Un esempio di struttura elementare è rappresentato dalla popolazione dei bororo in Amazzonia. Il
matrimonio tra cugini incrociati, presso di loro, si accompagna con un’organizzazione dualista: i
villaggi erano divisi in unità esogamiche e il partner matrimoniale doveva sempre appartenere
all’altra metà. I clan erano matrilineari, inoltre gli uomini andavano ad abitare nella metà del clan
della moglie. Qui il matrimonio tra cugini incrociati bilaterali (da parte di madre e padre) è un
modello di unione matrimoniale altamente apprezzato, perché si accorda al modello dualista,
considerato “il modello della società”.
Levi-Strauss considera il matrimonio tra cugini incrociati, le regole dell’esogamia e
l’organizzazione dualista come esempi della ricorrenza di una struttura fondamentale:
STRUTTURA DI RECIPROCITA’. Essa costituisce l’elemento costante di tutti i fenomeni di
parentela, la struttura soggiacente a tutte le relazioni di scambio, secondo l’autore. Il principio di
reciprocità si presenta come un elemento di natura inconscia, una relazione già data nel momento
stesso del passaggio dalla natura alla cultura.
Levi-Strauss è considerato il fondatore dello strutturalismo. Quando si parla di antropologia
strutturale, si intende definire una teoria più ampia, la quale include riflessioni sulla parentela e che
ruota attorno al concetto di struttura. Contrariamente a Radcliffe-Brown, che vedeva la struttura
sociale come una serie di relazioni concrete tra individui, gruppi, istituzione, Levi-Strauss
considerava tale struttura come il prodotto di una più profonda. La struttura è per l’autore una
categoria dello spirito umano. Il pensiero funziona grazie all’opposizione tra termini come
alto/basso, crudo/cotto, destra/sinistra. Si tratta di opposizioni prive di contenuto, vuote, che
servono ad ordinare il mondo dell’esperienza naturale e sociale, al fine di farne oggetto del
pensiero. Le strutture sociali sono modellate da queste strutture nascoste e collegate al pensiero, che
si manifestano nei modelli come il matrimonio tra cugini incrociati, l’organizzazione dualista. I
modelli, coscienti o no, sono costruiti a partire dalle strutture nascoste della mente umana. L’autore
dice che sta all’etnologo superare la soglia delle apparenze e cogliere i modelli inconsci, rilevatori
della struttura. Levi-Strauss riprende il caso dei bororo: dopo un attento esame etnografico, nota che
ogni clan (es. A,B,C,D) è costituito da tre sezioni: una superiore, una media e una inferiore di cui
ognuna è divisa in unità. I matrimoni devono essere svolti tra un soggetto di un clan di una metà
superiore con un soggetto della metà superiore e così vale per tutte le tre sezioni. Questo dato svela
una struttura diversa da quella dualista presentata dai bororo inizialmente.
Le strutture, sostiene Levi-Strauss, oltre che prive di contenuto, sono inconsce, come il principio di
reciprocità che è all’origine del passaggio dalla natura alla cultura. La natura inconscia del principio
di reciprocità trova piena espressione nella nozione di INCONSCIO STRUTTURALE. Levi-Strauss
non contrappone il pensiero civilizzato al pensiero primitivo: per lui si tratta di definire le leggi del
pensiero che in entrambi i casi sono le stesse. Le leggi del pensiero sono le stesse, perché identiche
sono le strutture grazie alle quali esso si articola. Per l’autore, il pensiero selvaggio è presente
presso tutti i popoli perché viene utilizzato per dare significato al mondo e questo lo fanno sia i
popoli selvaggi, sia i popoli civili. Questi ultimi hanno indirizzato il pensiero selvaggio nell’arte,
letteratura.
Levi-Strauss richiama la linguistica: la conoscenza dell’uomo è possibile perché l’antropologo
coglie, al di là dei fenomeni (miti, relazioni di parentela) le strutture mentali vuote (alto/basso,
crudo/cotto) che sono alla base del pensiero civilizzato e selvaggio. Levi-Strauss riprende la
nozione di fonema di Jakobson, sostenendo che come il fonema. Mezzo senza significato proprio
per formare i significati, la proibizione dell’incesto appare come il campo di giuntura tra due campi
ritenuti separati. All’articolazione del senso e del suono risponde il piano della natura e cultura
(Struttura: base del pensiero umano; fonema: base della lingua). Secondo l’autore, la logica binaria
e oppositiva che plasma le rappresentazioni della realtà naturale e sociale è analoga alla logica
binaria e oppositiva dei sistemi fonologici studiati dalla linguistica strutturale. L’analogia tra
linguaggio e cultura è resa possibile in virtù della scelta di Levi-Strauss relativa alla sfera della
comunicazione. Il linguaggio è comunicazione, e anche la cultura lo è in quanto quest’ultima,
secondo l’autore, è frutto di un passaggio reso possibile da un atto comunicativo: la proibizione
dell’incesto e l’esogamia fondati sul principio di reciprocità, quindi su uno scambio che è per
definizione comunicazione tra i gruppi.
Levi-Strauss aveva avuto come maestro Mauss e nella sua opera analizza il saggio sul dono. Si
complimenta con lui perché nessuno si era mai avvicinato a capire cosa accomuni gli uomini,
tuttavia, dice Levi Strauss, non lo ha afferrato. Lo definisce il “Mosè delle scienze sociali” poiché
come aveva portato il popolo fin quasi alla terra promessa, Mauss si avvicina al problema della
comparazione. Ciò che Strauss non accetta è la spiegazione di tipo emico che Mauss dà al
fenomeno del dare-ricevere-ricambiare: il dono ha una sorta di anima: l’han, che appartiene a chi ha
donato e che se viene trattenuto può avere conseguenze negative, invece dovrebbe circolare.
Secondo Mauss, la reciprocità dare-ricevere-ricambiare rappresentava la relazione che rende
possibile la vita sociale. Levi-Strauss rimprovera Mauss per aver preso questa relazione e averla
riempita di contenuti. Il dato reale, dice Strauss, è la relazione e non i contenuti di essa. Si dà al
dono un significato emotivo, ma può esserci anche una dimensione aggressiva nel dono, ad
esempio, durante i funerali agli individui ricchi portano molti doni al re e se il re non riuscirà a
donare di più, perde prestigio sociale. Quindi dice Strauss, la cosa importante non è il dono in sé,
ma è una sorta di relè privo di contenuto che obbliga a dare-ricevere-ricambiare.
Levi-Strauss per avvalorare la sua spiegazione fa riferimento alla linguistica, in particolare, alla
nozione di Jakobson sul fonema: tutte le lingue hanno dei suoni che chiamano fonemi che si
oppongono l’uno all’altro (a-i-o). Tutte le lingue passano dalla natura alla cultura, cioè dal suono al
senso con un sistema di opposizione. Questa opposizione è inconsapevole, collettiva e impersonale.
La cosa più reale è l’opposizione, dice Strauss, e non gli esiti fonetici e molteplici in cui questa
opposizione si realizza nelle nostre coscienze. La relazione di dare-ricevere-ricambiare come la
relazione che rende possibile la vita sociale. Mauss concepiva la relazione come riempita di
contenuti. Strauss dice che non si accorge che come per il fonema, quello che era veramente reale
era la relazione in sé, indipendentemente dai significati che le persone potevano attribuire a tale
relazione.
Un altro libro di Strauss è “Il totemismo oggi” del 1962, in cui fornisce un’interpretazione
radicalmente nuova del fenomeno totemico. Il totemismo, associazione fra un individuo o un
gruppo a un simbolo animale o vegetale, era stato interpretato in prevalenza come una
manifestazione del pensiero mistico o religioso dei primitivi. Levi-Strauss propone
un’interpretazione del totemismo che vede in esso un semplice sistema di classificazione. Non vi è
alcuna unione mistica o prelogica degli esseri umani con le specie animali o vegetali, né come
sosteneva Malinowski e in un primo momento Radcliffe-Brown, gli animali e i vegetali erano fatti
oggetti d’attenzione rituale o simbolica perché buoni da mangiare. Gli animali e i vegetali
diventavano portatori, come era riuscito a intuire in un secondo momento Radcliffe-Brown, di
relazioni concepite dal pensiero speculativo a partire dai dati dell’osservazione. La loro presenza nei
sistemi totemici non è la conseguenza del fatto che essi sono utili e buoni da mangiare, bensì dal
fatto che essi sono buoni da pensare. Gli animali e vegetali offrono agli esseri umani un repertorio
da cui attingere per le loro classificazioni, relazioni, opposizioni. Il pensiero primitivo, dice l’autore,
non è diverso da quello civilizzato. Sulla base delle sue considerazioni, il pensiero primitivo e
quello scientifico non risultano essere in un ordine di successione come avevano ritenuto alcuni, ad
esempio Frazer. Il pensiero selvaggio indica la base comune per l’autore, su cui tutte le espressioni
del pensiero umano prendono forma, tanto nelle società civili, quanto in quelle selvagge. Il
totemismo è frutto di un atteggiamento mentale che prende i dati dell’esperienza sensibile per
costruire dei sistemi di classificazione e di relazioni.
Levi-Strauss analizza il funzionamento del pensiero mitico, la cui logica costituisce insieme a quella
delle classificazioni totemiche, l’espressione del pensiero selvaggio. Levi-Strauss sostiene che i miti
non sono irrazionali, ma sono il tentativo che l’uomo ha, rispetto alle sue doti, di mettere in ordine il
mondo e di produrre significato a partire dalla messa in comunicazione di elementi isomorfi dal
punto di vista logico. Nell’analisi dei miti non è più l’opposizione originaria natura/cultura a fare da
sfondo al discorso di Levi-Strauss, bensì l’analogia formale che assimila le grandi unità costitutive
del mito (mitemi) alle unità della lingua (fonemi). I mitemi, o grandi unità costitutive del mito, sono
pensati da Strauss sul modello dei fonemi e, come nel caso di questi ultimi, il loro significato viene
concepito come dato solo in virtù dei rapporti di correlazione che li oppongono agli altri mitemi. I
miti si prestano ad una lettura di tipo formale e la stessa costituzione dei miti appare come il
risultato di un continuo farsi e disfarsi degli aggregati mitemici che li compongono, determinando la
migrazione di un mitema da un contesto all’altro. Questo farsi e disfarsi dei miti potrebbe apparire
casuale, ma, in realtà, c’è una ragione profonda nel processo di riaggregazione secondo relazioni
coerenti, strutturali. Quest’analisi dei miti è presente in “Mitologiche”, quattro volumi realizzati da
Levi-Strauss a partire dagli anni ’60. MITEMA (esempio): sole assume un determinato significato
nei diversi miti; FONEMA (esempio): a-i-o, tetto/tutto
Altro libro di Levi-Strauss è “Tristi tropici” del 1958, in cui sono raccolte le memorie dell’autore
inerenti al periodo trascorso in Sud-America, dove esercitava il ruolo di docente di sociologia
all’università di Sao Paulo, in Brasile. L’autore viene in contatto con diverse popolazioni primitive,
le quali hanno avuto pochissimi contatti con la civiltà, e nel testo riporterà queste esperienze.
L’immagine che dà di queste popolazioni è quella di società più vicine allo stato di natura. La
riflessione di Levi-Strauss sulle società primitive produce una grande distinzione, con valore di
metafora, tra società fredde e società calde. Rifacendosi all’ambito fisico, in particolare, al secondo
principio della termodinamica: trasformazione energia termica in energia meccanica. Entropia:
parte di quest’energia si disperde.
- Le società fredde sono quelle selvagge, che riducono al minimo lo spreco di energia. Sono
immerse nei ritmi e nel rispetto della natura. Queste società non producono squilibri interni,
quindi energia capace di alterare l’ambiente (umano e naturale) che le circonda. Un esempio
di società fredde sono i Gyzei, che sono immersi nel rispetto della natura. Non costruiscono
neanche dighe per non farsi inondare, diventano pescatori mentre quando non c’è
inondazione, sono agricoltori.
- Al contrario, le società calde sono quelle occidentali, società e progresso continuo che
richiedono elevata energia per funzionare, consumano ampie risorse naturali, infatti si
creano ampi disequilibri interni (macchina a vapore).

Questa distinzione viene utilizzata da Levi-Strauss per sottolineare che le società occidentali hanno
perduto la convivenza con altre specie e con altre forme di vita sociale.
Levi-Strauss dissolve i problemi e non cerca di risolverli come i funzionalisti e gli evoluzionisti. E’
a metà strada tra natura e cultura. Il pensiero dell’autore fa riferimento sia a Platone, secondo il
quale conoscenza è ricordare, perciò conosciamo le categorie del mondo, sia ad Aristotele, secondo
cui la mente è una tabula rasa. L’autore sostiene che possiamo pensare solo i pensieri che siamo
abilitati, quindi sono innati, ma possono anche derivare dalla cultura.

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