Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Ipsa dierum
Festorum herboso colitur si quando theatro
Majestas tandemque redit ad pulpita notum
Exodium, cum personæ pallentis hiatum
In gremio matris formidat rusticus infans [51].
Di venticinque specie almeno si contavano le maschere della
tragedia: sei di vecchi, sette di giovani, nove di donne e tre di
schiavi, distinte tutte da una peculiare diversità di lineamenti, di
colore, di capellatura e barba.
Eravi poi la persona muta, sorta di maschera portata dall’attore, che,
pur figurando nel dramma, non parlava mai, come le comparse del
teatro moderno. Questa maschera aveva dunque la bocca chiusa e
non aveva espressione al pari delle altre.
Tanto negli scavi di Pompei che in quelli di Ercolano, si rinvennero
nelle pitture esempi di personæ, o maschere tanto comiche, che
tragiche, e che di semplici comparse e rispondono perfettamente a
quei cenni che son venuto adesso fornendo.
Ho accennato più sopra che la maschera aggiungeva altresì valore
alla voce: infatti essa la rendeva più sonora, quasi raccogliendola
nell’emissione, come faremmo noi al bisogno di più grande clamore,
che portiamo le mani intorno alla bocca. Un attore tragico
domandava una forte e tonante voce, perchè dice Apulejo, il
commediante recita e l’attor tragico grida a tutta possa. Nè
diversamente intese dire Cicerone, quando nella enumerazione delle
doti necessarie all’oratore, chiede ch’egli abbia la voce d’attor
tragico: In oratore autem acumen dialecticorum, sententiæ
philosophorum, verba prope poetarum, memoria juriconsultorum,
vox tragœdorum, gestus pene summorum actorum est
requirendus [53]. — Vedrà facilmente il lettore quanta modificazione
avesse in progresso, e massime a’ tempi nostri codesto requisito; il
quale or vuolsi risponda alla vera naturalezza.
Seconda invenzione di Eschilo, al dire di Orazio, fu la palla, o con
più proprio vocabolo greco, pur serbato dai Romani, la sirma, Συρμα,
ed era la tunica che l’attor tragico portava lunga sino ai talloni,
sostenendo le parti di personaggi eroici o divini. Era essa intesa a
dare grandezza e dignità alla persona, e nascondeva la
sconveniente apparenza dello stivale tragico, cothurnus, ad alta
suola. Giovenale vi accenna nella Satira VIII, quando così apostrofa
Nerone:
Hæc opera atque hæ sunt generosi principis artes,
Gaudentis fœdo peregrina ad pulpita saltu
Prostitui, Graiægue apium meruisse coronæ.
Majorum effigies habeant insignia vocis:
Ante pedes Domiti longum tu pone Thiestæ
Syrma vel Antigones, seu personam Menalippes,
Et de marmoreo citharam suspende colosso [54].
Questo coturno poi era uno stivale portato dagli attori tragici sulle
scene, il quale aveva una suola di sughero alta parecchi pollici,
all’intento di far comparire, egualmente che la sirma, più grande la
loro statura ed aggiungere loro un più imponente aspetto. Da siffatta
consuetudine originò la frase sumere cothurnum, calzare il coturno,
per indicare tanto l’attore tragico, che il poeta che componeva
tragedie. Questa promiscuità d’indicazione fu motivata allora, come
fino a’ tempi moderni, da ciò che più spesso il poeta era anche
l’attore. Già, pur allora, ne accennai implicitamente nel parlare di
Livio Andronico; come dei tempi moderni può recarsene ad esempio
Shakespeare.
L’uso del coturno nella recitazione della tragedia vuolsi
generalmente introdotto da quell’altro sommo poeta tragico greco
che fu Sofocle; onde scambiasi, per metonimia, fin nel linguaggio
d’oggidì, coturno sofocleo bene spesso par tragica composizione.
Virgilio l’usò in un’egloga ad esprimere la severità o sublimità dello
stile, parlando de’ versi di Cornelio Gallo, al quale quel
componimento è diretto:
Il teatro Tragico era situato sul declivio di una collina, sulla sommità
della quale si trova il lungo e vasto portico accommodato a ricevere
gli spettatori in caso di pioggia, potendo all’uopo anche servire di
passeggio, e di lizza per gli esercizi ginnastici. A differenza del
Comico, era esso scoperto al pari dell’anfiteatro e della più parte dei
teatri d’allora, massime di Roma; onde notai come particolarità
quella dell’Odeum pompejano d’essere stato coperto, riferendo anzi
a prova l’iscrizione che l’attesta, ma che d’altronde non può dirsi che
fosse l’unico nella Campania, avvertendoci Stazio che pur in Napoli,
dei due teatri, l’uno fosse coperto e l’altro no, in quel verso:
Sotto la seconda cavea dovevano trovarsi tre statue, delle quali due
esser dovevano indubbiamente degli Olconii, Celere e Rufo, alla cui
spesa erasi eretto il teatro.
Una particolarità poi offre l’orchestra del teatro tragico in un
piedistallo, o piuttosto altare, su cui, a norma della costumanza
greca, — e della Grecia molti usi osservavansi, più che altrove
dell’orbe romano, in Pompei, — sacrificavasi a Bacco prima di dar
principio allo spettacolo. Chiamavasi con greco vocabolo thymele o
thimela, θυμελη, e serviva altresì ad altri usi, come anche di
monumento funebre, o di qualunque altro oggetto richiesto nella
rappresentazione drammatica, nascondeva il suggeritore che stava
di dietro, mentre il suonatore di flauto (tibicen) e qualche volta il capo
del coro prendevan posto su quello. In un teatro strettamente
romano non v’era thymele, perchè ivi l’orchestra fosse interamente
destinata ad accogliere gli spettatori, al pari della nostra platea [83].
Al sommo di ciascuna sala eranvi le porte, vomitoria, cui si giungeva
per mezzo di corridoi e scale praticate internamente.
Il proscenio presenta sette nicchie semicircolari per i tibicini e nella
parte anteriore corre tutto per il lungo quella cavità dell’hyposcenium,
da cui sorgeva l’aulæum, o sipario della tragedia.
Altre particolarità non si notano che il Gran Teatro distinguano
dall’Odeum, ove non s’eccettui la prospettiva della scena ch’era
costituita da tre ordini di colonne, l’uno sull’altro, con eleganti basi e
capitelli di marmo e sei statue saviamente collocate. Sembra che
anche questo publico edificio fosse stato ben danneggiato dal
tremuoto del 63 e che si trovasse nel momento della catastrofe del
79 in istato di riparazione, perocchè la scena che evidentemente
doveva essere rivestita di marmi ed altre decorazioni, se ne presenti
ora affatto spoglia. Delle tre porte ordinarie che la scena si aveva, e
che qui sono maestose, aperta quella di mezzo, secondo l’uso, nel
fondo di un emiciclo, chiamavasi regia, perchè di là uscivano i
principali personaggi della tragedia: le due laterali appellavansi
hospitalia. Fiancheggiano la porta di mezzo due nicchie che
contenevano le statue di Nerone e di Agrippina.
Piacemi finalmente tener conto di ciò che afferma il Rosmini nella
sua Dissertatio Isagogica, altre volte da me citata, che cioè questo
teatro fosse stato aperto al publico, od almeno dedicato ad Augusto
nell’anno vigesimosecondo del tribunato di questo imperatore [84].
Frammenti di statue di marmo, lapidi con iscrizioni, tegole ed
embrici, e pezzi di legno carbonizzati si rinvennero dalla parte del
Foro Triangolare, e il complessivo giudizio che dalle interessanti
reliquie è dato di formulare, può sicuramente mettere in sodo che a
questo loro teatro avessero i Pompejani ad aggiungere grande
importanza, se gli Olconj vi credettero portare enormi dispendj; tanta
vi pare la magnificenza e la perfezione dell’arte.
Quali fossero le tragiche composizioni che a questo teatro venissero
rappresentate cerchiamo ora coll’usata rapidità d’indagare.
Se ci fosse lecito di mettere il teatro pompejano a fascio cogli altri
teatri d’Italia, mi trarrei presto e facilmente d’impegno, dicendo che a
siffatto teatro si rappresentassero, nè più nè meno che ai teatri di
Roma, le tragedie de’ latini scrittori, e mi avverrebbe allora di
ricordare i nomi de’ più celebrati poeti; ma gli scavi ed oggetti teatrali
rinvenuti mi impongono obblighi maggiori.
Sappiamo che Andronico lasciò diciannove tragedie, comunque
appena qualche frammento sia rimasto superstite e giunto fino a noi,
e di questo autore ho già parlato altrove abbastanza: egual numero
ne lasciò Marco Pacuvio, e Quintiliano le loda per profondità di
sentenze, nerbo di stile, varietà di caratteri, sebbene la critica
moderna più severa, nel poco che ci è pervenuto, giudichi non esser
concesso ravvisare che liberissime imitazioni in istile oscuro e senza
armonia. Lucio Accio alla sua volta ne compose e raffazzonò di
molte, fra cui il Bruto e il Decio, soggetti patrizi che recitavansi
ancora ai tempi di Cicerone e più volontieri venivano lette, e
dell’Atreo, che Gellio scrisse aver Accio, giovanetto ancora, letto in
Taranto a Pacuvio, pur lodandolo di grandiose e solenni cose scritte,
non gli tacque di altre sembrargli dure alquanto ed acerbe; al che
avesse a rispondergli: non dolere ciò a lui, e trarne anzi auspicio di
buon avvenire, per accader degli ingegni quello che delle mele, che,
se nate agre e dure, divengono poscia tenere e succose; ma se
spuntino tenere e succose, col tempo, non mature ma vizze si
rendano e corrotte [85].
Di Gneo Nevio campano già dissi nel precedente capitolo del pari;
ora ricorderò Quinto Ennio Calabrese, che scrisse tragedie e
commedie non poche, che predicava di sè aver ereditato l’anima di
Omero, Cassio Severo, Varo da Cremona e C. Turrano Graecula
rammentati, a cagion d’onore, da Ovidio, come autori di buone
tragedie [86]; ma più vorrei intrattenermi di Asinio Pollione, che fu
riconosciuto siccome il più celebre tragico latino: ma che dirne, se
nulla di lui, come degli altri sunnominati, sopravisse? Istessamente
della Medea, che si sa avere scritto Ovidio stesso, della quale egli
nel libro secondo Dei Tristi, dopo avere ricordato i libri dei Fasti, i sei
ultimi dei quali o non iscrisse, come crede il Masson, o andarono
perduti, soggiunge:
Se non che, oltre la Medea, più altri lavori sembra che Ovidio abbia
scritto pel romano teatro; fra i quali certo la Guerra de’ Giganti,
com’ei ce ne avverte nell’elegia I degli Amori:
Ausus eram, memini, cœlestia dicere bella
Centimanumque Gygen; et satis oris erat [90].
Si gloria egli stesso che molte volte fossero rappresentate anche alla
presenza d’Augusto [91], e continuassero a rappresentarsi con
grande concorso anche dopo il suo bando [92].
Nè di più posso dire del Tieste di Vario, che a giudizio di Quintiliano
cuilibet Græcorum comparari potest [93], e che Orazio nell’Arte
Poetica mette con Virgilio a paro.
Alcune tragedie, gonfie di declamazioni e mancanti di quel che
appunto costituisce il dramma, che è l’azione, raccolte in volume,
vengono tuttavia spacciate sotto il nome di Lucio Anneo Seneca da
Cordova. Esagerazioni, passion falsa, caratteri atroci, furori,
situazioni improbabili sono difetti comuni a queste composizioni, alle
quali non ponno tuttavia negarsi ben coloriti racconti, spesso maschii
concetti e qualche buona sentenza, laconiche e concettose parole.
Nella Medea, a cagion d’esempio, quando la nutrice la compiange
perchè più nulla le sia rimasto:
Nell’Ippolito, Teseo chiede a Fedra qual delitto creda dover ella colla
morte espiare:
Fedra risponde:
Venient annis
Sæcuta seris, quibus Oceanus
Vincula rerum laxet, et ingens
Pateat tellus, Tethysque novos
Delegat orbes; nec sit terris ultima Thule [96].