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Émile Zola, Nana, 1880.

Alle nove, la sala del teatro delle Variétés era ancora nuova. Poche persone in balconata e nelle prime
file di platea aspettavano, sperdute nelle poltrone di velluto color granato, sotto la mezza luce del
lampadario a fiamma abbassata. La grande macchia rossa del sipario annegava nell’ombra; non un
rumore veniva dal palcoscenico, la ribalta era spenta, i leggii dei suona sparsi qua e là. Soltanto in
altro, nella galleria di terz’ordine, intorno al soffitto rotondo sul quale donne e bambini nudi
s’involavano in un cielo inverdito dal gas, risa e richiami si alzavano da un brusio continuo di voci, e
teste coperte da berrette e cuffie si allineava sotto gli ampi vani concavi incorniciati d’oro. Ogni tanto
appariva una ouvreuse che teneva in mano i biglietti e faceva passare davanti a sé un signore e una
signora, i quali prendevano posto, l’uomo in frac, la donna sottile e flessuosa che lentamente girava
intorno lo sguardo.

Alexandre Dumas figlio, Préface a Le fils naturel, 1858.


Sulle doti necessarie al drammaturgo.
La prima di queste qualità, la più indispensabile, quella che domina e comanda, è la logica, che
comprende il buon senso e la chiarezza. Ci può essere una verità assoluta o relativa, a seconda
dell’importanza del soggetto e del posto che occupa: la logica dovrà essere implacabile tra il punto di
partenza e quello d’arrivo, che non dovrà mai essere perso di vista nello sviluppo di un’idea o di un
fatto. Occorre inoltre […] la scienza delle controparti, […] in una parola delle opposizioni che
costituiscono l’equilibrio, l’insieme e l’armonia; poi la concisione, la rapidità, […] poi la progressione
matematica, inesorabile, fatale, che moltiplica la scena per la scena, l’evento per l’evento, l’atto per
l’atto fino allo scioglimento, che deve essere il totale e la riprova; infine, la nozione esatta dei nostri
limiti, che ci vieta di fare il nostro quadro più grande della cornice, poiché l’autore drammatico deve
dire tutto quello che ha da dire dalle otto di sera fino a mezzanotte, compresa un’ora di intermezzo e
di riposo per lo spettatore.
Sullo scopo del teatro.
Per mezzo della commedia, della tragedia, del dramma, della buffoneria, nella forma che ci converrà
di più, inauguriamo dunque il teatro utile, anche a costo di sentir gridare gli apostoli «dell’arte per
l’arte». […] Un’arte che, per limitarci alla Francia, ha prodotto Polyeucte, Athalie, Tartuffe e Le
Mariage de Figaro, è prima di tutto un’arte civilizzatrice, la cui portata è incalcolabile quando ha per
base la verità, per scopo la morale, per auditorio il mondo intero, ed è il mondo che oggi ci ascolta.
[…] Il capolavoro per il capolavoro non è più sufficiente al pubblico, non più della satira senza il
consiglio, non più della diagnosi senza la cura. E poi ridere sempre dell’umanità senza che questa ne
tragga alcun beneficio è crudele, triste, è una vigliaccheria.

Émile Zola, Il romanzo sperimentale, 1880.


Giudizio di Zola su Alexandre Dumas figlio.
Dumas ha sentito il «bisogno di legiferare, di predicare e di convertire. Egli ha fatto di sé il sostituto
di Dio su questa terra […]. Lui, che è stato toccato dal soffio naturalista, che ha scritto scene di
un’osservazione così precisa, non si rifiuta mai, tuttavia, di ricorrere a finzioni quando lo richiedano
le esigenze della dimostrazione o semplicemente della costruzione del dramma. È la mescolanza più
irritante di realtà intravista e di invenzione barocca».
L. de Leymarie, A. Bernheim, L’enseignement dramatique au Conservatoire, 1883.
Sui compiti del Conservatoire d’Art Dramatique.
Insegnare agli allievi ora a pronunciare, ora a interpretare, ora a sapersi muovere sulla scena, ora a
mettere in luce il carattere del personaggio, ora a presentarlo logicamente e armoniosamente di modo
che tutti questi aspetti non siano discordanti, e di incoraggiarli allo studio, in accordo con le tradizioni,
col grande repertorio classico, col movimento di ogni scena, con i caratteri che ci sono trasmessi dai
maestri.

Francisque Sarcey, Quarante ans de théâtre, 1900-1902.


Su Jean Mounet-Sully nella parte di Amleto.
Egli ha disegnato il personaggio come può farlo un grande artista: si sarebbe creduto di veder
camminare l’Amleto di Eugène Delacroix. Ha composto la parte con rara intelligenza, anzi, dire
intelligenza non è dire abbastanza. Se Mounet ha reso la parte in modo così meraviglioso non è
precisamente perché la comprendeva bene, ma perché la sentiva profondamente. Sono anni che
Munet-Sully si è identificato con Amleto, che Amleto parla, agisce e vive in lui. Egli ne è ossessionato
a tal punto che quando recita gli è difficile di sapere ciò che gli rimane della propria personalità.
Amleto l’ha penetrato totalmente e l’ha modellato a immagine del suo sogno. […] Mounet-Sully non
recita il personaggio in senso proprio, egli è il personaggio stesso, e lo è non soltanto alla sera in
palcoscenico, grazie ad un artificio da grande attore, ma lo è realmente e nel percorso di tutta una
vita.

Vittorio Emanuele I, patente istitutiva Compagnia Reale Sarda (28 giugno 1820).
"Essendoci stato rassegnato, offrire di ottenere la Sovrana Nostra approvazione, il lodevole
divisamento di una Società che avrebbe per iscopo di istituire in questa Capitale una Compagnia
stabile, composta di eccellenti Attori Drammatici Italiani, considerando Noi, che l'Arte Drammatica,
ben regolata ed opportunamente favoreggiata e protetta, mentre procaccia agli Abitanti della Capitale
un onesto sollazzo, tende ad ingentilire il costume; e volendo Noi per altra parte concorrere, con altri
Principi d'Italia, nel conservare la purità della Nostra leggiadrissima favella; e nel sollevare più alto
grado di splendore così illustre ad un tempo, e così profittevole in cui felicissimi Italiani Ingegni
hanno dato prove di singolare valore, Ci siamo di buon grado determinati ad approvare l'esecuzione
di un siffatto disegno persuasi che il mezzo più spediente a migliorare e perfezionare l'arte
Drammatica, si è l'istituzione di una Compagnia di Ottimi Attori. Desiderando poi che una simile
istituzione ottenga più facilmente il suo fine, e volendone assicurare la durevolezza, abbiamo divisato
di far ciò eseguire a spese del regio Erario; e risoluto che una tale esecuzione sia affidata alle cure
della Nobile Direzione dei teatri.
Per mettere poi questa in grado di più agevolmente compiere questo incarico, vogliamo che
sieno alla medesima aggiunti cinque soggetti che verranno da Noi nominati. A questo fine la direzione
suddetta presenterà un modello di esecuzione, e proporrà la somma necessaria da pagarsi dal R.
Erario, la quale però non dovrà oltrepassare la somma di lire cinquanta mila, e finalmente è Nostro
volere che il Repertorio delle azioni Drammatiche, che dovranno rappresentarsi da una tale
Compagnia sia composto, e determinato dalla nostra Nobile Direzione, e sottoposto quindi
all'approvazione del Primo Segretario di Polizia.
Torino, lì 28 giugno 1820
Vittorio Emanuele - Di S. Marzano.

Francesco Righetti, Teatro italiano, Torino, Paravia, 1828.

Su Antonio Morrocchesi.

Fra tutti gli attori italiani da me veduti […] nessuno ha presentato alla mia mente un contrasto più
bizzarro quanto il nostro Morrocchesi, celebre attore tragico. […] La sua voce era rauca, e mal atta a
colorire tenere espressioni, imponente, terribile nell’espansione di violenti affetti; il suo portamento,
il suo gesto erano nobili, e dignitosi, né perdevano della loro dignità, e della loro nobiltà, che quando
voleva dipingere gli oggetti fisici con gesti di contraffazione. La sua dizione ora lenta, ora precipitata,
non era sempre quadrante colla qualità dei pensieri che doveva esprimere, quasi sempre sublime nella
pittura di vive immagini, e nell’entusiasmo si trasportava talvolta al di là di quel confine stabilito fra
la sublimità, e la stravaganza: infine nessun attore ha presentato all’occhio dell’intelligente
osservatore maggior riunione di bellezze tragiche e difetti del tutto particolari. Quest’attore si applicò
quasi esclusivamente alle tragedie del grande Alfieri, e fu dei primi che le fece assaporare sui pubblici
teatri, ed in queste sviluppava tutte le sue qualità fisiche e morali. Nessuno potrà contrastare al nostro
Morrocchesi esser egli stato il primo fra’ comici a penetrare ben addentro ne’ reconditi pensieri di
quel gran tragico, a colpirne i caratteri, a regolare la declamazione de’ suoi versi meno pomposi, che
ricchi di pensieri, ed indigesti alla più gran parte de’ comici d’allora. Fu acclamato nelle principali, e
nelle più colte città d’Italia, e stette gigante in mezzo a’ suoi rivali che pur volevano atterrarlo,
assalendolo da ogni lato. Questi è il solo valente artista con cui, nella mia carriera teatrale, mi sia
trovato in contatto fino che non fui aggregato alla drammatica compagnia al servizio di S.S.R.M. il
re di Sardegna, e non temo d’errare se dico, che questo tragico attore era l’attore di genio; il suo
difetto nell’analisi dei caratteri traspariva nelle particolarità, non nel tutto; e se talvolta deviava dalla
retta declamazione, e si abbandonava a conati troppo più violenti del bisognevole, era meno per
mancanza d’intelligenza, e d’arte, che per la foga di strappare al pubblico que’ clamorosi applausi,
che lo inebriavano, e di che era quasi sempre padrone.

Émile Zola, Le naturalisme à théâtre, 1880.

Su Tommaso Salvini in La morte civile di Paolo Giacometti.

Sono rimasto stupito quando ho constatato che il grande talento di Salvini si fonda sulla finezza, sulla
misura, sull’analisi. Non c’è un gesto inutile, non uno scoppio di voce. A prima vista sembrerebbe
piuttosto grigio, e bisogna aspettare per essere presi da questa recitazione così semplice, sapiente e
forte. Il suo ingresso da forzato fuggitivo, da umo umile e sofferente, inquieto e torturato, è
meraviglioso. Ma ciò che mi ha più colpito è il modo in cui egli fa il lungo racconto della sua evasione.
All’improvviso, in mezzo all’andamento drammatico della scena, è un angolo di commedia che si
apre. Egli abbassa la voce come se lo si potesse sentire, dice il racconto con lo stesso tono velato, e
tuttavia animandosi, finendo per ridere dell’aver ingannato i secondini così bene. Noi non abbiamo
un solo attore drammatico in Francia che avrebbe l’intelligenza di cancellare così la sua voce. Tutti
racconterebbero la fuga ruotando gli occhi e allargando le braccia.
George Bernard SHAW, La Duse e la Bernhardt, 1895.

Su Sarah Bernhardt ed Eleonara Duse in Casa paterna di Sudermann (parte di Magda)

Madame Bernhardt ha il fascino di una allegra maturità, un po’ troppo viziata e petulante, ma sempre
pronta a un sorriso-raggio di sole tra le nuvole. I suoi abiti e i suoi gioielli non sono splendidi ma
fanno faville; la sua figura, una volta, troppo poco imbottita, ora è al punto giusto, e la sua carnagione
rivela che sa bene usare la sua conoscenza dell’arte moderna. Quegli affascinanti effetti rosati che i
pittori francesi ottengono dando all’incarnato il grazioso colore di una porzione di fragole e panna,
ombreggiato di rosa cremisi, sono riprodotti con grazia d Madame Bernhardt nella pittura vivente che
riesce a fare di sé. Si colora le orecchie di cremisi, e le lascia occhieggiare attraverso due ciocche
pendenti di capelli neri come l’ebano. Ogni fossetta ha il suo tocco di rosa e la punta delle sue dita
sono di un color carne così delicato che sembra siano trasparenti come le orecchie, e che le sue vene
delicate lascino trasparire la luce. Le labbra sono rosse come cassette della posta appena dipinte; le
guance, fin sotto le languide ciglia, sono vellutate come pelle di pesca; è bella della bellezza che ha
saputo studiarsi addosso, e assolutamente inumana e inverosimile. Ma questa inverosimiglianza è
perdonabile; perché (e qui è l’assurdo), anche se nessuno ci crede (e l’attrice stessa meglio di chiunque
altro), è così studiata, così intelligente, così consapevolmente parte di un prodotto, ed essa la porta
con un’aria così sapiente, che è impossibile non accettarla con piacere. […] È l’arte di scoprire tutte
le vostre debolezze e di giocare con esse lusingandovi, straziandovi, eccitandovi; a conti fatti,
prendendovi in giro. Ed è sempre la stessa Sarah Bernhardt con la sua abilità che vi fa questo scherzo.
L’abito, il titolo della commedia, la parte, l’ordine delle parole possono cambiare; ma la donna è
sempre la stessa. Essa non entra nel personaggio per farsi guidare da esse: si sostituisce al
personaggio.
Tutto questo è esattamente l’opposto di quel che accade nel caso della Duse: ogni parte per la
Duse è una creazione indipendente dalle altre. Quando entra in scena, prendete pure il binocolo da
teatro e contate quante rughe il tempo e gli affanni hanno tracciato sul suo volto. Sono le credenziali
della sua umanità […]. Le ombre sul volto della Duse sono grigie, non cremisi; le labbra qualche
volta sono anch’esse grigiastre; non ci sono tocchi di colore né fossette; il suo fascino non potrebbe
mai essere imitato da una cameriera di bar, anche se spendesse tutte le sue risorse per agghindarsi e
avesse una fila di luci della ribalta di fronte, invece dei manici di una macchina per spillare la birra.
[…] La Duse è in azione da appena cinque minuti, ed è già un quarto di secolo avanti rispetto alla più
bella donna del mondo. Ammetto che l’elaborato sorriso da Monna Lisa di Sarah Bernhardt, con il
sapiente batter di ciglia e le lunghe labbra color carminio che si aprono timidamente sulla scintillante
fila di denti, non solo non può passare inosservato ai vostri sensi, ma li scuote. […] Ma la Duse, con
un tremore delle labbra che voi sentite più che vedere, arriva dritta al cuore; e non c’è un tratto della
sua faccia, o un tono freddo dell’ombra grigia, che non renda penetrante quel tremore. Quanto alla
giovinezza e alla bellezza, chi potrebbe associare la purezza e la delicatezza delle emozioni e la
semplicità dell’espressione con le sordide astuzie che tentano di far tornare indietro l’età; o il richiamo
alla voluttà e a un egoistico compiacimento di sé, con il candore e la generosità che ci attraggono
nella giovinezza? […] La verità è che, nell’arte di essere bella, Sarah Bernhardt è una bambina al suo
confronto. Il repertorio di atteggiamenti e di espressioni facciali dell’artista francese potrebbe essere
facilmente catalogato come il repertorio delle sue idee drammatiche: a farne il conto basterebbero le
dita delle due mani. La Duse dà l’illusione che la varietà delle sue pose e dei suoi movimenti sia
infinita. Ogni idea, ogni ombra di pensiero, ogni umore, si rivela con leggerezza di tono ma con
vigore; eppure, nell’apparente infinità di mutamenti e di inflessioni, è impossibile cogliere una
angolosità o una tensione che interferisca con il perfetto abbandonarsi delle sue membra a quella che
sembra la naturale gravitazione verso la grazia più armoniosa. È flessibile e morbida come una
ginnasta o una pantera; solo la folla delle idee che trovano espressione fisica nei suoi movimenti sono
tutte di quella alta qualità che distingue gli animali dagli esseri umani e dai cattivi ginnasti. Quando
si pensi che la maggior parte degli attori tragici è capace di esplodere solo nelle passioni che l’uomo
ha in comune col bruto, non sarà difficile capire l’indescrivibile differenza che la recitazione della
Duse acquisisce dal fatto che in ogni tratto del suo lavoro scenico c’è un’idea inconfondibilmente
nuova. È un istinto di eletta umanità che resta costantemente vigile e cerca di svegliare la risposta dei
sentimenti più profondi senza suscitare dolore.

Émile Zola, Il romanzo sperimentale, Paris, 1880.

Sul ruolo del romanziere.

[…] Il romanziere è insieme un osservatore e uno sperimentatore. L’osservatore per parte sua pone i
fatti quali li ha osservati, individua il punto di partenza, sceglie il terreno concreto nel quale si
muoveranno i personaggi e si produrranno i fenomeni. Poi entra in scena lo sperimentatore che
impianta l’esperimento, cioè fa muovere i personaggi in una storia particolare, per mettere in evidenza
i fatti che si succederanno secondo la concatenazione imposta dal determinismo dei fenomeni studiati.
[…] Un romanzo sperimentale […] è nient’altro che il verbale dell’esperimento che il romanziere
ripete sotto gli occhi del pubblico. In conclusione, il procedimento consiste nel prendere i fatti nella
realtà e nello studiarne la concatenazione agendo su di essi, modificando, cioè, circostanze e ambienti
senza mai allontanarsi dalle leggi della natura. Ne deriva la conoscenza scientifica dell’uomo nella
sua azione individuale e sociale. […] I romanzieri naturalisti osservano ed esperimentano e […] il
loro lavoro nasce interamente dal dubbio in cui si pongono di fronte a verità non ben conosciute, a
fenomeni non spiegati, fino a quando, un giorno, un’ipotesi sperimentale ne stimola bruscamente
l’ingegno e li spinge ad impiantare un esperimento al fine di analizzare i fatti e diventarne padroni.
[…] Il romanziere non è altro che un cancelliere, che si trattiene dal giudicare e dal trarre conclusioni.
Il ruolo esatto di uno scienziato consiste nell’esporre i fatti, di inoltrarsi fino in fondo all’analisi, senza
tentare la sintesi. […] Un romanziere che sente il bisogno di indignarsi contro il vizio e di applaudire
la virtù, rovina allo stesso modo i documenti che presenta, in quanto il suo intervento è fastidioso
quanto inutile; l’opera perde la sua forza, non è più una pagina di marmo estratta dal blocco della
realtà, ma è una materia lavorata, rimpastata dall’emozione dell’autore, emozione soggetta a tutti i
pregiudizi e a tutti gli errori.

Sulla differenza tra lettore e spettatore.

[…] Vi è il problema del lettore, che è solo, e degli spettatori, che sono una massa; il lettore nella sua
solitudine tollera tutto, va dove lo si vuole condurre, anche quando ne ha fastidio, mentre gli spettatori,
che sono molti, hanno pudori, sgomenti, sensibilità di cui tener conto, pena l’insuccesso sicuro. Tutto
questo è vero, ed è proprio per questo che il teatro è l’ultima cittadella della convenzione […].

André Antoine, Le Théâtre Libre, Paris, 1890.

L’arte dell’attore non si baserà più, come nei vecchi trattati, su qualità fisiche, su doni naturali; vivrà
di verità, di osservazione, di studio, diretto della natura.
Ritroviamo qui ciò che si osserva nelle altre arti interpretative, come ad esempio nella pittura, dove
il paesaggista non lavora più nel suo studio, si trasferisce in piena natura e in piena vita. Nelle scuole
non si formeranno più gli artisti drammatici sulla base di pochi ruoli ripetuti, commentati e stabiliti
per secoli da molte generazioni di attori illustri. Più cerebrale, il talento dell’attore sarà indirizzato a
verità ed esattezza.
Dato che lo stile drammatico delle nuove opere tende a farsi più aderente alla parlata quotidiana,
l’interprete non dovrà più recitare nel senso stretto e classico del termine, si troverà piuttosto a
conversare, e la cosa non sarà poi tanto difficile. [,,,] Una stessa trasformazione dovranno subire le
altre componenti dell’arte drammatica: le scene saranno ridotte alle dimensioni correnti di ambienti
della vita contemporanea, i personaggi si muoveranno entro cornici verosimili, senza la
preoccupazione continua di fare quadro nel senso abituale del termine. In un dramma intimo lo
spettatore apprezzerà i movimenti semplici e giusti, i gesti normali, le azioni abituali di un uomo
moderno che vive la nostra stessa vita quotidiana.
I movimenti degli interpreti sulla scena saranno modificati: l’attore non abbandonerà più di continuo
la sua posizione per posare davanti alla platea; agirà in mezzo a mobili e suppellettili varie, la sua
interpretazione si arricchirà di quelle mille sfumature, di quei mille dettagli ormai indispensabili a
fissare e logicamente comporre un personaggio.
Semplificando l’azione teatrale e riportandola alla realtà, spariranno i movimenti meccanici, gli effetti
della voce, i gesti empirici e ridondanti, l’attore ritroverà i gesti naturali sostituendo gli effetti di voce
la composizione. La sua interpretazione si servirà anche di particolari familiari e reali, una matita,
allora, una tazza rovesciata, produrranno sullo spettatore un significato così grande e un effetto così
intenso da superare le esagerazioni magniloquenti del teatro romantico.

Henry de la Pommeraye, Recensione a Jacques Damour, in «Paris», 4 aprile, 1887.

Bisogna anche riconoscere che l’interprete della parte di Jacques, ha contribuito con la sua recitazione
ad accattivarsi il pubblico. Si chiama Antoine. Io non so se ha fatto studi drammatici seri, ma ha del
talento. Tra gli attori professionisti non c’è chi non sappia comporre meglio di lui il personaggio:
trucco, costumi, portamento, andatura, gesti, espressione, tutto era vero e toccante. M. Brévern ga
della bonomia e della schiettezza, come si addice al macellaio Sagnard. Infine Mlle Barny, che la
natura non ha certo favorito fisicamente, ha un’anima d’artista. Lei comprende ed esprime con una
grande intensità di emozione i sentimenti violenti che agitano il cuore di questa donna che si trova tra
due uomini, divisa tra il passato e il presente, preoccupata dall’avvenire. Tutte le fasi di questa lotta
sono sottolineate con arte sincera da M.lle Barny.

Émile Zola, Le Naturalisme au théâtre, Paris, 1880.

La scena e i suoi accessori.

[…] La scena esatta è una conseguenza diretta di quel bisogno di realtà che ci tormenta. È fatale che
il teatro ceda a questo impulso quando lo stesso romanzo è diventato un’inchiesta universale, un
processo verbale aperto ad ogni realtà. Quei nostri personaggi moderni, così individualizzati, che
agiscono spinti dall’impulso di influssi circostanti, che sul palcoscenico vivono la nostra vita,
sarebbero assolutamente ridicoli su una scena del XVII secolo. Si siedono e hanno bisogno di
poltrone, scrivono e hanno bisogno di tavoli, vanno a letto, si vestono, mangiano e hanno bisogno di
un completo mobilio. Noi, d’altra parte, studiamo tutti gli ambienti sociali, i nostri drammi ci
conducono in tutti i luoghi immaginabili, i quadri più svariati devono necessariamente sfilare alla
ribalta. È un’esigenza della nostra attuale formula drammatica. […] Come non accorgersi
dell’interesse che una scena esatta aggiunge all’azione? Una scena esatta, un salotto per esempio, con
i suoi mobili, le sue piante, i soprammobili, impone immediatamente una situazione, parla
dell’ambiente sociale in cui ci si trova, racconta le abitudini dei personaggi. E come vi si trovano a
proprio agio glia attori, come vivono bene l’esistenza che gli è assegnata! Si crea un’intimità, un
rifugio naturale e incantevole. So che per apprezzare un fatto simile si deve preferire l’attore che il
dramma lo vive, più che non lo interpreta. Una nuova formula è qui contenuta per intero. Scribe, per
esempio, non ha bisogno di ambienti reali, i suoi personaggi infatti sono di cartapesta. Penso ad una
scena esatta solo per quei drammi che hanno personaggi in carne ed ossa, capaci di trascinarsi dietro
l’aria che respirano.
Frimousse (Raoul Touché), Recensione a En famille, in «Le Gaulois», 1 giugno 1887.

En famille è un semplice quadro di costume. È il compleanno di Madame Paradis. Suo marito e i


suoi figli si sono riuniti per festeggiarla e pranzano allegramente, in mezzo ai fiori, trincando di buon
cuore alla salute della mamma. Voi direte: è una commediola! Ma aspettate! Non mi state lasciando
il tempo di dire che il padre è un ricettatore, e la madre ricettatrice, la figlia mignotta, il figlio
maggiore ladro e il minore magnaccia. L’intera pièce è scritta in questo stile, e cioè nel più puro argot.
Vi si ascoltano le teorie più folli, si assiste alle compromissioni più insensate. Un branco di
delinquenti, questa gente, ma come si amano! Capaci dei peggiori crimini, ma quanto sono uniti!
Delle brave persone, direbbe l’autore. Questa divertente eccentricità è assai ben recitata dai membri
del circolo: M. Antoine, il presidente, un vero ricettatore; Albert, il figlio dalla cravatta rossa, Mlles
Barny e Luce Colas, e soprattutto M. Mévisto, il quale ha recitato con vigore e una spavalderia
veramente notevoli un racconto dei più realisti. Si tratta di una esecuzione alla Roquette; non ci manca
nulla, né la descrizione della vedova, né la sfuriata a quegli zoticoni di giornalisti, né gli strabocchi
di sangue alla fine. Questo racconto è una specie di poesia selvaggia che ti prende, e l’attore l’ha
dettagliata in modo tale da far rizzare i capelli anche sulle teste più calve. Accidenti che paura! È roba
sopraffina, amici miei!

Denis Diderot, De la poésie dramatique, 1758

Sia che componiate, sia che recitiate, non dovete pensare allo spettatore ma far conto che esso non
esista. Immaginate, sul proscenio, un grande muro che vi separa dalla platea, come se il sipario non
si fosse sollevato.

André Antoine, Lettera al Signor Le Bargy, membro della Comédie-Française, 1893.

[…] Gli attori non capiscono mai niente delle opere che devono recitare. Il loro mestiere consiste solo
nel recitarle, nell’interpretare al meglio personaggi la cui essenza sfugge loro. Sono manichini, in
realtà, marionette più o meno perfezionate, che il talento guida, e che l’autore riveste ed agita secondo
la sua fantasia.
Dopo lunghissimi anni, certo, riescono ad acquisire un’esperienza del tutto materiale; possono
spiegare all’autore perché un personaggio deve entrare o uscire da destra piuttosto che da sinistra, ma
in ogni caso non possono e non devono mai tentare di modificare un carattere o la conclusione di un
dramma, se non vogliono rinunciare alla loro peculiare funzione.
Talmente insormontabile è il divario fra il poeta e il suo interprete, che il secondo non riesce mai a
soddisfare il primo. L’attore si trova sempre a deformare la visione dell’autore e questi finisce per
accettare una soluzione approssimativa, il più delle volte rassegnandosi di fronte all’impossibile.
Considerate allora che, per quanto perfetto possiate riuscire nel ruolo che tanto vi preoccupa,
rappresenterete solo una delle possibili configurazioni del caso, una configurazione che avrebbe
anche potuto essere completamente diversa e altrettanto soddisfacente se la commedia fosse stata
rappresentata su si un’altra scena. E in qualsiasi caso lo commedia resterebbe ugualmente e
integralmente la stessa.
Ideale assoluto dell’attore sarà fare di sé una tastiera, uno strumento meravigliosamente accodato
nelle mani dello scrittore. Un’educazione tecnica molto pratica per sciogliere il corpo, l’espressione,
la voce, e un’adeguata educazione intellettuale saranno sufficienti per renderlo in grado di capire ciò
che l’autore vuol fargli esprimere. Quando gli si chiede di mostrarsi triste o allegro, se è bravo attore
nel senso esatto del termine, dovrà magistralmente, esprimere la tristezza o ‘allegria, senza chiedersi
per quali motivi gli vengono richieste.
Questo è infatti il compito dell’autore, il quale sa quello che fa ed è l’unico responsabile di fronte al
pubblico. Sarete d’accordo che, anche se così ridimensionata, l’arte dell’attore resta ancora
singolarmente difficile e onorevole.

André Antoine, Causeries sur la mise en scène, 1903.

Cos’è la messa in scena?


Uno degli uomini più autorevoli di questi tempi, M. Porel, al Congresso dell’Esposizione Teatrale
del 1900, ha definito la nostra arte in un modo così esatto e così felice che non posso fare a meno di
citarlo:

Senza la messa in scena, senza questa scienza rispettosa e precisa, senza quest’arte potente e
delicata, molti drammi non avrebbero mai attraversato i secoli, molte commedie non sarebbero
state capite, molte pièces non avrebbero avuto successo.
Cogliere con esattezza in un manoscritto l’idea dell’autore, indicarla con pazienza, con
precisione, agli attori esitanti, vedere di minuto in minuto lo spettacolo sorgere, prendere
corpo. Sorvegliarne l’esecuzione nei suoi minimi dettagli, nei suoi giochi di scena, perfino nei
suoi silenzi, talvolta tanto eloquenti quanto il testo scritto. Disporre sulla scena i figuranti
inebetiti o maldestri, dar loro uno stile, fondere insieme gli attori modesti e i grandi attori.
Mettere d’accordo tutte queste voci, tutti questi gesti, tutti questi movimenti diversi, tutte
queste cose disparate, al fine di ottenere la buona interpretazione dell’opera che vi è stata
affidata.
Poi, terminato questo lavoro e aver fatto gli studi preparatori con metodo e calma, occorre
occuparsi degli aspetti materiali. Occorre dare ordini con pazienza e precisione ai macchinisti,
agli scenografi, ai costumisti, ai tappezzieri, agli elettricisti.
Una volta terminata questa seconda parte dell’opera occorre salarla alla prima, mettere
l’interpretazione negli oggetti. Infine guardare tutto dall’alto, in una visione d’insieme, il
lavoro che sta terminando. Occorre tener conto dei gusti, delle abitudini del pubblico in misura
equa, scartare ciò che può essere pericolo senza ragione, tagliare ciò che provoca lungaggini,
cancellare gli errori di dettaglio, conseguenze inevitabili di ogni lavoro fatto rapidamente.
Bisogna anche ascoltare le opinioni delle persone interessate, soppesarle dentro di sé, seguirle
o scartarle seguendo il proprio libero giudizio. Infine, con uno slancio del cuore, aprire la
mano, dare il segnale, lasciar apparire l’opera davanti al pubblico! È un mestiere ammirevole,
non è vero? Uno dei più curiosi, uno dei più accattivanti, uno dei più delicati del mondo.

Konstantin Stanislavskij, La mia vita nell’arte, 1924.


Sulla preparazione dell’operetta Mikado di Gilbert e Sullivan:
Per tutto l’inverno la nostra casa si trasformò in un angolo del Giappone. Un’intera famiglia di
acrobati nipponici, che lavorava in un circo locale, stava giorno e notte con noi. Ci insegnavano tutte
le usanze giapponesi: la maniera di camminare, di inchinarsi, di danzare, di gestire […]. Imparammo
a fare i giocolieri col ventaglio, facendocelo passare sulla spalla, sotto la gamba, e soprattutto ci
impadronimmo di tutte le pose in modo che ogni passaggio, battuta o nota avesse la sua azione
corrispondente con il ventaglio.
Sulla preparazione del personaggio di Otello:
In un ristorante all’aperto vidi un arabo in costume nazionale e feci conoscenza con lui. Mezz’ora
dopo avevo già invitato a pranzo il mio nuovo amico. Avendo capito che mi interessava molto il mio
costume, l’arabo si tolse il mantello esterno, affinché potessi ricavarne il modello. Di lui imitavo
anche le pose, che mi erano sembrate tipiche. Poi studiavo i suoi movimenti. Tornato nella mia camera
d’albergo, fino a mezzanotte rimasi davanti allo specchio con addosso ogni genere di lenzuola e
asciugamani per cercare di assomigliare a un autentico moro, con rapide voltate di capo, movimenti
delle braccia e del corpo simili a quelli di un daino in allarme, l’andatura leggera e maestosa e le mani
piatte con le palme rivolte verso l’interlocutore.

Konstantin Stanislavskij, Quaderno di regia.


Su Il gabbiano di Anton Čechov.
La commedia comincia nell’oscurità, una sera d’agosto. La debole luce di una lampada in cima a un
lampione, il canto di un ubriaco e il latrato di un cane in lontananza, il gracidare delle rane, il
gracchiare di un corvo, i lenti rintocchi di un campanile lontano aiutano il pubblico a cogliere la
sensazione della vita triste, monotona, dei personaggi. Bagliori di lampi, debole brontolio di tuono in
lontananza. Al levarsi della tela una pausa di dieci secondi. Dopo la pausa, sul palcoscenico Jakov
batte un chiodo con un martello, dopo averlo inchiodato si affaccenda sul palco, canticchiando tra di
sé.

Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso, 1938.


Sull’attore rappresentativo:
Non sono affatto d’accordo che l’arte dell’attore consista nel provare una sola volta un determinato
sentimento e poi memorizzare il gesto, l’espressione mimica e vocale che questo sentimento ha
provocato, e quindi ripetere quello che una volta ho intuito. Il problema dell’attore sta invece nel
rivivere ogni volta che recita quei sentimenti e quelle passioni.
Sulla verginità espressiva:
Per vincere tutte le difficoltà che ci aspettiamo, bisogna innanzitutto avere il coraggio di capire che,
quando entriamo in scena davanti alla folla degli spettatori, e appunto perché creiamo in pubblico,
noi dobbiamo perdere qualsiasi sensazione della vita reale. Dimenticare tutto: come camminiamo,
come sediamo, mangiamo, beviamo, dormiamo, chiacchieriamo, guardiamo. In una parola come
agiamo nella vita sia interiormente sia esteriormente. Dobbiamo imparare tutto daccapo, proprio
come impara a camminare, parlare, guardare, ascoltare un bambino. Quante volte ve l’ho detto e
quante volte ve lo dovrò ricordare. Per ora cerchiamo di imparare ad agire in scena non
«genericamente», ma semplicemente e normalmente come nella vita, nel modo organico, giusto e
libero che esigono le leggi organiche e vive della natura.
- In una parola dovremo imparare a bandire il teatro dal teatro! – aggiunge Govorkov.
- Proprio! A bandire dal Teatro (con la maiuscola) il teatro con la minuscola!
Sul ruolo dell’immaginazione:
[…] Ogni vostro movimento, ogni parola in scena, devono essere il risultato della vita verosimile
dell’immaginazione. Se direte una parola o direte qualche cosa in scena meccanicamente, senza capire
chi siete e da dove venite, perché lo fate, di che cosa avete bisogno, dove andrete fuori di qua e che
cosa fare, la vostra azione sarà priva di immaginazione e la vostra apparizione in scena, breve o lunga
che sia, non sarà vera per voi, che avrete agito come un meccanismo a carica, un automa.
Sull’«Io sono»:
[…] La logica e la coerenza delle azioni fisiche sono diventate la nostra seconda coscienza. Abbiamo
istituito una specie di giuoco che consiste nell'osservarci continuamente, l'un con l'altro, per
sorprenderci in qualche azione fisica illogica e incoerente. […] Senza questa verità e questa
convinzione tutto quello che si fa in scena, tutte le azioni fisiche, anche se logiche e coerenti,
diventano convenzionali e danno origine al «falso». La cosa più pericolosa per il mio e per qualunque
altro metodo, di psicotecnica e dell'arte in generale, è proprio una concezione meramente e
angustamente formale del lavoro creativo. Niente di più facile che smembrare le azioni fisiche
maggiori nelle loro sezioni componenti, stabilire la logica e la coerenza di queste sezioni,
formalmente. Inventare esercizi adeguati e farli eseguire agli allievi, senza preoccuparsi che le azioni
fisiche siano vere e che ci si creda, non costa molto. […] Tratteremo l'azione interiore invece che
quella esteriore, la logica e la coerenza delle sensazioni invece che dei gesti. Sarà più difficile. Se si
rappresenta qualcosa che non si è capito si corre il rischio di cadere in una recitazione generica. Ci
vogliono un piano preciso e una netta linea d'azione interiore. Per crearli è indispensabile conoscere
la natura, la logica, la coerenza delle sensazioni. Finora abbiamo avuto a che fare con la natura, la
logica e la coerenza delle azioni fisiche che sono sensibili, visibili e tangibili, ora, noi dobbiamo
affrontare quella delle sensazioni interiori che sono impercettibili, invisibili, inaccessibili e instabili.
Abbiamo davanti un campo e dei problemi completamente· nuovi e molto più complessi. […]
Creando una linea esteriore d'azione fisi ca, logica e coerente, sapremo se abbiamo approfondito
sufficientemente. Parallela ad essa ne nascerà, dentro di noi, un'altra: la linea della logica e della
coerenza delle nostre sensazioni. Senza che ce ne accorgiamo le sensazioni interiori provocano delle
azioni fisiche e restano indissolubilmente legate alla loro vita. […] La logica e la coerenza delle azioni
fisiche hanno prodotto il vero, il vero ha prodotto la convinzione e tutt’e due hanno creato l’«Io sono»,
che vuol dire io esisto, vivo, sento, penso esattamente come il personaggio. L’«Io sono» porta
all’emozione, al sentimento, a rivivere la parte. L’«Io sono» è la verità scenica in sintesi.

Sulla memoria emotiva:


Immaginate molte case e dentro di esse una quantità di stanze e nelle stanze una quantità di armadi,
cassetti, e nei cassetti una quantità di scatole e scatolette. Nella scatoletta più piccola ci sono delle
perline. Non è difficile individuare la casa, l’armadio, il piano. Un po’ più difficile sarà trovare la
scatola grande in cui è la scatoletta con le perline. Ma se vi cade una perlina chi la ritroverà? Solo il
caso può aiutarci a farcela ritrovare. La nostra memoria è un archivio. Anche lì stanze, armadi, scatole
e scatolette. Alcune a portata di mano, altre meno. Come ritrovare la perlina, ossia il primo ricordo
emotivo balenato nella tua mente e poi dileguato come una meteora? Quando affiora, ringrazia Apollo
per avertelo mandato, ma non sperare di poterlo conservare o riprovare. Domani ricorderai un’altra
cosa. Accettala e il tuo animo risponderà nuovamente, con rinnovata energia, al testo che a forza di
ripetere non ti emoziona più. Non dare comunque la caccia alla perla perduta. È irrevocabile come un
giorno trascorso, come la felicità dell’infanzia, come il primo amore. Fai che ogni volta nasca in te
un’ispirazione nuova, fresca, attuale. Non importa se sarà più debole di quella di ieri. L’importante è
che sia venuta oggi, naturalmente e spontaneamente, dal segreto del tuo io ed ecciti la tua creazione.
[…] Certo l’ispirazione subcosciente, inattesa, è molto più affascinante. È il tipo di creazione che tutti
sognano! Ma non possiamo per questo sminuire l’importanza dei ricordi coscienti, ripetuti dalla
«memoria emotiva», anzi dobbiamo amarli perché soltanto attraverso questi possiamo influire in
qualche modo sull’ispirazione.
È uno dei principi fondamentali del sistema: «Il subcosciente attraverso il cosciente».
Amateli questi ricordi. L’attore, per la sua parte, non sceglie i primi che capitano, ma i
migliori, i più cari e appassionati. Ricordi di sensazioni vissute. Spesso la vita immaginaria, tessuta
col materiale più scelto della sua «memoria emotiva» è più cara all’attore della sua vita reale. E quale
miglior terreno per l’ispirazione? L’attore porta sul palcoscenico quanto ha di meglio. Cambieranno
l’ambiente, la forma, a seconda delle esigenze, della commedia, ma le sensazioni dell’attore devono
restare (pur in analogia con le sensazioni della parte) quelle che prova come uomo. Non si possono
contraffare o sostituire con altri sentimenti, né con una recitazione enfatica, monotona, di mestiere.
Ruolo dell’azione creatrice:
Si può affittare un abito, un orologio ma non si possono prendere in prestito da un altro uomo o da
una parte i sentimenti. Il mio sentimento appartiene esclusivamente a me, il vostro a voi. Si può
intuire, capire una parte, entrare nella situazione, agire come il personaggio. Questa azione creatrice
rievocherà nell’attore esperienze analoghe a quelle della parte, ma saranno sentimenti suoi, dell’attore
e non del personaggio inventato dal poeta. Qualunque cosa tu sogni, qualunque esperienza tu viva,
nella realtà o nel sogno, sarai sempre e solo te stesso. Agirai sempre con la tua doppia personalità di
uomo-attore. Non rinunciare mai al tuo «io». Se lo fai, ti perdi, smetti di rivivere la parte e cominci a
recitare enfaticamente. Perciò, quando tu reciti, devi sempre, senza eccezione, ricorrere ai tuoi
sentimenti personali. Trasgredire questa legge equivale, per l’attore, a uccidere il personaggio,
privarlo del vivo spirito umano che, solo, può dar vita a una parte inerte.

Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso, 1938.


Sulla condizione dell’attore.
Nella vita normale non ci sono né il buco nero del boccascena, né la folla degli spettatori, né la luce
abbagliante della ribalta. Non c’è bisogno di aver successo e di piacere a qualsiasi costo a chi ci
guarda. In scena sì, e bisogna vincerle e distrarsene, interessandosi a problemi che nascono proprio
in scena. Bisogna che questi problemi accentrino tutta l’attenzione e le facoltà creative dell’attore,
bisogna cioè che «facciano presa» su di lui. A questo proposito mi viene in mente un aneddoto.
Un ammaestratore di scimmie era andato in Africa per comperare alcune bestie. Per la scelta
gliene presentarono un centinaio. Sapete come fece per distinguere gli esemplari più adatti da
ammaestrare? Prese ogni candidato separatamente, e cercava di risvegliarne l’interesse con qualche
oggetto: un fazzoletto colorato, un sonaglio lucente e rumoroso. Quando la scimmia cominciava ad
interessarsi all’oggetto, l’ammaestratore cercava di distrarne l’attenzione con un’altra cosa qualsiasi,
una noce, o una sigaretta. Se ci riusciva e la scimmia passava facilmente da un oggetto all’altro, la
scartava, se invece, anche se attratta per qualche istante dal nuovo richiamo, la scimmia ritornava poi
ostinatamente al primo (il fazzoletto, per esempio, e cercava di riprenderlo dalla tasca
dell’ammaestratore) la comperava. La scimmia, spiegava l’ammaestratore, aveva dimostrato che
c’era possibilità di far presa su di lei.
Anch’io giudico l’attenzione scenica e la capacità di contatto dei miei allievi dalla durata della
loro presa.

Sui richiami esterni per stimolare il contatto:


Cercate di provocare in voi la sensazione fisica di trasmissione e ricezione, senza alcuna reviviscenza
emotiva. State bene attenti a non confondere una semplice contrazione muscolare con la sensazione
di radiazione e percezione. Quando il processo fisico sarà in atto, introducete, dentro di voi, un
sentimento qualsiasi da irradiare o captare: sempre guardandovi, ve lo ripeto, da crampi o da sforzi
fisici. Allora la trasmissione e la percezione verranno da sé, facilmente e naturalmente, senza spreco
di energia.
Torna anzi a proposito dire che questo sistema vi aiuterà anche a concentrare e fissare l'attenzione
sull'oggetto; perché senza un oggetto stabile, non è possibile irradiare nulla.

Konstantin Stanislavskij, La mia vita nell’arte, 1924.


Su Tommaso Salvini e la toeletta dell’anima.
L’atteggiamento di Salvini verso i doveri artistici era commovente. Il giorno dello spettacolo era
agitato fin dal mattino, mangiava frugalmente e dopo il pasto di mezzogiorno si ritirava in solitudine
e non riceveva più nessuno. Lo spettacolo incominciava alle otto, ma Salvini arrivava a teatro alle
cinque, ossia tre ore prima dell’inizio. Andava in camerino, si toglieva la pelliccia poi andava a
passeggiare sulla scena. Se qualcuno gli si avvicinava, chiacchierava, poi si allontanava, meditava su
qualcosa, restava in silenzio e di nuovo si chiudeva nel camerino. Di lì a poco riusciva con il camice
che indossava per truccarsi o in vestaglia; dopo aver vagato sulla scena, provato la voce su qualche
frase, fatto alcuni gesti, esperimentato qualche procedimento necessario alla parte, Salvini se
n’andava di nuovo in camerino e qui si applicava sul viso la tinta del moro e s’incollava la barba.
Completamente trasformato non soltanto all’esterno, ma evidentemente, anche all’interno, rientrava
in scena con un portamento più leggero, più giovane. Si radunavano gli operai e incominciavano a
montare gli scenari e Salvini chiacchierava con loro.
Chissà, forse egli immaginava in quel momento di trovarsi in mezzo ai soldati che costruivano le
barricate o le fortificazioni per la difesa dal nemico: la sua forte figura, la posa da generale, gli occhi
attenti sembravano confermare questa supposizione. E nuovamente Salvini se ne andava in camerino
donde ritornava già in parrucca, ma senza vestito, poi il cinturone e il iagatan, poi con la benda sulla
testa e infine nella completa divisa da generale di Otello. Ogni volta che appariva sembrava che egli
non solo truccasse il viso e vestisse il corpo, ma che preparasse anche lo spirito all’immagine
corrispondente, fissando a poco a poco lo stato d’animo complessivo. Egli penetrava nella pelle e nel
corpo di Otello per mezzo di un’accurata toletta preparatoria della sua anima artistica.

K. S. Stanislavskij, Etica, in Id., L’attore creativo. Conversazioni al Teatro Bol’šoj 1918-1922.


Etica. Con una «Risposta a Stanislavskij» di Jerzy Grotowski, a cura di Fabrizio Cruciani e Clelia
Falletti, La Casa Usher, Firenze 19892.
Sul costume.
[…] C’è da stupirsi che queste cose gli servano all’infinito. Ma accanto a questo tipo di
atteggiamento ne conosciamo altri completamente differenti verso il costume e gli accessori
di una parte. Ci sono attori che, appena finito di recitare la loro parte, si strappano la parrucca
(o la barba) mentre sono ancora sul palcoscenico, a volte la buttano subito via e si presentano
per l’inchino davanti al sipario con la faccia imbrattata e i resti del trucco. Avviandosi al
camerino si sbottonano il costume e ne lanciano i pezzi in ogni angolo. I poveri vestiaristi e
trovarobe devono raccogliere le cose in tutto il teatro e rimettere in ordine quello che non
serve certamente a loro ma all’attore.

Uguale, se non maggiore, considerazione, attenzione, amore deve avere l’attore per la sua
maschera. Deve truccare il volto non in modo meccanico ma in modo, per così dire
psicologico, pensando all’anima e alla vita del personaggio. Così la ruga più piccola trova la
propria motivazione interiore nella vita stessa che ha segnato un volto con questa traccia di
sofferenza umana. Gli attori spesso si truccano meticolosamente, indossano il costume e
dimenticano completamente l’anima, che ha bisogno di una preparazione incomparabilmente
più meticolosa per il lavoro creativo durante lo spettacolo.

Konstantin Stanislavskij, Il lavoro dell’attore su se stesso, 1938.


Sul sottotesto.
Il sottotesto è la «vita spirituale» del personaggio, palese e interiormente sentita «di una parte», la
vita che scorre ininterrotta sotto la parte del testo ravvivandolo e giustificandolo per tutta la sua durata.
Il sottotesto comprende tute le innumerevoli linee tracciate dai «se» magici e non magici, dalle
finzioni dell’immaginazione, dalle circostanze date, dall’attenzione interiore, dagli oggetti
dell’attenzione, dal vero, grande o piccolo che sia, e dalla convinzione che sia vero, dagli adeguamenti
e da tutti gli altri elementi. Il sottotesto è ciò che ci costringe a dire le parole della parte. Tutte queste
linee, ingegnosamente intrecciate tra loro come fibre di una corda, attraversano l’intero dramma
tendendo ad un unico problema principale.
Appena la linea del sottotesto ha penetrato come una corrente sottomarina il sentimento, nasce
la linea conduttrice della parte e del dramma. L’azione conduttrice non si esterna solo con i movimenti
fisici, ma anche parlando; non si agisce solo con il corpo, ma anche con la voce, con le parole.
[…] I scena non ci devono essere parole inanimate o senza sentimento. Le parole senza
concetto non sono necessarie, come non sono necessarie quelle che non hanno alcun effetto. In scena
le parole devono eccitare, nell’attore e nel suo compagno (e attraverso loro nello spettatore), ogni
possibile sensibilità, volontà, riflessione, ogni aspirazione interiore, ogni immagine della fantasia, la
vista, l’udito e tutti gli altri sensi.
Tutto questo dimostra che le battute di una parte non valgono in sé stesse, ma per il loro
contenuto interiore, per il loro sottotesto. Ma questo noi, uscendo in scena, spesso ce lo
dimentichiamo.
Il testo stampato della commedia non rappresenta tutta l’opera che è completa solo quando è
realizzata dagli attori in scena, ravvivata dai loro vivi sentimenti umani. È come una partitura
musicale che non diventa musica finché non è suonata dall’orchestra. Appena l’interprete (del
dramma o della sinfonia) esprime il sottotesto dell’opera rivissuto in sé, scopre il segreto spirituale
sia dell’opera che dell’artista, il contenuto interiore per il quale è stata creata.
Il significato dell’opera sta tutto nel sottotesto. Senza il sottotesto le parole non avrebbero
ragione di esistere in scena: le parole appartengono al poeta, il sottotesto all’attore. se così non fosse
lo spettatore non avrebbe bisogno di venire a teatro per sentire l’attore, ma se ne resterebbe a leggere
il dramma a casa.
Solo sul palcoscenico si può conoscere l’opera teatrale in tutta la sua pienezza e sostanza. Solo
durante lo spettacolo si può sentire il vero spirito del dramma, vivificato dal suo sottotesto, creato e
comunicato dall’attore ad ogni replica.

Sulla funzione del regista:


La creazione per noi è concepire e portare in seno una creatura viva: L’uomo-personaggio. E’
una procreazione naturale che ricorda la nascita dell’uomo.
Ogni personaggio teatrale, artistico, è un individuo, di cui non esiste il doppio, proprio come
nella natura.
Come nella natura esso passa attraverso gli stessi stadi di gestazione dell’uomo.
C’è «Lui» (l’autore). C’è Lei, la donna (cioè l’interprete, uomo o donna, gravido della parte:
il seme, il germe della sua opera, ricevuto dall’autore). C’è il frutto, il figlio (la parte realizzata). C’è
il momento del primo incontro (dell’attore con la parte) e il periodo in cui si avvicinano,
s’innamorano, il litigio, il disaccordo, la riconciliazione, l’unione, la fecondazione, la gravidanza.
Il regista segue e aiuta queste fasi facendo da «compare».
Come durante la gravidanza, la madre ha dei momenti di stranezze, fa dei capricci, così i vari
stadi del concepimento e della maturazione della parte, influenzano il carattere e la vita personale
dell’attore.
Secondo me poi, per la gestazione organica di un personaggio, ci vuole un periodo non minore,
e in qualche caso anche molto più lungo, di quello che ci vuole per una creatura umana.
E il regista diventa l’ostetrico, la levatrice.
Come in una gravidanza e in un parto normale, la creatura interiore dell'attore si forma fisicamente
da sé, e poi, nata, viene allevata e curata dalla «madre». Ma anche noi abbiamo parti precoci o infelici.
Nascono dei mostriciattoli, degli spettacoli non finiti e senza vita. Tutto questo ci convince ancor più
ad adottare le leggi che muovono la natura organica, quando crea un nuovo fenomeno, sia esso
biologico o frutto della fantasia umana. In una parola, la nascita di una creatura scenica (o parte) è un
atto naturale della natura organica creativa dell’attore.

Charles Baudelaire, Correspondances [Corrispondenze]

La Natura è in tempo in cui colonne viventi


Lasciano talvolta uscire confuse parole;
L’uomo vi passa attraverso foreste di simboli
Che l’osservano con sguardi familiari.

Come lunghi echi che da lontano si confondono


In una tenebrosa e profonda unità,
Vasta come la notte e come la luce,
I profumi, i colori e i suoni si rispondono.

Vi sono profumi freschi come carni di fanciulli,


Melodiosi come oboi, verdi come praterie,
- E altri, corrotti, ricchi e trionfanti,

Aventi l’espansione delle cose infinite,


Come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso
Che cantano i trasporti dello spirito e dei sensi.

Richard Wagner, L’arte e la rivoluzione, 1849


Sugli agoni drammatici.
[…] "erano feste divine poiché il dio vi si pronunciava con chiarezza: il (71) poeta era il suo sacerdote
supremo che stava veramente in carne ed ossa in mezzo all'opera d'arte, guidava le ridde dei danzatori,
univa la propria voce al coro e annunciava con parole i sonanti principi della scienza divina.
Questa era l'opera d'arte greca, questo Apollo trasformato in vera arte vivente, questo il popolo
greca nella sua suprema bellezza".
Sul popolo greco a teatro.

Il greco, sempre geloso della sua massima indipendenza personale [...], ammutoliva al richiamo del
coro, si assoggettava volentieri alla sapiente convenzione dell'ordinamento scenico, obbediva di buon
grado alla grande necessità la cui sentenza (72) il poeta tragico gli annunciava dalla scena per bocca
degli dèi e degli eroi. Infatti nella tragedia egli ritrovava se stesso, anzi la parte più nobile della propria
natura, unita alle parti più nobili della natura collettiva dell'intera nazione [...].

Sul cristianesimo.

Il cristianesimo giustifica una disonorevole, inutile e misera esistenza dell'uomo sulla terra col
meraviglioso amore di Dio che non ha affatto creato l'uomo, come erroneamente credevano i bei
greci, per condurre un'esistenza gioiosa e cosciente di sé su questa terra, ma ve lo avrebbe rinchiuso
come in un carcere schifoso per preparargli, dopo la morte, in compenso dell'acquisito disprezzo di
sé, uno stato infinito di magnificenza comoda e inerte. […] Il libero greco che si ponevo in cima alla
natura poté creare l'arte per la gioia che l'uomo ha di sé stesso: il cristiano che rifiutava ugualmente
sé e la natura poté offrire sacrifici al proprio Dio solo sull'altare della rinuncia, non poté portargli in
dono le sue azioni e le sue gesta, ma ritenne di cattivarselo astenendosi da ogni autonoma e audace
attività. L'arte è la suprema attività dell'uomo ben sviluppato nei sensi, in armonia con sé stesso e con
la natura; l'uomo deve attingere la massima gioia dal mondo sensibile se vuol farne lo strumento
artistico; soltanto dal mondo sensibile infatti egli può trarre la volontà di creare l'opera d'arte.

Sulla condizione dell'arte contemporanea.

La sua vera natura è l'industria, il suo fine morale il guadagno, il suo pretesto estetico il divertimento
di chi si annoia [...]. Di preferenza si è insediata nel teatro, [...], e ha diritto al teatro perché è
l'espressione della vita pubblica valida del nostro tempo. L'arte teatrale moderna rappresenta
concretamente lo spirito dominante della nostra vita pubblica. [...] Ma quale gloria si può raggiungere
con la nostra arte ufficiale? La gloria di quella stessa opinione pubblica per cui quest'arte è concepita
e alla quale l'ambizioso non potrà imporsi se non sa sottomettersi alle sue volgari esigenze. Così egli
inganna sé e il pubblico offrendogli la sua opera d'arte rappezzata, e il pubblico inganna lui e sé stesso
accogliendolo con applausi; ma questo inganno reciproco vale certamente il grande inganno della
gloria moderna, tanto più che siamo molto bravi nell'adornare le nostre più egoistiche passioni di
belle bugie quali "patriottismo", "onore", "senso della legge", e così via.

Sul teatro greco come modello.

L'arte ufficiale dei greci, quando raggiunse il momento culminante nella tragedia, fu l'espressione di
quanto c'era di più profondo e di più nobile nella coscienza popolare [...]. Per i greci la
rappresentazione di una tragedia era una festa religiosa, nel loro teatro si muovevano sulla scena gli
dèi che tributavano la loro sapienza agli uomini. [...] Nell'ampio spazio dell'anfiteatro greco il popolo
intero assisteva alle rappresentazioni: nei nostri aristocratici teatri poltrisce solo la parte abbiente di
esso. I greci ricavavano gli strumenti dell'arte dai risultati di un'altissima cultura comune, noi da
quelle della più bassa barbarie sociale.

Sul ruolo della rivoluzione.

Soltanto la grande rivoluzione dell'umanità, il cui inizio fu un giorno frantumato dalla tragedia greca,
può riconquistarci questa opera d'arte [...]. Soltanto la rivoluzione, non la restaurazione, piò restituirci
quella suprema opera d'arte. Il compito che abbiamo davanti a noi è infinitamente più grande di quello
che è già stato risolto una volta. Se l'opera d'arte greca comprendeva lo spirito di una bella nazione,
quella dell'avvenire deve comprendere lo spirito dell'umanità libera al di sopra di tutte le barriere di
nazionalità [...].

Richard Wagner, L’opera d’arte dell’avvenire, 1849:

Sulla riunione delle arti.


Solo un identico stimolo, comune alle tre arti, renderà possibile la redenzione nella vera opera d'arte,
e così quest'ultima sarà realizzata. Ciò avverrà quando sarà vinta l'ostinazione delle tre arti nel voler
conservare a ogni costo la propria autonomia e ciascuna si assorbirà nell'amore per l'altra; quando
ciascuna non potrà amarsi che nell'altra, scomparirà come arte isolata per essere tutte (237) e tre
capaci di dar vita all'opera d'arte perfetta. L'assorbimento reciproco in tal senso sarà già di per sé la
vera opera d'arte, la cui vita è la morte delle arti singole. Così il dramma dell'avvenire esisterà,
naturalmente, quando non saranno più in grado di vivere né il dramma, né l'opera, né la pantomima,
quando saranno scomparse del tutto le condizioni che consentivano loro di conservare un'esistenza
fittizia e artificiale.

Charles Baudelaire, Richard Wagner, in «La Revue européenne», 1861


Il lettore sa bene quale scopo ci proponiamo: dimostrare che la musica autentica suggerisce idee
analoghe in menti diverse. D’altra parte non sarebbe affatto sconveniente ragionare qui a priori, senza
analisi e senza confronto, dal momento che davvero sorprendente sarebbe il fatto che il suono non
potesse suggerire affatto il colore, che i colori non potessero dar l’idea di una melodia, e che il suono
e il colore fossero inadeguati a tradurre delle idee: poiché le cose sempre si sono espresse attraverso
una reciproca analogia a partire dal giorno in cui Dio ha creato il mondo come una totalità complessa
e indivisibile.

Maurice Maeterlinck, Ménus propos: le théâtre, in «La Jeune Belgique», 1890.

Qualcosa di Amleto è morto per noi il giorno in cui l’abbiamo visto morire in scena. Lo spettro di un
attore ha preso il suo posto, e non riusciamo più a scacciare dai nostri sogni l’usurpatore. Aprite pure
le porte, aprite il libro, il principe di una volta non torna più. Talora la sua ombra varca ancora la
soglia, ma ormai non osa più, non può più entrare, quasi tutte le voci che un tempo l’acclamavano
dentro di noi sono morte. Ricordo bene questa morte. Amleto entrò. Un solo suo sguardo mi rivelò
che non era lui. Amleto non c’era per me. Non era neanche un’apparenza. Stava per dire cose che
non pensava. Per tutta la sera si sarebbe agitato nella menzogna. Vedevo con chiarezza i suoi
formidabili destini, i suoi personali destini, e quelli che voleva rappresentare in quel momento, al
confronto dei suoi propri, mi erano indicibilmente indifferenti. Vedevo la sua salute e le sue abitudini,
le sue passioni e i dispiaceri; mi esibiva, trascinandoseli intorno, la sua nascita e la sua morte, i suoi
premi e i suoi castighi, il suo inferno e il suo cielo, tutta la sua eternità, e vanamente cercava di
interessarmi alle vibrazioni di un’altra eternità che la sua sola presenza aveva reso incredibile. E
adesso la porta di avorio si è chiusa per sempre su Amleto, e la stessa cosa si è ripetuta per tutti i
capolavori che ho visto sulla scena. [...]

La scena è il luogo dove i capolavori muoiono, perché antinomia è la loro rappresentazione


per mezzo di elementi accidentali e umani. Ogni capolavoro è un simbolo e il simbolo non sopporta
in alcun modo la presenza attiva dell’uomo. Tra le forze del simbolo e quelle dell’uomo che vi si agita
c’è divergenza costante. Il simbolo nel poema è un centro ardente i cui raggi divergono all’infinito, e
quando, come in questo caso, si tratta di un capolavoro assoluto, hanno n’estensione il cui limite è
unicamente marcato dalla potenza dell’occhio che li scruta. Ma ecco che l’attore avanza in mezzo al
simbolo. Uno straordinario fenomeno di polarizzazione, riguardo al soggetto passivo del poema,
immediatamente si produce. L’occhio non segue più la divergenza dei raggi, il loro convergere lo
trattiene. L’accidente ha distrutto il simbolo, e il capolavoro, nella sua essenza, è morto nel corso di
questa apparizione e delle tracce che ne rimangono. […] Si dovrebbe forse allontanare del tutto
l’essere vivente dalla scena. Non è detto che in questo modo non si ritorni ad un0arte di secoli molto
antichi, le cui ultime tracce si erano forse conservate nelle maschere dei tragici greci. Sarà questo
allora, un giorno, il ruolo della scultura, a proposito della quale strani interrogativi cominciano a
porsi? L’essere umano sarà forse sostituito da un’ombra, un riflesso, una proiezione di forme
simboliche o da un essere funzionante come la vita anche se primo di vita? Non lo so; ma l’assenza
dell’uomo mi sembra indispensabile. Quando l’uomo penetra nel poema, l’immenso poema della sua
presenza spegne ogni cosa attorno a lui.

Stéphane Mallarmé, Wagner.

Sul Libro come opera d’arte.

Che rappresentazione! Il mondo vi è compreso. Un libro nelle nostre mani, se enuncia qualche idea
augusta, supplisce a tutti i teatri, non perché ne causi l’oblio, ma al contrario impetuosamente
richiamandoli. Il cielo metaforico che si propaga intorno alla folgore del verso, artifizio per eccellenza
al punto di simulare a poca a poco e di incarnare gli eroi (giusto in quel che basta percepire per non
essere impacciati dalla loro presenza, un cenno); questo sfondo d’estasi spiritualmente e
magnificamente illuminato è veramente il puro sfondo di noi stessi, che portiamo sempre pronto a
sgorgare, all’occasione che nell’esistenza o fuori manca sempre.

Stéphane Mallarmé, Altro studio di danza, 1893

L’esercizio, se è invenzione, senza impiego, comporta un’ebbrezza d’arte e, simultaneamente, una


compiutezza industriale.

Nel terribile bagno delle stoffe, va in deliquio la figurante, radiosa, fredda, nell’illustrare temi
vorticosi cui tende una trama che irradia lontano, petalo, e farfalla gigante, inondazione, tutto con
ordine netto ed elementare. Nella fusione di veloci sfumature, mutando fantasmagorie ossidriche di
crepuscolo e grotta, tale precipitare di passioni, delizia, collera, lutto: per muoverle, come prismi, con
violenza o diluizione, è necessaria la vertigine di un’anima che un artificio sconvolge.

Che associ una donna l’effusione di vesti alla danza, tanto ampia e possente da sostenerle
all’infinito, quali si espansioni –

La lezione sta tutta in questo effetto spirituale –


Dono da fuori fatto con ingenuità e certezza, fantasma del Balletto o forma teatrale per
eccellenza di poesia: riconoscerlo per intero nelle sue conseguenze, tardi, con il favore della
lontananza.

Sempre fluttua una banalità fra voi e lo spettacolo di danza.

L’impossibilità che questa fascinazione giunga soddisfare un delicato pensare come ad


esempio il piacere che la lettura di versi produce, accusa la negligenza di mezzi sottili che include la
danza nel suo arcano. Una qualche estetica restaurata passerà oltre queste note marginali, in cui,
denuncio almeno, da un punto di vista ravvicinato, un errore abituale della messa in scena: aiutato
come sono, d’un tratto, insperatamente, dalla soluzione che la mia poco cosciente e involontariamente
in causa ispiratrice, con l’emozione della sua veste, dispiega.

[…] La scena giace, latente nell’orchestra, tesoro di immaginazioni; per venir fuori, a lampi,
secondo la visione che la rappresentazione dell’idea qua e là dispensa alla ribalta. Ora questo trapasso
di sonorità ai tessuti (cosa più di una garza somigliante alla Musica), unicamente è il sortilegio che
opera la Loïe Füller, per istinto, tramite l’esagerazione, le contrazioni della gonna o dell’ala,
istituendo un luogo. L’incantatrice crea l’ambiente, lo estrae da sé e lo rientra, in un silenzio che
palpita di carta crespa. Presto come in questo caso un’imbecillità dovrà sparire, la tradizionale
piantagione di scene permanenti o stabili in contrasto con la mobilità coreografica. Intrusioni di
sagome opache, cartoni, alla spazzatura! Ecco resa al Balletto l’atmosfera ovvero nulla, visioni subito
disperse appena conosciute, loro limpida evocazione. La scena libera, disposta alle finzioni, che il
gioco di un velo esala insieme con gli atteggiamenti e i gesti, né è il purissimo risultato.

[…] Così questo sprigionamento multiplo attorno una nudità, carico dei contraddittori voli in
cui questa lo regola, tempestoso, planando la magnifica e infine la dissolve: centrale, poiché tutto
obbedisce a un impulso fugace e turbinoso, lei riassume, nel travolgente volere di ogni ala
all’estremità, e la sua statuetta dardeggia, stretta, diritta – morta per lo sforzo di condensare, quasi per
una liberazione di lei, tardivi soprassalti scenografici di cieli, di mari, di sere, di profumi e di schiuma.

Pierre Quillard, Dell’inutilità della messa in scena esatta, 1891

Per offrire una più completa illusione di vita si è creduto opportuno costruire scene
scrupolosamente esatte: fontane vere che mormorano sul palcoscenico, veri pezzi di carne
sanguinolenta sui banchi da macellaio. Eppure, malgrado la cura meticolosa nel rappresentare
l’esteriorità delle cose, il dramma svaniva enigmaticamente, e l’illusione risultava completamente
assente.

La verità è che il naturalismo, in quanto messa in scena di fatti particolari, di documenti


minimi e accidentali, è il contrario assoluto del teatro.

Qualsiasi opera drammatica è in primo luogo una sintesi: prometeo, Oreste, Edipo, Amleto,
Don Giovanni, sono prototipi di un’umanità generale, con straordinaria intensità incarnano le passioni
più imperiose ed esclusive. Il poeta li ha animati di un soffio soprannaturale; con la forza delle parole
li ha creati, ed essi se ne vano per il mondo, pellegrini dell’eternità. Rivestiteli pure di cenci
sbrindellati, saranno dei re se Eschilo o Shakespeare li hanno incoronati, e la porpora assente dalle
loro vesti vi risplenderà festosa, se nei versi risplende. Un universo intero si dispiega intorno a loro,
più triste o più magnifico di quello in cui viviamo, e le pitture ridicole dei teatrini da fiera, agli occhi
dello spettatore complice si trasformano nelle architetture di sogno che il poeta ha voluto suggerire.
La parola crea la scena e tutto il resto.

A cosa serviranno allora i macchinisti a teatro? È importante che la messa in scena non disturbi
l’illusione, per questo deve essere molto semplice. Se parlo di «un palazzo meraviglioso»,
supponiamo pure che per mezzo di complicati artifici più o meno bene si rappresenti quanto più di
magnifico la mente di uno scenografo può concepire, per nessuno l’effetto prodotto dall’artificio sarà
l’equivalente di «un palazzo meraviglioso»; nell’anima di ognuno le due parole evocheranno
un’immagine particolare e conosciuta, certo in contrasto con la grossolana rappresentazione scenica:
la tela dipinta non potrà che risultare d’intralcio allora al libero gioco dell’immaginazione. La scena
deve essere una pura finzione ornamentale che completa l’illusione attraverso analogie di linee e di
colori con il dramma. Uno sfondo e alcuni tendaggi mobili saranno per lo più sufficienti per dare
l’impressione dell’infinita molteplicità di tempo e di luogo. Lo spettatore non verrà più disturbato da
un rumore sbagliato dietro le quinte o dalla vista di un accessorio discordante, potrà abbandonarsi
interamente alla volontà del poeta, libero di vedere in accordo con la propria anima visioni terribili e
affascinati, paesaggi di finzione, per altri impenetrabili. Il teatro sarà allora quello che deve essere:
un pretesto al sogno.

Arthur Rimbaud, Sonetto delle vocali

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,

Io dirò un giorno le vostre origini segrete:

A, nero corsetto villoso delle mosche lucenti, Che ronzano intorno a fetori crudeli,

Golfi d’ombra; E, candore di vapori e tende,

Lance di fieri ghiacciai, re bianchi, frementi umbelle,

I porpora, sangue sputato, riso di belle labbra

Nella collera o nell’ebbrezza penitenti;

U cicli, vibrazioni divine di mari verdi,

Pace dei pascoli seminati di animali, pece delle rughe

Che l’alchimia scava nelle ampie fronti studiose

O, tuba suprema di stridori strani,

Silenzi attraversati dai Mondi e degli Angeli:

O, l’Omega, raggio violetto dei suoi occhi!


Maurice Denis, Définition du neo-traditionnisme, «Art et critique», 1890

Occorre innanzitutto ricordarsi che un dipinto, prima di essere un cavallo da battaglia, una donna
nuda, o qualsiasi altro aneddoto, è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori disposta
in un certo ordine.

Adolphe Appia, Expériences de théâtre et recherches personnelles.

Sulla rappresentazione del Faust di Gounod.

Appena di aprì il sipario rimasi stupito nel non vedere, o meglio, nel non sentire che tele senza
consistenza; e mi dicevo: “Ma sono dunque solo paraventi?”. Il piano del palcoscenico mi fece
un’impressione analoga; avevo infatti supposto che i piedi degli attori – e quindi, naturalmente, tutti
i loro atteggiamenti – sarebbero stati valorizzati dalla diversità dei piani. Era una sensazione ben
precisa, ma ancora molto vaga per il mio giudizio. Durante la rappresentazione, la mia delusione si
fissò sempre più esclusivamente sui personaggi; trovai bizzarro che ciascun episodio non fosse meglio
situato; non formulai così quella sensazione, ma fu proprio così che la provai.

Sulle messe in scena wagneriane.

La messa in scena di Bayreuth, concepita sulla tradizione pittorica generalmente adottata, poteva
colpirmi solo per il suo lusso straordinario; invece, la recitazione degli attori destò la mia attenzione,
e non senza ragione; tuttavia, dato che niente nella scenografia si accordava ad essa (tranne il tempio
del (p. 24) Santo Graal), quella cura particolare risuonava a vuoto. La disposizione dell’auditorium
mi fu rivelata solo da una riflessione che feci in seguito, e la meraviglia del quadro scenico e del
sipario, pur affascinandomi, non prese nella mia immaginazione il posto che avrebbe dovuto
occupare. Anche allora la musica prevalse.

Sugli allestimenti di Anton Hilt al teatro di Brunswick.

Cercava di trar partito dal materiale esistente, molto convenzionale e sommario, e senza alcuna
pretesa di riformare otteneva, grazie a ingegnose disposizioni, valorizzate da un’illuminazione adatta,
effetti sorprendenti nella loro semplicità. Lì vidi per la prima volta un giusto impiego dei praticabili,
che, allora poteva sembrare azzardato, ma che era perfettamente appropriato; e non potei che
convincermi dell’influenza che tale varietà del suolo esercitava sulla recitazione degli attori, e quanto
anche favorisse e stimolasse l’impiego dell’illuminazione.
Adolphe Appia, Devons-nous (ou pourrons nous) réaliser l’idéal de Wagner?

Ancora sulle messe in scena wagneriane.

Ci è ben nota la versione di Bayreuth del ruolo di Wotan, nella Walkiria. È una tradizione che fa di
quella figura di tragico vegliardo un vecchio brontolone chiassoso e stupido [...] Conosciamo assai
bene tutti la scena in cui Brunilde, al suo risveglio, saluta il sole, all’ultimo atto del Sigfrido, con gesti
che sembrano provenire dagli esercizi di ginnastica svedese, mentre segue, più o meno bene, gli
arpeggi dell’arpa. [...] Sorridiamo del placido cavallo che un corista, simile a un carrettiere privo di
bontà verso gli animali, tiene per la briglia a Brunilde, che intanto canta il lamento finale del
Crepuscolo degli Dei. Ridiamo forte quando l’aiuta a portare fino al rogo il pacifico corsiero che
cammina come un cavallo ben nutrito verso la mangiatoria piena di fieno. Abbiamo ancora dinnanzi
agli occhi il quadro in cui le figlie del Reno vengono issate e buttate giù, salgono e scendono con
bruschi scossoni dietro un velo di garza, e ci fanno venire in mente le visioni di sirene scorte nel
Museo dell’Eden. Abbiamo tutti contemplato Tristano e Isotta, inebriati dalla pozione amorosa, che
nuotano (non c’è altra parola) uno verso l’altro. Nessun wagneriano che si rispetti può dimenticare
gli dèi e i giganti in piedi nella quarta scena del L’Oro del Reno come se fossero i protagonisti di
qualche fantastica esibizione di menestrelli. Durante una rappresentazione del Parsifal a Chicago,
Vernon Stiles, si accorse che le bretelle che reggevano il suo costume avevano ceduto. Per evitare
che cadessero, strinse le mani sotto le ascelle, ma accortosi ben presto che non serviva a nulla, terminò
la scena con le mani dietro la schiena, strette fortemente all’altezza della cintura. Quando lasciò, con
un sospiro di sollievo, il palcoscenico, incontrò Loomis Taylor, il direttore del teatro, e gli chiese:
“Ha pensato che il mio gesto insolito fosse dovuto a nervosismo?” Taylor gli rispose: “No, ho pensato
che fosse la tradizione di Bayreuth”.

Cosima Wagner, Lettera a Houston Stewart Chamberlain¸1896.

Ho esaminato in questi giorni le Notes sur L’anneu du Nibelung di Appia, nella speranza di trovarvi
qualcosa di utilizzabile. Purtroppo è stato inutile. Appia ha l’aria di non sapere che L’anello è stato
qui rappresentato nel ’76, ragion per cui non c’è più niente da scoprire, per quel che riguarda la
scenografia e la regia. Così , nel suo scritto, tutto quel che c’è di giusto è superfluo, in quanto
corrisponde alle indicazioni dello spartito, e il resto è errato fino alla fanciullaggine.

[..] Ammetto che il significato di Appia consista nel campo tecnico, e precisamente
nell'illuminotecnica. È questo un campo d’azione ancora da colmare, se le intenzioni dovranno essere
realmente portate a termine. Eseguire i passaggi, apportare tenui modifiche, tutto ciò spetta a un
tecnico dotato di spirito creativo nel suo campo d’azione, soltanto però Appia non deve vedere scuro
là dove la poesia dice chiaro, e viceversa...
Adolphe Appia, Introduction à mes notes personnelles.

Sulla propria condizione di artista/teorico.

Il periodo della creazione artistica ha preceduto quello della mia riflessione teorica; in quest’ordine
l’integrità artistica della mia visione scenica mi sembra garantita: ho visto, prima – certo, solo dentro
di me, ma con limpidezza perfetta -; poi in seguito, e solo in seguiti (questo è il punto essenziale) ho
riflettuto teoricamente sul valore e la convenienza di quel che vedevo in modo siffatto.

Sulla scena del Parsifal di Wagner.

Questa foresta rappresenta, nella musica, un Tempio. Deve quindi possederne l'aspetto, e tanto piú in
quanto il vero tempio del Santo-Graal succederà ad essa progressivamente, alla fine dell'atto. Gli
alberi assumeranno dunque delle linee e una disposizione generale conformi a questa parentela
architettonica. Poi, quando questa foresta-tempio si dispiegherà lentamente e solennemente sotto i
nostri occhi, per condurci, come in sogno, verso il Tempio divino, nel mezzo dell'inverosimile e
tragico splendore dell'orchestra, i tronchi a poco a poco appariranno piantati su delle rocce piatte, e
non piú radicati nel terreno: la vegetazione scomparirà; la luce naturale del giorno farà posto a quella
soprannaturale, proveniente dal Tempio soprannaturale, e le colonne di pietra rimpiazzeranno
lentamente i grandi tronchi della foresta.

Adolphe Appia, Seconda prefazione a edizione inglese de La Musique et la mise en scène.

Man mano che avanzava nei suoi studi sull’autore, si imponeva l’evidenza del fatto che il dramma di
Wagner porta con sé una contraddizione irriducibile, che è, durante la rappresentazione, un
compromesso continuo tra la musica e l’attore, tra l’arte dei suoni e del ritmo e l’arte della plastica e
del gesto drammatico, e che ogni tentativo di messa in scena normale del dramma, qualunque esso
fosse, si sarebbe basato solo su un compromesso che bisognava ad ogni costo superare per
raggiungere la verità estetica. Più cercava di attenuare quel compromesso, più imperiosamente la
questione principale gli si poneva dinnanzi: “tra la musica e l’attore qual è l’elemento da sacrificare?...
Chi ha risentito nell’anima sua questo tragico conflitto non rinnegherà mai l’uomo e l’opera che,
ispirandogli una compassione sacra, l’hanno liberato. L’opera di Wagner ha salvato l’autore di questo
volume da un’argomentazione arbitraria. Gli ha mostrato la strada da seguire, indipendentemente
dalla sua volontà: l’ha costretto a prendere quella strada, quasi suo malgrado.

Adolphe Appia, Comment réformer notre mise en scène.

Sull’illuminazione.

L’illuminazione per se stessa è un elemento dagli effetti illimitati, rimessa in libertà, diviene per noi
ciò che per il pittore è la tavolozza: per lui ogni combinazione di colori è possibile; e da parte nostra,
per mezzo di proiezioni semplici o composte, fisse o mobili, con l’ostruzione parziale delle fonti
luminose, con diversi gradi di trasparenze, ecc., noi possiamo ottenere un numero infinito di
modulazioni. ‘illuminazione ci dà così il mezzo per esternare, liberare in qualche modo una gran parte
dei colori e delle forme che la pittura fissava sulle tele, e di diffonderli vivi nello spazio; l’attore non
passeggia più davanti alle ombre e alle luci dipinte, ma è immerso in un’atmosfera che è destinata a
lui. Gli artisti capiranno facilmente l’importanza di una simile riforma. (Un artista noto a Parigi, M.
Mariano Fortuny, ha inventato un sistema di illuminazione del tutto nuovo, basato sulle proprietà
della luce riflessa. I risultati sono straordinariamente felici, e questa invenzione geniale provocherà
nella messa in scena di tutti i teatri una trasformazione radicale a favore dell’illuminazione).

Polemica contro la messa in scena realista.

Vediamo, ad esempio, il secondo atto del Sigfrido. Come rappresentare una foresta sulla scena? – In
primo luogo intendiamoci su questo punto: si tratta di una foresta con dei personaggi, oppure di
personaggi dentro una foresta? – Noi siamo a teatro per assistere a qualcosa, che – evidentemente –
non può essere espresso con la pittura. […] Per comporre la nostra scena, non dobbiamo cercare di
vedere una foresta, bensì di immaginare minuziosamente, nella loro successione, tutti i fatti che si
svolgono in questa foresta. La conoscenza perfetta dello spartito è dunque indispensabile e la visione
che ispirerà il metteur en scène cambia anch’essa completamente: i suoi occhi devono rimanere fissati
sui personaggi; se pensa, allora, alla foresta, la vedrà come un’atmosfera speciale attorno e al di sopra
degli attori – atmosfera che egli non può cogliere che nei suoi rapporti con gli esseri viventi e mobili
da cui non può distogliere la vista. Il quadro non sarà dunque più, in nessun momento della sua
visione, un allestimento di pittura inanimata, ma sarà sempre animato. […] non cerchiamo più di dare
l’illusione di una foresta, bensì l’illusione di un uomo nell’atmosfera di una foresta; la realtà qui è
l’uomo, al fianco del quale non ha luogo nessun’altra illusione. Tutto ciò che questo uomo tocca,
deve essere destinato a lui, - tutto il resto deve concorrere a creare attorno a lui l’atmosfera indicata,
- […] il quadro scenico non deve darci necessariamente un’illusione: il suo allestimento ha per fine
soltanto Sigfrido, e quando la foresta […] attirerà gli sguardi di Sigfrido, noi spettatori guarderemo
Sigfrido bagnato di luci e di ombre mobili e non più di brandelli di carta tagliati a forma di foglie e
messi in movimento da cordicelle.

L’illusione scenica è la presenza viva dell’attore.

Adolphe Appia, Nota sul bozzetto per il Parsifal (atto I, La foresta sacra).

Questa foresta rappresenta, nella musica, un Tempio. Deve quindi possederne l’aspetto, e tanto più
in quanto il vero tempio del Santo-Graal succederà ad essa progressivamente, alla fine dell’atto. Gli
alberi assumeranno dunque delle linee e una disposizione generale conformi a questa parentela
architettonica. Poi, quando questa foresta-tempio si dispiegherà lentamente e solennemente sotto i
nostri occhi, per condurci, come in sogno, verso il Tempio divino, nel mezzo dell’inverosimile e
tragico splendore dell’orchestra, i tronchi a poco a poco appariranno piantati su delle rocce piatte, e
non più radicati nel terreno: la vegetazione scomparirà; la luce naturale del giorno farà posto a quella
soprannaturale, proveniente dal Tempio soprannaturale, e le colonne di pietra rimpiazzeranno
lentamente i grandi tronchi della foresta. Passeremo così da un Tempio in un altro Tempio.
Adolphe Appia, La gymnastique rythmique et le théâtre.

Sulla ritmica.

Innanzitutto è evidente che l’iniziazione alla ritmica del corpo è di grande importanza per il
sentimento musicale dell’attore, in più essa dà al corpo un’armonia naturale, che si esteriorizza in
purezza e agilità dei movimenti, e porta quindi seco la moderazione necessaria che sembra essere
condizione primaria di ogni stile. La scuola del movimento ritmico dà all’attore il sentimento dello
spazio nel quale egli si muove. In questo momento l’attore deve sentire l’ingiustizia che gli si fa, col
metterlo quale elemento plastico e vivo, in mezzo a pitture morte dipinte su tele verticali. Egli
cercherà di far valere i suoi diritti, e con piena consapevolezza collaborerà positivamente alla riforma
drammatica e scenica. Ma anche l’autore, il poeta, il musicista, che hanno compreso il valore della
ritmica, torneranno a far ricerche sul corpo umano, che è stato da secoli troppo trascurato. Il punto di
congiunzione tra corpo e spirito, che solo può dare l’armonia, era andato perduto. La ginnastica
ritmica cerca di ritrovarlo: in ciò sta la sua grande importanza per il teatro. La ginnastica ritmica
rivoluzionerà però anche la passività dello spettatore.

«The Era», 25 luglio 1896.

Su Craig nel ruolo di Amleto:


Ha dei tratti fini, e si muove con grazie a disinvoltura. È chiaro che ha studiato la parte con grande
cura e ne dà un’interpretazione al tempo stesso intelligente, penetrante e sapiente. Gordon Craig è un
serio rappresentante della nuova scuola di recitazione che si contrappone all’eloquio pomposo e
declamatorio e ai procedimenti spesso meccanici della scuola tradizionale.

Isadora Duncan, La mia vita.

Su Craig e la scenografia di Rosmersholm di Henrik Ibsen.

[…] Craig si chiuse nel teatro con una dozzina di grandi pentole di colori e un gran pennello.
Incominciò da solo a dipingere le sue scene. Non aveva potuto trovare operai italiani che
comprendessero ciò che gli voleva. E non aveva neppur potuto trovare la tela che gli occorreva; prese
della tela si sacco e si mise a ricucirne le parti. Per giorni e giorni uno stuolo di vecchie donne italiane
occupò la scena per fare questo lavoro. Giovani pittori si agitavano sul palcoscenico per cercare di
eseguire gli ordini di Craig, il quale, coi capelli per aria lanciava loro degli insulti, intingeva pennelli
nei vasi, installava scale spericolate, e non usciva più dal suo teatro né di giorno né di notte. Non
rientrava neppure per l’ora dei pasti. Se io non gli avessi portato un cesto con la colazione si sarebbe
dimenticato di mangiare. Era stata data la consegna di non lasciare entrare la Duse: «Se viene lei»
diceva «io prendo il treno e me ne vado».
Ma la Duse bruciava dal desiderio di vedere come procedessero le cose ed io avevo per
compito di tenerla lontana, senza tuttavia urtarla. La conducevo a fare lunghe passeggiate al giardino
di Boboli, dove l’incanto delle statue e dei fiori calmava i suoi nervi.

Sulla Duse dinanzi alla scenografia di Rosmersholm.

[…] Ella non finiva di ripetere: «[…] Dove è la scenografia?». Le tenevo la mano con ferma
pressione, e la picchiettavo con dolcezza dicendo: «Un momentino e vedrete. Abbiate pazienza». […]
Di tanto in tanto si sentiva la voce di Craig esasperato, che a volte cercava di parlare in italiano e che
a volte urlava: «Accidenti! Perché non avete messo questo là? Perché non fate quello che vi dico?»
poi ricadeva il silenzio. Finalmente, dopo un’attesa mortale che i parve interminabile, nel momento
in cui sentivo che il furore crescente di Eleonora stava per scoppiare, il sipario si alzò lentamente.
Come descrivere quell’istante, come descrivere quello che apparve ai nostri occhi abbacinati,
ai nostri occhi rapiti? […] mai ho veduta una simile visione incantatrice. Attraverso dei vasti spazi
blu, delle armonie celesti, delle linee ascendenti, delle masse colossali, l’anima era trasportata verso
la chiarezza di questo grande vano, attraverso il quale non si estendeva più un vialetto, ma l’infinito
dell’universo. Nei limiti di questi spazi blu si trovava tutto il pensiero, tutta la meditazione, tutta la
tristezza terrestre dell’uomo. Al di là di quello squarcio c’era tutta l’estasi, tutta la gioia, tutto il
miracolo della sua immaginazione. Era piccolo il salotto di Rosmersholm? Io non so quel che Ibsen
avrebbe pensato. Può darsi che sarebbe stato anche lui come noi senza parole, in pieno rapimento.
La mano di Eleonora si fermò nella mia. Sentii le sue braccia attorno a me. Mi serrò a sé in
un lungo abbraccio.
Lagrime scivolavano sul suo bel viso. Restammo là qualche tempo in quella silenziosa stretta,
Eleonora muta d’ammirazione e d’emozione artistica, io, di sollievo.

Enrico Corradini, L’arte della scena: E.G. Craig, in «Vita d’arte», 1 (1908), n. 3.

Influenza della scenografia di Craig sull’interpretazione di Eleonora Duse.

Chi l’ha vista incarnare la parte di Rebecca in Rosmersholm sa che nessuno oggi è così risolutamente
avanguardista in fatto di allestimento scenico e di relazione dei personaggi col quadro com’ella era
già una quindicina d’anni fa. Le pause e i silenzi erano per lei quasi più significanti delle irruzioni di
parole; il singulto e il sospiro, intonati come se un primo violino inaudibile ne modulasse l’estensione,
avevano un valore fonetico non inferiore al grido; la trepidazione della tenda, dietro al quale Rebecca
spiava, non pareva casuale neanche nell’ultima piega; il passaggio delle luci e delle ombre sul suo
volto senza contrazioni creava maschere fuggitive che attimo per attimo sembravano plasmate da una
statuaria irrevocabile. Problema di ritmica, e addirittura di musica: essa voleva, come ogni vero poeta
moderno vuole, sciogliere il verso nella melodia infinita della prosa, alzare la prosa alla
determinatezza del verso.

Enrico Corradini, Sulla scenografia di Craig.

[…] il palcoscenico appariva trasformato, veramente trasfigurato, altissimo, con una architettura
nuova, senza più quinte, di un solo colore tra il verde e il cilestrino, semplice, misterioso e
affascinante, degno insomma di accogliere la vita profonda di Rosmer e di Rebecca West… La scena
è la rappresentazione di uno stato d’animo.

Guido Noccioli, Diario (1906-1907).

Sulla scenografia di Rosmersholm di Ibsen al Teatro della Pergola di Firenze.

Firenze, 4 dicembre 1906. Giornata terribile. La prova della nuova scena per il Rosmersholm, il
dramma di Ibsen. È una scena strana tutta verde illuminata da dieci riflettori. I mobili sono verdi, di
tela uguale la scena: in fondo una gran porta a vetri dà su un paesaggio che dà su un paesaggio che
ricorda stranamente quello dell’Isola dei Morti. Un’altra porta grande è coperta da un velo blu. Altri
veli sono ai fianchi. Un sogno! Piacerà al pubblico? La signora è entusiasta.
Sull’allestimento di Rosmersholm di Ibsen a Nizza.

[…] Seguirono grandi scenate col macchinista, con l’elettricista, l’amministratore, il direttore di
scena, il trova-robe. Gran caos di orribili favelle che s’incrociavano. L’inglese di Gordon Craig, aveva
sì delle strane analogie col puro bolognese del macchinista Pompeo Giordani, ma non era in armonia
col fiorentino del direttore di scena, con l’italiano dell’amministratore, col nizzardo dell’elettricista,
col milanese del trova-robe. Quante insolenze sono volate! Finalmente il pittore se n’è andato per
tornare quasi subito con la figlia della signora. Cambiamento di scena! Gordon Craig parlava in
inglese con la signorina che parlava in francese, all’amministratore che parlava in italiano, al
macchinista che bestemmiava in bolognese.

Edward Gordon Craig, L’attore e la supermarionetta, 1907.

Recitare non è un’arte; è quindi inesatto parlare dell’attore come di un artista. Perché tutto ciò che è
accidentale è nemico dell’artista, l’arte è in antitesi assoluta con il caos, e il caos è creato
dall’accozzaglia di molti fatti accidentali. All’Arte si giunge unicamente di proposito. Quindi è chiaro
che per produrre un’opera d’arte qualsiasi, possiamo lavorare soltanto con quei materiali che siamo
in grado di controllare. L’uomo non è uno di questi materiali.
Tutta la natura umana tende verso la libertà, perciò l’uomo reca nella sua stessa persona la prova che,
come materiale per il teatro, egli è inutilizzabile. Nel teatro, poiché ci si serve come materiale del
corpo di uomini e donne, tutto quel che si rappresenta è di natura accidentale: le azioni fisiche
dell’attore, l’espressione del suo volto, il suono della voce, tutto è in balia dei venti delle sue
emozioni, e se è vero che questi venti spirano in continuazione attorno all’artista eccitandolo, non ne
turbano mai l’equilibrio. L’attore invece diviene succube dell’emozione; essa gli invade le membra,
le scuote come vuole. Egli è completamente in suo potere, si muove come uno in preda al delirio, o
come un pazzo, barcollando qua e là; la testa, le braccia, i piedi, se pure non sono del tutto al di fuori
del controllo, oppongono così poca resistenza al torrente delle passioni, che possono cedere e fargli
fare un passo falso da un momento all’altro.
[…] L’emozione è la causa che prima crea, poi distrugge. L’arte, come l’abbiano definita, non può
ammettere dei fati accidentali; quindi, quel che l’attore ci dà non è un’opera d’arte, ma una serie di
confessioni fortuite. Quindi il corpo umano, per le ragioni che ho detto, è per sua natura assolutamente
inutilizzabile come materiale artistico. […] Ma vedo uno spiraglio attraverso il quale gli attori
potranno evadere in tempo dal servaggio in cui si trovano. Essi devono creare per sé stessi una nuova
forma di recitazione, consistente essenzialmente in gesti simbolici. Oggi essi impersonano e
interpretano; domani dovranno rappresentare e interpretare; e dopodomani dovranno creare. In
questo modo potrà aversi nuovamente uno stile.
[…] L’attore invece guarda alla vita come una macchina fotografica, e cerca di fare un ritratto che
competa con una fotografia. Non immagina neppure che la sua arte sia simile, ad esempio, all’arte
della musica. Egli si sforza di riprodurre la Natura; raramente pensa di inventare con l’aiuto della
Natura e non aspira mai a creare.
[…] L'attore deve andarsene, e al suo posto deve intervenire la figura inanimata - possiamo chiamarla
la Supermarionetta, in attesa di un termine adeguato. Molto è stato scritto sul burattino, sulla
marionetta. Sono stati dedicati loro degli ottimi volumi, e hanno pure ispirato parecchie opere d'arte.
Oggi, che la marionetta attraversa il suo periodo meno felice, molta gente la considera come una
bambola di tipo un po' superiore - e pensa che sia una derivazione di quest'ultima. Il che è inesatto.
La marionetta discende dalle immagini di pietra dei templi antichi - e attualmente è una figura di un
Dio alquanto degenerata. Anche se resta sempre la più cara amica dei bambini, sa ancora come
scegliere e attrarre i suoi sostenitori.
Edward Gordon Craig, Henry Irving¸1930.

Sulla recitazione di Henry Irving.

I suoi movimenti erano tutti controllati. Egli calcolava sempre - uno, due, tre - pausa - uno, due - un
passo, un altro, una pausa, un giro lentissimo, un altro passo, una parola. [... ]. Questa era una delle
sue danze. Oppure seduto su una sedia, vicino a un tavolo, sollevava un bicchiere, beveva e poi
abbassava la mano con uno, due, tre, quattro leggeri scatti - sospensione - un leggero movimento
degli occhi - cinque - poi una successione di passi - due sillabe pronunciate lentamente - un altro
passo - altre due sillabe - e una seconda sequenza della sua danza era realizzata. E così in tutta la
pièce - qualunque fosse - non eseguiva alcun movimento casuale [...]. Tutto era ben definito dall'inizio
alla fine. [...] Essendo i suoi movimenti calcolati, pianificati, ritmici, può essere addirittura ovvio
sottolineare che anche l'espressione del volto era misurata-, tuttavia non deve essere venuto in mente
a nessuno dei miei lettori che questo controllo dell'espressione, nel momento in cui raggiungeva
l'immobilità, trasformava il suo volto in una maschera.

Edward Gordon Craig, Il mio teatro, 1905.

Il padre del drammaturgo è il danzatore […]. Il primo drammaturgo sapeva che quando compariva
con i suoi compagni di fronte al pubblico, esso desiderava vedere più che udire. Sapeva che la vista
è il più veloce e il più acuto fra tutti i sensi dell’uomo […]. E gli spettatori, seduti tanto lontano da
non poter udire tutte le sue parole, sembravano più vicini per l’intensità e l’ardore con cui lo fissavano.
Ad essi, e a tutti, egli si rivolgeva in poesia o in prosa, ma sempre mediante l’azione: azione poetica,
che è la danza, o azione, che è il gesto.

Edward Gordon Craig, Diario di regia di Amleto¸1912.

Fin qui abbiamo visto due mondi, uno di fronte all'altro: quello di Amleto e quello della corte. In
primo piano Amleto disteso su due cuscini grigi, neri; sembrano quasi una tomba aperta. Un velo
enorme, trasparente, ampio quanto tutto il palcoscenico, lo separa dal mondo della corte. Il mondo
della tirannia e dello splendore è tutto d'oro con degli sprazzi di colori violenti, diabolici. È una scalea,
una piramide che ha al vertice il re e la regina. Un enorme mantello d'oro e di porpora scende dalle
spalle del re, dell'usurpatore, e copre tutta la scena, formando tante onde dorate. Dalle creste delle
onde emergono le teste dei cortigiani rivolte in su, verso il trono. La corte noi la vediamo attraverso
gli occhi di Amleto, e la ascoltiamo attraverso la maschera delle parole. Ma quel che sentiamo è falso,
quel che vediamo è vero.

Vsevolod Mejerchol’d, Brani scelti da La rivoluzione teatrale, Roma, Editori Riuniti, 1962.

Sul naturalismo.

Il teatro naturalista insegna all’attore a esprimersi in modo assolutamente chiaro, compiuto e


determinato; non ammette mai una recitazione per accenni una recitazione che lasci coscientemente
delle zone d’ombra nel personaggio: ecco perché nel teatro naturalista si notano così spesso delle
forzature. Questo teatro non conosce la recitazione per allusioni, mentre alcuni attori, anche nel
periodo di entusiasmo per il naturalismo, recitavano in qualche momento con questo stile: la tarantella
di V. F. Komissargevskaia nella parte di Nora è la semplice espressione di uno stato d’animo. Il
movimento delle gambe è soltanto nervosamente ritmato, e se si guardassero solo le gambe si
penserebbe piuttosto a una fuga che a una danza.
Un’attrice del teatro naturalista che abbia studiato sotto la guida di un ballerino farà
coscienziosamente tutti i passi, porterà sino in fondo il gioco scenico e metterà tutto il suo
temperamento proprio nell’azione della danza. Ma quale impressione produrrà sullo spettatore una
simile recitazione?
Lo spettatore che va a teatro deve poter completare con la fantasia quanto rimane inespresso. Molti
sono attirati a teatro proprio da questo mistero e dal desiderio di svelarlo.

Sul teatro dell’immobilità.

Per creare il piano di questo teatro «della convenzione», per assimilarne la tecnica nuova, si doveva
partire dagli accenni fatti a questo proposito dallo stesso Maeterlinck. La tragedia a suo avviso non si
rivela nel massimo sviluppo dell’azione drammatica e nelle grida strazianti ma, al contrario, nella
forma più tranquilla statica, immobile, e nella parola pronunciata a bassa voce. È necessario un teatro
statico e non si tratta di qualcosa di nuovo, di mai esistito. Un t. del genere c’è già stato. Le migliori
tragedie antiche, Le Eumenidi, Antigone, Elettra […], sono statiche; esse mancano non solo del
cosiddetto «soggetto», ma perfino di azione psicologica.
Le tragedie antiche costituiscono degli esempi di teatro immobile, nei quali l’asse tragico è
rappresentato dal fato e dalla posizione dell’uomo nell’universo.
Se manca il movimento nello sviluppo del soggetto, se tutta la tragedia è costruita sul rapporto
reciproco tra fato e uomo, è necessario un t. immobile anche sul piano tecnico, un t. che consideri il
movimento come musica plastica, come disegno esteriore di un’emozione interiore (movimento
inteso come illustrazione). La tecnica del t. immobile preferisce perciò gesti legati e movimenti
limitati; teme i movimenti superflui, perché distraggono lo spettatore dai complessi sentimenti
interiori che si possono afferrare solo in un fruscio, in una pausa, nel tremito di una voce, in una
lagrima che vela gli occhi dell’attore.

Sul cabotinage.

Ma è possibile un teatro senza cabotinage? E che cos’è questo cabotinage? Cabotin è un


commediante girovago, è un parente dei mimi, degli istrioni, dei jongleurs, è il possessore di una
miracolosa tecnica d’attore. Cabotin è il portatore delle tradizioni della vera arte dell’attore, è colui
che ha aiutato il teatro occidentale a raggiungere la sua fioritura (i teatri spagnolo e italiano del XVII
secolo). […] Per salvare il teatro russo dal pericolo dell’asservimento alla letteratura è necessario
restituire ad ogni costo alla scena il culto del cabotinage nel senso lato della parola. […] Bisogna
cercare il principio del teatro proprio nell’epoca in cui fiorì il cabotinage. […] Nell’attore moderno,
al commediante si è sostituito il «lettore intellettuale». Sui manifesti oggi si potrebbe scrivere:
«L’opera verrà letta con costumi e truccature». Il nuovo attore fa a meno della maschera e rinuncia
alla tecnica del jongleur. La maschera è sostituita dal trucco, il cui compito si riduce ad una più esatta
riproduzione dei tratti del viso osservati nella vita. La tecnica del jongleur non serve all’attore
moderno, che non recita ma vive sulla scena. Egli non comprende la magica parola «recitazione»,
poiché un imitatore non è in grado di elevarsi fino all’improvvisazione, che si basa su un intrecciarsi
e un alternarsi infinitamente vario dei mezzi tecnici acquisiti dall’istrione. Il culto del cabotinage che
[…] riapparirà appena il vecchio teatro sarà ricostituito, aiuterà l’attore moderno a ritornare alle leggi
fondamentali della teatralità. […] Come il romanziere ricostruisce il passato sulla base delle vecchie
cronache, abbellendolo con la sua fantasia, così l’attore può ricreare la tecnica dei commedianti del
passato sulla base del materiale raccolto per lui dallo storico del teatro. L’attore del futuro, in uno
slancio di entusiasmo per la semplicità, la raffinata nobiltà, l’elevato senso artistico dei metodi in
interpretazione vecchi e sempre nuovi degli histriones, mimi, atellani, scurrae, jaculatores,
menestrelli può, anzi deve, se desidera restare attore, concordare il proprio slancio emotivo con la
propria maestria, inserendo l’uno e l’altro nella cornice tradizionale della tecnica del vecchio teatro.

Sul teatro triangolo e sul teatro lineare.

[…] Parlerò di due metodi di regia, che impostano in maniera diversa il rapporto tra attore e regista:
uno di essi impedisce la libertà creativa sia dell’attore sia dello spettatore; l’altro libera non solo
l’attore, ma anche lo spettatore, costringendolo a creare (all’inizio soltanto nella sfera della fantasia),
anziché limitarsi a contemplare.
I due metodi risultano chiari se immaginiamo i quattro fondamenti del teatro (autore, regista, attore,
spettatore) disposti nella seguente raffigurazione grafica:
1) un triangolo il cui vertice superiore sia il regista e i due vertici inferiori l’autore e l’attore. Lo
spettatore percepisce la creazione degli ultimi due attraverso la creazione del regista (nella
raffigurazione grafica segnare lo spettatore al di sopra del vertice superiore del triangolo).
Questo è uno dei tipi di teatro (il «teatro-triangolo»)

Spettatore

Regista

Autore Attore

2) una retta (orizzontale) su cui i quattro fondamenti del teatro sono segnati on quattro punti da
sinistra a destra: autore-regista-attore-spettatore. Questo è un altro tipo di teatro («teatro
lineare»). L’attore ha mostrato allo spettatore la sua anima, facendo propria la creazione del
regista, come questi a ha fatto propria la creazione dell’autore.

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autore regista attore spettatore

1) Nel «teatro triangolo» il regista, dopo aver esposto il suo piano di regia in tutti i dettagli,
delineando le figure così come le vede e segnato tutte le pause, prova fino a che la sua concezione
del testo non sia riprodotta con assoluta precisione, finché non gli apparirà come la sentiva e la
vedeva quando vi lavorava da solo.

Il «teatro triangolo» è simile a un’orchestra sinfonica, e il regista ne è il direttore. Il teatro, però, la


cui struttura non mette a disposizione del regista un podio, indica di per sé la differenza tra i metodi
del direttore d’orchestra e quelli del regista. Mi si obietterà che vi sono casi in cui l’orchestra
sinfonica suona senza direttore. […] è vero che un’orchestra sinfonica può suonare senza direttore,
ma non è possibile tracciare un parallelo tra essa e il teatro, dove gli attori escono sul palcoscenico
sempre senza il regista.
Un’orchestra sinfonica senza direttore è possibile, ma per quanto ottima sia stata la preparazione,
non riuscirà ad infiammare il pubblico e potrà soltanto fargli conoscere l’interpretazione di questo o
di quel direttore. Essa può fondersi in un tutto unico soltanto nella misura in cui ricrea la concezione
di un altro.
La creazione dell’attore ha invece un compito più importante che quello di far conoscere allo
spettatore la concezione del regista. L’attore riuscirà a trascinare lo spettatore soltanto se riuscirà ad
accogliere in sé l’aure e il regista e ad esprimere se stesso.
Il merito principale di un professore d’orchestra è quello di possedere una tecnica
da virtuoso e di eseguire le indicazioni del direttore, spersonalizzandosi.
Se si considera il «teatro-triangolo» come un’orchestra sinfonica, si dovrà
accogliere in questo teatro soltanto un attore in grado di rappresentare puntualmente l’idea del
regista, un attore dotato di una tecnica da virtuoso, ma di scarsa personalità.
Nel «teatro lineare», il regista, una volta ricreato in sé l’autore, offre all’attore la propria
creazione (qui, l’autore e il regista sono fusi). L’attore, fatta propria la creazione dell’autore attraverso
il regista – con autore e regista dietro di sé – si pone di fronte allo spettatore, rivelandogli liberamente
la propria anima e rendendo così più intensa l’interazione tra i due fondamenti principali del teatro –
l’interprete e lo spettatore.
Perché la retta non si trasformi in una linea ondulata il regista deve dare da solo un tono e uno
stile all’opera e nondimeno l’attività creativa dell’attore nel «teatro lineare» deve restare libera.
Il regista rivela il suo piano durante la conversazione sull’opera, dandole il colorito
corrispondente al suo punto di vista. Egli, trascinando gli attori con la sua passione per il testo li fa
partecipi dell’animo dell’autore e della sua interpretazione; ma dopo la conversazione tutti gli artisti
riacquistano la loro autonomia. Il regista riunisce quindi tutti per armonizzare le varie parti; ma come?
Solo equilibrando tutte le parti liberamente create dagli artefici di questa creazione collettiva. Stabilita
quell’armonia senza la quale lo spettacolo sarebbe impensabile, il regista non cerca di ottenere una
riproduzione precisa della sua idea, unitaria solo in funzione dell’armonia dello spettacolo, e questo
affinché la creazione collettiva non risulti frazionata. Egli aspetta, invece, il momento di potersi
nascondere dietro le quinte, lasciando che gli attori «distruggano la struttura dell’opera» se non sono
d’accordo con il regista e con l’autore (come può avvenire quando non appartengono alla nuova
scuola») oppure che rivelino la propria anima con le improvvisazioni, non aggiungendo nulla al testo
ma completando ciò che il regista ha solo accennato e costringendo così lo spettatore ad accettare,
attraverso il prisma della loro creazione, tanto l’autore che il regista. Il teatro è interpretazione.

Formula per l’attore.

L'attore unisce in sé sia colui che organizza, sia ciò che viene organizzato, (cioè l'artista e il materiale).
La formula dell'attore consisterà nella seguente espressione N = A1 + A2, dove N è l'attore, A1 è il
costruttore, il quale formula mentalmente e impartisce l'ordine per la realizzazione del compito, A2 è
il corpo dell'attore, l'esecutore, che realizza l'intento del costruttore (A1). L'attore deve allenare il
proprio materiale cioè il corpo, perché possa eseguire istantaneamente gli ordini ricevuti dall'esterno,
dall'autore, dal regista.

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