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Giovanni Salmeri

Resurrezione dell’uomo, resurrezione di Cristo


Una lettura di Giovanni Duns Scoto

Filosofia e teologia, anno 23 (2009), n. 3, pp. 657-673.

1. “I miei occhi lo contempleranno”

L’interpretazione dei grandi maestri della Scolastica è spesso resa difficile da un


fondamentale problema di prospettiva. Benché il periodo nel quale operarono sia relativamente
breve e possa lecitamente apparire da molti punti di vista omogeneo, esso visse uno dei più gravi
travagli nella storia del pensiero cristiano riguardo proprio alla comprensione dello statuto
epistemologico della teologia. L’uso stesso termine “teologia” è tutt’altro che ovvio, gravido
com’è di un richiamo alla tradizione filosofica pagana che ancora al tempo di Abelardo doveva
apparire come una sospetta eredità; Tommaso d’Aquino, come noto, preferisce evitarlo,
ripiegando sul più tradizionale “sacra dottrina”; Enrico di Gand giunge ad osare il barbarismo
greco-latino “deologia” per alludere allo specifico del discorso cristiano, modellato sull’eredità
agostiniana. Al di sotto della questione terminologica, nel corso di pochi decenni perlomeno due
mutamenti di prassi didattica avevano segnato la pratica teologica: il primo, consistente nel
passaggio dalla Scrittura al Libro delle Sentenze di Pietro Lombardo come testo fondamentale di
studio; il secondo, l’affrancamento dallo stesso Libro delle Sentenze, che segna la presa di distanza
dalle autorità tradizionali (in primis Agostino) e l’inserimento della riflessione teologica in un
nuovo quadro epistemologico, dove la metafisica e l’etica di Aristotele giocano una parte di tutto
rilievo. Si tratta di due mutamenti che, benché in una certa misura inevitabilmente consecutivi,
possono essere visti ancora entrambi all’opera in tutti i grandi scolastici.
Basti questo cenno per avvertire quanta sia la cautela che bisogna adoperare qualora si
intenda precisare in Giovanni Duns Scoto la portata di un tema che ha il suo punto focale nella
lettura ed interpretazione della Scrittura. Scoto ha chiara la coscienza delle trasformazioni che il
discorso teologico ha subìto ai suoi tempi: il livello tecnico da lui raggiunto in questioni che
occupano decine di pagine è a volte scoraggiante anche per il lettore più paziente, ma egli
mantiene fermo il fatto che è solo la Sacra Scrittura il libro dove è contenuta la “sacra dottrina”, e
che il primo compito della “teologia” consiste nell’interpretarne e chiarirne il testo.<1>
Contemporaneamente, egli non intende come maestro di teologia percorrere un itinerario
completo nella dottrina, ma solo fermarsi sui punti più discussi, tra i quali rientrano certamente
quelli che mettono più in questione i sottili punti di snodo del discorso cristiano di fronte al
discorso filosofico puramente razionale. Interrogarsi sul senso della resurrezione nel suo pensiero
teologico significa quindi in parte osservare ciò che viene detto, in parte ricostruire il modo in cui
esso si connette a ciò che non viene detto, ma viene dato per noto e pacifico. Una prima
costatazione è facile: Scoto dà per noto non solo il testo biblico, ma anche l’esplicito articolo di
fede che afferma la resurrezione della carne:

Per ora [basti dire che] la conclusione è evidente in base alla verità della fede. Infatti questa verità è espressa
come articolo di fede sia dal Simbolo degli apostoli, sia dal Simbolo niceno: “E aspetto la resurrezione dei morti”, sia dal
Simbolo di Atanasio: “Tutti gli uomini dovranno risorgere nei loro corpi”. Ma tale verità si ha nel modo più esplicito
possibile anche in molti passi della Scrittura (come Gv.; Mt. 25; in Paolo 1Cor. 15; e in 2Macc. 12,44: “Se non avesse
sperato che i caduti sarebbero risorti [sarebbe parso superfluo e vano pregare per i morti]”) (IV,43,44).

Fermo restando questo, i problemi da discutere sono due: il primo, in che modo sia
possibile la resurrezione dei morti; il secondo, se la sua realtà sia conoscibile razionalmente, cioè
dimostrabile sulla base di una pura conoscenza naturale. Non è difficile intuire come entrambi
questi problemi, certamente sovrabbondanti rispetto all’atto di fede cristiano (e infatti incerti e
discutibili), riguardano però da vicino il compito della teologia. Ma lo riguardano solo nel senso
generico di una delimitazione dei campi della fede e della ragione, o in un senso più profondo che
tocca il chiarimento stesso della dinamica interna della fede? Per il momento lasciamo la
questione in sospeso.
Cominciamo invece ad esaminare rapidamente la risposta che Scoto dà alla prima
domanda, quella sulla possibilità della resurrezione. Interrogarsi sulla possibilità significa
evidentemente anzitutto eliminare gli eventuali ostacoli che la riflessione razionale potrebbe
porre all’atto di fede: si tratta infatti di mostrare che ciò che la fede crede non è contraddittorio e
impossibile. Scoto prende in considerazione due risposte: quella di Tommaso d’Aquino e quella di
Egidio Romano, ma è la discussione della prima quella di gran lunga più interessante. La posizione
del grande maestro domenicano viene riassunta così: se l’uomo non avesse che un’anima
sensitiva, destinata a dissolversi insieme con il corpo, sarebbe giustissimo ritenere la resurrezione
impossibile, perché ciò che è andato totalmente distrutto non può tornare numericamente
identico. Ma non è così nell’uomo, che possiede un’anima intellettuale immortale (cosa che per
Tommaso è inoltre conoscibile razionalmente): l’essere di questa anima non è diverso da quello
dell’uomo totale, anzi coincide con esso. La resurrezione è quindi possibile perché in nessun
momento si ha un’interruzione di essenza. Gli accenti che Scoto pone nel ragionamento di
Tommaso rendono immediatamente chiara quale sia la sua preoccupazione: non si tratta tanto di
dimostrare che non c’è nulla di metafisicamente impossibile nel fatto che un morto risorga (cosa
in fondo abbastanza facile), quanto di dimostrare che quel risorto è lo stesso che è morto, è
proprio lui. Si riconosce qui la preoccupazione tipica di Scoto per l’individualità degli esseri,
preoccupazione che gioca un ruolo non piccolo nel modo in cui egli interpreta la metafisica di
Aristotele riguardo all’annoso problema dell’individuazione; ma senza troppo sforzo si riconosce
anche lo sguardo del francescano che anzitutto ha imparato dal Vangelo che la preoccupazione di
Gesù risorto è non solo mostrarsi vivo, ma mostrarsi e farsi riconoscere come lo stesso di prima:
con i segni della passione, con i gesti della compagnia, con la sua parola.
C’è anche un altro indizio che suggerisce questa interpretazione. Abbiamo già visto come
secondo Scoto sono “molti” i passi “espliciti” della Scrittura che affermano la resurrezione. Negli
argomenti principali della questione (che sovente svolgono un ruolo di contorno) egli ne sceglie
solo due. Il primo di essi è l’affermazione di Giobbe: “So che nell’ultimo giorno risusciterò dalla
terra” (Gb. 19,25). Perché proprio essa? È uno dei numerosi casi in cui i passi addotti da Scoto
suppongono un lettore che sappia completarli conoscendo a memoria la Scrittura o altri celebri
testi patristici (sovente le citazioni sono addirittura sintatticamente incomplete). In questo caso,
così proseguono le parole di Giobbe: “e di nuovo sarò circondato dalla mia pelle, e con la mia
carne vedrò il mio Dio: sono proprio io che lo vedrò, e i miei occhi lo contempleranno, e non un
altro” (Gb. 19,25-27). Impossibile trovare in tutta la Scrittura una sottolineatura così forte e
concreta della continuità personale nella resurrezione!<2>

2. Resurrezione e onnipotenza

I problemi con la posizione di Tommaso da questo punto di vista sono tuttavia secondo
Scoto molti. Senza seguirli analiticamente, possiamo riassumerli così: Tommaso giungerebbe alla
conclusione giusta (quella della possibilità della resurrezione) grazie alla compensazione di due
errori: il primo è quello secondo cui l’essere dell’anima separata coincide con l’essere totale
dell’uomo; il secondo è quello secondo cui ciò che è in assoluto interrotto non può ritornare
identico. Il primo rappresenterebbe per così dire una scheggia di platonismo incompatibile con il
quadro antropologico aristotelico (un quadro che, giova notarlo, Scoto condivide
larghissimamente con Tommaso); tale residuo non riuscirebbe peraltro a spiegare come l’uomo
risorto possa ritornare identico anche nelle sue facoltà che sono affezioni contemporaneamente
spirituali e fisiche. Il secondo errore viene chiaramente confutato quando si osserva che la
potenza di Dio si estende in modo assolutamente identico sia alle cose mai state prima sia a quelle
prima state e ora non più in essere: il primo caso è evidentemente quello della creazione, il
secondo è appunto questo della resurrezione. Del resto, si vuole forse negare a Dio la possibilità di
risuscitare un animale, come invece l’agiografia talvolta riferisce? (Dal punto di vista di Tommaso,
non si tratterebbe ovviamente di un’impossibilità a causa di un limite di Dio, ma a causa di una
contraddittorietà della cosa stessa: ma è appunto questa che Scoto nega). Scoto percepisce la
propria opinione come del resto quella più in linea con la tradizione:

Contro quest’opinione, in primo luogo c’è il passo in cui Agostino parla della carne che sarà restituita
all’uomo nella resurrezione: “E se anche fosse andata in ogni modo perduta e non ne fosse rimasta alcuna materia nei
recessi della natura, tuttavia l’Onnipotente se volesse la ristabilirebbe” (De civitate Dei, XXII,20): dunque [anche] ciò
che è stato distrutto totalmente e dissolto nell’essere totale può essere ristabilito identico (IV, 43,11).

In termini più lapidari, Scoto riassume la sua soluzione alla questione così: “la possibilità
[della resurrezione] da parte di Dio deriva dalla sua onnipotenza” (IV,43,33). Come sovente
accade, si tratta di una conclusione che, dopo che sono stati esaminati con dovizia argomenti
razionali, sembra riportare il problema alla radicalità e semplicità della fede. È pure
comprensibile come siano questi e simili esiti che abbiano fatto guadagnare a Scoto la fama di
fideista. Nel caso in questione c’è un’ulteriore considerazione che sembra sostenere questa
valutazione: è noto che per Scoto l’onnipotenza divina non è oggetto di dimostrazione razionale,
ma piuttosto un articolo di fede, il che sarebbe attestato nientemeno che dal primo articolo del
Simbolo: “Credo in un solo Dio, Padre onnipotente” (I,42,7). Basta questo per concludere che per
Scoto la stessa possibilità della resurrezione è credibile ma non conoscibile? Probabilmente la stessa
domanda è mal posta.
Per comprendere con più esattezza la sua posizione, dobbiamo notare che affermare che
per Scoto “l’onnipotenza divina non è oggetto di dimostrazione razionale” è una sintesi
materialmente sì fedele, ma nei fatti fuorviante. Ciò che egli sostiene è piuttosto che quando “i
cattolici” parlano di onnipotenza di Dio intendono qualcosa di più di ciò che intendono i filosofi
(che, per distinguere, Scoto chiama “potenza infinita”). L’onnipotenza nel senso cristiano non è
infatti genericamente una potenza infinita esercitata sul cosmo, che può essere tranquillamente
riconosciuta anche al Dio di Aristotele, anzi pure a qualsiasi arché impersonale posta all’origine
ontologica del mondo; l’onnipotenza nel senso cristiano è quella di un Dio che può liberamente,
saltando tutta la catena delle cause seconde, intervenire sul singolo effetto (I,42,8-9). Si tratta
insomma dell’onnipotenza nel senso della provvidenza universale, nel senso della possibilità del
miracolo che viene incontro all’uomo, nel senso di quell’amorosa preoccupazione per cui l’uomo
sa che pure i suoi capelli sono contati e che la sua vita, la sua singola e individuale vita, conta più di
molti passeri e più di tutti i gigli del campo — ciò che Aristotele non credeva. Ancora una volta,
sembra naturale per capire la posizione di Scoto far riferimento alle parole del Vangelo (parole
che Leibniz non ometterà di citare nel suo Discours de métaphysique colmo di echi scotistici).
Aristotele dal suo punto di vista faceva bene a non crederlo: questa onnipotenza non può comparire
nell’orizzonte della razionalità umana, anzi razionalmente sembra molto più probabile il
contrario. Ciò ovviamente non significa che sia contraddittoria: anzi, come Scoto si preoccupa di
dire in un passo cruciale dell’Ordinatio, tutto ciò che la fede cristiana aggiunge alla conoscenza
razionale di Dio dice sempre una perfezione in più.<3>
Ritorniamo alla nostra questione: che la possibilità della resurrezione sia agganciata da
Scoto all’onnipotenza divina (nel senso “cattolico”) non sorprende, perché nella resurrezione è
appunto in gioco il rapporto di Dio con la singolarità dell’uomo, proprio ciò che sfugge invece ad
una potenza infinita alla maniera pagana. Ma ciò non significa che tale possibilità sia conoscibile
solo alla luce della fede: l’onnipotenza è infatti a sua volta razionalmente possibile. Però, abbiamo
visto, improbabile, non spontaneamente creduta, quindi di fatto storicamente saldata con
quell’esperienza che ha posto di fronte agli occhi un Dio che si preoccupa dei gigli, dei passeri, di
ogni uomo. Il tema della resurrezione non è insomma genericamente antropologico, ma
propriamente teologico.
3. Le premesse della resurrezione

È nella lunghissima seconda questione, dedicata alla conoscibilità naturale della


resurrezione, che il tema emerge con maggiore chiarezza. In un certo senso, anzi, risulta con la
chiarezza maggiore possibile: se la resurrezione addita infatti il fine ultimo dell’esistenza umana,
calibrarne il rapporto con la ragione significherà anche mettere a fuoco, almeno implicitamente,
la dimensione razionale dell’intera teologia e della dottrina cristiana che le sta alla base. Ma
andiamo con ordine ed esaminiamo anzitutto la struttura della questione. Come non raramente
accade in Scoto, qui gli argomenti principali hanno ben poco rapporto con lo svolgimento della
questione, che al suo interno segue un andamento autonomo e molto articolato. Vediamo
dapprima quest’ultimo. Con molta precisione, Scoto imposta il problema individuando gli unici
possibili luoghi di partenza di una tale dimostrazione: essi possono consistere solo in ciò che è
tipico dell’uomo e lo distingue dagli altri esseri mortali (l’ipotesi di una resurrezione universale di
tutti i viventi non viene neppure presa in considerazione): tale punto di partenza può essere
dunque o la forma specifica dell’uomo, oppure una sua operazione specifica (IV,43,51). Di fatto, la
seconda ipotesi riceve uno sviluppo molto limitato, e il grosso della discussione si ferma sulla
forma:

Nel primo modo, la tesi voluta si dimostra procedendo da tre proposizioni: se fossero tutte note tramite la
ragione naturale raggiungeremmo il nostro scopo. Le proposizioni sono queste: la prima, che “l’anima intellettiva è la
forma specifica dell’uomo”; la seconda, che “l’anima è indissolubile” (da queste segue che “la forma specifica
dell’uomo è indissolubile”); se ne aggiunge una terza, che “la forma specifica dell’uomo non rimarrà per sempre fuori
dal sinolo” (ne segue dunque che in un certo tempo esso ritornerà identico). Questo ritorno per una seconda volta
viene chiamato “resurrezione” secondo Giovanni Damasceno (De fide orthodoxa, IV,19): la resurrezione è “il risveglio di
ciò è dissolto” (IV,43,51).

Che ne è dunque di queste tre proposizioni? La prima, argomenta Scoto, è


esaurientemente confermata sia dalla ragione naturale, sia dalle autorità concordi dei filosofi. La
ragione mostra infatti con evidenza che nell’uomo vi sono numerosi atti di carattere spirituale,
non riconducibili ad una semplice azione corporea, perché superano tutte le determinazioni
tipiche della materia. Tale esperienza elementare non può essere propriamente dimostrata, però
colui che la nega può essere confutato (in un modo analogo a come Aristotele aveva
pioneristicamente difeso il principio di non contraddizione):

Se qualcuno insiste a negare che questi atti siano presenti nell’uomo o dice di non sperimentarli, non bisogna
discutere ulteriormente con lui, ma semplicemente dirgli che è un animale senza ragione, come neppure
bisognerebbe discutere con chi dicesse: “non vedo qui nessun colore”, ma solo dirgli: “tu manchi del senso [della
vista], perché sei cieco”. Analogamente con un certo senso, cioè percezione interiore, sperimentiamo che questi atti
sono in noi; dunque se uno li nega bisogna dirgli che non è uomo, perché non possiede quella visione interiore che gli
altri sperimentano di avere (IV,43,68).

Anche la testimonianza dei filosofi è secondo Scoto concorde, con l’unica eccezione di
Averroè, la cui teoria di un intelletto unico “congiunto” al singolo uomo viene giudicata una
fantasticheria che non ha alcun riscontro nell’esperienza umana. In ciò Scoto è perfettamente
d’accordo con Tommaso: “questa “congiunzione” né lui né alcun suo seguace finora è stato in
grado di spiegarla, né tramite questa congiunzione salvare il fatto che è l’uomo che comprende.
Infatti secondo lui l’uomo formalmente non è che un animale irrazionale eccellente” (IV,43,55).
I problemi iniziano con la seconda proposizione, quella che intende mostrare
l’incorruttibilità dell’anima razionale. Qui Scoto esprime le sue perplessità riguardo alle
dimostrazioni correnti: per un motivo o per l’altro, esse sono secondo lui tutte difettose. Ciò non
significa che non suggeriscano che l’anima dell’uomo è incorruttibile: semplicemente, non
riescono a dimostrarlo in maniera conclusiva. Tale incertezza viene testimoniata pure da
Aristotele: di lui certamente si possono addurre passi che sembrano affermare l’immortalità
dell’anima, ma accanto ad essi ve ne sono altri di tenore contrario. Dunque, conclude Scoto, “è
probabile che in questa conclusione fu sempre incerto, e talora si avvicinava di più ad una
soluzione, talaltra a quella opposta, a seconda che trattava una materia più consona all’una che
all’altra” (IV,43,87). Tale circostanza diventa anzi l’occasione per un’osservazione metodologica
più generale: non dobbiamo attenderci nei filosofi solo e sempre l’espressione di conclusioni
provate, ma a volte anche “probabilità”, “discorsi persuasivi”, addirittura “opinioni popolari”.

4. Che cosa desiderano gli uomini?

Una volta resa fragile la seconda delle premesse necessarie, è chiaro che l’intero discorso
perde di cogenza. È per questo che molto più brevemente Scoto può mostrare l’ancor maggiore
fragilità della terza premessa, sulla quale peraltro nessun filosofo dice nulla indipendentemente
dalla rivelazione. Argomentare che l’anima “si perfeziona” tramite la sua unione con il corpo è
gratuito, perché semmai avviene il contrario; né si può ritenere che la separazione dell’anima dal
corpo sia “violenta” (cioè contro natura e quindi temporanea) perché non c’è nulla di impossibile
nel fatto che la comunicazione di una perfezione rimanga per sempre sospesa. In altri termini,
una dimostrazione per essere cogente dovrebbe essere effettuata dalla parte del corpo che riceve
la sua perfezione dell’anima: ma questo è appunto impossibile, perché si tratta dell’elemento
deperibile, che accomuna l’uomo a tutti gli altri animali.
Tali lunghe argomentazioni, che qui abbiamo riassunto brevemente, forse sono quelle che
attirano di più l’attenzione: sia perché in esse emergono chiaramente quei tratti dello Scoto
“filosofo” che così spesso (e pericolosamente) piace isolare, sia perché vi si misura meglio la presa
di distanza da Tommaso, che viene esplicitamente preso in considerazione e del quale alla fine
viene confutata la pretesa di considerare la resurrezione della carne una verità di ragione.<4>
Ciononostante, non ci sembrano esse le più importanti. Più caratteristiche sono infatti quelle che
Scoto riserva per gli argomenti principali della questione, che sono su un registro molto diverso.
Esse si muovono infatti in quel piano propriamente antropologico che investe più direttamente il
discorso teologico: quello del desiderio umano e della sua esperienza di fragilità in questa vita.
Non è esperienza assolutamente naturale il desiderio di vivere sempre, quello che ci fa fuggire la
morte con orrore? non lo è a pari titolo il desiderio di una beatitudine perpetua, che una morte
irrimediabile verrebbe a smentire crudelmente? come non riconoscere che i limiti e le sofferenze
di questa vita, in fin dei conti ineliminabili, postulano naturalmente una vita futura in cui ogni
lacrima sia asciugata e la vita umana raggiunga la sua perfezione? Queste argomentazioni in
ultima analisi si basano tutte sul principio secondo cui nessun desiderio naturale può esistere
invano. Un loro punto cruciale è costituito anche da un ragionamento agostiniano che Scoto
riferisce con precisione sunteggiandolo un poco:

La vita stessa abbandona colui che muore, se beata; dunque essa abbandona o uno che non vuole [...], o uno
che vuole, o né l’uno né l’altro. Se uno che non vuole, in che modo può essere beata una vita che si trova tanto nella
volontà da non essere anche in proprio potere? [...] Se invece uno che vuole, in che modo era beata quella vita che
colui che l’aveva non voleva? [...] Se dici che egli né l’uno né l’altro [...], né vuole né rifiuta [...], neppure è beata questa
vita se è indegna dell’amore di colui che rende beato (De Trinitate, XIII,8, cit. in IV,43,44).

Questo passo rappresenta uno dei pochi ma significativi casi in cui Scoto si oppone
direttamente ad Agostino, ciò che in generale ben raramente i maestri medievali fanno. L’idea che
questi esprime, con la sua tipica eleganza, è molto chiara: una vita veramente beata non può
finire. Se finisse infatti o col dolore che la perdita ne provocherebbe manifesterebbe
un’irrimediabile estraneità che è incompatibile con la beatitudine, oppure con l’indifferenza o
l’accettazione con la quale fosse accolta tradirebbe la sua incapacità di attrarre a sé il desiderio
dell’uomo. Per Scoto tale suggestivo ragionamento è in realtà infondato. La possibilità di perdere
la vita volendolo, egli argomenta, sarà perfettamente accettata da colui che ritiene che la
condizione dell’uomo è la mortalità: costui seguendo la retta ragione desidererà la vita nei limiti
in cui è conveniente desiderarla (IV,43,131). E, come è stato prima dimostrato, la ragione non
interdice affatto (sebbene neppure prescriva) di essere dell’opinione che l’uomo è mortale non
solo nel corpo, ma anche nell’anima. Va certamente ammirata la concisione e precisione con la
quale Scoto ricostruisce così (senza nominarla) uno dei tratti essenziali dell’etica stoica, che
dell’accettazione della propria mortalità e nella conseguente possibilità di ottenere una felicità
limitata sì, ma realissima, faceva uno dei punti di forza. Perfettamente concordante con tale
prospettiva è un’altra cruciale osservazione, che Scoto fa invece nel corpo della questione.
Qualcuno (ragiona Scoto) potrebbe argomentare l’immortalità dell’anima sulla base del fatto che,
anche secondo Aristotele, un uomo coraggioso si espone alla morte per il bene della patria: ma
quale senso avrebbe farlo se non si credesse in una vita futura? (IV,43,82). Pure in questo caso
Scoto ritiene la conclusione difettosa: il principio secondo cui il bene comune va amato più del
proprio bene privato è razionalmente assolutamente cogente, indipendentemente dalla credenza
nell’immortalità dell’anima.<5> Insomma, tanto nel caso dello stoicismo (non nominato) quanto
nel caso dell’aristotelismo, Scoto osserva che non c’è nulla che proibisca di concepire e vivere
autenticamente una vita umana finita.
Su questo sfondo è più facile comprendere la critica che Scoto rivolge a tutti gli argomenti
fondati sul “desiderio naturale”. Egli non è affatto mosso dal gusto corrosivo di chi gode nello
scoprire i difetti logici altrui: in primo luogo c’è la realtà di uomini che hanno mostrato e che
continuano a mostrare come sia possibile una coerenza nella vita anche al di fuori della speranza
della fede cristiana, o di una fede simile. È questa realtà che motiva Scoto a trovare il
fondamentale passo falso di chi sulla base di un “desiderio naturale” intende dimostrare la realtà
del desiderato: senza accorgersene, egli sta ragionando in maniera circolare, perché un desiderio
si può definire “naturale” solo quando già se ne conosce la realizzabilità: proprio ciò che si
vorrebbe dimostrare. Con le sue parole:

O si argomenta esclusivamente del desiderio naturale propriamente detto, e questo non è un atto eseguito,
ma solo l’inclinazione naturale verso qualcosa; e allora va da sé che non si può provare che il desiderio verso qualcosa
è naturale se prima non si prova la possibilità nella natura rispetto a quel qualcosa, e di conseguenza se si argomenta
inversamente si fa una petizione di principio; oppure si argomenta del desiderio naturale in senso meno proprio, che
cioè è un atto eseguito ma concordemente all’inclinazione naturale, e allora di nuovo non si può provare che un
qualche desiderio eseguito sia naturale in questo senso se prima non si prova che riguardo a quella stessa cosa vi sia
un desiderio naturale nel primo senso (IV,43,121).

Bisogna poi aggiungere, continua Scoto, che il desiderio dell’immortalità sotto la forma di
fuga della morte dimostra ancor meno, comune com’è a tutti gli esseri viventi e legato a
quell’altra forma di immortalità della quale parla pacificamente anche Aristotele: l’immortalità
tramite il susseguirsi delle generazioni (IV,43,125-126). È importante notare che con questo Scoto
non intende affatto dimostrare che il desiderio di una vita eterna non sia “naturale”. Esso è sì
naturale, anzi naturalissimo, teso com’è a quanto costituisce nel senso più profondo il destino di
felicità dell’uomo. Il fatto è solo che la naturalità di questo desiderio è conosciuta in conseguenza
della parola di Dio, e non come premessa, perlomeno non come una premessa dimostrabile e
cogente. Come Scoto efficacemente si esprime: desiderare la beatitudine eterna è naturale, ma
l’uomo non può conoscere naturalmente che questo desiderio è naturale (IV,43,128), perché non
c’è nulla in questa vita che dimostri fuori di ogni dubbio né che l’anima sia immortale, né tanto
meno che l’unità spirituale e corporea dell’uomo sia destinata a ricostituirsi.

5. Al cuore della fede cristiana

È questo il motivo fondamentale che permette di collocare la questione della resurrezione


al cuore del discorso teologico di Scoto. Esso in tal modo va infatti a ricongiungersi nientemeno
con la stessa natura della dottrina cristiana e del discorso teologico su di esso. Sono proprio le
prime celebri pagine dell’Ordinatio che pongono il problema interrogandosi sulla “necessità” di
una dottrina rivelata (non della teologia, che è altra cosa).<6> La risposta positiva di Scoto,
estremamente cauta e differenziata, ha uno dei suoi punti qualificanti nella necessità per l’uomo
di conoscere il suo fine, che è la visione e amore eterno di Dio: ciò che nessun filosofo è stato in
grado di dimostrare con certezza (I,pr.,16-19). Ma, anche ammesso che tale fine fosse conoscibile,
certamente non lo sono alcune circostanze di esso:

Comunque almeno questo è certo: che alcune condizioni del fine, che lo rendono più desiderabile e degno di
essere cercato più appassionatamente, non possono essere conosciute in maniera determinata con la ragione
naturale. Anche se infatti si ammettesse che la ragione basti a provare che la visione diretta e il godimento di Dio è il
fine dell’uomo, tuttavia non si concluderebbe che queste cose spettano in maniera perpetua all’uomo completo,
anima e corpo, come si dirà più tardi (IV,43). E tuttavia la perpetuità di tale bene è una condizione che rende questo
fine più desiderabile che se fosse transitorio: conseguire infatti questo bene in una natura completa è più desiderabile
che in un’anima separata, come risulta grazie ad Agostino: [“è insito nell’anima un certo desiderio di governare il
corpo, desiderio che la frena in qualche modo dal tendere con tutta sé stessa verso quel sommo cielo finché non le sia
sottomesso il corpo, governando il quale si realizzi tale desiderio”] (De Genesi ad litteram, XII,35,68). Dunque è
necessario conoscere queste e simili condizioni del fine per ricercarlo efficacemente, e tuttavia la ragione naturale
non è sufficiente per esse: dunque è richiesta una dottrina trasmessa in maniera soprannaturale (I,pr.,20-21).

Il richiamo a quanto verrà detto “più tardi” è ovviamente alle pagine che abbiamo prima
considerato sulla resurrezione, pagine tanto importanti che per Scoto concorrono all’intima
definizione della fede cristiana, e dunque della teologia. Vi concorrono non perché la
resurrezione coroni il dare-avere della morale cristiana, ma perché parla di un fine che è
destinato all’uomo: e l’uomo è fatto di corpo e anima. Bisogna sorprendersene? Da un lato no: si
tratta di ciò che è più logico, bello, intimamente naturale. Da un lato sì: perché appunto nessuna
forza della ragione è in grado di dimostrarlo. È questa una delle dinamiche ricorrenti nel discorso
di Scoto, che sembra allo scopo distinguere tra rationalitas e rationabilitas: la prima è quella delle
dimostrazioni cogenti, la seconda è quella che, senza potersi fondare su queste, riconosce tuttavia
a posteriori la perfetta consonanza della fede cristiana con la realtà umana, una consonanza così
grande che per Scoto può essere addotta come “prova” della verità del cristianesimo (I,pr.,156-
158). Nella confutazione della rationalitas della resurrezione Scoto può del resto riconciliarsi con
Agostino, il quale in uno dei suoi passi che un poco echeggiano lo scetticismo accademico può
riconoscere:

Se la natura umana manchi di essa [vita eterna], non è una domanda di poco conto. In realtà coloro che con
argomenti umani tentarono di capirlo, a stento pochi, dotati di grande ingegno, con molto tempo a disposizione,
istruiti con sottilissime dottrine, poterono giungere ad indagare l’immortalità della sola anima (De Trinitate, XIII,9, cit.
in IV,43,48)

Tale connessione con il cuore della fede cristiana non è però l’unico motivo che rende
propriamente teologico il discorso sulla resurrezione. Ve n’è almeno un secondo, più nascosto ma
non meno importante. Abbiamo prima citato il ruolo cruciale svolto dal passo del libro di Giobbe
tra le autorità probanti la realtà della resurrezione. Vi è un secondo brano che Scoto accosta:
“Tutti risorgeremo (1Cor. 15,51)” (IV,43,6). Anche qui si tratta di una citazione letterale, che però
riassume una pagina interamente dedicata al tema della resurrezione. In essa il tema della
resurrezione degli uomini è intimamente connesso a quello della resurrezione di Cristo, tant’è
vero che se volessimo trovare il versetto che più esplicitamente esprime la verità cui si allude
dovremmo citare: “Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo” (1Cor.
15,22). Perché proprio questa allusione, in una questione dove la resurrezione di Cristo non è
esplicitamente affatto citata? La ricerca di una soluzione non è facilissima. In tutta l’Ordinatio non
esiste una trattazione del tema della resurrezione di Cristo, come del resto mancava nel modello
costituito dalle Sentenze di Pietro Lombardo.
La citazione del medesimo passo della Lettera ai Corinzi compare in un altro contesto, che
però pare essere di ben poco aiuto, anzi sembra creare difficoltà. Scoto se ne serve nel momento
in cui, nel contesto della discussione della virtù teologale della fede, discute contestualmente
della natura della teologia e considera l’ipotesi che la stessa Scrittura, fonte della teologia, abbia
una forma argomentativa, in cui la verità di una proposizione dipende dalla verità di altre. Ora,
proprio tali passi sembrerebbero sostenere quest’ipotesi, perché in essi le due risurrezioni (di
Cristo e degli uomini) vengono connesse logicamente. Scoto tuttavia non ritiene che questo basti
a sostenere la conclusione epistemologica voluta:

Rispondo che un “argomento” riguarda una cosa che fa fede di un’altra che altrimenti era dubbia, dunque
nell’argomento propriamente detto si crede e si assente alla conclusione a causa dell’argomento e della sua evidenza.
Ma se Paolo avesse soltanto detto: “i morti risorgeranno”, lo avrei altrettanto creduto, e dunque quella conclusione
non ha adesso una maggiore solidità di quanto l’avrebbe avuta se egli l’avesse semplicemente raccontata. Similmente,
come credo alla conclusione o alla deduzione, così anche alla premessa, e viceversa; come infatti credo che i morti
risorgeranno, così credo che Cristo è risorto, perché non abbiamo nessuna certezza riguardo alla resurrezione di
Cristo se non in base alla testimonianza di altri, come risulta da Paolo che nel testo sopra citato dice: “Se Cristo non è
risorto [...] allora risulta che noi siamo falsi testimoni” (1Cor. 15,14-15), e dunque tutta la certezza che si ha riguardo
alla resurrezione di Cristo e dei morti è solo una certezza di fede, e non superiore (III,24,60).

Si intende dire con questo che si tratta di due verità senza alcun nesso? La conclusione
sarebbe illecita, perché il discorso qui sviluppato è appunto epistemologico: ci s’interroga sui
motivi della fede. Qualche riga dopo Scoto ammette pacificamente che “una cosa può essere
conseguenza di un’altra”: ma non è per il fatto che sono connesse che l’uomo vi crede, ma
piuttosto perché sono tutte ispirate da Dio.<7> È fin dalle prime pagine del Prologo del resto che
Scoto ha chiamato per nome quegli argomenti che non possono essere considerati in assoluto
“dimostrativi” perché muovono da premesse di fede, ma sono pur formalmente corretti:
persuasiones. Il termine è comparso diverse volte anche nella questione dedicata alla resurrezione
per indicare tutte le argomentazioni valide sì a loro modo, ma non cogenti. Ma con ciò appunto il
problema resta aperto: qual è il rapporto intimo tra destino dell’uomo e resurrezione di Cristo?

6. Quant’è la gratitudine

Questo ci sembra il caso in cui è necessario fare un passo che (salvo nostra svista) non si
trova esplicitamente nel testo di Scoto, ma che la logica del suo discorso rende facile. È necessario
cioè ricordarsi di una delle dottrine più tipiche di Scoto: la predestinazione di Cristo. Con essa si
afferma che nell’ordine naturale il Verbo incarnato, capace di ricambiare perfettamente l’amore
divino, è stato voluto prima dell’intera creazione. La tesi viene sviluppata in connessione con il
suo articolato e garbato rifiuto della teoria della redenzione di Anselmo, giudicata difettosa non
solo perché si illude di dimostrare la “necessità” dell’ordine della salvezza effettivamente
avvenuto (di fatto producendo solo paralogismi), ma anche perché lega l’umanità di Cristo ad uno
scopo redentivo che è puramente contingente, cioè dipendente dal libero peccato dell’uomo. Si
tratta certamente di una tesi che pare avere dalla sua (come aveva per esempio argomentato
Tommaso) diverse testimonianze scritturistiche, ma che non riesce a rendere verosimile il fatto
che l’opera suprema di Dio, Cristo, avrebbe un carattere solo occasionale. Più radicalmente: se
Cristo incarnato dipendesse dall’esistenza di uomini in grado di peccare (e attualmente peccatori)
bisognerebbe ammettere che Dio ha predestinato alla gloria prima gli altri uomini che Cristo
stesso! Nelle parole di Scoto:

L’incarnazione di Cristo non fu prevista come occasionata [da qualcosa di contingente], ma dall’eternità era
vista immediatamente da Dio come un fine: quindi Cristo nella natura umana, essendo più vicino al fine, era
predestinato prima di tutti gli altri (intendendo quelli che erano predestinati). Dunque questo fu l’ordine nella
previsione divina: in primo luogo Dio comprese sé stesso sotto il carattere del sommo bene; in secondo luogo
comprese tutte le altre creature [incluso Cristo incarnato]; in terzo luogo, predestinò alla gloria e alla grazia (e
riguardo agli altri ebbe un atto [solo] negativo, cioè non predestinò); in quarto luogo previde che [gli uomini]
sarebbero caduti in Adamo; in quinto luogo, preordinò ovvero previde il rimedio, come cioè essi sarebbero stati
redenti grazie alla passione del Figlio. In tal modo il Cristo nella carne, come anche tutti gli eletti, era previsto e
predestinato alla grazia e alla gloria prima che fosse prevista la passione di Cristo quale medicina contro la caduta,
così come un medico vuole la salute dell’uomo prima di prescrivere un medicamento per curare (III,19,19).

Ora, è proprio questo il nesso che cercavamo, forse difficile da trovare per quanto esso è
stretto. Più esattamente: non vi è un “nesso” tra resurrezione di Cristo e resurrezione degli
uomini perché esse sono la stessa cosa, frutto di un identico atto di predestinazione alla grazia e
alla gloria. Certo, l’una è già avvenuta (e dunque può essere narrata e creduta), e ciò giustifica il
fatto che si deduca la nostra resurrezione dalla sua: ma questa è una sequenza che ricostruisce un
ordine della conoscenza, non dell’essere. È forse solo qui che si tocca il motivo radicale per cui per
Scoto la realtà della resurrezione non può essere dimostrata. Essa non è infatti comprensibile
come l’esito di un desiderio interno alla creatura, ma come la realizzazione di un libero atto di Dio
verso la creatura: e tutti gli atti di Dio ad extra sono contingenti, quindi mai conoscibili tramite la
ricostruzione di una necessità logica.<8> Ma questa contingenza è quella che si rende visibile nella
storia, e nella storia mostra la sua bellezza: vedere Cristo risorto significa esattamente vedere
come Dio ama l’uomo dall’eternità, come tutto ciò che è umano (ivi incluse le sue fragilità e
sofferenze, le sue piaghe!) sia incluso in questo amore divino, come i desidèri sulla cui sensatezza
la ragione può continuamente avanzare dubbi siano veri ancor più di quanto gli uomini possano
sperare. In una parola, vedere Cristo risorto significa diventare certi che ha un senso ultimo la
parola “uomo”, altrimenti destinata ad essere l’etichetta incerta di un essere, come voleva
Aristotele, capace sì di morire per qualcosa ma nell’aporia sul suo destino, o, come ha voluto il
Novecento, “destinato a scomparire come un viso tracciato sulla sabbia”.
Questo ci sembra l’intreccio che doveva venire alla mente di frate Giovanni quando sul
Vangelo leggeva le pagine delle apparizioni del risorto — qualcosa che purtroppo possiamo solo
ricostruire e indovinare. Ad aiutarci e confermarci vi sono però le parole che, come spesso in lui,
concludono la discussione sulla resurrezione:

Da queste considerazioni risulta evidente quanta sia la gratitudine che dobbiamo rivolgere al Creatore, che
tramite la fede ci ha resi certissimi in tutto ciò che riguarda il fine della nostra vita e l’eternità infinita, argomenti dei
quali uomini dotati della più grande intelligenza e cultura non poterono raggiungere quasi nulla; come dice Agostino
in quel passo citato, “a stento pochi, [dotati di grande ingegno, con molto tempo a disposizione, istruiti con
sottilissime dottrine, poterono giungere ad indagare l’immortalità della sola anima]” (De Trinitate, XIII,9). Ma se la
fede assiste, quella che si trova in coloro a cui ha concesso di diventare figli di Dio, non c’è nessuna questione, perché
lui stesso ha reso in ciò certissimi coloro che credono in lui (IV,43,135).

Sono parole in cui si rende chiaro che portare alla luce la libertà indeducibile dei gesti di
Dio non significa sminuire la ragione, ma solo aumentare la gratitudine, in uno sguardo che
improvvisamente, dopo un raffinato tour de force logico-antropologico, reincontra, mai prima
ascoltato, come quello di un contemporaneo il suono della voce di Gesù.

Note

1. Riguardo al primo aspetto, basti notare come nella seconda questione del prologo dell’Ordinatio, “Se la conoscenza
soprannaturale necessaria all’uomo in questo stato terreno sia trasmessa in modo sufficiente nella Sacra Scrittura”,
vengono sistematicamente ripresi i temi enunciati nella prima, “Se sia necessario che all’uomo in questo stato
terreno sia ispirata una qualche dottrina in modo soprannaturale”. Riguardo al secondo, le più illuminanti non sono
le pagine del prologo, bensì quelle dedicate alla fede in III,24: “Se degli oggetti di fede rivelati qualcuno possa avere
contemporaneamente scienza e fede”. È qui che Scoto definisce (sia pure in modo leggermente implicito) l’abito
teologico come quello di chi sa “interpretare la Scrittura, spiegare le deduzioni e risolvere le obiezioni” (III,24,62).
Avvertiamo che per le opere di Scoto, dovendo scegliere tra metodi di citazione tutti per un motivo o l’altro difettosi
(il difetto della splendida Edizione Vaticana consistente ovviamente nel fatto che non è ancora terminata), scegliamo
d’indicare l’Ordinatio con libro, distinzione e paragrafo secondo la numerazione dell’Opera omnia. Editio minor (a cura di
Giovanni Lauriola, AGA, Alberobello 1998-2000). Nei casi in cui l’Ordinatio autentica è lacunosa il riferimento
s’intenda, secondo la prassi della tradizione manoscritta e dell’edizione Wadding, ai supplementi desunti e rielaborati
dalla Lectura. Il testo è stato però controllato sul ms. Assisi 137.

2. In questo caso la conoscenza a memoria era senza dubbio facilitata dall’uso liturgico del testo, presente nel
mattutino dell’Ufficio dei defunti. Questa circostanza oggettivamente ridimensiona anche il significato della scelta
del testo da parte di Scoto (tra l’altro, pure Tommaso e Bonaventura lo citano nello stesso contesto, laddove Pietro
Lombardo preferiva usare Isaia 26,19: “Risorgeranno i morti e risorgeranno coloro che erano nei sepolcri”). Ma
rimane pur sempre vero che tale passo, per ammissione dello stesso Scoto, è solo uno tra i tanti possibili.

3. L’affermazione si trova nel contesto della dimostrazione della sufficienza della Sacra Scrittura: “A proposito degli
oggetti di fede è evidente che di Dio non crediamo nulla che implichi una qualche imperfezione; al contrario, se
crediamo che qualcosa è vero, esso attesta più del suo opposto la perfezione divina. Ciò risulta nella Trinità delle
persone, nell’incarnazione del Verbo, e simili. Infatti non crediamo nulla di incredibile, perché altrimenti sarebbe
incredibile che il mondo le creda, come deduce Agostino (De civitate Dei, XXII,5); ma non è incredibile che il mondo le
creda, perché vediamo proprio questo” (I,pr.,158). Espressioni come queste (che nel passo immediatamente
precedente sono applicate al tema ancor più delicato della morale come “svolgimento” della legge naturale)
smentiscono senza incertezza l’impressione che in Scoto la conoscenza rivelata si aggiunga arbitrariamente a quella
razionale; non possono tuttavia essere utilizzate per omologare la sua posizione a quella di Tommaso laddove tra i
due vi sia dissidio sulla conoscibilità razionale di un contenuto: riconoscerne a posteriori una logica e una “bellezza”
è infatti cosa molto diversa dal dimostrarne a priori la necessità. Il caso della resurrezione, come vedremo, è in questo
senso tipico.

4. Il che però abbastanza curiosamente egli fa nel quarto libro della Summa contra Gentiles, quello dedicato alle verità
di fede, solo dopo aver esposto le prove specificamente teologiche: “Per mostrare che avverrà la resurrezione della
carne si fornisce anche una ragione evidente, una volta ammesso ciò che è stato prima mostrato” (IV,79). I motivi
addotti qui da Tommaso sono tre: la separazione dell’anima dal corpo è contro natura, dunque non può essere
perpetua; il desiderio naturale della felicità richiede la ricostituzione dell’uomo completo; il premio per la virtù e la
punizione per il vizio (richiesti razionalmente) devono avvenire sia nell’anima sia nel corpo. Nello Scriptum super
Sententiis Tommaso aveva esposto (seppure più estesamente) solo il secondo di questi argomenti (IV,43,1,1), ripreso
pressoché alla lettera nel Supplementum della Summa (75,1); gli argomenti teologici svolgono invece solo la funzione
estrinseca di sed contra. Nel Compendium theologiae si ritrovano le prime due ragioni, con la seconda tuttavia sdoppiata
in due varianti (II,151). Le argomentazioni sviluppate da Tommaso nella Super I Epistolam B. Pauli ad Corinthios lectura
(15,2) dipendono direttamente dal testo commentato e sono quindi meno significative per il punto in questione. La
Summa contra Gentiles appare dunque il testo che più di ogni altro testimonia un certo slittamento teologico della
questione.

5. È questa una spiegazione che Scoto, come risulta dalla discussione che altrove fa sulla virtù della carità (III,27,42-
44), ritiene di gran lunga più solida di quella addotta da Aristotele stesso, secondo cui si ottiene per sé un bene più
grande con un singolo atto di virtù piuttosto che con una lunga vita mediocre. In questo Scoto appare allineato con
Enrico di Gand, che risolve la questione in modo simile in Quodlibeta, XII,13. Il problema, attorno al quale Scoto
avverte esserci un “acceso dibattito” (IV,43,105), svolge un ruolo cruciale nella sua concezione dell’etica: amare vuol
dire in ultima analisi essere pronti a dare la vita.

6. Un’interpretazione del senso di queste prime pagine è al di fuori dello scopo di questo breve studio e richiederebbe
una ricostruzione sufficientemente accurata del contesto storico in cui Scoto ambienta il contrasto tra teologi e
filosofi. Ci contentiamo qui di un rapido cenno. Che tali pagine risentano (come giustamente viene spesso notato)
della condanna dell’aristotelismo del 1277 da parte del vescovo Tempier è verissimo; è invece in gran parte
un’illusione ottica ritenere che tali pagine ripetano le movenze di quella condanna. Esse al contrario sono sulla scìa
proprio del contrasto che nel 1277 viene condannato: cioè quello tra una conoscenza perfetta (la teologia) e una
imperfetta (la filosofia), che di necessità giungono ad esiti differenti (ciò che poteva essere frainteso, o parodiato,
come “doppia verità”). È questo il motivo per il quale in Scoto la “controversia” non sfocia in una condanna della
filosofia (né tanto meno della teologia), ma al contrario (e paradossalmente) in una nobilitazione di entrambe.
Discuteremo più ampiamente tale punto cruciale in una prossima pubblicazione.

7. La Super I Epistolam B. Pauli ad Corinthios lectura, già citata (nt. 4), offre un’eloquente testimonianza di come il tema
fosse percepito come problematico. La prima ipotesi che Tommaso prende in considerazione commentando questi
versetti è addirittura che Paolo abbia commesso un errore logico deducendo la resurrezione degli uomini da quella di
Cristo: le sue parole sembrano infatti a prima vista delineare un argomento a fortiori, che nel caso presente tuttavia
non è valido (Cristo per resuscitare ha motivi ben più forti dell’uomo!). Tommaso conclude che la resurrezione di
Cristo gioca in questo ragionamento il ruolo di causa al contempo efficiente ed esemplare, vedendosi costretto
tuttavia dalle obiezioni in proposito a delimitare in vari modi tale casualità: essa sarebbe strumentale (giacché la
causa principale è la divinità, non l’umanità), s’identificherebbe in fin dei conti con l’incarnazione, sarebbe in ogni
caso subordinata all’ordinazione divina (giacché in assenza dell’incarnazione Dio poteva disporre un’altra causa per
la resurrezione dell’uomo), e così via. È senza dubbio il segno di un notevole imbarazzo nel pensare la qualità
propriamente teologica della resurrezione, imbarazzo che ci rende più attenti alla lettura di Scoto.

8. È questo il vero tema dell’importantissima questione che con sobrietà si chiede “se Dio solo sia immutabile”
(I,8,285), ma dove in realtà Scoto fa i conti forse nella maniera più diretta con la posizione dei “filosofi”. Stabilito
rapidamente l’accordo sul fatto che Dio sia immutabile, il problema risiede infatti nello stabilire se solo lui sia tale: “La
parte negativa di quella proposizione esclusiva, che cioè nulla di diverso da lui ha l’immutabilità, comporta una
maggiore difficoltà: infatti al suo riguardo i teologi discordano dai filosofi e viceversa” (I,8,303). La discussione che
segue è non solo tra i punti più caratteristici di Scoto, ma anche tra quelli più alti, non per ultimo per l’onestà con la
quale egli si accinge ad interpretare i filosofi per eccellenza, cioè Aristotele e Avicenna: “Mi rifiuto di attribuire loro
cose più assurde di quelle che dicono o di quelle che conseguono necessariamente dalle loro parole, e da esse voglio
ricavare il significato più ragionevole di cui sono capace” (I,8,323). Benché Scoto conduca le controragioni in favore
della causazione contingente di Dio nel modo più stringente possibile, alla fine egli ammette che esse non verrebbero
riconosciute cogenti dai filosofi: come se fondassero la loro persuasività in un’esperienza che in fin dei conti non è
quella della ricerca razionale.

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