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INTERNATIONAL CONFERENCE

GLOBAL FASHION: CREATIVE AND INNOVATIVE CONTEXTS


Porto, November 11th, 12th and 13th 2010

Le città della moda: il fashion design a Milano e a Londra


Paolo Volonté

Abstract
The fashion business is not a matter of national economies. Though the process of fashion
production is split throughout the world, most decisional positions are concentrated in a handful of
cities in western countries. In the last years fashion cities have been a main issue in the fashion
studies. The specificities of each of them raise a local cultural climate that affects the practice of
those living and working there.
The paper concentrates on the profession of fashion designer and consider how the local cultural
climate of the fashion cities affects the way of being a fashion designer today. At least five factors
of differentiation can be identified: industrial system, educational system, street cultures, local
fashion world, and national culture. Stressing in particular the role of educational systems, a
comparison between London and Milan fashion designers is carried out regarding the way they
consider themselves and represent their own job.

1. Le città della moda


La moda è oggi un business altamente globalizzato, anzi, uno dei più globalizzati tra i settori
industriali. Tuttavia essa continua a essere strutturata, anche dal punto di vista geografico, in
maniera gerarchica. La maggior parte delle posizioni con potere decisionale è concentrata in una
manciata di città collocate nel mondo occidentale o occidentalizzato, le cosiddette “città della
moda”. E se è vero che i processi produttivi e commerciali, dal coolhunting al retail, sono sparsi nel
mondo, è anche vero che i loro snodi principali sono saldamente nelle mani di soggetti situati a
Parigi, New York, Milano, Londra o Tokyo. Non si pensi solo al management creativo e operativo
delle aziende più importanti, ma anche ad attività fondamentali come gli uffici stile autonomi, i
fotografi, le società pubblicitarie, i media, gli show rooms, i flagship stores. Rispetto a questo
complesso sistema di attività strettamente intrecciate tra loro e fondamentalmente legate al luogo,
alcune novità recenti che sembrano andare in direzione contraria, come l’indipendenza delle
aziende del fast fashion (Cietta 2008), hanno in verità un’incidenza minore. Ha ragione David
Gilbert (2000, 9) quando afferma che nel nuovo contesto della società globalizzata le reti
consolidate e le istituzioni delle principali città della moda sono state in verità solo riformate e
ulteriormente rinforzate.
Le città della moda non sono però equivalenti tra loro. Una letteratura recente ha anzi insistito
sulle differenze e sulle caratteristiche specifiche di ciascuna di esse (Breward 2003; Breward and
Gilbert 2006; Segre-Reinach 2005a; Godart 2009), andando ben oltre la classica e rozza
identificazione di Parigi con la haute couture, Londra con gli streetstyles, New York con lo
sportswear e il leisurewear, Milano col prêt-à-porter. L’aspetto interessante è che queste città non si
distinguono solo perché sono più “centrali” di altre metropoli mondiali nei processi economici che
riguardano la moda, un po’ come le “global cities” lo sono nei processi economici in generale
(Sassen 1991). Esse si distinguono anche perché ciascuna di loro è sede di un modo marcatamente
locale di intendere la produzione di moda e il prodotto di moda. Simili specificità si ripercuotono,
ovviamente, sul modo in cui la moda viene intesa e praticata dagli attori locali, qualunque sia la loro
professione.

2. Il fashion design nelle città della moda


In questo articolo circoscriverò l’analisi al solo caso dei fashion designer. Sostengo l’ipotesi che
ciascuna città della moda istituisca per chi ci vive e lavora un background socioculturale molto
forte, in grado d’influire marcatamente sul modo in cui la stessa professione di fashion designer
viene concepita e svolta dai progettisti di moda.
Tale ipotesi è corroborata da alcune osservazioni di carattere empirico sul mondo del fashion
design occidentale, che possono essere derivate dalle biografie dei designer. Se si prova a correlare
la città di riferimento di ciascun designer con altre caratteristiche distintive del suo modo di
interpretare la professione, si possono osservare delle regolarità. Caratteristiche deducibili dalle
biografie sono, per esempio, la posizione occupata dal designer nel sistema produttivo (artigiano,
industriale ecc.), lo stile creativo (disegno, drappeggio, taglio sartoriale), la posizione occupata
rispetto alle istituzioni della moda (integrato o sovversivo). Non sempre è facile ottenere simili
informazioni da fonti che perlopiù hanno lo scopo di adulare il loro soggetto, eppure le differenze si
vedono.
Consideriamo le biografie di 95 fashion designer particolarmente famosi degli ultimi 60 anni
(quelli la cui biografia è facilmente ricostruibile in base alla letteratura disponibile) e analizziamo la
variabile della posizione che essi occupano dentro al sistema produttivo. Diamo a tale variabile
quattro valori: artigiano è chi contribuisce direttamente e manualmente alla realizzazione dei capi
(es.: Manolo Blahnik), industriale chi possiede un’azienda di produzione in serie (es.: Giorgio
Armani), freelance chi possiede uno studio autonomo di design e progetta per vari marchi (es.:
Ossie Clark), direttore creativo chi dirige da dipendente l’ufficio stile di un’azienda non sua (es.:
Tom Ford). A ciascun designer assegniamo una città di riferimento, identificata con la sede
principale del suo lavoro. Non sempre la scelta è univoca, e in diversi casi (per es. nel caso dei
designer giapponesi che si dividono tra Tokyo, dove c’è la sede centrale delle loro attività
produttive e creative, e Parigi, dove si svolgono molte delle operazioni che concorrono a realizzare
il progetto di moda) ho attribuito due città di riferimento. Incrociando i dati si ottengono differenze
enormi, come mostra la tabella 1. Mentre la metà dei fashion designer che lavorano come artigiani
risiedono o fanno riferimento a Parigi, solo il 2% di essi ha come città di riferimento Milano, e il
9% New York. Al contrario, mentre il 33% dei designer imprenditori ha come città di riferimento
Milano, e il 23% New York, solo il 10% viene da Parigi.
Tab. 1: posizione occupata nel sistema produttivo
Parigi Londra New York Milano altre città totali
imprenditore 10% 7% 23% 33% 27% 36 = 100%
artigiano 50% 15% 9% 2% 24% 48 = 100%
free lance 13% 27% 33% 20% 7% 15 = 100%
direttore creativo 33% 25% 25% 0% 17% 12 = 100%

Un ragionamento analogo può essere svolto a proposito della variabile della posizione in cui un
designer si colloca rispetto alle istituzioni della moda. Per istituzioni della moda intendo modelli di
comportamento e organizzazioni che costituiscono la norma per tutti coloro che prendono parte al
gioco. Per esempio le camere sindacali, i principali premi, le sfilate stagionali entro le settimane
ufficiali della moda, le multinazionali del lusso (Kawamura 2005). Rispetto a tale variabile si
possono individuare quattro “valori”: chiamiamo integrato chi aderisce docilmente alle principali
istituzioni della moda della sua città di riferimento, innovatore chi, pur aderendo alle istituzioni
della moda, ha avuto la forza di modificarle parzialmente dall’interno, eccentrico chi ha scelto
programmaticamente di stare al di fuori di tale sistema istituzionale, contestandone la legittimità, e
marginale chi, per vari motivi, non è mai entrato nel sistema istituzionale e ha trovato una posizione
di nicchia al suo esterno, pur senza contestarne la legittimità. Anche in questo caso effettuiamo gli
incroci con i dati relativi alle città di riferimento. Ovviamente gran parte dei fashion designer di
tutte le città assume un atteggiamento integrato rispetto alle istituzioni (altrimenti queste non
sarebbero tali). Ma è interessante osservare che negli altri gruppi la distribuzione è molto meno
simmetrica. Gli innovatori si concentrano a Parigi, mentre sono sostanzialmente assenti a New York
e Milano. I marginali prevalgono a New York e Londra, e sono assenti a Milano.

Tab. 2: posizione occupata rispetto alle istituzioni della moda


Parigi Londra New York Milano altre città totali
integrato 32% 13% 19% 16% 20% 79 = 100%
innovatore 54% 15% 0% 8% 23% 13 = 100%
eccentrico 12% 25% 25% 25% 13% 8 = 100%
marginale 18% 27% 37% 0% 18% 11 = 100%

In sintesi, le specificità del fashion system di una città della moda danno vita a un clima culturale
specifico di quel luogo, e questo incide sulla pratica di coloro che lì vivono e lavorano. Si può
inoltre facilmente supporre, benché non vi siano ricerche su questo punto, che dalla pratica dipenda
anche il prodotto, che si possano cioè individuare delle correlazioni chiare tra le scelte stilistiche e
sartoriali dei fashion designer e la loro provenienza geografica.
3. Le variabili geografiche del fashion design
Perché l’atteggiamento dei progettisti verso il loro proprio lavoro cambia così marcatamente in
funzione della città di riferimento? Ho parlato di un background socioculturale che influisce sulle
loro scelte. Ma da dove scaturiscono le differenze di background tra una città e l’altra? Per
rispondere dobbiamo individuare quelle variabili socioculturali che, mutando in relazione alle
diverse aree geografiche, maggiormente si ripercuotono sulle pratiche e sulle rappresentazioni del
designer di moda. Seguendo un suggerimento di Diana Crane (1993, 56) se ne possono descrivere
cinque, pur senza escludere l’ipotesi che ve ne siano altre altrettanto importanti.
Anzitutto, molto dipende dalla struttura dell’industria dell’abbigliamento nelle varie regioni, nei
distretti connessi alle città della moda internazionali, poiché è con tale struttura che i designer
devono fare i conti all’atto di dover produrre le loro creazioni. Si può supporre che sistemi
industriali forti, dinamici e sufficientemente frammentati abbiano bisogno di un elevato numero di
designer e tendano a inglobarli nella filiera produttiva. Al contrario, laddove dominano le grandi
industrie delle confezioni in serie, oppure dove il sistema produttivo del tessile-abbigliamento è
particolarmente debole e delocalizzato, i creatori probabilmente faticano a trovare sbocchi lavorativi
in ambito industriale. Essi saranno allora spinti a orientarsi verso un modello individualistico e
“artistico” del processo creativo, slegato dall’industria e adattato invece alle varie forme della
produzione in proprio.
Una seconda variabile particolarmente significativa è data dal tipo di sistema formativo
attraverso cui passano i designer, e che spesso differisce da paese a paese. Essa è significativa
perché i processi di socializzazione influiscono pesantemente sui successivi modi di svolgere una
professione. In termini generali, è chiaro che un periodo di apprendistato presso l’atelier di un
collega più anziano fornisce competenze maggiormente operative e meno concettuali rispetto alla
frequentazione dei corsi di moda impartiti da una scuola d’arte. I percorsi meno lineari e più
autodidattici, che passano frequentemente attraverso l’apertura di una boutique d’abbigliamento,
spingono a sviluppare competenze più attinenti alla sfera del gusto e una spiccata sensibilità per le
esigenze della clientela e del mercato. Qualcosa di simile accade a chi è passato attraverso periodi
di apprendistato nelle aziende di produzione industriale di tessuti o confezioni.
Va poi considerato l’influsso delle culture urbane di strada eventualmente presenti nel contesto
in cui il designer lavora, e che per definizione sono strettamente legate al territorio locale.
Storicamente esse sono divenute particolarmente rilevanti nel mondo anglosassone, come si può
facilmente evincere anche dalla letteratura sul tema (Hebdige 1979, Polhemus 1994), e non
sorprende quindi che abbiano influito soprattutto sull’evoluzione della moda inglese e newyorchese.
La quarta variabile è costituita dalla forma che assume localmente il mondo della Moda. Per
mondo della Moda intendo una salda rete di designer, buyer, fotografi, pubblicitari, giornalisti e star
del sistema mediatico locale e internazionale, tipica di ciascuna città della moda. Ciascuno di questi
soggetti è portatore della propria cultura e della propria visione del mondo, ma considerando la
stretta rete che formano essi sono portatori di culture e visioni del mondo sostanzialmente
compatibili tra loro, per non dire omogenee. Si può agevolmente immaginare che un designer che si
sia formato nella “swinging London”, il cui mondo della Moda si caratterizzava per l’impronta
giovanile, legata alla diffusione della musica pop e rock e alla rivoluzione dei costumi sessuali,
abbia acquisito attitudini diverse da un designer formatosi nella New York dell’epoca reaganiana,
quando la scena pubblica era occupata dall’alta società, dai vertici dell’economia e da quelli della
politica internazionale.
Infine, in termini più generali è necessario fare riferimento alle differenze culturali tra le nazioni
di provenienza dei fashion designer. Esse inevitabilmente influiscono sui loro atteggiamenti, sui
gusti, sulle scelte. Valori, immaginari e concetti sono profondamente radicati nella biografia
personale degli individui e dipendono dall’ambiente sociale in cui essi hanno vissuto. Si pensi
all’idea di donna, che ovviamente è centrale nei processi del design d’abbigliamento, e che può
mutare notevolmente da una cultura nazionale all’altra. Lo stesso vale per scelte stilistiche
particolari. Non va attribuito a idiosincrasie personali, ma all’eredità delle rispettive culture
nazionali o regionali di provenienza, il fatto che proprio Domenico Dolce, cresciuto in Sicilia, abbia
sviluppato uno stile mediterraneo, caldo e sensuale, il fatto che sia stato il turco Rifat Ozbek a
mescolare nel suo stile Oriente e Occidente ben prima che si diffondesse ovunque la moda etnica, o
il fatto che sia stato il newyorchese Ralph Lipschitz a nobilitare e diffondere, col marchio Ralph
Lauren, uno stile che si ispira alla vita di villeggiatura nelle campagne del New England.
L’influsso di tali variabili si rende visibile producendo una certa uniformità di comportamento
tra i designer. Esso fa sì, infatti, che coloro che condividono aspetti rilevanti del proprio percorso
professionale o esistenziale mostrino poi di effettuare scelte analoghe relativamente alle strategie
d’indirizzo dell’attività professionale, agli stili vestimentari proposti, alla rappresentazione che
danno della professione in pubblico.

4. Milano e Londra: i sistemi formativi


Non è possibile in questa sede effettuare una verifica empirica dell’efficacia reale di tutte e
cinque le variabili citate relativamente a tutte e cinque le città della moda. Prenderò quindi in
considerazione solo una di esse, la seconda, e confronterò solo due città, Milano e Londra. Farò
dunque una comparazione tra il mondo del fashion design milanese e quello londinese con un
occhio particolare ai rispettivi sistemi formativi. La scelta è dovuta non solo a esigenze di brevità,
ma anche alla disponibilità di materiale empirico su cui fare affidamento. Mi baserò su una serie di
interviste a fashion designer milanesi che ho raccolto negli anni passati nel corso di alcune ricerche1
e sulle interviste a progettisti londinesi citate da Angela McRobbie nel suo noto libro sul fashion
design britannico (McRobbie 1998). In entrambi i casi non si tratta di designer di successo, ma
rappresentanti di quei professionisti anonimi che costituiscono il corpo principale della professione.

1
Si tratta di 21 interviste in profondità, ovvero storie di vita professionale raccolte attraverso il metodo dei “racconti di
vita” (Bertaux 1998), collezionate in diverse fasi tra il 1990 e il 2007 nell’ambito di ricerche empiriche svolte dal
Centro per lo studio della moda e della produzione culturale dell’Università Cattolica di Milano. Gli intervistati sono
tutti fashion designer italiani o, comunque, che operano in Italia da lungo tempo, in prevalenza femmine (sette sono i
maschi) e di età compresa tra 24 e 71 anni al momento dell’intervista.
È osservando il loro approccio quotidiano alla moda, più che quello dei designer famosi, che si può
capire l’influsso che i fattori sociali esercitano in questo campo.
Il sistema formativo per la moda è molto differente nelle due città che ho deciso di prendere in
considerazione. In entrambe hanno sempre prevalso percorsi formali di educazione, cioè la
frequenza di scuole di moda, sui percorsi più informali basati sull’apprendistato o su altre forme di
accumulazione d’esperienza (il lavoro di costumista, l’apertura di una boutique ecc.). Ma il tipo di
scuola prevalente a Londra non assomiglia a quello prevalente a Milano.
A Londra i principali corsi di moda sono offerti da scuole d’arte, in particolar modo il Royal
College of Arts, il Central Saint Martins College of Art and Design e il Goldsmiths College della
University of London. Essi sono quindi inquadrati in piani di studio di tipo artistico. Inoltre gli
studenti di tali corsi si muovono quotidianamente in un ambiente e in una cultura che costantemente
esaltano i valori artistici. Ciò comporta delle conseguenze sul modo in cui la moda vi viene
insegnata e appresa. Scuole di questo tipo mirano non tanto a inserire il futuro designer in un
contesto professionale e istituzionale prestabilito, quanto a coltivare delle personalità individuali
forti e creative, capaci di imporsi in virtù delle proprie doti particolari. La creazione
d’abbigliamento vi è percepita come un’attività fondamentalmente individuale, governata dalla
fantasia del designer e finalizzata alla realizzazione di idee, non necessariamente alla produzione e
alla vendita di oggetti. La produzione, anche industriale, vi viene considerata come il momento
della realizzazione dell’idea, ma si ritiene che sia la (buona) idea a doversi imporre alla produzione,
non questa a dover guidare la formazione delle idee. Di conseguenza non vi s’insegnano materie
economiche, e il contatto con l’industria e il mercato è, anzi, spesso scoraggiato. Per altro verso,
anche le competenze sartoriali (tagliare, cucire ecc.) vengono trascurate, a vantaggio del disegno e
dell’invenzione formale. L’accento cade insomma sulla sperimentazione, sull’estetica, sul progetto
(design) e, soprattutto, sulla creatività, intesa alla maniera romantica come disposizione individuale.
Gli allievi sono costantemente spinti a pensarsi in base al modello delle belle arti (McRobbie 1998,
48-52).
A Milano, invece, il caso di corsi di fashion design offerti da accademie d’arte non è altrettanto
diffuso, e comunque non ha un impatto altrettanto vistoso sul campo professionale. Da uno studio
relativamente recente (Grana e Ottaviano 2002), che ricostruisce il panorama formativo per la moda
in Italia nel 2000-2001 (ma ora lo scenario è, ovviamente, in parte cambiato), risulta che delle circa
230 istituzioni che offrivano allora quasi 700 corsi di vario profilo e livello su tutto il territorio
nazionale solo tre erano Accademie di Belle Arti (L’Accademia di Palermo, la Naba di Milano e la
Lorenzo da Viterbo di Viterbo). In generale l’offerta formativa delle scuole di moda in Italia è
molto legata al territorio, sia per un radicamento culturale degli enti di formazione nelle tradizioni e
nei patrimoni di conoscenze locali, che essi contribuiscono a tramandare (le scuole rispecchiano la
vocazione produttiva dei distretti industriali: la seta a Como, la lana a Biella ecc.), sia per un legame
diretto con le aziende e le associazioni degli industriali, che traggono da esse la manodopera
specializzata di cui hanno bisogno. Ciò crea una connessione tra design e produzione industriale che
va nella direzione opposta della separazione coltivata dalle scuole d’arte inglesi. Gli studenti sono
incoraggiati a prendere contatto con le aziende e a maturarvi un’adeguata esperienza attraverso
stage e tirocini (Bucci 2002). L’esperienza in azienda diventa qui più importante della parte
scolastica, che in ogni caso non punta tanto alla valorizzazione della creatività individuale, quanto
alla professionalizzazione degli allievi in vista di un impiego in ambito industriale, non
necessariamente nel ruolo pubblicamente riconosciuto del fashion designer. Il fatto che il lavoro
avvenga in un contesto industriale trasmette al futuro fashion designer da un lato una serie di saperi
nuovi e diversi, come nozioni di economia e finanza, una conoscenza precisa dei processi
produttivi, nonché la capacità organizzativa e manageriale; dall’altro lato una sensibilità particolare
per i bisogni dell’azienda produttiva, e quindi per il mercato, i costi, il marketing, la vendita, a
discapito delle competenze più tecniche legate alla progettazione del capo d’abbigliamento.
Vediamo ora come queste differenze si ripercuotono sul modo in cui i fashion designer delle due
città vivono e interpretano la propria professione.

5. L’impatto col mondo del lavoro


L’impatto dei giovani fashion designer con l’industria della moda è spesso duro e scoraggiante,
tanto da indurre molti di loro ad abbandonare il campo o a ridefinire radicalmente le proprie
aspettative e la propria auto rappresentazione. In questo caso la percezione dei designer milanesi
non si discosta affatto da quella dei designer londinesi. Una designer milanese che lavora con
soddisfazione per un grande marchio internazionale racconta, a proposito delle sue esperienze
precedenti:

È un mondo tremendo quello della moda, non è semplice, perché ci sono tremilacinquecento ostacoli, se non
ti sai presentare, se non hai fiducia. È la realtà vera del lavoro di Il diavolo veste Prada. Il film ci descrive
perfettamente. Io parlo per esperienza, perché sono uscita da un’esperienza dove ho fatta una di quelle
gavette vere. Tipo dalle 9 del mattino fino alle 9 o 10 di sera, più il lavoro a casa, queste robe così. E poi con
uno stipendio minimo – stipendio, se lo vogliamo chiamare così. È un rimborso spese, che a volte dici: come
faccio a vivere? E quindi per essere apprezzata devi anche sottoporti a delle esperienze, come quelle della
gavetta – dicono che in questo mondo bisogna farla – che a volte sono terrificanti e ti uccidono un po’ la
creatività, perché magari all’inizio non ti fanno disegnare, ma ti fanno fare i pacchi, le spedizioni, robe che
uno stilista secondo me non dovrebbe assolutamente fare. Le fotocopie, quello che dovrebbe fare uno
spedizioniere. Lo affidano a te perché non hai esperienze (f, 24).

L’esperienza dei giovani fashion designer britannici è praticamente la stessa, se si eccettua il


fatto che essi spesso devono emigrare all’estero (Parigi, Milano, Tokyo, New York) per trovare
un’occupazione. Si legga questo brano d’intervista citato da McRobbie (1998, 75-76):

When I finished my MA I already had an offer from A.H. in Paris […]. I stayed with them for three years in
extremely bad conditions. I was left in a dirty room with poor lighting. I was doing all the designs for the
knitwear and was expected to work right through five weekends before the show for no extra pay.
Sometimes that was from ten o’clock in the morning until nine o’clock at night. Often they would have you
there, just to be there, helping to do the cards or the labels. I’d be doing everything before the show and then
have to be in the next morning at ten o’clock after the show. I’d be taking home £600 a month including all
the extra hours with non thanks ever for what I was doing.
La somiglianza dei due racconti, anche nelle parole usate, è straordinaria. Chiaramente
descrivono entrambi una medesima situazione. La differenza principale, che non può essere colta
nei brani riportati se non da una lieve differenza negli accenti, è che la designer italiana ha infine
trovato una collocazione di soddisfazione nell’industria della moda, quella inglese no. Ciò che
accomuna le designer di cui si occupa McRobbie è infatti un’esperienza di fallimento che le ha
costrette ad abbandonare le proprie ambizioni di lavoro nell’industria internazionale della moda e a
tornare nella capitale britannica per aprirvi qualche piccola attività artigianale o commerciale.
L’impressione che si trae dalle interviste riportate da McRobbie e dai suoi commenti è di un
faticoso incontro tra due culture del lavoro diverse e difficilmente compatibili. Da un lato vi è
l’industria dell’abbigliamento di moda, che segue ritmi ciclici dettati dalle collezioni stagionali e
dalla loro presentazione – sicché nei periodi immediatamente precedenti le sfilate di Parigi e Milano
nessuna limitazione dell’orario di lavoro viene più rispettata – e che, più in generale, richiede ai
designer che intendano conservare il proprio ruolo un’attività frenetica durante tutto l’anno. Una
ricerca recente (Marchetti e Gramigna 2007) ha mostrato quanto la flessibilità sul lavoro sia
apprezzata nelle imprese del settore moda della provincia di Milano, che fanno un uso molto esteso
dei cosiddetti contratti atipici. La cultura aziendale delle imprese del settore moda include la piena
flessibilità rispetto agli orari e alle prestazioni sul lavoro, compensata dal prestigio e dall’identità
che si acquisiscono attraverso l’appartenenza a quel marchio e a quel mondo. Dai dipendenti ci si
attende subordinazione alle necessità prioritarie del brand anche per quanto riguarda l’autorialità.
L’azienda, e non il designer, è il vero “autore” dei suoi prodotti. Dal lato opposto vi è il fashion
designer diplomato nelle scuole d’arte, con la propria cultura e una concezione della professione
assimilata, come visto, dal tipo di scuola frequentato. Egli si percepisce come un libero
professionista con competenze di tipo straordinario (la “creatività”), che pochi altri possono capire e
quindi mettere in discussione dentro a un’organizzazione industriale. Da questo punto di vista, il
prodotto dell’attività del designer gli appare come un oggetto compiuto, “bello” in sé, e quindi
pronto per la produzione. E il suo autore (cioè lui stesso) gli appare degno di adeguata retribuzione
sia in termini economici, sia di riconoscimento pubblico. Egli ha quindi poca o nessuna
comprensione per coloro che si appropriano delle idee altrui e le ripropongono o reinterpretano in
nuovi prodotti, un procedimento in verità assai comune e anzi essenziale nei processi della
creatività industriale. Insieme, egli possiede anche la convinzione di aver portato a conclusione, con
il diploma, il proprio percorso formativo, e di non avere quindi bisogno di ulteriori periodi di
formazione dentro alle aziende. Tutto ciò emerge, per fare solo un esempio, dalla seguente citazione
(McRobbie 1998, 79):

I was taken on by H. as a design assistant but after four weeks I still didn’t have a contract and after six
weeks I was unpaid. So I left, having worked for them completely unpaid and I never got the money I was
owed. […] I came back to London in May and then again there was the chance of work with V. in Italy and I
very stupidly did six to eight weeks of work on samples to send him and then I never heard a thing, and they
were only returned to me eight months later without even an acknowledgement. So that’s what’s wrong with
haute couture, they treat young designers with contempt.
È chiaro che quando due culture del lavoro così diverse s’incontrano e cercano di convivere in
un processo produttivo sorgono normalmente difficoltà spesso insormontabili, che possono
condurre rapidamente al fallimento. Ed è altrettanto chiaro che chi deve abbandonare il campo, in
questi casi, è sempre il soggetto più debole, ovvero il fashion designer.

6. Il senso di fare moda


In questo modo, dunque, le differenze nei percorsi formativi tipici delle due città si ripercuotono
sulla carriera professionale dei fashion designer di Londra e di Milano. Ma non è il solo effetto.
Esse lasciano un segno profondo anche sul senso che i designer attribuiscono al loro fare moda, sul
modo in cui interpretano la loro professione.
Come si diceva, nelle scuole d’arte la moda viene insegnata come un’arte applicata, accanto a
corsi di pittura, scultura ecc. In questo contesto dire “arte applicata” è come dire “arte minore”: da
un lato, chi studia il fashion design viene percepito, e si percepisce, come una figura inferiore,
incompiuta e discutibile di artista; dall’altro lato, egli aspira conseguentemente a colmare tale
incompiutezza e assume a modello verso cui tendere la figura dell’artista compiuto, romantico o
avanguardista che sia, ma comunque dedito all’arte “pura”, libera dai vincoli del mercato e del
gusto collettivo. Il fashion designer diplomatosi nelle scuole d’arte, insomma, concepisce il proprio
ruolo e la propria immagine alla stregua di un artista, un creatore di forme innovative ed esperienze
estetiche. Ritiene che il suo principale capitale consista nella propria reputazione e dipenda quindi
dal riconoscimento e dalla fama che conseguono dall’esibizione pubblica delle sue creazioni. La
firma individuale diviene per lui, conseguentemente, uno strumento professionale fondamentale.
Percepisce invece la relazione col sistema di produzione industriale come una forma di scadimento
nella mediocrità, d’assoggettamento al mercato, di compromesso con i gusti dominanti. Identifica la
parte principale della sua attività non con l’attività manuale e artigianale connessa con la creazione
di forme vestimentarie (tagliare, cucire ecc.), ma con l’esercizio della fantasia e con la sua
visualizzazione grafica attraverso gli strumenti del disegno (McRobbie 1998, 113). È chiaro che un
simile atteggiamento di fondo, che i diplomati assorbono dalla scuola e mettono successivamente
alla base del proprio modo di lavorare e interpretare la professione, dà un indirizzo forte alle scelte
che essi fanno in seguito, allontanandoli dal mondo dell’industria. Anche secondo una ricerca più
recente gli industriali britannici si lamentano del fatto che il sistema formativo inglese insegna «la
moda come arte» e non «la moda per l’industria», privilegiando per esempio l’arte del disegno
rispetto alla comprensione del processo della sua interpretazione tridimensionale (Newbery 2003,
12). Naturalmente gli intervistati di McRobbie non fanno eccezione, come conferma il seguente
brano (McRobbie 1998, 107):

I want to hold onto and work with spontaneity. And I want to engage with eclecticism. I like the idea of a
perfect finish but not the work that it involves. By far the most advanced designers are Miyake and Galliano.
They are doing what they want to in spite of the need to make money. Nor is their work just about fashion.
It’s about imagination and projection. Like them, I find two-dimensional work exciting. And I like the idea
of a crossover between fashion, painting and illustration.
L’ideale del giovane designer viene identificato con quegli stilisti che (a torto o a ragione)
sembrano rifiutare ogni compromesso con l’industria e il mercato e lavorare sugli abiti come se
fossero delle opere concluse in sé, alla maniera del pittore. Questi designer rifiutano la
contaminazione col mercato nella convinzione che si tratti di una forma di degenerazione
dell’attività creativa, che condurrebbe inevitabilmente allo svilimento del carattere innovativo ed
estetico del prodotto. Coerentemente, concepiscono i propri modelli più come opere compiute,
come “pezzi unici” o piccole opere d’arte da vendere a caro prezzo, che come prototipi di una
produzione in serie.
Al contrario, i fashion designer milanesi non usano quasi mai l’arte come categoria interpretativa
per dare senso a ciò che fanno, e quando la usano è piuttosto per indicare ciò che la moda non
dovrebbe essere. Ne è un esempio il seguente brano:

Dobbiamo comunque portare soldi, in modo tale che l’azienda si possa permettere queste sfilate creative,
estrose, che magari vendono pochissimo, però alla base hanno la nostra struttura che è invece più sensibile al
mercato, e che quindi pilota un po’ la propria creatività. E devo dire che è una cosa che a me piace. Cioè, va
bene essere creativi, ma non solo creativi e poco concreti e razionali. In generale vale per tutte le forme
d’arte, e soprattutto per quell’arte che viene destinata a un uso pratico. Se fai un abito a cinque maniche,
diventa una scultura, non è più un oggetto di moda (f, 35).

L’argomento di fondo che s’incontra in molte interviste è che la creatività individuale del
designer tende a rivelarsi inutile se non viene incanalata da certi limiti che incontra. Per esempio,
come nel caso citato, se non viene “pilotata” dall’esigenza di produrre un profitto sufficiente a
coprire i costi generati dal libero esercizio di quella stessa creatività nell’organizzazione delle sfilate
e nel disegno delle prime linee o delle linee di haute couture, che hanno volumi di vendita
numericamente irrisori. Oppure, se non viene costretta per via dell’applicazione al corpo, alle sue
forme, alle sue esigenze di movimento, di comodità, di praticità. O, ancora, se non si assoggetta al
mercato, alle esigenze materiali e immateriali dei consumatori, alle loro scelte prudenti e
conservatrici. In caso contrario, infatti, essa finisce spesso per produrre oggetti assai curiosi,
innovativi, suggestivi, ma che di fatto non arricchiscono le possibilità vestimentarie a disposizione
della collettività. Vuoi perché non entrano nel paesaggio culturale, vuoi perché vi entrano solo come
“sculture”, oggetti da guardare e non toccare. L’intero panorama del sistema della moda acquisisce
connotazioni diverse rispetto all’ottica dei designer londinesi. Si consideri questo brano d’intervista
e lo si confronti con l’ultimo brano che ho citato da McRobbie:

John Galliano adesso fa l’artista, si diverte. Ma è normale, lui è arrivato al vertice, ha detto: “beh, adesso che
ho avuto tutto dalla vita mi diverto un po’ a fare uscire questi personaggi strani sulla passerella”, personaggi
vestiti in maniera impossibile, con delle scarpe tremende oppure con dei makeup assurdi, che sembrano delle
maschere. Chi andrebbe in giro così? Nessuno. Ma lui lo fa soltanto per divertirsi. Allora sì che poi, lui, in
quel modo diventa un artista, perché riesce a creare, che ne so, delle giacche con dei colli tremendi, enormi,
che prima non c’erano e che ora ci sono perché le ha create lui. Però uno stilista normale non è un artista, mi
dispiace. Molti s’illudono, ma non è così (f, 24).
Lo stesso fenomeno – John Galliano – è descritto e valutato da due prospettive opposte. La
designer inglese identifica in lui il proprio ideale professionale, un modello cui ispirarsi. La
designer italiana riconosce che quello è un possibile modo di intendere la creazione
d’abbigliamento, ma lo considera un’eccezione riservata ai pochi che se la possono permettere. La
moda “normale” non è, per lei, un’arte.

7. Conclusioni
Possiamo sintetizzare queste osservazioni distinguendo per sommi capi e in forma ideale le due
opposte culture del fashion design che emergono da queste interviste. Esse agiscono in due diverse
città della moda e derivano, almeno in parte, dalle caratteristiche specifiche dei rispettivi sistemi
formativi. Le chiamerò la “cultura della visibilità” e la “cultura della vestibilità”.
La cultura della visibilità, che è tipica dei fashion designer londinesi e deriva tra l’altro dal
sistema formativo delle scuole d’arte, concepisce il capo di moda come un oggetto d’arte,
un’esperienza estetica, qualcosa da osservare. Pensa al designer alla stregua di un autore, e al suo
lavoro come un atto di creatività pura. Il suo è un pubblico di esperti, fatto di critici, giornalisti,
colleghi e in generale persone che appartengono al mondo della moda. Crea oggetti da vedere sui
periodici, alle sfilate o nei musei, indossati dalle modelle o dai manichini. Si tratta di esperienze
bidimensionali: fotografie o filmati. Il suo obiettivo è la reputazione.
La cultura della vestibilità, che è tipica dei fashion designer milanesi e deriva tra l’altro da un
sistema formativo strettamente intrecciato con il locale apparato industriale, concepisce il capo di
moda come un oggetto d’abbigliamento, un’esperienza corporea, qualcosa da indossare. Pensa al
designer alla stregua di un consulente aziendale, e al suo lavoro come a una forma di creatività
vincolata. Il suo è un pubblico di consumatori e, spesso, di fashion victims. Crea oggetti da
indossare nella vita reale, nelle attività di ogni giorno o in occasioni particolari. Si tratta di
esperienze tridimensionali, oggetti da maneggiare e indossare. Il suo obiettivo è il profitto.
Entrambe sono culture della moda. Entrambe contribuiscono, ciascuna a suo modo, al continuo
processo di rinnovamento del nostro paesaggio culturale.

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