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Sommario
1. Il Medioevo 5
2. Il Quattrocento 12
3. Cinquecento e Seicento 31
4. Dal Settecento all’avanguardia 56
Da: Storia d’Italia, vol. 5**, I documenti, Giulio Einaudi Editore, Torino 1973.
1 c. sommer, Die Anklage der Idolatrie gegen Papst Bonifaz VIII und Seine Porträtstatuen, Frei-
burg 1919.
2 g. p. lomazzo, Trattato dell’arte della pittura, Milano 1584, p. 430.
3 I due articoli sono stati rispettivamente pubblicati sui numeri del 15 febbraio e del 15 mar-
zo 1914 di «Lacerba». Cfr. Archivi del Futurismo, vol. I, Roma 1958, pp. 189 e 193.
4 La pittura futurista. Manifesto tecnico, Milano, 11 aprile 1911, ripubblicato in Archivi del Fu-
turismo cit.
1. Il Medioevo.
5 Sui caratteri del ritratto alla fine dell’antichità e nell’alto Medioevo cfr. p. e. schramm, Das
Herrscherbild der Kunst des frühen Mittelalters, in «Warburg Vorträge», II, 1, 1922-23, pp. 162 sgg.;
id., Die deutschen Kaiser und Könige in Bildern ihrer Zeit, 752-1152, vol. I, Leipzig 1928; g. von ka-
schnitz-weinberg, Spätrömische Porträts, in «Die Antike», n. 2, 1926, pp. 36 sgg.; r. delbrück,
Spätantike Kaiserporträts. Von Konstantinus Magnus bis zum Ende des Westreiches, Berlin 1933; g. b.
ladner, The Concept of the Image in the Greek Fathers and the Byzantine Iconoclastic Controversy, in
«Dumbarton Oaks Papers», n. 7 (1953), pp. 1-34; h. p. l’orange, Studien zur Geschichte des spä-
tantiken Porträts, Oslo 1933; j. kollwitz, Bild, in Reallexikon für Antike und Christentum, vol. II,
1954; g. ladner, Ad Imaginem Dei. The Image of Man in Mediaeval Art, Latrobe (Penn.) 1965; h.
p. l’orange, Tardo Antico e Alto Medioevo, in Atti del Convegno del 1967 promosso dall’Accademia
nazionale dei Lincei, Roma 1968, pp. 309 sgg.; m. cagiano de azevedo, Storiografia per immagini,
in Storiografia altomedievale, Spoleto 1970, pp. 119 sgg.
6 g. ladner, Die Papstbildnisse des Altertums und des Mittelalters, vol. I, Città del Vaticano 1941.
Cfr. la recensione di e. kitzinger, in «Speculum», xxiii, 1948, pp. 312 sgg.
7 e. langlotz, Das Porträt Friedrichs II vom Brückentor in Capua, in Beiträge für Georg Swar-
zenski, Berlin 1951, pp. 45 sgg.; g. von kaschnitz-weinberg, Bildnisse Friedrichs II von Hohen-
staufen, in «Mitteilungen des deutschen archäologische Institutes Römische Abteilung», voll. LX-
LXI, 1953-54, pp. 1 sgg., LXII, 1955, pp. 1 sgg.; a. prandi, Un documento d’arte federiciana, Di-
vi Friderici Caesaris imago, in «Rivista dell’Istituto nazionale d’archeologia e storia dell’arte», n. s.,
ii, 1953, pp. 263 sgg.; k. wessel, Bildnisse des Königs Manfred von Sizilien, in «Staatliche Museen
zu Berlin, Forschungen und Berichte», 1958, pp. 38 sgg. Sull’importanza dell’ambiente federi-
ciano per la nascita di osservazioni naturalistiche cfr. le osservazioni di o. pächt, in Early Italian
Nature Studies («Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 1950), e di f. bologna, I pit-
tori alla corte angioina di Napoli 1266-1414, Roma 1969, pp. 24 sgg.
8 j. pohl, Die Verwendung des Naturabgusses in der italienischen Porträtplastik der Renaissance,
Würzburg 1938, pp. 20 sgg. In generale sul ritratto di questo periodo cfr. h. keller, Die Ent-
stehung des Bildnisses am Ende des Hochmittelalters, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte»,
iii, 1939, pp. 227-365.
10 Su questo ritratto, giunto sino a noi in pessime condizioni, cfr. m. kahr, Jean Le Bon in Avi-
gnon, in «Paragone», n. 197, 1966; c. richter sherman, The Portraits of Charles V of France, New
York 1969, pp. 73 sgg. Sullo sviluppo del ritratto autonomo nel Nord verso il 1360 cfr. e. panof-
sky, Early Netherlandish Painting, Cambridge (Mass.) 1958, p. 170. D’altra parte se ragioni dina-
stiche ne hanno facilitato il sorgere sia in Francia che in Austria (ritratto del duca Rodolfo IV di
Asburgo al Museo diocesano di Vienna, cfr. catalogo esposizione Europäische Kunst um 1400, Wien
1962, pp. 145 sg.) i mezzi rappresentativi, gli strumenti pittorici adoperati nel corso di questo svi-
luppo, erano stati creati in Italia nei decenni precedenti.
2. Il Quattrocento.
11 Sull’importanza degli affreschi avignonesi per la storia del ritratto cfr. e. castelnuovo,
Avignone rievocata, in «Paragone», n. 119, 1959; id., Un pittore italiano alla Corte di Avignone, To-
rino 1962; kahr, Jean Le Bon in Avignon cit.
12 pomponio gaurico, De Sculptura (Firenze 1504), ed. Chastel, Genève 1971, p. 53.
trocento. Una folla dipinta si accalca sulle pareti delle chiese celebran-
do i fasti del presente e riempiendo le scene tradizionali dei racconti
evangelici. Personaggi apparentemente riconoscibili che si direbbero at-
tinti alla vita contemporanea si sostituiscono addirittura ai sacri prota-
gonisti e assicurano i ruoli principali.
Quale il significato di questo fenomeno, come si è manifestato e che
cosa sta a indicare? Prima di tutto dovremmo tentare di verificarne l’esi-
stenza e la consistenza. Le cose stanno veramente come le abbiamo de-
scritte o siamo sviati nel giudicarle dal peso di una tradizione secolare,
ma non per questo piu attendibile?
Se ricerchiamo l’origine della tradizione troveremo che un posto fon-
damentale vi occupa Giorgio Vasari. Una chiave importante per la no-
stra ricerca è data dalla vasariana vita di Masaccio. A piú riprese la fi-
gura di questo grande artista è messa dal Vasari in rapporto con i pro-
blemi del ritratto. Nel corso di questa Vita sono affrontati vari aspetti
della ritrattistica del Quattrocento, e del resto già nella caratterizzazio-
ne dello stile di Masaccio il problema del ritratto è presente. Secondo
Vasari infatti Masaccio cercò «di fare le figure vivissime e con bella pron-
tezza a la similitudine del vero»13.
Lo troviamo quindi confrontato con il tipo piú tradizionale di ri-
tratto, quello dei committenti di un’opera religiosa. Parlando della Tri-
nità di Santa Maria Novella, Vasari annota: «Dalle bande sono ginoc-
chioni due figure che per quanto si può giudicare sono i ritratti di colo-
ro che la feciono dipingere»14.
Il problema che segue è piú complesso: in ricordo della consacrazio-
ne della chiesa del Carmine Masaccio, secondo le parole del Vasari,
di terra verde dipinse di chiaro e di scuro, sopra la porta che va in convento dentro
nel Chiostro, tutta la Sagra com’ella fu. E vi ritrasse infinito numero di cittadini in
mantello e in cappuccio che vanno dietro alla processione; fra i quali fece Filippo di
Ser Brunellesco in zoccoli, Donatello, Masolino di Panicale stato suo maestro, An-
tonio Brancacci che gli fece fare la cappella, Niccolò da Uzzano, Giovanni di Bicci
de’ Medici, Bartolomeo Valori... Ritrassevi similmente Bartolomeo Ridolfi che in
quei tempi era ambasciadore per la repubblica fiorentina a Vinezia. E non solo vi
ritrasse i gentiluomini sopraddetti di naturale, ma anco la porta del convento et il
portinaio con le chiavi in mano15.
Purtroppo gli affreschi della Sagra sono perduti, tuttavia nessun equi-
voco è possibile, si parla quindi di ritratti, e di ritratti dal naturale. Tro-
13 g. vasari, Vite, ed. Della Pergola - Grassi - Previtali, vol. II, Milano 1962, p. 227.
14 Ibid., p. 228.
15 Ibid., p. 232.
viamo anzi le stesse parole del Vasari impiegate un secolo dopo da Fi-
lippo Baldinucci nel suo Dizionario de le Arti del Disegno per definire il
ritratto: «figura cavata dal naturale»16.
Nel caso della Sagra si trattava del ricordo di un avvenimento con-
temporaneo – la consacrazione della chiesa era avvenuta nel 142217 – e
la presenza di un tale pubblico trova una giustificazione, ma il caso che
segue è diverso: all’interno della stessa chiesa del Carmine Masaccio fin-
se un san Paolo,
e dimostrò veramente infinita bontà in questa pittura, conoscendosi nella testa di
quel santo, il quale è Bartolo di Angiolino Angiolini, ritratto di naturale, una terri-
bilità tanto grande che e’ pare che la sola parola manchi a quella figura18.
16 f. baldinucci, Vocabolario toscano dell’arte del disegno (1681), in Opere complete, ed. dei
«Classici italiani», vol. III, Milano 1809, p. 98.
17 L’affresco venne eseguito alcuni anni dopo l’avvenimento e vi furono rappresentati anche
dei personaggi che a questo non avevano partecipato, come Antonio Brancacci, morto nel 1391.
Cfr. j. pope-hennessy, The Portrait in the Renaissance, New York 1966, p. 5.
18 vasari, Vite, ed. cit, II, p. 231.
19 vasari, Vite, ed. cit., II, p. 233.
20 Una interpretazione in chiave politica contemporanea degli affreschi della cappella Bran-
cacci quella di p. meller, La cappella Brancacci, problemi ritrattistici ed iconografici, in «Acropoli»,
i, 1960-61, pp. 186 sgg., 273 sgg., che vi vede delle precise allusioni al conflitto tra Milano e Fi-
renze e riconosce nei tratti del tiranno Teofilo quelli di Gian Galeazzo Visconti conte di Virtù.
21 g. vasari, Ragionamenti sopra i dipinti da lui eseguiti nel Palazzo Vecchio di Firenze (le cita-
zioni sono prese dall’edizione pisana del 1823, pp. 91 sg.).
Maria Nuova. Si può dire che tutti o quasi i personaggi dipinti dal Va-
sari nei riquadri rappresentanti l’imprigionamento e l’esilio di Cosimo,
da Rinaldo degli Albizzi al gonfaloniere Bernardo Guadagni, da Puccio
Pucci a Federigo Malevolti che teneva le chiavi dell’alberghetto (il pic-
colo ambiente nella torre del Palazzo Vecchio dove fu imprigionato Co-
simo), al Falgavaccio che corruppe il gonfaloniere per liberare Cosimo
eccetera eccetera si ritrovino nella descrizione delle storie della Vergi-
ne di Santa Maria Nuova22. Può legittimamente dunque nascere il so-
spetto che nella ricerca di modelli «dal naturale» per le sue pitture il Va-
sari abbia forzato i riconoscimenti, contribuendo cosí in modo deter-
minante alla nascita dell’interpretazione in chiave contemporanea delle
pitture sacre del Quattrocento fiorentino.
Ma una testimonianza piú antica e inattaccabile, quella di Leon Bat-
tista Alberti, mostra indiscutibilmente che il costume di introdurre in
una «storia» le sembianze di un personaggio contemporaneo era prati-
cato. Il passaggio in questione si trova nel terzo libro del trattato Della
Pittura e suona cosí
poiché in una istoria sarà uno viso di qualche conosciuto et degnio uomo, bene che
ivi sieno altre figure, di arte molto piú che queste perfette et grate, pure quel viso
conosciuto ad se in prima trarrà tutti li occhi di chi la storia raguardi. Tanto si ve-
de in se tiene forza ciò, che sia ritratto dalla natura23.
25 d. kocks, Die Stifterdarstellung in der italienischen Malerei des xiii.-xv. Jahrhunderts, Köln
1971.
26 alberti, Della Pittura, ed. cit., p. 114.
27 Cfr. k. badt, Drei plastischen Arbeiten von Leon Battista Alberti, in «Mitteilungen des Kun-
sthistorischen Institutes in Florenz», viii, 1957-58, pp. 78 sgg.; pope-hennessy, The Portrait cit.,
p. 66.
terra… Quando era a tavola mangiava in vasi antichi bellissimi, e cosí tutta la sua
tavola era piena di vasi di porcellana, o d’altri ornatissimi vasi. Quello con che egli
beveva era coppa di cristallo o d’altra pietra fina. A vederlo in tavola cosí antico
com’era, era una gentilezza28.
28 vespasiano da bisticci, Vite di Uomini illustri, a cura di A. Mai e A. Bartoli, Firenze 1859,
p. 480. Sull’importanza del Niccoli per gli artisti fiorentini suoi contemporanei cfr. r. krauthei-
mer, Lorenzo Ghiberti, Princeton 1956, passim e in particolare pp. 301 sgg.
29 m. bacci, Piero di Cosimo, Milano 1966, p. 83; pope-hennessy, The Portrait cit., p. 37.
30 panofsky, Early Netherlandish Painting cit., p. 334.
31 quintiliano, Institutio oratoria X 2.7: «non esset pictura, nisi qua lineas modo extremas um-
brae, quam corpora in sole fecissent, circumscriberet» (cfr. g. becatti, Arte e Gusto negli scrittori
latini, Firenze 1951, pp. 180, 376); plinio, Naturalis Historia XXXV 15; alberti, Della Pittura,
ed. cit., p. 78. Sull’interesse destato dal tema della «nascita della pittura» alla fine del Settecento
cfr. r. rosenblum, The Origin of Painting, a problem in the iconography of Romantic Classicism, in
«The Art Bulletin», xxxix, 1957, pp. 279 sgg.
32 Cfr. becatti, Arte e Gusto cit., p. 18.
33 Il testo del sonetto è pubblicato da Adolfo Venturi in «Archivio Veneto», 1885, e nell’edi-
zione delle vite vasariane di Gentile e del Pisanello. L’originale, dovuto a un «poeta Ulisse», è con-
servato alla Biblioteca estense a Ferrara (codice III d 22).
34 m. baxandall, A dialogue on art from the court at Leonello d’Este, in «Journal of the War-
burg and Courtauld Institues», xxvi, 1963, pp. 321 sgg.; id., Giotto and the Orators, Oxford 1971,
pp. 17 sg.
35 r. longhi, La restituzione di un trittico d’arte cremonese circa il 1460 (Bonifacio Bembo), in
«Pinacotheca», 2, settembre-ottobre 1928, pp. 79 sgg., ora in Opere complete, vol. IV: Me pinxit
e problemi caravaggeschi, Firenze 1968, pp. 57 sgg.
re una stanza della Villa Pandolfini a Legnaia: uno dei cicli fiorentini
consacrati a questo tema (un altro, di Bicci di Lorenzo, si trovava nel
vecchio palazzo Medici), non privo di importanza nelle vicende del ri-
tratto.
Intorno a questi stessi anni – siamo verso la metà del secolo – si svi-
luppa a Firenze il gusto del «busto-ritratto»38. Ne restano esempi nei
piú importanti musei del mondo, a Berlino, al Louvre, al Victoria and
Albert, al Bargello. Sono busti virili al massimo caratterizzati nell’espres-
sione, nei lineamenti, nei minimi tratti del volto, busti riconoscibili di
giovani donne, di bambini. Per certi aspetti ci troviamo di fronte agli
equivalenti plastici del ritratto fiammingo. Il fenomeno si sviluppa con
estrema rapidità, vi sono implicati i massimi artisti della nuova genera-
zione: Antonio Rossellino, Desiderio e Mino. In molti casi si tratta di
busti commemorativi di defunti, gloria della famiglia, le cui immagini si
vogliono conservate, esibite e onorate, in altri, piú semplicemente, dei
signori della casa, di coloro che fecero costruire la dimora, in altri an-
cora di giovani donne che hanno lasciata la casa per sposarsi. I busti era-
no esposti al pubblico, talvolta addirittura sull’architrave dei palazzi –
e si avvertono le ingiurie causate da questa collocazione nel busto di
Matteo Palmieri al Bargello – o ancora collocati come sovrapporta all’in-
terno di una stanza (Vasari ricorda che i ritratti di Piero di Lorenzo de’
Medici e della moglie «stettono molti anni sopra due porte in camera di
Piero in casa Medici sotto un mezzo tondo»39). Presto si venne a ese-
guire i busti in terracotta, gesso e altro materiale facilmente modellabi-
le, «onde si vede – è ancora il Vasari che parla – in ogni casa di Firen-
ze sopra i camini, usci, finestre e cornicioni, infiniti di detti ritratti tan-
to ben fatti e naturali che paiono vivi»40.
La voga travolgente di questi busti deve essere messa in rapporto con
un certo numero di fattori e prima di tutto con il culto tributato da Pli-
nio al ritratto monumentale. Alla osservazione del Vasari intorno alla
collocazione dei ritratti su «camini, usci, finestre, cornicioni», va acco-
stato un passaggio della Naturalis Historia, là ove l’autore, rimpiangen-
do l’antico uso, caduto in abbandono, di decorare la casa con i grandi
personaggi della famiglia, ricorda:
Altri ritratti delle figure piú grandi della famiglia erano fuori della porta e in-
torno alla soglia fra le spoglie appese dai nemici, che neanche al compratore era le-
41 plinio, Naturalis Historia XXXV. Cfr. becatti, Arte e Gusto cit., pp. 226 e 404.
42 j. pohl, Die Verwendung des Naturabgusses in der italienischen Porträtplastik der Renaissance,
Würzburg 1938.
43 p. meller, in Studies in Western Art, Acts of the twentieth international congress of the history
of art, 1961, Princeton 1963, vol. II, pp. 53 sgg.
44 l. b. alberti, De Statua, ed. C. Grayson, Bath 1972, p. 122; pope-hennessy, The Portrait
cit., pp. 72 sgg.
colò da Uzzano del Bargello non è piú oggi considerato come suo e
tuttavia i nomi di alcuni protagonisti della vita fiorentina restano le-
gati ai Profeti che egli fece per il Campanile del Duomo. Il Libro di
Antonio Billi – una fonte importantissima del primo Cinquecento –
ci dice in effetti che in due statue egli rappresentò dal naturale Gio-
vanni di Barduccio Chierichini e Francesco Soderini, due personag-
gi implicati nell’arresto di Cosimo il Vecchio45. Ancora una volta è
molto probabile che questa identificazione sia fittizia, dovuta a si-
tuazioni storiche ben posteriori, ma ancora una volta, come nel caso
di Masaccio, sono le potenzialità realistiche ed espressive di queste
opere che hanno potuto giustificare una identificazione precisa. È ap-
punto sfruttando le grandi potenzialità di questo linguaggio che ha
potuto svilupparsi la tradizione del ritratto scolpito che sarà deter-
minante anche per l’evoluzione del ritratto dipinto. Uno dei capola-
vori del Ghirlandaio, il ritratto di vecchio col nipotino del Louvre
probabilmente (ma l’ipotesi trova degli oppositori) tratto da una ma-
schera mortuaria, è indicativo su questo punto. Per molti tramiti il
realismo outré del busto di terracotta, della maschera in gesso e del-
la statua di cera, come Aby Warburg ha magistralmente indicato agli
inizi di questo secolo, avrà conseguenze importanti sullo sviluppo del-
la pittura.
Il confine che corre tra maschera propiziatoria, ex voto e ritratto è
dei piú fluidi. Verrocchio, un personaggio chiave nel mutare della sen-
sibilità fiorentina, ebbe, come è noto, un ruolo importante in questa vi-
cenda. Il passaggio del Vasari in cui descrive gli ex voto con l’immagi-
ne di Lorenzo fatti dal Verrocchio e dal «ceraiuolo» Orsino è partico-
larmente evocativo:
Onde venuta l’occasione per la morte di Giuliano de’ Medici e per lo pericolo
di Lorenzo suo fratello, stato ferito in Santa Maria del Fiore, fu ordinato dagli ami-
ci e parenti di Lorenzo che si facesse, rendendo della sua salvezza grazie a Dio in
molti luoghi l’immagine di lui. Onde Orsino fra l’altro con l’aiuto et ordine di An-
drea, ne condusse tre di cera grande quanto il vivo, facendo dentro l’ossatura di le-
gname, come altrove si è detto, et intessuta di canne spaccate, ricoperte poi di pan-
no incerato con bellissime pieghe, e tanto acconciamente che non si può veder me-
glio né cosa piú simile al naturale. Le teste poi, mani e piedi, fece di cera piú grossa
ma vote dentro, e ritratte dal vivo e dipinte a olio con quelli ornamenti di capelli et
altre cose secondo che bisognava naturali e tanto ben fatti che rappresentavano non
piú uomini di cera, ma vivissimi46.
tutto personale nel devoto approssimarsi al signore e padrone Lorenzo. Il muto col-
loquio fra Lorenzo e questo gruppo è cosí eloquente che considerando piú da vici-
no tutta la composizione ben presto si avverte che «la deputazione salutatoria sul-
la scala» ne è il punto centrale di gravitazione sia artistico che spirituale e affiora il
desiderio di conferire l’uso della parola a tanta muta vivacità. Si tratta dunque di
far parlare quelle persone la cui comparizione tanto sta a cuore a Francesco Sasset-
ti ch’egli cede ad esse in modo cosí strano il primo piano del dipinto50.
E tanto bene il Warburg seppe far parlare quelle figure che esse gli ri-
velarono i propri nomi: Poliziano, il Pulci, Matteo Franco e i tre figli di
Lorenzo, Piero, Giovanni e Giuliano. Il centro della composizione è Lo-
renzo,
verso questi si dirige la deputazione salutatoria che sorge dal suolo come spiriti del-
la terra che fiutino il loro signore e padrone. Li arresta Lorenzo, oppure non fa piut-
tosto cenno che anch’essi possono salire? Egli sta come un poeta-regista che sia in
procinto di improvvisare, sulla scena di una sacra rappresentazione, un moderno
dramma di grande sfarzo… È giunto il momento della trasformazione scenica: è già
calato lo sfondo moderno su cui sono dipinti Palazzo Vecchio e la Loggia de’ Lan-
zi; la compagnia degli attori del Sassetti attende tra le quinte la battuta di chiama-
ta, e ora emergono dal sottosuolo tre piccoli principi e il loro professore pagana-
mente dotto, il segreto maestro di danze di ninfe toscane, l’allegro cappellano di fa-
miglia e il cantastorie di corte; vogliono recitare il preludio per occupare
definitivamente, non appena giunti sopra anche lo stesso spazio rimasto libero su
cui si affollano san Francesco, papa e Concistoro come arena di cose mondane.
51 g. b. cavalcaselle - j. a. crowe, Storia della pittura in Italia, vol. VII, Firenze 1897, pp.
392 sg.
52 vasari, Vite, ed. cit., III, p. 163 (Vita del Ghirlandaio).
53 m. wackernagel, Der Lebensraum des Künstlers in der florentinischen Renaissance, Leipzig
1938; e. gombrich, The Early Medici as Patrons of Art, in Italian Renaissance Studies, a cura di E.
F. Jacob, London 1960, pp. 303 sg., poi ripubblicato in Norm and Form, Edinburgh 1966, pp. 35
sgg. (trad. it. Torino 1972).
Nella quale storia mostrando che a sacrifizi de’ tempii concorrono sempre le
persone piú notabili, per farla piú onorata ritrasse un gran numero di cittadini fio-
rentini che governavano allora quello stato e particolarmente tutti quelli di Casa
Tornabuoni, i giovani et i vecchi54.
Questa unione dei «sacrifizi nei tempii» e delle «persone piú notabili»,
questa pretesa di «rendere piú onorata» la scena sacra, grazie alla no-
biltà dei personaggi rappresentati (un po’ come dire che la nobiltà degli
attori dà lustro al dramma sacro piuttosto che viceversa) sembrano for-
temente databili. E databili piú al tempo del Vasari e di Cosimo I che a
quello del Ghirlandaio e di Lorenzo il Magnifico. In realtà, come ha be-
ne dimostrato il Warburg, in questa irruzione di contemporanei nei sa-
cri avvenimenti vi erano fini propiziatori, analoghi a quelli che spinge-
vano a collocare realistici simulacri di cera accanto alle sacre immagini,
per assicurarsene la protezione. Quanto agli scopi propagandistici, essi
sono troppo evidenti perché vi si insista ulteriormente. In poche altre
occasioni l’immagine dipinta e scolpita ha assunto un tale ruolo nella ce-
lebrazione di una civiltà. Con Giotto la pittura era diventata un ele-
mento fondamentale della cultura fiorentina, e lo svolgersi del Quat-
trocento aveva consacrato questa posizione. Il nascere della riflessione
sull’arte e della storiografia artistica ne testimoniano. Esistono tuttavia
dei limiti.
Per molto tempo il ritratto fiorentino resta civile e biografico prima
che psicologico. Paragonando i mercanti fiorentini degli affreschi del
Ghirlandaio ai confratelli johanniti di Haarlem in una tavola di Gert-
geen tot Sints Jans, oggi a Vienna, Alois Riegl, nel suo saggio sul ritrat-
to di gruppo olandese, notò come i primi, anche laddove sono spettato-
ri passivi, ostentano autocompiaciuti e avidi di conquista la loro bella
esistenza, mentre gli occhi dei secondi sono piuttosto volti verso l’in-
terno e raccolgono in loro, come in uno specchio, il mondo esterno55.
Per una sorta di paradosso le stesse motivazioni – civiche, commemo-
rative, razionalmente cognitive – che avevano permesso nel Trecento di
elaborare gli strumenti atti a creare il ritratto moderno hanno costitui-
to in seguito – ma solo temporaneamente – un limite allo sviluppo del
«genere».
Di privilegi assai maggiori che a Firenze l’artista poté godere nella
seconda metà del Quattrocento nelle corti, e specialmente a Urbino, Fer-
rara, Mantova e Milano. I compiti demandati all’artista erano diversi,
56 m. e. michiel, Notizie d’opere del disegno, ed. Frimmel, in «Quellenschriften für Kunstge-
schichte und Kunsttechnik des Mittelalters und der Neue Zeit», n. s., 1, Wien 1888, p. 80.
57 plinio, Naturalis Historia XXXV 4. Cfr. becatti, Arte e Gusto cit., pp. 225 e 404.
58 e. gombrich, Tradition and Expression in Western Still Life, in Meditations on a Hobby Hor-
se, London 1963, p. 102 (trad. it. A cavallo di un manico di scopa, Torino 1971, p. 155); e. benkard,
Das Selbstbildnis vom 15. bis zum Beginn des 18. Jhdts., Berlin 1927, pp. xviii sgg.
3. Cinquecento e Seicento.
sa in posa rigidamente aulica, quasi ieratica, che sottrae la figura alla mutevole con-
dizione dell’atto momentaneo e all’instabile riflesso dello stato d’animo60.
62m. jenkins, The State Portrait. Its origin and Evolution, New York 1947.
63c. gould, Raphael’s Portrait of Pope Julius II, London 1970.
64 k. oberhuber, Raphael and the State Portrait, I: The Portrait of Julius II, in «The Burlington
Magazine», 1971, pp. 124 sgg.
L’anno dopo Tiziano è ad Augusta, alla corte imperiale, dove gli si chie-
de di dipingere un’immagine commemorativa dell’avvenimento. L’Are-
tino nell’aprile di quell’anno gli scrive, evocando quello che doveva es-
sere a suo parere l’aspetto del quadro:
... Vorrei vedere a lo incontro fermarsi in piedi e moversi… la Religione e la Fa-
ma, l’una con la Croce e il Calice in mano che gli mostrassi il cielo; e l’altra con le
ali e le trombe che gli offerisse il mondo. Conciosia che per acquisto di quello e di
questo il deificato monarca combatte e travaglia non pur il verno come la state, ma
il dí al pari della notte; tolerando la guerra de le malvagie indisposizioni che lo af-
fliggono con una maniera di costanzia, che piú non se ne scorge in un corpo senza
detrimento e disturbo72.
Tiziano rinuncia agli emblemi e alle allegorie che l’Aretino gli sug-
71 k. brandi, Kaiser Karl V München 1937 (trad. it. Torino 1961, p. 563).
72 l. aretino, Lettere sull’Arte, ed. Pertile-Camesasca, Milano 1957-60.
gerisce. Tuttavia – come nota il Von Einem73 – l’opera che egli esegue
non il ritratto di un qualsiasi cavaliere che esce da un bosco durante una
battaglia, è la statua equestre dell’imperatore, del Defensor Fidei, è la
personificazione del Miles Christianus, del san Giorgio, del primo im-
peratore cristiano, Costantino la cui memoria è evocata dalla lunga lan-
cia. Il fiume del fondo è l’Elba, il cui passaggio aveva dato la vittoria al-
le truppe imperiali, ma è anche il Rubicone, secondo il paragone di Luis
de Avila (Commentariorum de bello Germanico a Carolo V Caesare Maxi-
mo gesto libri duo, 1549). Con tutto questo il ritratto è quello di Carlo
V, quelli che vediamo sono i tratti fisici caratteristici dell’imperatore,
sue sono l’espressione intenta, le labbra leggermente aperte.
Confrontando la ritrattistica di Tiziano a quella di Tintoretto Ro-
berto Longhi ha scritto:
Rammento tutte le individuazioni di Tiziano, dall’Ariosto al Jacopo da Strado;
ma stento a ricordare piú d’uno o due fra i mille effigiati tintoretteschi. Ricordo,
s’intende, i roboni dei procuratori a massa bruna e i ventisette «sfregazzi» di lacca
o di carminio, ricordo il fiotto d’ombra sotto ogni naso e molte barbe bianche e fa-
rinose; la solita tenda a «spegazzoni», le solite mani spioventi; a stento ricordo un
uomo74.
73 k. von einem, Karl V und Tizian, in «Arbeitsgemeinde für Forschung des Landes Nordrhein-
Westfalen Geisteswissenschaften»« Arbeitsgemeinde für Forschung des Landes Nordrhein-We-
stfalen Geisteswissenschaften», fasc. 92, Köln-Opladen 1960. Sull’argomento cfr. anche w. braun-
fels, Tizians Augsburger Kaiserbildnisse, in Kunstgeschichtliche Studien für Hans Kauffmann, Berlin
1956, pp. 196 sgg.; a. cloulas, Charles Quint et le Titien, in «L’information d’histoire de l’art»,
ix, 1964, pp. 213 sgg.; e. panofsky, Problems in Titian, mostly iconographic, Glückstadt 1969, pp.
85 sgg.
74 r. longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, Firenze 1946, p. 30; Cfr. t. hetzer,
Tizians Bildnisse, in Aufsätze und Vorträge, vol. I, Leipzig 1957, p. 54; e. hüttinger, Zur Porträt-
malerei Jacopo Tintorettos, in «Pantheon», 1968, p. 468.
75 vasari, Vite, ed. cit., V, p. 25 (Vita di F. Mazzuoli).
Nel passo del Vasari è evidente il carattere che si vuole diretto e imme-
diato della pittura di Giorgione79, e risulta chiaro come l’assenza di di-
segno corrisponda a una scelta deliberata, all’abbandono di uno schema
razionale e astraente di rappresentazione, a vantaggio di un altro sche-
ma che per la sua stessa natura meglio poteva prestarsi a una individua-
lizzazione sempre diversa, condotta caso per caso e corrispondente nel
fluire del tempo a un punto determinato e a uno solo. Pochi lustri sono
passati da quando Antonello fermava su tavola i tratti determinati ed
essenziali del commerciante borghese, del capitano, del marinaio. L’uo-
mo rappresentato da Giorgione sfugge a una elementare classificazione,
è un personaggio inquieto e umbratile. Egli non volge con tranquilla si-
curezza il suo sguardo acuto a certificare del suo stato e della sua presa
sul reale, scruta piuttosto lo spettatore di sfuggita mentre le labbra si
contraggono in una smorfia amaramente enigmatica. Non è la certezza
nella conoscenza e nell’azione propria a una nuova classe che Giorgio-
ne vuole mostrare, quanto una irripetibile condizione esistenziale. Lun-
gi dal voler fornire delle immagini fisse, a cui può venire attribuita una
sola interpretazione, una sola lettura, una sola qualità, coraggio, fierez-
za, magnanimità, intelligenza, il ritratto giorgionesco vuole fornire
un’immagine leggibile in piú di un modo che gli spettatori possono in-
81 m. jaffè, The picture of the Secretary of Titian, in «The Burlington Magazine», 1966, pp.
114 sgg.
82 l. lotto, Il Libro di Spese Diverse, a cura di P. Zampetti, Venezia-Roma 1969, pp. 50-53.
alla posterità, e finalmente, 4) che al fatto assisteva una gran folla che
sarebbe stato sgradevole rappresentare e falso non rappresentare. La de-
cisione di Sir James va nel senso del Lomazzo, vale a dire dipingere il re
cosí come avrebbe dovuto essere piuttosto che come era in realtà, e at-
tenersi a questi principî per il resto della scena85.
Maestà, gravità, solennità: questi stereotipi del comportamento che
già si affacciavano nelle pagine del Cortegiano trovano un modello pre-
stigioso nell’etichetta della corte di Spagna e nel contegno dei suoi mo-
narchi. Nella sua Civile Conversazione (1583) scrive Stefano Guazzo:
Mirate per esempio la grave et venerabile Maestà del re di Spagna con la quale
empiendo gli animi di riverenza è quasi come idolo adorato da Prencipi e Signori –
e confessate che egli con ragione si fa conoscere Re e conserva con dignità la sua
Real grandezza86.
Modelli per eccellenza atti ad essere ritrattati sono dunque per il Lo-
mazzo imperatori, papi, re, principi, cardinali, poeti anche, purché in
ognuno venga messa in rilievo una facoltà essenziale che possa conve-
nire al decoro: «... come fece Giotto quale espresse in Dante la profon-
dità, Simone senese nel Petrarca la facilità, frate Angelo la prudenza del
Sannazzaro, e Titiano nell’Ariosto la facundia e tornamento e nel Bem-
85 e. wind, The Revolution of History Painting, in «Journal of the Warburg and Courtauld In-
stitutes», ii, 1938, pp. 122 sgg.
86 stefano guazzo, Civile Conversazione, Venezia 1583, p. 132.
87 lomazzo, Trattato cit., p. 435.
Questo atteggiamento può essere spiegato come una particolarità del ca-
rattere di Michelangelo, meglio ancora con la sua adesione a principi
neoplatonici, ma occorre scorgere anche come bene esso si leghi alla ten-
denza generale del tempo. E non a caso i due principi delle tombe me-
dicee sembravano esemplari al Lomazzo che, senza preoccuparsi della
plausibilità storica del loro aspetto fisico, li loda perché «si veggono ar-
mati col bastone in mano e con gli habiti tanto accomodati all’anticha
che di piú eccellente per nobiltà e artificio non si può vedere»92.
Se da una parte la nuova organizzazione assolutistica necessitava di
un certo tipo di ritratto, dall’altra le esigenze della religione rinnovata,
o quanto meno riorganizzata portavano a interrogarsi sulla moralità e
Per gli altri tipi di ritratti l’essenziale è che essi abbiano fini onesti – ri-
cordo di un congiunto lontano, prova fisionomica per accertare una pa-
rentela, testimonianza dell’aspetto degli sposi promessi in un matrimo-
nio deciso da lontano. Per il resto «non dovriano porsi in ritratto se non
le persone le quali o con bontà morale o con santità cristiana potessero
essere incitamento alla virtú»93. E ancora occorrerà andar cauti e
nei ritratti di persone di grado e dignità dovriano i patroni procurare che fossero
espressi con la gravità e decoro che conviene alla condizione loro e non con cagnuoli
o fiori o ventarole in mano, non con ucelletti o pappagalli o bertuccie appresso, non
con abiti poco lodevoli, massime le persone ecclesiastiche, non in atti di diporto,
non in altre maniere poco degne di persone mature et essemplari94.
93 c. paleotti, Discorso intorno alle immagini, a cura di P. Barocchi, in Trattati d’arte del Cin-
quecento fra Manierismo e Controriforma, vol. II, Bari 1961, p. 339. Cfr. p. prodi, Ricerca sulla teo-
rica delle arti figurative nella Riforma Cattolica, in «Archivio italiano per la storia della Pietà», iv,
1962, p. 154; e. battisti, voce Ritratto, in Enciclopedia universale dell’arte, cc. 589 sg.
94 Ibid., p. 340.
nisse concesso di «mettere et eternamente stare una sua figura dal vivo
et imagine di bronzo in piedi over sedendo, come par a V. Serenità, fat-
ta a spese sue»95 ... Poco dopo sulla facciata di Santa Maria Formosa
prospiciente il rio, Vincenzo Capello, il vincitore dei turchi, con in ma-
no il bastone di comando domina l’entrata della chiesa. Piú tardi, nel
Seicento inoltrato, sarà il caso di Santa Maria Zobenigo sulla cui fac-
ciata tra l’Onore e la Virtú, la Fama e la Sapienza trionfa Antonio Bar-
baro in uniforme da generale, accompagnato dai suoi quattro fratelli che,
nel piano sottostante, si muovono, dialogano e declamano, mentre sul-
lo zoccolo le piante a rilievo, di varie città e fortezze, Roma, Padova,
Zara, Candia, Corfú, Spalato, alludono alla carriera diplomatica e mili-
tare del capofamiglia96 e, poco lontana, la facciata di San Moisè innal-
za con i suoi busti il prestigio e l’onore della famiglia Fini. Questa for-
mula che tanto successo ha avuto a Venezia da svilupparsi durante un
secolo e mezzo non sarebbe stata evidentemente gradita al Paleotti, ma
altre immagini che traducono una sorta di laicizzazione dell’iconografia
religiosa potrebbero accostarsi a queste. La Madonna dei Tesorieri del
Tintoretto (già nell’Ufficio dei Camerlenghi a Rialto, oggi all’Accade-
mia) è un’Adorazione dei Magi secolarizzata: i Camerlenghi Michele Pi-
sani, Michele Dolfin, Marin Malipiero, le cui effigi sono eternate nella
tela, portano in omaggio alla Vergine sacchetti d’oro, come i loro illu-
stri modelli di cui ripetono gesti e atteggiamenti97.
Quei ritratti che a Venezia erano trionfalmente esibiti sulla facciata
delle chiese, a Roma si nascondono nel buio delle nicchie, all’interno. I
busti di questo periodo testimoniano del mutamento profondo subito
dalle immagini, dall’età aurea del Rinascimento a quella posttridentina.
Sono barbuti volti severi di prelati, di teologi fanatici, di giureconsulti,
di storici (Ciacconio a Santa Maria di Monserrato), sono accigliati con-
dottieri (Camillo Pardo Orsini e Michelangelo Saluzzo all’Aracoeli), let-
terati (Annibal Caro in San Lorenzo in Damaso), dame devote emacia-
te dalla preghiera e dalla malattia (Vittoria Orsini all’Aracoeli). Nell’atrio
di Sant’Antonio dei Portoghesi la sinistra immagine di un vegliardo in
agonia, studiata su una maschera funebre, accoglie il visitatore. È Martín
de Azpilcueta (morto nel 1586); un erudito teologo del tempo e uno dei
quanto si può somiglianti al tutto della persona ritratta; ma per giuoco e talora per
ischerno, aggravando o crescendo i difetti delle parti imitate sproporzionatamente,
talmente che nel tutto appariscono essere essi, e nelle parti sieno variati102.
Ora che una tale invenzione sia giunta proprio a questo punto induce a
pensare che un mutamento profondo fosse intervenuto nel concetto stes-
so di ritratto e nel compito che al ritratto si affidava. Caricare il ritratto
significò una presa di posizione polemica e giocosa contro la «spersona-
lizzazione». Se in questo caso ciò che contava era il privilegiare gli ele-
menti «pubblici» della persona rappresentata, quelli che esprimevano la
sua posizione sociale e rispetto ai quali veniva eventualmente modificato
ogni elemento della presentazione acconciando «ciò che era» alla luce di
ciò che «avrebbe dovuto essere», il ritratto caricato intende all’opposto
privilegiare il privato, il peculiare, l’irripetibile, sforzando «ciò che è» per
vanificare, ridicolizzandola, la pretesa di ciò che «avrebbe dovuto esse-
re». E tutto, dalla tecnica, al tempo dell’esecuzione, alla durata, al tipo di
circolazione sembrano opporre il disegno tracciato alla prima su un foglio,
già ingombro di altri schizzi consimili e destinato a scomparire dopo una
rapidissima circolazione confidenziale, alle sontuose tele, lungamente ela-
borate, concepite per suscitare sentimenti di rispetto, di obbedienza, di
ammirazione. Ma dietro l’invenzione della caricatura v’è anche dell’altro.
Se la sopravvivenza, malgrado le tendenze opposte di isole di natu-
ralismo in Lombardia, l’azione duramente avversata di artisti contro-
corrente come il Barocci103, le esigenze della Riforma cattolica di un lin-
guaggio semplice, diretto e comunicabile, e i richiami del Paleotti sui
compiti del pittore simili a quelli dello storico avevano contribuito a far
uscire il ritratto dalla strada della formalizzazione a oltranza, sarebbe
falso ridurre la problematica del ritratto di questi anni a quella di un re-
cupero naturalistico. I suoi problemi saranno quelli di attingere una ve-
rità piú profonda, e che vada al di là della registrazione del dato natu-
rale, di arrivare a un prodotto che non sia imitazione ma che realizzi le
condizioni di una sua autonomia qualificandosi come creazione. Dirà
piú tardi il Bernini, a proposito del busto di Luigi XIV cui stava lavo-
rando, che egli voleva fare un originale, non una copia104.
Agli inizi del Seicento, e dopo la battuta d’arresto subita dal ritrat-
to di corte, la situazione sembra aperta. Non esiste uno stile egemoniz-
zante, piuttosto delle alternative. A Roma ci sono Caravaggio e Anni-
bale Carracci. Ambedue hanno lottato, sia pure da punti di vista diffe-
renti, per modificare la situazione, per creare nuove formule che
potessero soppiantare gli sperimentati schemi tardo-manieristici, e que-
ste nuove formule sono arrivati a imporle. Tuttavia Caravaggio è co-
stretto all’esilio per un sanguinoso incidente che è il culmine di una se-
rie di provocazioni, mentre Annibale, una volta terminata la Galleria
Farnese, è ridotto quasi all’inazione da una grave crisi psicologica in cui
conta certamente la coscienza della propria alienazione, crescente da
quando è entrato al servizio del cardinale. Ambedue hanno una profon-
da coscienza della loro solitudine, del loro isolamento. Ne fan fede i lo-
ro ritratti. Caravaggio ritrae i propri lineamenti nella testa tagliata di
Golia brandita da Davide (Villa Borghese), Annibale rappresenta la sua
segregazione alla seconda potenza: si ritrae in un quadro dentro il qua-
dro (Ermitage). In una stanza vuota, vicino a un’erma antica i cui inde-
cisi contorni sfumano nella luce della finestra, l’immagine del pittore
sogguarda da una piccola tela posata su un cavalletto vegliato da un ca-
ne e da un gatto106.
Fiducioso e pieno di speranze Domenichino giunge a Roma giova-
nissimo, a seguito di Annibale. Un autoritratto (Darmstadt) – se di es-
so veramente si tratta – ce lo mostra inquadrato dagli stipiti di una por-
ta contro il paesaggio della Campagna, vestito di nero, il cappello ser-
rato contro il petto mentre la laconicità di una iscrizione non maschera
l’emozione e la fierezza che si scorgono anche nei tratti del volto di ado-
lescente pensoso: «A dí 12 aprile 1603 in Roma». II massimo cronista
107 La frase è del Baglione. Su Ottavio Leoni cfr. r. longhi, Volti della Roma caravaggesca, in
«Paragone», n. 21, 1951; l. grassi, Lineamenti di una storia per il concetto di ritratto, in «Arte an-
tica e moderna», 1961, p. 484; h.-w. kruft, in «Storia dell’arte», 4, 1969, pp. 447 sgg.
108 g. p. bellori, Vite dei pittori, scultori ed architetti moderni, tomo I dell’edizione pisana (1821),
p. 226; j. müller hofstede. Rubens und Tizian: Das Bild Karls V, in «Neue Zürcher Zeitung», n.
266, 1° ottobre 1966, pp. 19 sg.
109 zeri, Un ritratto di Pietro Paolo Rubens a Genova, in «Paragone», n. 67, 1955.
Cosí
per rappresentare il livido che certuni hanno intorno agli occhi bisogna scavare nel
marmo là dove dovrebbe trovarsi il livido, per rappresentare l’effetto di questo co-
lore e supplire in questo modo al difetto della scultura cui non è in potere di dare
colore alle cose116.
nal Scipione Borghese, piuttosto una maggior serietà, una coscienza piú
acuta del prestigio e delle responsabilità sociali (busti di Luigi XIV e di
Francesco d’Este), e anche una piú travagliata riflessione morale (busto
di Gabriele Fonseca). Per tutta la vita d’altronde conserverà il ricordo
del Barberini. È una delle prime cose che nota lo Chantelou: «A ogni
occasione è da lui citato il papa Urbano VIII da cui fin dalla piú tenera
giovinezza è stato amato e considerato»119. Quando lavora al busto di
Luigi XIV quegli anni sono ormai lontani. Ora egli fa di tutto per mo-
strare di condividere il gusto classicista di corte: ostenta disprezzo per
il Caravaggio aderendo alla condanna che lo Chantelou esprime sulla
Zingara («Povero quadro senza spirito né invenzione»), ammira il Re-
ni («Questo quadro non è bello... è bellissimo; io vorrei non lo haver vi-
sto; sono quadri di paradiso» – a proposito di una Maddalena), si pro-
sterna davanti a Poussin, il «grande favoleggiatore» («Voi mi avete da-
to oggi un grandissimo disgusto, mostrandomi la virtú d’un uomo che
mi fa conoscere che non so niente» – allo Chantelou che gli mostra i Sa-
cramenti). Cosí accomoda il ritratto del re secondo lo schema di un Ales-
sandro, («A parte la rassomiglianza in questo tipo di ritratto occorre
mettere ciò che deve trovarsi nella testa di un eroe»), inventa un piedi-
stallo – un globo terrestre tra trofei d’armi – e una divisa – «piccola ba-
se» – per fare intendere come il mondo intero sia limitato di fronte al-
la grandezza del re. Ma nello stesso tempo rimane l’occhio acutissimo
di un tempo, rivela straordinarie capacità di osservazione che gli sono
necessarie per arrivare a individualizzare inimitabilmente il ritratto pur
accentuandone l’aspetto traslato e metaforico, vuole «insupparsi»
dell’immagine del re e nell’arguta botta e risposta col sovrano evoca il
delicato rapporto tra realtà, osservazione e ricreazione («Sto rubando»,
«Sí ma è per restituire», «Per restituire meno del rubato») con termini
che fanno pensare ai ritratti fatti «senza notizia dei padroni» nella ca-
sistica del Paleotti o ai «ritratti rubati» di cui parla il Malvasia120.
Cosí fino all’ultimo Bernini domina il secolo e i pur bellissimi ritrat-
ti della fronda berniniana (Finelli, Bolgi, ecc.) non avevano proposto al-
ternative d’avvenire. L’unica, forse, sarebbe stata quella del grande Du-
quesnoy, ma si è spenta senza seguito. E del resto quale alternativa? Co-
me Tiziano, e sia pure in un contesto ben diverso e in un’Italia diminuita,
Bernini domina con le sue invenzioni, le sue impennate, i suoi muta-
menti di stile, la sua capacità di seguire o addirittura di anticipare le
Del resto il piú grande ritrattista italiano del secolo, Fra Galgario,
non ha bisogno di una clientela straniera per sentirsi incoraggiato a tra-
scurare le formule consuete. Bergamasco anche lui, come i Nazzari – era
stato maestro di Bartolomeo –, ma d’altra levatura, il suo genio matura
lentamente in decenni di studio e di apprendistato, ma si rivela poi con
uno scatto che lo porta in testa alla ritrattistica europea di quegli anni.
«Con certo impasto di colori attivo | esprime in quel disegno che colo-
ra | l’effetto naturale e sensitivo», dirà di lui un contemporaneo125, acu-
tamente cogliendo gli aspetti piú salienti della sua pittura. Che non è
pittura di corte panegirica e adulatrice, piuttosto, e con un certo anti-
cipo, pittura per eccellenza del secolo dei lumi, con quello che ciò com-
porta di probità, di serietà, di impegno morale. Impegno che si manife-
sta a partire dall’esecuzione, dalla preparazione stessa della materia.
Quelle lacche che renderanno celebre il Ghislandi le prepara lui stesso
e gli sono invidiate da tutti. Sebastiano Ricci, all’apice della sua cele-
brità internazionale, cerca di procurarsele con l’aiuto di un suo altolo-
cato corrispondente bergamasco:
bramerei che ella si pigliasse l’incomodo di pregare il Padre Ghislandi, Paolotto, co-
sí singolare ne’ ritratti, che dimora in Bergamo, ed è molto mio amico; vorrei, dico
che V. S. illustriss. lo pregasse da parte mia a volermi dare cinque o sei once, o, se
potesse, ancor una libbra di quella lacca fina che il detto Padre sa comporre; ma la
vorrei avere della piú bella che mai sapesse fare. So che ne fa per adoperarle lui me-
desimo di un’estrema bellezza; se di quella ancora ne potessi avere almeno un paio
d’once, sarebbe veramente il mio caso. Se mai colla interposizione di V. S. illu-
strissima potessi avere questa lacca, la supplico a volergliela pagare tutto quello che
chiederà il virtuoso Padre126.
Tra gli exploits tecnici e la nuova obiettività nei confronti del ritratta-
to non c’è soluzione di continuità, sono due aspetti concomitanti di una
poetica che si esprime nei fatti piú che nelle parole e che indica un ri-
127 Testamento del marchese Pier Antonio Rota (1740) citato nel catalogo I pittori della realtà
cit., p. 46.
128 Prefazione di r. longhi al catalogo I pittori della realtà cit., p. xv.
129 Lettera di Giacomo Carrara a monsignor Bottari, in bottari-ticozzi, Raccolta cit., V, pp.
358 sgg.
130 Cfr. a. warburg, Contadini al lavoro in arazzi di Borgogna (1907), ora in id., La rinascita del
paganesimo antico cit., p. 210.
131 r. longhi, Di Gaspare Traversi, in «Vita Artistica», 1927, pp. 145 sgg., ora in Opere com-
plete, vol. II, tomo I: Saggi e ricerche 1925-28, pp. 189 sgg.
132 Lettera del marchese Giustiniani a Teodoro Amideno in bottari-ticozzi, Raccolta cit.,
VI, p. 122.
I nostri parchi sono ornati di statue, le nostre gallerie di quadri. Che mai pen-
sereste che rappresentino questi capolavori dell’arte esposti alla pubblica ammira-
zione? I difensori della patria? O quegli uomini ancor piú grandi che l’hanno ar-
ricchita con le loro virtú? No. Sono le immagini di tutti i traviamenti del cuore e
della ragione scelti accuratamente nella mitologia antica e presentati di buon’ora ai
nostri figli perché possano avere sotto gli occhi dei modelli di cattive azioni ancor
prima di aver imparato a leggere133.
133 j.-j. rousseau, (Œuvres complètes, a cura di B. Gagnebin e M. Raymond, Dijon 1964, vol.
III, p. 25.
134 diderot, Essai sur la peinture, in Oeuvres, a cura di A. Billy, Bruges 1962, p. 115.
135 h. fielding, prefazione a Joseph Andrews (1742).
ghi, appartiene alla loro schiera136. I suoi ritratti piú belli sono proprio
quelli in cui eterna su tela gli esempi delle nuove virtú. Goldoni appun-
to, il grande teorico del razionalismo architettonico, Carlo Lodoli, «for-
se il Socrate Architetto», la cui immagine incisa era circondata da un
fregio su cui correva la frase: «Devonsi unir e fabrica e ragione | e sia
funzion la rappresentazione»137, o ancora Bartolomeo Ferracina, inge-
gnere della repubblica, «Novus Archimedes». Non è tuttavia privo di
significato il fatto che non esista nel ritratto italiano del Settecento una
critica cosí radicale nei confronti dei massimi rappresentanti del grup-
po sociale egemone, quale si avverte, per esempio, nei ritratti di Goya.
Del resto, e a parte qualche grande eccezione, la storia del ritratto ita-
liano, a partire almeno dalla invenzione dello «state portrait» che, non
per coincidenza, avvenne proprio qui, è piuttosto quella di una giustifi-
cazione e di una idealizzazione del presente – un presente che può ave-
re molte facce date le diversità e i contrasti tra i diversi gruppi sociali –
piuttosto che prefigurazione critica e profezia d’avvenire.
Altre vie avevano permesso ad altri artisti di uscire dalle norme e
dai limiti del ritratto di parata barocco. Il lucchese Pompeo Batoni
seppe creare per esempio a Roma un ritratto che si distaccava dagli
schemi comunemente usati. La formula che verso gli anni cinquanta
egli mise a punto rispondeva a un’esigenza che era stata teoricamente
posta mezzo secolo addietro e che aveva avuto conseguenze quanto
mai importanti. L’identificazione del gusto e del senso morale, dell’ar-
te e della moralità avanzata dallo Shaftesbury aveva dato uno stimolo
capitale all’apprendimento del bello, considerato come un fattore fon-
damentale del processo educativo. D’altra parte l’importanza da lui
accordata all’ordine, alla proporzione, all’armonia e la sua critica
all’«entusiasmo» stanno alla base di canoni estetici nuovi che si op-
pongono ai processi persuasivi del barocco e preludono alla «ragione»
dello stile classico. Lo Shaftesbury fu il mentore della nuova genera-
zione britannica e le sue idee ebbero pratiche conseguenze nel formarsi
dell’abitudine al «grand tour» che i gentiluomini inglesi presero rego-
larmente a fare per educare il proprio gusto, e che regolarmente li con-
dusse in Italia e a Roma, tappa d’obbligo e suprema di questo viaggio
iniziatico. Ben presto Batoni divenne il ritrattista alla moda dei mi-
lords inglesi e degli aristocratici che passavano da Roma. Li rappre-
sentò spesso circondati dalle piú celebri statue antiche, di cui posse-
136 levey, Painting in xviii Century Venice cit., pp. 156 sg.
137 haskell, Patrons and Painters cit., p. 322.
deva i calchi nel suo studio, oppure attorniati da vasi classici, o anco-
ra all’aperto, appoggiati a un’ara, a un cippo, a un’antica balaustra,
mentre sul fondo, a precisare la posizione del ritrattato, si stagliava-
no i grandi monumenti romani. Creò cosí in un certo modo un ritrat-
to intellettuale: invece di sottolineare particolarmente certi elementi,
rilievo sociale, maschera mondana, ecc. (ma anche senza passarli sot-
to silenzio), i suoi ritratti esaltano le caratteristiche di sensibile cono-
scitore, di uomo di gusto della persona rappresentata. Cosí il ritratto
con statue antiche, il ritratto con rovine vengono a imporsi, quasi un
punto di incontro tra il ritratto e la veduta archeologica, come se si
volesse dare la parola al personaggio in posa per fargli dire, qui sono
stato, queste opere ho visto, questi monumenti, questo paese. Tutta-
via mentre Batoni «non perdeva di vista l’incarico sociale e ufficiale
del ritrattista che col pennello crea il quadro della società come essa si
rispecchia negli occhi del pubblico»138, ben piú avanti di lui andò il
«pittore filosofo» (come lo ricorda l’iscrizione posta al Pantheon, pres-
so la tomba di Raffaello), il sassone, ma d’elezione romano, Anton
Raphael Mengs. Nei ritratti degli amici piú cari, Winkelmann, De Aza-
ra, nell’impressionante serie degli autoritratti, Mengs ricercò un tipo
di ritratto essenziale, profondamente spoglio e introspettivo. Scrisse
Onorato Caetani:
Mengs mi ha dipinto e letto nella mia fisionomia il carattere; che voi vedete nel-
le mie lettere, Batoni mi ha dipinto con quella fisionomia con la quale io mi na-
scondo. Insomma Mengs mi ha dipinto come mi conosce Mr de Felice [corrispon-
dente del Caetani], Batoni come mi conosce Roma139.
138 s. röttgen, I ritratti di Onorato Gaetani dipinti da Mengs, Batoni e Angelica Kauffmann, in
«Paragone», n. 221, 1968, pp. 61 sg.
139 Ibid., p. 58.
140 a.r. mengs, Opere, vol. I, Parma 1780, p. 113; cfr. grassi, Lineamenti per una storia cit.,
p. 488.
141 j.k lavater, Physiognomische Fragmente, Winterthur 1784 sgg., vol. II, p. 76, citato in
röttgen, I ritratti di Onorato Caetani cit., p. 71, nota 39. Una ricerca sul ritratto italiano del Set-
tecento e sul suo background socio-culturale dovrebbe prendere a modello lo studio di e. wind,
Humanitätsidee und Heroisiertes Porträt in der Englischen Kultur des 18 Jahrhunderts, pubblicato in
«Vorträge der Bibliothek Warburg», Berlin 1932, in cui l’atteggiamento differente verso il ritratto
che si manifesta nelle opere di Reynolds e Gainsborough è studiato in rapporto alle profonde di-
vergenze e alla diversa concezione dell’uomo e della natura che opponevano nella cultura inglese
del Settecento il dottor Johnson a David Hume. Data però la relativa ristrettezza della situazione
italiana, se comparata a quella inglese, è probabile che i risultati sarebbero meno fecondi.
142 Conferenza pronunciata a Basilea il 10-3-1885, pubblicata in Vorträge, Basel 1918, ed. it.
Letture di storia e di arte, Torino 1962, pp. 417 sgg.
143 In Beiträge zur Kunstgeschichte von Italien, Basel 1898, pp. 145 sgg.