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Calculus I with Precalculus 3rd Edition

Larson Solutions Manual


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Bernadotte e a Talleyrand, senza pur informarne il papa, che n’era il
padrone; occupò le città del litorale per attuarvi il blocco; dal
cardinale Fesch, violento e irascibile che più volte aveva oltraggiato
il pontefice [117], faceva esigere che fossero cacciati i Russi,
gl’Inglesi, gli Svedesi, i Sardi, e chiusi i porti ai nemici di Francia;
sbraveggiava il nunzio e il Consalvi che si dimise dal ministero;
minacciava fare del papa come Carlo V di Clemente VII. E come? un
vecchio inerme sarebbe d’ostacolo al giovane balioso? che monta la
gratitudine? che il rispetto alla vecchiaja ed alla virtù? che la santità
del carattere o le affezioni del popolo? Lo sbalzare di seggio un
regnante, da cui testè egli avea chiesta la consacrazione, farebbe
impressione sinistra; la Chiesa potrebbe ferire ancora di maledizioni
la fronte che testè avea consacrato; per ciuffare un piccolo territorio,
per sottomettere il più debole e inoffensivo de’ principi, Napoleone
rischia di vedere scandolezzate le coscienze cattoliche, impugnato il
dogma dell’autorità, ch’egli avea tanto faticato a ripristinare: che
importa? a tutto prevalga l’implacabile intolleranza d’ogni volontà
reluttante alla sua. Pio continui ad essere papa, ma non impacci i
disegni del guerriero; nè Roma neghi all’imperatore quell’obbedienza
che gli rendono Milano, Venezia, Firenze, Napoli. — Tutta Italia sarà
sottoposta a’ miei ordini (scrissegli soldatescamente). Di Roma voi
siete il sovrano, ma l’imperatore ne sono io; i miei nemici devon
essere nemici vostri. Le lentezze di Roma a dare le dispense e ad
approvare i miei vescovi, sono insopportabili: io non posso trascinare
per un anno ciò che dee farsi in quindici giorni».
Un papa politico avrebbe potuto simulare e dissimulare, cercar
tempo al tempo, condiscendere in qualche parte per ottenere il tutto:
ma Pio VII era un buon prete, altamente compreso della divina
autorità del pontificato, fedelissimo a quella morale che non
patteggia colla menzogna, e al dovere di tramandare intatta l’autorità
datagli in deposito. Consultò il sacro Collegio; e i cardinali, già da un
pezzo persuasi che, o piegasse o resistesse, Roma sarebbe travolta
nel vortice, opinarono pel partito che almeno mostrava dignità; si
negasse l’alleanza colla Francia, poichè questa condurrebbe a
guerra con tutta cristianità, provocherebbe Inglesi e Russi a
perseguitare i cattolici loro sudditi, repugnerebbe all’affezione che il
pontefice deve a tutti i credenti.
Pio dunque rispose, si terrebbe colpevole di codarda debolezza
presso il mondo e presso l’avvenire se non desse la risposta
comandatagli dal sentimento della giustizia, della verità,
dell’innocenza, ed esponendo quel che prima e poi fu tante volte
ripetuto, dicea, «Come principe temporale non dover intraprendere
cosa che si opponesse a’ suoi doveri di capo della Chiesa, doveri a
cui non sono legati gli altri sovrani: obbligandosi a una federazione
guerresca, si nimicherebbe le nazioni contro cui dovesse osteggiare,
e quindi sarebbe impedito nel libero esercizio della sua supremazia
sopra tutti i fedeli del mondo; adunque padre comune de’ fedeli e
insieme sovrano indipendente, terrebbe nelle contese umane
neutrali il cuore e gli Stati suoi, aperti al potente non men che al
debole; ministro di pace, non cesserebbe d’invocare il termine delle
guerre desolatrici, e il ritorno della comune tranquillità». Carlo Magno
trovò Roma già in mano de’ Papi, ne ampliò il dominio, ma nè lo
fondò, nè pretese superiorità in quello: anzi in testamento impose a’
suoi figli espressamente di difendere tali dominj della Chiesa anche
coll’armi, nè riservò loro alcun diritto di revocare i doni fatti da lui o
da suo padre. Il possesso pacifico di xi secoli era «un titolo, che
nessun altro sovrano potea vantare (1806 20 marzo). — Voi
(soggiungeva), siete imperatore de’ Francesi, non di Roma; e se vi
fosse un imperatore de’ Romani, sarebbe quel di Germania, titolo di
dignità, che nè in realtà nè di figura scema l’indipendenza della
santa Sede; dignità del resto sempre elettiva. I rimproveri che ci fate
di trascurar le anime, ambire a vantaggi mondani e a vane
prerogative, li riceviamo come un’umiliazione dalla mano
dell’Altissimo. Nè voi vorrete spogliarvi di quella saviezza e
previdenza, per la quale conosceste che la prosperità de’ Governi e
la tranquillità dei popoli sono irreparabilmente annesse al bene della
religione».
Sapendo però quanto Napoleone fosse pertinace, insinuò ai ministri
di Russia, Inghilterra e Sardegna di non esporlo a maggiori cimenti,
ed essi ritiraronsi; fece sapere a Fesch che, malgrado i doveri della
neutralità, non s’impedirebbe che i Francesi occupassero
Civitavecchia, la quale in fatto fu subito invasa. A tanto rassegnavasi
Pio, sperando l’imperatore non esigerebbe s’avvilisse a sanzionare
atti incompatibili colla dignità della tiara. Ma era appunto nella parte
morale che Napoleone volea colpirlo; quanto alle forze fisiche, non
avea di già veduto chinarsegli quelle di tutti i re? e a Fontaines
diceva: — Insolenza di cotesti preti! si riserbano l’azione sugli spiriti,
e pretendono lasciare a noi soltanto il corpo».
La lettera del papa volle dunque tenere come il sommo degli affronti,
e cessò di trattar direttamente con esso [118]. Richiamato il cardinale
Fesch, gli surrogò quell’Alquier, che a Napoli avea saputo spionar
tanto, da offrirgli motivo di cacciarne i re, e che nei suoi ragguagli
non parlava che della testardaggine del papa, degl’intrighi de’
cardinali, della folle speranza da questi oltremontani nutrita, che, se
l’imperatore gli abbattesse, il suo successore li ripristinerebbe: e le
istruzioni erangli date dal ministro Talleyrand, al quale ormai
Napoleone lasciava l’incarico d’insultare al pontefice.
Cresceano motivi di querele le nuove prepotenze usate a Napoli,
dove avendo Napoleone messo per re Giuseppe, Pio accampò le
antiche pretensioni della santa Sede, offrendosi però a riconoscerlo
tostochè anche l’imperatore riconosca la sovranità temporale e
l’indipendenza della sede pontifizia. Al nuovo principato di Lucca e
Piombino essendosi esteso il concordato del regno d’Italia, e apposti
i suggelli alle proprietà delle corporazioni religiose, Pio ne mosse
lamento col principe; e Napoleone si chiamò offeso, perchè, il
decreto essendo venuto da Parigi, all’imperatore bisognava dirigere i
reclami. Così manifestamente proclamava il vassallaggio degli altri
regnanti.
Intanto il concordato medesimo si attuava nel Veneto, nominando i
vescovi senza sentire il papa [119], il quale protestò non darebbe loro
l’istituzione canonica se non andassero a riceverla a Roma, e dopo
conchiuso un concordato speciale per quel paese. Napoleone
esclamò alla ribellione (aprile); trovò insultante che il papa, nel
mettere nuove imposte ai sudditi, n’avesse accagionato le spese
delle truppe francesi; e sorpassando ogni uso civile, volle gli fossero
mostrati i conti delle entrate e spese dello Stato Pontifizio [120];
pretendeva inoltre se ne cacciassero il console di Sicilia, alcuni
antichi capibanda che s’appiattavano a Roma, e Luciano fratello
disgustato dell’imperatore; si sciogliesse il matrimonio di Girolamo,
altro suo fratello, che dovea cangiare la moglie plebea in qualche
principessa. Pio VII si rinchiuse in una resistenza passiva;
prevedeva le persecuzioni, ma sperava gioverebbero ad assodare le
vacillanti credenze, e si dispose a soffrire con dignità, allestendo il
tutto pel caso che i cardinali dovessero essere rapiti o violentati;
mentre fra il popolo circolava preghiere onde placar la collera del
Signore, e sviare i flagelli della nuova persecuzione.
Altre guerre sopirono il litigio: ma vincitore a Friedland, dettata la
pace a Tilsitt, avuta la Toscana, Napoleone stabilisce dare un calcio
anche a questo vecchiardo, che teneasi in piedi quando si
prosternavano tanti re, e ad Eugenio da Dresda scrive (1807 22
luglio) inveendo contro l’orgoglio del papa; solo da profonda
ignoranza del secolo poter nascere il ridicolo pensiero di denunziarlo
alla cristianità come nemico: — E che? pensa costui colla scomunica
far cascare l’arma di pugno ai soldati? mettere lo stiletto in mano de’
popoli? Lo faccia, ed io separerò i miei popoli da Roma; la mia
polizia impedirà il circolare di que’ misteriosi scritti. Intanto non voglio
che i miei vescovi d’Italia vadano a Roma a succhiare massime di
rivolta contro il loro sovrano. Certo il papa si pentirà di non aver
aderito alle mie proposizioni. E forse non è lontano il giorno ch’io nol
riconoscerò più se non come vescovo di Roma, e adunerò un
concilio per fare senza di esso. Quai sono i diritti della tiara?
umiliarsi e pregare».
Ancora negoziavasi, e già Napoleone facea versare nelle sue casse
le entrate riscosse nelle provincie romane; destinava un governatore
francese in quelle di Ancona, Macerata, Fermo, Urbino; incorporava
le truppe pontifizie nelle francesi; puniva come felloni i governatori e
comandanti di piazza che tardassero obbedirgli; traeva al museo
imperiale la galleria del principe Borghese, compensandolo
lautamente ma con grave scontentezza del popolo e del
Governo [121]. Supponendo la resistenza del pontefice derivasse dai
cardinali, fece intimargli ne nominasse ventiquattro nuovi sudditi
dell’imperatore: il che (se anche non è vero che volesse portare alla
tiara suo zio) violava non solo la costituzione ecclesiastica, ma
quella libertà che ha ogni principe ed ogni privato di scegliersi i
proprj consiglieri.
Chiese inoltre conferisse pieni poteri ad alcuno per definire tutti i
punti in contestazione; e Pio s’indusse a darli a Lorenzo Litta
milanese, uno de’ più illustri e pratici cardinali, che ad alti natali e
squisita cortesia univa irremovibile fede e costumi austeri [122].
Stando nunzio in Polonia al tempo della rivoluzione del 1794, aveva
egli sottratto qualche vescovo al patibolo; assistette alla coronazione
di Paolo czar, e attese a migliorare la condizione de’ cattolici sudditi;
più tardi e dopo lunghi patimenti fu vicario generale a Roma. Di lui
Napoleone ebbe paura, e ricusò riceverlo; così fece col Pacca; e
pretese monsignor di Bayane, francese già vecchio e sordo: ma
neppure questo poteva accedere a così esorbitanti pretensioni, le
quali convalidavansi col minacciare che ogni ritardo si avrebbe per
un disprezzo della forza, e a misura de’ minuti crescerebbero le
domande.
In fatto l’imperatore, mettendovi una stizza puntigliosa, professava
non volere più frati perchè non ce n’era al tempo degli apostoli,
bensì soldati per difendersi dagl’infedeli e dagli eretici; il papa
s’assoggetti alla federazione italiana; se no, appellerà ad un concilio,
e occuperà lo Stato della Chiesa, necessario per assicurare alla
Francia quell’Italia, che egli (dimenticandosi de’ sovrani che v’avea
collocati) considerava come parte integrante dell’impero.
Gl’impiegati che venivano a portare tali minaccie a cotesto
ambizioso, sommovitore di popoli, istigatore del regicidio, non
trovavano che un vecchietto, tutto pace, tutto rassegnazione,
disposto a qualunque sacrifizio fuorchè a buttare la tiara nel fango
imperiale; che ripetea quel sacrosanto Non possumus: non poter
prescindere dai canoni; e del male che venisse piangerebbe di
cuore, ma si sentirebbe scarco di colpa.
Pure, in procinto di rompere del tutto con quel prepotente, Pio si
sgomentò dei danni che poteano derivarne alla cristianità, e si
rassegnò a soscrivere alla federazione italiana, e mostrarsi ostile
all’Inghilterra, purchè rimanessero intatte le quistioni religiose. Anche
Bayane e Caprara credettero che, concedendo tutto, placherebbero
Napoleone; e formularono un amplissimo trattato, ove Roma si
sgiojellava delle sue migliori prerogative. Ma ecco notizia che
l’imperatore (1807 29 7bre), per non avere interruzione fra il suo
regno d’Italia e il suo regno di Napoli, manda a occupare le Marche;
ordine che convincea come quelle intimazioni fossero fatte
unicamente per ispingere agli estremi il papa, e coll’aspettato rifiuto
giustificare la violenza.
L’occupazione delle provincie privava delle migliori entrate molti
prelati e la santa Sede; e Pio VII, vilipeso come principe, come
pontefice, come uomo, d’accordo col sacro Collegio repudiò il
trattato di Parigi (1808), lesivo alla indipendenza, alla dignità, a’ diritti
spirituali del papa, e ritirò ogni potere al Bayane. L’imperatore non
desiderava che questo, e ordinò al generale Miollis occupasse Roma
«per punire quella Corte insensata e cieca», e per «abituare il
popolo romano a vivere colle truppe francesi e alla loro polizia, in
modo che la Corte papale cessasse d’esistere insensibilmente» [123].
Vi si unì la frode, notificando a Pio dovere truppe passare al regno di
Napoli, ma non toccherebbero Roma; e continuando le proteste
insieme cogli scherni ai preti e al papa, vi entrarono. Pio si rassegnò,
solo protestando contro l’occupazione, ed esortando i sudditi a
imitarlo. Vicario in terra del Dio della pace, che col divino esempio
insegna mansuetudine e pazienza, non dubita che i suoi amatissimi
sudditi metteranno ogni studio a conservare la quiete e la tranquillità
com’egli esorta e ordina espresso, e rispetteranno gl’individui d’una
nazione da cui nel suo viaggio ricevè tanti segni d’affetto. Da quel
momento si considerò come prigioniero nel Quirinale, più non
uscendo alle passeggiate o alle devozioni consuete, e ricusò di più
trattare finchè armi straniere durassero in Roma.
Noi conosciamo questo Miollis semiletterato, il quale avendo
espresso voto contrario al consolato a vita, erasi nimicato
Napoleone, e dappoi attese a riconciliarselo colla più cieca
obbedienza. Si fa dunque stromento contro il papa, e sorpreso
Castel Sant’Angelo col pretesto d’una sommossa de’ Transteverini,
puntate le artiglierie contro il Quirinale, fa arrestare chi gli spiace;
s’ingelosisce fino de’ pochi battaglioni romani che servivano a tenere
la quiete, e gl’incorpora ne’ francesi, congratulandoli che non
avrebbero più a ricevere comandi da preti e donne, bensì da altri
soldati, capaci di condurli al fuoco: alcuni uffiziali che ricusarono,
furono mandati in fortezza a Mantova.
Per iscomporre il sacro Collegio che Napoleone non avea potuto
corrompere, ordinò che tutti i cardinali non oriondi di Roma
tornassero alle patrie loro, benchè alcuni vi stessero da trent’anni, e
come cardinali più non appartenessero ad alcun sovrano particolare,
bensì al papa cui aveano professato sudditanza. Bisognarono soldati
per portare via i cardinali napoletani, poi i genovesi, i milanesi, i
veneti, i toscani, i parmigiani, indi i vescovi, persino il Casoni
segretario di Stato. Così fu sfasciata l’amministrazione, e Pio VII si
trovò isolato di consigli e come principe e come pontefice.
Miollis ebbe l’ordine di assumere anche il governo civile; ma Pio
proibì d’obbedire ad altri decreti che ai suoi, nè di festeggiare in
chiesa le nuove inaugurazioni; il popolo serbò contegno e, malgrado
le suggestioni, s’astenne da’ tripudj carnevaleschi, e solennizzò
l’anniversario della coronazione del pontefice.
Da tutto ciò contrasti, bandi, deportazioni; e annicchiati i ribaldi negli
impieghi che i migliori faceansi coscienza di accettare. Man mano
che uno fosse dal papa nominato governatore di Roma, era côlto e
mandato in lontane fortezze: un’attivissima polizia vigilava tutti gli
atti, gli scritti, le manifestazioni: e tale e tanta era la servitù (come se
ne dolse Pio nella sua allocuzione), che tutto quello che potrebbe
ricusarsi di fare spontaneamente era estorto dalla violenza e dalle
armi. Intanto Napoleone sopprime i conventi, staggisce i beni
ecclesiastici che ascendeano a 250 milioni, cento dei quali assegna
al debito romano e alle spese del culto, il resto incamera. Temendo
resistenza, manda un diecimila uomini di rinforzo a Miollis, e dice: —
Grazie alla pace, ho tempo e truppe disponibili, e bisogna profittarne
per terminare gli affari in pendente. Fra due mesi tratterò col papa, e
poichè il resistere è impossibile, bisognerà che s’accomodi; e
accettare i cambiamenti da me recati allo Stato e alla Chiesa».
L’eccesso della persecuzione diede al pontefice una fermezza che
non era del suo carattere; vedendo il mondo prostrarsi al violento,
rivolgea l’anima al cielo e gli occhi alla posterità, e — Se bisognerà
rinunziare alla tiara, vedano almeno gli avvenire che non n’eramo
indegni». E soggiungeva: — Il mio predecessore nei giorni prosperi
avea l’impeto d’un leone, e morì come un agnello; io vissi come un
agnello, ma saprò difendermi e morire da leone». E all’imperatore
scriveva cambiasse consigli, tornasse ai sentimenti primitivi: —
Sovvengavi che Dio è re sopra i re; che non eccettuerà nessuno,
che non risparmierà qual si sia grandezza; si mostrerà e presto in
forma terribile, e i forti saranno giudicati con rigore».
Qual fu la risposta? Miollis chiude in Castel Sant’Angelo le guardie
nobili; e tra per frode e per forza penetra nel palazzo del papa per
arrestarne il segretario Pacca. Pio se ne querela con Napoleone, e
Napoleone per risposta da Vienna, ove risedeva come vincitore,
proferisce l’unione degli Stati papali all’impero francese (1809 17
maggio), donati, diceva egli, da Carlo Magno «nostro augusto
predecessore» come feudo, senza che Roma cessasse di far parte
del suo impero; adesso ripigliarsi quel dono, e separare di nuovo la
croce dalla spada [124]: i papi alla loro esaltazione giurino non
intraprendere nulla contro le quattro proposizioni gallicane, che sono
dichiarate comuni a tutte le chiese cattoliche dell’impero; godranno
due milioni di rendita in beni immuni; imperiali sieno le spese del
sacro Collegio e della propaganda: ma questi e la dateria e gli
archivj delle missioni e tutto passino a Parigi, dove con milioni si
prepara un nuovo Vaticano.
Al paro dei re di Prussia, di Russia, d’Inghilterra, voleva essere capo
della religione e farla servire alla sua politica; sentiva che un papa
collocato a Parigi gli darebbe efficacia sulla Spagna, sull’Italia, sulla
Confederazione Renana e la Polonia; missioni in America e in Asia
diffonderebbero la gloria e il potere della Francia; i concilj di Parigi
rappresenterebbero la cristianità.
Pio fece affiggere una bolla, dove, esposti gli attentati di Napoleone
contro l’autorità spirituale e temporale dal concordato in poi, colpiva
di scomunica chiunque, dopo l’invasione di Roma, avesse operato
contro l’immunità ecclesiastica e i diritti della santa Sede; egli non
avrebbe cessato di pregare per il loro ravvedimento. Napoleone,
ferito con armi che non erano di ferro, sentì il dispetto del prepotente
a cui nulla più resisteva; e mentre ai vescovi intimava inni per le sue
vittorie, prova evidente della protezione del Dio degli eserciti, inveiva
contro questo tentativo della debolezza e della pazzia per ispargere
turbolenze nell’impero.
Ma anche chiuso nel Quirinale, il papa facea paura, e il generale
Radet nottetempo lo sorprende (1809 6 luglio), e tra gendarmi lo
scorta fino alla Certosa di Firenze. La granduchessa Elisa, che non
n’era avvisata nè sapea come comportarsi, pregò di menarlo oltre.
Anche a Torino il principe Borghese ignorava come trattare questo
prigioniero che dava tanti pensieri a’ regnanti, e che fu trasportato
oltre il Cenisio, poi retrocedendo a Savona, quivi fu deposto,
secondo gli ordini del padrone. L’esecuzione de’ quali era stata
affidata a Murat, nuovo re di Napoli, il quale, nel predominio della
forza fantasticando la signoria di tutta Italia o almeno della
meridionale, vuolsi istigasse Napoleone a trarre in Francia Pio VII,
sperandone occasione di arraffare alcuna provincia.
Ma la tiara vilipesa divenne più veneranda, e se i re erano a tale
sbigottimento che niuno protestò, mentre tutto il mondo erasi
commosso alla prigionia di Clemente VII [125], il popolo ne fu scosso;
nell’aspro tragitto, Pio potè serenarsi degli omaggi resigli da tutte le
plebi; e se la folla devota per lo più s’accontentava di riceverne
benedizioni e d’offrirgli rinfreschi, non mancava chi, con un gesto
risoluto accennando i gendarmi, gli domandasse, — Vuole? dica!»
ma il mansuetissimo non facea che ripetere, — Coraggio e pregate,
figliuoli miei».
Le violenze hanno sì pessima natura che, cominciate, forza è
spingerle all’estremo. Pio a Savona è trattato non altrimenti che un
vulgare prigioniero, assegnatigli tre franchi al giorno, segregato da’
suoi consiglieri, frugate le lettere e ogni cosa che a lui vada, e cinto
di sempre più spie e guardie, sotto pretesto che gl’Inglesi
pensassero rapirlo. Egli, acconciato nella resistenza passiva, ricusa
le comodità e il lusso offertigli; ad ogni interpellazione risponde
«Rendetemi la libertà»; nega istituire i vescovi nominati dal
persecutore, talchè le chiese rimangono vedove, per quanto
Napoleone cacci in carcere i vicarj generali che si dichiarano non
autorizzati a conferire l’istituzione ai nominati da lui; altri vescovi
incarcera o relega perchè ricusano il giuramento d’osservare le
libertà gallicane, e sopprime diciassette diocesi romane e tutte le
abazie.
Eppure Napoleone avea bisogno del papa affinchè proferisse il suo
divorzio da Giuseppina, e così la seconda donna non fosse una
concubina, nè spurio il futuro erede. Alle nozze di Maria Luigia (1809
aprile) tredici cardinali non vollero intervenire, perchè non erasi sul
divorzio interpellata la santa Sede; onde Napoleone vietò loro di
portare le insegne cardinalizie, ne confiscò i beni, e li relegò in varie
città; ed erano nominati cardinali neri, a differenza dei dodici rossi
che v’intervennero [126].
Al vacante arcivescovado di Parigi è nominato il cardinale Maury,
vescovo di Montefiascone ligio a Napoleone; e viene radunato quel
capitolo per discutere se si possa confidargli l’amministrazione della
diocesi senza l’istituzione pontifizia. I più stanno pel sì, allegando le
libertà gallicane e che la giurisdizione mai non muore: alcuno crede
indispensabile l’autorizzazione papale, e brevi in tal senso circolano,
malgrado i divieti e le persecuzioni della polizia. Per provvedervi e
per fiaccare la resistenza del pontefice, Napoleone sottiglia di
spedienti; fa da tutti i vescovi e capitoli dell’impero rispondere alla
dichiarazione del capitolo di Parigi; e quelli d’Italia, indettati dal
vicerè, scendono ancor più basso, asserendo che il corpo dei
vescovi in attività rappresenta la Chiesa [127], che qualunque
istituzione romana è affatto estranea alla gerarchia ecclesiastica nel
governo della Chiesa, che l’istituzione canonica e la professione di
fede e obbedienza sono restrizioni messe tardi dai pontefici alla
podestà vescovile, ch’è d’origine divina.
Fidato in tale docilità, l’imperatore intima un concilio di tutti i prelati
dell’impero e della confederazione Renana, per rimovere le difficoltà
nate in grembo della Chiesa. In quella parata di nuovo genere egli
imitava Costantino e Carlo Magno; e davanti alla commissione
preparatoria discuteva coi prelati sull’autorità temporale del papa,
egli che sapea di tutto; e se l’ottagenario abate Emery, con
argomento ad hominem, gli mostrava che Bossuet stesso avea
dichiarato necessario quel dominio, egli rispondea: — Ciò poteva
essere vero quando l’Europa riconoscendo diversi signori, non era
decente che il papa fosse sottoposto ad uno in particolare. Ma ora
che tutt’Europa non conosce altro signore che me?»
All’assemblea si proposero questi punti: «Il papa può, per ragioni
temporali, ricusare d’intervenire agli affari spirituali? — Non sarebbe
dicevole che il concistoro del papa fosse composto di prelati di tutte
le nazioni? — Se il Governo francese non violò il concordato, può il
papa arbitrariamente ricusare l’istituzione ai vescovi nominati, e
rovinare la religione in Francia come la ruinò in Germania, ove da
dieci anni non c’è vescovo? — Una bolla di scomunica fu affissa e
diffusa clandestinamente: come prevenire che i papi non si rechino
ad eccessi tanto repugnanti alla carità cristiana e all’indipendenza
dei troni?»
Ma ai vescovi, prima di tali quistioni, se ne affacciava un’altra:
aveano essi il diritto di adunarsi senza permissione del pontefice?
Se individualmente mostraronsi aderenti al capitolo di Parigi e docili
al Ciro che avea riedificato Gerusalemme, non osarono considerarsi
come assemblea religiosa là dove mancava Pietro; elusero le
quistioni, teneano segreta corrispondenza con Savona, e spedirono
al papa la loro sommissione: sicchè l’imperatore affrettossi a
sciogliere il concilio.
Come alle brutali minaccie, così alle insidiose proposizioni di lui, Pio
resisteva, e — Lasciatemi morire degno dei mali che ho sofferto».
Napoleone s’irrita, lo bistratta, i suoi fedeli fa frugare dalla polizia, o
costringe a dimettersi o getta nelle prigioni.
Perocchè egli, erede della rivoluzione il cui vanto più bello era stato
l’abolire le lettere di sigillo e distruggere la Bastiglia, otto prigioni di
Stato avea stabilite, e senza processo, per mero decreto vi mandava
i suoi avversarj: vescovi e preti, traversate le città ammanettati,
empivano il forte di Fenestrelle [128], ove, se cercavano un breviario,
riceveano un volume di Voltaire. Poi al papa fu intimato «divieto di
comunicare con veruna chiesa o suddito dell’impero, sotto pena di
disobbedienza dalla parte sua e dalla loro; cessi d’esser organo
della Chiesa colui che predica la ribellione, e la cui anima è tutta
fiele; e poichè nulla può tornargli il senno, vedrà che l’imperatore è
potente quanto basti per fare quel che altri suoi predecessori, e
deporre un papa».
Un giorno Pio VII è secretamente chiuso a chiave in una carrozza,
con abiti mutati; e senza permettergli d’uscirne giorno nè notte, è
portato di là del Cenisio, mentre a Savona si continua a fingere che
sia presente. Sentendosi malato e incerto dell’avvenire, volle
ricevere il viatico, e dispose di tutto come in articolo di morte,
riperdonò ai persecutori; pure giunse a Fontainebleau, e in quel
palazzo fu detenuto a voglia di chi tutto poteva, e finchè questo non
cessò di tutto potere. Ma colà pure ripeteva: «Coraggio e preghiera.
Coraggio e pazienza. Può darsi che i nostri peccati ci rendano
indegni di rivedere Roma, ma i nostri successori recupereranno tutti
gli Stati che loro appartengono».
Lo Stato Pontifizio, ridotto a 800,000 abitanti, fu diviso nei due
dipartimenti del Tevere e del Trasimeno; si nominò un senato di
cinquanta cittadini, ma non seppero mai a qual uso, nè mai si
radunarono, nè la promessa costituzione comparve mai, tutto
regolando la consulta, composta di Miollis, Saliceti, Degerando,
Janet francesi, e del piemontese Dal Pozzo. Roma, benchè
dichiarata seconda città dell’Impero, e desse titolo regio al principe
ereditario, decadde. Il Governo decretò si potesse usare nei tribunali
e negli atti anche la lingua italiana; anzi si facessero annui concorsi
onde premiare gli scritti «più capaci di mantenere essa lingua nella
sua purità; un istituto di beneficenza, e un milione per abbellimenti, si
fecero dissotterrare antichi edifizj, massime l’anfiteatro Flavio, i
contorni del Foro Romano e il Foro Trajano; si posero giardini
pubblici sul monte Celio e sul Pincio; si favorì la manifattura de’
musaici per copiare i quadri napoleonici; si divisò l’asciugamento
delle paludi Pontine.
Erano scarsi compensi alla vedovanza del Vaticano, e al vedere tanti
vescovi, canonici, parroci, deportati o rinchiusi per non avere voluto
giurare fedeltà a un sovrano che non credeano legittimo. Il Canova,
che lungamente ricusò d’immortalare «quello che avea tradito la sua
patria, poi vendutala all’Austria», per insinuazione del papa che
temea corrucciare il Grande, si recò a Parigi onde ritrarlo, e della
confidenza artistica si valse per cantargli molte verità, e come Roma
giacesse al fondo della miseria dopo perduto il principale alimento
della sua vita. In fatto il debito (luoghi di monte) elevato a 50 milioni
di scudi, spariva in gran parte perchè abolironsi le Opere Pie, che
n’erano le principali creditrici; il resto fu liquidato a due quinti del
valore originario. La popolazione di Roma che, fino al 1796, era stata
di 165 mila anime, e per la prima invasione francese erasi ridotta a
135 mila, adesso venne a sole 113 mila [129]. I moltissimi poveri, al
cui alimento provvedeano le istituzioni religiose, costarono 5 milioni
di franchi in quattro anni. Al 3 giugno 1811 festeggiossi la nascita del
re di Roma, ma il pontefice vietò di prendervi parte, nè gli
ecclesiastici prestavano il giuramento all’usurpatore, onde 500
furono deportati; e i monaci cacciati dai chiostri ricusavano fin la
pensione di cui avrebbero dovuto vivere. Al papa spossessato
mandavansi sempre offerte e omaggi, e durava con esso un’attiva
corrispondenza, che l’occulatezza della Polizia non riuscì mai ad
interrompere. «La resistenza di questi pretocoli fu veramente
meravigliosa: fu la sola resistenza italiana del tempo». Queste parole
sono di Cesare Balbo, che giovinetto affatto, servì di segretario alla
consulta, e se ne dolse sempre.
Confessano anche i Francesi che il più deplorabile errore di
Napoleone fu l’ostilità col papa; Francia n’era vergognosa; Italia
fremeva in silenzio, e si inchinava al prigioniero. Invano Napoleone
fece pubblicare un catechismo che fosse unico per tutto l’impero,
dove l’obbedire a lui e il servirlo nel civile e nel militare veniva posto
fra i comandamenti di Dio: le coscienze restavano turbate, i preti
vacillavano nell’eseguire gli ordini dello scomunicato, la plebe
rabbrividiva e pensava.
Di tutto ciò cresceva il malcontento della popolazione, «la cui
esistenza, sotto il papa, era stata dolce e tranquilla, più che brillante,
e il cui carattere piegavasi facilmente al Governo de’ suoi
principi» [130]; e sotto alle feste chiassose, agli sfolgoranti circoli della
Corte e de’ ministeri, a’ festini, alle mascherate, ricantateci ancora
tuttodì dai gaudenti di quel tempo, sentivasi un fremito silenzioso e
iracondo, guardavasi donde verrebbe il sassolino che abbatterebbe
la statua di bronzo, e la splendida cometa apparsa nel 1811 parve il
preludio straordinario della caduta dell’uomo straordinario.
Ma a lui, nell’apogeo di sua grandezza, dovevano incutere spavento
maggiore le grida di patria e d’indipendenza che rintronavano d’ogni
parte: tradì la libertà, e in nome di questa insorgeano i popoli e
perfino i re: tradì la religione, e la voce di questa dalle coscienze
doveva risonare nelle volontà, ed attestare solennemente che la
forza non è tutto, e che un Governo deve soccombere quando
immorale.
CAPITOLO CLXXXII.
Campagne di Spagna e di Russia. Caduta dei
Napoleonidi.

Obbedito da 72 milioni di sudditi, temuto da tutti i re, guardato tra


meraviglia e spavento da tutte le nazioni, con esercito
impareggiabile, e co’ migliori generali formatisi nelle guerre della
rivoluzione, con un tesoro non limitato da riguardi o da opposizione,
con profondo disprezzo dei sentimenti di coloro che volea vincere,
del sangue e dei beni di coloro con cui volea vincere, Napoleone non
era disposto a tollerare la pace se non a patto che tutto procedesse
a sua obbedienza. Non cessavano l’Inghilterra drizzargli incontro la
potenza dell’oro e delle navi; Spagna la potenza del popolo; tutti
sordamente l’inestinguibile desiderio dell’indipendenza, la riazione
della dignità contro la violenza, dell’attività individuale contro il
comando di reggersi e pensare e operare come Francia. Alessandro
di Russia, che erasi un tratto invaghito di quella forza anormale,
negò poi di sagrificarle i suoi popoli; onde Napoleone deliberò andar
a ferirlo nel proprio paese, e come già s’era seduto nelle reggie di
Madrid, di Dresda, di Berlino, di Vienna, così troneggiare in quelle di
Mosca e Pietroburgo. Nol si potrà che con torrenti di sangue. Che
importa? purchè s’arrivi a domare la barbara Moscovia e l’avara
Albione, e dare la pace al mondo, cioè l’incontrastata servitù.
Il punto cui più mirava Napoleone nel regno d’Italia, come negli altri
suoi paesi, era la coscrizione. La Cisalpina, appena creata, armò
guardie nazionali e corpi regolari di giovani, che incideansi sul
braccio Repubblica o morte; come accadde nelle subitanee scosse,
s’improvvisarono sino dal principio prodi uffiziali, Lahoz, Fantuzzi,
Pino, Teulié, Ballabio, Fontanelli, Rossignoli, Porro, Pittoni ed altri,
che ben comparvero alle battaglie d’Arcole e Bassano, alla presa di
Mantova, Faenza, Ancona, ed altre fazioni. Nel 1801 l’esercito
cisalpino constava di 22,000 uomini: la repubblica italiana ne
aggiunse 60,000 di riserva, comprò dalla francese i cannoni delle
proprie piazze per quattro milioni, e prese a stipendio due mezze
brigate e un reggimento di cavalleria leggiera polacca; ebbe due
equipaggi da ponte, armeria a Mantova e Pizzighettone, mille
seicento gendarmi, un reggimento di granatieri per guardia del
Governo, oltre la guardia nazionale de’ cittadini dai diciotto ai
sessant’anni. Nel 1803 una divisione sotto Teodoro Lechi campeggiò
coi Francesi da Genova a Napoli; un’altra sotto Pino preparavasi a
Boulogne per invadere l’Inghilterra; per la quale impresa noi
avevamo offerto quattro milioni di lire milanesi onde costruire due
fregate e dodici scialuppe cannoniere col nome dei dodici
dipartimenti. Stabilito il regno, l’esercito fece di sè bella mostra
all’imperatore nella spianata di Montechiaro; ed avendo i Borboni di
Napoli accennato un movimento, Eugenio concesse ad ogni
dipartimento l’onore di spedire da cinquecento a mille uomini, e un
corpo di guardie nazionali, che accolse fra Modena e Bologna, gente
inesperta e divelta alle case. Militare fu tutta l’intenzione del viaggio
che Napoleone fece nel 1807, e postava corpi di riserva sul Po e
sull’Adige, flottiglie in mare. Il Piemonte, incorporato all’impero, diede
a questo i soldati suoi: Genova, fortificata come Alessandria, dovette
assegnare tre milioni per la marina, aver arsenale da costruzione, e
mantenere almeno due vascelli da settantaquattro, due fregate,
quattro corvette.
Ma i soldati per Napoleone non figuravano che da macchine da
guerra; loro danno se non erano di bronzo come i cannoni. La
coscrizione, sempre gravosa a popolo non avvezzo, andò via via
ingrossando; ed acciocchè le classi elevate non se ne sottraessero,
nei veliti della guardia non s’ammettevano supplenti, e per ogni
soldato dovevano le famiglie 200 lire l’anno; un reggimento di
dragoni della guardia, due compagnie d’artiglieria a piedi, una di
leggera, una di marinaj, oltre l’antico reggimento di granatieri. Le
guardie d’onore erano principalmente destinate alla pompa regia,
ciascuno provvisto dalle famiglie con 1200 lire. Ben presto avemmo
corpo del genio e della marina, armerie nelle Marche e nelle
Legazioni, fonderie a Brescia e Pavia, e collegi per gli orfani, spedali
e ricoveri per gl’invalidi. Pei disastri del 1809 trentasettemila uomini,
cinquemila cento cavalli dell’esercito nostro trovaronsi ridotti a
20,000 uomini e ottocento cavalli.
Scoppiata la famosa guerra di Spagna, vi fu mandato Giuseppe
Lechi con un nerbo di 2963 uomini, poi una divisione di 13,280 col
general Pino: poi un’altra con Severoli, e quattro reggimenti
napoletani. Ma di 30,183 soldati che vi passarono dal regno d’Italia,
ne uscirono appena 8858; 1800 de’ 10,000 Napoletani.
L’antico valore rinasceva alle scuole, alle bandiere, ai guiderdoni
promessi o sperati. Ma i nostri non campeggiavano che sotto
marescialli forestieri; e i loro nomi figuravano appena in seconda fila;
mentre riportavano le imprecazioni dei popoli cui andavano a porre il
giogo [131]. — È necessario armarsi per divenir nazione; qual vanto il
partecipare ai vanti d’un genio immortale!» così ci ripetevano: ma
per quanto sia comune l’entusiasmo per quel macello che s’intitola
gloria militare, archi e trofei mal coprivano i tanti sepolcri; l’esercito
non guardavasi più con meraviglia ma con compassione, dacchè
parea certa morte il marciar là dove sì pochi ritornavano; e il buon
senso avvertiva che i nostri giovani, rapiti in sempre maggior numero
e sempre più giovane età, non militavano pel bene della patria, ma
per ambizioni estranee ad essa; soffrendo e morendo non poteano
acclamar la libertà nè tampoco la gloria, ma soltanto Viva
Napoleone; nell’inneggiar le vittorie domandavasi qual causa buona
avesse vantaggiato, e conchiudevasi che il miglior governo sia
quello ch’è più parco del sangue e dell’avere de’ cittadini, e che
meno n’impaccia l’industria e l’azione. Molti dunque sotterfuggivano
alla dura legge [132], buttandosi armati al bosco o alla montagna: anzi
il valore italiano mostrossi meglio, perchè indipendente, nelle
riscosse contro la dominazione forestiera a Verona, a Salò, in
Valsabbia, a Napoli, ad Arezzo, al Bisagno, a Civitavecchia, ad
Orvieto, in Piemonte, negli Abruzzi, nelle Calabrie.
Il regno trovavasi in arme 75,000 uomini, due divisioni in Ispagna,
quattro in Dalmazia e in Italia; allorchè sonò di nuovo l’intimazione di
guerra (1812), non sapeasi per dove nè contro chi, ma bisognava far
soldati e marciare, marciare tutti. Fu sistemata nell’impero e nel
nostro una guardia nazionale, iscrivendovi anche la gioventù che la
sorte aveva campato dalla leva, e divisa in tre bandi, dai venti ai
ventisei nel primo, dai ventisei ai quaranta nel secondo, nel
retrobando quei dai quaranta ai sessanta: gran riserva di sangue per
quando sarebbesi esausto quel di cinquecentomila soldati. L’esercito
italiano, comandato da Eugenio vicerè, prese nome di quarto corpo
della grand’armata, la quale ne avea dieci; e formavanlo due
divisioni francesi, parte della guardia reale italiana sotto Lechi
bresciano, una divisione sotto Pino e una brigata di cavalleggieri
sotto Villata milanesi. Re Gioachino, che aveva in piedi
cinquantamila Napoletani, guidava la riserva della cavalleria.
Il 18 febbrajo 1812, dopo scarnovalato nelle varie città, trentamila
Italiani si mossero gaj, speranzosi, disciplinati, confidenti nel capo e
in sè: e giunti a Kalwary di Polonia (1812 29 giugno), conobbero
ch’erasi intimata guerra contro la Russia. Passato il Niemen a
cinquecento leghe dalla patria (1 luglio), fra meteore spaventose e
diluvj di pioggie e faticosissimi bivacchi, sfavillavano di ambizione, di
cortesie, di fidanza.
Il Governo polacco, lusingato da Napoleone colla speranza
dell’indipendenza, confortava i nostri a liberare un paese tanto simile
al loro, e come il loro sbranato dalla prepotenza; nel tempo
medesimo i Russi ritirandosi lasciavano proclami, dove eccitavano
gl’Italiani a disertare dal loro tiranno. Però ai nostri non vennero
meno la fedeltà nè il coraggio, benchè Napoleone non gli onorasse
neppure di una rivista, nè quasi di menzione ne’ bullettini; benchè
Eugenio rammentasse troppo che non era italiano, e non
dissimulando la diffidenza, in un alterco 28 giugno si lasciasse
fuggire, — Non temo nè le vostre spade nè i vostri stili».
Re Gioachino entrò primiero sul territorio russo, prese Vilna; e
avanti, avanti. Ma le marcie diventavano sempre più faticose; i
nemici si ritiravano distruggendo viveri e case; i Cosacchi
scorrazzavano continuamente sui fianchi, uccidendo chi tardasse o
si sperdesse. Stracchi morti si arrivava talvolta in una situazione,
piantavasi il campo; chi si gettava al sonno, chi a preparare il cibo;
ma ecco batter l’appello di levarsi e partire. Gli spossati che
bisognassero d’un riposo, gli arditi che sviavansi a foraggiare,
cadeano in man de’ nemici: il cattivo vivere, la pessima acqua
moltiplicava le malattie, talchè sformavasi la bella disciplina.
Pure s’andava innanzi vincendo: il Boristene, dove le aquile romane
arrestarono il volo, lo passarono primi i nostri, ma ausiliarj e servi: a
Smolensko, prima città russa, si ebbe alfine una battaglia (17
agosto), dove entrambe le parti cantarono vittoria; ma i nostri
entrarono sulle ruine della città.
I veliti e granatieri italiani decisero della giornata di Borodino sulla
Moskowa (7 7bre), contrastata da 132,000 Russi con 587 cannoni:
ma i soliti canti non esultavano dopo una vittoria che costava
ventottomila vite: poi non si avea pane, non vedeasi riposo, nè potea
sperarsi se non in Mosca. Napoleone, che credeva consistere la
vittoria nella presa delle capitali, prometteva colà riposo nella
svernata e abbondanza. A quella si spinsero dunque fra inenarrabili
patimenti. Ma perchè niun tumulto di viventi attorno a quella città?
perchè non viene incontro nè un amico nè un nemico? è insidia? è
frode? No: la città fu abbandonata; non restano che pochi miserabili;
e Napoleone, uso entrare fra le acclamazioni a Vienna, a Madrid,
passa in silenzio per le vie della Sionne russa, e assidesi nel Kremlin
(14 7bre), santuario e reggia dei czar.
Il primo giorno cominciano a scoppiare incendj, creduti accidentali;
ma eccoli riprodursi, crescere; invano faticano i soldati per
ispegnerli; sui loro passi più non aveano che carboni ardenti. Era
uno di que’ sagrifizj che imporre può soltanto immenso amor di
patria o immenso dispotismo: tutta in fiamme la città e i magazzini e
le armerie, l’esercito dovette accampare alla serena, vincitore
attorno una città divampante. Per le campagne allagate dalle pioggie
con quadri e mobili alimentavansi i fuochi, intorno a cui coricavansi
uffiziali e gregarj, laceri, bruciacchiati, fangosi, ma sdrajati sopra
scialli di cachemire, pelliccie di Siberia, stoffe di Persia, fra una
profusione di posate, piatti, coppe di argento: qui il velite era
trasformato in un cosacco, il cacciatore in un pope, là il milanese
vestiva da baskiro, il savojardo da taurico, il romano da cinese; e
toccavano ghitarre, flauti, violini, pianoforti superbi, per distrarsi da
un immenso disastro, che non voleasi ancor confessare.
La nostra divisione Delzons fu spedita un tratto oltre Mosca, e fu
quella che spinse più avanti le armi napoleoniche: ma Alessandro,
benchè avesse il vincitore nel cuore del paese, non rispondeva a
proposte di pace, fermo come i Romani contro Pirro; onde
Napoleone non potè più che pensare alla ritirata. Già la divisione
Pino di quattordicimila fanti e mille cavalli, era ridotta a quattromila
combattenti; uccisi da dissenteria e da stenti; soli duemila in
battaglia. Partivano da Mosca (19 8bre) novantamila fanti e
quindicimila cavalieri, cinquecentosessantanove cannoni, duemila
settanta carriaggi e fucine, abbandonando i feriti, e cominciando la
più funesta ritirata che si ricordi.
— Ora comincia la nostra guerra», dissero i Russi, e presa
l’offensiva, molestarono i nostri fianchi senza mai affrontarci. Alcuni
che il bottino fatto a Mosca desideravano conservare, scostavansi
dall’esercito e trovavano la morte. Alcuni, discendendo una traversa,
uno scenderello, lo seguivano sperando incontrarvi un villaggio, un
ricovero; ma sorpresi dagli abitanti o dai Cosacchi erano uccisi e
lasciati perire sul gelato terreno. Fortunato chi le ricche spoglie di
Mosca può cambiare con un tozzo! Pure una volta si potè
combattere a Malojaroslavetz (24 8bre); battaglia che Rapp ascrive
all’esercito d’Italia: sir Roberto Wilson inglese, che combatteva da
avventuriero dovunque vedesse libertà da sostenere, ammirava
questi eroi italiani, che in numero di 16,000 aveano respinto 80,000
nemici: il russo Buturlin, di quella giornata dà tutto l’onore alla
guardia del vicerè. E sarebbe stata decisiva se esso vicerè lasciava
da Pino movere la guardia reale, ch’e’ tenne invece a spettacolo
sotto i tiri del cannone. Perocchè Eugenio, prode soldato più che
capitano, eccedeva nelle riserve, e spedendo le truppe a spizzico

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