Sei sulla pagina 1di 20

© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol.

2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Annalisa Caputo

Ripensare il dialogo, partendo da François Jullien

Abstract: The word dialogue is not unblemished – F. Jullien writes –, because it is composed with Western
‘logos’ (dia-logos), logos that was and is often conceptual/dominant/dominating. Moving between texts of a
more intercultural type (such as There Is No Such Thing As Cultural Identity) and of a more interpersonal
nature (such as About Intimacy), this essay tries to play these two levels with each other, to give substance to
the attempt to pass from dia-logos (dialogue) between identity/differences to entre-tenir… écarts: because
only in this way life can fertilize life. And the unpredictable can become a resource and not just an offense.

Il termine dialogo non è senza macchia, scrive F. Jullien, perché ha nella sua composizione quel logos
occidentale che si è dato spesso in maniera concettuale/dominante/dominatrice. Spostandosi tra i testi di tipo
maggiormente interculturale (come L’identità culturale non esiste) e quelli maggiormente di carattere
interpersonale (come Sull’intimità), il saggio prova a giocare questi due livelli tra loro, per dare corpo al
tentativo di passare dal dia-logos tra identità/differenze all’in-tra-ttenersi tra scarti (e comune): perché solo
così la vita può fecondare la vita. E l’imprevedibile può farsi risorsa e non solo offesa.

Keywords: Dialogue, François Jullien, Cultural Identity, Entre-tenir, Écarts


Parole chiave: dialogo, François Jullien, identità culturale, intrattenersi, scarti

***

Premessa

Più che una riflessione ‘su’ François Jullien, scrittore troppo poliedrico e complesso per
essere rinchiuso in un saggio1, queste pagine sono nate come una raccolta di interrogativi e
di prospettive ‘a partire da’ Jullien, filosofo che è diventato noto innanzitutto per i suoi studi
sul pensiero cinese2. Le sue osservazioni, infatti, risuonano come doccia fredda e invito, a
ripartire: non dando per scontato nemmeno il dialogo in se stesso.
Nella prima parte del saggio, lavoreremo soprattutto sul capitolo intitolato Dia-logo del
libricino jullieniano del 2016: L’identità culturale non esiste (IC)3. Prenderemo queste
pagine in qualche modo come fondative, perché, in maniera sintetica ed efficace, chiariscono
i termini della questione, partendo dall’analisi dei conflitti che si creando quando si
incontrano e scontrano tra loro diverse culture.
Nella seconda parte del saggio, invece, ci chiederemo come sia possibile vivere
un’esperienza di dialogo autentico. E, per farlo, prenderemo alcuni spunti dai testi in cui
Jullien affronta il tema dell’intimità. Il tentativo sarà, quindi, speculare rispetto a quello
della prima parte: non dal livello interculturale a quello personale, ma viceversa; d’altra
parte si tratta di piani mai del tutto separabili nella logica jullieniana4.

1 Per una introduzione al pensiero di Jullien, rimandiamo a R. Rigoni, Tra Cina ed Europa. Filosofia
dell'«écart» ed etica della traduzione nel pensiero di François Jullien, prefazione di François Jullien, Mimesis
Milano-Udine, 2014.
2 Cfr. per lo meno F. Jullien, Elogio dell'Insapore. A partire dal pensiero e dall'estetica cinese, tr. it. Cortina,

Milano, 1999; Figure dell'immanenza. Una lettura filosofica del I Ching, tr. it. Laterza, Roma-Bari, 2005. Più
di recente: Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, tr. it. Feltrinelli,
Milano, 2017. La versione originaria di questo articolo, più ampia, e comprendente anche una terza parte in
dialogo con la teologia è apparsa in AA. VV., Pensare e vivere il dialogo. Teologia e filosofia per dire Dio e
l’umano in un mo(n)do plurale, a cura di A. Caputo, Ecumenica ed., Bari, 2021.
3 Tr. it. Einaudi, Torino, 2018 (cap. VII); d’ora in poi IC.
4 È Jullien stesso ad aver mostrato con tutto il suo percorso che quello che vale per l’incontro tra culture, vale

anche per quello tra individui, esperienze, lingue, società, religioni. E viceversa.
61
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

I) Prima parte. Dal dia-logos tra identità (e differenze) all’intrattenersi tra


scarti (e comune)

I.1) Due modelli dominanti: il dialogo-sintesi e il dialogo-analisi

Partiamo, dunque, dalle pagine che concludono L’identità culturale non esiste5. Il
capitolo si apre ripercorrendo brevemente alcuni modi in cui «è stato immaginato il dialogo»
(IC, 71).
Il primo potremmo chiamarlo il modello della ‘sintesi’: due identità differenti, chiamate
ad un ‘accordo e completamento’ per formare ‘un insieme unificato’. Il dialogo come
hegeliana dialettica, se così vogliamo dire, in cui «le divergenze verrebbero meno, in cui il
comune, assorbendolo, avrebbe la meglio sul diverso». Interessante il richiamo che Jullien
fa al «matrimonio simbolico» (IC, 71): Due che diventano Uno; sogno e mito che attraversa
sia l’esperienza greca (pensiamo alla storia raccontata da Aristofane nel Simposio platonico)
sia quella ebraica (pensiamo all’interpretazione letterale di Gn 2,24: «i due saranno una sola
carne»). Questo immaginario – che in altri luoghi abbiamo chiamato provocatoriamente
«uno più uno fa uno»6 – si estende nel tempo e nei luoghi del dialogo, facendo utopicamente
sposare perfino i due poli estremi dell’East and West, fa notare Jullien. Ma a livello
interculturale si ripropone il paradosso che si dà a livello interpersonale, là dove, sappiamo
bene, uno più uno fa due, e la durezza dell’alterità non consente nessuna reale assimilazione.
Torneremo su questo. In ogni caso, seguendo Jullien, possiamo dire che il dialogo
assimilativo non funziona. O, meglio, paradossalmente funziona benissimo, così come è
risultata vincente la colonizzazione occidentale dei diversi. E così come è apparso efficace lo
strumento del dialogo, che, però, in realtà è sempre stato nella lingua dell’occidente, nel suo
logos e quindi delle sue categorie. Possiamo avere le migliori intenzioni, ma
paradossalmente quanto più il dialogo riesce nella sintesi, tanto più è probabile che in
maniera sottesa abbia portato avanti una «uniformazione camuffata [...] e noiosa [...], che,
riassorbendo le tensioni e riducendo gli scarti [...], [abbia creato] un comune fittizio, perché
per promuoversi in quanto comune non [ha] fatto agire il diverso» (IC, 74).
Emerge, allora, un’altra possibilità, alternativa al dialogo-sintesi: quella del dialogo-
analisi, cioè della ricerca del «comune denominatore» (tra individui, esperienze, culture). I
diversi, in questo caso, vengono «scomposti in elementi primi per distinguervi quello che
concorderebbe». Prendiamo i Due nella loro durezza, nella loro identità, e decomponiamo
le loro parti: un pezzo di qua, un pezzo di là. Tra i tanti pezzettini dell’uno e dell’altro, si
troverà qualcosa di «simile, analogo» (IC, 74)! Togliamo tutto il resto e lavoriamo per
cercare interazione e mediazione rispetto a questi frammenti.
Dal punto di vista interpersonale – se ci è concessa una riflessione oltre la lettera di Jullien
– è un modello interessante, perché ci rimanda a quello che purtroppo accade spesso:
prendo di te quello che assomiglia a me, perché su questo troviamo intesa e pace. Mentre,
tutto il resto lo scarto, perché, non essendo simile a me, non è possibile che su questo
troviamo dialogo e accordo.
Jullien ricorda che questo è spesso un modello-base (rischioso) del dialogo interculturale
e religioso. Richiama il pur prezioso lavoro dell’Unesco che, «come elemento minimale, ma
che parrebbe indubitabile, [ha] stabilito che tutte le concezioni morali e tutte le tradizioni
religiose, in tutto il mondo, preconizzano la pace» (IC, 75). Jullien, però, si chiede dove
finisca così il valore dello scontro, della lotta. Filosoficamente il richiamo si muove da
Eraclito ad Hegel, che, valorizzando gli opposti, non hanno potuto far a meno di valorizzare

5 Si tratta di pagine interessanti perché – forse proprio il contesto interculturale – aiuta Jullien non solo nel
decentramento, ma nel ripensamento radicale del dialeghein, a partire da ciò che si pone come maggiormente
distante rispetto al nostro modo di parlare, pensare (logos) e quindi dialogare.
6 Cfr. A. Caputo, Amore e reciprocità, Stilo, Bari, 2017.

62
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

anche il polemos. Evitare il contrasto significa evitare il confronto e automaticamente


perdere la possibilità di qualsiasi forma di unità.
Dunque, anche questa seconda modalità del dialogo – che riduce la diversità ad elementi
minimalmente comuni – ricade «nella banalità dei truismi, […], che però non sono true»
(IC, 75). Nel primo caso l’assimilazione fa perdere la distanza, nel secondo caso l’ipotetica
convergenza di alcune parti fa perdere la profondità delle specificità.

I.2) Il modello dell’etica del discorso e i limiti del logos/parola occidentale

Un terzo modello è quello che Jullien riporta filosoficamente all’etica del discorso di Apel
e Habermas, ma che – possiamo dire – è in fondo sotteso a gran parte della postura
occidentale: la ricerca di un «comune logico dell’umanità». Logico qui è aggettivo legato
anche a logos. Quindi, riconoscendo la comunità umana «in quanto comunità
comunicazionale» (IC, 76), per ben dialogare, dobbiamo riconoscere le condizioni di
possibilità del parlare stesso.
La Diskursethik7 è per certi versi affascinante. Se parlo, vuol dire che in fondo –
implicitamente – ho riconosciuto il valore del discorso, le sue pretese universali di validità.
(a) La comprensibilità (Verständlichkeit): se inizio a dialogare con un altro/a dicendo,
per esempio, «raphél maì amèche zabì almi» (come fa Nimrod, Signore di Babele,
nell’Inferno dantesco8), l’altro non mi comprenderà. Il fatto che, invece, normalmente (in
qualsiasi lingua si parli) il dialogo metta l’una dietro l’altro parole comprensibili (e si cerchi
il più possibile una correttezza sintattica, un uso efficace dei termini e dei collegamenti
intellegibili), mostra che la comprensibilità è fondamento universale del parlare e del
dialogare.
(b) La verità (Wahreit): e quindi il corrispondere il più possibile di quello che dico a
quello che vedo, che considero vero e reale. Non si può dialogare con qualcuno che non
cerchi la verità, per sé e per l’altro.
(c) La veridicità (Wahrhaftigkeit) o sincerità. Posso anche sbagliare, ma se non sono
onestamente convinto di quello che dico, non posso discutere seriamente. Non si può entrare
in dialogo con qualcuno che pensa una cosa e ne dice un’altra.
(d) La giustezza (Richtigkeit), infine; cioè la correttezza anche etica del mio parlare. Se
inizio un dialogo e mi tappo le orecchie, fisicamente o metaforicamente (perché, per
esempio, l’altro mi dimostra in maniera evidente che sto sbagliando, e, pur riconoscendolo,
continuo a negarlo), allora non sto realmente dialogando.
La finalità etica, quindi, è sottesa a tutte le pretese di validità universale della
Diskursethik, perché il fine è quello di cercare una ‘situazione discorsiva ideale’ e tendere
verso di essa; cosa possibile solo in una società discorsiva ideale, cioè in una comunità
democratica di dialoganti liberi, che si considerano uguali e pertanto tutti idealmente parte
del discorso universale dell’umanità. E quindi potenzialmente in grado di risolvere
razionalmente i conflitti (di pensiero, di interessi, e perfino i conflitti religiosi)9.
Ricapitoliamo, dunque. Esistere significa essere soggetti parlanti e dialoganti. Prova ne è
che, se non viviamo autenticamente il nostro essere parola e dialogo, cadiamo in quella che
Apel e Habermas chiamano una «autocontraddizione performativa». Cioè, così come non
possiamo dire ‘io non esisto’ (e chi sarebbe il soggetto che esprimerebbe questa
proposizione?), alla stessa maniera, non possiamo che dialogare accettando le regole

7 Cfr. per lo meno: J. Habermas, Etica del discorso, tr. it. Laterza, Bari-Roma 1985; K.-O. Apel, Etica della
comunicazione, tr. it. Jaca Book ed., Milano, 1992.
8 Cfr. il nostro Dentro Babele. Se una traduzione è ancora possibile, in A. Gabrielli e G. Messuti (a cura di),

Partecipare ai doni dell’altro. Riconoscere il valore della grazia concessa ad altre comunità cristiane,
Ecumenica ed., Bari, 2020, pp. 83-150.
9 Cfr. per lo meno J. Habermas-J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, tr. it. Morcelliana, Brescia, 2004.

63
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

dell’etica del discorso; viceversa saremmo davanti ad un parlare che dis-dice il proprio
contenuto proposizionale, e quindi contraddice l'atto stesso del dire.
Era necessario, questo passaggio esplicativo rispetto ai fondamenti della Diskursethik per
comprendere le critiche che ad essa porta Jullien.
Forse questo ha effettivamente valore fintanto che restiamo nell’ambito del logos europeo la cui necessità
è stata concepita dai Greci (basti pensare al principio di non contraddizione in Aristotele). Ma se esco
dall’Europa? Tutta l’astuzia verbale di un pensatore cinese come Zhuangzi non sta proprio nell’eludere
questa logica della comunicazione che dovrebbe essere comune? E dunque bisognerebbe ‘parlare senza
parlare’, o ‘trovare qualcuno che dimentichi la parola per parlare con lui’. E anche la strategia dell’apologo
zen (il koan) non è proprio quella di far implodere, con uno scardinamento improvviso, questo protocollo
implicito della razionalità? (IC, 76-77).

Come dicevamo all’inizio, l’attraversamento dell’esperienza cinese, come Altra da quella


occidentale, aiuta Jullien a riflettere su quelle che paradossalmente potremmo chiamare, al
contrario, le autocontraddizioni performative dell’Occidente: le autocontraddizioni della sua
logica, del suo logos e quindi del suo dialogos; un Occidente che vorrebbe dialogare con una
alterità e poi in realtà la fagocita (primo modello) o la frantuma (secondo modello) o la
razionalizza (terzo modello); e quindi la perde in quanto alterità.
In realtà, però, va detto, al di là di Jullien, che già nel seno dell’Occidente sono esistiti
pensatori e correnti che hanno messo l’accento su tutto ciò che – pur non avendo pretesa di
validità universale, o forse proprio per questo – comunque si manifesta come luogo di
incontro con l’alterità, esaltandola nella sua incomprensibilità, sfuggevolezza,
imprendibilità, velatezza.
Basterebbe pensare al valore della poesia e dell’arte (in relazione/scarto) rispetto alla
concettualità. È vero che nessuno inizia e porta avanti un dialogo parlando in versi (e che la
poesia si pone apparentemente come distante rispetto alla logica), ma non è forse, proprio
per questo, che il parlare poetico ci mostra aspetti altri del «colloquio che siamo» (per dirla
con Hölderlin e Heidegger)?
Basterebbe pensare al valore del silenzio e del dire non verbale (in relazione/scarto) con
l’espressione fonica. È vero che non si dà dia-logo se i due dialoganti non parlano, ma non è
che, forse, proprio per questo, il silenzio, la presenza dei corpi muti, ci mostra la radice
profonda del nostro incontro con l’altro, prima e oltre ogni parola?
Si tratta solo di due cenni, su cui torneremo, ma che abbiamo anticipato per ribadire come
il discorso di Jullien non si attagli solo al rapporto Occidente/Oriente, ma sia applicabile
anche dinamiche interne all’Occidente stesso. Infatti, qui, un certo modello di logos
(concettuale) e di dialogo (argomentativo) è risultato vincente e dominante: ma non si può
dimenticare che questo è accaduto anche perché non si è sufficientemente valorizzata (in
filosofia come in teologia) l’importanza di forme altre del logos (per esempio, la traccia
apofatica, accanto, e forse oltre, quella apofantica).

I.3) Una prima alternativa: il dialogo-traduzione


Il termine ‘dialogo’, a dire il vero, non è storicamente senza macchia. Innanzitutto è perché l’Occidente ha
perduto la sua forza che ha cominciato a ‘dialogare’ con le altre culture. In precedenza, forte non soltanto
dei suoi valori ‘universali’, ma ancor più della sua formalizzazione logica, non dialogava affatto. Imponeva
alle altre culture il proprio universalismo, il che equivale a dire che le colonizzava grazie alla sua razionalità
trionfante.
‘Dialogo’, del resto, è un termine rassicurante che serve a dissimulare i rapporti di forza sempre esistenti
tra le culture così come anche all’interno stesso di ogni lingua e di ogni cultura, dal momento che le
concordanze che vi prevalgono nascondono e schiacciano ciò che concordante non è. Il termine dialogo non
aspira forse a un falso irenismo? – non si fa forse bello di un falso egualitarismo? (IC, 77-78)

Il termine dialogo non è senza macchia, proprio perché ha nella sua composizione quel
logos che si è dato storicamente in Occidente in maniera concettuale/assorbente, e proprio
64
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

per questo dominatrice/dominante. Pensiamo a come si è vissuta una certa


occidentalizzazione (e/o cattolicizzazione e/o democraticizzazione) forzata, in nome di
valori/verità nostri, e perciò automaticamente veri valori (ovviamente senza dimenticare,
anche in questo caso, tante esperienze anche rispettose e belle di missione, capace di
imparare dagli altri Paesi; o esperienze di dialogo filosofico e politico capace di riconoscere
le ricchezze di quanto manca all’Occidente).
Ma, in mancanza di dialogo, lo sappiamo bene, ci resta solo lo ‘scontro’ o il clash – sarà possibile tirarsi
fuori da quest’alternativa? Oppure, se il dialogo appare come un ripiego per tentare di sfuggire alla violenza,
come possiamo dargli una consistenza che gli conferisca dignità e lo ponga come vocazione? (IC, 79)

Ecco che, quindi, Jullien, lungi dal rifiutare il dialogo, prova a ripensarlo, partendo da
alcuni aspetti valorizzabili (anche questi: nuovi e antichi).
Uno di questi è l’aspetto della traduzione. Jullien infatti fa notare un problema che,

tanto per cominciare, […] ritorna: in quale lingua si svolgerà questo dialogo? Se si tratta di un’unica lingua
(per esempio l’inglese mondializzato o il globish), il dialogo è inficiato sul nascere, poiché se l’incontro tra
culture si svolge sul terreno di un’unica lingua, cioè con le sue forme sintattiche e le sue categorie, le altre
lingue e le altre culture non potranno far altro che far sentire in secondo piano le loro differenze a partire
da questo comune che viene coinvolto e che dovrebbe facilitare la comunicazione (IC, 78).
Il dialogo non può avvenire nella lingua dell’uno senza che l’altra sia già alienata [...]. Allora in quale lingua
si svolgerà? [...] La risposta per una volta è semplice: il dialogo può svolgersi soltanto nella lingua di
entrambi, ovvero tra queste lingue: nel tra aperto dalla traduzione. Dal momento che non esiste una lingua
terza o mediatrice (soprattutto non l’inglese mondializzato, il globish) la traduzione è la lingua logica di
questo dialogo. O, per riprendere una formula celebre, spostandola dall’Europa al mondo, la traduzione
dev’essere la lingua del mondo. Il mondo a venire deve situarsi tra-le-lingue: non dovrà avere una lingua
dominante, qualunque essa sia, ma una traduzione che attiva le risorse delle lingue mettendole in rapporto
tra loro. Le lingue si scopriranno reciprocamente e allo stesso tempo si immetteranno all’opera per dare la
possibilità di passare dall’una all’altra. Un’unica lingua sarebbe molto più comoda, è vero, ma imporrebbe
immediatamente la sua uniformazione (IC, pp. 82-83)10.

10 «Il mondo a venire deve situarsi tra-le-lingue: non dovrà avere una lingua dominante, qualunque essa sia,
ma una traduzione che attiva le risorse delle lingue mettendole in rapporto tra loro. Le lingue si scopriranno
reciprocamente e allo stesso tempo si rimetteranno all’opera per dare la possibilità di passare dall’una all’altra.
Un’unica lingua sarebbe molto più comoda, è vero, ma imporrebbe immediatamente la sua uniformazione. Lo
scambio verrebbe facilitato, ma non ci sarebbe più nulla da scambiare o, in ogni caso, nulla che sia
effettivamente singolare. Se tutto viene sistemato in un sol colpo in un’unica lingua, senza più scarti che la
disturbino, ogni lingua-pensiero – ogni cultura – non potrà più, come ho già detto, far altro che rivendicare da
un punto di vista identitario e testardamente le sue ‘differenze’. La traduzione, invece, è un modo semplice e
probante di mettere in pratica il dia-logo. Lascia infatti emergere la difficoltà, il carattere non definitivo,
sempre in fieri e mai compiuto; ma permette anche di vedere ciò che il dialogo ha di effettivo: un comune della
comprensione si elabora nel suo tra e vi si dispiega. La comprensione, in effetti, così come viene sviluppata
dalla diversità delle lingue e dei pensieri, non è una comprensione definitiva, bloccata (come lo era la
comprensione kantiana delle categorie). Anzi, più si trova a dover attraversare intelligibilità diverse, come
avviene nel dialogo tra le culture, più si deve promuovere: più diventa intelligente. Una delle possibilità della
nostra epoca, in risposta all’uniformazione mondiale, è proprio quella di potersi aprire a nuovi modi di
intelligibilità grazie alla scoperta di altre lingue e di altre culture. E questo vale in particolar modo per l’Europa
[...]. Il comune dell’intelligibile è il comune dell’umano: se gli uomini non potranno forse mai comprendersi
totalmente, e nemmeno le culture, bisogna comunque porre come principio – come necessità a priori (e
trascendentale rispetto all’umano) – che possono comprendersi, e che soltanto questa possibilità di
comprendere è il diverso dell’umano – come avviene attraverso le lingue – che fa l’«umano». [...] Non
mescolando (confondendo) il diverso delle culture e delle forme di intelligenza, e neppure – sarebbe la stessa
cosa – riducendo tale diversità a una versione consensuale e dichiarata più ‘tollerante’: perché una forma
culturale è tanto più significativa quanto più produce uno scarto, un singolare e, di conseguenza, un pensiero
creativo. Questo soggetto avrà dunque fatto uscire la diversità dei pensieri dalla loro esclusività iniziale per
farli contribuire a un comune della comprensione e dell’intelligenza – di cui effettivamente consiste il ‘dia-
logo’» (IC, 83-84)
65
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Sul tema del dialogo come traduzione, però, non ci fermiamo, un po’ perché per Jullien è
facile rimandare su questo ad un suo testo molto noto, L'universale e il comune. Il dialogo
tra culture11, un po’ perché anche noi, sebbene in maniera diversa, abbiamo sviluppato il
tema della traduzione (tramite Benjamin, Derrida e Ricoeur) in un altro saggio, a cui
rimandiamo12.
Ci interessa, invece, qui soffermarci su un altro aspetto, un altro percorso seguito da
Jullien, che è sì linguistico, ma anche di fatto ontologico-antropologico.

I.4) Dal dialogo tra identità/differenze all’attraversamento degli scarti


Se dialogo è un termine ‘molle’, dobbiamo dargli un senso forte; e ancora una volta la cosa migliore sarà
attingere alla lingua stessa [...]. Dia, in greco, esprime al tempo stesso lo scarto e l’attraversamento. Un
dialogo è tanto più fecondo, come sapevano già i Greci, quanto maggiore è lo scarto in gioco [...]; altrimenti
si dice più o meno la stessa cosa, il dialogo diviene un monologo a due voci e non ci sarà alcun progresso.
Ma dia esprime anche il cammino che attraversa, supera uno spazio, quello stesso spazio che può offrire
resistenza. Un dia-logo non è immediato, prende del tempo: un dialogo è un avanzare lentamente (IC, 79).

Ecco che Jullien riparte mettendo l’accento innanzitutto sulla prima metà del termine
dialogo, il ‘dia’, che normalmente noi schiacciamo sulla dualità o sui poli ‘tra’ cui si svolge
lo scambio dei logoi (e così facendo spostiamo nuovamente tutto sul logos). Ma che cosa
accadrebbe se invece ripartissimo dal δια-?
Anche in italiano, tante parole composte con questo prefisso contengono il triplice
significato di: attraverso, per mezzo di, separazione/differenza. Alle volte le tre sfumature
sono congiunte, in altri casi l’accento è posto sull’una o sull’altra.
Jullien offre una immagine su cui è costruito – non solo in questo libro – il suo impianto
filosofico: l’attraversamento, un «cammino che attraversa, supera uno spazio», come
abbiamo letto. Questo aiuta a cogliere diversamente anche la metaforica della traduzione,
che filosoficamente, nel Novecento, o ha ricondotto le diverse lingue ad una Lingua pura
prebabelica (Benjamin) o ha invitato ad abitare la disseminazione della pluralità (Derrida)
o ha cercato due pilastri su cui creare ponti di equivalenza (Ricoeur)13. È come se Jullien
rispondesse: né uno né molti né due; semplicemente tra. Il darsi del lento andirivieni: che
si arricchisce nel movimento stesso; non ricadendo in un gioco di superficie, ma avanzando
nella profondità. Un dia/tra che non esclude il molteplice o il collegamento dei due
(immaginiamo le due sponde di un fiume attraversato14) né esclude lo scenario dell’unità,
ma ripensa tutto questo come ciò che è comune.
Quindi, dal punto di vista lessicale, Jullien sostituisce la coppia identità/differenza con
quella comune/scarto. Ricordiamo il titolo del libro di cui stiamo vedendo il capitolo sul
dialogo15: ll n'y a pas d'identité culturelle, mais nous défendons les ressources d'une culture.
Le identità (non solo quelle culturali) non esistono, in senso forte e proprio. E lo stesso vale
per le differenze assolute. Infatti, tanto la logica dell’Identico quanto quella del Diverso
rischiano di dimenticare la centralità della relazione. Non esistono identità e/o differenze
irrelate. Perciò Jullien propone, invece, di ragionare a partire dall’écart.

11 Tr. it. Laterza, Roma-Bari, 2010


12 Rimandiamo al nostro già citato Dentro Babele. Se una traduzione è ancora possibile.
13 Su questo ci siamo soffermati appunto nel saggio citato nella nota precedente.
14 Nel cap. 3 di L’apparizione dell’altro. Lo scarto e l’incontro, tr. it. Feltrinelli, Milano, 2020, Jullien usa una

metafora acquatica: «Ci si allontana, frangente dopo frangente, dallo stesso, dal prossimo, dal bordo, dalla
riva, da tutto ciò che ‘ribadisce’ e rassicura: lo scarto, in altre parole, è arrischiato e rischioso. Più si avanza
nello scarto, più ci si allontana dalla riva, più emerge dell’altro in quanto altro». Invece, in una delle sue ultime
opere (Il ponte delle scimmie, Lindau, Torino) torna sulle due metà del termine dialogo: la divaricazione e
l’arricchimento comune. E quindi sul valore/possibilità della traduzione. L’immagine utilizzata qui è appunto
quella dei ponti delle scimmie fatti di canne di bambù, sospesi sul Mekong, e che richiedono una abilità del
tutto particolare nell’attraversamento.
15 Che, tra l’altro, è il cap. conclusivo.

66
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Scarto e differenza [...] segnano entrambi una separazione; ma la differenza opera nell’ambito della
distinzione, mentre lo scarto in quello della distanza. La differenza è quindi classificatrice, dal momento
che l’analisi avviene per somiglianza e differenza; allo stesso tempo è identificatrice perché è proprio
procedendo ‘di differenza in differenza’, come dice Aristotele, che arriviamo alla differenza ultima che ci
offre l’essenza della cosa, enunciata dalla sua definizione. Lo scarto, invece, si rivela come una figura non
di identificazione, ma di esplorazione, che fa emergere un altro possibile. Lo scarto non ha dunque una
funzione di classificazione che stabilisce delle tipologie, come fa la differenza, ma consiste precisamente nel
debordare dalle tipologie stesse: non produce un ordine ma un disordine. [...] Lo scarto si contrappone
all’atteso, al prevedibile, al prestabilito. Se la differenza ha per scopo la descrizione e, di conseguenza,
procede per determinazione (la distinzione e l’‘analisi’ delle essenze così come proponevano i Greci), lo
scarto comporta invece una prospezione: scruta – sonda – fino a che punto sia possibile aprire nuove strade.
È una figura avventurosa (IC, 29-30).

È una lunga citazione dal cap. III: La differenza o lo scarto: identità o fecondità. Non si
tratta solo di una trovata filosofica, di una semplice volontà di cambiare termini e concetti
(anche se dietro al modo di dire le cose si cela sempre, anche, un modo di pensarle). Si tratta
piuttosto di reinterpretare – come chiarisce poco dopo lo stesso Jullien – la nostra ontologia
basata sull’Essere-Sostanza16. «Il tra non è l’essere». Il dia- è indeterminato e quindi sfugge
alla tensione classificatoria e rassicurante delle definizioni, su cui si è costruito il
pensiero/logos/concetto occidentale, a partire dal ti esti socratico. Jullien sottolinea: i greci
«avevano orrore dell’indeterminato» (IC, 34) e perciò non sono riusciti a pensare il tra. Ma
potremmo aggiungere: l’essere umano in quanto tale ha paura dell’indeterminato, e perciò
si acquatta nel rassicurante pensiero del Medesimo. Il tra è spossessante. «A essere precisi,
il tra non ‘è’» (IC, 34), ma accade, se lo lasciamo emergere17.
«Bisognerà dunque uscire dal pensiero dell’Essere (dall’ontologia) per cominciare a
pensare il ‘tra’. Cosa che i pittori hanno fatto prima dei filosofi. [...] Braque: ‘Si dipinge anche
quello che c’è tra la mela e il piatto’» (IC, 35). L’arte ha visto, in questo, più lontano della
filosofia. Tra gli oggetti messi in luce dall’artista, c’è quello spazio che non è vuoto, ma è la
possibilità stessa della pittura: visione, emersione dei soggetti. Solo perché si dà, è possibile
il riconoscimento della mela in quanto tale e del piatto in quanto tale.
Comprendiamo meglio, così, il lungo passo prima citato, in cui Jullien poneva da un lato
il nesso classico tra differenza e distinzione e dall’altro lato il nesso avventuroso tra scarto e
distanza.
Non ci siamo ‘io’ e ‘te’: perché io mi colgo nella mia distanza (divergente da te) solo in
rapporto a te; e viceversa.
Tutto questo è spossessante, inquietante. Ma, proprio per questo, anche tremendamente
affascinante. Solo Narciso sa cosa aspettarsi dall’altra parte dello specchio. E infatti muore
nella sua mono-logicità18. Ma la vita non è così. Se ponti si danno (e per fortuna si danno), è
solo a partire da scarti disordinati, non sintattici, da scintille imprevedibili che ci sorpassano
e perciò sorprendono.

16 Su questo, possiamo dire, Jullien si pone sul solco del ripensamento francese della decostruzione
heideggeriana della metafisica.
17 «Il ‘tra’: abbiamo mai pensato il tra, fino a ora? Ci siamo mai soffermati un istante a pensarlo? Ci è mai anche

solo venuto in mente? Il proprio del tra, in effetti, consiste nel non farsi notare, nel passare inosservato, e
quindi farsi scavalcare dal pensiero. Il proprio del tra è che non attira l’attenzione, dal momento che non dà
luogo ad alcuna focalizzazione o fissazione. Il tra rinvia sempre ad altro da sé. Così il proprio del ‘tra’ è di
esistere non in rilievo, ma in negativo; è privo di determinazione, non possiede alcuna essenza. Dico così,
portato dalla lingua: ‘il proprio del tra’, ma il proprio del tra è appunto il non avere nulla di proprio» (F. Jullien,
Contro la comparazione e lo scarto, tr. it., Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 55-56)
18 «Legate a quello che Freud definiva ‘narcisismo delle piccole differenze’, le vite banali sono vite rivali,

appiattite, invidiose, che si inseguono di continuo perché ritratte in se stesse, incapaci di accedere all’altro e
perciò piene di surrogati e compensazioni» (IC, 62)
67
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Lo scarto [...] fa emergere non un’identità, ma quella che definirei una ‘fecondità’ o, in altri termini: [...]
rivela risorse che prima non vedevamo e neppure sospettavamo. Uscendo dall’atteso, [...] staccandosi dal
noto, con il suo essere disturbante, lo scarto fa nascere ‘qualcosa’ che inizialmente sfugge al pensiero. [...]
Suscita la riflessione perché mette in tensione. Nel tra che apre – tra attivo, inventivo –, lo scarto produce
lavoro perché i due termini che da lui si distaccano, e che lo scarto stesso mantiene l’uno di fronte all’altro,
non smettono, nello spazio vuoto che si è aperto tra loro, di interrogarsi a vicenda. Ogni termine resta
interessato all’altro e non si chiude in se stesso (IC, 35-36).

Se tu mi interessi realmente, non smetto mai di cercarti, interrogarti interrogandomi,


scartarti scartandomi (come un pacco regalo che non finisce mai di essere aperto nel suo
essere dono). E non smetto mai di riflettere, in una dinamica che non è il gioco di specchi
del pensiero razionale, ma la tensione verso qualcosa che, più mi avvicino, più mi sfugge.
Si tratta solo di una vana ricorsa, allora? No. Perché, in questo incontro, qualcosa accade,
e modifica le sponde arricchendole. E quanto più si tratta di estremi divergenti, tanto più è
fecondo l’attraversamento. Non è forse un caso se «nell’ideogramma [cinese] che esprime
appunto il ‘tra’ si trovano figurati e messi l’uno di fronte all’altro i due battenti di una porta,
tra i quali filtra un raggio di luna che irradia il suo chiarore»19.
D’altra parte, il fatto che lo scarto lavori nelle distanze è non solo decisivo per il reale rispetto dell’alterità,
ma paradossalmente anche per il mantenimento del legame.
Una volta che ci siamo detti che siamo diversi, una volta fatta la distinzione, ognuno dei due termini
dimentica l’altro, ognuno se ne sta per conto suo. Nello scarto, invece, i due termini separati restano l’uno
di fronte all’altro – ed è per questo che lo scarto è così prezioso. La distanza che appare tra i due termini
mantiene in tensione ciò che è separato (IC, 32)20.

La tensione attiva, impedendo a ciascuno di tornare «placidamente nel proprio cantuccio,


richiudendosi sulla sua specificità» (IC, 32), offre un senso del tutto particolare del mancare
e mancarsi: non è la mezza mela che cerca l’altra mezza mela per creare un’unità
immaginifica perduta (o mai avuta). Ma non è nemmeno una rassegnazione (tutto sommato
irenica, tranquillizzante) rispetto all’idea che «non si può fare niente, perché tanto siamo e
resteremo diversi!».
Lo scarto, invece, nel riconoscimento delle reciproche mancanze, mantiene vitale
«un’intensità che supera entrambi»; mantiene «l’uno attraverso l’altro, con questo
‘attraverso’ che rimane attivo, [...] ‘in sospeso» (IC, 33-34).
È la consapevolezza, intuita già da Heidegger, che la verità come aletheia non potrà mai
rimuovere del tutto il nascondimento della lethe; perché continueremo sempre «a scoprirci,
a esplorarci» (IC, 33). Ma questa dipendenza dall’altro non è incatenante; è liberante. Perché
la prigionia, al contrario, è proprio la solitudine delle Identità forti, sempre inevitabilmente
diverse e quindi irrelate.
È questa, sottolinea Jullien, anche «la vocazione etica e politica» dell’écart (IC, 33). Ma,
prima ancora, potremmo dire, tornando finalmente al nostro tema, questa è la vocazione
dialogica dello scarto-comune. In che senso?

19Sempre nel cap. V di Contro la comparazione. Comprendiamo così il percorso di Jullien: che è capace di dire
questo di noi perché lo ha colto anche nella profonda distanza del mondo cinese. E, viceversa, così Jullien ha
lavorato sul mondo cinese, là dove a suo avviso il vero problema non è tanto la differenza tra i due mondi, ma
la nostra indifferenza, il fatto di non lasciarci provocare da modi d’essere, di pensare, parlare, altri rispetto a
noi. Evitare l’inquietudine che nasce da questa esteriorità, che ci mette di fronte a noi stessi, al nostro
impensato.
20 «Ogni pensiero è in se stesso uno scarto interno, ed è questo che lo fa lavorare. La figura dell’alterità,

elaborata in confronto a una cultura esterna, si rovescia e fa apparire nello specchio di un’altra il proprio
rimosso: ciò che anch’essa ha potuto intravvedere, come possibile del pensiero, ma da cui si è poi distolta, ciò
che ha lasciato nell’ombra o ha trascurato. Nel mio lavoro ho mostrato come dei pensatori cinesi, i tardi
mohisti, avessero intravisto alcune possibilità, ampiamente sviluppate in Grecia» (Contro la comparazione,
cap. IV, § 3)
68
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

I.5) Quando il dialogo tra scarti genera il comune

Innanzitutto va detto che per Jullien il comune non è l’universale né l’uniforme (come si
spiega nel cap. I di L’identità culturale non esiste).
L’universale è concetto logico (e prescrittivo) legato al pensiero razionale; l’uniforme è
concetto economico (e seriale) legato all’ordine della produzione e dell’efficienza; il comune
è concetto politico legato alle dinamiche di appartenenza e condivisione 21. Solo gli scarti
possono mettersi in comune, perché non tendono né all’uniformità né all’astratta
universalità22.
Nell’autentico dialogo, il dia- segna lo scarto e il logos segna l’istanza del comune23.
Vale a dire che, proprio attraverso gli scarti, si genera un comune, dal quale – grazie al fatto che ogni lingua,
ogni pensiero, ogni posizione permette all’altro di infiltrarsi al suo interno – può emergere, in questo tra
diventato attivo, un’intelligenza reciproca, e anche se questa intelligenza non si realizzerà mai
completamente (il che testimonia sul potenziale dell’intelligibile) (IC, 80).

E, quindi, il comune è da un lato premessa e dall’altro tensione. Nel continuo


attraversamento, di volta in volta, intelligo, intus-lego, intuisco qualcosa di nuovo. Scopro
parti di me e di te che, se non avessi messo in gioco il tra, non avrei mai scoperto. In questo
movimento comune, lo scarto e la distanza non vengono superati, ma, se mai, esaltati,
«promossi» insieme al comune stesso (IC, p. 80). Quelli che vengono superati sono
l’esclusivismo24 e l’inclusivismo (ma anche il pluralismo) – e utilizziamo volutamente questi
termini che classicamente individuano le modalità del dialogo interreligioso.
Il che non significa rinunciare alle nostre idee, ma farle uscire dal «carattere bloccato,
murato di una posizione che ignora l’altro». Uscire dall’uni/lateralità per costruire un «di
fronte» (IC, 80-81), dentro il quale si danno diverse possibilità: e la mia come una tra queste.
E, così, «ecco che un tra si fa strada – perché ogni posizione si lascia intravedere dall’altro
[e] tale è il tra dell’«in-trattenersi» (IC, 82).
Con la bella metafora dell’in-trat-tenersi – che mette insieme il cammino del dia con l’in
del restare ed abitare (casa e via, dimora e movimento) – ci avviamo a concludere la prima
parte del nostro saggio. Ora sappiamo che cosa sia il dialogo per Jullien: intrattenersi tra
scarti, per scoprire, in un movimento continuo, le comuni risorse.
Questo è vero a tutti i livelli. Nel libricino che abbiamo presentato, per esempio, Jullien
mostra come valga, per esempio, per i conflitti europei e mondiali. Le culture non sono
identità statiche e immobili; è questa falsa ipotesi che produce o uniforme globalizzazione o
bellicosi nazionalismi; o assimilazioni e «comunitarismi integralisti» o relativismi irrelati,
con i rispettivi muri (reali o simbolici). Riconoscere invece la dinamicità dei processi
culturali, sociali e politici significa già porre le premesse per trasformare i conflitti in
tensioni tra scarti, e quindi in dia-loghi. Che è quello che Jullien ha fatto dall’inizio,
mettendo in connessione Oriente e Occidente: perché quello che non ha (e non è) una
cultura, lo ha (e lo è) un’altra. E solo insieme possiamo riconoscere le reciproche risorse.

21 Già nel testo L’universale e il comune. Il dialogo tra culture, ricostruendo la genealogia di queste esperienze
– dalla polis greca (spazio/parola pubblica) all’ideale romano della cittadinanza (estendibile a tutto l’impero)
all’annuncio paolino (con l’universale dell’Amore) fino alla riduzione logica che tutto questo ha avuto e ha nella
contemporaneità – Jullien arrivava a proporre, grazie anche allo studio del mondo orientale, un’idea
particolare di dialogo tra le culture, in grado di vedere appunto nel dia- lo scarto (che mantiene la feconda
distanza) e nel logos l’istanza del comune.
22 Cfr. anche Contro la comparazione, p. 75: «mentre tende a omogeneizzarsi, non smette mai di

eterogeneizzarsi; mentre tende all’unificazione, non smette di pluralizzarsi; mentre tende a confondersi e a
conformarsi, non smette di smarcarsi, di dis-identificarsi e ri-identificarsi»
23 Potremmo dire, anche al di là di Jullien, che si tratta di ripensare etimologicamente il logos come

leghein/legare. Jullien lo chiama il comune dell’intellegibile, cfr. cap. VII di IC.


24 Jullien letteramente dice: «Facendo infatti uscire a poco a poco e reciprocamente ogni prospettiva dalla sua

visione esclusiva [...]; decostruendo non la propria posizione ma ciò che essa ha di esclusivo», IC, 80-81.
69
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Non difenderò dunque un’identità culturale francese, impossibile da identificare, ma le risorse culturali
francesi (europee) – e ‘difendere’ in questo caso non significa proteggerle, ma sfruttarle. Se infatti riteniamo
che queste risorse nascano in una lingua come all’interno di una tradizione, in un certo ambiente e in un
certo contesto, dobbiamo allora considerare che sono disponibili per tutti e non appartengono a nessuno.
Queste risorse non sono esclusive, come invece sono i ‘valori’; non possono essere esaltate o ‘predicate’. O
le usiamo o non le usiamo, o le attiviamo o le lasciamo perdere e di questo siamo tutti responsabili. Un
simile spostamento concettuale mi obbliga [...] a ripensare il ‘dia-logo’ tra culture: dia per quanto riguarda
lo scarto e il percorso; logos dal punto di vista della comunanza dell’intellegibile. Perché è proprio questa
comunanza dell’intellegibile che crea l’umano.

Ma, dopo aver detto tutto questo, resta il problema: come dialogare? Come innescare
questo movimento/intrattenimento tra scarti, alla ricerca delle risorse comuni?
Per comprenderlo, ci spostiamo, come detto nel paragrafo introduttivo di questo saggio,
su un’altra serie di lavori che si collocano per lo più dopo la svolta jullieniana rappresentata
dal libro Sull’intimità (2013)25.

II) Seconda parte. Come dialogare? Il modello dell’intimità

«Quale mutamento si è dunque imposto nel mio lavoro? [...] ‘La Cina’, mi si chiede, non
la si ritroverà più? (‘Lei non è più un sinologo’, ecc.). La Cina vi agisce ancora, non più
tematicamente, ma sotterraneamente» - scrive Jullien all’inizio di Sull’intimità. Lontano dal
frastuono dell’amore, (SI, 9-10)26. E questo ci conforta nella nostra ipotesi: così come le
dinamiche interculturali ci hanno detto molto su quelle interpersonali, la riflessione sul
rapporto io/tu potrà aiutarci a comprendere meglio gli elementi fondamentali di ogni tipo
di dialogo. Proviamo a delinearli a partire dai testi dell’‘ultimo’ Jullien, ricordando la
domanda di questa nostra seconda parte: come dialogare?

II.1) Incontrare, per dialogare

«A Colei, così vicina, che per scarto continuo a incontrare»: è il motto di L’apparizione
dell’altro. Lo scarto e l’incontro (2018), testo in cui, già dal titolo e dalla dedica, si capisce
che, quanto detto a proposito dello scarto, viene utilizzato per rileggere la logica dell’incontro
(e viceversa).
Per dialogare è necessario incontrare l’altro. Ma per incontrarlo realmente è necessario
predisporsi ad uno spossessamento, rinunciare in anticipo alle nostre attese. O forse re-
imparare radicalmente il senso dell’attesa?
«Che cosa ci si aspetta disperatamente dalla vita, stanca della sua routine, se non che
qualcos’altro finalmente emerga?», leggiamo proprio nella prima pagina del libro. La vita,

25 F. Jullien, Sull’intimità. Lontano dal frastuono dell’amore, tr. it. Raffello Cortina, Milano, 2014.
26 Su questo cfr. F. Jullien, intervista a cura di M. Porro, Pensare il vivere, 7 ottobre 2012:
https://www.doppiozero.com/materiali/francois-jullien-pensare-il-vivere:
«In primo luogo, [...] penso al mio percorso in termini di deviazione (detour) e ritorno (retour), [...]. Se così
non fosse, non si tornerebbe mai, perché non la si finirebbe mai una volta entrati nella Cina. Ma credo che il
mio lavoro abbia conosciuto un secondo tempo, così come ho parlato di una ‘seconda vita’ [titolo del libro
tradotto da Feltrinelli nel 2017], e che il mio progetto sia stato un progetto da filosofo, non da sinologo, da
filosofo che può prendere distanza dalla Grecia [...]. Sono dunque passato dalla Cina, dalla sua esteriorità
rispetto a noi, ma avevo sempre in mente il mio progetto filosofico, progetto generale, come ogni filosofia …
Dunque, c’è in effetti un secondo tempo del mio lavoro in cui penso di avere meno bisogno di lavorare sui testi
cinesi, cosa che ho già un po’ fatto, e che posso tornare a raccogliere delle sfide filosofiche. [...] L’intimo è
proprio questo, perché l’intimo è il concetto che più resiste al concetto. Quel che cerco di fare in questo secondo
tempo del mio lavoro, che fa seguito al primo, è di aprire dei nuovi possibili».
70
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

nelle sue profondità, è attesa di qualcosa che ci strappi alla prigione della nostra solitudine,
che sia «totalmente altra»27 rispetto a noi: Altra/o, ma assolutamente vicina/o28.
Qui Jullien inserisce una delle sue scelte lessicali disorientanti, rifiutando per due persone
intime persino il termine «relazione» o «legame» («gli Amanti, quando stringono una
relazione (un ‘legame’), già non si incontrano più»29). Jullien dice questo proprio per
sottolineare come, invece, l’incontro autentico sia sempre sorprendente, come una
«apparizione» (il che significa inevitabilmente anche sottrazione, spazio indeterminato).
Quindi – applicando questo al nostro tema – per dialogare è necessario accettare la logica
della sorpresa, che non è quella della programmazione di risultati pre-visti rispetto al futuro,
ma è quella della presenza, del presente, del faccia-a-faccia.
L’incontro è sempre frontale e spinge a guardarsi negli occhi. Non permette di svicolare e si decide
nell’attualità di una presenza momentaneamente condivisa che può orientarsi nelle più diverse direzioni.
Ne consegue che nell’incontro sia in gioco qualcosa che resta sempre improvvisato; esso è ciò che sussiste,
e resiste, di puramente evenemenziale30.

Torniamo all’apparizione del tu. Nell’istante dell’incontro, se è reale, l’io vive lo ‘choc’
dell’essere ‘disarcionato’. «Il sé non si abolisce» – altrimenti chi avvertirebbe la tensione? –
ma si ritrova «indifeso, violato nella sua chiusura, spossessato di ciò che lo mantiene e
conforta in -un ‘sé’». Non c’è assorbimento reciproco, ma de-bordamento. Questo, però, per
Jullien, non significa confondere la dimensione del presente con la fuggevolezza (o con il
colpo di fulmine dell’innamoramento). Perché, invece, dietro l’istante dell’evento c’è un
percorso lungo e lento31: «in cammino, passo dopo passo, non mancano i contraccolpi, si
procede per piccoli movimenti e successivi riorientamenti», avvicinamenti e
allontanamenti.
Quella dell’incontro – e quindi del dialogo – è, allora, una temporalità paradossale, fatta
di attimalità e apertura del processo; discontinuità e creazione di storia32. Non basta la
presenza del faccia a faccia, se è episodica. Non ci si può incontrare o dialogare per caso. Ci
si può trovare in uno stesso posto per caso; si possono scambiare parole per caso. Ma
l’incontro e il dialogo si danno solo quando il caso diventa scelta.
Nuovamente gli scarti si tengono: solo se entro nella logica dell’Improvviso (solo se sono
capace di rinunciare a padroneggiare la sorpresa di quello che potrà accadere) posso entrare
anche nella logica della continuità (voglio rimanere a vivere l’attesa dell’Imprevedibile: con
te).

27 E qui il vocabolario del desiderio umano si contamina con quello del Sacro.
28 Nel cap. I (e poi di nuovo nel IV), Jullien distingue il piacere (soggettivo, ricercato) e il godimento:
debordante, spossessante, ek-statico, e quindi vicino alla logica dell’ek-sistenza. Invece, nel secondo capitolo,
ci aiuta ad eliminare l’idea che il porsi di fronte all’altro significhi lavorare per opposizioni. L’aut-aut, la ‘o’ che
crea opposizioni, spiega Jullien (cap 2: L’opposto non è più altro. O come i contrari si intendono
reciprocamente) è limitante e quindi contiene, rinchiude, frena, trattiene l’alterità, che nell’opposizione non
ha più «una vocazione esplorativa e non è che contraddittoria: l’uno e l’altro termine vi hanno perduto la loro
stranezza». La differenza avanza per opposizioni e schiaccia il diverso in categorie che smussano i contrasti.
Lo scarto, invece, «perturba le omologie e fa emergere l’altro [...], staccandolo dagli ormeggi del convenuto» -
scrive Jullien nel cap. 5 (Così vicino sorge l’Altro. Che cos’è un incontro?), concludendo questo passaggio così:
«l’altro, propriamente, esce. Il suo luogo è il fuori».
29 Questa citazione del cap. 5 viene ripresa quasi letteralmente in F. Jullien, Alterità. Lezioni milanesi per la

Cattedra Rotelli, Mimesis, Milano, 2018, 80.


30 La citazione è alla pagina successiva rispetto alla precedente (sia nel cap. V de L’apparizione dell’altro, sia

in Alterità, 81).
31 Tutte tematiche sviluppate sempre nel cap. V di L’apparizione dell’altro.
32 Per un approfondimento rimandiamo a F. Jullien, Il tempo. Elementi di una filosofia del vivere, tr. it.

Sossella, Roma, 2002, in cui Jullien mostra come in fondo questa modalità del tempo sia più simile a quella
orientale, che «pensa il ‘momento’ stagionale e la ‘durata’, ma non un involto che li contiene entrambi, ossia il
tempo omogeneo e astratto» (ivi, 7). «I cinesi hanno pensato congiuntamente due cose: il momento-occasione
[…], e la durata» (ivi, 28).
71
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Quanti falsi dialoghi nelle nostre vicende interpersonali, familiari, istituzionali, ecclesiali!
Insieme per un breve periodo della vita, o per una tavola rotonda (magari proprio sul tema
del dialogo), o per una settimana di eventi di preghiera ecumenica, e poi ognuno per la
propria strada. Nessuna continuità e nessuna sorpresa.
Quanti falsi incontri nelle nostre storie private, o sociali, o comunitarie: con gli altri
sempre troppo vicini o troppo lontani. Mai alla giusta distanza (che è sempre quella che
consente di guardarsi negli occhi).
E, allora, prima indicazione. Per dialogare è necessario scegliere realmente di
intrattenersi con l’altro (amico, amato, fratello/sorella – in senso familiare o comunitario
o planetario). E lasciare, quindi, che, lentamente e progressivamente, il «faccia-a-faccia
dissipi [...] l’immaginazione». In questo senso, sì, la realtà è superiore alla sua idea. Perché
‘da lontano, comodamente’ posso ‘ammantare’ l’altro immaginandolo perfetto; o, viceversa,
posso rifiutarlo a partire dalla mia (negativa) immagine di lui.
Pensiamo a quello che accade nei confronti dei cosiddetti ‘diversi’ (devianze, marginalità,
disabilità, povertà, stranieri, ecc.), che o teniamo a distanza per paura o idealizziamo per
buonismo. E che raramente incontriamo. Con cui raramente dialoghiamo.
Ma pensiamo anche, più immediatamente, a come nel lockdown siano ‘saltate’ tante
coppie conviventi (che hanno perso la sana distanza degli scarti) 33 e come siano cresciute
tante strane relazioni a distanza.
Qui si pone, invece, la proposta di Jullien: mai troppo lontani, perché nel remoto è più
facile immaginare tutto a nostra immagine e somiglianza. Mai troppo vicini, perché non si
perda la feconda distanza che, sola, consente che si dia ancora un cammino.
Esiste un termine per indicare questo lontano/vicino, secondo Jullien; ed è appunto
intimità.

II.2) Per dialogare… imparare a vivere l’intimità

Non possiamo e non vogliamo nemmeno provare a riassumere tutto il percorso del libro
Sull’intimità34. Proviamo a scegliere solo alcune delle sfumature che Jullien ritrova in questo
concetto, che ci pare possano essere poi applicate più facilmente all’esperienza del dialogo.
Va detto subito che l’intimità si situa, come suona il sottotitolo, lontano dal frastuono
dell’amore, e dalla sua retorica. Possiamo dissentire o prendere le distanze da alcune
esagerazioni, che Jullien tende proprio per provare a segnare lo scarto tra il classico concetto
di amore e quello di intimità35. Resta però vero che esistono persone accoppiate, sposate,

33 In L’apparizione dell’altro Jullien scrive: «Si può passare l’intera vita con una persona (nel matrimonio, per
esempio) senza avere nemmeno iniziato a incontrarla, o avendolo fatto assai poco, [...] senza che si riesca a
fare il primo passo per togliere la barriera che si erige fra noi: l’Altro è rimasto chiuso, rinchiuso, e non si è
lasciato incontrare: non è stata varcata alcuna soglia, forse non la si è nemmeno intravista». E anche in Accanto
a lei, 30: «muri invisibili che levano tra noi e le cose che abbiamo sotto gli occhi (o forse proprio perché le
abbiamo sotto gli occhi), livellate, così vicine; tra noi e gli altri, con i quali viviamo e abitiamo e dai quali tuttavia
– o piuttosto proprio perché coabitiamo con loro – ci troviamo a poco a poco insidiosamente separati».
34 È il cristianesimo (e filosoficamente Agostino) ad aver scoperto il concetto di intimità (cap. 2-3; 5). Assente

sia nel mondo greco (cap. 4), sia per certi versi in quello cinese (cap. 3; 5), Jullien appunta qui questioni che
torneranno nel suo confronto con il cristianesimo: non si tratta, egli dice, di fare filosofia cristiana, ma del
cristianesimo, ovvero individuare le risorse/possibilità che ha svelato e consegnato oggi alla nostra esperienza
(anche a prescindere dall’essere cristiani). L’intimità è una di queste (insieme all’esperienza dell’evento
dell’Altro in relazione al sé), SI, 69. La sottolineatura ritorna alle pp. 152 sgg, quando Jullien distingue l’amore
dall’intimità, ma ricorda che quest’ultima è debitrice del concetto di agape cristiano-paolino: che pur supera,
non contrapponendolo necessariamente all’eros.
Da qui il passaggio (cap. 6) a Rousseau che riporta ad un livello orizzontale l’esperienza delle Confessioni
agostiniane: intime, ma sempre davanti ad un Tu. Poi il cap. 8 su Stendhal.
35 Cfr. in particolare il cap. 9: Amore, una parola falsa? In cui sottolinea l’equivocità del termine, in molti casi

troppo usato ed abusato. Mentre, per Jullien, la parola intimità può tenere il buono dei concetti di eros, agape
e philia, ma aprendo una prospettiva diversa.
72
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

che non hanno una vera intimità; non necessariamente perché indifferenti l’una all’altra.
Anzi: magari conoscono (o presumono di conoscere) ogni cosa dell’altra, ma che sono
rimaste ognuna dalla propria parte del proprio muro, sulla propria sponda.
In alcuni casi, è sempre stato così. In altri casi succede perché più comodo. In altre
situazioni ancora accade perché il frastuono dell’abitudine amorosa ha coperto lo spazio
possibile di una diversa intimità.
Certo, si dà anche – Jullien ne è convinto – la possibilità contraria: si può passare
un’intera ‘vita a due’, ‘accanto’ ad una persona e continuare a scoprire in e per essa
un’intimità che non si conclude, perché l’incontro non si chiude, e il noi si approfondisce 36.
Ma il punto non è questo. O, per lo meno, non è solo questo. La questione filosoficamente
rilevante è lo scarto concettuale che Jullien pone tra il concetto classico di amore e quello di
intimità. Il primo si mostra, dimostra, dichiara, rischia di creare ruoli, dubbi, tormenti.
L’intimità, invece, …si scopre ad un certo punto che c’è37. D’un tratto apre una possibilità38.
«Non si può prescriverla ma solo descriverla» (SI, 116)39.
Può essere connessa alla dimensione sessuale, ma anche no, «come quando si tiene la
mano del malato all’ospedale o anche in una carezza» (SI, 38). Crediamo di poter dire,
quindi, al di là di Jullien, che un dialogo può essere intimo: non necessariamente tra
amanti, ma in generale tra due persone che hanno superato la soglia delle proprie difese per
lasciarsi toccare dall’altro/a.
Infatti, come sottolinea Jullien, la parola stessa intimità, nell’uso quotidiano, associa due
sensi: ciò che è nel più profondo in un essere (più dentro, rispetto a me: intimità come
interiorità), ma anche ciò che lega due esseri in ciò che tra loro c’è di profondo (l’altro più
caro/intimo rispetto a me: intimità come esteriorità)40.
Passando da un senso all’altro, ‘intimo’ attua il seguente capovolgimento: il più interno – che, in quanto il
più interno, porta l’interno al suo limite – suscita in sé una apertura all’Altro; qualcosa, quindi, che fa cadere
la separazione (SI, 21).

Interno/esterno, attivo/ passivo41, ritiro/condivisione, (approfondimento del) dentro e


(apertura al fuori). Paradosso interessante: «non posso essere intimo in me stesso [...] da
solo. Sono necessariamente intimo con: posso essere intimo soltanto attraverso un ‘tu’»42.
Applichiamo al dialogo. La tradizione socratico-platonica, che è poi quella occidentale
ha sempre posto in relazione il dia-logo dialettico con l’altro e il dialogo della coscienza con
se stessa, per certi versi, forse – soprattutto nel caso di una certa tradizione platonica (e della

36 Tema, come già detto, sviluppato meglio nel già cit. Accanto a lei. Qui Jullien presenta la strategia classica
per disopacizzare, che è quella della ripetizione, ripresentazione (a cui si lega la dinamica teatrale) (AaL, 41
sgg.) e la strategia forse per lui preferibile e più vicina a quella orientale (AaL, 49-50) che è quella del filtrare
la presenza, lavorare di soglia, sbieco, lasciare spazio all’indeterminato.
37 SI, 190: «diversamente dall’amore, non è dichiarativa ma [...] risultativa; [...] non è incantatoria, ma constata

[...]. Da qui deriva anche che, se si può giocare a fare l’innamorato [...] non si può giocare all’intimità».
38 Cfr. SI, 26-27; 138; 156 sgg. Cfr. anche in particolare 127-28: «Ne immaginavano soltanto la possibilità? O

non avevano piuttosto pensato a immaginarsela? Da questa cosa inaudita – inaudita nel senso letterale-
rimangono affascinati, come lo sono improvvisamente alcuni insetti dalla luce della lampada che si accende.
Qualcosa dunque avviene, non in sé (da dove verrebbe?) ma tra sé: dalla sola risorsa del tra».
39 Jullien ricorda il duca di Nemours e la signora di Clèves, in un romanzo di La Fayette, che si chiudono nella

stessa stanza per scrivere una lettera (cfr. p. 79). E si chiede: perché gli scritti di La Fayette, di Rousseau o di
Stendhal sanno raccontare così bene l’intimità? Perché la letteratura lavora nel preconcettuale… (cfr. anche
pp. 138 sgg.). Non si può prescrivere l’intimità o concettualizzarla, ma solo descriverla, come sa far bene la
letteratura.
40 Cfr. SI, 19-20, ma anche 20-21: «La lingua pensa. [...] Non esiste un superlativo di ‘esterno’ [...]. Mentre

esiste un superlativo in interno: ‘intimo’».


41 Su questo, SI, 163-165.
42 SI, 25. Cfr. anche 37: «un gesto intimo non si può fare da soli: esige di essere in due». Cap. finale:

intimità/extimità, o di una dialettica dell’intensità, pp. 183 ssg


73
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

sua ripresa in un certo intimismo prima cristiano e poi romantico) – privilegiando come
fondativo il dialogo tra sé e sé.
Jullien viene a ricordarci che non esiste un dialogo intimo tra sé e sé. Paradossalmente
questo colloquio riflessivo rischia di rimanere superficiale. Perché solo un dialogo intimo
con qualcuno capace di smascherarmi (e togliere gli strati di abitudine e precomprensione
con i quali normalmente leggo me stesso/a) può portarmi inaspettatamente nel luogo più
profondo (e sconosciuto) di me.
Detto questo, però – e ricollegandoci a quanto già visto a proposito dell’autentico incontro
che è sempre inaudito, sorprendente, inaspettato43 – potremmo ancora chiederci: se il
dialogo ha necessità di continuità nella discontinuità, di intimità nella imprevedibilità, che
cosa facciamo quando dialoghiamo? Che cosa ci diciamo?

II.3) Il dialogo intimo disarma progettualità e finalità

Ripartiamo dalla descrizione dell’intimità. Nell’incontro tra due persone intime vengono
sospesi calcoli e interessi, programmi e sospetti. Kant direbbe: è bellezza senza finalità44. Se
un dialogo intimo si dà, quindi, non ha e non può avere uno scopo. Accade quando non ci
pensiamo; quando non lo forziamo (SI, 26-27). Anzi, forse, più propriamente si dovrebbe
dire che: «non accade niente, non ‘succede’ niente nell’intimità»45. Eppure «sono solo questi
‘niente’ a contare» (SI, 131).
Se ci è concessa la parafrasi, allora, dialogare è «abbandonare: rinunciare alle mire che si
avevano sull’altro, privarsi di ogni strategia nei suoi confronti, dire addio ai progetti di
annessione e cattura»46.
Iniziamo a capire sempre più perché – attraversare il tema dell’intimità – possa essere
importante per la decostruzione della nostra classica idea di dialogo. Perché noi (animali
razionali) connettiamo quasi inconsciamente, avendo introiettato la nostra Tradizione
occidentale, il dialogo ad uno scambio di concetti. Che dicono e afferrano: il reale, la storia,
l’altro con cui parliamo.
E, purtroppo, questo accade anche spesso anche negli scambi tra amici, amanti, familiari:
che quindi si mostrano tutt’altro che intimi. Perché, invece, cos’è, cosa potrebbe essere un
colloquio intimo in senso proprio? Un dialogo in cui l’obiettivo non è conoscere i fatti
dell’altro, comprendere cosa pensi di questa o quest’altra cosa, interpretare le sue scelte, i
suoi vissuti, ma un farsi spazio nella vita dell’altro facendo spazio all’altro nella propria
vita47. Spazio non orizzontale-superficiale, ma verticale (in profondità, intimus).
Anche per questo, nell’intimità autentica non si dà addizione (uno più uno), ma
sottrazione. «Rinuncia a proiettare i propri progetti sull’Altro». Togliere un voler-fare, un
voler-essere, un obiettivo-catturante. Perché solo se «non ci sono più mire né progetti
sull’Altro», se non si «vuole né ci si attende nulla da lui, [...] si libera la relazione da qualsiasi
finalità e interesse»48.

43 La ragione di questo la comprendiamo, perché abbiamo già detto che l’autentico dialogo è incontro, e
l’incontro è evento: inaudito, inaspettato. Cfr. SI, 38; 41.
44 In Si, 87, si dice che l’intimità non ha finalità né interesse
45 E infatti per questo le storie di Standhal sembrano stagnare (SI, 124).
46 SI, 122, ovviamente il soggetto nel testo è l’intimità, non il dialogo. In F. Jullien, Trattato dell’efficacia,

Einaudi, Torino 1998, si parla di schema di modellizzazione: «costruiamo una forma ideale (eidos), che
poniamo come scopo (telos) e agiamo in seguito per tradurla nei fatti» (ivi, 3).
47 In quest’ottica, allora, va ripensata o comunque arricchita la metafora del faccia a faccia. L’autentica intimità

consiste nello stare «dalla stessa parte di fronte al Fuori del mondo e della vita errante […], fianco a fianco a
sentire, a guardare».
48 SI, 87

74
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Intuiamo le ulteriori ricadute, se applichiamo questa intuizione alla dimensione dialogica,


oggi sempre più schiacciata sul debate49 – là dove noi normalmente siamo abituati a
sommare argomenti pro e contra, e non siamo abituati, invece, a togliere qualcosa alle
nostre ragioni, a sottrarre argomentazioni.
Il che non significa diventare buonisti, né cedere ad un tenero intimismo: «l’intimità non
è sdolcinata, dolciastra, placida, ma la cosa più esigente. Mentre ce la si presenta spesso e
volentieri come una comodità dei sentimenti, un ritiro lontano dalle aggressioni del mondo
esterno, la messa al riparo dai suoi colpi e dalle sue violenze [...]. L’intimità è in sé
sconvolgente».
E, allora, anche in questo caso, spostando la descrizione sul dialogo: sarà autentico non
quando dolce e tranquillo, ma paradossalmente quanto più ci colpisce, inquieta, sconvolge.
Jullien ricorda Stendhal che scriveva «l’intimità non è tanto la felicità perfetta, quanto
l’ultimo passo per raggiungerla». Parafrasando, potremmo dire: un dialogo non è perfetto
se felice, ma se ci consegna un cammino; se non è rifugio, ma varco; se non è perdersi
nell’altro specchiandosi in lui, ma se – sottraendo giudizi e creando dinamiche – apre
orizzonti in cui e tra cui è possibile guardare insieme. Scommessa e rischio, che passa sempre
per un taglio/ferita: mai immediata gioia facile e stucchevole.
Perché come ho già detto, si deve osare l’intimità. C’è un momento in cui ci si risolve, oppure no, a togliere
le ultime difese, a lasciare da parte le ultime intenzioni [...] Lo faccio o non lo faccio, è in questo che l’intimità
non solo provoca una separazione, ma è anche oggetto di una scelta (SI, 124)50.

Imprevisto e scelta. Vicinanza e taglio. Questo ci aiuta ad aggiungere un altro dettaglio.

II.4) Accanto all’altro/a: tra presenza e assenza, uno sguardo comune.

L’intimità va custodita. Infatti, come mostra splendidamente il testo a cui abbiamo già
fatto in parte riferimento (e che di fatto va quasi in coppia con Sull’intimità), dal titolo
Accanto a lei. Presenza opaca, presenza intima (AaL), se è difficile costruire un’intimità è
altrettanto difficile mantenerla: perché paradossalmente la vicinanza genera il desiderio di
annullare la distanza, di (pen)e(n)trare totalmente nell’altro, e questo autodistrugge la
stessa intimità, che invece si dà solo nel mantenimento dello scarto, nella difesa della
sconosciutezza. Lo stesso accade in un eccesso di presenza, incapace di preservare il vincolo
dell’assenza. Ma quando «non c’è più il filo tagliente dell’assenza che la faccia risaltare, lo
spalancarsi di una distanza che richieda di conquistarla, ne consegue che la presenza si
ritrova inerte e paralizzata. La presenza è sprofondata nella sua stessa presenza: è atona»
(AaL, 39)51.

49 Ci sia concessa questa sottile polemica che capiranno gli insegnanti, soprattutto di filosofia: visto che oggi il
debate ha sostituito come modello didattico, in molti casi, il metodo dialogico.
50 Scelta da osare, tentare, e, se incontrata, da proteggere. «Il proprio dell’intimità, a differenza della relazione

amorosa, è anche di creare una stabilità, di dare al soggetto un posto da subito e per sempre» (p. 94).
51 In qualche passaggio di Accanto a lei, Jullien adopera l’espressione amici-amanti (cfr. per esempio:

«superando a poco a poco le barriere delle buone maniere dopo quelle dell’indifferenza, ritirandosi da una
stessa parte difronte alle apparenze del mondo, senza più proiettare progetti sull’altro e rinunciando alla
prudenza nata dalla diffidenza o dai calcoli dell’interesse, gli amici-amanti – coloro che hanno fatto accadere
l’intimo tra di loro – sono entrati per slittamenti progressivi in questa risorsa non divulgata, in questo fondo
senza fondo di complicità da cui non smettono di attingere»). Si noti: gli amici-amanti. Il che da un lato
rimanda a quanto già detto ne L’intimità, là dove Jullien pareva coniugare l’intimo più con l’amicizia che con
l’amore, dato che, tra amici, il movimento dei due non ha alcun interesse esterno allo stesso incontro amicale.
Dall’altro lato, però, il trattino tra gli amici e gli amanti ci ricorda che tra amanti è possibile anche diventare
amici, o più propriamente diventare intimi.
La vera differenza, qui, allora non è tra l’amore e l’amicizia, ma tra l’intimità e la non intimità, che a sua volta
diventa la differenza l’immagine opaca dell’altro e la sua realtà. Non c’è intimità né quando la relazione vive
75
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Una presenza che si schiaccia sull’«esser-presso» si consuma, «si prosciuga, si


isterilisce»52, diventa opaca53. Diversa è l’autentica presenza/assenza intima, che non è
intimistica, ma comune e reale, perché si nutre delle «le cose minime dell’esistenza
condivisa»: il gioco dello sguardo (la tensione del legame visivo, che rigenera lo scarto e
l’incontro); le sfumature dell’ascolto (nei lievi rumori e silenzi interni ed esterni); i piccoli
gesti del quotidiano; e soprattutto la rinuncia alla postura interrogante, inquisitoria,
banalmente invadente e curiosa. Al limite anche rinuncia alla parola54…
Non è forse vero che i momenti più belli (intimi?) della nostra vita sono quelli in cui siamo
stati accanto a qualcuno senza parlare, senza concettualizzare, senza afferrare nulla (ma, se
mai, venendo afferrati da quella situazione)?
«Sono felice per il fatto di esser[ti] vicino, e allora il mondo è ‘in ordine’» (SI, 90). In una
provocazione metaforica, ma che potrebbe dare a pensare a tanta teologia, Jullien si chiede
se il paradiso non sia proprio questa intimità, in cui resta il desiderio (e quindi la mancanza),
ma si sospende la tensione dell’insoddisfazione, nella pienezza dell’essere insieme: intensivo
e non quantitativo; sguardo eterno55.
«Vicino: ciò che non manca né annoia, non si deteriora con l’andare del tempo. [...]
Intimità che non si esaurisce. Senza fondo e senza fine» (SI, 89).
Perché – come diceva Jullien già in L’apparizione dell’altro – solo «fra l’Altro e sé – in
quel fra intensivo stabilito dal debordare reciproco del sé ad opera dell’Altro che resta altro
– può dispiegarsi, riguardo all’Altro, uno ‘sguardo’ condiviso».
È quello che abbiamo chiamato il comune nello scarto. E che ora possiamo chiamare il
comune dello sguardo. Forma originaria di ogni intrattenersi e dunque di ogni dialogo. Che
si alimenta solo dell’incontro intimo, senza-parole.
Ma non è un ulteriore paradosso, questo?
Abbiamo annotato, poco sopra, come il tema dell’intimità rischi di mettere in
cortocircuito quello del dialogo, perché, nella nostra tradizione, dialogare significa
inconsciamente lavorare con il logos/ragione/concetto, e questo implica un cum/capere
afferrante che si oppone polarmente all’intimità56.
Ora stiamo dicendo che il dialogo intimo mette in questione la centralità stessa del
logos/parola. E questo appare del tutto insensato.
Come dialogare senza logos? Una proposta di questo tipo… può diventare fondamento di
qualcosa che non voglia essere solo un legame mistico o del tutto singolare (tra amici o
amanti)? Non è un’utopia trasporre anche questa idea di Jullien su ambiti esterni
all’incontro io-tu?

solo di remoto (di assenza e quindi delle mie fantasie sull’altro) né quando vive solo di presenzialità (di
schiacciamento sull’alterità: quella che in alcuni passaggi Jullien chiama «presenza opaca»).
52 L’intimo non cattura il presente, ma invita allo ‘svolgimento’ («si diventa intimi, e lo si diventa

infinitamente»).
53 La presenza dell’essere-presso (par-on in greco) si trasforma in opacità. Opaco è ciò che si oppone al

passaggio: AaL, 28.


54 Fortemente simbolico, da questo punto di vista, è il racconto di Georges Simenon, Il treno, che introduce e

fa da cornice al libro L’intimità di Jullien. Due sconosciuti che tacitamente si scelgono, e fanno un pezzo di
viaggio insieme: senza parole, senza domande, solo con gli sguardi.
E capiamo che l’espressione amanti-amici qui si ampia, è ampliabile. Amanti-amici-sconosciuti. Perché
l’intimità è tutto questo insieme, e quindi può darsi paradossalmente (anche se in maniera diversa) tra amanti,
tra amici, tra sconosciuti: perché (e se) in tutti e tre i casi resta la sconosciutezza, e in tutti e tre i casi è possibile
il passo indietro dell’accoglienza e dell’ascolto.
55 Cfr. SI, 162, cfr. anche ivi, 170-71 dove Jullien ricorda come sia diverso vedere un quadro o un paesaggio da

soli o in due. E si chiede: si può gioire da soli? Cfr, anche le pp. 175 sgg., molto belle, sullo scambio di sguardi.
56 In Essere o vivere, Feltrinelli, Milano, 2016, Jullien fa notare come si possa lavorare diversamente sul

concetto. Concetto può significare strumento e in questo senso resta uno strumento utile, se legato al suo
scarto, può aprire una fessurazione d’insieme.
76
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Pare più semplice seguire Jullien quando propone – a livello interculturale e sociale – un
lavoro di traduzione dei linguaggi, piuttosto che seguirlo quando ci propone un dialogos
senza logos…

II.5) Il senza-parole come fondamento e fine del dialogare?

Per comprendere questa ulteriore provocazione e più profonda sfida, dobbiamo mettere
insieme alcune pagine di Sull’intimità con un altro lavoro di Jullien dal titolo Parlare senza
parole. Logos e Tao, in cui il tutto acquista una prospettiva diversa, grazie anche al passaggio
attraverso il mondo orientale57.
Intanto, già in Sull’intimità, come anticipato, ci sono pagine molto belle e intense su
questa esperienza. Quando si è con una persona intima «ci si può intendere senza parlare
(basta una ‘occhiata’) e, d’altra parte, quando si parla, non è per comunicare: la parola intima
non insegna niente all’altro, non informa. [...] Se si parla [...] è per in-tra-ttenere il tra
dell’intimità. Perciò è una parola che non ‘si secca’» (SI, 97). E, quindi, notiamo: non è in
gioco la differenza tra parlare e tacere, ma tra la parola secca/opaca (che è l’esatto speculare
di un mutismo chiuso e sterile) e la parola vitale/intima, che è l’altra faccia del silenzio
dicente.
«L’intimità, alla parola preferisce il silenzio loquace. [...] Usa attivamente il silenzio, fa
parlare i gesti, gli sguardi, un sorriso, un tono di voce. [...] Il non detto rende complici. [...]
È la sfida più alta portata all’impero del logos» (SI, 138).
Si può dire molto senza utilizzare il linguaggio in senso meramente fonico – aveva già
sottolineato Heidegger, decostruendo anche lui, dal suo lato, il logos (la ratio) occidentale58.
D’altro canto, continua Jullien, nell’intimità si può anche parlare per ore59. Il punto non è
questo. Il punto è che quel dire/dirsi non ha un obiettivo esterno all’intimità stessa; non ha
un oggetto, un qualcosa (aristotelicamente) al centro. «È piuttosto un ‘niente’ che ci si
racconta, un niente di accaduto, di cui si sa bene che ‘in sé’ non ha importanza, o meglio [...]
la ha solo perché l’intimità lo fa condividere» (SI, 177).
Lo spostamento è dal quid detto a chi dice; anzi al tra aperto nell’intrattenersi dialogico.
Che si possa parlare per non dire niente, in effetti, lo si può intendere in due sensi opposti, nel senso di vano
(la parola è vuota) o, per così dire, di pieno: non abbiamo bisogno di dire ‘qualcosa’. [...] Questa parola ha
solo la funzione di investire l’‘a due’; in fondo, non è che una variante del silenzio, che agisce anch’essa
tacitamente, invece di imporsi (SI, 178-79).

Questo parlare pieno, intessuto del silenzio acquoso che lo circonda e riempie, sorgente
inesauribile del dire autentico e, quindi, anche del dialogo autentico. «Fluisce come una
fonte che irriga lo spazio intimo». E proprio perché non si aggrappa e ferma su nessun
oggetto o concetto pre-dato, pre-supposto, «non può che continuare a dire, o piuttosto a
‘intrattenere’» (SI, 179).
Fondamentalmente, nell’intimità, parola e silenzio si equivalgono: l’intimità ne riassorbe la differenza. Si
può altrettanto bene tacere e parlare: tacere allora non è mutismo, e nemmeno riserva; e parlare, anche per
non dire niente, non è chiacchiera. [...] Liberandosi dalla frontalità del dire, così come del suo contrario, il
tacere, entrambi, parola e silenzio, operano allora obliquamente e congiuntamente per produrre la
complicità, tessendo la tenda o la copertura invisibile sotto cui si dispiega l’a due (SI, 181).

57 Tr. it. Laterza, Bari, 2008. Tanto che possiamo dire – anche al di là della lettera del testo di Jullien e del suo
pensiero – che, proprio perché esperienze estreme (quella del dialogo tra amici-amanti e quella del dialogo
oriente/occidente), ci costringono ad un ripensamento del dialogo classicamente inteso.
58 Mi permetto di rimandare al mio Poesia ed esistenza. Heidegger e ‘La parola’ di Stefan George, in F. De

Natale (a cura di), Tra linguaggi e silenzi. Riflessioni filosofiche, Adriatica ed., Bari, 2004, 107-156.
59 SI, 176-77

77
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

E, già nel libro Sull’intimità, Jullien ricorda Zhuangzi e in generale l’esperienza del Tao
(che non si dice ma opera), e affianca il dire/tacere dell’intimità alla «parola che parla senza
parlare (yan wu yan), o che riferisce senza riferire», e che perciò «non smette di ‘far
passare’». Oscillante, fluttuante, «simile ad una ciotola che, una volta piena, s’inclina e
comincia a svuotarsi e, una volta vuota, si raddrizza; non ha stabilità da nessun lato, ma,
continuando a riversarsi, può solo far cogliere attraverso di sé, il corso di infinita
trasformazione delle cose» (SI, 180)60.
Torniamo così alla nostra questione. È possibile parlare e quindi dialogare senza parole?
Come mostra non solo l’esperienza dell’intimità a due, e non solo quella taoista, ma anche
tanta filosofia (occidentale, soprattutto novecentesca), per rispondere a questa domanda è
necessario decostruire quello che Jullien – nel libro Parlare senza parole – chiama
«l’apriori massiccio, mai denunciato in maniera sufficientemente radicale: ovvero che
parlare non possa essere altro che dire una certa cosa, già relativamente circoscritta e
individuata, che la parola va ad identificare non appena si parla».
Il termine logos, per certi versi intraducibile, indicava originariamente insieme: «parola,
discorso, definizione, argomentazione, giudizio (suscettibile di essere vero o falso), ordine e
logica»61. Da qui la cristallizzazione del concetto occidentale di Ragione, ad opera
soprattutto di una certa linea aristotelica (anche se già in Parmenide, in fondo, l’atto del
parlare coincideva con il pensare e dire l’Essere).
La Parola occidentale, inserita in questa tradizione, consciamente o inconsciamente, ai
nostri occhi appare come qualcosa che corrisponde ad un Concetto e ad un Oggetto. Da qui,
come ha notato Heidegger, anche il legame tra leghein, aletheia e omologhein (la latina
veritas/adaequatio).
Ma cosa si perde in questa connessione/adeguazione? Si perdono, per tornare a Jullien,
tutte le risorse che sfuggono al cum/capere. E si perdono tutte le culture (ed esperienze
umane) che non si sono mosse principalmente in questa logica assimilatrice e oggettivante62.
La parola può non «lasciarsi soggiogare da un ‘qualche cosa’ che debba rispondere ad un
‘che cosa?’»? Può liberarsi dalla prigionia degli oggetti, del principio di non contraddizione
e di referenza adeguativa? Può mettersi al servizio di altro, oltre la mera significazione
immediata? Sì. Si pensi alla dimensione poetica, a cui facevamo riferimento quasi all’inizio
del nostro saggio, vedendo le critiche di Jullien all’etica del discorso63.
La poesia dice senza opporre e contrapporre significati. E per questo inter/rompe la
sclerosi del linguaggio, vissuto come abitudine tra le abitudini. Se il dialogo non è senza
macchia, la poesia «depura le parole». Se l’argomentazione delle ragioni divide, la poesia
mantiene tutto insieme, abbracciando. Se il logos rassicura, la poesia (e l’arte in generale)
inquietano, sanamente, consentendo l’apparizione dell’inaspettato. Se il logos ha un inizio e
una fine (un fine), l’antilogos è illimitato, orizzonte infinito.

II.6) ‘Si parler va sans dire’. Un dialogare senza Dia-Logos?

Come dice più propriamente il titolo originale francese del testo, con un gioco
intraducibile: Si parler va sans dire. Se e quando il parlare va, allora non c’è bisogno di dirlo,
va senza dire, va ovviamente, va da sé, va senza dire. Allora, la «parole sans parole», lungi
dall’essere solo un ὀξύμωρον o un’espressione insensata, diventa proposta e indicazione, per
un diverso possibile discorso e dialogo. La ricerca delle ombre (e della penombra) dietro la

60 SI, 180: «Così si può parlare tutto il giorno senza aver mai parlato, ma anche non parlare senza per questo
non aver parlato».
61 Così l’incipit del cap. I (Dire quelque chose).
62 E sempre più con la globalizzazione, che, secondo Jullien, ha prodotto una «logo-logicizzazione», cfr. Parlare

senza parole, 5.
63 Ma si pensi anche alla dimensione orante. A difesa di Aristotele, però, va detto che egli sapeva bene che il

logos non ha solo funzione definitoria, ma che appunto esistono altre funzioni linguistiche.
78
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

luce delle parole. La valorizzazione delle immagini, degli ossimori, della moltiplicazione
sinonimica, dentro e oltre la mera dimensione astrattiva e concettuale. L’approfondimento
di ciò che è mobile (nel logos e nel reale) piuttosto che la fissazione della definizione (che
dice solo l’aspetto morto, esterno, esibibile, irrigidito, inaridito). Lo sviluppo del principio
di contraddizione, invece che quello di non contraddizione. Un movimento ‘tra’ i contrari,
che non sono solo opposti, ma tensivi e tendibili. Una risalita ‘a monte’ delle sclerotizzazioni,
nella sorgente del ‘non c’è’, là dove tutto ancora può sorgere. Ed eviene, se non lo forziamo,
se «favoriamo quanto viene da sè».
Capiamo così, che, nella ripresa che Jullien fa di questa esperienza orientale, parlare
senza parlare non è – come diceva anche Heidegger – una rinuncia, ma un liberare il logos:
slegandolo da ciò che vorrebbe limitarlo (ad una verità fattuale, ad un unico significato).
Ecco: è questo parlare (senza parole) che può diventare (nuovo, sorprendente) dialogo.
Potremmo azzardare – parafrasando – un dialogare senza diaLogo. In questo testo Jullien
dice più semplicemente: ‘intesa’. Intesa implicita, perché scavata nel silenzio e
nell’invisibile. Il che non significa che magicamente ci si comprenda, né che misticamente ci
si trovi d’accordo, né che ci sia risparmiata la fatica dell’andirivieni. Ma significa riconoscere
che le parole sono solo una parte del dialogo. E forse nemmeno quella fondamentale. Prova
ne è che, quando l’intenzione è raggiunta, quando la parola ha indicato ciò che doveva
indicare, quando l’intesa (sia pur attimalmente, sia pur sempre pronta a rimettersi in gioco)
si è data, allora la parola tace; non serve più. «Una volta che il pesce è stato catturato si
dimentica la nassa; una volta che la lepre viene presa, di dimentica la trappola».
A questi detti potremmo collegare quanto scrive Jullien in Le trasformazioni silenziose64,
lavoro in cui da un lato torna sui rischi della vita di coppia (sull’indifferenza che spesso cade
sulle relazioni tra gli amanti) dall’altro lato ricorda tutte le rivoluzioni che riconosciamo
come tali solo alla fine, perché si danno lentamente, tacitamente, senza clamore (rivoluzioni
positive, o anche catastrofiche: si pensi al riscaldamento del nostro pianeta). L’evento è
silenzioso. E questo vale anche per gli incontri e i dialoghi. Pur dandosi, come abbiamo detto,
nel faccia-a-faccia, o proprio per questo, rientrano nel dominio dell’invisibile e
dell’inaudito/inaudibile (cioè oltre l’immediatamente dicibile e ascoltabile).
Nell’incontro e nel dialogo autentico, se si dà una trasformazione, un fecondo
arricchimento, ce ne accorgiamo solo dopo un lungo tratto di percorso65. E, quanto più è
stata silenziosa, tanto più questa trasformazione emerge come sonora (se non esplosiva).
«Spostamento(i) sotterraneo(i) – trasformazione(i) silenziosa(e)», si dice in cinese,
indicando così i passi che si muovono senza clamore: quelli forse mai decisi e perciò decisivi.

Conclusioni aperte

Per dialogare dobbiamo incontrare l’altro/a, abbiamo detto. Ma per incontrare è


necessario innanzitutto accettare di poter e voler rimanere disarcionati, spossessati. Il che
non significa perdere se stessi (anche perché un Sé stesso identitariamente chiuso e
autoreferenziale non esiste), ma significa essere pronti a scoprire parti profonde di sé che
solo il faccia-a-faccia con qualcuno totalmente altro può svelare. E questo implica che un
dialogo non lo si può programmare. Si può organizzare un meeting, un appuntamento. Si
può decidere di voler provare ad iniziare passare del tempo con qualcuno. Ma l’intrattenersi
acquista il suo spessore – e improvvisamente ci accorgiamo che (sì!) stiamo vivendo un

64 F. Jullien, Le trasformazioni silenziose, tr. it. Cortina, Milano, 2010. È un concetto ripreso da Wang Fuzhi.
«La trasformazione silenziosa […] non forza, non contrasta nulla, non si batte; ma si fa strada, […] si insinua,
si estende, si ramifica […] – si propaga ‘a macchia d’olio’» (ivi, 66). In alcuni passaggi, Jullien, ricordando il
Tao cinese, rimanda all’immagine dell’appena percepibile, che può essere colto nel vento lo rappresenta:
imponderabile e inconsistente, e perciò animante, diffuso, propagatore.
65 La transizione sfugge al concetto/parola: per questo è silenziosa. Sfugge al tempo lineare, si muove tra istante

e durata, e per questo non sempre ha l’evidenza dell’emersione.


79
© Logoi.ph – Journal of Philosophy – ISSN 2420-9775 - N. VIII, 19, 2022 - An ABC of Citizenship, vol. 2
(by G. Adesso, S. Cafagna, A. Caputo, B. Cioce, M. Casolaro, M. Losapio, L. Parente, L. Romano, B. Roselli, M. Sardone)

Incontro, un Dialogo fecondo – solo dopo, solo quando, rileggendo a ritroso ciò che è stato,
ci accorgiamo che è successo qualcosa; che quell’esperienza ci ha modificato. Gadamer, a
proposito del dialogo diceva: ne esco arricchito. Ma Jullien aggiunge la sottolineatura
dell’imprevedibilità (anche tragica) dell’esito. Anzi – diciamola meglio – per Gadamer dal
dialogo entriamo ed usciamo. Sebbene siamo costitutivamente esseri dialogici, al peggio,
alla fine, constatiamo che, quello che si è dato, non è stato un dialogo autentico66. Per Jullien
no. Potremmo dire che è l’esatto contrario. Dato che, normalmente, nella nostra esistenza
ed esperienza, viviamo l’opacità delle relazioni e delle presenze, per questo accade anche che
reifichiamo ed opacizziamo i dialoghi, perdendoli. Il punto non è, quindi, sforzarsi di vivere
un dialogo autentico. O provare a constatare se, al temine dell’incontro, ne siamo usciti
arricchiti. Perché in questo atteggiamento c’è ancora tutta la centralità del Sé, e della logica
dell’identità/differenza.
Il tragico (ma anche lo stupefacente) della nostra esistenza è che, pur essendo
costitutivamente fatti per l’alterità, ci irrigidiamo e arrocchiamo nelle nostre mura difensive.
E rischiamo di non incontrare mai veramente l’altro. E quindi mai veramente noi stessi. O,
comunque, di perdere fecondità e risorse vitali. Perciò, paradossalmente, non si tratta di
scegliere se dialogare o no. Si tratta di scegliere se cambiare o no il nostro paradigma di
riferimento. Si tratta di scegliere la vita, il suo tra, le sue sorprese. E, ponendoci in questa
postura disarmata e accogliente, … l’incontro verrà, l’altro si mostrerà a noi come risorsa, il
dialogo nascerà, in noi, oltre noi (e forse anche malgrado noi). Solo se questo accade e
quando accade possiamo – dopo – porci il problema di come custodire questo incontro; e,
corrispondentemente, di come continuare il dialogo. La domanda, quindi, non sarà più come
creare/condurre un dialogo, ma come evitare che si perda, come alimentarlo. E la risposta
di Jullien, è: non preoccupandoci troppo di dove ci condurrà. Ma continuando appunto a
vivere quello spossessamento che è diventato ricchezza. Quel disarmo che è diventato
risorsa. Il che significa, anche, non preoccupandoci troppo della finalità del dialogo stesso
(in quanto la logica degli scopi è esterna al senso dell’autentico incontrare/dialogare), ma
camminando/dimorando: in/tra/ttendendoci nel dia. Gustando l’intimità che – se è un vero
incontro/dialogo – sicuramente porta con sé. Continuando a scoprire le risorse del punto di
vista altrui. Perché solo in e attraverso di esse possiamo imparare a riconoscere anche le
nostre (come bellezze, come risorse… comuni). Il che significa, anche, imparare anche a
mettere sempre più al centro i chi (invece che il cosa), i colloquianti (invece che l’oggetto del
colloquio). Significa scoprire che si dialoga anche senza dia/Logos, così come si parla senza
parole; scoprire che non sempre la ricerca di concetti chiari e distinti, argomentazioni
logiche, definizioni dogmatiche condivise è la cosa migliore nel dialogo (anzi, non lo è quasi
mai). Significa imparare a recuperare parole poetiche, silenzi parlanti, ossimori illuminanti,
metafore viventi, chiaroscuri setosi. Significa accettare che intese senza parole valgono più
di discorsi senza intimità; e processi innescati e non attestati valgono più di conclusioni
condivise senza trasporto. Significa ricordare che anche i più vicini (quelli che Ricoeur
chiamerebbe i Tu: gli amici, i familiari, l’amato, l’amata) restano i più distanti; e solo perché
collocati in questo scarto possono continuare ad essere quelli con cui più abbiamo in comune
e insieme paradossalmente quelli che restano sempre (nell’inquietudine e nello stupore)
scarti rispetto a noi, incomprensibili, inafferrabili.
… Ricominciare, quindi. Lavando le macchie dal termine dialogo, dalla sua storia
(occidentale). Perché in esso nulla più sappia di verità da possedere, di salvezza da
conquistare, di certezze da difendere, di identità da definire, ma tutto solo di Vita.
Al punto che il vivere ridiventa avventuroso, non si conosce in anticipo perché non è più pilotato da un
‘io’ relegato in se stesso; perché ciò che si è tanto detto e rimuginato [...] all’improvviso esce dalla sua
sicurezza e si libera: e allora il vivere può reinventarsi. [E anche il dialogo, n.d.A.]67.

66 Ovviamente stiamo sintetizzando le tesi del noto testo gadameriano Verità e metodo.
67 È l’ultima pagina di SI, 191.
80

Potrebbero piacerti anche