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PONTIFICIUM ATHENÆUM REGINA APOSTOLORUM

FACULTAS PHILOSOPHIÆ

R. D. ALAIN CONTAT
Socius Pontificiæ Academiæ Romanæ Sancti Thomæ Aquinatis

IL DESIDERIO NATURALE DI VEDERE DIO SECONDO SAN TOMMASO D’AQUINO


Ad usum privatum studentium

ROMÆ
A.D. MCMVC

//INDICE
I PROBLEMATICA
1. Introduzione al problema
2. Il problema del desiderio naturale di Dio
2.1. Enunciato
2.2. Articolazione
2.2.1. Esistenza
2.2.2. Genere remoto
2.2.3. Genere prossimo
2.2.4. Differenza costitutiva
2.2.5. Proprietà
2.2.6 Conoscibilità
3. Problemi connessi
3.1. Il fine ultimo è unico o duplice?
3.2. Potenza obbedienziale o naturale?
3.3. Cosa è la gratuità della visione?
3.4. È possibile lo statuto di natura pura?
4. Ricapitolazione

II ALCUNI TESTI FONDAMENTALI


In IV Sent., d. 49, q. 2, a. 1 e 6.
De veritate, q. 8, a. 1 e 3.
De veritate, q. 22, a. 7
Summa contra Gentiles III, c. 25; 48; 50 - 54.
Summa theologiæ I, q. 12, a. 1 e 4.
Summa theologiæ I, q. 62, a. 1 e 2.
Summa theologiæ I, q. 93, a. 4.
Summa theologiæ I-II, q. 2, a. 8; q. 3, a. 8.
De malo, q. 5, a. 1.
De virtutibus in communi, a. 10.
Compendium theologiæ I, c. 104 - 106.
In Ioan. 1, lect. 11, n. 212.
In I Cor. 2, lect. 2, nn. 96 - 98.
In I Tim. 6, lect. 3, n. 269.

III ALCUNE INTERPRETAZIONI

IV TENTATIVO DI SOLUZIONE

I PROBLEMATICA

1. INTRODUZIONE AL PROBLEMA

a) Le proposizioni di fede definita


La Rivelazione cristiana annuncia e offre agli uomini di buona volontà una felicità alla quale nessun filosofo pagano ha mai fatto
riferimento: vedere Dio nel suo mistero. Alcuni testi:
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio1.
Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo 2.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà
manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è 3.
Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma
allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto4.

1 Mt. 5, 8.
2 Gv. 17, 3.
3 I Gv. 3, 2.
4 I Cor. 13, 12.
Precisando il senso di questi brani neotestamentari, dobbiamo dire che l’uomo è chiamato alla visione intuitiva e immediata dell’essenza
divina. Il magistero della Chiesa si pronunciato con la massima chiarezza al riguardo, attraverso la costituzione Benedictus Deus emanata da
Benedetto XII il 29 gennaio 1336:
Hac in perpetuum valitura Constitutione auctoritate Apostolica diffinimus: quod secundum communem Dei ordinationem animæ
sanctorum omnium [...] mox post mortem suam et purgationem præfatam in illis, qui purgatione huiusmodi indigebant, etiam ante
resumptionem suorum corporum et iudicium generale post ascensionem Salvatoris Domini nostri Iesu Christi in cælum, fuerunt, sunt et
erunt in cælo, [...] divinam essentiam visione intuitiva et etiam faciali, nulla mediante creatura in ratione obiecti visi se habente, sed
divina essentia immediate se nude, clare et aperte eis ostendente, quodque sic videntes eadem divina essentia perfruuntur, necnon quod
ex tali visione et fruitione eorum animæ, qui iam decesserunt, sunt vere beatæ et habent vitam et requiem æternam 5.

Nello stesso ordine di cose, la Chiesa insegna con uguale fermezza un altro punto di dottrina capitale, ed è la gratuità della vocazione e
del conseguimento di tale fine. Lo precisò Pio XII nell’Enciclica Humani Generis del 12 agosto 1950:
Alii veram “gratuitatem” ordinis supernaturalis corrumpunt, cum autument Deum entia intellectu prædita condere non posse, quin eadem
ad beatificam visionem ordinet et vocet6.

Questi due punti, ossia la vocazione alla visione beata e la sua gratuità sono ribaditi nel Catechismo della Chiesa Cattolica promulgato da
Giovanni Paolo II l’11 ottobre 1992:
Il Nuovo Testamento usa parecchie espressioni per caratterizzare la beatitudine alla quale Dio chiama l’uomo: l’avvento del Regno di
Dio; la visione di Dio: «Beati i puri di cuore, prché vedranno Dio (Mt 5, 8); l’entrata nella gioia del Signore; l’entrata nel riposo di Dio7.
Una tale beatitudine oltrepassa l’intelligenza e le sole forze umane. Essa è frutto di un dono gratuito di Dio. Per questo la si dice
soprannaturale, come la grazia che dispone l’uomo ad entrare nella gioia di Dio 8.

b) Le conclusioni della filosofia prima


Come si comporterà il filosofo davanti alla Rivelazione, ed alla propria fede se è cattolico, come è il nostro caso? Anzitutto, cercherà di
evidenziare ciò che la ragione può concludere al riguardo, rimanendo salva la gratuità e la soprannaturalità della visione e della sua chiamata.
Il punto di partenza di un approfondimento specificamente filosofico della tematica si può riassumere in tre tesi, dimostrabili in sede di
metafisica:
1) La ragione umana può giungere all’evidenza mediata dell’esistenza di Dio (questione an sit).
2) Una volta dimostrata l’esistenza di Dio, l’intelligenza umana può chiedersi in che cosa consiste l’essenza divina, giacché la
conoscenza dell’an sit suscita la domanda sul quid sit9.
3) L’intelligenza umana si deve riconoscere incapace di risolvere questo quesito, giacché Dio non è raggiungibile se non attraverso lo
specchio delle creature, e quindi non nella sua essenza che ci rimane naturalmente velata 10.

c) Genesi del problema


Così il cristiano crede nella sua vocazione alla visione intuitiva della Trinità, mentre il filosofo si può chiedere in che cosa consiste
l’essenza divina, ma si deve riconoscere incapace di raggiungerla. Da questo duplice ordine di conoscenza nasce una problematica teologica,
che comprende un momento filosofico.
Il teologo cercherà di fondamentare la nozione di soprannaturale, sulla base della quale egli determinerà quale sia la parte della natura, e
quale quella della grazia nella vocazione alla visione beatifica e nel suo dono. In questa investigazione, vi è posto per una ricerca
propriamente filosofica, che deve scrutare, anteriormente ai presupposti di fede, quale sia, visto «dal basso», il rapporto dell’uomo ad una
eventuale chiamata divina. È questo aspetto della questione che ci proponiamo di studiare nel presente corso. Lo faremo ricorrendo a S.
Tommaso sia perché è e rimane il Doctor Communis della Chiesa, sia perché lo è in modo egregio nella tematica del rapporto fra natura e
grazia, incluso i suoi analogati, che giova ricordare:
visione grazia fede chiesa
intelletto natura ragione stato

In virtù di queste analogie di proporzionalità, i risultati ai quali giungeremo avranno una ripercussione, mutatis mutandis, sugli analogati che
non consideriamo esplicitamente.
Precisiamo ancora che il nostro sforzo deve essere e sarà essenzialmente speculativo, e soltanto strumentalmente storiografico.

2. LA PROBLEMATICA DEL DESIDERIO NATURALE DI VEDERE DIO


2.1. Enunciato

a) La nozione di problema
Ricordiamo il senso tecnico del vocabolo <problema> in San Tommaso. Si tratta delle due proposizioni contradittorie che si possono
formare attribuendo un predicato ad un soggetto, poi negandolo dello stesso 11. Più ampiamente, un problema consiste in una alternativa fra
due proposizioni opposte in qualche modo. La problematica del desiderio naturale di vedere Dio verrà quindi costituita dall’insieme delle
alternative che si presentano attorno a questo tema di ricerca.

5 DS 1000.
6 DS 3891.
7 n. 1720.
8 n. 1722.
9 Cf. ad esempio I, 12, 1, c; CG 3, 50, n. 2278.
10 Cf. ad esempio I-II, 5, 5, c: «Naturalis enim cognitio cuiuslibet creaturæ est secundum modum substantiæ eius: sicut de Intelligentia dicitur in libro De
causis, quod cognoscit et quæ sunt supra se, et ea quæ sunt infra se, secundum modum substantiæ suæ. Omnis autem cognitio quæ est secundum modum
substantiæ creatæ, deficit a visione divinæ essentiæ, quæ in infinitum excedit omnem substantiam creatam. Unde nec homo, nec aliqua creatura, potest
consequi beatitudinem ultimam per sua naturalia».
11 Cf. SPA 1, l. 5, n. 46; ARISTOTELE, Topica A, 11, 104 b 1 sq.
b) i due poli del problema
L’alternativa fondamentale sul tema del desiderio di Dio emerge dall’opposizione fra i due seguenti testi 12, scelti fra tanti:
Est autem duplex hominis bonum ultimum, quod primo voluntatem movet quasi ultimus finis.
Quorum unum est proportionatum naturæ humanæ [...].
Aliud est bonum hominis naturæ humanæ proportionem excedens, quia ad ipsum obtinendum vires naturales non sufficiunt, nec ad
cogitandum vel desiderandum; sed ex sola divina liberalitate homini repromittitur; I Cor. 2, 9: oculus non vidit, Deus, absque te, quæ
præparasti expectantibus te; et hoc est vita æterna.
Tale est autem in nobis sciendi desiderium, ut cognoscentes effectum, desideremus cognoscere causam, et in quamcumque re cognitis
quibuscumque eius circumstantiis, non quiescit nostrum desiderium, quousque eius essentiam cognoscamus. Non igitur naturale
desiderium sciendi potest quietari in nobis, quousque primam causam cognoscamus, non quocumque modo, sed per eius essentiam.
Prima autem causa Deus est, ut ex superioribus patet. Est igitur finis ultimus intellectualis creaturæ, Deum per essentiam videre.

Sembra da una parte che S. Tommaso neghi ogni proporzione fra le forze della natura umana e il suo fine ultimo soprannaturale, in tal
modo che non possiamo né cogitare né desiderare la visione divina, mentre, dall’altra parte, lo stesso Tommaso afferma tale possibilità,
proprio sulla base del desiderio naturale di conoscere. Una prima soluzione della difficoltà sta nella distinzione fra la finalità ed il suo
conseguimento. Sotto il primo aspetto, la visione beatifica è, in qualche modo, naturale, mentre non lo è sotto il secondo:
Quamvis enim homo naturaliter inclinetur in finem ultimum, non tamen potest naturaliter illum consequi, sed solum per gratiam, et hoc
est propter eminentiam illius finis13.

visio seu scientia beata est quodammodo supra naturam animæ rationalis: inquantum scilicet propria virtute ad eam pervenire non potest.
Alio vero modo est secundum naturam ipsius: inquantum scilicet per naturam suam est capax eius, prout scilicet ad imaginem Dei facta
est, ut supra dictum est14.

Abbiamo qui una prima conclusione molto preziosa: la natura dell’uomo possiede una certa inclinazione naturale alla visione, ma non può
accedere da sé alla visione. Con questo, però, non tutte le difficoltà sono risolte. Perciò è necessario esplicitarle in dettaglio.

2.2. Articolazione della problematica


Dobbiamo, in primo luogo, analizzare la problematica del desiderio stesso di vedere Dio, lasciando al § 3 l’esplicitazione dei problemi
connessi. Logicamente, tale problematica si articola così:

Quanto all’essere:
Esistenza: incondizionato o condizionato [1]?
Natura:
Genere remoto: facoltà o atto [2]?
Genere prossimo: a quale facoltà spetta [3]?
Differenza: quale è il suo oggetto formale [4]?
Proprietà: in quale senso non è vano [5]?
Quanto alla conoscibilità: naturale o soprannaturale [6]?

2.2.1. Il desiderio di Dio è condizionato o incondizionato?


Premettiamo che il desiderio naturale di vedere Dio esiste in qualche modo, sia perché lo possiamo sperimentare in noi, chiededoci cosa
sia l’essenza divina, sia perché S. Tommaso lo afferma.
Il problema, relativamente a l’esistenza di questo desiderio, consiste nel determinare se esso trova necessariamente in ogni uomo, oppure
se dipende da qualche altro fattore. Nel primo caso, sarebbe incondizionato, mentre sarebbe condizionato nel secondo caso. Ci sono testi
dell’Aquinate che possono essere interpretati a favore dell’una o dell’altra tesi.
Ecco per il carattere condizionato del desiderio di vedere Dio:
Aliis enim rebus inditus est naturalis appetitus alicuius rei determinatæ, sicut gravi quod sit deorsum et uniucuique animali id quod est
sibi conveniens secundum suam naturam; sed homini inditus est appetitus ultimi finis sui in communi, ut scilicet appetat naturaliter se
esse completum in bonitate. Sed in quo ista completio consistat, utrum in virtutibus, vel scientiis, vel delectabilibus, vel huiusmodi aliis,
non est ei determinatum a natura.
Quando ergo ex propria ratione, adiutus divina gratia, apprehendit aliquod speciale bonum, ut suam beatitudinem, in quo vere sua
beatitudo consisti, tunc meretur, non ex hoc quod appetit beatitudinem quam naturaliter appetit, sed ex hoc quod appetit hoc speciale quod
non naturaliter appetit, ut visionem Dei, in quo tamen secundum rei veritatem sua beatitudo consistit 15.

Esplicitiamo l’opposizione sulla quale si fonda questo brano. Anteriormente ad ogni specificazione attuale dall’intelletto nonché ad ogni sua
atto proprio, la volontà dell’uomo ut natura è ordinata sì alla felicità, ma in communi, vale a dire sotto la ratio generica di beatitudine. È
soltanto la volontà ut ratio, cioè la volontà in quanto desidera qualcosa hic et nunc, che desidera ciò in cui consiste veramente la beatitudine,
vale a dire la visione della divina essenza. Di più: lo può solo con l’aiuto della grazia divina. Sembra dunque che l’uomo desideri la visione
beatifica a due condizioni: che ne conosca l’esistenza, e che sia aiutato dalla grazia. Pertanto, il desiderio di Dio sarebbe propriamente
soprannaturale, e naturale soltanto secundum quid, in quanto ha una facoltà naturale per oggetto.
In contrasto con questa concezione, S. Tommaso afferma d’altrove l’universalità del desiderio di vedere la divina essenza. I testi più forti
in questo senso si trovano nella Summa contra Gentiles. Ad esempio:

12 Prima colonna: QDV 14, 2, c; seconda colonna: Comp. theol. I, 104, n. 209.
13 EBT 6, 4, 5m.
14 III, 9, 2, 3m.
15 QDV 22, 7, c.
Ex cognitione effectuum incitatur desiderium ad cognoscendum causam: unde homines philosophari incoeperunt causas rerum
inquirentes. Non quiescit igitur sciendi desiderium, naturaliter omnibus substantiis intellectualibus inditum, nisi, cognitis substantiis
effectuum, etiam substantiam causæ congnoscant...16.
Supra [cap. 50, appena citato] probatum est quod omnis intellectus naturaliter desiderat divinæ substantiæ visionem 17.

In questi brani, S. Tommaso espone il suo frequente argomento a partire dal desiderio di conoscere: dalla conoscenza dell’effetto
desideriamo arrivare a quella della causa, poi dalla conoscenza dell’esistenza della causa, vogliamo giungere a quella della sua essenza.
L’interesse per il tema specifico di questo paragrafo sta nell’universalità attribuita a questo desiderio, di cui si specifica esplicitamente che
ha per oggetto l’intellezione della divina substantia, vale a dire dell’essenza di Dio.
In questo capitolo, intendiamo lasciare aperte le alternative che esaminiamo. Si noterà tuttavia che il testo negativo riferiva il desiderio
piuttosto alla volontà, mentre il testo positivo lo collocava piuttosto nel dinamismo dell’intelletto.

2.2.2. Quale è il genere remoto del desiderio?


Il secondo problema che si pone riguarda il genere del desiderio naturale di vedere Dio. L’alternativa è questa: coincide con (almeno) una
delle due facoltà spirituali dell’uomo, oppure è sovvragiunto ad (almeno) una di queste?
Due osservazioni liminari sono necessarie per porre bene il problema che solleviamo ora.

a) Nella lingua di S. Tommaso, i termini <desiderium naturale>, <inclinatio natualis>, <appetitus naturalis> appartengono allo stesso
contesto semantico:
sciendum est quod quædam de passionibus animæ quandoque dicuntur naturales, ut amor, desiderium et spes (...). Et hoc ideo, quia amor
et odium, desiderium et fuga, important inclinationem quandam ad prosequendum bonum et fugiendum malum; quæ quidem inclinatio
pertinet etiam ad appetitum naturalem18.
Per quanto riguarda quindi la problematizzazione del nostro tema, possiamo quindi considerare queste locuzioni come sinonimi.

b) La seconda osservazione concerne il signficato del vocabolo <appetitus>, che trattamio come equivalente di <desiderium>. Notiamo, in
primo luogo, che questa nozione comprende tre gradi:
Appetitus autem non est proprium intellectualis naturæ, sed omnibus rebus inest: licet sit diversimode in diversis. Quæ tamen diversitas
procedit ex hoc quod res diversimode se habent ad cognitionem. Quæ enim omnino cognitione carent, habent appetitum naturalem
tantum. Quæ vero habent cognitionem sensitivam, et appetitum sensibilem habent, sub quo irascibilis et concupiscibilis continetur. Quæ
vero habent cognitionem intellectivam, et appetitum cognitioni proportionalem habent, scilicet voluntatem 19.

In base a questa tripartizione, si potrebbe pensare che l’appetito naturale appartiene unicamente agli esseri non viventi, l’appetito sensibile
agli animali, e l’appetito razionale all’uomo, cosicché il grado superiore fosse esclusivo del grado inferiore. Ma si peccarebbe allora contro il
principio secondo il quale un modo di essere superiore contiene (e sorpassa) le ricchezze proprie del modo di essere inferiore:
considerandum est quod semper prius salvatur in posteriori. Natura autem prior quam intellectus: quia natura cuiuscumque rei est
essentia eius. Unde id quod est naturæ, oportet salvari etiam in habentibus intellectum. Est autem hoc commune omni naturæ, ut habeat
aliquam inclinationem, quæ est appetitus naturalis vel amor20.

Di consequenza, ogni natura possiede il suo appetito naturale. Ora la natura significa per prius l’essenza sostanziale in quanto principio di
operazione, ma si può anche attribuire per posterius alle potenze dell’anima umana. Perciò, si dovrà distinguere, nelle facoltà superiori, ciò
che costituisce il loro appetito naturale innato, e ciò che esprime il loro appetito elicito, condizionato da una conoscenza anteriore:
concupiscere appetitu animali, ad solum concupiscibilem pertinet; sed concupiscere appetitu naturali, pertinet ad quamlibet potentiam:
nam quælibet potentia animæ natura quædam est, et naturaliter in aliquid inclinatur 21.

Vi è dunque, in prospettiva tomista, un appetito naturale inserito in ogni facoltà, che si può definire come la sua inclinazione spontanea
anteriore ad ogni atto. In questo senso, l’appetito naturale di una facoltà non sarebbe altro che la sua ordinazione costitutiva al suo oggetto.
Possiamo ora riformulare il nostro problema. Il desiderio naturale di vedere Dio è un appetito naturale innato, nel senso detto, oppure un
atto puntuale, consecutivo a qualche apprensione anteriore? La partita in gioco è immensa. Se è un desiderio innato, vi è il rischio di definire
la natura umana, attraverso la facoltà in causa, come una essenza ordinata alla visione beatifica, mettendone a repentaglio la gratuità e la
soprannaturalità. Se il desiderio, invece, è un atto puntuale, rischia di diventare casuale, in tal modo che la visione non sia più radicata nella
natura che dovrebbe però portare alla sua ultima perfezione.
Ci sono testi tommasiani che vanno nell’una e nell’altra direzione. Ecco per la prima:
naturale hominis desiderium in ullo alio quietari potest, nisi in solo Deo. Innatum est enim homini ut ex causatis desiderio quodam
moveatur ad inquirendum causas; nec quiescit istud desiderium quousque perventum fuerit ad primam causam, quæ Deus est 22.

Sembra che l’Angelico fonda qui il dinamismo dell’intelligenza che cerca le cause, e quindi Dio, nell’appetito innato della stessa
intelligenza, previo ad ogni investigazione.
Altri testi ci orientano invece verso un desiderio attuale, consecutivo al dono della grazia, come lo dice un brano già citato del Commento
sulle Sentenze23, oppure ad una investigazione già compiuta. Così si può leggere pure il celebre capitolo 50 del terzo libro della Summa
contra Gentiles:

16 CG 3, 50, n. 2277.
17 CG 3, 57, n. 2334.
18 I-II, 41, 3, c.
19 CG 3, 26, n. 2078.
20 I, 60, 1, c. Sulla questione dell’appetito naturale, cf. J. LAPORTA, Pour trouver le sens exact des termes appetitus naturalis, desiderium naturale, amor
naturalis, etc. chez Thomas d’Aquin, Archives d’histoire littéraire et doctrinale du moyen-âge 40 (1973), pp. 37 - 95.
21 QDV 25, 2, 8m. Cf. Sn 3, 27, 1, 2, c; QDV 22, 3, 5m.
22 QDVC 10, c. Da ricollegare a SM 1, lect. 1, n. 2: «naturaliter unusquisque desiderat scientiam, sicut materia formam».
23 Sn 4, 49, 1, 3, sol. 3, c, citato supra, p. 7.
Nos autem, quantumcumque sciamus Deum esse, et alia quæ supra dicta sunt, non quiescimus desiderio, sed adhuc desideramus eum per
essentiam suam cognoscere24.

Seguendo questa linea interpretativa, il desiderio di vedere l’essenza divina non sarebbe iniziale, ma terminale, cioè apparirebbe nella mente
dopo la dimostrazione dell’esistenza di Dio.
Non si deve escludere che le due letture siano compossibili: ci potrebbe essere da una parte una certa capacità naturale della mente
rispetto alla visione di Dio, mentre il desiderio inquanto tale sarebbe di ordine intenzionale. Più profondamente, questo problema va
comunque studiato nel quadro dell’oggetto formale dell’intelletto e della volontà.

2.2.3. Quale è il genere prossimo del desiderio?


Non basta, ovviamente, determinare se il desiderio è innato o elicito, cioè se coincide con la natura di una facoltà oppure se ne è un atto;
occorre ricercare a quale facoltà appartiene. Essendo di ordine spirituale, i due «concorrenti» in prensenza sono l’intelletto possibile e la
volontà.
L’insieme del capitolo 50 del terzo libro della Contra Gentiles favorisce, come abbiamo già visto, l’intelletto. La stessa impostazione si
riscontra in contesti molto diversi. Ad esempio:
impossibile est quod aliquis perfectam beatitudinem consequatur, nisi in visione divinæ essentiæ: quia naturale desiderium intellectus est
scire et cognoscere causas omnium effectuum cognitorum ab eo; quod non potest impleri nisi scita et cognita prima universali omnium
causa, quæ non est composita ex effectu et causa, sicut causæ secundæ25.

Il desiderio che si manifesta attraverso la ricerca delle cause riceve qui esplicitamente l’intelletto come soggetto, benché la sequenza
<appetito / inclinazione / desiderio> rilevi piuttosto della volontà.
In senso contrario, dobbiamo ricodarci invece che la beatitudine è l’oggetto per eccellenza della volontà, quindi non dell’intelletto:
dicendum, quod beatitudinem esse in voluntate dupliciter potest intelligi. Uno modo, ita quod sit voluntatis obiectum; et sic beatitudo,
cum sit ultimus finis, et ex fine sit ratio boni, quod est voluntatis obiectum oportet ponere beatitudinem in voluntate esse 26.

Ora il desiderio di vedere Dio non è altro che il desiderio della beatitudine completa; non dobbiamo allora concludere che abbia la sua sede
nella volontà? Un brano della stessa Contra Gentiles va pure in questa direzione:
Voluntas cum consecuta fuerit ultimum finem, quietatur eius desiderium. Ultimus autem finis omnis cognitionis humanæ est felicitas. Illa
igitur cognitio Dei essentialiter est ipsa felicitas, qua habita non restabit alicuius scibilis desideranda cognitio 27.

Infatti, desiderare qualunque cosa, e dunque la beatitudine o la conoscenza della divina essenza, spetta, per quanto riguarda l’uomo, alla
volontà.
Il nodo del problema sta nella natura del desiderio di conoscere: quale è la parte dell’intelletto, e quale la parte della volontà in esso? Due
serie di considerazioni entrano in questa problematica: l’esatta differenza fra desiderio innato e desiderio elicito da una parte, poi
l’interazione fra la specificazione e l’esercizio negli atti sia dell’intelletto che della volontà.

2.2.4. Quale è la differenza costitutiva del desiderio?


Finora abbiamo evidenziato le alternative che si presentano ex parte subiecti: facoltà / atto, poi intelletto / volontà. Rimane la ricerca più
importante rispetto alla natura del desiderio, quella che concerne, ex parte obiecti, la sua finalità costitutiva. L’opposizione basilare riguarda
la formalità sotto la quale Dio viene raggiunto da questo desiderio: si tratta della sua stessa essenza, al di là di ogni relazione alla creatura,
oppure solo di Dio mediato da qualche ratio sotto la quale sarebbe naturalmente accessibile a noi?
La Contra Gentiles non sembra lasciare molto spazio interpretativo. Nello stesso capitolo, il S. Dottore afferma infatti, che la visione
dell’essenza divina è l’oggetto del desiderio in questione, poi conclude senza equivocazioni che è proprio tale viene che ci promette la
Scrittura:
... pervenire ad divinam substantiam intelligendam, quod naturaliter omnes mentes desiderant 28.
Hæc igitur visio immediata Dei repromittitur nobis in Scriptura, I Cor. 13, 12: VIDEMUS NUNC PER SPECULUM IN ÆNIGMATE: TUNC
AUTEM FACIE AD FACIEM.29.

Il desiderio naturale sembra quindi aver per oggetto specificante ciò che verrà chiamato più tardi Deus sub ratione deitatis.
Tuttavia, ci sono state nella storia del tomismo, come vedremo, interpretazioni più restrittive. Possono prendere le mosse da i luoghi
classici della Summa theologiæ. Ad esempio:
Si igitur intellectus humanus, cognoscens essentiam alicuius effectus creati, non cognoscat de Deo nisi an est; nondum perfectio eius
attingit simpliciter ad causam primam, sed remanet ei adhuc naturale desiderium inquirendi causam. Unde nondum est perfecte beatus.
Ad perfectam igitur beatitudinem requiritur quod intellectus pertingat ad ipsam essentiam primæ causæ 30.

Alcuni operano, a partire dell’espressione ipsam essentiam primæ causæ, una distinzione fra l’essenza divina di Dio ut in se e l’essenza dello
stesso Dio ut prima causa. Si farà ricorso all’impossibilità, per la ragione naturale, di esimere dalle proprie frontiere con le sue sole forze, in
tal modo che pure la portata della Contra Gentiles verrà limitata. Infatti, la parte in cui si trovano gli argomenti sul desiderio naturale è
dedicata alle verità che la ragione può scoprire da sola31.

24 CG 3, 50, n. 2281.
25 LSJ 1, lect. 11, n. 212.
26 Sn 4, 49, 1, 1, sol. 2, c.
27 CG 3, 39, n. 2172.
28 CG 3, 51, n. 2284.
29 Cap. cit., n. 2288.
30 I-II, 3, 8, c. Da ricollegare a I, 12, 1, c: «Si igitur intellectus rationalis creaturæ pertingere non possit ad primam causam rerum, remanebit inane
desiderium, remanebit inane desiderium naturæ».
31 Cf. CG 1, 9, n. 51: «... apparet sapientis intentionem circa duplicem veritatem divinorum debere versari, et circa errores contrarios destruendos: ad
quarum unam investigatio rationis pertingere potest, alia vero omnem rationis excedit industriam. Dico autem duplicem veritatem divinorum, non ex parte
Una terza posizione limiterebbe ancora di più l’ampiezza del desiderio naturale. I testi relativi all’appetito innato della volontà verso la
beatitudine lo restringono infatti alla ratio beatitudinis in communi. La Summa theologiæ è particolarmente chiara a questo proposito:
Respondeo dicendum quod beatitudo dupliciter potest considerari. Uno modo, secundum communem rationem beatitudinis. Et sic
necesse est quod omnis homo beatitudinem velit. Ratio autem beatitudinis communis est ut sit bonum perfectum, sicut dictum est. Cum
autem bonum sit obiectum voluntatis, perfectum bonum est alicuius, quod totaliter eius voluntati satisfacit. Unde appetere beatitudinem
nihil aliud est quam appetere ut voluntas satietur. Quod quilibet vult.
Alio modo possumus loqui de beatitudine secundum specialem rationem, quantum ad id in quo beatitudo consistit. Et sic non omnes
congnoscunt beatitudinem: quia nesciunt cui rei communis ratio beatitudinis conveniat. Et per consequens, quantum ad hoc, non omnes
eam volunt32.

Formalmente, l’appetito naturale della volontà ha per oggetto il bene perfetto e perfettamente saziante; ma non tutti sanno a quale bene
concreto corrisponde questa ratio, perciò non tutti desiderano effettivamente la vera beatitudine.
Per risolvere il problema, siamo rimandati ad un studio dettagliato delle relazioni che intercorrano, quanto alla specificazione ed
all’esercizio delle facoltà spirituali, fra Dio in sé, Dio come prima causa, e la beatitudine in communi.

2.2.5. Come intendere la «non frustrabilità» del desiderio?


Ogni desiderio naturale possiede una caratteristica assai importante per il nostro tema: non può essere in vano, frustra. Questa «non
frustrabilità» è una proprietà nel senso tecnico della parola, cioè una nota che si attribuisce per se secundo modo al desiderio. Se infatti il
desiderio naturale fosse «vano», la natura sarebbe naturalmente ordinata a qualcosa d’impossibile, il ché distrugerebbe la consistenza della
natura; ora questo è metafisicamente assurdo; perciò il desiderio naturale non può essere «vano» 33.
Ma come si deve intendere questa «non frustrabilità» del desiderio naturale nel caso che ci occupa? Ovviamente, occorre prima
determinare se il desiderio in questione è condizionato o incondizionato, cioè risolvere il primo problema. Oltre a questo, vi è un problema
specifico attorno alla «non frustrabilità»: quando si dice che il desiderio naturale di vedere Dio non può essere vano, si vuole semplicemente
dire che è possibile realizzarlo, oppure che sarà realizzato?
I testi tommasiani inferiscono solitamente la possibilità della realizzazione. Il passo centrale della Contra Gentiles al riguardo è molto
chiaro:
Cum autem impossibile sit naturale desiderium esse inane, quod quidem esset si non esset possibile pervenire ad divinam substantiam
intelligendam, quod naturaliter omnes mentes desiderant; necesse est dicere quod possibile sit substantiam Dei videri per intellectum, et a
substantiis intellectualibus separatis, et ab animabus nostris34.

Tutto il movimento dei capitoli 25 a 50 del terzo libro conclude così che è possibile all’intelletto creato vedere l’essenza divina. Tale
possibilità comprende due faccie. L’una si trova dalla parte del soggetto umano, in quanto ha la capacità passiva di conoscere l’essenza di
Dio, mentre l’altra si trova dalla parte della stessa essenza divina, in quanto le è possibile informare l’intelletto creato a modo di specie
impressa35.
Da alcuni testi, si può tentare di mostrare che postulano non solo la possibilità della visione, bensì il suo dono effettivo. Il brano più forte
è desunto dal De veritate:
quamvis naturale sit intellectui humano quod quandoque ad visionem divinæ essentiæ perveniat: non tamen est sibi naturale quod ad hoc
perveniat secundum statum vitæ huius, ut dictum est in corpore articuli36.

Il senso più ovvio dell’avverbio quandoque è infatti <una volta> o <talvolta>. Sembrerebbe quindi che il desiderio naturale di vedere la
divina essenza debba essere «talvolta» realizzato.
In un contesto meramente filosofico, l’Aquinate sfuma però la portata noetica di questa conclusione:
Et quia non est inane naturæ desiderium, recte existimari potest, quod reservatur homini perfecta beatitudo post hanc vitam 37.
Recte existimari potest: la proposizione principale di questa frase interpreta l’attuazione del desiderio naturale come una probabilità.
Questo tipo di sapere ha una configurazione molto precisa in S. Tommaso. Un asserto è probabile quando si può tenerlo cum formidine
alterius, cioè col timore che la contradittoria sia pure vera. Si potrebbe quindi pensare che la visione di Dio, filosoficamente parlando,
entri in questa categoria epistemologica.

2.2.6. Quale è lo statuto noetico del desiderio stesso?


Se l’attuazione del desiderio sembra rimanere incerta per la ragione pura, come giudicare la nozione di essenza divina ut in se, nel caso in
cui questa fosse l’oggetto del desiderio naturale [problema 4]?
Nella Contra Gentiles, il Dottore Commune mostra che le sostanze separate (cioè, teologicamente, gli angeli, i demoni, le anime dei
defunti) sanno che l’essenza divina sta al di là di ciò che sanno, e perciò ne desiderano la visione:
Præterea. Sicut naturale desiderium inest omnibus intellectualibus naturis ad sciendum, ita inest eis naturale desiderium ignorantiam seu
nescientiam pellendi. Substantiæ autem separatæ, sicut iam dictum est, cognoscunt, prædicto cognitionis modo, substantiam Dei esse
supra se et supra omne id quod ab eis intelligitur: et per consequens sciunt divinam substantiam sibi esse ignotam. Tendit igitur naturale
ipsorum desiderium ad intelligendum divinam substantiam38.

L’intelligenza sa quindi di non sapere. Perciò lo spirito creato può provare l’assenza della realtà beatificante, e desiderarne la presenza.
Il De malo prende una posizione diversa, almeno di primo acchito:

ipsius Dei, qui est una et simplex veritas; sed ex parte cognitionis nostræ, quæ ad divina cognoscenda diversimode se habet».
32 I-II, 5, 8, c (intero). Cf. anche Sn 4, 49, 1, 3, sol. 3, c, citato supra, p. 7.
33 Cf. De cælo 1, lect. 13, n. 132: «natura nihil facit frustra: esset autem frustra si moveret ad id ad quod impossibile est pervenire».
34 CG 3, 51, n. 2284.
35 Cf. CG 3, 51, n. 2287: «Manifestum est igitur quod essentia divina potest comparari ad intellectum creatum ut species intelligibilis qua intelligit: quod
non contingit de essentia alicuius alterius substantiæ separatæ».
36 QDV 13, 3, 6m.
37 SE 1, lect. 16, n. 202.
38 CG 3, 50, n. 2280 (intero).
Pertinet autem ad naturalem cognitionem quod anima sciat se propter beatitudinem creatam, et quod beatitudo consistit in adeptione
perfecti boni; sed quod illud bonum perfectum, ad quod homo factus est, sit illa gloria quam sancti possident, est supra cognitionem
naturalem. Unde Apostolus dicit, I ad Cor. II, 9, quod NEC OCULUS VIDIT, NEC AURIS AUDIVIT, NEC IN COR HOMINIS ASCENDIT QUÆ
PRÆPARAVIT DEUS DILIGENTIBUS SE: et postea subdit: NOBIS AUTEM REVELAVIT DEUS PER SPIRITUM SUUM; quæ quidem revelatio ad
fidem pertinet. Et ideo se privari tali bono, animæ puerorum non cognoscunt, et propter hoc non dolent; sed hoc quod per naturam
habent, absque dolore possident39.

L’articolo si chiedeva se i bambini morti senza battesimo soffrono della privazione della visione beatifica, inflitta loro a causa del peccato
orginale. La risposta negativa si fonda sull’ignoranza di queste anime rispetto all’esistenza effettiva della visione beatifica.
Come conciliare i due testi? Si può dire che il primo riguarda la possibilità di vedere l’essenza divina, mentre il secondo concerne il fatto
della chiamata effettiva a tale visione. Però questa soluzione non è sufficiente. Infatti, se la mente sa di aver la il desiderio naturale di vedere
Dio, e se non raggiunge tale possibilità, ne segue una frustrazione che sembra incompatibile con l’ignoranza di cui parla il De malo.
Occorrerà quindi un approfondimento speculativo.
Un testo dello Scriptum super Sententias ci mette sulla strada, e può servire di conclusione al nostro § 2. Infatti, mostra che il dono delle
virtù teologali aggiunge qualcosa alla natura in tre ordini: nella linea dell’oggetto, nella linea della causalità (efficiente), e nella linæ della
conoscibilità:
Ad tertiam quæstionem dicendum, quod in omnibus quæ agunt propter finem oportet esse inclinationem ad finem, et quamdam
inchoationem finis; alias numquam operarentur propter finem. Finis autem ad quem divina largitas hominem ordinavit, vel prædestinavit,
scilicet fruitio sui ipsius, est omnino supra facultatem naturæ creatæ elevatus: quia nec oculus vidit, nec auris audivit, nec in cor homins
ascendit, quæ præparavit Deus diligentibus se, ut dicitur I Cor. 11, 9. Unde per naturalia tantum homo non habet sufficienter
inclinationem ad illum finem: et ideo oportet quod superaddatur homini aliquid per quod habeat inclinationem in finem illum, sicut per
naturalia habet inclinationem in finem sibi connaturalem: et ista superaddita dicuntur virtutes theologicæ ex tribus. Primo quantum ad
obiectum: quia cum finis ad quem ordinati sumus, sit ipse Deus, inclinatio quæ præexigitur, consistit in operatione quæ est circa ipsum
Deum. Secundo quantum ad causam: quia sicut ille finis est a Deo nobis ordinatus non per naturam nostram, ita inclinationem in finem
operatur in nobis solus Deus, et sic dicuntur virtutes theologicæ, quasi a solo Deo in nobis creatæ. Tertio quantum ad cognitionem: quia
cum finis sit supra cognitionem naturæ, inclinatio in finem non potest per naturalem rationem cognosci, sed per revelationem divinam: et
ideo dicuntur theologicæ, quia divino sermone sunt nobis manifestæ: unde Philosophi nihil de eis cognoverunt 40.

Evidenziamo alcuni punti chiavi:


- Per natura sua, l’uomo non è sufficienter ordinato al fine ultimo. Significa quindi 1° che l’uomo è in qualche modo ordinato al fine
ultimo, ma 2° che non lo è sufficientemente. L’inclinazione di cui si tratta non è un atto puntuale, bensì un ordine innato. Per cui sembra che
si apre una via media fra la tesi di un desiderio innato specificato da Dio stesso, e quella di un desiderio puramente puntuale, sovraggiunto.
- L’inclinazione sovraggiunta dal dono delle virtù infuse riguarda non solo il conseguimento del fine, considerato qui come causalità, bensì
la specificazione delle facoltà in gioco.
- L’inclinazione stessa verso il fine ultimo non può essere conosciuta senza la divina rivelazione, perché oltrepassa le capacità conoscitive
della nostra natura. Anche qui si potrà forse trovare una via media fra le due tesi antitetiche della conoscibilità totalmente naturale (di una
inclinazione innata) e quella della conoscibilità esclusivamente soprannaturale (di una inclinazione condizionata dalla grazia): per natura,
l’uomo possiede una certa capacità, non sufficiente, della visione, e può anche conoscerla, come una mera possibilità; per grazia, l’uomo
riceve una inclinazione effettiva alla visione, attraverso le tre virtù teologali, e può conoscerla nella fede.

3. PROBLEMI CONNESSI
Il desiderio naturale di cui ci interessiamo, qualunque ne sia l’essenza, istituisce un certo rapporto iniziale fra l’uomo e Dio.
Metafisicamente parlando, la visione beatifica ha ragione di fine, mentre l’uomo che vi è preordinato dal desiderio ha ragione di potenza.
Occorre perciò prolongare il nostro status quæstionis speculativo considerando i problemi che si pongono a ciascuno degli estremi di questo
binomio atto / potenza. Logicamente, possiamo articolare questa seconda parte della nostra problematica nel modo che segue:

Dal punto di vista quidditativo:


Ex parte finis: il fine ultimo è unico o duplice [1]?
Ex parte naturæ: potenza obbedienziale o naturale [2]?
Dal un punto di vista fattuale:
Ex parte finis: cosa è la gratuità della visione [3]?
Ex parte naturæ: è possibile lo statuto di natura pura [4]?

3.1. Il fine ultimo dell’uomo è unico o duplice?


Per il Doctor Communis, non vi è dubbio che si possa parlare di due fini dell’uomo:
Finis autem ad quem res creatæ ordinantur a Deo, est duplex. Unus, qui excedit proportionem naturæ creatæ et facultatem: et hic finis est
vita æterna, quæ in divina visione consistit, quæ est supra naturam cuiuslibet creaturæ, ut supra (q. 12, art. 4) habitum est. Alius autem
finis est naturæ creatæ proportionaturs, quem scilicet res creata potest attingere secundum virtutem suæ naturæ 41.

Si parlerà ugualmente di due beatitudini o di due felicità:


Est autem duplex hominis beatitudo sive felicitas, ut supra dictum est. Una quidem proportionata humanæ naturæ, ad quam scilicet homo
pervenire potest per principia suæ naturæ. Alia autem est beatitudo naturam hominis excedens, ad quam homo sola divina virtute
pervenire potest, secundum quandam divinitatis participationem; secundum quod dicitur II Petr. 1, 4, quod per Christum facti sumus
consortes divinæ naturæ42.

39 QDM 5, 3, c.
40 Sn 3, 23, 1, 4, sol. 3, c. Da notare anche la risposta ad 1m: «quamvis homo naturaliter ordinetur ad Deum et per cognitionem, et per affectionem,
inquantum est naturaliter eius particeps, tamen quia est quædam eius participatio supra naturam, ideo quæritur quædam cognitio, et affectio supra naturam,
et ad hanc exiguntur virtutes theologicæ».
41 I, 23, 1, c.
L’esistenza di un duplice ordine di finalità è quindi un punto pacifico nell’insegnamento costante di S. Tommaso teologo: l’uomo è ordinato
ad un fine che può raggiungere con le sole forze della sua natura, e poi ad un altro che richiede, di necessità finale stretta, il dono della grazia
quaggiuù, poi del lumen gloriæ nella patria.
Ciò che viene contestato è il carattere pienamente finalizzante della felicità naturale. In alcuni testi, l’Aquinate non esita a chiamarla fine
ultimo:
Est autem duplex hominis bonum ultimum, quod primo voluntatem movet quasi ultimus finis. Quorum unum est proportionatum naturæ
humanæ, quia ad ipsum obtinendum vires naturales sufficiunt; et hæc est felicitas de qua philosophi locuti sunt: vel contemplativa, quæ
consistit in actu sapientiæ; vel activa, quæ consistit primo in actu prudentiæ, et consequenter in actibus aliarum virtutum moralium.
Aliud est bonum hominis naturæ proportionem excedens, quia ad ipsum obtinendum vires naturales non sufficiunt, nec ad
cogitandum vel desiderandum...43.

Nella Summa theologiæ, si usa addiritura la locuzione ultima perfectio:


Respondeo dicendum quod nomine beatitudine intelligitur ultima perfectio rationalis seu intellectualis naturæ: et inde est quod naturaliter
desideratur, quia unumquodque naturaliter desiderat suam ultimam perfectionem.
Ultima autem perfectio rationalis seu intellectualis naturæ est duplex. Una quidem, quam potest assequi virtute suæ naturæ: et hæc
quodammodo beatitudo vel felicitas dicitur. Unde et Aristoteles perfectissimam hominis contemplationem, qua optimum intelligibile,
quod est Deus, contemplari potest in hac vita, dicit esse ultimam hominis felicitatem.
Sed super hanc felicitatem est alia felicitas, quam in futuro expectamus, qua videbimus Deum sicuti est (I Io. 3, 2). Quod quidem est
supra cuiuslibet intellectus creati naturam, ut supra (q. 12, art. 4) ostensum est 44.

Si notino qui tre punti:


1° la perfezione ultima consiste nell’atto secondo che porta a pieno compimento la potenzialità operativa di una natura 45;
2° tale compimento è doppio nel caso dell’uomo e dell’angelo (rationalis seu intellectualis naturæ), a seconda che è accessibile o no al
suo potere attivo;
3° sebbene la beatitudine che possiamo chiamare naturale sia ultima nel suo ordine, non è senza importanti limiti: è qualificata infatti di
felicità quodammodo, «in qualche maniera»; poi appartiene a questa vita, che sappiamo bene non essere un luogo di felicità piena, fosse solo
perché niente è stabile quaggiù46.
Questa implicazione ci mostra che il fine naturale è assai imperfetto. Perciò altri testi oppongono i due fini secondo il binomio imperfetto
/ perfetto:
duplex est felicitas hominis. Una imperfecta quæ est in via, de qua dicit Philosophus; et hæc consistit in cognitione substantiarum
separatarum per habitum sapientiæ: imperfecta tamen, et talis qualis est in via possibilis, non ut sciatur ipsa quidditas. Alia est perfecta in
patria, qua ipse Deus per essentiam videbitur, et aliæ substantiæ sepraratæ: et hæc felicitas non erit per aliquam scientiam speculativam,
sed per lumen gloriæ47.

Un equivalente della coppia <imperfetto / perfetto> è <simpliciter, secundum quid>:


quantum ad perfectionem finis, dupliciter homo potest esse perfectus: uno modo secundum capacitatem suæ naturæ, alio modo secundum
quamdam supernaturalem perfectionem: et sic dicitur homo perfectus esse simpliciter; primo autem modo secundum quid 48.

La perfezione alla quale possiamo giungere può essere detta rispetto alle nostre capacità operative, ma non costituisce una beatitudine
«perfettamente perfetta»:
cum beatitudo dicat quandam ultimam perfectionem, secundum quod diversæ res beatitudinis capaces ad diversos gradus perfectionis
pertingere possunt, secundum hoc necesse est quod diversimode beatitudo dicatur. [...] In hominibus autem, secundum statum præsentis
vitæ, est ultima perfectio secundum operationem qua homo coniungitur Deo: sed hæc operatio nec continua potest esse, et per
consequens nec unica est, quia operatio intercisione multiplicatur. Et propter hoc in statu præsentis vitæ, perfecta beatitudo ab homine
haberi non potest. Unde Philosophus, in I Ethic., ponens beatitudinem hominis in hac vita, dicit eam imperfectam, post multa concludens:
Beatos autem dicimus ut homines. Sed promittitur nobis a Deo beatitudo perfecta, quando erimus sicut angeli in cælo, sicut dicitur Mt.
22, 3049.

Rimanendo sul piano del reale, come deve fare un filosofo ed un teologo realista, ci troviamo di fronte a due beatitudini. L’una deve dirsi
naturale, imperfetta, ed ultima rispettivamente alle nostre capacità operative naturali; l’altra è soprannaturale quanto al suo conseguimento,
perfetta nella sua essenza, ed ultima rispetto alle nostre capacità passive. S. Tommaso non discute il problema di ciò che sarebbe stata una
beatitudine post mortem dell’uomo in puris naturalibus, perché nello stato presente dell’umanità non è reale; il teologo dovrà tuttavia
determinare se si tratta di una mera ipotesi, o di un possibile, al fine di precisare bene la relazione fra la beatitudine perfetta soprannaturale e
la natura dell’uomo.

3.2. La potenza alla visione è obbedienziale o naturale?


Ex parte naturæ, un problema che si discusso a lungo consiste nel tipo di potenzialità che preordina la natura umana (o la natura
spirituale creata in generale) alla visione beatifica, anteriormente ad ogni dono di grazia.

42 I-II, 62, 1, c.
43 QDV 14, 2, c.
44 I, 62, 1, c.
45 Cf. CG 3, 113, n. 2869: «Omnis enim res propter suam operationem esse videtur: operatio enim est ultima perfectio rei»: I, 105, 5, c: «Semper enim
imperfectum est propter perfectius: sicut igitur materia est propter formam, ita forma, quæ est actus primus, est propter suam operationem, quæ est actus
secundus; et sic operatio est finis rei creatæ».
46 Cf. CG 3, 48, n. 2248: «In vita autem ista non est aliqua certa stabilitas: cuilibet enim, quantumcumque felix dicatur, possibile est infirmitates et
infortunia accidere, quibus impeditur ab operatione, quæcumque sit illa, in qua ponitur felicitas».
47 EBT 6, 4, 3m.; cf. Sn 3, 27, 2, 2, c; 4, 49, 1, 1, sol. 4, c e 2m; I-II, 3, 5, c; 3, 6, c; 5, 3, c; 5, 5, c.
48 QDVC 10, 1m.
49 I-II, 3, 2, 4m.
Per capire questa difficoltà, vediamo in primo luogo come S. Tommaso definisce i due tipi di potenza:
Est autem considerandum quod in anima humana, sicut in qualibet creatura, consideratur duplex potentia passiva: una quidem per
comparationem ad agens naturale; alia vero per comparationem ad agens primum, qui potest quamlibet creaturam reducere in actum
aliquem altiorem, in quem non reducitur per agens naturale; et hæc consuevit vocari potentia obedientiæ in creatura 50.

La distinzione fra le due potenzialità si prende dal loro rapporto all’agente. La potenza passiva naturale è pienamente attuabile da un
principio attivo connaturale: ad esempio, l’intelletto possibile è in potenza naturale rispetto a tutto ciò che l’intelletto può farci conoscere
sulla base dell’astrazione, poi per derivazione analogica. Al contrario, la potenza obbedienziale è attuabile solo dall’ agens primum, cioè da
Dio, causa prima dell’essere e dell’agire; essa concerne tutto ciò che Iddio può liberamente fare della sua creatura. Si badi bene che, in
questa definizione, l’Aquinate considera genericamente ogni creatura in quanto tale. Perciò la potenza obbedienziale di cui parla astræ da
ogni fine specifico della natura considerata. Da un pezzo di legno, Dio può fare un vitello:
... relinquitur quod dicat in creatura solam potentiam obedientiæ, secundum quam de creatura potest fieri quidquid Deus vult, sicut de
ligno potest fieri vitulus, Deo operante. Hæc autem potentia obedientiæ correspondet divinæ potentiæ, secundum quod dicitur, quod ex
creatura potest fieri quod ex ea Deus facere potest51.

In quale categoria si deve ordinare la capacità naturale dell’uomo alla visione beatifica? Nella Quæstio disputata de virtutibus in
communis, l’Aquinate discute il problema al livello del rapporto fra facoltà naturali / virtù teologali:
dicendum, quod quando aliquod passivum natum est consequi diversas perfectiones a diversis agentibus ordinatis, secundum differentiam
et ordinem potentiarum activarum in agentibus, est differentia et ordo potentiarum passivarum in passivo; quia potentiæ passivæ
respondet potentia activa: sicut patet quod aqua vel terra habet aliquam potentiam secundum quam nata est moveri ab igne; et aliam
secundum quam nata est moveri a corpore cælesti; et ulterius aliam secundum quam nata est moveri a Deo.
Sicut enim ex aqua vel terra potest aliquid fieri virtute corporis cælestis, quod non potest fieri virtute ignis; ita ex eis potest aliquid
fieri virtute supernaturalis agentis quod non potest fieri virtute alicuius naturalis agentis; et secundum hoc dicimus, quod in tota creatura
est quædam obedientialis potentia, prout tota creatura obedit Deo ad suscipiendum in se quidquid Deus voluerit.
Sic igitur et in anima est aliquid in potentia, quod natum est reduci in actum ab agente connaturali; et hoc modo sunt in potentia in
ipsa virtutes acquisitæ. Alio modo aliquid est in potentia in anima quod non est natum educi in actum nisi per virtutem divinam; et sic
sunt in potentia in anima virtutes infusæ52.

S. Tommaso distingue, nella natura fisica come era concepita dalla cosmologia antico-medievale, una prima potenza attuabile da un altro
elemento sublunare <terra o acqua / fuoco>; una seconda attuabile da un corpo cæleste <terra o acqua / sole o luna>; e, in fine, una terza
potenza non attuabile da nessuna natura creata, bensì da Dio, la quale potenza viene chiamata obbedienziale. Nella seconda parte di questa
risposta, applica la distinzione alla potenzialità dell’uomo rispetto alle virtù: mentre le virtù naturali sono in potenza naturale nell’anima
inquanto è attuabile dalle facoltà connaturali, le virtù infuse sono in un tipo di potenza che non è attuabile se non da Dio. Si deve notare che
il paragone porta sul principio di attuazione, che è Dio solo, sia per gli effetti non naturali nei corpi naturali, sia per l’infusione delle virtù
teologali. Si noti pure che non viene adoperata, nella parte risolutiva della risposta, la locuzione potentia obedientialis; al contempo, tuttavia,
tutto il contesto in cui si inserisce questa soluzione è proprio quello di una potenza obbedienziale.
Vi è una seria di testi che è stata messa volontieri in opposizione alle teorie della potenza obbedienziale, per quanto riguarda
specificamente il rapporto fra natura e grazia, perché l’Aquinate vi parla di una ordinazione naturale della prima verso la seconda. Il più
completo proviene dallo Scriptum. La domanda verte sul carattere miracoloso della giustificazione dell’empio. Per cominciare, si indica
quali siano le note costitutive del miracolo:
ad primam quæstionem, quod de ratione miraculi secundum se sumpti tria sunt: quorum primum est quod illud quod fit per miraculum,
sit supra virtutem naturæ; secundum ut in natura recipiente non sit ordo naturalis ad illius susceptionem, sed solum potentia obedientiæ
ad Deum; tertium ut præter modum consuetum tali effectui ipse effectus inducatur 53.

Poi S. Tommaso esemplifica queste tre condizioni, precisando dopo che debbono essere tutte e tre presenti in ogni miracolo:
Exemplum primi est de gloria corporum in resurrectione, ad quam natura non attingit; exemplum secundi est de illuminatione cæci, in
quo non est potentia naturalis ad suciepiendum visum; exemplum tertii est de conversione aquæ in vinum præter cursum naturæ. Et hæc
tria aliquo modo semper concurrunt ad actum miraculosum: quia etsi visiva potentia non excedat vires naturæ absolute loquendo, quia
eam per generationem inducit, excedit tamen vires naturæ considerata impotentia recipientis; et si adsit potentia absolute aliquando, sicut
in conversione aquæ in vinum, tamen per comparationem ad modum fiendi, neutrum adest: et ideo in definitione miraculi ponitur arduum
quantum ad primum, præter spem, scilicet naturæ, quantum ad secundum, insolitum quantum ad tertium 54.

Siccome le tre condizioni debbono essere riunite, la presenza di un ordo naturalis basterà ad escludere che un effetto anche producibile da
Dio esclusivamente sia un miracolo:
Et ideo ille effectus qui immediate est a Deo tantum, et tamen inest recipienti ordo naturalis ad recipiendum illum effectum, non per
alium modum quam per istum, non erit miraculosus, sicut patet de infusione animæ rationalis. Et similiter est de iustificatione impii: quia
ordo naturalis inest animæ ad iustitæ rectitudinem consequendam: nec alio modo eam consequi potest quam a Deo immediate: et ideo
iustificatio impii de se non est miraculosa; sed potest habere aliquid miraculosum adiunctum, quod iustificationi viam parat 55.

Una dottrina simile è proposto nell’articolo parallelo della Summa theologiæ:

50 III, 11, 1, c.
51 Sn 3, 2, 1, 1, sol. 1, c.
52 QDVC 10, 13m.
53 Sn 4, 17, 1, 5, sol. 1, c.
54 loc. cit.
55 loc. cit.
Secundo, in quibusdam miraculosis operibus invenitur quod forma inducta est supra naturalem potentiam talis materiæ: sicut in
suscitatione mortui vita est supra naturalem potentiam talis corporis. Et quantum ad hoc, iustificatio impii non est miraculosa: quia
naturaliter anima est gratiæ capax; eo enim ipso quod facta ad imaginem Dei, capax est Dei per gratiam, ut Augustinus dicit 56.

Da questo brano si può indurre che la giustificazione dell’empio, e quindi la visione beatifica non è supra naturalem potentiam dell’anima,
perché questa è naturaliter gratiæ capax.
Per risolvere il problema, si dovrà esaminare se vi è una vera antinomia, come si pretende, fra potentia obedientialis e ordo naturalis. I
punti pacifici della dottrina tommasiano al riguardo sono due: 1° la giustificazione non è un miracolo, perché vi è una certa capacità naturale
dell’anima ad essa; 2° ma la giustificazione, ovviamente, non è realizzabile se no da Dio solo. Si può dire quindi che vi è nell’anima una
certa potenza naturale rispetto alla visione di Dio, alla quale non corrisponde nessun agente connaturale. Perciò è più di una mera potenza
obbedienziale intesa come semplice non contraddizione, ma è meno di una vera potenza naturale. Alcuni autori, come vedremo, hanno
coniato per questo caso l’espressione di potenza obbedienziale specifica.

3.3. In che cosa consiste la gratuità della visione?


Il dato sul quale nasce questa domanda è rivelato: la visione beatifica, come tutto ciò che vi conduce, è interamente gratuita. Ora
«gratuito» si oppone a «dovuto»; perciò dobbiamo determinare in che senso la visione non è dovuta all’uomo. L’intelligibilità della
questione e della sua risposta è accessibile alla ragione, presupposta al meno la possibilità della visione.
Non ci pare che la gratuità dia luogo, in S. Tommaso, ad un problema, nel senso tecnico del termine, giacché la sua dottrina si presenta in
modo univoco. Conviene perciò soltanto evidenziarne le articolazioni principali. Un testo ancora generico ci aiuta a collocare bene il
problema:
ab ipsa prima institutione natura humana est ordinata in finem beatitudinis, non quasi in finem debitum homini secundum naturam eius,
sed ex sola divina liberalitate57.

Si vede che il debitum che la grazia esclude riguarda la natura. Nella Summa theologiæ, il Dottore Commune esplicita i due tipi fondamentali
di debitum e li applica al rapporto fra uomo e Dio:
Ad secundum dicendum quod gratia, secundum quod gratis datur, excludit rationem debiti.
Potest autem intelligi duplex debitum. Unum quidem ex merito proveniens, quod refertur ad personam, cuius est agere meritoria
opera; secundum illud ad Rom. 4, 4: Ei qui operatur, merces imputatur secundum debitum, non secundum gratiam.
Aliud est debitum ex conditione naturæ: pura si dicamus debitum esse homini quod habeat rationem et alia quæ ad humanam
pertinent naturam.
Neutro autem modo dicitur debitum propter hoc quod Deus creaturæ obligatur: sed potius inquantum creatura debet subiici Deo ut in
ea divina ordinatio impleatur, quæ quidem est ut talis natura tales conditiones vel proprietates habeat, et quod talia operans talia
consequatur.
Dona igitur naturalia carent primo debito, non autem carent secundo debito. Sed dona supernaturalia utroque debito carent: et ideo
specialius sibi nomen gratiæ vindicant58.

Due sono le parti maggiori dell’argomentazione.


1) S. Tommaso distingue i due modi del debitum. Uno deriva dalla persona a causa del suo operare: in questo senso, lo stipendio è dovuto
all’operaio per il lavoro compiuto. L’altro debitum scaturisce dalla natura, in quanto appartiene alla sua integralità costitutiva. Ad esempio,
la natura humana comprende la facoltà razionale e le altre facoltà. Si tratta, in questo secondo senso, dell’essenza e delle proprietà
connaturali all’essenza (per se primo et secundo modo)59.
2) Si passa all’applicazione al problema della grazia. S. Tommaso precisa primo che, nel rapporto fra Dio e l’uomo, il debitum non può
comunque stare dalla parte di Dio, in quanto avrebbe un obbligo nei confronti della propria creatura; piuttosto si deve dire che la creatura
deve avere tale o tale perfezione per conseguire la finalità assegnatale dal creatore. Posta questa premessa, si conclude distinguendo un
doppio ordine di rapporto a Dio. Rispetto ai doni naturali, non vi è un debitum personale, ma un debitum naturale: vale a dire che Dio,
presupposta la volontà di creare, deve dare alla sua creatura ciò che spetta alla perfezione della sua natura. Rispetto invece ai doni
soprannaturali, non vi è nessun debitum, né personale, né naturale: vale a dire che Dio, anche dopo aver creato la natura umana, non deve
chiamarla alla visione.
Questo punto apparirà con una maggiore chiarezza alla luce di un brano del De veritate:
Per modum autem debiti movet aliquid dupliciter: uno modo absolute, et alio modo ex suppositione alterius. [...]
Finis autem divinæ voluntatis est ipsa eius bonitas, quæ non dependet ab aliquo alio; unde ad hoc quod habeatur a Deo, nullo alio
indiget; et ideo voluntas eius non inclinatur primo ad aliquid faciendum per modum debiti, sed liberaliter tantum, in quantum est bonitas
eius in opere manifesta.
Sed ex quo supponitur quod Deus aliquid facere velit; ex suppositione liberalitatis ipsius per modum debiti cuiusdam sequitur quod
faciat ea sine quibus res ipsa volita esse non potest; sicut si facere vult hominem, quod det ei rationem.
Ubicumque autem occurrit aliquid sine quo aliud a Deo volitum esse possit, hoc non procedit ab eo secundum rationem alicuius
debiti, sed secundum meram liberalitatem. Perfectio autem gratiæ et gloriæ sunt huiusmodi bona quod sine eis natura esse potest,
excedunt enim naturalis virtutis limites; unde quod Deus velit alicui dare gratiam et gloriam, hoc ex mera liberalitate procedit 60.

Si mostra in primo luogo che la divina volontà, originariamente, non è legata in assoluto a nessun debitum, ma agisce fuori di se stessa
liberaliter tantum, per pura generosità. Se si considera invece la volontà divina in quanto si è già determinata a volere un fine, allora entra il
56 I-II, 113, 10, c.
57 QDV 14, 10, 2m.
58 I-II, 111, 1, 2m.
59 La stessa distinzione si ritrova nel Comp. theol. I, 214, n. 425: «Dupliciter autem aliquid debitum existit: uno quidem modo secundum naturam, alio
modo secundum operationem. Secundum naturam quidem debitum est rei quod ordo naturalis illius rei exposcit, sicut debitum est homini quod habeat
rationem et manus et pedes. Secundum operationem autem, sicut merces operanti debetur. Illa ergo dona sunt hominibus divinitus gratis data quæ et ordinem
naturæ excedunt, et meritis non acquiruntur, quamvis et ea quæ pro meritis divinitus dantur, interdum gratiæ nomen vel rationem non amittant: tum quia
principium merendi fuit a gratia, tum etiam quia superabundantius dantur quam merita humana requirant, sicut dicitur Rom. 6, 23: Gratia Dei vita æterna».
60 QDV 6, 2, c.
debitum ex suppositione. Sotto questa condizione, si opera poi una distinzione analoga a quella della Summa theologiæ. Sul piano naturale,
presupposto che Dio voglia gratuitamente creare una determinata natura, «deve» communicarle le perfezioni senza le quali tale natura non
può essere, perché sono intrinsecamente collegate alla sua essenza. Ma una tale relazione essenziale fra la natura umana e i doni di grazia e
di gloria non esiste; perciò, su questo piano soprannaturale, Dio non «deve» in nessun modo offrire i suoi doni alla creatura 61.
Questa tesi è importante per rispondere a chi vuole omologare la creazione e la giustificazione come due tappe dello stesso amore divino,
giacché rimane la differenza fra il debitum delle perfezioni connaturali e la totale gratuità delle perfezioni soprannaturali.

3.4. È possibile lo statuto di natura pura?


La conclusione del paragrafo precedente ci porta naturalmente ad un’altra domanda, relativa questa volta al modo di essere della natura
umana. Nella fede, sappiamo che Dio chiama tutti gli uomini a vederlo 62: questa è la condizione storica dell’uomo, che deve scegliere fra la
beatitudine soprannaturale e l’inferno, senza finalità intermedia per gli adulti.
Sic rebus stantibus, il teologo può sollevare una domanda puramente teorica, che si enuncia così: Iddio avrebbe potuto «lasciare» l’uomo
nello statuto di pura natura, in puris naturalibus? Molti teologi contemporanei, fra cui il P. de Lubac, ritengono questa ipotesi una
costruzione inutile.
Per quanto riguarda S. Tommaso, occorre distinguere fra due domande. L’una concerne il momento della giustificazione originale in
Adamo. Secondo alcuni teologi medievali, Dio avrebbe primo creato Adamo in puris naturalibus, poi gli avrebbe infuso la grazia
santificante con i dono preternaturali. Di fronte a questa ipotesi, l’Aquinate stima più probabile che l’uomo sia stato creato in stato di
grazia63. L’altra domanda verte sulla possibilità dello statuto di natura pura come definitivo. S. Tommaso non dedica nessun articolo a questo
specifico problema, ma lo tratta incidentalmente, in particolare nel contesto del peccato originale. Ecco un primo testo relativo all’assenza
della visione beatifica:
dicendum, quod carentia divinæ visionis dupliciter competit alicui. Uno modo sic quod non habeat in se unde possit ad divinam visionem
pervenire, et sic carentia divinæ visionis competeret ei qui in solis naturalibus esset etiam absque peccato; sic enim carentia divinæ
visionis non est poena, sed defectus consequens omnem naturam creatam: quia nulla creatura ex suis naturalibus potest pervenire ad
visionem divinam. Alio modo potest alicui competere carentia divinæ visionis hoc modo ut habeat in se aliquid ex quo debeatur ei quod
careat visione divina; et sic carentia visionis divinæ est poena et originalis et actualis peccati 64.

Si afferma qui, perlomeno, il carattere pienamente naturale della non visione in chi non vi sarebbe stato chiamato da Dio 65: tale condizione
non sarebbe contradittoria in nessun modo. Ma c’è di più:
dicendum, quod iustitiam gratuitam Deus homini subtrahere potest salva sua iustitia, etiam sine peccato, quia gratis eam dedit ex sua
largitate supra modum naturæ: si tamen subtraheretur iustitia gratuita per modum prædictum, non ex hoc efficeretur malus, sed remaneret
bonus bonitate naturali. Iustitia vero naturalis consequitur naturam intellectualem et rationalem, cuius intellectus naturaliter ordinatur ad
verum, et voluntas ad bonum. Unde non potest esse quod talis iustitia subtrahatur a Deo rationali naturæ, ipsa natura manente; potest
tamen de potentia absoluta naturam rationalem in nihilum redigere, subtracto influxu essendi 66.

S. Tommaso non esita ad ammettere che Dio potrebbe togliere la giustizia soprannaturale che dà all’uomo, cioè la grazia santificante, le virtù
infuse e i doni dello Spirito Santo. In questo caso, l’uomo privo dei doni gratuiti non sarebbe in stato di peccato, ma in stato di bontà
naturale. Ora se Dio potrebbe (senza ingiustizia) riprendere ciò che da al di sopra delle facoltà naturali, è ovvio che potrebbe pure non dare
queste perfezioni. Dobbiamo concludere che, per S. Tommaso, lo statuto di natura è possibile sia da parte dell’uomo, sia da parte di Dio 67.

4. RICAPITOLAZIONE
Abbiamo sollevato in tutto dieci problemata, di cui conviene riassumere gli otto primi, che non abbiamo ancora risolti in modi
soddisfaciente:
[1] Il desiderio naturale di vedere Dio è incondizionato, in quanto scaturisce dalla creatura intellettiva come un proprio ( quod omni, soli
et semper), oppure è condizionato, in quanto presuppone o la rivelazione esterna, o addiritura una mozione interna della divina grazia?
[2] Il genere remoto del desiderio naturale di vedere Dio consiste nell’ordinazione innata, e quindi trascendentale, di una (o più) potenza,
oppure in un atto elicito, puntuale di una (o di più) potenza?
[3] Il genere prossimo, cioè il soggetto del desiderio naturale di vedere Dio, si trova nell’intelletto o nella volontà?
[4] La differenza specifica, cioè l’oggetto specificante del desiderio naturale di vedere Dio, consiste nell’essenza divina ut in se, oppure
nella prima causa incausata, oppure nella ratio formale di beatitudine?
[5] La proprietà di non frustrabilità del desiderio naturale di vedere Dio conclude alla possibilità della visione beatifica oppure alla
vocazione de facto a tale visione?

61 Nello stesso senso, cf. Sn 4, 17, 1, 2, sol. 3, c: «Formæ autem quæ immediate a Deo inducuntur, non habent necessitatem absolutam ex parte agentis, sed
quædam ex parte recipientis, sicut in perfectionibus quæ sunt de esse naturæ, ut est anima rationalis. Formæ autem quæ non debentur naturæ, sicut gratia, et
virtutes, immediate a Deo productæ, nihil habent de necessitate absoluta, sed solum de necessitate ex suppositione divini ordinis, ut dictum est».
62 Cf. I Tim. 2, 4: «il quale [Dio] vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità».
63 Cf. I, 95, 1, c, il cui argomento fondamentale è scritturistico: «Sed quod etiam fuerit [primus homo] conditus in gratia, ut alii dicunt, videtur requirere
ipsa rectitudo primi status, in qua Deus hominem fecti, secundum illud Eccle. [= Qoèlet] 7, 30: Deus fecit hominem rectum». I luoghi paralleli sono: Sn 2,
29, 2, c; 20, 2, 3, c; QDM 4, 2, 22m.
64 QDM 4, 1, 14m.
65 Stessa dottrina in Sn 2, 29, 1, 1, 4m: «dicendum, quod carentia divinæ visionis potest intelligi dupliciter. Vel negative, et sic non est poena, sed defectus
naturam creatam consequens; nulla enim natura creata ex se sufficiens est ad Dei visionem: et sic fuisset carentia divinæ visionis in homine ante peccatum,
si gratiam non habuisset. Alio modo potest sumi privative, ut intelligatur aliqua obnoxietas ad carendum Dei visione: et sic est poena peccati, et in primo
statu non fuisset».
66 QDM 16, 2, 17m.
67 Sulla stessa linea, anche se non tocca direttamente il fine soprannaturale, cf. Sn 2, 31, 2, 1, 3m: «dicendum, quod si aliquis divina virtute ex digito
formaretur, originale non haberet; haberet nihilominus omnes defectus quod habent qui in originali nscuntur, tamen sine ratione culpæ: quod sic patet.
Poterat Deus a principio quando hominem condidit, etiam alium hominem ex limo terræ formare, quem in conditione naturæ suæ relinqueret, ut scilicet
mortalis et passibilis esset, et pugnam concupiscentiæ ad rationem sentiens; in quo nihil humanæ naturæ derogaretur, quia hoc ex principiis naturæ
consequitur».
[6] Dal punto di vista della conoscibilità, il desiderio naturale di vedere Dio è accessibile alla ragione sola, o richiede invece o la
rivelazione esterna, o la mozione interna della divina grazia?
[7] Il fine ultimo della creatura intellettiva è unico e consiste soltanto nella visione beatifica, oppure è duplice, e vi è una vera e propria
beatitudine naturale?
[8] La potenzialità della creatura intellettiva verso la visione beatifica è naturale o obbedienziale?

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