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Dispensa di Teoria della traduzione (2021-2022) (bozza)

Roberta Fabbri

Introduzione

Conoscere sé attraverso l’altro. La riflessione contemporanea sulla traduzione

Che cos’è la traduzione? Cosa fa la traduzione? Perché la traduzione?


“Conoscere sé attraverso l’altro” perché questo titolo?
Dietro questo titolo c’è un’idea contemporanea di traduzione che tiene in considerazione non solo
la relazione fra testi ma l’esperienza del tradurre come connaturata al nostro essere nel mondo.
Tutta la riflessione sulla traduzione del secolo passato si è focalizzata sulla domanda: cos’è la
traduzione (come si traduce, qual è il miglior modo di tradurre, equivalenza, ecc.)
Dai Translation Studies in poi, la domanda non è più chiedersi cos’è la traduzione (perché è
astratta, sarebbe come chiedersi cos’è la letteratura) e sulla scia delle teorie postmoderne ci si chiede
cosa fa la traduzione (crea letterature nuove, crea un linguaggio nuovo, crea spazi che prima non
c’erano in quella cultura).
La terza fase è quella dei post translation studies: la traduzione è ubiqua. Il tema della traduzione
non riguarda più solo i testi. In questa contemporaneità noi ci traduciamo, passiamo da una parte
all’altra in un altro modo. Tradurre non è più tradurre testi ma è tradurre l’identità. La traduzione
chiama in causa la questione dei confini, delle identità in transito. Il concetto stesso di identità si è
polverizzato.
Scrive Enrico Terrinoni (2019: 62): “Bisogna iniziare a pensare che siamo tutti translating beings,
e che la nostra vita è in realtà un’infinita e inesorabile traduzione”.
E anche:

Tradurre non è equazione perfetta, perché è l’idea di cambiamento a non prevedere affatto
questa possibilità. Esattamente come noi non siamo mai gli stessi in due luoghi-momenti
diversi dello spazio-tempo, due punti distanti del suono-senso non potranno mai e poi mai
coincidere. Ed è per questo che la resa traduttiva implica talvolta l’arrendersi, il costituirsi; e
il restituirsi. Ma anche il re-istituirsi (Terrinoni 2019: 179)

Ne Con gli occhi dell’altro. Tradurre, Stefano Arduini scrive: “Esistiamo in quanto esseri
continuamente tradotti” (2020: 59) perché l’attività di tradurre è ubiqua: qualunque momento della
nostra esistenza è toccata dalla traduzione, investe le persone, le città, la società.
Quindi tradurre è molto di più di una semplice corrispondenza, è piuttosto un’attività conoscitiva
e costitutiva di identità. I concetti che definiscono la storia concettuale dell’Occidente si sono
formati attraverso la traduzione:

L’idea della traduzione come storia concettuale parte da questi presupposti e considera il
tradurre come la via attraverso cui i concetti si trasformano e sono continuamente riscritti.
L’ipotesi è che la traduzione crea, costruisce, innova modi di vedere le cose e le mappe
concettuali che ne derivano. (Arduini 2020: 18)

Se la traduzione riscrive le nostre configurazioni di conoscenze, non può essere intesa come
qualcosa che ripete il già detto in modo diverso, ma come un’operazione cognitiva che crea
nuovi concetti. Per questo è un’esperienza intellettuale e un’avventura del pensiero che non
si esaurisce. (Arduini 2020: 18)

Diventa importante quindi riconoscere l’influenza della traduzione nella creazione di nuovi
concetti accettando il paradosso di trovare il simile nel diverso. Ci soffermeremo sul “diverso”,

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sull’alterità e sul rapporto che si crea con l’altro e che ci porta a definire chi siamo. Come
nell’amicizia e nell’amore, la vera relazione sincera non è nella fusione ma nel reciproco
riconoscimento della diversità e nello scambio benefico fra due identità che si trasformazione nella
relazione.
Altro in quanto altro, c’è un elemento di estraneità.
La domanda diventa quindi non più “cosa fa la traduzione”, ma “perché la traduzione”.
All’origine c’è la domanda che si poneva già von Humboldt: se la facoltà del linguaggio si concretizza
in lingue diverse e queste costituiscono un modo diverso di categorizzare il mondo la domanda è
perché tradurre se comunque l’alterità è così profonda che non può essere ricomposta?
Si tratta di un’alterità che può essere tenuta in considerazione senza annullarla solo in un rapporto
di amicizia (Florensky).
Come si manifesta nella traduzione questa alterità? Si manifesta davanti agli intraducibili. Gli
intraducibili sono emblematici perché ti fanno trovare di fronte al problema della perdita.
Ci sono due modi per pensare all’alterità: o tu l’accetti rinunciando alla tua identità o mantieni la
tua identità e quindi l’incontro con l’altro è fra due identità che rimangono distinte.
L’emblema della nuova alterità e quella dell’ospitalità. Nell’alterità dell’altro uno definisce la
propria identità. La tua identità si rafforza, le due si rafforzano. Come negli intraducibili si amplia la
tua possibilità di vedere.
Altro in quanto altro c’è un elemento di estraneità.
La nuova scommessa potrebbe essere proprio questa: non più come ha fatto la filosofia
occidentale di guardare l’altro a partire da sé ma guardare sé a partire dall’altro.

In questo percorso ci occuperemo spesso di traduzione letteraria, perché il linguaggio letterario è


un linguaggio al limite dove possiamo vedere meglio come il funzionamento di certi meccanismi. La
traduzione letteraria è esemplare a qualsiasi tipo di traduzione.
Sono tante le definizioni linguistiche e semiotiche di testo che distinguono tipologie di testi
diversi, ma nel caso del testo letterario, ritroviamo una maggiore complessità che i grandi traduttori
sono in grado di individuare.
Jury Lotman definisce il testo come un sistema coerente di segni che trasmette una qualche forma
di informazione. Dal lat. Textum. Questa idea di testo vale per qualsiasi testo e alla coerenza di
Lotman potremmo aggiungere gli altri principi costituivi (coesione, accettabilità, intenzionalità,
intertestualità, situazionalità, informatività) (Cfr. De Beaugrande-Dressler).
Tuttavia quando pensiamo a un testo letterario pensiamo a qualcosa di diverso, per esempio
Roland Barthes scrive:

Se finora abbiamo guardato al testo come ad una specie di frutto con il nòcciolo (per esempio
un’albicocca), di cui la polpa costituiva la forma e il nocciolo il contenuto, sarebbe meglio
vederlo come una cipolla, una costruzione di strati (o livelli, o sistemi) il cui corpo non
contiene, in ultima analisi, un cuore, un nocciolo, un segreto, un principio irriducibile, nulla
tranne l’infinitezza dei suoi involucri, che non avvolgono altro che l’unità delle sue stesse
superfici.” (tr. it. in Raimondi, Bottoni (eds) Teoria della letteratura, Il Mulino, 1975)

Si tratta quindi di un’idea più complessa che tiene in considerazione tutti i livelli di un testo
letterario: semantici, formali, ritmici, prosodici.
Un testo letterario è come una metafora: la sua forza espressiva e significativa non si esaurisce
mai, e ogni traduzione non può che essere una lettura parziale e temporanea.
Qual è il di più del testo letterario? Proprio perché una cipolla, il testo letterario non è chiuso a
un’unica interpretazione, è una macchina produttrice di senso all’infinito e non c’è mai quindi nessuna
interpretazione che la esaurisce.
Perché ha senso la letteratura? Perché questa infinita possibilità di letture ti apre uno sguardo sulla
realtà. Diversi sguardi sulla realtà che danno pezzi di senso che non ricompongono mai l’originario.
Mima la ricerca di senso che noi abbiamo continuamente nell’esistenza.

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Nel momento in cui spieghi esaurisci in un’unica possibilità un’intera potenzialità. È come
quando si trasforma una metafora in una similitudine

Scrive Haroldo de Campos, Traduzione, transcreazione. Saggi, tr. it. Andrea Lombardi, Gaetano
D’Itria, Oedipus, 2016, p. 46

La traduzione è innanzitutto esperienza interna del mondo e della tecnica di ciò che viene
tradotto. Come quando si smonta e rimonta la macchina della creazione, quella fragilissima
bellezza apparentemente intangibile che ci offre il prodotto finito di una lingua estranea. E
che, tuttavia, si rivela suscettibile di una vivisezione implacabile, che le rivolta le viscere, per
riportarla di nuovo alla luce in un corpo linguistico diverso. Proprio per questo la traduzione
è critica. Paulo Rónai cita una frase di J. Salas Subirat, il traduttore in spagnolo dell’Ulisse di
Joyce, che dice tutto, a questo proposito: “Tradurre è il modo più attento di leggere” (...)

È importante ribadirlo ancora una volta: la traduzione crea concetti nuovi e i traduttori non sono
dattilografi ma mettono in movimento il linguaggio e attraverso questo, il pensiero.
Fondamentalmente la traduzione non riguarda un oggetto o una relazione fra oggetti ma è
un’esperienza.
È stato Antoine Berman a ricordarci questo e cioè la natura di esperienza della traduzione che
porta a una riflessione:
Antoine Berman (1942-1991)
La traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain
(La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza)
L’epreuvre De l’Etranger, (La prova dell’estraneo)
Pour Une critique des traductions: John Donne.

Berman scrive in La traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain, 1999:

Qui non può essere questione di teoria di alcun genere. Ma piuttosto di riflessione... Intendo
situarmi interamente fuori dal quadro concettuale fornito dalla coppia teoria/pratica, e
sostituire questa coppia con quella di esperienza e riflessione.

Un tipo di esperienza che è quella descritta da Heidegger:

Fare un’esperienza con quel che sia [...] vuol dire: lasciare che venga su di noi, che ci
raggiunga, ci piombi sopra, ci rovesci e ci renda altro. In questa espressione, “fare” non
significa, appunto, che noi siamo gli operatori dell’esperienza; fare vuol dire, come nella
locuzione “fare una malattia”, passare attraverso, soffrire da cima a fondo, sopportare,
accogliere ciò che ci raggiunge sottomettendoci a lui... (M. Heidegger, In cammino verso il
linguaggio, Mursia)

“Questo è la traduzione: esperienza. Esperienza delle opere e dell’esser-opera, delle lingue e


dell’esser-lingua. Esperienza, al contempo, di se stessa, della sua essenza. In altri termini, nell’atto di
tradurre è presente un certo sapere, un sapere sui generis. La traduzione non è né sotto-letteratura
(come ha creduto il sedicesimo secolo), né una sotto-critica (come ha creduto il diciannovesimo
secolo). Essa non è nemmeno una linguistica o una poetica applicata (come si crede nel ventesimo
secolo). La traduzione è soggetto e oggetto di un sapere proprio. Ma essa non ha (quasi) mai elevato
la sua esperienza al livello di una parola piena e autonoma, come ha fatto (almeno dal Romanticismo)
la letteratura.

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L’articolazione cosciente dell’esperienza della traduzione, distinta da ogni sapere obiettivante
e esteriore a questa (come quello elaborato dalla linguistica, la letteratura comparata, la
poetica), è ciò che io chiamo traduttologia” (Berman 2003: 15-16).

Proprio perché deve essere riflessione ed esperienza, la traduttologia non è una disciplina
oggettiva, ma piuttosto un pensiero-della-traduzione.
In sostanza la traduzione non è una pratica ma un’esperienza. Fare esperienza vuol dire conoscere
qualcosa. Si costruisce un pensiero teoretico partendo da un’esperienza. Che tipo di conoscenza è
quella del tradurre? E un tipo di conoscenza che non è una filosofia minore ma maggiore.
Esperienza come sguardo. Ti fa conoscere attraverso un processo che non è teoretico ma è una
conoscenza attraversando le cose. La traduzione è un’esperienza che ti fa conoscere qualcosa. Dov’è
la creatività? La creatività sta nell’esperienza come sguardo: mirari in latino significa “vedere
chiaramente”. Mirari non è solo meravigliarsi ma anche vedere chiaramente. Quindi è creativa perché
nel momento in cui vedi chiaramente hai una realtà nuova.

Siamo partiti introducendo un’idea nuova e attuale di traduzione e cioè che la traduzione crea,
costruisce, innova modi di vedere le cose. Traduzione come esperienza intellettuale, come attività
interpretativa e creativa.
Però in realtà una gran parte della riflessione si è basata su qualcosa che di tanto creativo non è:
fedeltà e infedeltà; traduttore -traditore; equivalenza, ecc.

I fase: Che cos’è la traduzione?

Che cosa intendiamo per equivalenza?


Esistono diverse teorie sull’equivalenza e possiamo parlare di un’equivalenza divergente e una
convergente. Anthony Pym è forse lo studioso che ha riassunto meglio il concetto.
Quindi due idee di equivalenza: equivalenza naturale e equivalenza direzionale:
Sia una forma che l’altra partono dal presupposto che ci sia un’equivalenza. Mettono in atto una
serie di strumenti per compensare ciò che rimane fuori.
Dietro il concetto di equivalenza troviamo l’idea che quanto diciamo in una lingua può avere lo
stesso valore (la stessa importanza o funzione) quando viene tradotto in un’altra lingua.
La relazione tra il testo di partenza e la traduzione è, allora, un’equivalenza cioè “uguale valore”,
dove il “valore” può essere a livello della forma, della funzione o di qualsiasi cosa intermedia.
Parlare di equivalenza non significa dire però che le lingue sono uguali, ma solamente che i valori
possono essere uguali.
Le tante teorie che condividono questo assunto possono essere inserite in un vasto “paradigma
dell’equivalenza”, che può essere suddiviso in due sottoparadigmi che chiamiamo:
EQUIVALENZA NATURALE
EQUIVALENZA DIREZIONALE
L'equivalenza naturale è alla base di quel paradigma in cui si pensa che le cose abbiano lo stesso
valore prima che qualcuno le traduca. In linea di principio, questo significa che non fa differenza se
si traduce dalla lingua A alla lingua B o viceversa: si dovrebbe ottenere lo stesso valore in entrambe
le direzioni.
L'equivalenza direzionale corrisponde a quelle teorie che ritengono che quando si traduce da
una lingua A in una lingua B e poi si ritraduce dalla lingua B nella lingua A, il risultato che si ha nella
lingua A non è necessariamente il punto da cui si è partiti. In questo senso la direzionalità è un tratto
fondamentale dell'equivalenza in traduzione e dunque le traduzioni sono il risultato di decisioni attive
che hanno preso i traduttori.
Alcuni esempi di equivalenza naturale: il colore della morte è per lo più il nero in Occidente, il
bianco in gran parte dell’Oriente; una testa che annuisce significa consenso in Europa occidentale,
disaccordo in Turchia; il giorno sfortunato (13 o 17): Quando 13 diventa 17, i due termini sono
equivalenti perché si pensa che attivino approssimativamente la stessa funzione culturale.

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Questo è il senso in cui Vinay e Darbelnet (1958/1972, Stylistique comparée du français et de
l’anglais: méthode de traduction, Paris: Didier) hanno usato il termine “équivalence” nel 1958.
Vale a dire, per alcune teorie dell’equivalenza, il termine si riferisce a solo un tipo di opzione
traduttiva. Scrivono:

Raggiungemmo presto il confine canadese, dove la lingua dei nostri antenati è musica per le
nostre orecchie. L'autostrada canadese è costruita secondo gli stessi principi di quella
americana, tranne che i cartelli sono bilingui. Dopo SLOW, scritto sulla strada a caratteri
enormi, c'è LENTEMENT, che prende l'intera larghezza della carreggiata. Che avverbio
ingombrante! Un povero francese non ha mai formato un avverbio usando l'aggettivo LENT...
Ma dovendo riflettervi, LENTEMENT è davvero l'equivalente di SLOW? Iniziamo ad avere
dei dubbi, come succede quando uno si sposta da una lingua all'altra, quando il nostro
SLIPPERY WHEN WET riappare dopo una curva, seguito dal francese GLISSANT SI
HUMIDE
…fermiamoci un attimo su questa SOFT SHOULDER, fortunatamente non sfiorata dalla
traduzione, e meditiamo su questo SI, questo IF, più scivoloso di un pezzo di ghiaccio. Nessun
parlante francese monolingue se ne sarebbe uscito subito con quell'espressione, né avrebbe
sparso vernice sulla strada per un avverbio lungo che finisce in -MENT. Qui raggiungiamo
un punto chiave, una sorta di passaggio di svolta fra due lingue. Ma ovviamente, parbleau!,
al posto di LENTEMENT (un avverbio, come in inglese), ci sarebbe dovuto essere RALENTIR
(infinito, come in Francia). (1958/1972: 19)

Che tipo di equivalenza si cerca qui? Il tipo effettivamente trovato è esemplificato dal lungo
avverbio francese lentement, che dice virtualmente la stessa cosa dell'avverbio inglese slow. Cambia
la lunghezza. Ciò che preoccupa i due linguisti è che il cartello lentement non è quello che dicono i
cartelli in Francia. Per loro, l'equivalente dovrebbe essere il verbo ralentir, poiché è quello che
sarebbe stato usato se nessuno avesse tradotto dall'inglese (e se il Canada fosse in Francia). Così,
questo secondo tipo di equivalenza è ritenuta "naturale".
Questa equivalenza naturale è anche perfettamente reciproca, come il ping-pong: slow dovrebbe
dare ralentir, che dovrebbe dare slow e così via.

On lit trop souvent, même sous la plume de traducteurs avertis, que la traduction est un art.
Cette formule, pour contenir une part de vérité, tend néanmoins à limiter arbitrairement la
nature de notre objet. En fait la traduction est une discipline exacte, possédant ses techniques
et ses problèmes particuliers, et c’est ainsi que nous voulons l’envisager dans les pages qui
vont suivre. (Stylistique comparée, p. 23)

Mettono a confronto sul piano microlinguistico le due stilistiche (per facilitare il compito del
traduttore).
Secondo V. e D., il passaggio da una lingua all’altra avviene per “traduzione diretta” o “traduzione
obliqua”.

Notons tout d’abord qu’il y a, grosso modo, deux directions dans lesquelles le traducteur peut
s’engager: la traduction directe ou littérale, et la traduction oblique.
En effet, il peut arriver que le message LD se laisse parfaitement transposer dans le message
LA, parce qu’il repose soit sur des catégories parallèles (parallélisme structural), soit sur des
conceptions parallèles (parallélisme métalinguistique). Mais il se peut aussi que le traducteur
constate dans la langue LA des trous ou « lacunes », qu’il faudra combler par des moyens
équivalents, l’impression globale devant être la même pour les deux messages.
Il se peut aussi que par suite de divergences d’ordre structural ou métalinguistique certains
effets stylistiques ne se laissent pas transposer en LA sans un bouleversement plus ou moins
grand de l’agencement ou même du lexique. On comprend donc qu’il faille, dans le deuxième

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cas, avoir recours à des procédés beaucoup plus détournés, qui à première vue peuvent
surprendre, mais dont il est possible de suivre le déroulement pour en contrôler
rigoureusement l’équivalence : ce sont là des procédés de traduction oblique.

Questo dualismo è molto interessante perché significa che per certe unità di traduzione è possibile
verificare una corrispondenza fra lingua di partenza e lingua di arrivo; per altre occorre apportare
delle modifiche che annullino la distanza tra i due sistemi.
Secondo questa prospettiva di linguistica e stilistica comparata, la teoria della traduzione si risolve
nell’individuazione di regole di trasformazione da una lingua all’altra. Ma individuare “algoritmi di
trasformazione” universalmente validi è impossibile e la stilistica comparata ha una sua utilità limitata
all’analisi di singole unità linguistiche e singoli testi.

LINGUISTICA E TRADUZIONE
Come è noto esiste una linea di pensiero, da Wilhelm von Humboldt a Edward Sapir e Benjamin
Whorf, che ha sostenuto che lingue diverse esprimono visioni del mondo diverse.
“Aspetti linguistici della traduzione” (1959)
Jakobson tratta la traduzione come un problema di interpretazione. 3 tipi di interpretazione di un
segno linguistico:
1) traduzione intralinguistica
2) traduzione interlinguistica
3) traduzione intersemiotica
“Le lingue differiscono per ciò che devono esprimere, non per ciò che possono esprimere”
(Jakobson)
Ciò che accomuna questi tipi di traduzione è l’impossibilità di arrivare a un’equivalenza completa
a causa della diversità dei sistemi linguistici e culturali. Se non è possibile l’equivalenza assoluta sarà
fondamentale individuare la dominante, cioè quell’aspetto peculiare intorno al quale si costruisce
l’identificazione dell’intero testo. Per esempio, in un testo poetico la dominante può essere il metro o
la rima.

La dominante può essere considerata come la componente sulla quale si focalizza l’opera
d’arte: governa, determina e trasforma le altre componenti. È la dominante a garantire
l’integrità della struttura. (Jakobson)

Nella traduzione si tratta di riprodurre:

l’équivalent naturel le plus proche du message de la langue du départ, d’abord quant à la


signification, puis au style. (Mounin 1963: XII)

Siamo negli anni 50/60 del secolo scorso in cui si sviluppa una maggiore attenzione e
considerazione della traduzione.
Si parla di “Scienza” della traduzione perché si riteneva possibile controllare il passaggio da una
lingua all’altra con la stessa precisione con cui si risolve un’equazione matematica.
La questione è che il testo d’arrivo sia equivalente al testo di partenza.
Il proposito di molti studiosi era quello di formulare operazioni e algoritmi di transizione che
portassero poi alla creazione di programmi computerizzati di traduzione automatica. Ma cercando di
definire concetti come l’equivalenza, questi teorici si sono scontrati con la complessità delle lingue e
del processo traduttivo e hanno dovuto restringere il loro campo di studio, escludendo fenomeni
troppo complessi come quelli della lingua letteraria.
Scrive Catford (1965):

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La traduzione è un’operazione che si fa sulle lingue: un processo di sostituzione di un testo in
una lingua con un testo in un’altra lingua (…) qualsiasi teoria della traduzione deve fondarsi
su una teoria della lingua – una teoria linguistica generale.

Fino a tutti gli anni 70 la traduttologia linguistica ha preteso di descrivere il processo traduttivo
come una teoria esclusivamente linguistica incentrata sul concetto di equivalenza.
Dobbiamo a Eugene Nida, uno dei modelli più sofisticati di equivalenza, che viene ancora oggi
tenuto in considerazione per alcuni tipi di traduzione.
1964, Towards a Science of Translating, with Special Reference to Principles and Procedures
involved in Bible Translating, Leiden, E. J. Brill;
Nida, E., and C. Taber, 1969, The Theory and Practice of Translation, Leiden, Brill.

Nida si è occupato per tutta la sua lunga vita di traduzione biblica, dirigendo e collaborando con
l’American Bible Society a progetti traduttivi in tutto il mondo. Questo ha significato raccogliere e
elaborare moltissimi dati in moltissime lingue.
Nella traduzione della Bibbia ci si trova di fronte alla difficoltà di comunicare il messaggio
religioso a causa di contesti culturali e visioni del mondo diverse. Quindi le idee “devono essere
modificate” per adattarsi alla mappa concettuale dell’esperienza presente in quel diverso contesto.
Nida a questo proposito, elabora due forme di equivalenza: l’equivalenza formale, attenta alle
corrispondenze di forma e contenuto e l’equivalenza dinamica, focalizzata sulla reazione del
destinatario e che mira a creare nella lingua di arrivo le stesse relazioni esistenti fra messaggio e
ricevente nella lingua di partenza.
Con la teoria di Nida siamo ancora in ambito linguistico ma non più strutturalista: non il segno
ma la reazione al segno.
Fonda la propria teoria sul presupposto che il messaggio del testo originale non solo si possa
determinare, ma anche tradurre in modo da essere recepito proprio come era stato recepito dai
destinatari originari. Non “che cosa” comunica il linguaggio, ma “come” lo comunica.
Il testo tradotto dovrebbe produrre una reazione nel lettore calato nella cultura contemporanea che
sia “essenzialmente simile” a quella prodotta nei ricettori “originari”, se ciò non avviene, Nida
suggerisce di apportare variazioni al testo per indurre la reazione iniziale.
Con Nida il concetto di equivalenza si intreccia con quello di fedeltà: il traduttore che utilizza il
metodo fondato sull’equivalenza dinamica riesce ad essere più fedele del traduttore letterale perché
percepisce “in modo più completo il significato del testo originale
C’è un “significato sottostante del testo originale” che è accessibile e che va preservato. La forma
può essere sacrificata. Le parole sono solo etichette e i testi sono duttili si adattano a molte forme
senza modificare l’intenzione originale. “Agnello” è stato tradotto con “foca” e “maiale” e con molte
altre forme o etichette per diffondere la parola di Dio.

Tradurre consiste nel produrre nella lingua di arrivo l’equivalente naturale più vicino al
messaggio della lingua di partenza, prima nel significato, poi nello stile. (Nida)

Un tempo la traduzione era incentrata sulla forma del messaggio e i traduttori erano impegnati
nel riprodurre le particolarità stilistiche del testo originale, per esempio, il ritmo, le rime, i
giochi di parole, i chiasmi, i parallelismi e le costruzioni grammaticali poco abituali. Tuttavia
oggi vediamo la traduzione in un altro modo: dalla forma del messaggio siamo passati a
concentrarci sulla reazione del ricevente. Ciò che importa è la reazione di quest’ultimo di
fronte al messaggio tradotto, reazione che va confrontata con il modo in cui si suppone
abbiano reagito i riceventi originali di fronte al messaggio del testo originale” (E. Nida, Sobre
la traducción, 2012, p. 276).

Quando un’elevata percentuale dei lettori non capisce una traduzione è evidente che non può
considerarsi adeguata. (E. Nida, id., p. 277)

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Dal momento in cui non esistono equivalenze esatte, nel tradurre bisogna cercare di trovare
l’equivalente più prossimo possibile [the closest possible equivalent].
Nella traduzione dinamica, il rapporto tra ricettore e messaggio deve essere sostanzialmente
uguale a quello che intercorreva tra i ricettori originali e il messaggio (Nida)

Nida immagina che possa esistere una sorta di posizione neutra, ma si tratta di un’aspirazione
illusoria, poiché questa in realtà corrisponde all’ideologia del traduttore in una determinata cultura e
in un certo periodo storico. È da criticare l’idea che il significato viaggi rimanendo inalterato.
Per Nida è il traduttore a decidere quale sia l’effetto che il testo originale produceva sui lettori di
partenza. Naturalmente si tratta di una ricostruzione intellettuale. Solo a un livello semantico molto
semplice è possibile dire quale fosse il valore di un’espressione, di una metafora o di un simbolo nella
cultura di partenza mentre, a livelli più complessi, quello che abbiamo è uno sguardo su quella cultura
che è l’immagine che la nostra cultura ha ricostruito.
Nel caso della Bibbia non si può nascondere che se l’obiettivo del traduttore è, per così dire,
missionario, la fedeltà a cui aspirerà la sua traduzione è tutta in funzione di quell’obiettivo, e quindi
intenta a ridurre il più possibile le differenze con la cultura d’arrivo, per rendere il messaggio più
permeabile e accettabile.
L’equivalenza ha diversi scopi. È servita a introdurre certi testi in alcune culture e nel caso di
Nida dobbiamo anche aggiungere il grande valore missionario della traduzione.

In questo clima si sviluppa il mito di una traduzione assoluta ottenuta producendo gli stessi effetti.
Un’idea che elimina il fatto che l’esperienza del tradurre sia opera di un individuo con una sua
soggettività che entra in rapporto con un’altra soggettività. L’immagine è quella di una mano
invisibile che trasforma meccanicamente le parole da una lingua all’altra.
Si tratta di un’idea di traduzione che considera il testo tradotto pura copia e non espressione
creativa.
Questo punto di vista ha costituito l’ideologia corrente della traduzione e fa comprendere il poco
risalto che fino a non molto tempo fa si dava al nome del traduttore.
Con Nida abbiamo un’equivalenza naturale che non si basa sulla corrispondenza di forme ma di
funzioni. Possiamo definirla un’equivalenza funzionale in una cornice comunicativa. È il primo
approccio “scientifico” alla traduzione che diede inizio al dibattito su significato, equivalenza,
traducibilità.
Fra gli altri linguisti che si occupano di traduzione possiamo citare Peter Newmark che parla di
due forme di traduzione:

La traduzione comunicativa cerca di produrre sui suoi lettori un effetto il più possibile vicino
a quello ottenuto sui lettori dell’originale. La traduzione semantica cerca di rendere, con la
precisione concessa dalle strutture semantiche e sintattiche della seconda lingua, l’esatto
significato contestuale dell’originale. In generale, una traduzione comunicativa sarà
probabilmente più scorrevole, semplice, chiara, diretta e convenzionale, si conformerà a un
particolare registro linguistico, tenderà all’ipotraduzione ovvero a usare termini più generici,
più universali nei passi difficili. (P. Newmark, Approaches to Translation, 1982)

Non due tipi di equivalenza, quindi, ma due tipi di traduzione: 1. comunicativa e 2. semantica.
1. è orientata alla lingua di arrivo e il temine “comunicativa” sta al posto di “libera” o
“idiomatica”. 2. è orientata alla lingua di partenza e il termine “semantica” sostituisce “letterale” e
“fedele”.

Una traduzione semantica tende a essere più complessa, più faticosa, più dettagliata, più
concentrata, e persegue i processi mentali più che l’intenzione del trasmittente. Tende
all’ipertraduzione, a essere più specifica dell’originale, a includere più significati nella sua
ricerca di una sfumatura di significato. (P. Newmark, Approaches to Translation, 1982)

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Alla base di tutte queste teorie c’è l’idea che l’atto traduttivo sia un tentativo di annullamento
della distanza tra le lingue tramite spostamenti, aggiustamenti, compensazioni.
Tutte queste teorie sono piuttosto vaghe a proposito di come funziona l'equivalenza naturale.
Spesso, presumono che esista una parte di realtà o di pensiero (un referente, una funzione, un
messaggio) che sta al di fuori di tutte le lingue e a cui due lingue si possono riferire. Questa cosa
sarebbe un terzo elemento di paragone, un tertium comparationis, disponibile da entrambi i lati. Il
traduttore passa, così, dal testo di partenza a questa cosa, poi dalla cosa al corrispondente testo di
arrivo. Le traduzioni naturali saranno il risultato del passaggio diretto dal testo di partenza a quello di
arrivo, come quando Slow è reso con Lentement.
Forse, la descrizione più nota di questo processo è stata formulata da Danica Seleskovitch:
una traduzione può essere naturale solo se il traduttore riesce a dimenticarsi interamente della
forma del testo di partenza. Consiglia di "ascoltare il senso", o di "deverbalizzare" il testo in modo da
essere consapevoli solo del senso, che può essere espresso in tutte le lingue. Questa è la base di ciò
che è conosciuto come "teoria del senso" (théorie du sens) (Seleskovitch e Lederer 1984).
La grande difficoltà di questa teoria è che se un "senso" viene deverbalizzato, come possiamo
sapere qual è? Appena lo indichiamo a qualcuno, gli abbiamo attribuito una forma semiotica di
qualche tipo. E non ci sono forme (nemmeno le immaginette o diagrammi che si usano a volte) che
possono essere considerate veramente universali. Quindi, non c'è un modo reale di dimostrare che
esista un "senso deverbalizzato".
"Ascoltare il senso" descrive, senza dubbio, uno stato mentale che pensano di raggiungere gli
interpreti simultanei, ma quello che sentono può davvero essere un senso senza forma? Questa teoria
rimane una metafora debole con forti meriti pedagogici
La traduzione ideale di Seleskovitch si sposterebbe mentalmente da una forma di partenza al senso
universale e poi, alla forma di arrivo.
Edwin Gentzler, un traduttologo contemporaneo statunitense, descrive così questo tipo di
approcci:

Gli approcci “scientifici” tendono ad essere orientati al testo di partenza, in quanto sostengono
che l’originale è costituito da una qualche struttura profonda, che contiene le informazioni
necessarie per la successiva codifica in un’altra lingua e alla quale il traduttore deve attenersi.
Lungi dall’essere scientifici, questi modelli tendono a sostenere una concezione
trascendentale utopistica della traduzione come riproduzione dell’originale.
Questo approccio riafferma idee antiquate sulla traduzione, idee che considerano le traduzioni
opere minori e la traduzione in generale asservita a un’arte più alta e creativa. Il problema
maggiore è che queste scienze limitano la propria attenzione a un campo troppo ristretto, si
occupano soprattutto di un’entità non verificabile, cioè di quella scatola nera che è la mente
umana, e fanno affermazioni generali non solo sulla traducibilità, ma anche sulle modalità con
cui dovrebbe svolgersi il processo.” (E. Gentzler, Contemporary Translation Theories, p.82)

Questa metodologia traduttiva è quindi di tipo prescrittivo ed è stata definita source-oriented,


cioè funzionale all’originale. La traduzione viene privata di qualsiasi autonomia effettiva e
considerata opera ancillare del testo originale.
Una trattazione più sofisticata sull’equivalenza è quella che fa Umberto Eco in Dire quasi la
stessa cosa (2003).
Per Eco, la traduzione si fonda su una forma di negoziazione. Le parti in gioco sono il testo fonte
con i suoi diritti autonomi (e anche l’autore empirico se vivo con le sue pretese di controllo) e tutta
la cultura in cui il testo nasce; dall’altra c’è il testo di arrivo e la cultura in cui appare e le aspettative
dei lettori, e dell’industria editoriale che prevede diversi criteri di traduzione (es togliere i segni
diacritici). Il traduttore si pone come negoziatore fra queste due parti.

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Eco riconosce che nella traduzione avviene la perdita di qualcosa, ma pone la soluzione nello
scambio, utilizzando una metafora tratta dall’ambito economico che ci portiamo dietro dai tempi di
Cicerone. Cercare di rimediare alla perdita attraverso la compensazione.
Anche l’idea di dominante del testo (Jakobson) è una forma di negoziazione.
Un traduttore fa una scommessa interpretativa sui vari livelli di senso e su quali privilegiare. Il
traduttore deve scommettere su quale sia la dominante del testo. Ma può essere un suggerimento:
cerca quale sia per te la dominante di quel testo e su quella punta le tue scelte e le tue esclusioni”

La traduzione non dipende solo dal contesto linguistico, ma anche da qualcosa che sta fuori dal mondo
(enciclopedia).
Scrive Eco:

In italiano noi abbiamo una sola parola (nipote) per i tre termini inglesi nephew, niece e
grandchild. Se si considera inoltre che in inglese l’aggettivo possessivo concorda col genere
della cosa posseduta come in italiano, ecco che sorgono alcune difficoltà nel tradurre la frase
“John visita ogni giorno sua sorella Ann per vedere suo nipote Sam”.
Le traduzioni possibili in inglese sono 4:
1. John visits every day his sister Ann to see his nephew Sam.
2. John visits every day his sister Ann to see her nephew Sam
3. John visits every day his sister Ann to see her grandchild Sam.
4. John visits every day his sister Ann to see his grandchild Sam
Come si farà a tradurre in inglese la frase italiana se le due lingue hanno suddiviso il
continuum del contenuto in modi così diversi?
Ora è vero che in italiano una sola parola esprime i contenuti di tre parole inglesi, ma nephew,
niece, grandchild e nipote non sono unità di contenuto. Sono termini linguistici che rinviano
a unità di contenuto e accade che sia gli inglesi che gli italiani riconoscano tre unità di
contenuto, salvo che gli italiani le rappresentano tutte con un termine omonimo. (…)”
(2003:42-43).

Pertanto i sistemi linguistici sono comparabili e le eventuali ambiguità possono essere risolte
quando si traducono testi, alla luce dei contesti, e in riferimento al mondo di cui quel dato
testo parla. (Eco 2003: 48)

La traduzione non avviene fra sistemi ma fra testi. Se fosse fra sistemi, la traduzione non sarebbe
possibile perché ogni lingua naturale impone al parlante una propria visione del mondo e quindi
avremmo visioni mutuamente incommensurabili. V. schema di Hjelmslev. Tuttavia
incommensurabilità non significa incomparabilità.

D’altra parte, nel corso delle mie esperienze di autore tradotto, ero continuamente combattuto
tra il bisogno che la versione fosse “fedele” a quanto avevo scritto e la scoperta eccitante di
come il mio testo potesse (anzi talora dovesse) trasformarsi nel momento in cui veniva ridetto
in un’altra lingua. E se talora avvertivo delle impossibilità – che pure andavano in qualche
modo risolte - più spesso ancora avvertivo delle possibilità: vale a dire avvertivo come, al
contatto con l’altra lingua, il testo esibisse potenzialità interpretative che erano rimaste ignote
a me stesso, e come talora la traduzione potesse migliorarlo (dico “migliorare” proprio rispetto
all’intenzione che il testo stesso veniva improvvisamente manifestando, indipendentemente
dalla mia intenzione originaria di autore empirico). (Eco 2003: 15)

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Traduzione ideale tra due lingue: il testo B nella lingua Beta è la traduzione del testo A nella
lingua Alfa se, ritraducendo B nella lingua Alfa, il testo A2 che si ottiene ha in qualche modo
lo stesso senso del testo A ” (p.58).
Pertanto si pone un continuum di gradazioni tra reversibilità, e noi saremo portati a definire
come traduzione quella che mira a rendere ottimale la reversibilità. È chiaro che il criterio di
reversibilità ottimale vale per traduzioni di testi molto elementari, come un bollettino
meteorologico o una comunicazione commerciale (...) Quando si ha a che fare con un testo
complesso, come un romanzo o una poesia il criterio di ottimalità va abbondantemente rivisto.
(p.67)

Reversibilità come criterio per l’equivalenza. Ma nel caso della traduzione, la reversibilità non è
misura binaria ma materia di gradazioni. Si va da una reversibilità massima quando John loves Lucy
diventa John ama Lucy a una reversibilità minima

Si negozia il significato che la traduzione deve esprimere perché si negozia sempre, nella vita
quotidiana, il significato che dobbiamo attribuire alle espressioni che usiamo. (p.88)

Eco fa una scelta moderata ma il problema rimane sempre. Non si sa che limiti porre al quasi.
Non c’è un limite oggettivo.

Equivalenza direzionale
L‘equivalenza direzionale è una relazione ASIMMETRICA nella quale la creazione di un
equivalente traducendo in una direzione non implica che verrà creata la stessa equivalenza traducendo
nell‘altra direzione.
Le teorie dell‘equivalenza direzionale lasciano al traduttore una scelta fra diverse soluzioni
traduttive e queste soluzioni non sono tutte determinate dal testo di partenza.
L’equivalenza direzionale non fa grandi assunzioni ideologiche su cosa è naturale o sulla natura
delle lingue.
Le teorie dell’equivalenza direzionale partono dal presupposto che i fattori che influenzano le
scelte traduttive non si limitano a quelli del testo di partenza. D’altra parte se ci sono diversi
equivalenti fra cui scegliere i criteri di selezione possono venire da molte fonti.
L’equivalenza direzionale risolve anche l’apparente “impossibilità di traduzione” postulata dalle
teorie strutturaliste. Anzi, l’equivalenza diventa tanto possibile che ci sono diverse vie per
raggiungerla.
L’equivalenza direzionale apre uno spazio nel quale è il traduttore a decidere fra un’equivalenza
o l’altra senza nessuno che dica prescrittivamente dove deve andare.

II Fase: cosa fa la traduzione?


Di fronte a certi approcci prescrittivi, intorno agli anni 70/80 del secolo scorso, un gruppo di
studiosi belgi e olandesi danno avvio a una nuova disciplina che chiameranno Translation Studies. Il
loro obiettivo è stato quello di creare un paradigma nuovo che invece di continuare a riflettere sui
processi mentali, considerasse la realtà, cioè i testi reali nella cultura di arrivo. Da lì partono per la
loro analisi.
Anni 70 due filoni di ricerca in teoria della traduzione:
1. Studi incentrati su problemi letterari.
2. Studi incentrati sulle questioni linguistiche (approccio scientifico). In questo panorama si
inseriscono: James Holmes, Susan Bassnett, José Lambert, André Lefevere, Theo Hermans e altri con
un approccio totalmente diverso.
In “The Name and Nature of Translation Studies” (1972-75) si prendono le distanze dalle “teorie”
e dalle “scienze” della traduzione e si propone un approccio alternativo nuovo.
James Holmes, The Name and Nature of Translation Studies, 1972-75.

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Translation
Criticism

Testo programmatico. Holmes delinea l’ambito e la struttura della nuova disciplina e concepisce
il metodo come una pratica empirica
Parte pura e parte applicata.
Parte pura si suddivide in un’area descrittiva (fenomeni traduttivi nel loro concreto manifestarsi)
e un’area teorica che determina i principi esplicativi. L’area descrittiva fornisce il materiale per l’area
teorica, quindi l’aspetto teorico è subordinato a quello descrittivo.
Holmes divide la parte teorica in 3:
Product-oriented (destinata alla descrizione della traduzione e al confronto tra traduzioni dello
stesso testo)
Function-oriented (con il compito di descrivere la funzione delle traduzioni nel contesto di
ricezione)
Process-oriented (studia quello che avviene nel processo traduttivo.
In questo quadro, Holmes individua i vari tipi di traduzione possibile.
I vari criteri non hanno valore prescrittivo ma solo descrittivo. Qualsiasi scelta è legittima
all’interno di una coerenza traduttiva.
Traduzione come mediazione fra culture.
Dai Translation Studies in poi, la domanda non è più chiedersi cos’è la traduzione (perché è
astratta, sarebbe come chiedersi cos’è la letteratura) e sulla scia delle teorie postmoderne ci si chiede
cosa fa la traduzione? (crea letterature nuove, crea un linguaggio nuovo, crea spazi che prima non
c’erano in quella cultura).
Da un certo punto di vista, l’innovazione concettuale principale dei translation studies
contemporanei e soprattutto della scuola della manipulation, è un totale rovesciamento delle
prospettive tradizionali.
Si tratta di un campo di studi interdisciplinare che non ha uno scopo pratico, non dà le regole per
tradurre.
La traduzione riguarda le culture più che le lingue.
Il campo d’indagine è quello delle traduzioni concrete esistenti.
Accentuazione della dimensione culturale a scapito di quella linguistica.

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Viene ristretto il primato del testo originale, in quanto opera portatrice di un significato assoluto,
per offrire alla traduzione un valore quasi autonomo.
Viene annullato ogni rapporto con l’idea di fedeltà e infedeltà, ancorate alla ricerca linguistica,
per affermare l’essenza intertestuale (relazione al contesto culturale) della traduzione e la sua
autonomia rispetto all’originale.
Si considera l’influenza della traduzione all’interno delle culture.
Non ci si pone il problema della “giusta” traduzione, ma ci si interessa a come il significato
viaggia da cultura a cultura.
Teorie tradizionali:
- significato originale
- formazione del traduttore per l’interpretazione corretta dell’originale
- ricerca dell’effetto del testo originale e sua riproduzione
- regole e leggi sulle procedure da seguire in base alle quali i prodotti possono essere valutati
obiettivamente
Holmes afferma, considerando la traduzione poetica, che nessuna traduzione di una poesia è mai
“uguale” o “equivalente” all’originale.
Quindi: concentrarsi sul processo di traduzione, analizzando le scelte fatte tra le tante possibili.
Una volta fatte le scelte iniziali, la traduzione inizia a produrre regole proprie determinando le scelte
successive.
Holmes osserva che quasi sempre il processo di traduzione prevede decisioni iniziali che
condizionano le decisioni successive. Per es. se il traduttore dà la precedenza alla qualità espressiva
rispetto al messaggio originale, alla rima e al metro rispetto al verso sciolto, oppure alla funzione
conativa rispetto al contenuto semantico, queste scelte finiranno per determinare il tipo di
corrispondenze disponibili nel corso della traduzione del resto del testo.
Tali decisioni non sono né giuste né sbagliate, ma giuste e sbagliate al tempo stesso perché
precludono e offrono sempre delle possibilità.
Il processo di traduzione prevede decisioni iniziali che condizionano le decisioni successive (per
esempio, se si dà la precedenza a un aspetto o a un altro).
Si comincia a non parlare più di equivalenza ma di corrispondenza.

“Ogni traduzione è un atto di interpretazione critica”.

A questo proposito scrive Franca Cavagnoli:

Dato che la traduzione è una delle forme dell’interpretazione, la prima insidia per quel lettore
particolare e con grandi responsabilità che è il traduttore è proprio costituita dalla lettura del
testo, dalla sua percezione. Durante la lettura avviene una prima forma di traduzione, quella
dal testo scritto al linguaggio mentale personale. È un processo che avviene anche leggendo
nella propria lingua. Come insegna Charles Sanders Peirce, nel momento in cui si legge un
testo si produce una serie di interpretanti: ciascun interpretante prodotto dalla mente in
relazione alla percezione di un certo segno grafico (per esempio la parola “fiore”) rimanda a
un oggetto, che può essere esterno (una margherita) o interno (una sensazione legata alla
margherita). Poiché l’interpretante è un segno psichico, esso è molto soggettivo, ed è legato a
ciò che le parole e i concetti evocano nel lettore in termini di associazioni, sensazioni,
sentimenti, ricordi, pulsioni. L’immagine che si forma nella mente del lettore potrebbe non
corrispondere a quella che si è formata nella mente dell’autore, ed è probabile che spesso non
lo faccia. Questo è uno degli scogli maggiori nel mare insidioso della traduzione. Se nel testo
fonte si trovasse l’espressione a vase of flowers e chi traduce visualizzasse delle margherite
pur traducendo correttamente e in modo generico “un vaso di fiori” (e non “un vaso di
margherite”), tutta la percezione del passo potrebbe essere fortemente influenzata dall’idea di
un vaso di margherite e da ciò che la margherita evoca in lui: nostalgia dell’infanzia e dei prati
di margherite in cui giocava felice, o magari fastidio nei confronti di un fiore che potrebbe

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detestare perché legato a un brutto ricordo. Di solito si pensa che gli errori di traduzione siano
dovuti a una conoscenza lacunosa della lingua straniera, della propria lingua o del contesto
cilturale, il che è spesso vero. Ma ancora più spesso sono dovuti a una mancata corrispondenza
tra l’interpretante dell’autore e l’interpretante del traduttore. Per questa ragione, sottoporre la
traduzione a più letture al termine del lavoro – e accettare di buon grado le letture fatte da altri
– può servire a trovare queste interferenze di tipo psichico. (Franca Cavagnoli, La voce del
testo, pp.16-17)

Non è un caso che questo nuovo indirizzo sia nato in questi paesi, paesi che dipendono dalla
traduzione e in cui la traduzione non può essere una questione marginale. Spesso lo è nei paesi
monolingui.
I TS, invece di cercare di risolvere il problema filosofico della natura del significato, si
focalizzano su come “viaggi” il significato da una cultura all’altra.
Apertura a approcci interdisciplinari (logica, linguistica, filosofia, teoria della letteratura).
Non si definiscono più i confini fra le dicotomie: formale e dinamico; letterale e libero; arte e
scienza; teoria e pratica; traduzione tecnica e traduzione letteraria
Ci si interroga invece sulla natura del processo traduttivo, sul modo in cui questo ha
un’influenza sia sugli originali (ora, testi di partenza) sia sul testo tradotto (ora, testo d’arrivo) e
sulla cultura di arrivo.
Viene perfino messa in discussione la distinzione fra scrittore e traduttore.
METODO DESCRITTIVO

Teoria polisistemica
Itamar Even-Zohar e Gideon Toury
Il primo concetto è quello di POLISISTEMA sviluppato grazie al contributo della scuola di Tel
Aviv, con Itamar Even–Zohar e Gideon Toury, i quali, all’interno della Polysystem Theory, hanno
messo in luce le condizioni storico culturali in cui avviene una traduzione.
Even Zohar presentò per la prima volta le sue idee al gruppo belga/olandese nel Traslation Studies
Colloquium del 1976 a Lovanio. In entrambe queste aree culturali (Israele, Olanda/Belgio) il modo
di considerare le traduzioni era simile: paesi in cui ci sono pochi abitanti, si parla una lingua “minore”
e entrambe le letterature nazionali sono influenzate dalle letterature maggiori che le circondano
(tedesca, francese e angloamericana e tedesca, russa e angloamericana per quella israeliana).
L’ebraico mancava infatti di un canone di opere letterarie. Il fatto più importante era però la
dipendenza della cultura nel suo insieme dalla traduzione per scopi politici e commerciali.
Polisistema = tutti i sistemi letterari, sia principali che secondari esistenti in una cultura.
Il concetto di polisistema intende definire l’insieme delle attività che all’interno di una cultura
sono interpretate come letterarie. In questo senso il polisistema è un sistema di sistemi che assieme
costituiscono la letteratura, intesa come sistema in movimento caratterizzato da trasformazioni e
continuità.

Ho proposto per la prima volta questo concetto nel 1970 nel tentativo di superare le difficoltà
che risultavano dalle fallacie del tradizionale approccio estetico, che evitava di occuparsi di
operazioni giudicate non artistiche. Il mio approccio si basava sull’ipotesi di lavoro per la
quale sarebbe più conveniente (piuttosto che più “vero”) considerare tutti i tipi di testi, letterari
e semiletterari, come un aggregato di sistemi (Even-Zohar “Letteratura e polisistema
letterario”, p.228).

Da questo punto di vista dunque, la letteratura è concepita non in senso astratto, ma come
funzione dei giudizi di valore che appartengono a un periodo. Una letteratura inoltre non è isolata,
ma è sottoposta a relazioni con altre letterature, creando quelle che Even–Zohar (1990) chiama
interferenze.

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Tali interferenze sono inevitabili nei contatti fra due culture e di solito sono unilaterali: la
letteratura che è fonte delle interferenze ricopre questo ruolo grazie al suo prestigio e al fatto che il
sistema importatore ha bisogno di trovare modelli che non trova al suo interno.
Nel discorso di Even–Zohar svolge un ruolo importante, da un punto di vista teorico, una serie di
opposizioni: quella fra testi canonici e non canonici; fra centro e periferia del sistema; fra
innovazione e conservazione.
Legata al concetto di canonizzazione è la distinzione fra centro e periferia. Il centro del sistema
letterario è inevitabilmente occupato dai testi canonici, cioè quelli filtrati dalla cultura ufficiale e che
sono riusciti a ottenere la legittimazione dall’istituzione.
L’appartenenza al canone dipende dalla legittimazione dei gruppi culturali dominanti.
Anche l’opposizione fra tradizione e innovazione è in relazione con il problema
dell’accettazione di un’opera in un certo momento.
Un sistema può essere stabile o instabile a seconda della capacità di controllare i cambiamenti e
assimilarli. Naturalmente anche la letteratura tradotta entra in questa dialettica e può diventare
primaria o secondaria a seconda delle specifiche condizioni operanti nel polisistema.
Dire che la letteratura tradotta mantiene una posizione primaria significa dire che partecipa
attivamente alla modellizzazione del centro del polisistema. In tale situazione essa è di gran lunga
parte integrante delle forze innovative, e quindi da identificare, probabilmente, con gli eventi
maggiori della storia letteraria mentre stanno avendo luogo.

Questo implica che non sia mantenuta alcuna distinzione netta tra scritti originali e tradotti, e
che spesso sono gli autori dominanti (o i membri dell’avanguardia che stanno per diventare
autori dominanti) che producono le traduzioni più importanti. Inoltre, in tali situazioni, quando
nuovi modelli letterari stanno emergendo, la traduzione diventa probabilmente uno dei mezzi
per elaborare questi nuovi modelli. Attraverso le opere straniere vengono introdotte nella
propria letteratura elementi che prima non esistevano. (Even–Zohar 1995: 230)

La letteratura tradotta è un sistema all’interno del polisistema.


Il polisistema ricevente seleziona la letteratura straniera secondo le convenzioni accettate da
quello stesso polisistema: un polisistema stabile tenderà a imporre i propri modelli alle traduzioni, un
polisistema debole o instabile verrà influenzato dai modelli che importa.

La traduzione esercita infatti un potere enorme nella costruzione di rappresentazioni delle


culture altre: la selezione dei testi e lo sviluppo di strategie traduttive può istituire particolari
canoni letterari stranieri conformi ai valori estetici propri della cultura di arrivo, in cui si
manifestano esclusioni e ammissioni, e in cui vengono tracciate linee di separazione tra ciò
che sta al centro e ciò che è periferico, linee diverse da quelle proprie della lingua d’origine.
La selezione dei testi da tradurre tende a de-storicizzare il sistema letterario d’origine, dal
momento che i testi stessi vengono prelevati da quelle tradizioni da cui traggono significato e
rilievo. E sovente tali testi sono riscritti in modo da conformarsi a stili e temi in quel momento
dominanti nella letteratura della cultura di arrivo, a scapito di discorsi traduttivi maggiormente
storicizzanti, che al contrario recupererebbero stili e temi propri di altri periodi della tradizione
locale.» (Venuti, «La formazione delle identità culturali, pp.195-196)

I modelli traduttivi sufficientemente consolidati hanno la capacità di fissare gli stereotipi


attraverso cui percepire le culture straniere, escludendo valori, contrasti e conflitti che in quel
momento la cultura d’arrivo non giudica rilevanti. Nel creare stereotipi, e nel far emergere, ad
esempio, un certo rispetto per la differenza culturale oppure del disprezzo fondato su
motivazioni etnocentriche, razziste o nazionaliste, la traduzione può contribuire alla
formazione di un giudizio positivo o al discredito di gruppi etnici, razziali e nazionali. Con il
passare del tempo, la traduzione diviene un elemento che interviene anche nelle relazioni
geopolitiche, contribuendo a formare il contesto culturale in cui opera la diplomazia,

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rafforzando le alleanze, gli antagonismi e i rapporti egemonici tra le nazioni». (L. Venuti, «La
formazione delle identità culturali», p.196)

Un’etica della traduzione non può chiaramente essere riassunta nel concetto di fedeltà. Una
traduzione non è solo un’interpretazione del testo straniero, che varia a seconda dei diversi
contesti culturali e momenti storici; i canoni stessi di accuratezza di una traduzione vengono
definiti e applicati nella cultura d’arrivo, e risultano perciò fondamentalmente etnocentrici,
per quanto paia linguisticamente corretta. I valori etici sottesi a tali canoni sono solitamente
di tipo professionale o istituzionale, e vengono inizialmente stabiliti dalle istituzioni o dai loro
funzionari, dagli specialisti accademici, dagli editori e dai critici, e successivamente assimilati
dai traduttori, che adottano atteggiamenti mutevoli nei loro confronti, dall’accettazione
incondizionata a un comportamento ambivalente, dalla messa in discussione fino alla
revisione. Qualsiasi valutazione di un progetto traduttivo deve perciò includere la
considerazione delle strategie discorsive impiegate, del loro assetto istituzionale, delle loro
funzioni sociali e dei loro effetti. (Venuti, «La formazione delle identità culturali», p.219-220)

Il processo che questi studiosi vogliono descrivere non è più il trasferimento di un singolo testo,
ma il processo di produzione e cambiamento apportato dalle traduzioni nell’ambito del sistema
letterario nel suo insieme.
Ruolo primario della traduzione
In particolare la traduzione, proprio in quanto è essenzialmente scambio culturale, assume un
ruolo centrale all’interno di una lingua in tre situazioni sociali:
1. quando una letteratura è giovane o in un processo di stabilizzazione
2. quando una letteratura è periferica o debole
3. quando una cultura sta sperimentando una crisi.
Nei primi due casi la letteratura tradotta serve per riempire i vuoti del polisistema. Nel terzo caso
la letteratura tradotta può assumere una funzione primaria anche nelle letterature centrali. Si pensi ai
momenti di trasformazione culturale, quando non è più possibile trovare modelli all’interno di una
cultura.
Ruolo secondario della traduzione
Troviamo condizioni sociali opposte in quelle situazioni in cui la traduzione è di importanza
secondaria per il polisistema. In sistemi forti, come quello francese o angloamericano, la scrittura
originale produce innovazione e la traduzione viene relegata in una posizione marginale.
Si osserva quindi la posizione della traduzione all’interno dei vari sistemi culturali. E anche la
modalità con cui vengono scelti i testi da tradurre dalla cultura ricevente. Quando la letteratura
tradotta assume una posizione primaria, i confini fra testi tradotti e testi originali “diventano più
vaghi”. La definizione di traduzione è più libera, tanto da includere imitazioni e adattamenti. La
funzione della traduzione in questi casi è quella di introdurre nuove opere nella cultura ricevente,
quindi i testi tradotti tendono a riprodurre più strettamente le forme e le relazioni testuali
dell’originale. Quando la traduzione tende a essere un’attività secondaria all’interno del polisistema,
la situazione è opposta: le traduzioni saranno conformi alle norme estetiche prestabilite della cultura
di arrivo a spese della forma originale del testo.
Il sistema di Even-Zohar non analizza i singoli testi indipendentemente dal loro contesto culturale.
Un testo non raggiunge un certo livello gerarchico più elevato in base a una qualche intrinseca
bellezza, ma lo fa in base alla natura del polisistema della cultura ricevente e delle condizioni storiche
socio-letterarie.
Equivalenza e adeguatezza sono determinate dalla situazione storica.
“Le traduzioni sono fatti appartenenti a un solo sistema: il sistema di arrivo”
analisi eseguita a posteriori: dalle traduzioni ricostruendo il processo e i problemi.
Ricostruzione che è sempre orientata dalla cultura in cui quella ricostruzione viene effettuata.

Gideon Toury, In Search of a Theory of Translation,1980

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Storia della traduzione letteraria in ebraico: cataloga le traduzioni di narrativa dall’inglese, dal
russo, dal tedesco, dal francese e dall’yiddish in ebraico in un periodo di 15 anni.
Obiettivo: scoprire le decisioni prese durante il processo traduttivo e quindi individuare un sistema
di regole che presiedevano alla traduzione in questo particolare polisistema.
Risultati:
- pochi cambiamenti linguistici, irrilevanti ai fini dell’identità del testo.
- più cambiamenti che riguardano lo stile, per esempio tendenza ad innalzare il registro.
Risultati interessanti:
- i testi non venivano scelti per motivi estetici o linguistici ma soprattutto per motivi ideologici.
Preferenza per opere di carattere sociale, per certe materie e temi di attualità.
- nella maggior parte delle traduzioni mancava l’interesse per la “fedeltà” del testo di partenza
(secondo Toury, questo dipendeva dal fatto che l’obiettivo principale era ottenere traduzioni
accettabili per la cultura di arrivo). Principio di accettabilità.
Elaborazione della teoria:
- critica dei modelli esistenti orientati al testo di partenza. I risultati della sua indagine sul campo
lo rendevano scettico sulle teorie astratte che prevedevano modelli fondati sui rapporti autore ideale-
testo originale –testo tradotto-lettore ideale. Questi modelli danno già una definizione a priori di ciò
che dovrebbe essere una traduzione e non considerano le traduzioni in un contesto culturale reale
Il contesto storico in cui si colloca Toury è dominato da modelli di traduzione che partono da una
definizione funzionale-dinamica di equivalenza. Sono quindi teorie orientate sulla cultura di partenza
e sono normative. L’adeguatezza viene sempre misurata in base al grado di corrispondenza con il
testo di arrivo.
Il suo modello invece si basa sulla differenza e presuppone differenze strutturali fra le lingue.

Target-oriented approach
“Le traduzioni sono fatti appartenenti a un solo sistema: il sistema di arrivo”
analisi eseguita a posteriori: dalle traduzioni ricostruendo il processo e i problemi.
Ricostruzione che è sempre orientata dalla cultura in cui quella ricostruzione viene effettuata.
Considerando la traduzione dal punto di vista della cultura di arrivo, Toury sostiene che
l’equivalenza traduttiva non è un ideale ipotetico ma è una questione empirica. Il testo di arrivo può
o non può riflettere un’equivalenza, in ogni caso è un testo che esiste e sostituisce il testo di partenza
nella cultura ricevente.
Non si giudica la correttezza o scorrettezza.
Traduzione e norme del sistema di arrivo.
La traduzione non è mai un’operazione neutra e indipendente, ma è condizionata da norme del
sistema di arrivo, che determinano restrizioni e vincoli. Norme della cultura di arrivo, per esempio
quello di inserire nel canone qualcosa rispetto a qualcos’altro. Norme anche socio culturali, per
esempio la letteratura di protesta può non essere ammessa
Le traduzioni singole sono influenzate e condizionate da altre traduzioni fatte nella stessa cultura
e dal sistema letterario in generale di quella cultura.
Nessuna traduzione è mai del tutto accettabile per la cultura di arrivo a causa dei suoi elementi
stranianti, né può essere adeguata al testo di partenza a causa del nuovo contesto culturale in cui si
colloca.
Aspetti che hanno contribuito allo sviluppo della disciplina:
- abbandono dell’idea di equivalenza linguistica.
- destabilizzazione dell’idea di un messaggio originale dal carattere immutabile.
- integrazione sia del testo originale che di quello tradotto nella rete semiotica di sistemi culturali.

Ancora la «fedeltà»
La riflessione sulla traduzione sviluppatasi all’interno della Polysystem Theory è stata molto utile
per rompere alcuni capisaldi delle tradizionali teorie traduttive. Ad esempio l’idea che la fedeltà
consista semplicemente nell’essere uno specchio di un originale.

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Se tradurre significa adottare strategie di volta in volta diverse, allora la fedeltà può stare nel
tentare di riformulare il messaggio alla luce di una ricostruzione che però è sempre orientata dalla
cultura in cui quella ricostruzione viene effettuata.

The term ‘target-oriented’ (…) is used in a more general and a more specifically
methodological sense. In its more general application it bears on the perceived status of
translation, and here its opposite, the traditional source-oriented approach to translation, is
relevant. This latter approach locates the criterion for measuring a translation in the original
or source text. Since the translation is seen as a reproduction of the original, as faithful
as can be, its quality can be assessed by mapping similarities and deviations.
Apart from the overtly evaluative and prescriptive aspects, the procedure is also predicated
on viewing a translation as a vicarious object, a substitute which must constantly re-affirmed
in the process. As a consequence, the translation is perceived as merely derivative, lacking
in substance, and always to be checked against the original for faults and shortcomings (…).
By contrast, the target-oriented approach could be said to take its clu from the cultural
significance of translation, (…). If translation is of such historical moment, it deserves
sustained attention in its own right. Seen from that angle, the target-oriented stance, which
begins by focusing attention on translations as separate texts, is a way of claiming
legitimacy for studying translation in the first place.
However, once the claim for the relevance of translation has been made, on historical,
linguistic, philosophical or other grounds, and translations are felt to be worthy objects of
study, it is worth asking what the problem was that a given translation was intended to
solve. Why did Voltaire translate Shakespeare? Why did he do in the way he did? The answers
to these questions cannot be found by reducing Voltaire’s version to Shakespeare’s words.
There are too many shifts which are clearly not dictated by differences between English and
French (…)
A targed-oriented approach is a way of asking questions about translations without reducing
them to purely vicarious objects explicable entirely in terms of their derivation. In countering
an ideology which views translation exclusively as replication, this approach contextualizes
the translator’s activity in functional terms. Respecting the complexity of translation in its
cultural, social and historical context, it urges attention to the whole constellation of functions,
intentions and conditioning factors. (T. Hermans, Translation in Systems, 1999: 37-38)

Autore, testo, lettore e norme letterarie di un sistema letterario confrontati con autore, testo, lettore
e norme letterarie di un altro sistema. Si studiano e confrontano anche diversi aspetti sociologici,
come la pubblicazione e la distribuzione. A Lovanio si è sviluppata una scuola incentrata su questa
casistica.

La traduzione è quindi un processo determinato principalmente da vincoli culturali locali. I


traduttori non operano in situazioni ideali e astratte. Da questo punto di vista i traduttori non sono
mai innocenti (al di là di quello che proclamano) e fanno in modo che la loro opera sia accettata
all’interno di un’altra cultura, la loro è quindi anche un’operazione di manipolazione.

Theo Hermans, The Manipulation of Literature, 1985


Contributi di Gideon Toury, Susan Bassnett, José Lambert, Maria Tymoczko, André Lefevere.
Le traduzioni sono in grado di manipolare le letterature per farle funzionare e le traduzioni
occupano una determinata posizione nella cultura di arrivo. Quindi la pratica della traduzione
partecipa attivamente alla trasformazione delle culture e non si limita alla semplice trasmissione o
comunicazione dei testi stranieri.
Valore della traduzione nel costruire le rappresentazioni delle culture altre.

CULTURAL TURN

18
Susan Bassnett, Translation Studies, 1980.
Susan Bassnett, André Lefevere, Translation, History and Culture, 1990.
I TS hanno raggiunto la loro autonomia e si aprono verso altre discipline. Si considera non solo il
tessuto letterario ma anche quello storico e sociale in cui si traduce.
Necessario ampliare la prospettiva oltre il testo (cultural turn: tradurre = atto di comunicazione
che avviene tra culture). La traduzione riguarda le culture più che le lingue. Tra tutte le difficoltà e
tutti gli aspetti da tenere in considerazione “il linguaggio è forse il meno importante” (Lefevere)
I TS diventano una parte dei cultural studies. La letteratura non ha solo un valore letterario
Diventa importante la questione dell’ideologia.
Individuare e attribuire alla traduzione le dinamiche di potere e ideologia che sono presenti in tutti
i processi culturali.
Si traduce un testo perché è funzionale a certe esigenze e lo si traduce in una certa maniera per
farlo corrispondere a una determinata ideologia.
Ogni traduzione è condizionata dal potere e dall’ideologia, nessuna traduzione è neutra né
innocente. Per es. si traducono alcuni testi a discapito di altri perché così è stato deciso nei programmi
scolastici. Si traducono testi provenienti da una determinata cultura per motivi politici.
Interdisciplinarietà II svolta culturale
interdisciplinarietà dei TS, soprattutto rapporto con gli studi culturali (Bassnett- Lefevere 1990,
Translation, History, and Culture,1990).
Contributi che provengono dagli studi femministi, postcoloniali dove emerge come le posizioni
gerarchiche tra lingue, culture e persone siano presenti nelle traduzioni. Attraverso queste chiavi di
lettura, il tradurre appare in molti casi come appropriazione, manipolazione degli originali per fini
e obiettivi specifici, come rappresentazione dell’altro per affermare e rafforzare la propria posizione
culturale e sociale.
Il discorso della traduzione diventa ubiquo. es. rivista Translation. approccio transdisciplinare
Questo ha spinto André Lefevere a parlare esplicitamente di traduzione come rewriting, come
riscrittura.Tradurre è un’operazione di riscrittura perché l’azione segnica tipica della traduzione ha
molto in comune con altri tipi di interpretazione e produzione testuale, come la storiografia, la
realizzazione di antologie, la critica letteraria e l’editing per la pubblicazione.Tutte queste attività,
infatti, mirano a costruire un’immagine di un testo, un autore o una intera cultura letteraria e a
proiettarla in un diverso ambiente di ricezione. Cfr. Bassnett e Lefevere 1990; Lefevere 1992a e
1992b.
Scrittura che nasce a partire da un’altra scrittura, come un’altra pratica letteraria (critica, ecc.)

La storia delle traduzioni è appunto quella dell’identità di una comunità in rapporto agli altri e
riscrivere vuol dire ripensare un testo alla luce delle proprie coordinate.
In quest’ottica è certamente importante ad esempio la storicizzazione delle questioni legate al
tradurre come l’idea di proprietà letteraria o la stessa nozione di fedeltà nella traduzione: è stato
osservato a tale proposito che questa nozione è molto mutata nel corso della storia per cui una
traduzione fedele in una certa epoca diventa infedele in un’altra.
La traduzione non è mai un’attività innocente e dipende fortemente dall’ambiente sociale e anche
politico in cui si realizza. Scrive Lefevere:

Tradurre significa... riscrivere un testo originale. Tutte le riscritture, indipendentemente dalle


intenzioni, riflettono un’ideologia e una poetica precise e quindi manipolano la letteratura per
farla funzionare in un certo modo. La riscrittura è manipolazione, intrapresa al servizio del
potere e il suo aspetto positivo può contribuire all’evoluzione letteraria e sociale. (Lefevere
1992a: XI)

Lefevere: rifrazione e non riflesso.

19
Traduttore come interprete (musicale): un testo non viene mai letto e interpretato in maniera univoca,
non è un qualcosa che si dà una volta per tutte, la sua identità non è mai data in modo di definitivo. È
più simile a testo che deve ogni volta essere rappresentato e interpretato
Fare esperienza di un testo nella traduzione non significa rispecchiare un’identità come uno
specchio, non vuol dire applicare un metodo che trasporti da una lingua all’altra un certo numero di
informazioni, significa entrare a far parte di un complesso caleidoscopio in cui ciascuna rifrazione va
a ricostruire l’identità di quel testo originario.
Ogni elemento nel processo subisce una trasformazione. Traduttore come cannibale che divora il
testo di partenza in un rituale il cui fine è la creazione di qualcosa di completamente nuovo.
L’idea di un testo che si dà una volta per tutte, che deve essere letto e interpretato in maniera
univoca è spesso un’idea astratta e erronea. Un testo da tradurre, da rappresentare, da interpretare
musicalmente è più simile a un essere organico, la sua identità non è data in modo definitivo.
Alla base c’è l’idea di interpretazione di un testo, come in musica (esecutore+strumento).
Così come una musica ha bisogno per vivere di un esecutore, uno strumento che la trasformi da
partitura a suono, allo stesso modo un testo ha bisogno della mediazione di uno strumento (la pagina
o la voce) che renderà alla fine l’opera una replica, una traduzione di suoni in segni grafici e ogni
replica, ogni moltiplicarsi dell’origine è un modo per riproporre l’identità del testo.
Susan Bassnett, Translation and Ideology:

He uses the word refraction and not reflection. The reflection is what you get when you look
into a mirror. It is a copy of yourself seen in the other way around and that for many years
was what people thought translation was: a copy. (p.19)

(…) We are obsessed in Europe with the notion of the original.

Traduzione di aula: “… if you are going to translate “aula” into English, you’ll have to
summon up in your heads a kind of double image: of what the “aula” is in an Italian context,
but also of what it could be in the British context. In other words, what I’m saying is very
elementary; in order to be able to begin to translate, you have to accept that there are different
experiences in different languages.

… the bilingual dictionary is based on a theoretical notion of absolute equivalence; on the


idea that you can have one set of terms in one language that will be equivalent in another.
This derives from a notion of equivalence as sameness. We cannot accept such a notion
because there is too much difference between cultures (p.9).

… a kind of crusade (…) to make people more aware of the importance of translation and to
remove translation from the position it occupied for a long time as a marginal activity

In Tel Aviv a group have established a very comprehensive and very important analysis of
why at certain moments in culture translation happens, why is it that sometimes people
translate a lot and at times they do not translate at all. What does it depend on? (…) In the
Elizabethan period in English there were hundreds of translations right up to the time of the
French revolution while today in English there is a minimum number of translations (…) So
the question is why? (…) Translation occurs when a culture is expanding, (…) when a
culture sees itself as marginal and peripheral (…) Conversely, when a culture is in a
period of colonial and imperial expansion it does not translate because it does not need
to. (p.10)

… if you look at what constitutes aesthetic criteria, that also changes in different moments in
time, so that the criteria for a wonderful translation in the 1890s are certainly not the criteria
that we have in the 1990s (p.12)

20
Therefore that is an activity that cannot possibly be discussed in the same evaluative terms or
in terms of faithfulness and un faithfulness (p.13).

How do translations change the balance of a given literature? How do translations change a
culture?

De Campos
What they suggest is that the translator, as it were , devours the text, takes an author, swallows
the text, and recreates it. And yes they are, but they are translating texts free from what they
perceive as being the European discourse of faithfulness, original and copy, of source
and target” (p.18)

Nevertheless the basic assuption is that translation and the translator are not innocent: they
are always connected to something else. The translator is always part of a culture, part of a
generation, part of an ideology. The ideological dimension of the translator is always present.
Translation has all kinds of repercussion in a culture at large” (p.18)

Sull’ideologia e manipolazione v. intervista di Elisabetta Bartuli in Tradurre.


https://rivistatradurre.it/rispettare-laltro-non-significa-tradurlo-alla-lettera/

Come Spivak percepisce la diversità: quando hai la diversità rischi di leggerla attraverso gli
stereotipi. La storia del rapporto con l’Oriente è una storia che passa attraverso gli stereotipi (dalle
Mille e una notte in poi). Uno degli stereotipi di oggi è quella di pensare gli islamici come
fondamentalisti. Come uno stereotipo antico è quello di pensare il mondo arabo come pieno di
mistero, ecc (vedi Said, Orientalismo). La caratteristica del fondamentalista è di usare sempre Dio.
Come fare per far percepire l’altro senza stereotipi? La soluzione che dà è una soluzione che porta a
rendere l’altro più simile a te. Quindi per un obiettivo giusto cancella la diversità. Se la diversità tua
è negativa io devo costruire un’immagine tua che non sia negativa. Quindi: per parlare della diversità
devi sempre passare dalla tua identità. La diversità è sempre dalla tua percezione.

Nella traduzione tedesca del Diario di Anne Frank di Annaliese Schütz del 1950 ci sono diverse
manomissioni del testo originale che la traduttrice operò al fine di «rendere ideologicamente
accettabile il diario per un pubblico tedesco» eliminando «i contenuti più espressamente antitedeschi»
del testo.
Sfumò tutti i riferimenti ostili alla Germania e ai tedeschi. Es:
«Uso della lingua: si prega di mantenere basso il tono della voce a qualsiasi ora, sono ammesse
tutte le lingue civili, di conseguenza non il tedesco» diventa:
«Alle Kultursprachen… aber leise!»
«Non esiste al mondo una più grande inimicizia che fra tedeschi che ebrei» diventa:
«Non esiste al mondo una più grande inimicizia che fra questi tedeschi e gli ebrei»
«Un libro che dopotutto doveva essere venduto in Germania non può maltrattare i tedeschi»
(Schütz)
Il padre, Otto Frank acconsentì a questa modifica perché disse era ciò che sua figlia pensava
veramente. Ma questa ottica conciliante è sua, nel Diario non c’è traccia.
Per 41 anni questa fu in Germania l’unica versione del Diario.

La traduzione dunque entra nelle tradizioni letterarie e culturali innestando elementi che non sono
loro propri e riorganizzandole. Per questo è molto difficile legare gli scrittori a una sola tradizione
culturale o nazionale se non facendo una scelta ideologica. La letteratura occidentale è il frutto di una
serie continua di ibridazioni per le quali è molto difficile individuare tutti i fili. Il ruolo centrale della
traduzione del polisistema letterario contemporaneo è particolarmente evidente nel caso della

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narrativa italiana degli scrittori appartenenti alle generazioni più giovani. Qual è la tradizione per
questi autori? E per conseguenza, quali sono i riferimenti stilistici, linguistici e culturali?

Fottersene. Fottersene di tutto. Tranquillo. Un Budda. Rimanere chiuso in camera. Barricato


nel bunker. Piazzare su un disco e fare come se quella non fosse una notte speciale ma una
qualsiasi di un giorno qualsiasi.
Non male, si disse.
Unico problema.
Sua madre stava in cucina dalle cinque di mattina a preparare il fottuto cenone di San
Silvestro» (N. Ammaniti)

(…) gli scrittori del noir italiano portano una poetica nuova nella tradizione letteraria.
Direi che quello che risulta abbastanza evidente è che la tradizione (il canone, in qualche
modo) non è solo (o per niente) quello della narrativa italiana del Novecento. Non c’è Gadda
qui, non ci sono Moravia, Pasolini, Calvino, Sciascia, tanto per citare alcuni autori ancora
presenti nel canone degli anni ottanta. Si intravede piuttosto una tradizione diversa con forti
legami con la narrativa straniera, soprattutto di matrice nordamericana. Sul perché di questa
contaminazione non c’è troppo da riflettere, tenendo conto che una percentuale vicina al 60%
della narrativa pubblicata in Italia è traduzione, e che una buona maggioranza di questa viene
dalla letteratura di lingua inglese. Si pensi inoltre che le strategie editoriali portano a
privilegiare un testo da tradurre che comunque abbia avuto un buon esito in un qualche
mercato straniero, in una situazione in cui i mercati più importanti sono quelli di lingua
inglese. E direi che non c’è troppo da scandalizzarsi se i riferimenti per i giovani scrittori
contemporanei non sono locali (…)
Ma è importante sottolineare che il rapporto non è tanto con la letteratura straniera in quanto
tale, quanto piuttosto con la letteratura straniera selezionata dalle case editrici e tradotta in
italiano. In questo senso è interessante notare come è proprio attraverso il progetto culturale,
ma anche industriale, delle case editrici, e attraverso le loro politiche traduttive, che varie
tradizioni vengono innestate nel tessuto letterario italiano, avviando un processo di
trasformazione.
Si potrebbe dire allora che la prospettiva attraverso cui recepiamo, ad esempio in Italia, le
culture e letterature straniere è la prospettiva filtrata dal mercato editoriale e dalle strategie
editoriali delle case editrici. Fra i vari esempi di questo si può citare il caso di qualche anno
fa, riguardante la traduzione per Adelphi del libro di Cathleen Shine, La lettera d’amore
(1995). Un libro che nell’originale è inserito nella categoria »romance», cioè dei romanzi
rosa, ma che, pubblicato da una delle case editrici italiane più sofisticate, ne ha assunto
l’autorevolezza, divenendo una specie di ricercato romanzo esistenzialista. Questo significa
che spesso conosciamo gli autori delle letterature straniere solo in quanto autori tradotti fuori
del contesto di ricezione. Questa condizione inevitabile della letteratura tradotta è
assolutamente determinante per la ricezione del romanzo nordamericano contemporaneo e per
il suo costituirsi come modello per la più recente narrativa italiana. Un modello che è anche
linguistico e, come abbiamo visto, impone alla scrittura una sorta di lingua della traduzione.
(Arduini-Stecconi 2007: 93-98)

Altro esempio: traduzione della Bibbia di Lutero (1522-1534)

A un’idea ancora diversa di fedeltà si ispirano i principi che hanno dettato la versione tedesca del
Nuovo Testamento pubblicata da Erasmo nel 1516, così come la grande traduzione di Antico e Nuovo
Testamento realizzata da Lutero fra il 1522–1534).
In Lutero è presente la volontà di rendere la sacra scrittura comprensibile a tutti, conformemente
alla dottrina della Riforma secondo cui il rapporto diretto con la Bibbia svolge un ruolo fondamentale
nel percorso del fedele.

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Questo desiderio di chiarezza diventa in Lutero l’idea di fedeltà come germanizzazione del
testo sacro, emblematica è, a questo proposito, la difesa della propria traduzione di un passo
dell’Epistola di San Paolo ai Romani.

Lo stesso si può dire del saluto dell’angelo a Maria: “Ti saluto, Maria, piena di grazia, il
Signore è con te”. Finora si è tradotto semplicemente lettera per lettera dal latino in tedesco.
Ma dimmi, ne è venuto fuori un buon tedesco? Quando dice l’uomo tedesco: Tu sei piena di
grazia? E quale tedesco comprende l’espressione “piena di grazia”? Deve pensare a una botte
piena di birra e a una borsa piena di denaro. Perciò traduco in tedesco: “Tu sei graziosa”,
affinché un tedesco possa meglio comprendere che cosa intenda l’angelo col suo saluto.”

C’è dunque una precisa finalità nell’idea di fedeltà di Lutero. La strategia adottata da Lutero nella
sua celebre traduzione si spiega quindi come la convergenza di due fattori: da una parte un richiamo
alla fedeltà alla lingua in cui si traduce e al senso originale, dall’altra la rivendicazione di una
interpretazione innovativa.
La traduzione di Lutero ha avuto effetti profondi sulla lingua, sulla cultura e sull’identità tedesca.
Lutero, quando nomina l’atto di tradurre, usa indifferentemente le parole übersetzen e
verdeutschen.
La traduzione diventa così creatrice di lingue e letterature.
“Ogni civiltà nasce da una traduzione” (Folena 1991: 72)
La letteratura romana si è costruita attraverso le traduzioni dal greco; il tedesco moderno è
impensabile senza la traduzione luterana della Bibbia, ecc.
Il tedesco moderno si è formato a partire da questa traduzione.
Dagli questi esempi di traduzione biblica emerge un fatto evidente: la traduzione non è mai
neutrale. I vincoli del traduttore non sono solo linguistici, ma anche extralinguistici (ideologie, centri
di potere, poetiche e tradizioni di una certa cultura). Questi fattori possono condizionare la scelta dei
testi da tradurre e il metodo.

Queste riflessioni si collegano alla nozione di movimento, di trasformazione e di innovazione


della traduzione.
Il movimento è ovviamente una caratteristica della lingua di arrivo: es. traduzioni ottocentesche
di Shakespeare e quelle contemporanee.
Le diverse traduzioni mettono in movimento il testo nella lingua di arrivo (F. Apel, Il movimento
del linguaggio)
L’italiano del Romanticismo non è quello di oggi. I diversi traduttori, con le loro diverse poetiche,
hanno moltiplicato l’opera di Shakespeare. Le diverse traduzioni mettono in movimento il testo nella
lingua di arrivo. Es. traduzione di poesia
Il poeta irlandese Grennan nell’introduzione alle sue traduzioni delle liriche di Leopardi scrive
che il testo di Leopardi è come un sasso visto in un ruscello di montagna; una volta tolto dal letto del
fiume perde la sua brillantezza e ci appare grigio e smorto (dull, dead gray).
Ma modificando leggermente la metafora si capisce meglio il processo della traduzione: non sasso
in uno scaffale, ma in un nuovo fiume. Tradurre un testo ha più a che fare con l’azione di raccogliere
quel sasso per rimetterlo in un nuovo fiume, dove la corrente della lingua in cui si traduce è in
continuo movimento. Il sasso, ricollocato nel nuovo corso, non è solo reso luminoso dall’acqua ma
può far mutare il corso del fiume. Le grandi opere letterarie sono grandi sassi che fanno mutare la
corrente. es l’Iliade di Monti (1810), Clima neoclassicista o I lirici greci di Quasimodo. Mettono in
discussione le norme del linguaggio, forzano la lingua e le sue convenzioni in direzioni nuove. Lo
hanno fatto le grandi traduzioni che sono diventate fondamentali non solo per la conoscenza
dell’opera tradotta, ma per le stesse istituzioni letterarie della cultura di arrivo,
(Monti ricrea Omero adattandolo al gusto neoclassico. La semplicità di Omero si trasforma in una
retorica eroica)

23
Il valore letterario di Monti è espresso nella sua traduzione.

Il testo vive solo se rimesso in un flusso, in un movimento. Non c’è niente di più inutile di
una traduzione imbalsamata, scritta in una lingua neutra, preoccupata a rispettare la norma
linguistica dominante (F. Nasi)

Meno scontato è pensare al testo di partenza come un testo in movimento, come non fisso,
definitivo (es. Comedia di Dante fatta di tante varianti).
Un testo si trasforma nel tempo e il nostro modo di leggerlo non lo esaurisce, è un avvicinamento,
una tensione verso il testo.
Spesso il testo di partenza è in movimento perché ambiguo. Es. monologo del Macbeth quando a
Macbeth gli viene comunicato che la moglie è morta. Anche le traduzioni italiane colgono una duplice
interpretazione. Questa ambiguità lo rende volatile, in movimento.
“She should have died hereafter”

in due rifacimenti recenti diventa:

“She would have died later anyway” e


“She shouldn’t have died so soon”

e in italiano:

“Avrebbe dovuto morire più tardi” (Chiarini 1911)


“Sarebbe pur morta un giorno o l’altro” (Baldini 1963)

Quindi:
Questo tipo di analisi che cerca di comprendere le ragioni che hanno guidato la
rilocalizzazione del testo di partenza in un sistema culturale nuovo ci porta lontano dalla
banale e sterile contrapposizione delle belle e infedeli o brutte e fedeli. Si tratta piuttosto di
vedere le reincarnazioni di un testo, la sua moltiplicazione. (Nasi)

Un testo vive in modi diversi nelle sue infinite letture. Siamo lontani dalle belle/brutte
infedeli/fedeli.Si tratta piuttosto di vedere le reincarnazioni di un testo, la sua moltiplicazione. Perché
un testo non si dà mai come definitivo, ma vive in modi diversi nelle sue infinite letture passate e
future. Alla base c’è l’idea di interpretazione di un testo, come in musica (esecutore+strumento).
Così come una musica ha bisogno per vivere di un esecutore, uno strumento che la trasformi da
partitura a suono, allo stesso modo un testo ha bisogno della mediazione di uno strumento (la pagina
o la voce) che renderà alla fine l’opera una replica, una traduzione di suoni in segni grafici e ogni
replica, ogni moltiplicarsi dell’origine è un modo per riproporre l’identità del testo.
Siamo lontani dall’idea che la traduzione sia un’attività rigida.
E ogni testo vive di intertestualità: che cos’è la Bibbia se non la molteplicità delle sue riscritture,
interpretazioni, traduzioni
Nel caso della traduzione di poesia, per esempio, le traduzioni variano non solo perché le
convenzioni linguistiche e poetiche delle lingue di arrivo si trasformano continuamente, ma perché
l’oggetto di partenza è difficilmente definibile (Barthes, similitudine della cipolla: in una poesia ci
sono strati (fonologico, metrico, ritmico, figurale, ecc) che si sovrappongono ma nessuno lo esaurisce,
nessuno ne costituisce nucleo)
Franco Nasi dice che una traduzione può essere paragonata alle immagini policrome dei
caleidoscopi. Se si sposta leggermente (ed è ovvio che la traduzione ha a che fare con lo spostamento)
la composizione cambia radicalmente. I pezzi sono sempre gli stessi eppure la composizione è
completamente diversa (diversa, non peggiore o migliore).

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Lawrence Venuti (Lawrence Venuti (The Translator’s Invisibility1995, The Scandals of
Translation 1998, Translation Changes Everything 2013, Contra Instrumentalism, 2019).

Un approccio alla traduzione che ripensa profondamente il rapporto che esiste fra originale e testo
tradotto e che fonda una idea diversa di fedeltà è quello adottato da Lawrence Venuti (The
Translator’s Invisibility1995, The Scandals of Translation 1998, Translation Changes Everything
2013, Contra Instrumentalism, 2019).

Testo straniero e traduzione sono entrambi derivativi: entrambi sono costituiti da diversi
materiali linguistici e culturali che non scaturiscono né dallo scrittore straniero né dal
traduttore e che destabilizzano il lavoro di resa del significato, andando al di là delle loro
intenzioni ed, eventualmente, entrando in conflitto con esse. Il risultato vede il testo straniero
come il luogo di molte e diverse possibilità semantiche fissate solo provvisoriamente in ogni
singola traduzione, sulla base di presupposti culturali e di scelte interpretative variabili a
seconda di specifiche situazioni sociali e di periodi storici diversi. Il significato è un rapporto
plurale e contingente, non un’essenza unica e immutabile, quindi una traduzione non può
essere giudicata secondo concetti matematici di equivalenza semantica o di corrispondenza
univoca. I richiami al testo straniero non possono, in ultima analisi, consentire di decidere, in
assenza dell’errore linguistico, tra traduzioni diverse che siano in competizione, in quanto i
canoni di accuratezza per la traduzione e concetti quali “fedeltà” e “libertà” sono categorie
storicamente determinate. Anche il concetto di “errore linguistico” è soggetto a variazioni, dal
momento che traduzioni erronee, soprattutto di testi letterari, possono essere non solo
intelligibili ma anche significative nella cultura della lingua di arrivo. La vitalità di una
traduzione è determinata dalla sua relazione con le condizioni sociali e culturali in cui viene
prodotta e letta. (Venuti 1999, p. 42)

Secondo Venuti (1998. Trad. it 2005: 17) un testo non è semplicemente uno strumento di
comunicazione che viene utilizzato da un individuo in base a un sistema di regole. Naturalmente la
comunicazione è indubbiamente una delle funzioni che la lingua può svolgere ma non quella
esclusiva. Venuti ricorda Deleuze e Guattari, secondo i quali la lingua è una forza collettiva, un
insieme di forme che si organizzano in un sistema semiotico. Tali forme circolano fra le diverse
comunità culturali e istituzioni sociali collocandosi in una gerarchia, con la varietà standard che
occupa una posizione dominante ma che viene sottoposta a continue variazioni causate da varietà
regionali o di particolari gruppi, dai gerghi, dalle idiosincrasie, dalle novità stilistiche, dai termini
occasionali e dall’accumulo di usi precedenti.
Fa della lingua l’elemento generatore della letteratura
Venuti considera dunque ogni uso della lingua come un luogo di rapporti di potere dato che una
lingua è una specifica realizzazione di una forma dominante che esercita la propria supremazia sulle
variabili minori.

25
Venuti rifacendosi a Lecercle (1990) chiama questa potenzialità remainder. L’eterogeneità
linguistica liberata dal remainder va al di là di ogni atto comunicativo e impedisce qualsiasi sforzo
che voglia formulare regole sistematiche.

Il remainder mette in discussione la forma linguistica dominante in quanto ne mostra la natura


socialmente e storicamente determinata e riproponendo all’interno della lingua le
contraddizioni e delle lotte che caratterizzano il sociale. (ib.)

Un testo letterario, quindi, non può mai esprimere soltanto il significato voluto dall’autore, in uno
stile personale. Piuttosto, mette in moto forme collettive in cui l’autore può effettivamente avere un
coinvolgimento psicologico, ma che per la loro stessa natura depersonalizzano e destabilizzano il
significato. La traduzione quindi è un lavoro che fai nella tua lingua nel tentativo di liberare il
remainder
l testo stilisticamente innovativo è quello che interviene in maniera più evidente su una fase
linguistica, svelando le condizioni contraddittorie della varietà standard, del canone letterario, della
cultura dominante, della lingua maggiore. La letteratura può essere definita dunque come una scrittura
creata appositamente per liberare il remainder. Alcuni testi letterari accrescono questa radicale
eterogeneità sottomettendo la lingua maggiore a continue variazioni. Secondo Deleuze e Guattari tali
testi formano una letteratura minore, i cui autori sono stranieri nella propria lingua. (Venuti 1998.
Trad. it 2005: 17–18).
La traduzione letterale di Venuti mira a rendere l’estraneità del testo di partenza servendosi di
varianti linguistiche minori. Inoltre per facilitare tale operazione si prediligono per la traduzione quei
testi che possiedono uno status minore nelle culture di appartenenza e occupano una posizione
marginale nei canoni originari o che in traduzione possono essere utili per minorizzare la varietà
standard e le forme culturali dominanti dell’inglese americano
Da qui nasce l’opposizione fra “domesticating translation” e “foreignizing translation” con la quale
Venuti (1995) ha voluto descrivere due diversi atteggiamenti traduttivi. Cfr. Venuti 1995. Trad. it.
1999: 44.
Addomesticante/naturalizzante (domesticating): quel tipo di traduzione in cui si cerca di
evitare ai lettori la sensazione di stare leggendo un testo straniero, per cui si adotta uno stile corrente
e il più trasparente possibile. Traduzione scorrevole e traduttore invisibile Si agevola la lettura del
testo da parte del lettore, annullando le differenze culturali. Il testo straniero va riportato all’interno
di una dimensione conosciuta dal lettore della lingua di arrivo. Traduzioni etnocentriche,
conservatrici e portatrici dei valori della cultura dominante. Annullate caratteristiche linguistiche e
culturali. Nel trasferimento da una lingua a un’altra verranno annullate tutte le caratteristiche
linguistiche e culturali al fine di arrivare alla scorrevolezza del testo, rendendolo come un originale e
facendo diventare il traduttore invisibile.
Foreignizing, estraniante, straniante, stranierizzante: è la strategia opposta, che introduce nel
testo tradotto degli elementi culturalmente altri. Il traduttore diventa visibile perché la traduzione
ribadisce il proprio carattere di testo altro. Lo scopo non è quello della scorrevolezza, in quanto
elemento di assimilazione, ma quello di portare alla superficie le diversità. Si tratta di non omologare
la diversità. Regole violate per mantenere la diversità. Mantenere la distanza culturale. È quel tipo di
traduzione in cui le regole della lingua di arrivo vengono deliberatamente violate dal traduttore per
marcare l’appartenenza del testo di partenza a una lingua e cultura diverse e per mantenere qualcosa
di questa diversità. L’obiettivo è quello di mantenere la distanza culturale per far conoscere al lettore
la cultura di partenza.

Alla proposta di Venuti di una traduzione foreignizing che estranei il lettore dal testo – che si
fa portatore della differenza di un’alterità manifesta – si associano gli studiosi del
postcolonialismo, che riconoscono l’efficacia di questa strategie nel non omologare i testi
stranieri al modello culturale occidentale, nella convinzione che sia importante mostrate al
lettore un cultural other (Bertazzoli 2015: 104)

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Venuti rielabora con questi due concetti l’argomentazione di Schleiermacher (800) per il quale
ci sono solo due strade possibili nella traduzione: “O il traduttore lascia il più possibile in pace lo
scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro
lo scrittore “ (Friedrich Schleiermacher, “Sui diversi modi del tradurre, in Nergaard 1993: 153).
Quindi una strategia che fa sì che un testo sia il più possibile acclimatato nella lingua e cultura di
arrivo e una strategia che cerca di far sentire all’interno della propria lingua la differenza dell’altra
lingua.
Per esempio, le traduzioni bibliche di Erri De Luca sono un esempio di traduzioni stranianti
perché vogliono far percepire quell’estraneità, quella differenza che è il rapporto con l’altro. Scrive
De Luca che la sua traduzione appiattita sull’ebraico vuole “procurare in chi legge la nostalgia
dell’originale”, vuole spingere il lettore verso l’altro.
Mentre, come nota Spivak, in certe traduzioni addomesticanti e disinteressate alla specificità
dell’altro “la produzione di una scrittrice palestinese inizia a somigliare, nelle grane della prosa, a
quella di una scrittrice di Taiwan e le retoriche e le forme traslate del cinese e dell’arabo vengono
occultate e trasformate nelle forme retoriche occidentali.”
Altro caso emblematico è la scrittura degli autori postcoloniali. La lingua degli autori
postcoloniali è fortemente contaminata, sono pidgin e creoli – lingue franche che prendono la sintassi
dalle lingue di sostrato ma il lessico dall’inglese. Commistione di lingue locali e lingue dei
colonizzatori

mr/signor = strategia estraniante/addomesticante (deve essere una scelta non una preferenza)

In Rushdee c’è una trasformazione totale della lingua, nella traduzione italiana tutto questo non
si percepisce. Ancora più forte è il contrasto per gli autori postcoloniali di lingua inglese che arrivano
al pubblico sudamericano attraverso traduzioni nel coloniale castigliano della Spagna.

L’editoria tratta queste lingue ibride in 4 modi:


1. Le ignora. Quindi traduce il dialetto del Sussex come se fosse la lingua standard (uno dei modi
più diffusi).
2. Le traduce con la lingua standard ma le mette in corsivo
3. Costruisce un dialetto a tavolino (molto pericoloso)
4. Le esotizza. Quando traduce un dialetto straniero con un dialetto italiano (es. Le ceneri di
Angela, di Frank McCourt in cui ci sono tre varietà: American English, irlandese e italiano basso
degli immigrati italiani. Si è deciso di tradurre in italiano l’American English, in romanesco
l’irlandese e in napoletano l’italiano degli immigrati) Il rischio è quello di sortire un esito farsesco
Quale strada si può percorrere? Riflettere sulla natura di queste lingue che sono state per secoli solo
parlate e mai messe per iscritto. Le prime esperienze di pidgin e creoli inseriti in romanzi risalgono
alla seconda metà del 900.
Scrive Franca Cavagnoli:

Per tradurre la lingua ibrida della narrativa postcoloniale è necessario quindi individuare nella
lingua italiana le strategie di variazione linguistica e di manipolazione del codice che
consentono di deviare dalla lingua standard, e dunque di allontanarsi dalla norma. Così
facendo – ripercorrendo, cioè, il cammino già compiuto dall’autore postcoloniale – si può
giungere a esprimere la differenza linguistica e culturale di una letteratura che rivendica la
propria singolarità anche grazie al corpo a corpo che ha ingaggiato sin dalla nascita con la
lingua standard (Franca Cavagnoli, La traduzione letteraria anglofona, Hoepli, 2017: 49)

Quindi ricorso alla lingua parlata. al neo standard.

27
Scopo di ogni traduzione per Berman: “Aprire sul piano della scrittura un certo rapporto con
l’Altro, fecondare il proprio tramite la mediazione dell’Estraneo”
Nella prosa, la maggior parte delle traduzioni sono addomesticanti perché le case editrici
prediligono una scorrevolezza del testo piuttosto che una percezione della diversità. Ciò significa che
a volte tutti i libri di un editore parlano la stessa lingua, ma questa scorrevolezza fa affiorare non la
lingua dell’autore, bensì quella dell’editore.
Il punto è che, sia che si adotti una strategia o l’altra, il prodotto che si ottiene è un’altra cosa, in
ogni caso è un testo nuovo. Cosa significa questo? Che il traduttore ci mette del suo. Il traduttore non
può ricomporre la frattura, ma può ricreare un nuovo equilibrio.
Se è così il lavoro del traduttore rispetto al testo da tradurre, il traduttore è un autore, tradurre
poesia significa fare poesia. Il traduttore è un autore che invece di reperire il materiale nel mondo
esterno, reperisce il materiale in quel particolare submondo che sono i testi.
La traduzione è un atto culturale e politico autonomo.
Per secoli il testo originale è stato investito di un’autorità indiscussa confinando il traduttore
all’invisibilità. Il rapporto impari tra autore (intoccabile nella sua condizione di genio creativo non
soggetto ai cambiamenti linguistici sociali e culturali) e traduttore (come manuale compilatore di una
copia, costretto all’uso di un linguaggio trasparente che riflettesse quello dell’autore) viene ribaltato:

Translation is and always has been ubiquitous. Today it figures significantly in the practices
housed in many cultural and social institutions – economic and political, legal and military,
religious and scientific. The arts and human sciences depend on translation for their invention,
accumulation, and dissemination of forms and ideas. Nonetheless, translation remains grossly
misunderstood, ruthlessly exploted, and blindly stigmatized. Now is the time to abandon the
simplicistic, clichéd thinking that has limited our understanding of it for millennia.
STOP treating translation as a metaphor
Start considering it a material practice that is indivisibly linguistic and cultural.
STOP using moralistic terms like “faithful” and “unfaithful” to describe translation.
START defining it as the establishment of a variable equivalence to the source text.
STOP assuming that translation is mechanical substitution.
START conceiving of it as an interpretation that demands writterly and intellectual
sophistication.
STOP evaluating translations merely by comparing them to the source text.
START examining their relations to the hierarchy of values, beliefs, and representations in
the receiving culture.
STOP asserting that any text is untranslatable.
START realizing that every text is translatable because every text can be interpreted.
(L. Venuti, Contra Instrumentalism. A Translation Polemic, University of Nebraska Press,
2019)

The target of this polemic is a model of translation that I shall call instrumentalism. It
conceives of translation as the reproduction or transfer of an invariant that is contained in or
caused by the source text, an invariant form, meaning, or effect. Not only has this model
dominated translation theory and commentary for more than two millennia, but its continued
dominance can be seen in both elite and popular cultures, in academic institutions and in
publishing, in scholarly monographs and in literary journalism, in the most rarefied theoretical
discourses and in the most commonly used clichés and proverbs about translation. The
negative consequences of this dominance have included the inferior ranking of translation
practice in the hierarchy of scholarly and literary rewards (…)
(…) a rather different model of translation that I shall call hermeneutic
A hermeneutic model conceives of translation as an interpretative act that inevitably varies
source-text form, meaning, and effect according to intelligibility and interests in the receiving
culture. The variation occurs even when the translator, like most translators today, adheres to

28
a fairly strict concept of equivalence that seeks to construct both a semantic correspondence
and a stylistic approximation to the source text.
Still, none of the interpretative relations established by the translation can be understood as
giving back the source text unaltered or as enabling a reader to respond to the translation in
the same way that a source-language reader might respond to the source text. For a text is a
complex artifact that sustains meanings, values, and functions specific to its originary
language and culture, and when translated this complexity is displaced by the creation of
another text that comes to sustain meanings, values, and functions specific to a different
language and culture. Any correspondence or approximation thus coincides with a radical
transformation.

(…) Thus the instrumental model that defines translation as the reproduction of a source-text
invariant generates the translation theorist Eugene Nida’s concept of «equivalent effect»,
namely, «that the relationship between receptor and message should be substantially the same
as that which existed between the original receptors and the message». The equivalent effect
is an invariant because it is assumed to be capable of replication regardless of the linguistic,
cultural, and historical differences that distinguish between the source text and the translation
as well as between the source text and the translation as well as between the source and
receiving situations. The concept of equivalent effect in turn generates the strategy of
«compensation», defined (…) as «a technique for making up for the loss of a source text effect
by recreating a similar effect in the target text through means that are specific to the target
language and/or the target text.

Compensation is an instrumentalist strategy because it assumes not simply that a source-text


effect is an invariant, but also that its location and linguistic «means» can be changed in a
translation without changing the significance or force that the effect carries in the source text.
(Venuti 2019: 1-8)

Se tradizionalmente si riteneva che il traduttore avesse un obbligo di fedeltà solamente


all’originale, alle parole che lo compongono o al suo autore, oggi possiamo affermare che la
traduzione presuppone il rispetto di altre istanze. In parole povere, non basta rispettare chi ha già
parlato, ma anche coloro ai quali si parla, considerando le loro esigenze pratiche ed estetiche. Per
questa via, l’etica della traduzione si può allargare ancora fino a comprendere il ruolo che la
traduzione ha nel determinare i rapporti che intercorrono fra due culture, quella in cui circola già
l’originale e quella dove finirà il testo tradotto. In questo caso la fedeltà non è più dovuta ad altri
soggetti che si trovano lungo la catena della comunicazione tradotta, ma alla posizione e alla funzione
che in essa ha il traduttore stesso.
Possiamo citare a questo proposito un capoverso che le ha dedicato Umberto Eco, alla fine del
suo Dire quasi la stessa cosa:
La conclamata “fedeltà” delle traduzioni non è un criterio che porta all’unica traduzione
accettabile [...]. La fedeltà è piuttosto la tendenza a credere che la traduzione sia sempre
possibile se il testo fonte è stato interpretato con appassionata complicità, è l’impegno a
identificare quello che per noi è il senso profondo del testo, e la capacità di negoziare a ogni
istante la soluzione che ci pare più giusta.
Se consultate qualsiasi dizionario vedrete che tra i sinonimi di fedeltà non c'è la parola
esattezza. Ci sono piuttosto lealtà onestà rispetto, pietà.

Perché la traduzione?

Non più cosa fa la traduzione, ma perché la traduzione. All’origine c’è la domanda che si poneva
von Humboldt: se la facoltà del linguaggio che è universale si concretizza in lingue diverse e queste
costituiscono un modo diverso di categorizzare il mondo, la domanda è perché tradurre se comunque

29
l’alterità è così profonda che non può essere ricomposta? Humboldt rispondeva che il modo migliore
di studiare una data lingua è quello di considerarla come un frammento del linguaggio universale del
genere umano: “tutte le lingue assomigliano a un prisma di cui ogni faccia mostra l’universo sotto un
colore di diversa sfumatura”
Alterità profonda
A riflettere sull’idea di alterità ci ha aiutati Berman quando afferma che la traduzione in Occidente
è sempre stata etnocentrica, platonica e ipertestuale.
Antoine Berman (1942-1991)
La traduction et la lettre ou l’Auberge du lointain
(La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza)
L’epreuvre De l’Etranger, (La prova dell’estraneo)
Pour Une critique des traductions: John Donne.

Berman (1984, 1989) si ricollega ad Heidegger, proponendo la traduzione come il punto


d’incontro fra esperienza e riflessione. Rapporto che non equivale a quello tra pratica e teoria. La
traduzione è un’esperienza che si apre alla riflessione.
(Experior, “per” ha origine indoeuropea significa “attraverso” es. “perito” che è sia l’esperto che
il morto perché è passato attraverso)
Berman aggiunge che la traduzione è questo: esperienza delle opere.
In altri termini nell’atto di tradurre è presente un certo sapere, un sapere sui generis. La traduzione
non è né sotto-letteratura, né sotto-critica, non è linguistica o poetica applicata. Essa è soggetto
oggetto di un sapere proprio che non ha mai portato la propria esperienza a un livello di piena
autonomia come ha fatto, soprattutto dal Romanticismo, la letteratura.
Esperienza per Heidegger (In cammino verso il linguaggio):

Fare un’esperienza vuol dire: lasciare che venga su di noi, che ci raggiunga, ci piombi sopra,
ci rovesci e renda altro. In questa espressione “fare” non significa che noi siamo operatori
dell’esperienza: fare vuol dire qui passare attraverso, sopportare. Accogliere ciò che ci
raggiunge sottomettendoci a lui

La coppia esperienza e riflessione appartiene ai vocabolari centrali del pensiero moderno. Per
Kant, Hegel, Heidegger l’esperienza e la riflessione sono concetti fondamentali della filosofia.
Occorre sottolineare che l’epoca (l’idealismo tedesco) che ha visto nascere quei concetti è anche
una delle più grandi epoche per la traduzione: Schlegel, Hölderlin, Schleiermacher, Goethe,
Humboldt. Le grandissime traduzioni di quell’epoca non possono essere separate da un pensiero
filosofico del tradurre. Non esiste nessuna grande traduzione che non sia anche pensata. La traduzione
può benissimo rinunciare alla teoria ma non al pensiero ed è l’esperienza che ti porta al pensiero.
Come abbiamo detto, secondo Berman la traduzione che prevale nel mondo occidentale è una
traduzione etnocentrica, ipertestuale e platonica. Si tratta di tre concetti complessi; proveremo a
spiegarli brevemente.
Berman ritiene ‘etnocentrico’ quell’atteggiamento che tende a leggere il rapporto con le altre
culture alla luce della propria, e la cultura straniera come qualcosa da rifiutare oppure da adattare e
camuffare all’interno della cultura di appartenenza. Dunque l’Estraneo, ciò che appartiene all’altra
cultura, è considerato come qualcosa di negativo, che può essere annesso per accrescere la ricchezza
della propria cultura.
L’atteggiamento etnocentrico conduce inevitabilmente a una posizione che in traduzione è
“ipertestuale”.
Con il termine ‘ipertestuale’ Berman intende tutti quei testi che vengono prodotti a partire da un
testo già esistente come le imitazioni, le parodie, gli adattamenti, ecc.
(Qualunque tipo di atteggiamento etnocentrico è inglobante e imitativo, cerca di imitare nella tua
cultura quello che è nell’altro).

30
La relazione ipertestuale unisce un testo a un altro che gli è anteriore imitandolo, parodiandolo,
parafrasandolo, citandolo, commentandolo.Si tratta di rapporti che sono caratterizzati dalla creazione
libera a partire da un originale. Questi rapporti ipertestuali sono molto vicini alla traduzione.
(La traduzione ipertestuale è la traduzione libera. Come l’imitazione la parodia)
L’imitazione è la modalità più vicina al tradurre. Essa consiste nel selezionare certi tratti stilistici
di un’opera per produrre un testo che potrebbe essere di Omero o Flaubert.
(Proust ha fatto imitazioni di questo genere con Flaubert, Nerval lo ha fatto con Goethe
Anche il traduttore cerca di riprodurre il sistema stilistico di un’opera ma a partire da un testo
esistente.
(Il modello di traduzione non è quello di imitare)
Anche la trasformazione e l’adattamento sono modi dell’ipertestualità.
La frontiera fra una traduzione “libera” che teme certe particolarità del testo e dunque arretra e la
trasformazione dichiarata non è netta. La tentazione di arretramento del traduttore è frequente e in
certo senso è una specie di censura, un taglio e un travestimento dell’originale.
(es. traduzione in tedesco del Diario di Anne Frank)
Si tratta un atteggiamento che normalizza il testo sulla base dei parametri della lingua di
arrivo. Di adattamento in adattamento il testo originale diventa altro. La tendenza etnocentrica spinge
il traduttore a effettuare operazioni ipertestuali.
Come abbiamo detto questo è visibile nelle “belle infedeli” del classicismo francese.
Pensate a questa traduzione di Shakespeare fatta da Voltaire:

To be or not to be, that is the question:


Demeure, il faut choisir, et passer a l’instant
De la vie a la mort et de l’être au néant

Per Voltaire la traduzione era questo, del tutto ipertestuale.


Come esempio di definizione più chiara dell’etnocentrismo Berman cita un poeta francese del
diciottesimo secolo, Colardeau:

Se vi è qualche merito nel tradurre, è forse solo quello di perfezionare, se è possibile,


l’originale, abbellirlo, appropriarsene, dargli un’aria nazionale e naturalizzante…”

Come abbiamo appena detto è l’ideologia della Francia del classicismo.


Una posizione che potrebbe sembrare oggi superata. Non siamo più in quell’epoca in cui l’opera
straniera viene trasformata a proprio piacimento.
Eppure questa tendenza non è scomparsa e Berman ne dà un esempio.
Nel testo di Benjamin Il compito del traduttore c’è una frase importante:
“Poiché nessuna poesia è rivolta al lettore, nessun quadro allo spettatore, nessuna sinfonia agli
ascoltatori”.
Questa frase nel testo francese è scomparsa, forse il traduttore si è spaventato innanzi all’audacia
di questa frase o forse è sembrata un errore da emendare.
Berman sostiene che la traduzione etnocentrica nasca a Roma. Dai suoi inizi la cultura romana è
una cultura della traduzione. Dopo il periodo in cui gli autori latini scrivono in greco viene il periodo
in cui tutto il corpus greco viene tradotto: questa impresa di traduzione massiccia è il vero fondamento
della letteratura latina.
(es. panteon greco e latino – corrispondenza totale dei déi greci in latini Zeus Giove ecc, Afrodite
Venere)
Avviene attraverso l’annessione sistematica dei testi, delle forme, dei termini greci. Tutto viene
latinizzato e in certo modo reso irriconoscibile. È una delle forme di sincretismo della tarda Antichità.
Lo stesso sincretismo si trova nell’arte romana: teatro, architettura e soprattutto statuaria, che è una
specie di traduzione della statuaria greca.

31
Le tracce più antiche di etnocentrismo nella traduzione a noi pervenute risalgono alla latinità di
Cicerone prima e di Girolamo poi. È stato proprio Girolamo, cioè la romanità cristianizzata, o il
cristianesimo romanizzato, a mettere in atto i principi stabiliti dai predecessori pagani, grazie alla
traduzione della Bibbia.
Girolamo definisce la traduzione così:
“… non verbum e verbo, sed sensum exprimere de sensu”.

Si tratta della concezione divenuta canonica in Occidente. Dunque per Girolamo la traduzione è
essenzialmente captazione del senso al di là della forma.
Questi principi di Girolamo, al di là di Cicerone e Orazio, risalgono a San Paolo e al pensiero
greco, vale a dire a Platone.
Platone non ha mai parlato di traduzione ma ha inaugurato la separazione fra sensibile e
intellegibile, corpo e anima che ritroviamo in Paolo con l’opposizione fra lo spirito che vivifica e la
lettera che uccide.

Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la
nostra capacità viene da Dio che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della
lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita. (2 Corinzi 3: 5-6)

Anche “platonico” è importante (Platone, dialogo di Fedone: Socrate felice di attendere la morte
perché l’anima si stacca dal corpo) È precisamente questa eredità platonica che passerà all’Occidente
e diventerà canonica nel caso della traduzione. Spirito-corpo senso-lettera

(Il punto è quello di pensare che ci possa essere un senso del testo estratto dal suo veicolo, che è
l’aspetto linguistico. Che possa esistere un senso senza anche questo possa venire nominato. Es
intraducibili: in alcuni casi si tratta di un’esperienza che conosciamo anche noi ma il venire nominata
le dà una evidenza che altrimenti non sarebbe così chiara. Una cosa se è dicibile ha una esistenza
che altrimenti non avrebbe. Io posso tradurli attraverso delle parafrasi. Nel momento in cui lo
nomini crei un concetto. Se non è nominata non ha i confini. )

Dunque in quanto captazione del senso, la traduzione ha in sospetto la lettera e favorisce la cesura
platonica fra spirito e corpo.
Cosa intende Berman con quest’affermazione?
Possiamo ricollegarci al dialogo Fedone dove Platone sviluppa un argomento che avrà un peso
decisivo nei secoli a venire, reinterpretando Parmenide e giungendo alla svalutazione del sensibile. Il
dialogo, come è noto, inizia senza la presenza fisica di Socrate che viene ricordato da Fedone come
felice nell’attendere la morte. Comincia quindi il racconto e troviamo gli amici ammessi al carcere
nell’ultimo giorno, il filosofo è liberato dai ferri e nota la sensazione prima di dolore, poi di piacere.
Egli spiega questa duplicità dicendo che dolore e piacere sono sempre insieme e la divinità ha
attaccato le loro teste in modo che dove è l’uno è anche l’altro. Solo la filosofia riesce a decapitare
questo mostro. La sua felicità è dovuta al fatto che egli sa che la morte non è un male perché separando
l’anima dal corpo non fa altro che realizzare il fine della filosofia. Per la saggezza infatti il corpo è
un peso perché vista e udito ci danno percezioni inesatte, quindi quando l’anima vuole indagare
qualcosa con i sensi si inganna. L’anima allora deve allontanarsi dai sensi, deve essere convinta a
concentrarsi in sé stessa e a non considerare vero nulla che essa indaga per mezzo di altro.
È precisamente questa eredità platonica che passerà all’Occidente e diventerà canonica nel caso
della traduzione.
Se lo scopo del tradurre è la cattura del senso, dobbiamo allora staccarci dal corpo del testo.
La fedeltà al senso non può essere fedeltà alla lettera, così come la fedeltà allo spirito non può
essere fedeltà al corpo.
Socrate pregusta la propria felicità perché crede che dopo l’esecuzione il suo corpo e la sua anima
prenderanno due strade diverse e indipendenti. Crede cioè che l’una possa esistere senza l’altro.

32
L’eredità di questo presupposto che ha avuto l’influenza più decisiva nella concezione della
traduzione nella nostra cultura fino ai giorni nostri.

Applicata alle opere, la cesura platonica consacra un certo tipo di “traslazione”, quella del
“senso” considerato come un essere in sé, come una pura idealità, come quell’ “invariante”
che la traduzione fa passare da una lingua all’altra lasciando da parte la sua ganga sensibile,
il suo “corpo”: al punto che l’insignificante, qui, è piuttosto il significante. Allo stesso modo,
tutte le lingue sono una/une in quanto vi regna il logos, ed è questo che, al di là delle loro
differenze, fonda la traduzione. Quest’ultima deve stabilirsi nella sfera dell’idealità e fornire
la prova dell’esistenza di quel puro logos costitutivo di ogni lingua in quanto tale. In tal modo
è negata non solo la confusione di Babele, il “fantasma spaventoso della moltitudine delle
lingue”, ma anche il fatto che questa molteplicità abbia un senso qualunque. La traduzione è
per così dire la dimostrazione dell’unità delle lingue. Proprio come san Paolo diceva: “Morte,
dov’è la tua vittoria?”, essa dice: “Babele, dov’è la tua vittoria?” Essa è dunque la buona
novella della traducibilità universale” (Berman, La traduzione e la lettera. Tr. it: 28 sgg.).

Scrive Berman che il primato del senso finisce per essere inevitabilmente annessionista.
Tale ideologia dà alla propria lingua lo status di mezzo semiotico privilegiato, intoccabile. In esso
il senso deve entrare senza far danni. “Si tratta di introdurre il senso straniero in maniera che esso sia
acclimatato, che l’opera straniera appaia come ‘frutto’ della lingua propria” (Berman, La traduzione
e la lettera. Trad. it.: 29).
Da questa posizione derivano due principi:
“si deve tradurre l’opera straniera in modo che non si ‘senta’ la traduzione,
“la si deve tradurre in modo di dare l’impressione che è ciò che l’autore avrebbe scritto se avesse
scritto nella lingua traducente” (ib.: 30).
Il primo principio fa sì che la traduzione deve farsi dimenticare. Non è un’operazione di scrittura
sul testo tradotto.
Dunque ogni traccia della lingua d’origine deve sparire o deve essere messa sotto controllo. La
traduzione deve essere scritta in una lingua standard, più standard di quella di un’opera scritta
direttamente in quella lingua. La traduzione non deve avere stranezze, non deve dare fastidio.
Il secondo principio porta all’idea che l’opera deve fare la stessa impressione sul lettore d’arrivo
che sul lettore di partenza
(Noi non sappiamo neanche come percepivano i colori i Greci figuriamoci l’effetto. Omero parla
del mare color del vino nell’Odissea)
Berman ha sottolineato come questo atteggiamento nei confronti della traduzione conduce ad
alcune tendenze deformanti che costituiscono l’ideologia della traduzione in Occidente.
Tali tendenze deformanti sono:
la razionalizzazione, la chiarificazione, l’allungamento, la nobilitazione e la volgarizzazione,
l’impoverimento qualitativo, l’impoverimento quantitativo, l’omogeneizzazione, la distruzione di
ritmi, la distruzione di reticoli significanti soggiacenti, la distruzione dei sistematismi testuali, la
distruzione dei reticoli linguistici vernacolari, la distruzione di locuzioni e idiotismi, la cancellazione
delle sovrapposizioni di lingue.
(Cfr. capitolo di Berman)
La razionalizzazione riorganizza il testo secondo una certa idea di ciò che è considerato il corretto
ordine del discorso. La grande prosa ha spesso una struttura arborescente che è l’opposto della logica
lineare. La razionalizzazione porta l’originale dall’arborescenza alla linearità. La razionalizzazione
cancella anche un’altra caratteristica della prosa: l’aspetto di concretezza. Razionalizzazione significa
astrazione e dunque generalizzazione.
Alcuni esempi: si assiste a una razionalizzazione, per esempio, quando si riorganizzano le
sequenze di frasi secondo una certa idea che si ha dell’ordine del discorso. Oppure quando si
interviene sulla punteggiatura (il punto e virgola è molto utilizzato nella narrativa inglese e quasi
scomparso in italiano). Il ritmo unico della prosa di Hemingway è dato proprio dalla punteggiatura.

33
Un altro esempio di razionalizzazione lo presenta Franca Cavagnoli (2017: 13) nell’inizio di Mrs
Dalloway (1925):

What a lark! What a plunge! For so it had always seemed to her, when, with a little squeak of
the hinges, which she could hear now, she had burst open the French windows and plunged at
Bourton into the open air. How fresh, how calm, stiller that this of course, the air was in the
early morning; like the flap of a wave; the kiss of a wave; chill and sharp and yet (for a girl of
eighteen as she then was) solemn, feeling as she did, standing there at the open window, that
something awful was about to happen; looking at the flowers, at the trees with the smoke
winding off them and the rooks rising, falling; standing and looking until Peter Walsh said,
“Musing among the vegetables?” –was that it?– “I prefer men to cauliflowers” – was that it?
He must have said it at breakfast one morning when she had gone out on to the terrace–Peter
Walsh. He would be back from India one of these days, June or July, she forgot which, for his
letters were awfully dull; it was his sayings one remembered; his eyes, his pocket-knife, his
smile, his grumpiness and, when millions of things had utterly vanished–how strange it was–
a few sayings like this about cabbages

È necessaria qui una traduzione che tenga conto della struttura arborescente della sintassi e uso
della punteggiatura. Anche l’ordine degli aggettivi è importante /fresh, calm, still).
Dice Berman che anche la prosa è in movimento e il traduttore deve fare il possibile per non
spezzare la tensione ritmica. Ritmo qui dato anche dalla presenza triadica degli aggettivi che fanno
un crescendo.
Commenta Cavagnoli:

Il periodo che inizia con “How fresh, how calm” e si conclude con “Was that it?” è un esempio
di arborescenza sintattica in chiave modernista. Il ritmo è scandito da molti punti e virgola
oltre che dalle virgole: le pause nella lettura sono dunque molto varie e di misura diversa.
Anche la presenza di incisi e di una specificazione fra parentesi obbliga chi legge a una
continua modulazione della propria voce interiore. Infine l’alternarsi di discorso diretto e
indiretto scandisce ulteriormente il ritmo cangiante di questo brano. Un andamento sintattico
così vario riflette con mirabile precisione l’affluire disordinato dei ricordi e l’incertezza della
memoria nella loro rievocazione. L’arborescenza sintattica di Woolf si fa stile, uno stile
innovativo che segna uno spartiacque nella sensibilità estetica del Novecento.

Una conseguenza della razionalizzazione è spesso la chiarificazione.


La chiarificazione è rendere chiaro ciò che sembra non esserlo o esplicitando ciò che non lo è.
In certo senso la chiarificazione è insita nella traduzione perché ogni traduzione è inevitabilmente un
atto esplicitante. Ma può essere intesa in due sensi: un senso positivo quando la intendiamo la
traduzione come atto che esplicita qualcosa di celato nell’originale. La traduzione, cioè, illumina il
testo in un’altra dimensione rispetto all’originale. In senso negativo, invece, scrive Berman, è quando
la traduzione rende chiaro ciò che non è nell’originale.
L’esempio classico è la trasformazione delle metafore in similitudini. Una metafora, infatti, non
è una similitudine abbreviata ma una macchina di interpretazione aperta. Una metafora è una
macchina aperta di possibili interpretazioni illimitate e la similitudine fra tutte le possibilità ne sceglie
solo una.
L’allungamento ha anch’esso a che fare con la chiarificazione e la razionalizzazione in quanto
ha lo scopo di spiegare il testo. L’allungamento ha anche come conseguenza la rottura del ritmo di
un’opera.
La nobilitazione è secondo Berman il punto finale della traduzione platonica. Il testo tradotto è
meglio dell’originale, viene reso più elegante o più ‘poetico’ là dove l’originale è giudicato più
popolare.

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Anche in questo caso vediamo un esempio tratto da Cavagnoli (2017) quando analizza due
traduzioni dell’incipit di Huckleberry Finn:

“you don’t know about me without you have read a book by the name of…”

Voi non sapete chi sono, a meno che non avete letto un libro che si chiama Le avventure di
Tom Sawyer, ma fa lo stesso. Quel libro l’ha scritto il signor Mark Twain, che ha detto la
verità, in genere. Un po’ di cose le ha pompate, ma in genere ha detto la verità.

Voi non sapete chi sono a meno che non abbiate letto un libro intitolato Le avventure di Tom
Sawyer. Ma la cosa ha poca importanza. Quel libro è stato scritto dal signor Mark Twain, che
ha detto la verità, in genere. Un po’ di cose le ha esagerate, ma in genere ha detto la verità.

Nella prima versione (quella pubblicata) viene snaturato completamente il linguaggio ribelle di
Huckleberry Finn. Il flusso del discorso va rispettato nella sua torrenzialità e nell’uso delle regole
della lingua orale e non della lingua letteraria scritta. Huck dice “without” invece di “unless”: è la
prima di innumerevoli deviazioni dalla lingua scritta e dallo standard letterario (Cavagnoli 2017)
La volgarizzazione è l’opposto della nobilitazione e avviene quando si fa ricorso a una varietà
più bassa del testo originario.
Si ha invece impoverimento quantitativo e qualitativo quando per esempio non si mantiene
l’iconicità della parola (per es. farfalla) o quando non si rispetta la ricchezza lessicale (faccia, viso,
volto, per esempio).
L’ omogeneizzazione è la risultante delle tendenze precedenti. Con l’omogeneizzazione tutti i
piani dell’originale vengono tendenzialmente unificati.
“Il traduttore, che lo voglia o no, è obbligato a dare al testo un colpo di pettine (…)” (Boris de
Schloezer). Il sistematismo di un’opera supera il livello dei significanti: si estende al tipo di frasi, di
costruzioni utilizzate. L’impiego dei tempi è uno di questi sistematismi.
Distruzione dei ritmi. Scrive Berman:

Il romanzo, la lettera, il saggio, non sono meno ritmici della poesia. Sono anzi molteplicità
intrecciata di ritmi. Essendo dunque la massa della prosa in movimento, la traduzione fa fatica
(fortunatamente) a distruggere questa tensione ritmica. Ne viene che, anche se “mal” tradotto,
un romanzo continua coinvolgerci. Tuttavia la deformazione può affliggere
considerevolmente la ritmica, per esempio attaccando la punteggiatura” pp.50

La distruzione dei reticoli significanti elimina i rimandi soggiacenti fra i significanti chiave che
non appaiono in superficie ma sono fondamentali nell’economia del testo.
Un autore come Beckett usa per l’ambito della visione certi verbi, aggettivi e sostantivi – non
altri. La traduzione tradizionale nemmeno percepisce questa sistematica p. 52
Così pure con la distruzione dei sistematismi, che aggiunge o toglie elementi, il testo viene
addomesticato e reso leggibile. p.52.
Il sistematismo di un’opera supera il livello dei significanti, si estende alle frasi, alle costruzioni.
Es. l’uso dei tempi oppure il ricorso a un tipo particolare di subordinata
La distruzione o l’esotizzazione dei reticoli linguistici vernacolari:

Solo le koinè, le lingue “coltivate” possono tradursi l’un l’altra. Una simile esotizzazione, che
rende lo straniero di fuori con quello di dentro, finisce solo per ridicolizzare l’originale” p.53.

Dialetti e vernacoli, come ogni varietà locale, sono profondamente radicati nella loro terra di
origine. Non è possibile trasformare lo Straniero che viene da fuori nello Straniero di casa propria
(traducendolo con un dialetto locale). Così facendo si rischia di coprirlo di ridicolo e di banalizzare
il testo che si sta traducendo. In questo caso Berman parla di esotizzazione.

35
La distruzione delle locuzioni
Nella prosa troviamo immagini, locuzioni, costruzioni, proverbi riconducibili in parte a una
saggezza popolare. Queste veicolano un senso o un’esperienza che ritroviamo in locuzioni di altre
lingue: Red sky at night, sailor’s delight – rosso di sera, bel tempo si spera.
Scrive Berman che anche se il senso è identico, sostituire un idiotismo con il suo equivalente è un
etnocentrismo che se ripetuto porta a l’assurdità per cui i personaggi di un romanzo francese si
esprimo con immagini italiane.

Gli equivalenti di una locuzione o di un proverbio non li sostituiscono. Tradurre non significa
cercare equivalenze. Inoltre, volerle sostituire significa ignorare che esiste in noi una
coscienza-di-proverbio che percepirà immediatamente, nel nuovo proverbio, il fratello di un
proverbio nostrano. È osservabile nella catena: Il mondo appartiene a coloro che si alzano
presto (francese) L’oro del mattino ha l’oro in bocca (tedesco) L’uccello del mattino canta più
forte (russo) (p.54)

• Es: “come se non ci fosse un domani”

The Cake
I wanted one life
you wanted another
we couldn’t have our cake
so we ate each other

(Roger McGough, The Cake)

La moglie piena
Io volevo una vita
tu ne volevi un’altra
ubriachi tutta la notte
ci siamo riempiti di botte

(traduzione di Franco Nasi)

Cancellazione della sovrapposizione di lingue: appiattiscono e standardizzano il testo tradotto


per renderlo un prodotto fruibile per il lettore nella lingua in cui si traduce. Come abbiamo già detto,
questa tendenza deformante, cioè la cancellazione della sovrapposizione di più varietà della stessa
lingua, è molto insidiosa per chi traduce narrativa postcoloniale. Qui troviamo spesso la compresenza
di due livelli linguistici e se se ne cancella uno, non si avverte la pressione dal basso che esercita la
varietà locale sulla lingua inglese.

Le tendenze appena analizzate formano un tutto, che definisce ciò che intendiamo per lettera:
la lettera sono tutte le dimensioni attaccate dal sistema di deformazione. Questo sistema
definisce, a sua volta, una certa immagine tradizionale del tradurre.
Non è il prodotto di principi teorici. Piuttosto le teorie della traduzione scaturiscono da questo
terreno, per sanzionare ideologicamente questa immagine, posta come evidente.
E non possono fare che questo. Ogni teoria della traduzione è LA TEORIZZAZIONE DELLA
DISTRUZIONE DELLA LETTERA A VANTAGGIO DEL SENSO. (Berman)

La traduzione retta da queste forze e tendenze è fondamentalmente iconoclasta. Essa disfa il


rapporto sui generis che l’opera ha istituito fra la lettera e il senso, rapporto dove è la lettera
ad “assorbire” il senso. Essa lo disfa per istituire un rapporto inverso, dove dalle rovine della

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lettera dislocata zampilla un senso più puro. Non vi è in ciò alcun ‘errore’ in senso banale. Ma
una sorta di necessità. Potrebbe darsi che la distruzione sia uno dei rapporti con un’opera.
Potrebbe darsi che l’opera invochi anche questa distruzione. La liberazione e l’espressione
del senso operate dalla sistematica deformante non sono un’inezia. Esistono del resto altri
modi di distruggere un’opera: la parodia, il pastiche, l’imitazione e – soprattutto – la critica.
Di fatto, critica e traduzione (orientate sul senso) sono i modi fondamentali di distruzione
delle opere. Ma se questa distruzione ha la sua necessità, non ne segue che questa debba essere
il solo modo di rapportarsi a un’opera. Né il modo preponderante.
Quando critichiamo il sistema delle tendenze deformanti, lo facciamo in nome di un’altra
tendenza del tradurre. Poiché se, sotto certi rapporti, la lettera deve essere distrutta, sotto altri
– più essenziali – essa deve essere salvata e mantenuta (Berman, La traduzione e la lettera.
pp. 55-56).

Quando si studia il sistema di deformazione che interviene nella figura tradizionale della
traduzione, si ha l’impressione che quest’analisi “negativa” invochi necessariamente
un’analisi positiva, un’analisi del “ben tradurre”. Tuttavia è impossibile passare direttamente
dall’una all’altra (Berman, La traduzione e la lettera. 56).
Se si procedesse in questo modo, non si farebbe che opporre alle forze deformanti una serie
di “ricette” più o meno concrete miranti a un’”arte del tradurre”, vale a dire fondamentalmente
a una nuova metodologia, non meno normativa e dogmatica delle anteriori.
La traduzione dipenderebbe da una metodologia solo SE NON FOSSE CHE UN PROCESSO
DI COMUNICAZIONE, di trasmissione di messaggi da una lingua di partenza a una lingua
di arrivo.Questo punto di vista mette sullo stesso piano la traduzione di un testo tecnico e
quello di un’opera sulla base che si tratta sempre di un messaggio inviato da un mittente in
una lingua x e trascritto in una lingua y per un ricevente.
Un testo tecnico è certamente un messaggio che mira a trasmettere in maniera (relativamente)
univoca una certa quantità d’informazioni. Ma un’opera non trasmette alcuna specie
d’informazione, anche se ne contiene: “essa apre all’esperienza di un mondo” (p. 58).

Dunque, insiste Berman, è solo in senso molto generale che c’è qualcosa di comune. Questo
inoltre è possibile solo se pensiamo che “messaggi” e “testi” siano la stessa cosa. Nella traduzione i
messaggi dipendono da una metodologia, questo non è vero per i testi. Humboldt aveva già presentato
con chiarezza la questione:

Ogni traduttore incontrerà immancabilmente uno dei due scogli seguenti: o seguirà con
scrupolo l’originale, a scapito del gusto e della lingua del suo popolo, o aderirà all’originalità
del suo popolo, a scapito dell’opera da tradurre” (Lettera a Schlegel)

Scrive Berman:

È evidente che il traduttore debba anche pensare al pubblico, o, più precisamente, alla
leggibilità della sua traduzione. Questo ci porta al divulgatore scientifico, che “traduce” il
linguaggio specialistico nella lingua comune. Il linguaggio specialistico va perduto e la “vera”
trasmissione del sapere non avviene. C’è una perdita simile a quella che avviene quando si
mette in prosa una poesia. Questo avviene perché il divulgatore pensa solo alla
comunicazione. Oggi certi scienziati propongono un tipo diverso di divulgazione che cerca
una trasmissione che rispetti la natura della lingua scientifica e la comprensione da parte dei
non specialisti. Questo richiede una riflessione seria che non avviene nella divulgazione
banale. Accade lo stesso nella traduzione: rendere accessibile l’originale non significa
“volgarizzarlo”. Emendare un’opera delle sue stranezze per facilitarne la lettura porta solo a
sfigurarla e, dunque, a ingannare il lettore che si pretende di servire. Occorre, al contrario,
come nel caso della scienza, un’educazione alla stranezza.” (p. 60).

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Che il fine della traduzione non sia solo la comunicazione lo ha chiarito bene Walter Benjamin
ne Il compito del traduttore.
Ma cosa dice un’opera poetica? Che cosa comunica? Assai poco a chi la comprende.
L’essenziale, in essa, non è comunicazione, non è testimonianza. Ma la traduzione che volesse
trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione – e cioè qualcosa di
inessenziale. Ed è questo infatti un segno di riconoscimento delle cattive traduzioni… Di qui
deriva, in effetti, un secondo contrassegno della cattiva traduzione… una trasmissione
imprecisa di un contenuto inessenziale. E così si resta finché la traduzione pretende di servire
il lettore.

Qual è dunque l’obiettivo della traduzione? Quello che dà senso alla comunicazione culturale
che è e che fonda tale comunicazione?
L’obiettivo è
ETICO
POETICO
FILOSOFICO (nel senso di rapporto con la verità)

L’atto etico consiste nel riconoscere e ricevere l’Altro in quando Altro…

Questa natura dell’atto etico è implicitamente contenuta nelle saggezze greca ed ebraica, per
le quali sotto la figura dello Straniero l’uomo incontra Dio o il Divino. Accogliere l’Altro, lo
Straniero, invece di respingerlo o cercare di dominarlo, non è un imperativo. Nulla ci obbliga”
(p. 61).
Naturalmente, come sappiamo, non è andata storicamente sempre così. Al contrario,
l’obiettivo appropriatore e annessionista che caratterizza l’Occidente ha quasi sempre
soffocato la vocazione etica della traduzione. La “logica dello stesso” ha quasi sempre
prevalso. ciò non impedisce che l’atto di tradurre obbedisca ad un’altra logica, quella
dell’etica. È per questo che, riprendendo la bella espressione di un trovatore, noi diciamo che
la traduzione è, nella sua essenza, l’”albergo nella lontananza”(p.62)
L’obiettivo etico del tradurre, proprio perché si propone di accogliere l’Estraneo… non può
che applicarsi alla lettera dell’opera. Se la forma dell’obiettivo è la fedeltà, occorre dire che
c’è fedeltà solo alla lettera. Essere fedele a un contratto significa rispettarne le clausole, non
lo “spirito” del contratto. Essere fedeli allo “spirito” di un testo è una contraddizione in
termini” (p. 63).

Non si tratta di gerarchie. Si tratta invece di capire che sono cose diverse. Scrive Berman:
“Un testo non è mai un messaggio, e viceversa” (p. 58).
Il traduttore che traduce per il pubblico è portato a tradire l’originale nel senso che è portato a
preferirgli il suo pubblico, che comunque non tradisce di meno dandogli un’opera “aggiustata”.

La traduzione appartiene a questa dimensione etica. Essa è animata dal desiderio di aprirsi
all’Altro in quanto Altro, estraneo al proprio spazio di lingua.

Scrive Franca Cavagnoli:

Tradurre non vuol dire soltanto restituire il significato. E soprattutto non significa produrre
un testo più elegante dell’originale. Non si può, cioè, distruggere la lettera a favore del senso.
Tradurre significa indubbiamente restituire un significato, ma nel farlo è importante cercare
di avvicinarsi il più possibile al modo in cui quel certo significato è espresso, attenendosi alla

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lettera di quanto è stato scritto, al suo senso più immediato. È necessario lavorare duramente
sulla lettera perché solo in questo modo si può dare degna accoglienza allo Straniero senza
snaturarlo e assimilarlo, come ci ricorda Berman nel suo saggio, ma anche come ci ricorda
Benjamin quando afferma che la fedeltà è garantita dalla letteralità (Cavagnoli 2017: 88-89).

Chi non ha esperienza di traduzione è convinto che chi traduce proceda secondo un filo logico
che dalla parola porta alla frase, quindi al testo e infine all’ambiente culturale in cui quel testo
è germinato. È invece vero il contrario: solo se si è impregnanti di una certa cultura grazie a
vaste letture si è in grado di scendere dal testo alla frase e infine alla parola. Ma a questo punto
è necessario compiere un passo ulteriore (…) È un invito a rispettare la lettera dello Straniero
e non solo lo spirito. La lettera – nella sua fermezza, nella sua consistenza, nella sua
concretezza – ha una sua vita, la lettera è la carne della parola, ed è questa vita, questa carne,
che ispira chi traduce. Quindi è un attento e scrupoloso lavoro sulla lettera che restaura il
processo di significazione di un’opera e, così facendo, trasforma la lingua della traduzione.
(Cavagnoli 2017: 6)

La traduzione etica nella posizione di Berman presuppone una fedeltà, o meglio una lealtà alla lettera
del testo:

L’obiettivo etico del tradurre, proprio perché si propone di accogliere l’Estraneo… non può
che applicarsi alla lettera dell’opera. Se la forma dell’obiettivo è la fedeltà, occorre dire che
c’è fedeltà solo alla lettera. Essere fedele a un contratto significa rispettarne le clausole, non
lo “spirito” del contratto. Essere fedeli allo “spirito” di un testo è una contraddizione in
termini. (Berman, p. 63)

L’esigenza di aderire alla lettera è una consapevolezza acquisita dai grandi traduttori e traduttrici,
come Franca Cavagnoli:

Tradurre non vuol dire soltanto restituire il significato. E soprattutto non significa produrre
un testo più elegante dell’originale. Non si può, cioè, distruggere la lettera a favore del senso.
Tradurre significa indubbiamente restituire un significato, ma nel farlo è importante cercare
di avvicinarsi il più possibile al modo in cui quel certo significato è espresso, attenendosi alla
lettera di quanto è stato scritto, al suo senso più immediato. È necessario lavorare duramente
sulla lettera perché solo in questo modo si può dare degna accoglienza allo Straniero senza
snaturarlo e assimilarlo, come ci ricorda Berman nel suo saggio, ma anche come ci ricorda
Benjamin quando afferma che la fedeltà è garantita dalla letteralità. (Cavagnoli 2017: 88-89)

Chi non ha esperienza di traduzione è convinto che chi traduce proceda secondo un filo logico
che dalla parola porta alla frase, quindi al testo e infine all’ambiente culturale in cui quel testo
è germinato. È invece vero il contrario: solo se si è impregnanti di una certa cultura grazie a
vaste letture si è in grado di scendere dal testo alla frase e infine alla parola. Ma a questo punto
è necessario compiere un passo ulteriore (…) È un invito a rispettare la lettera dello Straniero
e non solo lo spirito. La lettera – nella sua fermezza, nella sua consistenza, nella sua
concretezza – ha una sua vita, la lettera è la carne della parola, ed è questa vita, questa carne,
che ispira chi traduce. Quindi è un attento e scrupoloso lavoro sulla lettera che restaura il
processo di significazione di un’opera e, così facendo, trasforma la lingua della traduzione.”
(Cavagnoli 2017: 6)

Questa idea dell’estraneità e di come accoglierla ci conduce alla fase dei post translation studies,
in cui il tema della traduzione diventa emblematico della contemporaneità. La traduzione non
riguarda più solo i testi. In questa contemporaneità noi ci traduciamo, passiamo da una parte all’altra

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del mondo in un processo continuo di traduzione. Tradurre non è più tradurre testi ma è tradurre
l’identità.
Il tema della traduzione tocca la questione dei confini, delle identità in transito. Scrive Arduini
che “è proprio nella traduzione che si mostra chi effettivamente siamo”. Lo dice anche Heidegger,
“la difficoltà di una traduzione è qualcosa che tocca il rapporto dell’uomo all’essenza della parola e
con la dignità della lingua. Dimmi come consideri la traduzione e ti dirò chi sei” (Heidegger 2003,
p.58)
Siamo quindi immersi nelle traduzioni ed è affiorata nella cultura la convinzione che la traduzione
eserciti una funzione di gran lunga superiore a quello che si può pensare perché mette in gioco il
rapporto con l’altro, la questione della diversità e ci fa riflettere su chi siamo.
Perché la traduzione? Semplicemente perché le lingue sono diverse? In realtà non è così, non si
traduce solo perché non si conosce l’altra lingua. Non è stato così per mondo romano che traduce i
Greci e nemmeno per il Rinascimento italiano che volgarizza la classicità. Quindi cosa cerchiamo
nella traduzione? Certo qualcosa in cui riconoscerci, ma anche, e con più desiderio, ciò che ci è
estraneo.

C’è un desiderio di relazione nella traduzione, un desiderio di definire il proprio sé nel


rapporto con l’altro da sé, che non escluda l’altro ma lo riconosca (…) in un rapporto di
amicizia. Come se nella relazione con l’altro da sé fosse possibile superare la nostra
limitatezza. Dunque sì, la traduzione esiste perché gli uomini hanno lingue diverse e in quella
diversità riconoscono un valore, una possibilità di completamento. Noi diamo un ordine al
mondo attraverso delle categorie che la lingua ci aiuta a costruire, ma questa è una visione
parziale e limitata. Lo sappiamo, siamo perfettamente consapevoli che ci manca qualcosa nel
leggere la realtà e che abbiamo bisogno di un altro che ci aiuti. Ho sostenuto che è nel rapporto
di reciprocità che questo avviene, quando l’altro, con tutta la sua alterità, diventa per noi un
amico. Solo quando siamo esposti alla diversità che le lingue ci impongono e capiamo che
quella diversità non è estraneità, solo in quel momento, abbiamo come la sensazione di poter
andare oltre la nostra finitezza (Arduini 2021, p. 63)

Amicizia nei termini in cui la intende Florensky: un tipo di rapporto in cui sai che l’altro è diverso
e nonostante questa diversità cerchi il rapporto. È non è un rapporto di comprensione perché spesso
non ti capisci. L’altro non lo potrai mai comprendere. L’amicizia finisce quando cerchi di eliminare
questa incolmabile differenza. L’amico è altro da sé.

Quindi rapporto in cui riconoscerci. Nella traduzione c’è sempre una perdita (da qui la malinconia
del traduttore di Nasi) e c’è sempre stato il desiderio di superare questa perdita (teorie
dell’equivalenza), desiderio di trovare una forma di compensazione.
Arduini, cogliendo un accenno di Ricoeur, cita un breve testo di Freud, Vergänglichkeit
(Caducità) 1915 che prende spunto da un colloquio tra Freud e due amici. Il brano parla di una
passeggiata in cui il poeta è turbato della caducità del bello e proprio per questo non vuole goderne
fino in fondo perché poi svanirà. Al contrario Freud osserva che la limitazione della possibilità del
godimento ne aumenta il suo pregio. Quindi non possiamo godere pienamente delle cose perché sono
destinate a svanire. Questione del lutto e elaborazione del lutto, lavoro del lutto che permette di
superare la perdita senza cancellarla, rende possibile il nuovo, apre le possibilità che favoriscono la
creazione. Il lavoro del lutto evita la malinconia. L’elaborazione del lutto apre a esperienze di vita
che il lutto ti preclude. Paragone con la traduzione: solo accettando la perdita del testo originale puoi
essere in una condizione di apertura al nuovo.
Solo accettando la perdita siamo in grado di accettare che ogni traduzione è una forma di
riscrittura ovvero un testo che a partire da un altro testo crea contenuti nuovi nella cultura che lo
riceve.
Tutto questo ci fa capire che tradurre non è semplicemente il passaggio da una lingua all’altra di
un qualche senso già determinato, ma che siamo veramente in grado di tradurre solo quando siamo

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riusciti ad accettare che non possiamo prevedere quale sarà la deriva di quel senso. Quando abbiamo
superato il senso di perdita insito in qualsiasi traduzione.
Dal momento che tu accetti che c’è qualcosa che puoi aver perso allora puoi pensare che c’è
qualcosa che trovi, da qui la creatività. Se ne hai consapevolezza come traduttore il tuo atteggiamento
è diverso. Non malinconia o disagio ma in questo sforzo c’è il nuovo.

Chi traduce deve cogliere la diversità ma al tempo stesso deve essere in grado di accoglierla. E
l’accoglienza è possibile solo quando l’alterità viene riconosciuta senza tentativi di annetterla. In un
rapporto di “amicizia” in cui cogliamo e accogliamo la diversità definiamo anche la nostra identità.

Da questo punto di vista la traduzione va al di là dei muri, riguarda il rapporto con l’altro e ha
a che fare con il modo in cui gli individui e le culture riescono a costruire la propria identità
in un processo che vede in gioco la differenza, la somiglianza e il tentativo di far dialogare il
sé e l’altro da sé (Arduini 2021, p. 69).

L’apertura all’altro è un’apertura alla realtà, l’incontro con l’altro ci mette in cammino, ci apre
nuove strade. La traduzione incarna il desiderio di incontrare l’altro per meglio comprendere sé stessi.
Ogni traduzione è un nuovo incontro.
Ci sono due modi per pensare all’alterità: o l’accetti rinunciando alla tua identità (sottomissione)
oppure mantieni la tua identità e quindi l’incontro con l’altro è fra due identità che rimangono distinte.
Il modello della nuova alterità è quella dell’ospitalità. Nell’alterità dell’altro uno definisce la
propria identità. La tua identità si rafforza, le due si rafforzano. Come negli intraducibili si amplia la
tua possibilità di vedere.
Non più come ha fatto la filosofia occidentale di guardare l’altro a partire da sé ma guardare sé a
partire dall’altro. Ci si pone sul piano della reciprocità.
E l’unico modo di criticare una traduzione, dice Ricoeur, è di proporne un’altra differente perché
all’esperienza di un incontro si può opporre solo un’altra esperienza. Pensiamo alle continue
ritraduzioni: nuove traduzioni per nuovi incontri.
L’alterità va riconosciuta come tale (Ricoeur), alterità che può essere tenuta in considerazione
senza annullarla solo in un rapporto di amicizia (Florensky).
Si tratta di una svolta in più rispetto a Berman: non solo pensare l’altro in quanto altro ma entrare
in rapporto con la diversità dell’altro. Consapevolezza della diversità e rielaborazione del lutto della
perdita. L’alterità non è ricomponibile. Quindi come faccio a superare questa cosa. Come si manifesta
nella traduzione? Si manifesta per esempio davanti agli intraducibili. Gli intraducibili sono importanti
perché ti fanno trovare di fronte al problema della perdita.
P. Ricoeur usa una bellissima espressione che è “ospitalità linguistica”.
Attraverso la traduzione una cultura si arricchisce, pensiamo all’incontro della nostra letteratura
con la poesia provenzale che dà luogo alla poesia italiana.
Lo sguardo della traduzione ha donato orizzonti nuovi.
Traduzione come educazione all’ospitalità. Educa a un incontro che porta all’accoglienza e
all’ospitalità.

Conclusioni

Questo corso ci è servito per capire quello che non è la traduzione e offrire una proposta
alternativa alle idee correnti sulla traduzione. Circolano tanti discorsi sulla traduzione che
presuppongono un’idea di linguaggio e significato che sono spesso ingenue. Discorsi che circolano
da sempre.

3 tappe verso una consapevolezza:


1) Cosa non è la traduzione e autonomia della traduzione (consapevolezza tecnica)
2) Un modo diverso di considerare la traduzione che implica una teoria semantica, su cosa è il significato

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3) Un entrare ancora più alla radice la traduzione che presuppone un’idea del rapporto con l’alterità.
Accogliere l’altro capendo la differenza. Il nostro guardare l’altro deve essere diverso per guardare
in modo sensato

1. Cosa non è la traduzione (risultato tecnico):


- la traduzione non è una semplice questione di equivalenze
- non è un prodotto secondario e servile,
- non è definibile solo in termini linguistici
- non è la trasposizione di un messaggio che rimane inalterato
- non è mai un’operazione neutra, ecc.
Ma la traduzione ha una sua autonomia e un valore autoriale. La traduzione ha un valore in quanto
traduzione.
- I testi tradotti sono testi autonomi che circolano nelle culture d’arrivo in maniera diversa rispetto alle
culture di partenza.
- La traduzione non è un sottoprodotto letterario.
Valore autonomo, v. decalogo di Venuti

2. Il primo livello porta inevitabilmente a un secondo livello che riguarda la teoria della lingua e del
significato:
- Il senso non viaggia inalterato (risultato teorico/semantico)
- non avviene il passaggio di un significato intatto ma avviene una produzione di significato.
- Dire che la traduzione ha un valore autonomo contempla inevitabilmente una teoria semantica, per
cui il significato non è un’invariante ma che ha a che fare con una serie di elementi che riguardano il
rapporto che instauri con l’altro.
- Tradurre è sempre un atto interpretativo che non può essere espresso nei termini di fedeltà o infedeltà
perché l’oggetto della presunta fedeltà cambia nelle diverse epoche e culture.
È una consapevolezza che riguarda soprattutto il valore della traduzione (translation changes
everything, scrive L. Venuti), cioè che la traduzione ha un valore più radicale che il semplice trattare
i testi tradotti perché implica un modo di pesare il significato, la lingua e la cultura e l’alterità.

3. Questo ci porta a un terzo livello di consapevolezza: come facciamo a tradurre questo significato?
Non siamo solo teorici e quindi è una domanda che dobbiamo porci.
- Per poter tradurre un significato che cambia dobbiamo accogliere l’altro in quanto altro entrando nella
lettera del testo per coglierne la carne.
- Bisogna essere consapevoli che il legame tra forma e contenuto è inscindibile e una teoria del senso
non fa altro che distruggere l’opera letteraria.
- Essere consapevoli che la frattura è inevitabile ma che si può ricreare un nuovo equilibrio.
- Essere consapevoli che in ogni incontro c’è una differenza che dobbiamo accettare e cogliere.
Potremmo quindi concludere dicendo che la traduzione è un tipo di ospitalità linguistica a cui Ricoeur
aggiunge che si tratta di un’ospitalità linguistica emblematica di qualunque altro tipo di ospitalità.

Si tratta quindi entrare ancora più in profondità e arrivare alla radice della traduzione che
presuppone un’idea del rapporto con l’alterità. Accogliere l’altro capendo la differenza.

Siamo partiti da una questione tecnica per arrivare a una forma di ospitalità. Se è l’emblema di
qualunque tipo di ospitalità (come dice Ricoeur) è l’emblema di qualunque rapporto con l’altro.
È uno snodo, come direbbe Levinas, “un rapporto con il volto dell’altro”.

@robertafabbri

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