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mercoledì 19 ottobre 2022

Malattie del sistema immune

Lezione 1
Programma del corso
Una buona parte del programma verterà sulle immunodeficienze
Le immunodeficienze le divideremo in primitive e secondarie.
Tra le primitive, affronteremo: le immunodeficienze severe combinate (patologie in cui il primo attore
che viene a mancare sono i linfociti T), le malattie da deficit anticorpale e complemento, le
immunodeficienze da deficit di funzione granulocitaria e (per la prima volta: nuovo argomento) le
nuove scoperte di patologie primitive del sistema immune che per grossa parte si manifestano in età
adulta (di cui si conosceva molto poco fino a pochissimi anni fa).
Parleremo soprattutto di immunodeficienze secondarie, cioè quelle acquisite dopo la nascita. Tra
queste, per eccellenza, ci sarà l’AIDS (immunodeficienza da HIV), l’immunodeficienza da farmaci (ci
focalizzeremo sugli steroidi), la splenectomia (come stato di immunodeficienza), l’immunodeficienza
da patologie neoplastiche e il trapianto di cellule staminali (con il rischio di GVHD, malattia del
sistema immune). Il trapianto sarà molto utile, perché rappresenta per eccellenza lo stato di
immunodeficienza acquisita più grave T, B e in parte anche granulocitaria.
Dallo scorso anno, nel programma, sono stati inseriti dei principi di immunoterapia delle patologie
neoplastiche autoimmuni. Parleremo di “Checkpoint inhibitors” (farmaci che bloccano i meccanismi
fisiologici di inibizione della risposta immune, quindi facilitano la risposta immune). Sono diventati dei
farmaci molto importanti dal punto di vista oncoematologico. Faremo poi cenni di immunoterapia
cellulare (ci sono cellule che possono essere prese dal paziente, lavorate e poi restituire come arma
biologica contro patologie oncoematologiche. Le più famose oggi sono le Car-T).
Parleremo poi di malattie da ipersensibilità.
Ci darà le basi per la patogenesi immunologica e quadri clinici delle principali malattie autoimmuni
organo-specifiche, senza entrare nel dettaglio in ciascuna di esse. Ci dirà perché si generano queste
malattie. Dovremo invece entrare nel dettaglio delle citopenie autoimmuni, della neutropenia
autoimmune e della anemia aplastica (difetto midollare dovuto a reattività autoimmune).
La malattie vasculitiche da immunicomplessi verranno toccate, ma ci concentreremo particolarmente
sulla Schonlein-Henoch. Stessa cosa per le crioglobulinemie (importanti).
Parleremo infine un po’ di vaccini.

IL PAZIENTE IMMUNOCOMPROMESSO
Bisogna considerare lo stato di immunocompromissione del paziente nella valutazione clinica di
qualunque patologia dalla quale esso sia affetto.
Il paziente immunocompromesso è estremamente comune.
Il paziente immunocompromesso è quel paziente che non ha la capacità di rispondere
normalmente ad un evento infettivo perché ha un sistema immunitario alterato, danneggiato o
indebolito.
Ci sono moltissimi attori della risposta immune di cui si deve parlare. Si hanno innanzitutto
popolazioni cellulari (che derivano dalla staminale emopoietica midollare) sia linfoidi che non. Tra le
cellule in questione avremo i granulociti, con funzione fagocitica, monociti/macrofagi, i quali svolgono
un ruolo importante non solo nella risposta infiammatoria ma anche nella presentazione dell’antigene
(sono APC) e infine i linfociti (B, T, cellule NK).

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Accanto alle cellule sono da considerare anche aspetti meccanici, siano essi barriere fisiche, come la
cute, le mucose, la congiuntiva, o anche sistemi meccanici di rimozione (dell’agente infettivo), come
le lacrime, la tosse, lo starnuto, la peristalsi intestinale, il flusso urinario, la desquamazione delle
cellule. C’è poi la flora microbica intestinale, cutanea, vaginale. Quest’ultima compete con alcuni
agenti infettivi e ci difende da essi (può però diventare essa stessa causa di malattia: disbiosi).
Ci sono poi anche agenti chimici con proprietà batteriostatiche/battericide, come gli acidi gastrici, i sali
biliari, l’acido lattico, gli acidi grassi, il lisozima (saliva, muco, lacrime), α-1-antitripsina, proteina c-
reattiva, interferoni.
Il paziente diventa immunocompromesso qualora venisse meno uno (o più) di questi elementi
di difesa.
Quindi ne deduciamo che un esempio di paziente immunocompromesso è il paziente con catetere
urinario, più suscettibile a infezioni da parte di certe microrganismi patogeni. È un paziente questo
che ha perso il flusso urinario normale. O ancora, un altro esempio è il tracheostomizzato. È possibile
anche che si tratti di un paziente con patologie respiratorie o gastrointestinali che determinano stasi e
ostruzione. Un paziente immunocompromesso è anche il paziente chirurgico. Nel momento in cui si
apre la cute si supera una barriera. La stessa situazione ce l’abbiamo anche se si supera la barriera
della mucosa intestinale (ad esempio). Se ho un’ostruzione intestinale con ristagno fecale, questo
genera le condizioni per favorire le infezioni: qui c’è una immunocompromissione da un punto di vista
della capacità di difesa del sistema.
Come si presenta il paziente immunocompromesso?
L’immunocompromesso presenta un più elevato rischio di contrarre infezioni. Tutte le infezioni? No,
dipende da qual è l’elemento che determina l’immunocompromissione.
In pazienti con uno stato immunitario alterato avremo, come sintomi, la febbre (che però non è
sempre presente —> l’immunocompromissione può essere talmente grave da non permettere che si
instauri una risposta infiammatoria), alterazioni dei parametri vitali (4: FC, T corporea, Pa, SpO2),
disfunzione d’organo.
Dobbiamo poi considerare le infezioni opportunistiche. I patogeni opportunistici sono diversi:
- Batteri: P. aeruginosa, E. coli, Enterococcus spp, K. pneuomoniae, C. difficilis …
- Miceti: lieviti e muffe
- Virus: Herpes virus (CMV, EBV, VZV, HHV6, …)
È chiaro che a seconda del difetto che avrà il paziente, avremo il rischio di contrarre una certa
infezione. Ad esempio, se è assente il complemento, rischieremo infezioni da patogeni capsulati.
Senza complemento avremo un rischio più alto di contrarre una polmonite da Streptococcus
pneumoniae (assenza C3), un’infezione da Haemophilus influenzae (assenza C3), una meningite da
Neisseria meningitidis (deficit C5,6,7,8).
Quando c’è difetto di fagociti, aumenta soprattutto il rischio di infezioni batteriche e fungine:
Stafilococcus, Enterobacteriaceae, Klebsiella, Candida, Aspergillus.
Quando il difetto riguarda i linfociti B (dunque anche gli anticorpi), avremo sempre infezioni da
patogeni capsulati (S. pneuomiae, H. influenzae, N. meningitidis), ma anche da parassiti intestinali
(es: Giardia lamblia che dà giardiasi).
Quando viene a mancare l’immunità cellulo-mediata (mancano i linfociti T), avremo un rischio virale,
batterico, fungino e protozoario aumentato. Ci sono diversi esempi:
- Virus: CMV, HSV-1 e -2, VZV
- Batteri: Listeria, Legionella, Mycobacteria, Salmonella
- Funghi: Cryptococcus neoformans, Histoplasma, Coccidioides, Pneumocystis jirovecii,
- Protozoi: Toxoplasma gondii
(Sono alcuni esempi, ma ce ne sono anche altri)
Come facciamo diagnosi di uno stato di immunocompromissione?

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Fondamentale è l’anamnesi: familiare, farmacologica, patologica. È un elemento chiave per poter
approcciare ad un paziente immunocompromesso. E allora dovremo chiedere la storia infettiva e
l’utilizzo di farmaci. I farmaci sono molto importanti da tenere a mente. Questo perché gran parte della
patologia oggi è iatrogena. Il 95% (forse 98%) di ciò che il professore vede in un paziente trapiantato
è iatrogeno.
Dopo l’anamnesi avremo i test di laboratorio. Prima di tutto c’è l’emocromo. Ci sono elementi che ci
possono far sospettare subito di uno stato di immunocompromissione. Ad esempio: una formula
invertita e/o una leucopenia (neutropenia, linfopenia). Poi ci sono esami, che sono già di secondo
livello, ma che in realtà sono molto semplici da fare, come l’elettroforesi delle proteine. È un esame
molto banale, che molti medici di medicina generale inseriscono nella loro routine, ma che pochissime
persone sanno leggere. L’elettroforesi delle proteine ci dice quali proteine ci sono nel plasma e ci dice
se c’è un difetto o meno di gruppi di proteine, che poi dovremo indagare.
Poi c’è un esame (più specifico dell’ematologo/immunologo) che è l’immunofenotipo delle popolazioni
linfoidi. Andremo a vedere eventuali deficit di linfociti T, B, cellule NK oppure un’inversione del
rapporto CD4/CD8 … (importante per l’esame sapere la formula leucocitaria)
Infine si può fare il dosaggio delle proteine del complemento.
Chiaramente accanto a questi test, ci saranno test specifici per il disordine sottostante (disordini
metabolici, infezioni, insufficienza renale, tumori ematologici … ). Sulla base delle condizioni cliniche
con cui si presenta il paziente, andremo a fare analisi per il singolo organo.
Ci sono dei range di normalità che dobbiamo tenere bene a mente quando andiamo a fare una
valutazione delle componenti cellulari del sistema immunitario:
- Cellule B: 0.3 x 10^9/L di sangue (o 300/mm^3)
- Cellule T: totali = 1-2.5 x 10^9/L - CD4 = 0.5-1.6 x 10^9/L - CD8 = 0.3-0.9 x 10^9/L (rapporto CD4/
CD8 = 1.8-2 : 1)
- Fagociti: monociti = 0.15-0.6 x 10^9/L - neutrofili = 3-5.5 x 10^9/L - eosinofili = 0.05-0.25 x 10^9/L
(non devono essere > 500/mm^3) - basofili = 0.02 x 10^9/L
Si possono fare anche misurazioni delle funzioni in vivo. I linfociti B producono anticorpi, per cui
potremo andare a testare anche i livelli di Ig sieriche, i livelli di anticorpi specifici. Per i T si possono
fare dei test cutanei. Ci sono anche dei test in vitro, più difficili per valutare la funzione. Si possono
valutare i B andando a valutare l’indotta produzione anticorpale, in risposta al mitogeno da pokeweed.
Per i T andiamo a valutare la proliferazione delle cellule T, in risposta alla fitoemoagglutinina o ad
anatossina tetanica. Per i fagociti non si fa il test in vivo, ma si può fare quello in vitro: si valuta la
fagocitosi, l’assorbimento di nitro-blu di tetrazolo, l’uccisione intracellulare dei batteri.
Valori normali delle Ig (in totale dovrebbero essere tra 600 e 2300):
IgA = 90/400 mg/dl
IgG = 800/1800 mg/dl
IgM = 60/280 mg/dl
IgD = 0.3/0.4 mg/dl
IgE = 20/440 mg/dl

Immunofenotipo di membrana
Si può fare questo test per andare a conoscere le sottopopolazioni di leucociti.
CD4 è una molecola di superficie con una funzione. Distingue una popolazione di linfociti T (CD4+) da
un’altra popolazione di linfociti T (CD8+), che hanno un’altra funzione.
(Vecchie) Esiste una macchina, inventata negli anni ’70, che utilizza dei lettori e sfrutta le proprietà di
certi Ab a cui abbiamo attaccato delle molecole fluorescenti. La molecola fluorescente può essere
riconosciuta dalla macchina. Questi Ab marcati vengono messi insieme ai globuli bianchi, in questo
caso, del paziente. Gli anticorpi verranno riconosciuti a loro volta da molecole espresse dalle singole

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cellule. Ogni cellula esprime la sua molecola. I granulociti neutrofili avranno diverse molecole di
superficie rispetto ai linfociti B, T o alle cellule NK. Per cui l’Ab riconosce questa molecola, legherà il
leucocita e la macchina leggerà questo legame come fluorescenza emessa dalla molecola legata
all’anticorpo. In questo modo la macchina ci informa rispetto alla presenza di un certo tipo di cellula.
(Nuove) Noi prendiamo il sangue del paziente e lo facciamo passare attraverso la macchina
(citofluorimetro). Questa macchina ci permette, tramite laser che emettono varie frequenze, di
conoscere le dimensioni e la granularità di queste cellule. Più è piccola la cellula più starà a sinistra,
più è grande e più starà a destra. In ascissa, per convenzione, abbiamo le dimensioni (FSC: Forward
Scatter; le dimensioni sono delle FSC), in ordinata la granularità (SSC: Side Scatter; la presenza di
granuli viene misurata dal SSC). Per quel che riguarda la granularità, vedremo che i linfociti B sono
omogenei (e sono piccoli). Per cui staranno a sinistra e in basso. I monociti sono un po’ più grandi e
con il nucleo reniforme. Si troveranno un po’ più a destra e in alto (non sono così disomogenei). I
neutrofili sono grandi, come i monociti, ma sono pieni di granuli. Si troveranno quindi sulla destra ed
in alto.
Così si fanno le formule leucocitarie. Lo fa la macchina.
Questa cosa si può arricchire un po’. Con la citofluorimetria si può fare altro. Come abbiamo detto ci
sono dei laser che emettono certe frequenze. Se ci mettiamo delle sostanze che emettono luce,
sbattendo contro il laser danno deviazioni dei raggi che possono essere “detected” dal computer.
Quello che a noi interessa è che è possibile marcare Ab specifici, ad esempio per CD4 o CD8, con
dei fluorocromi (molecole che emettono luce), i quali, passando attraverso il tubicino, una cellula per
volta, sbattendo con il laser, permetterà una distinzione del fluorocromo A dal fluorocromo B. E se il
fluorocromo A lo avevamo messo contro il CD4 e il fluorocromo B contro il CD8, potremo vedere quali
cellule esprimono CD4 e quali cellule esprimono CD8. E come lo vediamo? Con diagrammi che
abbiamo visto prima. Facciamo finta che la A sia CD4 e la B sia CD8, basta che con il computer metta
CD8 nelle ascisse e CD4 nelle ordinate e otterrò cellule CD8+ e CD4-, cellule CD4+ e CD8- e
popolazioni CD4- e CD8- o CD4+ e CD8+.
Esempio: se ho un’infezione virale, avrò una linfocitosi reattiva. Se è un herpes virus, avremo un
aumento di CD8+. Per questo vedremo un’inversione del rapporto CD4/CD8. Sappiamo che
normalmente sono di più i CD4. In questo caso non sarà così. Questo ci aiuta quindi a capire come
risponde il sistema immunitario.
Infezione in corso di neutropenia: i neutrofili mangiano i batteri. Senza neutrofili il rischio di infezione
batterica è maggiore. L’infezione batterica è tipicamente veloce.
Come si gestisce il paziente immunocompromesso?
Il paziente immunocompromesso ha un incremento del rischio di mortalità soprattutto legato a
infezioni da parte di patogeni opportunistici. Quindi, l’approccio al paziente è più aggressivo. È più
aggressivo perché utilizzeremo terapie antibatteriche, antivirali, antifungine precocemente, al primo
vero sospetto.
Dobbiamo prendere in considerazione (chiaramente non sempre) l’utilizzo di profilassi, qualora ci
aspettassimo un’immunocompromissione nel paziente, ad esempio, per una terapia che facciamo.
Esempio: facciamo un trapianto di midollo. Si farà la profilassi antivirale, antifungina, antibatterica.
Chiaramente il livello di aggressività clinica con il trattamento varierà a seconda delle condizioni che
determinano l’immunocompromissione. È chiaro che un soggetto a cui ho somministrato steroidi non
è paragonabile al paziente che ha appena subito un trapianto di midollo osseo. L’approccio è
personalizzato ed è fondamentale l’esperienza del medico.
La gestione del paziente immunocompromesso passa dal monitoraggio di infezioni opportunistiche.
Davanti al paziente immunocompromesso, faremo dei test in più: test radiologici e di laboratorio che
possono riguardare patogeni opportunistici (tampone virale, oculare, nasale, test sul sangue per
vedere la riattivazione virale, TC al torace … ).
Ci sono poi delle procedure di protezione che noi usiamo. Ci sono stanze singole a pressione positiva
(l’aria va da dentro a fuori). Per il paziente è come stare in una cappa. Tutto ciò che è dentro risulta
incontaminato, perché tutto ciò che è contaminato viene portato fuori. Chiaramente nel momento in
cui il medico entra nella stanza dovrà munirsi di guanti, maschera, … Ci sono tutti dispositivi di questo
tipo.

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LE IMMUNODEFICIENZE
Le immunodeficienze le distinguiamo in immunodeficienze primitive e secondarie.
Le immunodeficienze primitive sono quelle determinate da difetti congeniti che danneggiano il
sistema immunitario. Le secondarie sono dovute invece a fattori acquisiti che hanno un impatto
negativo sul sistema immunitario.
Le malattie da immunodeficienza primitiva sono:
1) SCID: immunodeficienza severa combinata
2) Immunodeficienza da linfociti T pura (deficit dell’immunità cellulare)
3) Immunodeficienza da deficit anticorpale (deficit dell’immunità umorale)
4) Deficit miscellanei: deficit del complemento, deficit di neutrofili (come la malattia granulomatosa
cronica)
Quello che ci interessa sapere è che, se l’immunodeficienza primitiva riguarda l’immunità cellulare,
questa ha delle caratteristiche peculiari:
- Inizia subito dopo la nascita
- Difficoltà nella crescita e nello sviluppo: legato al rischio infettivo precoce
- Iniziano subito ad avere infezioni da patogeni opportunisti (virus (soprattutto), funghi, micobatteri,
protozoi)
- Spesso presentano candidiasi intrattabili (è ingestibile perché la candida è un commensale, ma non
c’è capacità cellulare di gestire l’infezione), diarrea e malassorbimento
Se invece il deficit congenito è dell’immunità umorale:
- Non si manifesta nei primi 6 mesi di vita: spesso si presenta anche dopo 1 anno, 1 anno e mezzo o
addirittura 2. Questo perché le IgG materne superano la barriera placentare e quindi, se la mamma
è immunocompetente, il bambino per questo periodo di tempo sarà protetto.
- Si manifesta più frequentemente con infezioni respiratorie ricorrenti (bronchiti, broncopolmoniti)
- Possono avere gravi infezioni soprattutto da batteri capsulati: avranno meningite o sepsi da
Neisseria meningitidis, Haemophilus influenzae, Streptococcus pneumoniae, Stafilococcus
- Possono avere anche infezioni da Giardia lamblia (giardiasi: diarrea)
- Se l’infezione viene superata la crescita e lo sviluppo possono risultare normali. I difetti umorali
possono essere diagnosticati tardivamente.
Queste caratteristiche sono importanti nella diagnosi differenziale al momento dell’analisi di un caso
clinico.

Gli anticorpi hanno principalmente la funzione di opsonizzare le cellule, quindi per lo più batteri,
cosicché possano poi essere fagocitati ed in seguito distrutti. Pertanto, un deficit dell’immunità
umorale predispone prevalentemente ad infezioni batteriche, che sono le più ricorrenti, ma
anche quelle che preoccupano meno perché sono le infezioni che normalmente il neonato può
contrarre: bronchite, tosse, cistite, otite, ecc.
Invece, le infezioni batteriche più pesanti, che possono suggerire un deficit immunitario di questo tipo,
sono le meningiti: in questo caso bisogna immediatamente eseguire una puntura lombare ed iniziare
una terapia antibiotica ad ampio spettro i.v. prima ancora di conoscere il risultato dell’analisi del liquor.
Dopodiché la terapia va adattata in base all’agente eziologico e alla sua suscettibilità agli antibiotici. I
principali batteri che possono dare meningite sono Neisseria, Streptococcus pneumoniae e
Haemophilus influenzae (per pneumococco ed Haemophilus infatti c’è la vaccinazione, ma in realtà
anche per Neisseria).

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Ovviamente, in questi soggetti con un’alterazione dell’immunità umorale compariranno poi anche
infezioni virali e parassitarie. In particolare, i parassiti che più frequentemente infettano i bambini, ma
anche gli adulti, sono gli ossiuri (i classici vermi, come l’Enterobius vermicularis). Il ciclo vitale di
questi parassiti prevede che, durante la notte, le femmine si portino a livello della zona perianale per
deporre le uova. La diagnosi di infezione da ossiuri si ottiene applicando uno scotch sulla cute
perianale al mattino e poi osservandolo al microscopio per la ricerca delle uova (Scotch-test). Il
bambino lamenterà prurito perianale, che nel neonato si manifesterà con movimenti continui,
insonnia, alitosi, dimagrimento, cistite. Quando si presenta un paziente con eosinofilia, i primi due
quadri che dobbiamo sospettare sono allergia e parassitosi intestinale.
Al contrario, un deficit dell’immunità cellulo-mediata predispone ad infezioni virali e da patogeni
intracellulari come batteri intracellulari o miceti, le quali sono contrastate da linfociti T helper e
citotossici che uccidono direttamente la cellula infettata. Siccome stiamo parlando di ID primitive
(congenite), facciamo riferimento a bambini e neonati, poiché quelle più gravi si manifestano entro il
primo anno di vita.
A tal proposito, tra i funghi annoveriamo sicuramente la Candida, che si estrinseca con mughetto
(infezione da Candida a livello del cavo orale, di colore biancastro e spesso a livello delle guance
interne) resistente, il quale può evolvere addirittura in esofagite da candida (che si esplica con
rigurgito, dolore e mancata deglutizione), tipica anche dei soggetti affetti da HIV o che sono sottoposti
ad una terapia steroidea (cortisone) per lungo tempo (es. in un paziente con artrite reumatoide). Se ci
si presenta un paziente con esofagite da candida, andiamo per prima cosa a ricercare una
leucopenia e ad analizzare la formula leucocitaria per vedere se sono diminuiti i neutrofili o i
linfociti: questo ci dà una “misura” dell’immunità cellulo-mediata.
Per identificare i vari linfociti, ci avvaliamo dell’analisi citofluorimetrica delle sottopopolazioni
linfocitarie (tipizzazione linfocitaria). Inoltre, è importante dosare gli anticorpi tramite l’elettroforesi
delle proteine: un picco gamma del 12% è leggermente diminuito, ma comunque nella norma. Poi si
fa il dosaggio delle immunoglobuline, IgG, IgA e IgM, perché, ad esempio, ci può essere un deficit di
IgM, le quali tuttavia sono talmente poche che nel dosaggio complessivo possono non essere
evidenti. Anche un deficit di IgA può passare inosservato all’elettroforesi proteica, poiché magari quel
12% è costituito da IgG e IgM.
Approccio diagnostico all’ID:
1. Anamnesi (generale, familiare, personale remota e prossima, farmacologica)
2. Emocromo, con formula leucocitaria e tipizzazione linfocitaria
3. Elettroforesi delle proteine
4. Dosaggio delle classi anticorpali (IgG, IgA, IgM)
In una ID cellulo-mediata (stiamo parlando sempre del neonato), sicuramente potremo incorrere in
un’infezione da CMV, che in questo caso non dà una banale influenza, bensì linfoadenomegalie
diffuse o addirittura condizioni simil- leucemia, ma anche da EBV, il quale provoca una mononucleosi
molto sintomatica.
La principale complicanza di una mononucleosi è la rottura di milza, conseguente ad una
splenomegalia e ad un trauma (rischio nel bambino piccolo che gioca e si fa male): in questo caso si
procede con splenectomia, la quale comporta un aumento delle piastrine, ma soprattutto un quadro di
ID acquisita. Le cause più frequenti che portano alla rottura della milza (che poi approfondiremo
parlando della milza) sono: trauma, piastrinopenia autoimmune ed anemia emolitica autoimmune (nei
casi di autoimmunità oggi la splenectomia è meno frequente perché ci sono farmaci più efficienti),
tumori della milza (es linfomi primitivi della milza) ed asportazione durante un intervento chirurgico di
altro tipo (perché al chirurgo dà fastidio la presenza della milza per lavorare; stesso principio di
quando si rimuove il timo in un’operazione di cardiochirurgia infantile). Questo paziente avrà un deficit
immunitario serio, tanto che potrà andare incontro ad infezioni da germi capsulati, poiché è proprio
nella milza che vengono distrutti i batteri opsonizzati, grazie ad un fitto sistema reticolo-endoteliale di
macrofagi. Un’infezione da pneumococco, ad esempio, potrà determinare una polmonite o addirittura
una meningite nel soggetto splenectomizzato. È per questo motivo che i soggetti splenectomizzati
devono essere necessariamente vaccinati per germi capsulati (Streptococcus pneumoniae, Neisseria
meningitidis, Haemophilus influenzae) e devono sempre portare con sé l’antibiotico in caso di
eventuali infezioni.

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L’immunodeficienza è una condizione che spesso viene individuata, in un primo momento, dal
medico di base, ma che poi deve essere accertata dallo specialista.
Anamnesi
Un elemento che ci consente di sospettare una ID è sicuramente una storia di infezioni ricorrenti,
soprattutto cistiti (es. più di 5 all’anno), infezioni da batteri piogeni (deficit anticorpali, del
complemento o fagocitari) oppure infezioni virali ricorrenti (deficit linfociti T).
Ci si deve poi informare riguardo la storia familiare, l’età di insorgenza, l’ambiente di vita e il sesso,
poiché ci sono delle malattie legate ai cromosomi sessuali, come la agammaglobulinemia di Bruton
(X-linked), che comporta una mancanza totale di maturazione dei linfociti B con assenza di anticorpi.
Nel caso in cui questi dati ci consentano di sospettare un’ID, procederemo con i test di cui sopra:
emocromo, elettroforesi proteica, dosaggio delle IgG, IgA e IgM e tipizzazione linfocitaria.
Esame obiettivo
È di fondamentale importanza. È necessario far spogliare completamente il paziente e palpare tutte le
stazioni linfonodali superficiali. Queste nei bambini sono tutte apprezzabili alla palpazione, poiché il
soggetto inizia ad incontrare gli antigeni esterni, ma i linfonodi rimangono comunque piccoli (0,5 cm),
mobili e di consistenza elastica. Se non sono apprezzabili è anomalo, quindi possiamo ipotizzare una
sindrome di Di George (o una SCID), così come, se sono molto grossi, si può pensare ad una
infezione.
È fondamentale conoscere tutte le stazioni linfonodali superficiali:
• Pre-auricolari
• Retro-auricolari
• Sotto-mandibolari
• Sotto-mentonieri
• Latero-cervicali
• Retro-nucali (molto ingrossati ad esempio in caso di rosolia)
• Sopra-claveari: se ingrossati sono sempre patologici.
Se sono duro-lignei bisogna ipotizzare una metastasi secondaria, mentre se sono duro-elastici
vanno comunque asportati per effettuare una diagnosi, che può essere di linfoma (Hodgkin o non-
Hodgkin), di TBC o di sarcoidosi, in genere.
• Ascellari
• Inguinali: normalmente sono apprezzabili nel bambino, ma anche nell’adulto, e devono essere
mobili, con un diametro di massimo 1 cm circa.
Ciò si deve nell’adulto ai rapporti sessuali, ma nel bambino al fatto che questi linfonodi drenano la
linfa proveniente dagli arti inferiori e spesso i bambini si procurano lievi ferite alle gambe.
• Poplitei
Inoltre bisogna ispezionare i genitali ricercando ad esempio la presenza dei condilomi dovuti ad una
infezione da papillomavirus che nel soggetto immunodepresso è molto evidente. In un bambino poi, è
opportuno valutare la crescita e lo sviluppo, compresi gli organi sessuali, poiché ci sono delle
anomalie fisiche che si associano ad alcune forme di ID: un esempio è la sindrome di De George,
cioè un’atrofia timica legata ad un’alterata maturazione del 3° e 4° arco branchiale, che si associa a
rash cutaneo, teleangectasie e facies tipica con ipertelorismo, mancato sviluppo della mandibola,
naso piccolo, basso impianto delle orecchie. Un aspetto importante da considerare è che, se il
soggetto è stato vaccinato, la risposta al vaccino è un ottimo indice di come funziona il suo sistema
immunitario e la si valuta ricercando il titolo anticorpale: se, infatti, c’è un deficit dell’immunità cellulare
od umorale, il titolo anticorpale stimolato dalla vaccinazione sarà basso o comunque inappropriato.

(Commenti al grafico a torta)


Circa il 50% delle immunodeficienze primitive è dovuto a 3 patologie:

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- Deficit di IgA isolato
- Deficit delle sottoclassi di IgG
- CVID (Immunodeficienza Comune Variabile)
Si tratta di tutte immunodeficienze primitive umorali, che
tipicamente si diagnosticano in adolescenza, nel giovane
adulto e in alcuni casi nell’anziano.
Si vede poi (nel grafico a torta) una miscellanea di tante
sindromi. È importante però dare peso al triangolino nero,
molto ridotto in area, che rappresenta la SCID. La SCID è
stata fondamentale per capire come funziona l’immunità
cellulo-mediata. Inoltre è risultato un pilastro fondamentale
per l’elaborazione di metodiche di cura.

Se avviene una mutazione a carico di geni con funzioni importanti per lo sviluppo della cellula
staminale emopoietica a serie mieloide o linfoide, è chiaro che avremo patologie con il completo
difetto di quella serie. Se invece l’evento mutazionale riguarda geni che intervengono in fasi più
tardive del differenziamento (es: a livello del linfocita B maturo —> possiamo avere, esempio,
sindrome da iper-IgM), significa che non avremo un difetto specifico. Dipende quindi da quanto a
monte del processo si verifica la mutazione e soprattutto dalla funzione che quel gene ha ai fini del
processo emopoietico.
I difetti genetici possono avvenire a vari livelli della cascata. Più precocemente avviene questa
mutazione, più ampio sarà lo spettro di interesse del difetto. Se il mio difetto, ad esempio, avvenisse
nella maturazione da cellula staminale a CLP (progenitore comune linfoide), non avrò alcun linfocita
funzionante. Ci sono alcune mutazioni che hanno un impatto diverso. In questi casi si parla di difetti
che riguardano un’immunità più selettiva. Vediamone alcuni esempi:
- Mancanza della Btk: agammaglobulinemia legata all’X; non c’è nessuna cellula B e questo
determina un aumento della suscettibilità a infezioni batteriche da batteri extracellulari e di certi
enterovirus (si manifestano 6 mesi dopo la nascita, minimo)
- Assenza del CD40L: sindrome da iper-IgM legata all’X; viene a mancare lo switch isotipico e
questo comporta una più alta suscettibilità a infezioni da parte di batteri extracellulari, P. jirovecii,
Cryptosporidium parvum (si hanno infezioni da parte di opportunisti che vivono in noi e che hanno
bisogno di una memoria, che non c’è, per essere tenuti sotto controllo).

SCID (Immunodeficienza Severa Combinata)


Si parla di immunodeficienza combinata, dal momento che, sebbene questa sia caratterizzata
primariamente da una alterazione della funzione T, quest’ultima poi, inevitabilmente, si ripercuoterà
anche sulla funzione B (i B necessitano dei Th).
È una condizione che insorge subito dopo la nascita ed è così grave, che il neonato deve essere
immediatamente inserito in una camera sterile. È questo un bambino che, essendo deficitario di
immunità cellulare e umorale, avrà un altissimo rischio di contrarre infezioni, infezioni che poi non
potrà combattere.
È importante sottolineare che esistono diversi tipi di SCID.
La più frequente, quella che si manifesta nel 50-60% dei casi, è quella dovuta a mutazioni del gene
che codifica per la catena γ del recettore per IL-2 (forma legata all’X). Questo recettore in realtà non è
solo per IL-2, è comune anche ad altre interleuchine, quali IL-4, IL-7, IL-9, IL-15. In questo caso la
mutazione fa sì che si abbia una interferenza con il segnale di sopravvivenza dei progenitori T.
Questo perché l’IL-2 stimola la proliferazione delle sottoclassi di linfociti T (meccanismo autocrino di
funzionamento). In più dobbiamo ricordare che il recettore è condiviso anche da altre citochine
importanti nella risposta immune.
In questa forma avremo totale assenza di cellule T (T-).

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Un’altra forma è quella legata a mutazioni del gene che codifica per ADA, adenosina deaminasi, che
causa l’inattivazione o distruzione dell’omonimo enzima. Questa mutazione è trasmessa in modalità
AR. L’inattività di questo enzima comporta un accumulo di substrati enzimatici tossici (nello specifico:
adenosina) per il linfocita, portando quindi al mancato sviluppo linfocitario. In questa condizione non
saranno presenti né B né T (T-, B-).
Altro tipo ancora è quello che vede una mutazione a carico del gene che codifica per la PNP, Purina
Nucleotide Fosforilasi. Anche questa si trasmette in modalità AR, ma è più rara delle altre due.
L’enzima PNP catalizza la tappa successiva a quella dell’enzima ADA. Anche in questo caso avremo
un accumulo tossico di metaboliti all’interno dei linfociti, per cui non avremo né linfociti B né linfociti T
(T-, B-).
Queste due forme (ADA e PNP) sono quindi le forme tossiche delle SCID. Il fenotipo clinico è simile
nei due casi.
La conseguenza di questo deficit di immunità cellulare si traduce in una incapacità del soggetto di
rispondere a infezioni da parte di molti microrganismi diversi, con prevalenza di infezioni
opportunistiche. L’immunodeficienza, in mancanza di un opportuno intervento, porta a morte i pazienti
entro il primo anno di vita.
L’incidenza generale (di tutte le forme considerate nel loro insieme) è di 1:100.000. È piuttosto rara.
Sono forme caratterizzate da difetti cromosomici, genetici, enzimatici. In comune hanno un basso
numero di linfociti T maturi. I B non sono per forza in numero normale/alto. Il tutto dipende dal difetto
genetico che sta alla base. In alcuni casi, come abbiamo visto, anche i linfociti B sono del tutto
assenti. In altri casi ci sono, ma essi sono comunque disfunzionanti, perché manca l’interazione con i
TCD4+. Ricordiamo che per l’assunzione della memoria è fondamentale l’interazione B-Th. Il concetto
è che la cellula staminale linfoide può andare incontro, a seconda dell’environment in cui avviene, a
maturazione B o T. Il difetto di ADA avviene proprio a livello della trasformazione della staminale in B
o T, per cui non avremo né l’una né l’altra tipologia di linfociti.
Come abbiamo già detto, il bambino, se non trattato, muore nell’arco di 1-2 anni per infezioni da
patogeni opportunisti. Normalmente l’infezione che più frequentemente causa la morte del bambino è
quella virale. Questo succede perché innanzitutto i virus sono talmente ubiquitari che isolare i bambini
da questi risulta molto difficile. Inoltre, anche da un punto di vista farmacologico, le possibilità
terapeutiche sono molto più ridotte. L’infezione virale normalmente la combatte il sistema immune.
La forma più grave di SCID è la SCID con ipoplasia emopoietica generalizzata. In questo caso si ha
un deficit della serie cellulare linfoide e mieloide per un difetto differenziativo della staminale
multipotente. Avremo quindi la totale assenza di immunità specifica e naturale. In un soggetto affetto
da questa patologia, vengono a mancare un po’ tutte le cellule della filiera linfo-emopoietica. È una
sorta di aplasia midollare. Ne consegue un deficit sia dell’immunità naturale che specifica, perché
mancano anche neutrofili e cellule NK.
Topo SCID
(N) Per capire la SCID, sono stati presi i geni mutati e sono stati fatti dei topi knockout per questi geni.
Si è venuto a creare un topo SCID: modello animale di immunodeficienza di tipo SCID. La
generazione di questi topi SCID si è rivelata estremamente utile per la ricerca scientifica. Infatti, il
topo SCID, è un topo che può ricevere tutto e non rigettare nulla. Su questi topi possiamo far
attecchire perfino una emopoiesi umana. E ancora, è stato possibile far attecchire leucemie umane
per poi provare farmaci in vivo per quelle leucemie. Grazie a questi topi è stato possibile sviluppare
target therapy.
(V) Il topo SCID si è originato da una mutazione spontanea in un ceppo inbred. Sono assenti sia i
linfociti T che i B, per un blocco precoce nella maturazione dai precursori midollari. Il difetto consiste
in una alterazione della DNA-PKCS (proteina chinasi DNA-dipendente), una proteina coinvolta nel
processo di riparazione delle rotture del doppio filamento di DNA, tappa finale del processo di
riarrangiamento V(D)J, necessario per la generazione di recettori specifici per l’antigene dei linfociti T
e B. Il recettore per l’antigene, in questo caso, non viene espresso e i linfociti in via di maturazione
vengono eliminati in vivo. In una piccola percentuale di animali è presente un piccolo numero di
linfociti T e B maturi: questo fenotipo è stato definito “leaky” ed è caratterizzato da un repertorio
linfocitario limitato. Un altro tipo di modello animale che presenta un fenotipo simile a quello dei topi
SCID è rappresentato da topi Knockout per il gene RAG-1 o RAG-2. I prodotti di questi geni sono
anch’essi coinvolti nel processo di riarrangiamento delle sequenze V(D)J nella maturazione del TCR.
Il topino SCID ci permette di studiare cellule umane, dal momento che in questo animale

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attecchiscono cellule umane. Quindi, ad esempio, il ricercatore può infondere cellule della leucemia
umana sul topo perché è certo che questo non le rigetterà. In questo modo riuscirò a studiare in vivo
la leucemia, ucciderla e imparare come curare meglio il paziente.
Terapia
La terapia prevede il trapianto di midollo osseo. Il trapianto attecchisce praticamente sempre in una
SCID, perché non c’è niente che risponda. Il trapianto però deve consentire al bambino di avere un
sistema immune efficace non risultando però tossico. Capiamo che, mancando il sistema immune, è
molto facile che qualsiasi cosa risulti tossica per questi pazienti. Quindi il rischio non è di rigetto ma
di tossicità.
Tuttavia, oggi, oltre al trapianto, per questi bambini è stata messa a punto la terapia genica. Siamo in
grado di prendere le staminali di questi bambini, inserire geni ADA sani (veicolati da un vettore virale)
e reinfonderle. Tutto è partito da qui, ma ci sono anche trials che lo applicano alla talassemia (che
sappiamo avere un’incidenza maggiore).
Diagnosi
Il bambino con SCID presenta:
- Infezioni precoci respiratorie e intestinali. Nello specifico potrà avere polmonite interstiziale da
Pneumocystis jirovecii, diarrea, candidiasi orale intrattabile
- Infezioni da Aspergillus
- Infezioni da germi intracellulari (Listeria e Legionella)
Se facessimo un vaccino vivo in questi pazienti avremmo delle conseguenze catastrofiche. I vaccini
vivi attenutati non sono accettabili nell’immunodeficiente. I vaccini attenuati si fanno non prima dei 2
anni di età.
Se dovessimo fare trasfusioni di sangue avremmo GVHD, anche se non si tratta di un vero e proprio
trapianto: bastano pochissimi leucociti del donatore sano per innescare la reazione. Il paziente non
sarà in grado di uccidere quei leucociti. Non rigetta niente !
È chiaro che, trattandosi di forme congenite, è importante l’anamnesi familiare. Magari nelle
generazioni precedenti ci sono stati bambini morti precocemente per un’infezione, in maniera
inspiegabile.
Ci sono anche elementi importanti all’esame obiettivo (che dobbiamo sapere). Devo tenere presente
che un bambino sano ha sempre linfonodi palpabili, perché alla nascita ha tessuto linfoide
iperplastico. Nel bambino con SCID questo non si vede. Non saranno visibili inoltre neanche le
tonsille. Inoltre, se facessimo a questo bambino un Rx del torace si noterebbe l’assenza dell’ombra
timica.
Alla nascita il bambino sano ha un incremento fisiologico dei GB rispetto all’adulto (anche 17-20.000)
e c’è una linfocitosi (> 5000/ml). Nel bambino SCID abbiamo linfopenia (la confermiamo con
l’immunofenotipo). Questi bambini hanno CD4 e CD8 molto bassi.
Oggi una diagnosi di SCID va presa in tempo. Ci sono dei centri specializzati per la gestione dei
bambini SCID. Un centro di eccellenza oggi è il San Raffaele di Milano. La sopravvivenza oggi è
aumentata drasticamente per questi bambini (anche perché il trapianto è diventato più sicuro).

Sindrome di DiGeorge (ipoplasia timica)


Questa sindrome mette insieme diversi difetti genetici. È, nei casi più frequenti, associata alla
traslocazione del cromosoma 22 (c’è una delezione interstiziale in 22q11). Si trasmette con
ereditarietà AD. È stato identificato recentemente un difetto genico che ha permesso di avanzare
ricerche su questa sindrome. Il gene in questione è T-box-1 (TBX1), codifica per un fattore di
trascrizione ed è stato identificato come causa dei difetti di questa sindrome.
Si manifesta subito dopo la nascita.

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Si ha un anomalo sviluppo del 3° e 4° arco branchiale con ipoplasia del timo e delle paratiroidi. Quindi
tipicamente si avranno alterazioni del metabolismo del Ca++ (manca il PTH prodotto dalle paratiroidi),
ci sono anomalie cardiache (specialmente del tronco comune) e anomalie facciali tipiche (quali la
micrognazia, l’ipertelorismo, l’attaccamento basso delle orecchie, il frenulo nasale corto). Come
conseguenza dell’ipoplasia del timo, i linfociti T non maturano e non sono presenti in periferia o sono
presenti ma in numero ridotto (per cui non è detto che non ce ne sia nessuno). Nel caso in cui siano
presenti, seppure in numero ridotto, essi non prolifereranno in risposta agli attivatori policlonali.
La cosa caratteristica di questa sindrome, infatti, è che può presentarsi con una gravità estremamente
variabile. Cioè esiste una sindrome di DiGeorge che è veramente simile alla SCID, sia in termini di
rischio che di mortalità (c’è un difetto T gravissimo) e c’è una sindrome di DiGeorge che si arriva a
diagnosticare in adolescenza, perché il difetto T è modesto. Questo dipende da quanto si sono
sviluppati gli archi branchiali.
Questa sindrome determina un deficit puro T. Non c’è un deficit B. Il deficit B che si viene a verificare
dipende dalla mancata cooperazione con i Th (per cui i B ci sono ma si può avere un’alterazione nella
sintesi delle Ig). Il deficit T è un deficit che può essere anche parziale, in questo caso.
Con l’età sembra che la funzione T tenda a migliorare, probabilmente grazie alla presenza di residui
timici e al processo di maturazione dei T in tessuti extra-timici.
Ad ogni modo, come abbiamo detto, la gravità clinica varia: si può andare da una grave ad una
parziale linfopenia con moderata immunodeficienza.
Riassumiamo il quadro clinico. Questi bambini presentano:
- Anomalie facciali: schisi facciale sulla linea mediana, ipoplasia e retrazione della mandibola,
ipertelorismo, frenulo nasale corto
- Ritardo nella crescita
- Malattie cardiache congenite: arco aortico interrotto, tetralogia di Fallot, difetti dei setti atriali e
ventricolari
- Ipoplasia o aplasia del timo e delle paratiroidi, con conseguente deficit di linfociti T e
ipoparatiroidismo (con conseguenze sulla calcemia)
Diagnosi
In base alla gravità della malattia la diagnosi verrà fatta nel neonato (sindrome grave) o anche
tardivamente (difetto modesto). In quest’ultimo caso le infezioni opportunistiche potrà averle anche
più avanti.
La diagnosi prevede:
- Rx torace
- Ecocardiografia
- Valutazione funzionale delle paratiroidi
- Livelli di Ig: essendoci un deficit di Th avrò anche una diminuzione dei livelli di Ig (per
l’interdipendenza che c’è tra T e B)
Terapia
Per questa malattia non c’è ancora una terapia genica disponibile. Questi bambini si curano con il
trapianto di tessuto timico e di cellule staminali emopoietiche. Senza trapianto, l’aspettativa di vita è
molto ridotta.
Ad ogni modo la terapia varia a seconda del fatto che si tratti di una sindrome parziale o totale.
Il trattamento della parziale prevede integratori di calcio e vitamina D.

Sindrome di Bare (ber)


È la sindrome del linfocita nudo.

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In questo caso il paziente ha i linfociti T, ma c’è un deficit di molecole MHC.
Nella sindrome di Bare di tipo I, mancano le molecole MHC di classe I. La mutazione è a carico del
gene TAP, che non fa caricare il peptide antigenico nell’MHC I e quindi determina la sua degradazione
da parte del proteasoma. In questo caso il difetto funzionale riguarderà la sottoclasse TCD8+.
Nella sindrome di Bare di tipo II, mancano le molecole MHC di classe II. La trasmissione è AR. In
questo caso si ha assenza di molecole MHC II, dovuta a mutazioni dei geni che regolano
l’espressione delle molecole MHC. In particolare, il gene in questione è il gene CIITA. In questo caso
ci sarà una incapacità da parte delle APC di presentare l’antigene ai linfociti T CD4+, con
conseguente deficit della risposta Th e delle risposte anticorpali-T-dipendenti (quelle contro gli
antigeni proteici). Il difetto di espressione dell’MHC avviene in un secondo momento, per cui, in
questo caso avremo una SCID B+ (sulle sb. vecchie la considera tra le forme di SCID), in cui cioè ci
sono un po’ di linfociti B. È la più frequente tra le due. È molto grave, quasi al pari della SCID. Manca
la funzione Th e quindi viene meno anche la cooperazione con i B.
Questo bambino nasce i linfociti T li ha. Per cui la diagnosi risulta più difficile rispetto ad una SCID. In
questo caso per poterla sospettare, la clinica è importante.
Topo nudo
Modello animale di immunodeficienza. Si ha un difetto ereditario localizzato in un gene recessivo che
si trova sul cromosoma 11, che interessa le cellule cutanee e il pavimento della 3a e 4a tasca faringea
(quindi assomiglia al DiGeorge). Nei topi omozigoti si manifesta il fenotipo caratterizzato dall’assenza
di pelo e dall’ipoplasia timica. Come per l’uomo, non si verifica la maturazione dei linfociti T che sono
assenti, o quasi, nei tessuti linfoidi periferici. Non sono quindi presenti risposte immunitarie cellulo-
mediate, quali il rigetto degli allotrapianti, la DTH e la risposta anticorpale verso antigeni proteici timo-
dipendenti. I topi nudi sono suscettibili a molte infezioni, ma riescono ad eliminare alcuni batteri
intracellulari grazie alla presenza di un numero normale di cellule NK, che, tramite la produzione di
IFNγ, sono in grado di attivare le capacità microbicide dei macrofagi.
Questi modelli risultano utili a studiare l’efficacia clinica di trattamenti applicabili in futuro.

I difetti che riguardano la cellula T sono diversi.


Si può avere deficit di geni coinvolti nella funzione dei T. Tra questi abbiamo XLP.
Si può avere deficit di geni regolatori della risposta T. Tra questi abbiamo IPEX.

Sindrome IPEX [(Immunodeficiency Poliendocrinopathy and Enteropathy X-linked) (ci tiene che
la sappiamo)

È caratterizzata da endocrinopatia, enteropatia (diarrea autoimmune, infiammatoria da infiltrato


linfocitario), dermatiti e infezioni da Enterococcus e Staphylococcus.
È X-linked recessiva, per cui colpisce principalmente i maschi. È una malattia rara dovuta a
mutazione del gene FOXP3. Questo gene serve per lo sviluppo dei linfociti T Reg, responsabili della
tolleranza periferica. Permette un controllo dell’eccesso della risposta immune.
Avere un difetto di questo gene significa non avere T Reg. Questo comporta un eccesso di
infiammazione. Il bambino con questo difetto, mancando di regolazione della risposta, muore di
reazioni autoimmuni. La IPEX è un corredo di patologie autoimmuni. I linfociti T regolatori ci hanno
permesso di scoprire che, accanto ad una tolleranza centrale, esiste anche una tolleranza periferica.
Mancando questi linfociti, si scatenano reazioni infiammatorie autoimmunitarie e vengono, tra l’altro,
prodotti anche autoanticorpi (per cui il difetto riguarda in un certo senso anche i B).

Nel centro del prof hanno sviluppato una immunoterapia cellulare con i linfociti T reg che permette di fare
trapianti senza utilizzare terapia farmacologica immunosoppressiva, soprattutto per le forme più aggressive di
leucemia. Questa immunoterapia è stata sviluppata proprio facendo ricerche su questo gene.

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Sindrome linfoproliferativa legata al cromosoma X (XLP)
È un esempio di patologia in cui una risposta proliferativa abnorme di linfociti T causa
immunodeficienza.
È un altro esempio per capire che anche un eccesso di risposta immunitaria può causare
immunodeficienza.
In questo caso, è stata individuata una mutazione del gene SHD1A, che codifica per SAP (SLAM-
Associated Protein), una proteina citoplasmatica in grado di legare SLAM (Signalling Lymphocitic
Activation Molecule). SLAM è una proteina transmembrana la cui espressione sulla superficie dei
linfociti aumenta dopo l’attivazione cellulare. Il legame tra SAP e SLAM media un segnale inibitorio.
La mutazione di SHD1A fa sì che questo segnale inibitorio venga a mancare. I linfociti T, di fronte ad
una risposta anti-infettiva, invece di proliferare e poi fermarsi, uccidendo il patogeno (virus
essenzialmente), continuano a proliferare soltanto. Abbiamo una risposta proliferativa abnorme dei
linfociti T.
NB: per ragioni ancora non ben chiarite, mutazioni a carico di SAP determinano una proliferazione
abnorme dei linfociti T in individui infettati da EBV con conseguente eliminazione inefficace del virus,
comparsa di linfoma o di ipogammaglobulinemia. L’EBV stimola molto il sistema immunitario e quindi
è per questo che questa malattia si estrinseca principalmente di fronte a questo virus. Questi bambini
possono stare bene, magari fino all’adolescenza, quando possono contrarre la mononucleosi
infettiva. In questo caso entrano in gioco i CTL che proliferano senza terminare la loro risposta e
quindi vanno anche ad attaccare altre cellule, come i B, per poi arrivare addirittura a sviluppare il
linfoma.

13
Lezione 2
Deficit dell’immunità umorale
Costituiscono una grandissima fetta di problemi congeniti. Molti di questi hanno presentazione in età
adulta. È importante conoscere questi difetti per essere in grado di gestire al meglio il paziente.
Se c’è deficit di immunità umorale, vuol dire essere a rischio per un’infezione da patogeni capsulati
(Pneumococco, Haemophilus, Neisseria, …). Se c’è un’alterazione dell’integrità della cute potremo
avere anche infezioni da Staphylococcus, se c’è un’alterazione sull’integrità delle mucose da Gram-.
Tipicamente chi ha un deficit dell’immunità umorale supera l’infezione virale. Un paziente con
ipogammaglobulinemia che prende il Covid, avrà le stesse complicanze dirette del virus di un
paziente “normale”. Allo stesso tempo però avrà una probabilità maggiore di fare complicanze
secondarie indirette. Ad esempio: se il Covid causa una flogosi delle vie respiratorie tale da alterare la
membrana, e lì c’è uno Pneumococco o un patogeno di altra natura, sarà molto più a rischio per
questa infezione. Un altro problema sarà che il paziente con deficit anticorpale non farà memoria B.
Diagnosi di laboratorio
- Elettroforesi delle proteine
- Dosaggio delle immunoglobuline
- Dosaggio del complemento
Poi ci sono esami di secondo livello:
- Valutazione funzionale dei linfociti B: non sono esami di routine (ricerca delle isoemoagglutinine,
risposta anticorpale booster a tetano-difterite (T-dipendente) e a pneumococco (T-indipendente)
- Tipizzazione linfocitaria: pur essendo un esame di secondo livello è importante eseguirlo
ogni qual volta ci sia un sospetto di deficit dell’immunità umorale. Non ci dà idea della
funzionalità delle cellule, ci dice solo quante ce ne sono. Importante l’utilizzo di markers B (CD19,
CD20, …) e markers T (CD4, CD8, CD3, …)
Poi ovviamente si possono fare analisi specifiche per la singola malattia. Ad esempio si può cercare
l’espressione del CD40L, la cui assenza è tipica della sindrome da iperIgM.
Le IgG superano la barriera placentare. Per cui il difetto dell’immunità umorale non si manifesta alla
nascita, ma almeno 6 mesi dopo la nascita. Si manifestano normalmente tra i 6 mesi e i 3 anni, ma
talvolta anche dopo.
Agammaglobulinemia di Bruton
Il primo difetto congenito, il più precoce a manifestarsi, è la agammaglobulinemia di Bruton (legata
all’X). È tipica dei maschi. È caratterizzata dall’assenza di gammaglobuline nel siero. È dovuta alla
mutazione del gene di btk. È un gene fondamentale per la differenziazione del linfocita B e per la
funzione del BCR. Questo gene è così importante che oggi esistono terapie contro i linfomi che
attaccano il linfocita sulla btk. La Btk è sempre necessaria per la funzione linfocitaria e questo è
testimoniato dal fatto che tale funzione è mantenuta anche dalla cellula neoplastica.
Gli individui che presentano tale deficit hanno cellule pre-B con catene µ normali. (Nella linfopoiesi B
abbiamo la staminale che diventa committed in serie linfoide. Si ha il linfoblasto che poi diventa committed in B.
Avremo quindi la cellula pro-B e la pre-B e così il linfocita B che poi esce dal midollo e va nel linfonodo). Senza
btk non c’è il riarrangiamento delle catene leggere. Quindi le cellule pre-B sono in numero normale
nel midollo osseo, mentre i linfociti B sono fortemente ridotti in circolo.
I neonati sono asintomatici.
Si ha un pattern di ipogammaglobulinemia. Mancano le IgG, le IgM, le IgA, le IgE.
Avremo tipicamente polmoniti ricorrenti. In generale si hanno infezioni respiratorie ricorrenti. Spesso
si hanno sinusiti gravi, otiti, bronchiectasie (dilatazione dei bronchi dovuta al numero ricorrente di
episodi infettivi a livello polmonari, bronchiectasie che poi predispongono esse stesse a infezioni). I
batteri più frequentemente coinvolti sono lo S. pneumoniae, l’H. influenzae, lo Stafilococcus, lo
Pseudomonas. Possono avere anche diarrea da giardiasi.

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Terapia
Faremo antibiotici.
Serve vaccinare per fare memoria B? No, perché questi individui non faranno anticorpi.
Li trattiamo facendo terapia sostitutiva. Si danno Ig di origine umana da tanti donatori. Ormai sono
prodotte commercialmente. Il dosaggio tipico è di 0.5 g/kg/ogni 4 settimane. Il target è mantenere
livelli di IgG > 500 mg/dl.
Noi non possiamo dare IgA umane. Quindi terapia sostitutiva si fa con IgG, per gran parte, e con IgM
(in piccole quantità). Le IgA sono estremamente immunosensibilizzanti, quindi determinano
frequentissime reazioni allergiche anche pericolose per la vita.
Questo tipo di terapia si fa abbastanza comunemente oggi, anche perché si possono anche avere
delle ipogammaglobulinemie farmaco-indotte. Nei pazienti in cui si fa si somministrano anche anti-
istaminici e steroidi per ridurre il rischio di sensibilizzazione (nel caso in cui fossero rimaste 2 o 3 IgA
nel prodotto di Ig). Quindi il difetto di IgA vero e proprio non è sostituibile.

Se ho fatto la vaccinazione per un virus x (poniamo sia il covid), donando le mie Ig, io trasferisco la
mia immunità (umorale) al ricevente. Darò a questo IgG anti SARS-Cov2.
Il problema della terapia sostitutiva è che va ripetuta. Le IgG hanno emivita di 3 settimane circa. La 4a
settimana già si rischia un po’. Tendenzialmente si fa ogni 4 settimane. Ovviamente si fa per via
parenterale. Prendendo ogni volta diverse Ig, il pool di protezione ogni volta sarà diverso perché
diversi sono i “proprietari” di quelle Ig.

Sindrome da iperIgM
Se i linfociti B si formano, affinché si attivino, deve avvenire l’interazione con i linfociti T. Questa
interazione avviene tra il Th e la cellula B tramite una co-stimolazione con le molecole CD40 e
CD40L. Se non c’è difetto di btk, ma ho il difetto di CD40L (espresso dal linfocita T), questa
cooperazione verrà a mancare. Per cui succederà che il linfocita B naive che non ha visto l’antigene,
vedrà l’antigene, farà l’IgM, ma non farà lo switch isotipico. Ancora una volta non si forma memoria
immunologica B. Si ha una sindrome di iperIgM. Si ha un deficit di IgG e IgA. Si ha tendenza ad un
aumento della produzione di IgM, perché, in caso di infezione, in tentativo di risposta, le IgM vengono
fatte. Non ci saranno le plasmacellule nel midollo. Nella sindrome di Bruton non usciamo dal
midollo, nella sindrome da iperIgM non torniamo nel midollo. Se vado a contare i B, questi ci
sono.
La clinica è simile. Avremo:
- Infezioni respiratorie ricorrenti
- Neutropenia ricorrente con ulcere orali e ascessi perirettali (in realtà si possono avere anche nella
Bruton): per meccanismi di tipo infiammatorio e infettivo. Dal momento che il deficit è minore
rispetto alla Bruton e che quindi si tende ad avere un po’ di risposta anticorpale, questi soggetti
faranno più frequentemente infezioni a livello del tratto gastro-enterico
- Giardiasi
- Infezioni da opportunisti
È X-linked. Colpisce i maschi prevalentemente.

Come si distinguono le due patologie? Basta un’elettroforesi delle proteine e un dosaggio di IgG,
IgA e IgM. Il dosaggio va sempre confermato 2 volte a distanza di tempo !!
Chiaro poi che andremo a ricercare la mutazione per confermare la diagnosi.

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Immunodeficienza comune variabile
Molto più comune delle due forme appena citate è l’immunodeficienza comune variabile. È una
diagnosi di esclusione con tutte le forme di panipogammaglobulinemia (ma non di
agammaglobulinemia) secondarie. Quando somministriamo farmaci che determinano un difetto nella
linfopoiesi B, raramente avremo dei difetti selettivi di una classe anticorpale rispetto ad un altra.
Questa cosa la osserviamo però anche in questa sindrome congenita.
Non è così rara ed è variabile. Ci può essere un paziente che si presenta con 400 IgG, 50 IgA e
normali IgM e quello che si presenta con 100 IgG, 10 IgA e poche IgM. C’è una variabilità e c’è
un’evoluzione temporale lenta negli anni tendenzialmente.
Spesso è diagnosticato in tarda infanzia o in adolescenza, anche se spesso è diagnosticata nei
giovani adulti.
I livelli sierici di IgG e IgA sono quasi sempre bassi. Una grossa fetta di pazienti ha invece le IgM nella
norma, seppure ai limiti bassi. Si possono avere linfociti B normali all’esordio, ma nelle fasi più
avanzate pian piano si riducono. Anche in questo caso spesso c’è una difficoltà nella produzione
plasmacellulare, ma non è assoluta. Si fanno un po’ di plasmacellule, ma in numero non sufficiente.
È stata attribuita a molteplici alterazioni. Sotto questo nome abbiamo rinchiuso un calderone di
patologie che determinano vari gradi di ipogammaglobulinemia e di deficit immunologici con
presentazione variabile nel tempo. La più famosa è la mutazione del gene AICOS.
Oggi si è molto più attenti a fare diagnosi, quindi l’incidenza di questa condizione è aumentata rispetto
a quel 1:50.000 che era stato stimato. Si presenta il più delle volte tra 20 e 30 anni. Avremo un deficit
di IgA + un deficit di IgG (nell’ordine IgG4, IgG2, IgG1, IgG3: ordine in base a come sono distribuiti sul
cromosoma. Quasi mai avremo IgG3 isolato, perché avrei prima tutti gli altri).
Ricordiamo che ci possono essere tanti farmaci che la possono imitare.
Clinica
- Bronchiti, sinusiti, otiti ricorrenti: spesso più gravi rispetto a quelle da deficit di IgA
- Bronchiectasie da Stafilococco e Pseudomonas
- Diarrea da Giardia
- Zoster recidivante: non si vaccinano, non fanno memoria
- L’epatite B e C hanno spesso decorso più grave
Non hanno comunque una gravità paragonabile ad agammaglobulinemia. Sono pazienti che
normalmente diagnostichiamo ai 20-30 anni. L’anamnesi familiare, farmacologica, patologica remota
è importante (ad esempio per riscontrare se ci sono state infezioni ricorrenti in passato, durante
l’infanzia).
Se non si hanno IgA (quindi questo è condiviso anche dal deficit selettivo di IgA) avrò maggiore
incidenza di malattie autoimmuni: anemie immunoemolitiche, PTI, anemia perniciosa, tiroidite, DM,
granulomatosi simil-sarcoidosi con epatosplenomegalia e maggior rischio di linfomi intestinali.
Perché? Se mancano le IgA ci sarà uno stimolo continuo mucosale, perché c’è contatto continuo con
l’esterno. Per cui si avrà stimolo costante alla proliferazione dei T con il rischio che qualcuno salti la
tolleranza e dia malattia autoimmune o, nella peggiore delle ipotesi, che qualcuno si immortalizzi, a
forza di mutare per rispondere, e dare una patologia linfoproliferativa (ricorda che c’è tanto tessuto
linfoide a livello dell’apparato oro-gastro-enterico). Per cui chi ha deficit di IgA deve fare monitoraggio
del rischio autoimmune e dei linfomi per tutta la vita. Soprattutto per i linfomi, se si ragiona in tempo,
si può intervenire molto più efficacemente.

Accanto all’immunodeficienza comune variabile, possiamo avere deficit selettivi di singole classi.
Possiamo avere deficit di IgG1, IgG2, IgG3, IgG4. Sono rari. Se abbiamo un deficit da IgG4 selettivo
non si tratta di una patologia grave. È compatibile con la norma. I rischi sono bassi.
È molto importante invece conoscere il deficit selettivo di IgA, una sindrome a parte.

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Deficit selettivo di IgA
È più subdolo, perché se faccio l’elettroforesi delle proteine, quasi mai vedrò
ipogammaglobulinemia. Le IgA sono poche rispetto alle IgG.
Se facciamo l’elettroforesi delle proteine vedremo una riduzione della gobba γ. Avere < 10% di
gammaglobuline, rispetto al totale delle proteine plasmatiche, vuol dire avere
ipogammaglobulinemia. Ma se mancano solo le IgA, che costituiscono 1/10 delle Ig, non è detto
che io sia in grado di vedere il difetto. E allora è fondamentale sospettarla di fronte a quadri clinici
mucosali ricorrenti (le IgA sono le Ig della protezione esterna delle mucose: polmone e intestino). Una
volta sospettata, farò il dosaggio. È la forma nettamente più comune. Ha un’incidenza di 1/800
individui.
Le infezioni in genere sono meno gravi. Raramente sono polmoniti e bronchiectasie. C’è giardiasi. C’è
tendenza ad avere iperIgE. Nell’immunodeficienza comune variabile le IgE non rispondono. I pazienti
che non hanno IgA, dal momento che queste sono estremamente immunosensibilizzanti, hanno
tendenza ad avere maggiore atopia.
C’è anche maggior rischio a fare terapia trasfusionale e ovviamente maggior rischio di patologie
autoimmuni.

Queste sono importanti e vanno sapute. Le prossime sono più rare.

Deficit di IgM
Il deficit di IgM è molto raro, normalmente farmaco-indotto, quando si utilizzano farmaci che uccidono
linfociti B maturi circolanti ma che non hanno efficacia sulle plasmacellule midollari. La prima cosa
che succede è che non c’è la risposta IgM. Questo è quello che succede utilizzando il Rituximab.
Questo anticorpo è diretto verso il CD20, espresso dal linfocita B maturo ma non dalla plasmacellula.
Per cui in un primo momento mancheranno le IgM. Le IgM hanno emivita più breve delle IgG e quindi
verosimilmente avremo un quadro di questo tipo.
Questo ci fa capire come molto spesso l’ipogammaglobulinemia sia secondaria. L’immunodeficienza
comune variabile è una diagnosi di esclusione.

Sindrome di Job
È una sindrome autosomica dominante che causa infezioni cutanee e respiratorie. È
un'immunodeficienza ereditaria combinata dei linfociti B e T caratterizzata da eczema, atopia e
eosinofilia.
La mutazione normalmente è a carico del gene STAT3 e determina una iperproduzione di IgE.
La sindrome da Iper-IgE, abitualmente, causa ascessi stafilococcici ricorrenti della cute, dei polmoni,
delle articolazioni e degli organi interni; infezioni sinopolmonari; pneumatocele polmonare e
dermatite eosinofila pruriginosa grave.

Deficit del complemento (vedere sulle sbobine vecchie)


Sono piuttosto rari. In molti di questi deficit si ha deficit di C3. Se mancano gli elementi successivi
nella cascata, le infezioni sono tipicamente quelle da patogeni capsulati.

Deficit della funzione fagocitaria


Anche il deficit della G-6-P deidrogenasi, se è completo, può dare un deficit di funzione fagocitaria,
quando c’è esposizione ad agenti ossidanti.
I più importanti sono la LAD e la malattia granulomatosa cronica (MGC).

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La sindrome LAD è una patologia AR che è caratterizzata da infezioni batteriche e fungine ricorrenti
con incapacità a produrre essudato purulento e normale cicatrizzazione. Questo perché mancano le
integrine della classe β2, le quali fisiologicamente fanno sì che i neutrofili possano aderire agli
endoteli, fare chemiotassi e di conseguenza fagocitosi. I neutrofili ci sono ma non vanno dove
devono andare.
La malattia granulomatosa cronica è ancora più grave. È caratterizzata da ricorrenti gravi infezioni da
batteri e funghi. In questo caso il difetto è nella NADPH ossidasi. Tipicamente si formano dei
granulomi in seguito al rilascio dei microbi dai fagociti e conseguente richiamo di cellule
dell’infiammazione. In questa malattia si hanno normalmente infezioni da germi catalasi+, che hanno
bisogno dell’ossidazione lisosomiale. Questi bambini possono presentare molto precocemente
infezioni gravi batteriche.
Nel caso di deficit di mieloperossidasi non si ha lo sviluppo adeguato del fagolisosoma, all’interno del
quale dovrebbe avvenire la rimozione del batterio.
Nella sindrome di Chediak-Higashi i lisosomi si fondono tra loro ma non con il fagosoma, quindi non si
forma il fagolisosoma. I neutrofili sono pieni di grandi vacuoli, che non sono altro che lisosomi.
Sono tutte forme estremamente simili. Il meccanismo patogenetico alla base è diverso, ma il risultato
è sempre lo stesso: il neutrofilo non riesce ad eliminare il batterio.

La diagnosi si fa con il NBT test. Normalmente se buttiamo questo NBT su una goccia di sangue
vediamo che il neutrofilo lo internalizza e riesce a ridurlo (metabolizzato da una NADPH ossidasi).
Quando c’è il difetto non si ha il blu. Questo è diagnostico.

Molte di queste immunodeficienze stanno venendo alla luce oggi. Per questo si stanno mettendo a
punto dei gruppi di studio dei difetti immunologici rari. C’è qualche decina di persone in Italia che si
occupa di questo. È importante, di fronte a quadri strani e rari, pensare a difetti immunologici genetici,
anche nell’adulto. Si parla di citopenie B e T non ordinarie ad insorgenza tardiva e a diagnosi
complessa.
Ci sono tante patologie che inizialmente facevamo rientrare in altre categorie (tra quelle citate prima)
e che oggi possiamo ricaratterizzare andando a vedere che mutazione c’è alla base (con NGS).
Abbinare la mutazione al quadro clinico è difficile.
Ci sono meccanismi patogenetici estremamente diversi tra loro geneticamente determinati che
esitano in immunodeficienze che si presentano nel contesto di vari quadri clinici.
Sono poche, sono rare. Ognuna di queste è una mutazione rara, ma è importante conoscerle, perché
ci aiutano a chiarire quadri clinici e sindromici prima sconosciuti.
Il mese scorso è stata fatta una diagnosi ad una donna che il professore con il suo gruppo seguiva da
15 anni. Prima la chiamavano immunodeficienza comune variabile.
Conoscendo la mutazione che è alla base dello sviluppo di questi quadri clinici atipici, saremo poi in
grado di andare a fare una terapia specifica, mirata per quella determinata condizione.
La diagnosi di queste condizioni non è immediata, spesso si tratta di un percorso che richiede la
voglia del paziente di conoscere la diagnosi e soprattutto richiede una grande attività di laboratorio.
Bisogna entrare in quest’ottica, perché la terapia che potremmo sviluppare potrebbe essere migliore
rispetto a quella attualmente utilizzata per trattare la condizione in questione.
Per la donna di cui parlavamo è stata creata una strategia terapeutica e di gestione dopo 15 anni.
Vediamo un esempio:
- Deficit di adenosin-deaminasi 2: può dare, con un rischio che aumenta con l’età, ictus, vasculiti,
artriti, lesioni cutanee associate a grave ipogammaglobulinemia con prevalente linfopenia B e
gradualmente T, flogosi fino ad anemizzazione da disordine cronico. Magari arrivano con
un’anemia o con una diagnosi di immunodeficienza comune variabile poi presentano un ictus,
magari a 40 anni (abbastanza raro). Si tratta il rischio tromboembolico con la terapia

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antiaggregante, si tratta l’artrite reumatoide, si trattano le manifestazioni cutanee, senza però
capire che si tratta di un’unica malattia.
L’ADA2 trasforma l’adenosina in inosina. Questo è molto importante che avvenga, perché l’accumulo
di adenosina dà flogosi, danno vascolare. Da qui avremo ictus, vasculite, l’iperattività immunologica,

- Una forma più grave (di norma si fa la diagnosi in età pediatrica) è la sindrome di Shwachmann-
Bodian-Diamond: è caratterizzata da ritardo psico-motorio, ittiosi (pelle spessa, come il pesce),
torace carenato, insufficienza pancreatica, difetti ossei. Ognuno di questi sintomi si presenta con
prevalenze diverse. C’è la Shwachmann con solo deficit pancreatico, quella con solo il difetto
osseo, … Ma quasi tutti questi soggetti sono neutropenici, poi hanno anemia e poi piano piano la
condizione evolve in leucemia. È una sindrome pre-leucemica. Spesso queste persone muoiono di
leucemia acuta in età adulta. I difetti ossei li posso notare, ma l’insufficienza pancreatica magari
non la sospetto. Spesso ci vogliono anni per la diagnosi. Il gene SBDS è importante per la
maturazione ribosomiale, quindi capiamo la grande pleiotropicità sindromica.
- Deficit di Cd3γ: il Cd3γ è importante per la produzione dell’IL-2. È una delle 4 subunità che
formano il CD3 (che si associa al TCR). I linfociti T-reg sentono l’IL-2 nell’ambiente per regolare la
risposta immune, perché sono CD25+ (subunità α del recettore per IL-2). Se non faccio IL-2, i T-reg
non si attivano. Il Cd3 può funzionare, ma non si fa IL-2. Avrò autoimmunità e aumentata
suscettibilità ad infezioni. A causa dell’autoimmunità e della flogosi avremo linfopenia B e T, spesso
parziali. Questo paziente si presenta un po’ linfopenico e poi inizia ad avere tiroidite e poi altre
malattie autoimmuni, poi infezioni respiratorie, … L’IL-2 ha emivita di 5 minuti per cui è molto
difficile dosarla. Per cui solo un test genetico può individuare questa sindrome.
- Sindrome di WHIM (= verruche, ipogammaglobulinemia, infezioni, mielocatessi) (importante per la
DD con le neutropenie): queste persone sviluppano facilmente verruche. C’è aumentata
suscettibilità a infezioni da HPV. Abbiamo ipogammaglobulinemia, immunodeficienza e
mielocatessi (= difetto nella capacità di rilasciare neutrofili maturi in circolo da parte del midollo
osseo). È un difetto AD. Sono soggetti neutropenici, ma se stimolo il rilascio con un inibitore di
CXCR4 avremo un aumento di questi neutrofili nel sangue, perché si stimola il rilascio di questi dal
MO. Tipicamente avremo un quadro di neutropenia, linfopenia, monocitopenia, con conseguente
panleucopenia grave, in presenza di piastrine e livelli di Hb normali. È presente spesso
ipogammaglobulinemia con valori lievemente ridotti di IgA, IgG, IgM. Gli aspirati del midollo osseo
rivelano mielocatessi. La diagnosi viene confermata dall’analisi genetica di CXCR4.

Immunodeficienze secondarie
L’immunodeficienza può avere origine endocrinologica (es: il paziente con diabete ha
immunodeficienza), dal tratto gastrointestinale, …
Nella valutazione della secondarietà di un’immunodeficienza rientrano tanti fattori: farmaci, fattori
nutrizionali, fattori genetici, fattori ormonali, …
La medicina crea pazienti immunocompromessi continuamente per poter trattare malattie
autoimmuni, per poter trattare tumori, per evitare un rigetto ad un trapianto. Questo lo facciamo
somministrando farmaci al paziente, farmaci che inducono una immunodeficienza secondaria. Oltre ai
farmaci, ci sono anche procedure chirurgiche, come la splenectomia, ma anche la radioterapia o la
plasmaferesi.
Steroidi (tra i pochi farmaci su cui potrà fare domande all’esame)
Ne parliamo solo da un punto di vista immunologico.
Ancora oggi ci sono tanti aspetti nei meccanismi di funzione dei GC che non sono stati del tutto
chiariti.
Hanno effetti anti-infiammatori molto incisivi. E sono farmaci importanti da conoscere perché noi
somministriamo glucocorticoidi per tantissimi diversi motivi e lo facciamo molto comunemente. Li
utilizziamo per trattare patologie autoimmuni, patologie cutanee, disordini respiratori, disordini
gastrointestinali, disordini renali, …

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È importante ricordare che da un punto di vista immunologico esistono dei meccanismi di effetto
genomici e non genomici.
I meccanismi genomici sono quelli più noti, chiari e comuni. Sono quelli che richiedono più tempo per
mettersi in atto. I meccanismi non genomici hanno un breve tempo di latenza, funzionano subito, ma
la durata di azione è più breve.
I glucocorticoidi, con il loro meccanismo di trasduzione, inducono l’espressione di tante proteine.
Dal punto di vista immunologico, quali sono i geni di cui viene aumentata l’espressione (chiaramente
per azione dei GC)?
- Citochine anti-infiammatorie: IL-10
- …
Quali sono i geni di cui invece viene ridotte la loro espressione?
- Citochine pro-infiammatorie: IL-2, IL-12, TNFα
- Molecole di adesione
- Enzimi infiammatori: es: la ciclossigenasi inducibile (meno febbre in presenza di GC)
- …
Quindi lo steroide sposta la bilancia nel versante anti-infiammatorio. Riduce la risposta
immunitaria. Questo è necessario fisiologicamente in certe condizioni (steroidi prodotti per via
endogena). Ma quando somministro un farmaco dall’esterno non sarò mai in grado di coprire
l’efficacia fisiologica, quindi causo immunodeficienza. Chiaro è che in alcuni casi è necessario fare
questo, dal momento che ci sono tante patologie che si manifestano con un eccesso di
infiammazione. In alcuni casi la somministrazione di GC è un salva-vita.
In termini pratici:
I GC hanno effetti profondi sulla funzione cellulare, sulle cellule endoteliali, sui leucociti (riducono la
capacità di trafficking dei linfociti). Inducono una ridotta capacità di mandare i leucociti nel sito di
infezione.
In presenza di steroidi non è impedita la fagocitosi neutrofila. L’effetto fondamentale è impedire al
neutrofilo di marginare in periferia. Se io do alte dosi di cortisone e faccio un emocromo dopo qualche
ora, troverò leucocitosi neutrofila. Va in DD con tante cose. Se al soggetto arriva una sepsi batterica,
una prima risposta del midollo consisterà anche in una leucocitosi neutrofila. La leucocitosi neutrofila
indotta da steroidi, è una leucocitosi dovuta al fatto che i neutrofili non vanno in periferia, sono
trattenuti, sono marginati dal pool midollare nel sangue. Quindi li vado a dosare e li trovo li. Se invece
li vado a dosare nel sito di infezione ne troverò meno.
Molto importante è l’effetto su monociti e macrofagi. Su queste cellule l’effetto è critico. Si riduce la
produzione di citochine pro-infiammatorie da parte di queste cellule, ma soprattutto si riduce la
capacità fagocitica e microbicida. In presenza di steroidi è estremamente ridotta la capacità di
eliminare tutto ciò che è opsonizzato dagli anticorpi da parte del SRE.
Proprio per un meccanismo del tutto simile, a livello genetico, c’è una ridotta espressione di MHC II e
quindi c’è una ridotta capacità di presentazione dell’antigene da parte del sistema monocito-
macrofagico, che sappiamo essere il sistema prevalente presentante l’antigene.
Lo steroide induce inoltre apoptosi dei linfociti T. Terapia ad alte dosi di steroidi induce un difetto
dell’immunità cellulare, funzionale e numerico. L’effetto principale è nei timociti immaturi e nelle cellule
T attivate. Le cellule resting subiscono meno danni.
Le cellule T-reg all’inizio sono meno danneggiate, perché viene prodotta IL-10. All’inizio lo steroide
favorisce l’espressione di FOXP3 e di CTLA-4. Questo aumenta la capacità T regolatoria nella fase
iniziale. Però quando la terapia si protrae molto a lungo, anche questi linfociti inizieranno a diminuire
e verranno colpiti dagli stessi meccanismi che hanno rimosso gli altri linfociti T. Lo steroide quindi ha
una tossicità pan-T.
Per quanto riguarda i B: avremo ridotto numero di linfociti B circolanti e ridotta sintesi anticorpale.

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L’immunosoppressione con steroidi è chiaramente una contro-indicazione all’utilizzo di vaccini vivi
attenutati.
L’immunodeficienza da steroidi è dose-dipendente e tempo-dipendente. All’aumentare del tempo di
assunzione degli steroidi aumenta la possibilità per i patogeni opportunisti di infettare e dei virus in
latenza di riattivarsi. Molti effetti sono dose-dipendenti. C’è una diversa affinità dei target genomici per
i complessi GC-recettore. Proprio per questo, abbiamo imparato che in certe patologie per evitare
danni prolungati genomici, facciamo alte dosi per meno tempo (= steroide pulsato). Evito così di
innescare un’immunodeficienza grave. Cerco di ridurre l’effetto tempo e sfrutto l’effetto dose.
È molto importante ponderare bene l’utilizzo di questi farmaci.
Caso clinico: paziente in pronto soccorso con desaturazione. Facciamo una TAC: polmonite bilaterale. Paziente
ricoverato. Diagnosi: polmonite da Pneumocystis. CHIEDIAMO SE HA FATTO STEROIDI PER MOLTO TEMPO.

Inibitori della calcineurina


La calcineurina è una fosfatasi proteica che attiva i linfociti T defosforilando fattori di trascrizione e di
conseguenza inducendo la trascrizione di IL-2, importante per la risposta infiammatoria e per la
proliferazione del linfocita T. L’inibitore della calcineurina blocca la proliferazione T linfoide. È in grado
quindi di ridurre la risposta immunologica. La regina di questi farmaci è la ciclosporina. Il suo pro-
farmaco è il tacrolimus. Queste due molecole sono molto importanti perché sono stati la terapia base
per la prevenzione del rigetto del trapianto. Sono decenni che si usano e ancora oggi non siamo stati
in grado di sostituirli.
Anche in questo caso l’efficacia è dose-dipendente. Più è alta la dose, maggiore sarà
l’immunodeficienza T causata. Ma questo rispetto allo steroide è molto più selettivo per il linfocita T.

Vanno menzionati anche gli anticorpi anti-T diretti, che sono utilizzati per dare deplezioni T acute. Ne
abbiamo bisogno in caso di reazioni infiammatorie T gravi. Questo succede ad esempio nel trapianto
di midollo, nella GVHD, nel trattamento di alcune malattie autoimmuni T mediate (come l’anemia
aplastica). Ancora oggi sono farmaci molto pericolosi, perché dando questo farmaco, ad esempio,
posso passare da 500 CD4 a 0.
Ci sono diversi anticorpi monoclonali per trattare patologie autoimmuni diretti verso citochine
infiammatorie. Esempio: anti-TNF.

Tra i farmaci che inducono immunosoppressione poi dobbiamo ricordare i chemioterapici e la terapia
radiante, i quali sono agenti che:
• Inibiscono la divisione cellulare
• Danno mielotossicità
• Hanno un effetto negativo sulla proliferazione linfoide
• Possono dare linfopenia e/o neutropenia
L’immunosoppressione di questi farmaci è dose-dipendente, tempo-dipendente e malattia sottostante-
dipendente. La classe più importante da ricordare è quella degli agenti alchilanti. Tra questi c’è la
ciclofosfamide. Sono farmaci che hanno tossicità linfoide elevatissima e che però sono abbastanza
selettivi per cellule linfoidi, perché danno sì una mielotossicità ma non uccidono mai la cellula
staminale. Per questo si utilizzano ancora tanto: non danno mai una mielotossicità infinita,
irrecuperabile.

Splenectomia
È causa di immunosoppresione indotta dal medico. La milza è un organo linfoide secondario, oltre ad
avere ruolo emocateretico. A noi interessa il suo ruolo di presentazione dell’antigene e ci interessa del

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suo SRE. La milza è piena di follicoli B linfoidi. E non solo, può anche assumere funzione emopoietica
quando ci sono condizioni che inducono insufficienza midollare.
E allora perché si fa splenectomia? Per trattare alcune patologie autoimmuni (ad esempio che non
rispondono a steroidi. Se una PTI non risponde al trattamento con steroidi, c’è indicazione a fare
splenectomia). Si fa per la gestione palliativa di certe malattie ematologiche.
La manifestazione clinica consiste in un aumento del rischio di infezione batterica da patogeni
capsulati, perché c’è meno produzione anticorpale, meno SRE.
Se faccio l’emocromo ad uno splenectomizzato mi aspetto di vedere: lieve leucocitosi, lieve
piastrinosi. Non c’è il filtro.
Il grosso della splenectomia è comunque legata a traumi. La milza è un organo molto fragile, morbido,
si può rompere facilmente e dare importanti emorragie.

Accenniamo che altre cause di immunosoppressione secondaria sono date da infezioni (HIV, CMV,
EBV), da patologie ematologiche, da malnutrizione.
Lo scarso apporto di nutrienti induce immunodeficienza secondaria. Le due forme tipiche sono:
marasma e kwashiorkor. Nel primo caso mancano i nutrienti in generale. Sono bambini pelle e ossa.
Nella seconda c’è riduzione del supporto proteico. Si sviluppa un po’ più tardi. Sono bambini con una
pancia molto grande (= ascite, insufficienza epatica).

In tutti questi casi dobbiamo tener conto che se il paziente presenta una immunodeficienza
secondaria, risulta fondamentale capirne la causa e rimuovere quest’ultima. In più dobbiamo
avere approccio molto aggressivo da un punto di vista infettivo: profilassi, terapia aggressiva,
monitoraggio e protezione individuale.

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Lezione 3
Trapianto di midollo osseo
Il trapianto di midollo osseo è uno strumento oggi fondamentale per il trattamento di alcune patologie
neoplastiche ematologiche.
È un trapianto di cellule staminali emopoietiche.

Storia
Tutto nasce dalle guerre, come molto spesso accade. Si è capito che il danno da raggi era un danno
grave, che determinava insufficienza midollare. È stato il primo vero stimolo per cercare di ridare a
quei soggetti un midollo osseo. Sono stati fatti esperimenti murini negli anni ’50 che hanno fatto
vedere che se si davano cellule del sangue di un topolino ad un altro, queste conferivano proprietà
anti-tumorali. Si è anche capito che se si davano tante di queste cellule, questi topolini non morivano
di tumore ma di una malattia che dava cachessia. Lo chiamavo il “Wasting disease”. Questi topolini si
consumavano. In quel momento non si conoscevano ancora i linfociti B e T. Una serie di medici, a
questo punto, coraggiosi cominciò a lavorare su modelli secondo loro più simili all’uomo: cani e
scimmie. Tra loro c’era E. Thomas.
Edward Donnall Thomas aveva capito che si poteva dare, facendo delle determinate terapie
specifiche prima, il midollo osseo da un essere vivente ad un altro, facendo rigenerare il
sangue. Lo ha fatto tantissimo nei cani. Nel ’59 funzionò nel cane, nonostante non si sapesse nulla di
immunità. Così Thomas prese il midollo da un familiare per curare una leucemia acuta linfoide che
non guariva con le banali terapie chemioterapiche che si potevano fare. Il trapianto attecchì e la
leucemia scomparve. Dopo questo evento tanti centri iniziarono a trapiantare. Tuttavia in un decennio
su 203 pazienti trapiantanti solo 3 erano vivi. Questo fece scemare l’interesse.
Nel frattempo arrivarono bravi immunologi, tra cui J. Van Rood, i quali hanno capito qualcosa di molto
importante, ovvero che abbiamo un sistema di istocompatibilità. Lì si è capito che fare un trapianto tra
due soggetti X e Y è diverso rispetto a fare un trapianto tra due soggetti W e Z. E ancora, è diverso
rispetto a fare un trapianto tra due fratelli. Questo ha fatto si che avvenisse una cosa fondamentale,
cioè la Sibling Selection. Si era capito che ci doveva essere un’identità dei geni del complesso
maggiore di istocompatibilità per permettere al trapianto di attecchire. Da questo momento in poi il
dottor Storb, uno tra i più grandi allievi di Thomas, al Fred Arch di Seattle (centro famoso per il
trapianto) incominciò a lavorare su quelle che sono le terapie che preparano il soggetto al trapianto,
vale a dire radioterapia e farmaci immunosoppressori. Dal 1980 in poi sono stati fatti dei passi da
gigante che ci hanno permesso di far attecchire il trapianto, di avere meno complicanze e di utilizzare
non solo fratelli, ma anche individui parzialmente compatibili.

La cellule staminale emopoietica è il fulcro del gioco. È l’elemento fondamentale che permette di
rigenerare il sangue in quell’individuo. Questa cellula farà sangue (multipotente).
L’HLA funziona in maniera mendeliana. Per cui i complessi dei geni HLA nel cromosoma 6 sono
ereditati come aplotipi. Ognuno di noi avrà un aplotipo materno e un aplotipo paterno. Per ogni figlio
sono possibili 4 diverse combinazioni dei geni HLA. Per cui c’è una possibilità di 1/4 che due fratelli
siano HLA identici. Inizialmente i candidati per il trapianto erano individui che venivano scelti
casualmente nella famiglia e fortunatamente, a volte, questi risultavano HLA identici (ancora non si
sapeva dei geni HLA).
Geni HLA:

• HLA I: tutte le cellule nucleate. I CD8+ li riconoscono.


• HLA II: solo sistema immune. I CD4+ li riconoscono. C’è grande polimorfismo.
• HLA III
Per identificare il genotipo HLA ci sono test semplici oggi:
- Siero 12 (?) (non si capiva, probabilmente intendeva sierologia)
- Sequenziamento del DNA per riconoscere i polimorfismi

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- (dalle vecchie) si fa anche PCR
Quando si fa un trapianto di midollo si ottiene un sangue nuovo che sarà tutto del donatore:
granulociti, piastrine, eritrociti, macrofagi, APC, …
Chiaramente un macrofago tissutale ha emivita molto lunga, per cui la sostituzione avverrà più
lentamente nel tempo. Il tessuto connettivo, gli epiteli e le mucose rimangono quelli del paziente.
Perché trapiantiamo?
Perché ci sono malattie che possono essere salvate da trapianto. Tutte le insufficienze midollari, le
patologie genetiche, le patologie oncoematologiche. In ematologia tante patologie tumorali
rispondono bene al trapianto. Tra tutte, le leucemie acute.
Ci sono poi indicazioni interessanti in certe patologie autoimmuni.
Inoltre c’è anche l’induzione di tolleranza del trapianto d’organo. Questo è molto più sperimentale. Se
io faccio un trapianto di rene in un paziente con grave IR, quel rene ha un grosso rischio di essere
rigettato, per cui bisognerà fare tanta immunosoppressione che metterà a rischio il paziente. In quel
caso se diamo il midollo dello stesso donatore del rene significherebbe conferire un’immunità che
tolleri quel rene.
Il trapianto autologo prevede che siano le stesse cellule staminale del paziente che vengono
rimosse e poi rinfuse. Siccome avviene questo passaggio si chiama trapianto, ma non è un vero
trapianto. L’autotrapianto viene esclusivamente effettuato perché, per curare la patologia
oncoematologica, dobbiamo fare altissime dosi di chemio e radioterapia. Per cui se non potessimo
dare al paziente staminali che non hanno sentito quelle dosi di farmaci, quel paziente morirebbe in
aplasia. È un recupero. Non c’è niente di immunologico.
Il trapianto allogenico invece è da parte di un donatore sano, diverso dal paziente.
Abbiamo trapianto HLA identico familiare, dove le immunodiversità sono minori. Gli antigeni diversi
non sono le HLA I e II ma antigeni minori che causano immunosensibilità, quali ad esempio le
diversità maschio/femmina, alcuni antigeni tissutali epiteliali, …
Per cui non sarà completamente assente la componente immunologica. Questo è un vantaggio. Già
c’è una potenziale efficacia immunologica nei confronti della leucemia. Non è come fare un trapianto
autologo. L’unico donatore sano con cui si può mimare un trapianto autologo (da un punto di vista
immunologico) è il gemello monocoriale monozigote, che condivide anche gli antigeni minori. In
termini procedurali, in termini di attecchimento è molto efficace. Però è meno efficace da un punto di
vista immunologico contro la malattia.
Il trapianto HLA identico è ancora il trapianto più favorito nel mondo, però, come abbiamo detto, solo
1 fratello su 4 è HLA identico. Le probabilità di avere un donatore HLA identico in famiglia sono basse.
Aploidentico vuol dire parzialmente compatibile, è identico per solo 1 aplotipo. Il trapianto
aploidentico non è stato fatto fino agli anni ’90 nelle leucemie acute. Grazie a due professori
dell’università degli studi di Perugia è stato fatto il primo trapianto aploidentico T depleto in pazienti
con leucemia. Oggi il trapianto aploidentico è diventato routine in tutto il mondo. Esiste un registro di
donatori volontari per poter dare un donatore identico al paziente, nel mondo. Gli esseri umani sono
più dei polimorfismi.
Poi si possono prendere anche cellule staminali dal cordone ombelicale. Questo funziona più che
altro nel pediatrico, perché sono poche le staminali che ci sono. Queste cellule si separano da
cordone. Questo è importante perché il cordone ombelicale ad oggi non ha senso preservarlo per se
stessi o per il proprio bambino. Ci sono tante banche (in Italia sono state bandite, ma ce ne sono
ancora in Europa) che congelano le cellule del cordone. Ogni 5 anni la vitalità di queste cellule si
dimezza. Ma poi non servono per quel bambino, serve donare il cordone e metterci nel registro. Se il
bambino ha una leucemia, l’autotrapianto non serve a niente !!
Come avviene un trapianto:
- C’è un donatore da cui prelevo cellule staminali o dal sangue periferico o dal midollo
- Le cellule possono essere o no processate, possono essere o no congelate

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- Le cellule vengono reinfuse nel paziente dopo aver preparato quest’ultimo con una chemio e/o
radioterapia di condizionamento che lo prepari a ricevere queste cellule. E come lo prepariamo?
Facendo spazio nel midollo, uccidendo i residui midollari del paziente e riducendo la capacità di
risposta immunologica del paziente, altrimenti il sistema immune del paziente può rigettare le
staminali del donatore, riconoscendo una diversità in HLA.
Quali sono i momenti chiave in un trapianto di midollo?
1. La scelta del donatore: da questa dipende la potenzialità dell’outcome del trapianto e la prognosi
2. La raccolta delle cellule staminali
3. Il regime di condizionamento preparativo
4. L’infusione delle cellule staminali
5. Terapia di supporto al paziente trapiantato: è un controllo lungo nel trapianto allogenico.
Chiaramente sarà meno lungo in un trapianto autologo, perché, in questo caso, ci saranno meno
problematiche immunologiche.
Due parole sulla scelta del donatore. Il donatore ideale per il nostro paziente è un fratello identico dal
punto di vista HLA. Per cui è fondamentale fare la tipizzazione HLA. Quindi il primo criterio è l’HLA
identicità (questo vince su tutto). In assenza di un donatore da registro HLA identico, si può optare
per un trapianto parzialmente compatibile. Siccome i tempi dei registri internazionali sono lunghi, in
caso di malattia grave che ci lascia poco tempo per agire possiamo optare per un trapianto da fratello
o genitore o figlio parzialmente compatibile. A livello verticale avremo sempre un donatore
parzialmente compatibile, in quanto ognuno di noi riceve sia l’aplotipo materno che paterno.
Chiaramente è importante che il donatore sia sano. Per cui donare significa fare check up gratuiti
“dalla testa ai piedi”, perché non si può far donare un soggetto con potenziale patologia.
Si preferisce un donatore giovane.
Bisogna poi considerare le combinazioni sierologiche. Iniziamo quindi a parlare di immunità.
Immaginiamo che il ricevente sia CMV+. Se ricevessi un trapianto da un donatore che non ha visto
CMV nell’arco della sua vita, non trasferirei a quel paziente l’immunità contro questo virus. E, siccome
il CMV “sta dormendo” in tutti i soggetti CMV+, nel momento in cui riduco l’immunità per fare il
trapianto, il virus si riattiva e non ci sarà un donatore in grado di proteggerlo. Questo quindi aumenta il
rischio di riattivazione di CMV, riattivazione che è pericolosa per la vita.

NK alloreattività
Due ricercatori a Perugia hanno scoperto questa cosa.
I linfociti NK conferiscono immunità di tipo innato. Questi funzionano tramite un bilancio di segnali
inibitori e attivatori. Non hanno una particolare intelligenza. Non riconoscono una selettività. Hanno
bisogno di stimoli attivatori che superino i segnali inibitori. Tra i segnali inibitori che possiedono i
linfociti NK ci sono quelli dati dai cosiddetti kir. Sono dei recettori che danno segnali inibitori. Questi
Kir danno segnali inibitori quando vedono l’HLA del proprio paziente. Quindi la cellula autologa dà
segnali inibitori alla cellula NK con il suo HLA. In un trapianto parzialmente compatibile questa cosa
può non avvenire. Essendoci un aplotipo con HLA diverso, quel Kir può non essere stimolato e quindi
darà una priorità ai segnali attivatori che invece ci sono. In questo modo la NK andrà a svolgere una
funzione anti-leucemica importante. Questo vuol dire che, conoscendo l’HLA del donatore e del
ricevente, noi sappiamo se le NK del donatore possono essere alloreattive, quindi svolgere un’azione
antileucemica forte per quel paziente. Di Kir ce ne sono meno rispetto agli HLA. Ogni Kir è stimolato
da tanti HLA. Basta sapere quale HLA può stimolarlo o meno. Quindi sapremo se i linfociti NK del
donatore potranno svolgere o meno azione antileucemica. Se possibile, bisogna scegliere questo
donatore.

Ci sono poi altre cose minori, che rientrano ancora un po’ nella scelta. Tra questi abbiamo la
combinazione che riguarda il sesso. Una diversità di sesso favorisce una diversità HLA. Per questo
può determinare un maggior rischio di GVHD. Si deve poi considerare la compatibilità AB0. Un
paziente 0- che riceve da A+, svilupperà un sangue A+. Ma essendo 0+ potrei avere anticorpi anti-A e

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anti-Rh. Per cui potrebbe svilupparsi un’anemia immunoemolitica alloimmune. I miei anticorpi
uccidono il sangue del donatore che sta crescendo in me dopo il trapianto.
Fino alla fine degli anni ’90, il prelievo di cellule staminali avveniva esclusivamente dal midollo osseo.
Si tratta di aspirati midollari, non di biopsie. Però se ne fanno tanti, da 25 fino a 40. Dipende dalle
dimensioni del ricevente. Chiaramente sarà richiesta l’anestesia. Ovviamente si avrà anemia,
successiva a questa procedura. Per cui si andrà a somministrare ferro, acido folico al donatore per
farlo recuperare. È una procedura estremamente sicura che non comporta nulla nel lungo termine.
Solo che, pur facendo tanti aspirati, le cellule staminali che prendiamo non sono tantissime. È
importante che, facendo questo, facciamo una cosa pulita. I linfociti T del donatore saranno pochi,
perché nel midollo ci sono pochi linfociti T. E questo vedremo sarà importante per ridurre il rischio di
GVHD. Ancora oggi si utilizza anche se di meno. È la metodica di scelta in tutte quelle malattie dove
ricostituire l’ambiente midollare ha un ruolo. Una malattia tipica è l’anemia aplastica.
La metodica oggi di maggior uso è la metodica di raccolta di staminali da sangue periferico. Non c’è
una differenza in termini di sicurezza. Per eseguire questo prelievo dovremo stimolare il midollo osseo
del donatore con fattori di crescita. Il fattore di crescita G-CSF si comincia 4 giorni prima del prelievo.
Si fa sottocute. In questo modo il midollo si espande, avremo leucocitosi periferica indotta dal farmaco
(50-80.000 globuli bianchi). La leucocitosi non dà sintomi. Al massimo è possibile avere un po’ di
splenomegalia. La milza si può gonfiare un po’. Per cui il donatore deve stare tranquillo. Questa
procedura fa sì che escano nel sangue periferico più cellule staminali. In questo caso non c’è bisogno
di ricovero. È però tipicamente caratterizzato da dolori ossei, perché il midollo spinge sulle ossa. Si dà
Tachipirina mattina e sera per 3-4 giorni. Per l’aferesi metto un ago nelle due cubitali per 3 ore. La
macchina prende il sangue, filtra i GB e li rimette nell’altro ago.
Le cellule staminali vengono date al paziente tramite una grossa vena e un catetere venoso centrale,
infuse da una sacca come infondiamo il sangue. Queste staminali nel sangue circolano, un 80%
muoiono e vengono filtrate dal microcircolo polmonare, che è un circolo a bassa resistenza. Ma ne
bastano poche che ritrovino la loro sede, la loro nicchia emopoietica nel midollo osseo e che si
fermino. Da qui daranno vita al nuovo sangue.
Dare linfociti T del donatore da questo punto di vista aiuta, perché favorisce un’immunoricostituzione
post trapianto (abbiamo già un’immunità) e poi favorisce l’attecchimento. I linfociti T del donatore
aggrediranno i residui. Sono i T che fanno immunità. I neutrofili non servono a niente in questo caso.
Consideriamo poi una cosa importante, di cui non è stato ancora chiarito il meccanismo con cui
avviene. Noi diamo questi T del donatore al ricevente. Chiaramente dovrò fare anche un po’ di
immunosoppressione, altrimenti avremo il problema della malattia del trapianto contro l’ospite. La
cosa interessante è che questa immunosoppressione, ad un certo punto, la posso smettere. E i T
del donatore che stanno nel sangue del paziente non fanno nulla, si comportano come quelli del
paziente prima. Cioè si forma tolleranza immunologica. Per qualche motivo è come se “capissero”
che quell’organismo è il proprio organismo, pur avendo la disparità HLA. Ma anche se fossero HLA
identici, dobbiamo considerare che gli altri organi rimangono quelli del paziente e potenzialmente
potrebbero essere riconosciuti come estranei.

Regime di condizionamento
(Non ci chiederà i farmaci: è una sottospecialità dell’ematologia)
Ricordiamo che ci sono dei regimi mieloablativi, che sono quelli inducono una ablazione completa
delle cellule staminali del ricevente e del sistema immune. Vengono fatti con alte dosi di radio e/o
chemioterapia. I trapianti con regime di condizionamento mieloablativo saranno complicati da un
basso rischio di rigetto immunologico. Il sistema immune del ricevente viene “fatto fuori”. Questo
regime aiuta ancora di più a controllare la malattia ematologica di base. Chiaro che se il paziente ha
una leucemia, facendo questa terapia molto aggressiva andrò con ogni probabilità a distruggere un
numero maggiore di cellule leucemiche. D’altra parte più sono intense radio e chemioterapia, più
metto a rischio di tossicità gli organi sani. Per cui questi regimi di condizionamento hanno un rischio
maggiore di mortalità trapianto-relata.
Esistono poi i regimi non mieloablativi e i regimi con intensità ridotta (c’è chi li considera insieme chi
separati, dal momento che si possono fare regimi mieloablativi ad intensità ridotta). Questi sono
regimi ad intensità ridotta di radio e di chemio, per i quali, per poter fare attecchire il trapianto, sarà
necessario dare tanta immunità del donatore che sovrasti l’immunità residua del ricevente. In ogni

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caso c’è una più alta incidenza di rigetto. C’è maggior rischio anche di chimerismo misto. Il
paziente trapiantato è una chimera. Se andiamo nel sangue e nel midollo e andiamo a vedere da chi
viene quel sangue e quel midollo diremo che:
- È full donor: è tutto del donatore
- È full host: è tutto del ricevente, il trapianto non ha attecchito
- È chimerismo misto: avremo un po’ di cellule del ricevente e un po’ di cellule del donatore. È questo
un qualcosa che non ci piace nelle leucemie, perché avere residui del ricevente vuol dire per la
leucemia avere spazio.
Chiaramente l’efficacia antileucemica è demandata in questo caso al sistema immune. Però in genere
si fa anche nel paziente più anziano.
Mentre nei trapianti d’organo abbiamo un evento immunologico classico, che è l’attivazione del
sistema immune del ricevente contro l’organo del donatore, che può quindi determinare rigetto, nel
trapianto di cellule staminali emopoietiche questo effetto è bidirezionale. Cioè, se non elimino
sufficientemente il sistema immune del ricevente, questo chiaramente potrà rigettare le cellule
staminali del donatore. Ma allo stesso tempo, se elimino completamente questo sistema immune, i
linfociti T del donatore possono attaccare il ricevente per le diversità in HLA e fargli sviluppare la
malattia del trapianto contro l’ospite. È una malattia immunologica che è indotta da un procedura
farmacologica vera e propria, come il trapianto, ma che può presentarsi anche in un bambino con la
SCID cui si fa una trasfusione di sangue, perché bastano pochi linfociti, non c’è niente che lo
contrasti. In qualche modo, come abbiamo detto, si sviluppa tolleranza, per cui l’immunosoppressione
non è mai per tutta la vita.
Mancato attecchimento e rigetto
Il mancato attecchimento è quell’evento per cui le cellule staminali del donatore alla fine, per problemi
di raccolta, di quello che succede al ricevente dopo l’infusione, muoiono per cause infettive. Quelle
che arrivano al midollo sono troppo poche per superare le barriere fisiche e per ripopolare il midollo
osseo. In questo caso non c’è attecchimento e persiste l’aplasia del midollo, specialmente se
abbiamo fatto un regime mieloablativo. Non ci sono segni di questo evento se non la persistenza
dell’aplasia midollare. È solo il mancato attecchimento nel tempo che ce lo segnala. Per ovviare a
questo problema bisogna spesso ricondizionare il paziente per fare più spazio e dare nuove cellule
per facilitare l’attecchimento.
Il rigetto immunologico vero e proprio è qualcosa di diverso. Sono le cellule immunitarie residue del
ricevente che agiscono contro le cellule del donatore. È una risposta immune vera e propria. I pazienti
trapiantati attecchiscono e possono anche raggiungere conte normali, ma nel frattempo si è montata
un’immunità T mediata ricevente contro il donatore che può disintegrare tutto. Quindi tipicamente il
paziente avrà globuli bianchi normali ma febbre elevata, livelli di LDH sierici molto elevati, rash
cutaneo diffuso. Tipicamente questo quadro clinico scompare nel giro di 24h, una volta che se ne
vanno i bianchi: è finito il tessuto da uccidere. In questi casi è ideale poter ripetere un
condizionamento, ma deve essere molto immunosoppressivo, perché vuol dire che il primo non è
stato sufficiente. Inoltre, idealmente, dovremmo infondere staminali da un donatore diverso perché
quel linfocita T si è sensibilizzato verso quell’HLA. Devo cambiare l’HLA altrimenti rischio un nuovo
rigetto.
Malattia da trapianto contro l’ospite (GVHD)
L’opposto, da un punto di vista immunologico, rispetto al rigetto, è la malattia da trapianto contro
l’ospite. In questo caso si ha una reazione immuno-mediata del donatore contro il ricevente. Affinché
questa avvenga, è necessario che:
• Noi diamo cellule immunologicamente competenti del donatore al ricevente.
• Il ricevente non sia in grado di montare una risposta immunologica, cioè che subisca e basta la
risposta immunologica.
• Ci sia un riconoscimento antigenico da parte delle cellule del donatore di antigeni del ricevente che
non sono presenti nel donatore, che quindi non siano visti come self.
Senza ciascuno di questi elementi non si avrà GVHD.

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Come avviene:
Dal punto di vista patofisiologico è dovuta al danno che causa il regime di condizionamento, che non
fa altro che favorire la produzione di chitochine infiammatorie e riattivare le cellule presentanti
l’antigene del ricevente, che ancora stanno nei tessuti. Poi arrivano i T del donatore che riconoscono
questi antigeni presentati dalle APC del ricevente e si attivano in maniera specifica contro di essi e
producono citochine infiammatorie (i T del donatore) che attivano una risposta immunitaria a tutti gli
effetti caratterizzata da CTL e linfociti NK, che a loro volta fanno morte cellulare e storm citochinico.
Noi distinguiamo una GVHD acuta da una GVHD cronica. La GVHD acuta storicamente si
distingueva dalla cronica perché si presentava prima di 100 giorni. La cronica invece dopo 100 giorni.
Non è più così. La GVHD acuta è comunque tipicamente molto più precoce. Può capitare dal
15esimo-20esimo giorno dal trapianto per i primi 2-3 mesi. La GVHD cronica può venire anche molto
tempo dopo, 6-10 mesi ma anche ad 1 anno dal trapianto.
Vedremo come esistono sindromi da overlap dove le caratteristiche cliniche delle forme acute si
sfumano su quelle croniche.
Chiaro è che, a seconda del trapianto, ci sono dei fattori di rischio correlati. Se faccio un trapianto
parzialmente compatibile rischio di più rispetto ad un HLA identico. Così come rischio di più se c’è
differenza di sesso. Gli anziani sono più soggetti a GVHD. Se non utilizzo profilassi adeguate metto i
pazienti a più alto rischio di sviluppare GVHD. La GVHD ha un’incidenza quindi estremamente
variabile.
È importante che ci ricordiamo che la GVHD non è altro che la manifestazione clinica di questa
risposta immunologica di alloreattività e che quindi, nel momento in cui io do un trapianto, posso
avere un numero di linfociti T alloreattivi (in grado di riconoscere il ricevente come nemico) di poca
quantità, che magari passa in maniera del tutto silente sul piano clinico, ma che magari è importante
per il controllo della malattia. Oppure ci sono quelle forme in cui si arriva ad avere segni clinici perché
c’è danno d’organo e per cui devo fare terapia immunosoppressiva e la sindrome passa. Ci sono
forme dove faccio terapia immunosoppressiva e inizialmente passa, poi smetto la terapia e torna. Ci
sono poi le forme completamente resistenti.
GVHD acuta
La GVHD acuta è caratterizzata da una triade clinica:
- Cute: rash infiammatorio che può arrivare fino a macule/papule rilevate e fino alla formazione di
bolle e epidermolisi nelle forme più gravi. C’è quindi scollamento tra derma e epidermide.
- Intestino: tipicamente si ha diarrea secretoria che nelle forme più gravi è anche sanguinolenta.
- Fegato: è un danno di tipo colestatico. I linfociti vanno nel versante portale, negli spazi portali, e
attaccano il biliocita, prevalentemente, e i dotti biliari intraepatici, determinando colestasi
intraepatica.
Nella GVHD acuta questa triade è tipica. Non ci sono segni neurologici, non c’è coinvolgimento
polmonare.
La diagnosi di GVHD acuta è puramente clinica. Mi basta sapere che il paziente ha fatto trapianto,
che ci stiamo nei giorni e che ha quella clinica per iniziare il trattamento. Il problema è che questa
clinica si sovrappone con tante altre potenziali complicanze. Ad esempio complicanze di tipo infettivo.
Anche una riattivazione virale può dare rash o enterite.
Non devono essere presenti contemporaneamente tutti e tre i danni d’organo per dire che c’è una
GVHD acuta. Per fare diagnosi ci si può aiutare con l’anatomopatologo: facciamo biopsie. Questo
perché tipicamente il target è quello epiteliale: c’è danno dell’epitelio intestinale, cutaneo, … Quindi
vedremo cellule che vanno in apoptosi, infiltrazione linfoide, lesioni specifiche del tessuto, ghiandole
assenti nel tessuto intestinale, … Ma queste non sono puramente specifiche. L’anatomopatologo può
solo suggerire.
Esistono dei grading (che non vuole che sappiamo a memoria). Sono grading che si stabiliscono a
seconda di quant’è l’estensione cutanea del danno, di quant’è il livello di bilirubina, di quanta è la
diarrea nelle 24h, …

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Si classificano in grado 1, 2, 3, 4, a seconda dell’entità del coinvolgimento d’organo. La cute in genere
è la prima di un trapianto convenzionale.
Chiaro è che la GVHD dipende anche da quanto siamo aggressivi noi nel prevenirla. Tipicamente
quando diamo linfociti T del donatore, siamo costretti a fare una profilassi della GVHD con farmaci
immunosoppressivi. Qui torna la ciclosporina o il tacrolimus di cui abbiamo parlato nella scorsa
lezione. È chiaro che più saremo aggressivi con la profilassi, meno GVHD avremo, ma avremo più
rischio infettivo e più rischio di recidive e viceversa. Se ho una leucemia ad alto rischio di recidiva
devo rischiare la GVHD. Se faccio un trapianto in un paziente non oncologico, se lo faccio in un
bambino con la SCID, io non voglio la GVHD. Devo fare un trapianto che abbia il più basso rischio
possibile di dare GVHD.
Non esiste nessun modo certo per prevedere se il paziente farà o meno GVHD, perché non ci sono
chiare associazioni tra gli HLA ancora. Per cui se io faccio 10 trapianti dello stesso tipo, 3 (esempio)
faranno GVHD e 7 no. Perché? Non si sa. C’è però un modo per modulare il rischio. Soprattutto
bisogna scegliere il trapianto adeguato. Se farò un trapianto T deleto, cioè dove togliamo i linfociti T
dall’inoculo del donatore, il rischio di GVHD sarà molto basso.
Se io faccio profilassi aggressiva facendo molta immunosoppressiva o ad esempio rimuovendo i T dal
trapianto, avrò meno rischio di GVHD. La tolleranza T di cui abbiamo parlato avviene in mesi, anni.
Per cui se faccio un trapianto aploidentico senza fare immunosoppressione, sicuramente avrò GHVD.
E non solo. Se do linfociti T del ricevente senza fare immunosoppressione è certo che quel trapianto
sarà letale.
Dopo aver fatto l’immunosoppressione (4-6-8 mesi a seconda di come sta il paziente), posso
cominciare a toglierla e piano piano il paziente si stabilizza perché sviluppa tolleranza, perché c’è un
ri-sviluppo della tolleranza centrale a livello del timo. I nuovi linfociti T del donatore hanno origine
timica dentro il ricevente e c’è un nuovo priming verso il self. Si riformano T reg del donatore verso
antigeni self del paziente. E questo succede nell’arco di mesi. Se io non prevengo l’attacco acuto,
questa tolleranza non si svilupperà.
Quindi è un gioco non facile da svolgere. E tanto sta nel lavoro del trapiantologo, nella gestione
dell’immunosoppressione.
Caso: paziente donna di 70 anni. Appena dimessa ha contratto il Covid (non aiuta nel post trapianto). Questa
paziente sta facendo terapia immunosoppressiva con tacrolimus, inibitore delle calcineurine. Ha un rash al collo
di lieve entità e non pruriginoso. Ha però una leucemia brutta, ad alto rischio di recidiva. La decisione qui è:
potenziamo l’immunosoppressione? Facciamo diagnosi di GVHD e aggiungiamo anche steroidi? Siamo ad un
mese e mezzo dal trapianto. O do tempo al sistema immune del donatore di eliminare il residuo leucemico?

È importante contestualizzare sul paziente e prendere la decisione che si ritiene migliore per
questo’ultimo.
Dei farmaci utilizzati per la profilassi dobbiamo ricordare i principali: ciclosporina e tacrolimus.
Come si tratta una GVHD acuta?
Se siamo al grado 1 possiamo ancora trattare topicamente. Se facciamo diagnosi di una GVHD acuta
di grado >/= 2, la terapia consiste in steroidi ad alte dosi. Questa è la prima linea.
Oggi c’è un farmaco approvato per la seconda linea, il Ruxolitinib. È un inibitore della via di JAK-
STAT.
In generale, si fa terapia immunosoppressiva forte per trattare la GVHD.
Ora, se io mi ritrovo a 20 giorni dal trapianto, faccio una tipizzazione linfocitaria ed ho ancora pochi
linfociti T ed ho una riattivazione virale e ho anche una GVHD e gli faccio steroidi, andremo a favorire
quell’infezione virale. Sta qui la difficoltà. La DD è molto importante e bisogna arrivare a capire cosa è
meglio trattare e cosa no.

Accanto ad una GVHD acuta che è una patologia di quei 3 organi, che si sviluppa nell’arco di poco
tempo, che è potenzialmente pericolosa per la vita, ma che può essere trattata in maniera aggressiva
in acuto, esiste anche una GVHD cronica.
GVHD cronica

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La GVHD cronica, dal punto di vista clinico, può prevedere le stesse cose dell’acuta. Non è altro che
una malattia alloimmune sistemica che ricorda molto più le malattie reumatologiche, come le
connettivite, e che può colpire, a differenza di quella acuta, qualunque organo e apparato. Avremo la
GVHD cronica dei reni, del cuoio capelluto, del polmone, …
È in partenza anch’essa T mediata, ma nella GVHD cronica c’è anche tantissima disfunzione B. Per
cui c’è presenza di alloanticorpi e alterazioni B mediate del sistema umorale. Questa forma ricorda
molto più quella di un lichen, con secchezza delle mucose e della cute e desquamazione. Abbiamo
tipicamente xeroftalmia, xerosi dei genitali, dispareunia, discronie cutanee. Poi, siccome può colpire
qualsiasi organo, ci può essere perdita di peso, anoressia, ci può essere danno epatico. C’è poi una
forma tipica della GVHD cronica, che è la bronchiolite obliterante con fibrosi e retrazione dei
bronchioli terminali. È una delle forme già gravi di GVHD cronica e che può, ancora oggi con una
certa frequenza, portare ad exitus il paziente.
La GVHD cronica è una patologia cronica. Questo vuol dire “aver fatto tanto per guarire la leucemia
ed aver ottenuto come risultato un invalido”. Quindi la dobbiamo evitare a tutti i costi.
Ancora oggi, nel mondo del trapianto, c’è una grande discussione per limitare tutto questo
mantenendo gli outcome positivi della malattia che vogliamo curare.
La GVHD cronica si sviluppa dalla acuta? Non sempre, ma può succedere. Una cronica può evolvere
da un’acuta o essere una cronica de novo. Molto frequentemente nel trapianto convenzionale storico
“Seattle style” (fatto ancora oggi nella maggior parte dei centri), dopo una GVHD acuta e sospensione
dell’immunosoppressione, si verifica la GVHD cronica. Questo vuol dire che la tolleranza non si è
stabilita così bene. Ci sono ancora degli epitopi non coperti da tolleranza.
Se all’esame ci viene chiesto: arriva un paziente da voi che ha fatto un trapianto un anno fa che
lamenta da 20 giorni un po’ di diarrea, che non riesce a mangiare, che ha perso 5 kg di peso, che ha
la bocca secca. Facciamo diagnosi di GVHD cronica. Forse iniziamo steroidi e vediamo se il quadro
clinico lo necessita. Dopo gli steroidi inizia ad avere dispnea da sforzo, coinvolgimento polmonare.
Allora potenziamo la terapia. Diventa un paziente con cui convivi tra immunosoppressione e
complicanze. Dobbiamo prendere in tempo la GVHD cronica prima che si abbia la complicanza più
temibile (bronchiolite).
Nel trapianto convenzionale la GVHD cronica ha una grandissima incidenza: 60-70% dei trapianti.
Non tutti sono chiaramente mortali, non tutti sono così gravi. Anche la GVHD cronica ha un grading.
Parleremo di GVHD mild, moderate, severe. Solo le forme moderate e gravi hanno bisogno di un
trattamento importante sistemico e sono quelle che vanno peggio. Le forme lievi sono molto comuni.
In genere si interviene con piccole soluzioni di tipo organo-dedicate (es: antinfiammatori cutanei,
genitali, …).
Importante quindi ricordare che anche il follow up a lungo termine nel trapiantato è importante.
Si stanno facendo studi multicentrici internazionali (molto difficili nel trapianto: altri costi) per ridurre al
minimo queste complicanze.
CarT = linfociti T ingegnerizzati contro il tumore. Tramite vettori virali inseriamo nel linfocita plasmidi
che gli fanno esprimere un TCR modificato in modo che aggredisca antigeni della cellula tumorale,
poi li espandiamo e glieli ridiamo. Questi linfociti T sapranno uccidere solo quelle cellule che
presentano quel recettore. Ci sono voluti più di 20 anni per metterla a punto. Nel 2011 i colleghi di
UPenn hanno infuso una bambina con una LAL con le carT ed è riuscito. La bambina è ancora viva
oggi.
Sui marcatori biologici diciamo solo che si sono fatte tantissime ricerche per cercare di identificare i
marcatori biologici di GVHD prima che questa si presentasse. Ci sono ancora studi che però non
hanno dato esiti certi.
Ancora oggi quando parliamo di immunoterapia cellulare noi possiamo ragionare sulla risposta
immunologica del paziente e possiamo modularla. Siamo degli attori principali e dobbiamo
considerare che ogni paziente e ogni malattia di questo paziente è diversa. L’approccio è molto
personalizzato e sta al medico. Ci sono poche certezze.
Facciamo un trapianto, c’è una diversità HLA e il mio trapianto sarà in grado di darmi una graft versus
leukemia. C’è un efficacia del donatore nei confronti della leucemia che dipenderà da tanti fattori:
dalla sensibilità della leucemia all’attacco immunologico, da quante cellule ho dato e dalla disparità
che c’è di HLA. Però potrà darmi anche una graft versus host disease (GVHD).

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Chiaro è che dobbiamo fare una profilassi. La profilassi però può ridurre entrambi gli effetti. Quindi
siamo oggi ancora di fronte a questa domanda aperta: possiamo prevenire la GVHD senza
aumentare il rischio infettivo e il rischio di recidiva?

Lezione 4
La leucemia acuta costituisce la principale indicazione al trapianto di midollo. In un paziente con una
nuova diagnosi di leucemia acuta vengono identificati quegli elementi genetici/prognostici, per cui
possiamo già sapere in partenza se si tratta di una forma ad alto rischio, che sicuramente recidiverà e
quindi sapremo già che sarà necessario fare il trapianto. Oppure potremmo aspettare e magari,
soprattutto in caso di basso rischio, potrebbe non essercene bisogno. In generale faremo una
chemioterapia, cosiddetta di induzione. La chemioterapia di induzione è quella finalizzata ad indurre
remissione completa. Cioè vogliamo far sì che la malattia non sia più visibile ai nostri occhi, cioè che
quella quota di cellule immature sia una quantità che rimane al di sotto della nostra capacità di
vederla. Faremo terapia di consolidamento, che serve a consolidare il risultato della terapia di
induzione. E, se la malattia non viene eradicata del tutto oppure se si tratta di una forma con
caratteristiche molecolari che la rendono molto incline alla recidiva, faremo il consolidamento
definitivo, che è il trapianto di midollo osseo. Se invece la malattia era a basso rischio e non è più
detectable, faremo trapianto solo se poi recidiverà. Nel frattempo, durante tutto questo iter, si andrà a
cercare un donatore compatibile per effettuare il trapianto. E ovviamente sarà necessario che il
paziente si trovi nelle condizioni di poterlo subire questo trapianto, quando e se ce ne sarà bisogno.
Il trapianto di midollo è una procedura che sfrutta, oltre che la chemio e la radioterapia, come
meccanismo antileucemico, anche il sistema immune di un soggetto sano che può riconoscere come
diverso e allogenicamente stimolante una leucemia. Quindi avviene quell’evento che si chiama
alloreattività e che prevede che i linfociti T del donatore riconoscano come diversa la leucemia del
ricevente e la attacchino. Qualora questa risposta fosse eccessiva o dovesse attaccare altri organi
sani, avremmo la malattia da trapianto contro l’ospite. E abbiamo visto che esistono una GVHD acuta
e una GVHD cronica. La GVHD è immunologicamente l’opposto di un rigetto. Il rigetto è ciò che
più comunemente si verifica nei trapianti di organo. Se, ad esempio, si fa un trapianto di polmone,
quest’ultimo verosimilmente non attaccherà gli organi sani, ma potrà essere attaccato dal sistema
immune del paziente. La GVHD quindi è tipica del trapianto di midollo ed è descritta solo in rari casi
nel trapianto di fegato. Questo perché il fegato può essere sede di emopoiesi extramidollare e perché
il fegato ha tanto sangue al suo interno, per cui sarà anche pieno di cellule immuni, di cellule T. È un
evento comunque raro.

Infezioni nell’immunocompromesso
È chiaro che noi saremo chiamati a valutare il paziente da un punto di vista dello status
immunologico. Ci dovremo chiedere se quel paziente potrà o meno essere considerato
immunodepresso. Non solo, dobbiamo anche capire dove si trova questo paziente, che farmaci fa e
se ne sta usando per prevenire certe infezioni rispetto ad altre. Prendiamo il trapianto. Il trapiantato
sta in nosocomio, quindi è a rischio di infezioni opportunistiche, che vengono dal suo organismo, ma
è anche a rischio di infezioni nosocomiali. Ed è un paziente in cui utilizziamo tanti farmaci per cercare
di ridurre questo rischio, alcuni più efficaci di altri. Quindi è l’insieme di queste informazioni che ci dirà
come quel paziente deve essere gestito, se con aggressività o meno.
Qual è il rischio di infezione nei diversi pazienti?
I bambini con SCID hanno altissimo rischio infettivo. Sono pazienti a rischio di vita per lo stato
immunologico del momento. Chi fa chemioterapia ad alte dosi è a rischio, così come lo è chi ha subito
trapianto d’organo da meno di 2 mesi, così come lo è un paziente HIV+ (< 200 CD4). Ma ancora lo è
chi fa cortisone con dosaggio superiore o uguale a 20 mg per più di 14 gg (stesso rischio di un
paziente HIV+). Ovviamente anche pazienti che ricevono terapia biologica con immunomodulatori
sono ad alto rischio. Vediamo come sono molte le categorie di pazienti che rientrano nello stato di
immunodepressione e che sono ad alto rischio di sviluppare infezioni.
Poi ci sono anche dei pazienti che non sono immunocompetenti perfettamente, che hanno rischio più
basso e che quindi dovremo attenzionare con una diversa aggressività. Ne sono un esempio HIV+
con conte di CD4 > 200, chi fa terapia steroidea a basse dosi ma per tanto tempo, chi fa farmaci
immunosoppressori blandi.

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Sulla base di ciò che abbiamo detto, perché il trapiantato è ad alto rischio di infezione?
1. Perché la malattia sottostante aumenta il rischio infettivo di suo: la leucemia, ad esempio, ci dà un
maggior rischio infettivo;
2. Perché prima del trapianto si fa immunosoppressione per poter effettuare il trapianto stesso;
3. Perché l’immuno-ricostituzione, a causa degli agenti immunosoppressivi o delle T-deplezioni, può
essere molto lunga e duratura;
4. Perché utilizziamo molti devices;
5. Perché possono comparire condizioni, come la GVHD, che hanno bisogno di una prolungata
immunosoppressione;
Quando parliamo di trapianto, la fase neutropenica è la prima che riconosciamo. Quando facciamo
facciamo il condizionamento (con chemio e/o radioterapia), tutte queste terapie indurranno danno
midollare e leucopenia. La fase neutropenica è molto pericolosa. I neutrofili sono fondamentali per la
vita quotidiana. Questa fase ha una durata limitata nel tempo: persiste fino a quando non avviene
l’attecchimento (a seconda del trapianto arriva tra i 10 e i 30 gg (non oltre i 30: un trapianto di cordone
in genere 30 gg, un trapianto in un adulto da sangue periferico/midollo di norma 10-15 gg) dopo
l’infusione: dipende dai farmaci, delle terapie utilizzate e dall’inoculo cellulare). Questa fase si ha
quindi nelle prime settimane, dal condizionamento all’attecchimento. È una fase molto
delicata,durante la quale il rischio maggiore sarà quello di infezione batterica, soprattutto da parte
dei commensali delle nostre mucose (tratto oro-gastro-intestinale). Quindi avremo streptococchi,
gram-, …
L’emocromo di questi pazienti recita leucopenia. Questi soggetti avranno 10, 20, 30 globuli
bianchi. Dopo il condizionamento i GB scendono a 0 e poi quando il trapianto attecchisce risalgono. È
chiaro che in questa fase non si avranno neutrofili, ma non ci saranno neanche i linfociti. La
chiamiamo fase neutropenica, perché in questo momento predomina, da un punto di vista clinico, il
rischio infettivo legato all’assenza dei neutrofili. Questo perché, affinché la linfopenia determini rischio
infettivo, ci vuole che questa sia più prolungata nel tempo. La leucopenia è molto marcata, ci sono
pochissimi GB. Poi abbiamo la fase linfopenica, che è quella che poi rischia di portare infezioni anche
mortali al paziente. La mortalità si associa prevalentemente alla fase linfopenica acuta. La fase
linfopenica, quella per cui il sistema immune del donatore si deve riespandere e raggiungere conte
di linfociti T (CD4, CD8) che garantiscano risposte immunologiche funzionali per controllare patogeni
virali, fungini da cui siamo colonizzati, richiede mesi. Non c’è una regola per la durata precisa, non
sappiamo quanti mesi saranno necessari. È fondamentale il modo in cui si fa trapianto in questo
senso. Se faccio un trapianto che mi dà una buona immunoricostruzione e ho già conte buone a 2
mesi, ridurrò questo rischio infettivo in questa fase. Se però arriva la GVHD e devo sopprimere di
nuovo andrò a riaumentare questo rischio.
Fase neutropenica
Esempio di domanda d’esame: paziente, giorno 2 dal trapianto, febbre elevata. Siamo in fase
neutropenica: GB 10/mm^3.
L’assenza di neutrofili è l’elemento chiave, ma non è l’unico. Abbiamo fatto radio/chemioterapia che
può dare danno d’organo, specialmente a livello delle cellule che proliferano. Quindi ci sarà danno di
barriera, ci possono essere cateteri. Noi facciamo campioni nel cosiddetto exit site (punto in cui il
catetere esce dalla cute).
Tappi di eparina: quando apriamo il catetere quel sangue che sta nel catetere lo mandiamo in coltura
per vedere se è colonizzato da batteri. Il catetere comunica direttamente con la VCS, per cui è un
punto di ingresso importante per microrganismi, che potrebbero andare in circolo. Chiaro è che senza
catetere il trapianto non lo faccio, perché c’è bisogno di tanta infusione, sia di cellule che di farmaci.
Però questo catetere deve essere gestito e curato in maniera attenta da personale adeguato.
Questi pazienti poi hanno fatto nell’arco della loro vita di malattia (e a volte di non malattia purtroppo)
tanta terapia antibatterica ad ampio spettro. Questo non fa altro che andare a selezionare alcune
popolazioni batteriche rispetto ad altre. È importante somministrare antibiotici solo dove necessario,
perché poi, nel momento di vera e grave necessità, l’antibiotico potrebbe essere un farmaco
salvavita. Senza antibiotici pazienti con queste diagnosi verrebbero persi tutti.
Principali problematiche (= le principali infezioni) del paziente neutropenico:

32
- batteriemia: da gram+/gram-
- mucosite erpetica: l’herpes simplex è uno dei primi virus che si riattiva, basta una minima linfopenia
per determinare la riattivazione (di norma ci vogliono pochi linfociti su tanti altri per mantenere il
virus silente).
- micosi invasiva (Candida (lievito) e Aspergillus (muffa)): i funghi richiedono per il loro controllo non
solo linfociti ma anche neutrofili
Fase linfopenica
Ci sono tanti fattori che incidono sulla durata e sull’intensità della linfopenia acuta. Tra questi rientrano
i farmaci linfotossici (es: ATG (siero antilinfocitario)), la profilassi da GVHD, ma anche caratteristiche
del trapianto, come una sierologia non protettiva nei confronti di virus come il CMV. A livello cronico
contano la GVHD cronica, l’immunità umorale, che spesso richiede molto tempo per ristabilirsi, il
recupero della funzione timica. Il recupero della funzione timica è importante. Quando infondo il
trapianto io do cellule staminali e T della memoria. Se però io faccio deplezione T ex vivo, cioè tolgo
queste cellule prima di infondere, le elimino del tutto. Se faccio deplezione T in vivo con farmaci le
elimino comunque. E in ogni caso le cellule che le sostituiscono fanno un’espansione periferica, si
rifanno cellule della memoria e queste controllano 4-5 agenti infettivi, ma non hanno nessuna
capacità di essere pronti per nuove infezioni. Hanno una memoria, ma non c’è un pool di linfociti T
naive selezionati dal timo che possano permettere una risposta immunologica contro un nuovo
agente. Questa cosa succede solo quando quei linfociti T che derivano dalle staminali infuse fanno
linfoblasti che poi finiscono nel timo. Se il paziente ha una certa età il timo è praticamente
completamente regredito. La quantità di tessuto è minima. Quindi la capacità di ricostituzione timica
post-trapianto è estremamente ridotta. Però sono quelle naive le cellule che ci danno un repertorio
pieno e capace di rispondere alle infezioni. Questa cosa in alcuni trapianti, a seconda di quali sono,
richiede mesi e mesi per poter avvenire. In alcuni casi addirittura non avviene mai (per i motivi che
abbiamo detto), per cui il paziente rimarrà immunodepresso per tanto tempo.
Questa è una lezione che abbiamo imparato dall’HIV. Abbiamo imparato che a seconda di quanto
abbattiamo la conta delle CD4 avremo certe infezioni piuttosto che altre. Già quando siamo al di sotto
dei 400 CD4 possiamo avere riattivazione erpetica. Quindi per gli Herpes è sufficiente una linfopenia
neanche così marcata. Per avere infezioni di altro tipo invece, come una pneumocistosi, dobbiamo
avere una linfopenia un pochino più importante. Per avere riattivazione da CMV o toxoplasma
dobbiamo avere una linfopenia molto importante.
Se sono stato infettato da CMV avrò tanti linfociti che lo tengono a bada. Ciò significa che devo
essere molto linfopenico per poter perdere tutti i linfociti che controllano questo virus e lo mantengono
in latenza. È una questione di frequenze patogeno-specifiche dei cloni T che riconoscono il CMV (in
questo caso) come patogeno.
Quali saranno le infezioni che possono capitare al mio paziente?
In fase neutropenica c’è un danno di barriera, ci sono pochi B e pochi T, c’è una asplenia funzionale:
avremo soprattutto infezioni da batteri sia gram+ che gram-. Possiamo avere già una riattivazione
erpetica tra i virus. Abbastanza precocemente si riattiva l’HHV-6 (dà la sesta malattia). Questo virus,
che nel bambino non dà particolari problemi, se non una febbre elevata e un rash cutaneo quando
questa cessa (solo rischio convulsivo per la febbre elevata), in un trapiantato si riattiva molto
precocemente e potrà dare qualsiasi tipo di danno d’organo. Normalmente però non è letale (il CMV è
molto più pericoloso). Le infezioni come la Candidiasi iniziano presto. Ci può essere anche
l’Aspergillosi (l’aspergillo rimane sempre nel nostro organismo ed ha bisogno di una buona conta
neutrofila e di buone frequenze linfocitarie).
In fase tardiva invece avremo patogeni a più alto rischio, come lo Pneumosystis. Noi facciamo
sempre profilassi in tutti i trapiantati per la pneumocistosi a partire dal 40esimo-50esimo giorno dal
trapianto dando un po’ di Bactrim a giorni alterni. Succede molte volte che interrompendo la profilassi
per aver raggiunto buone conte, questi soggetti sviluppino polmonite nel giro di un mese. Questo
succede perché le conte sono buone ma evidentemente non lo sono le frequenze.
Il problema dei batteri capsulati è più tardivo, in quanto si tratta di una problematica umorale e poi
questi patogeni non sono tutti commensali. Al paziente trapiantato, che raggiunge buone conte
linfocitarie, cui sospendiamo l’immunosoppressione, faremo di nuovo vaccinazione per tutti i vari
patogeni (ovviamente non vaccini vivi attenuati), quindi pneumococco, HPV, meningococco,

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Haemophilus, … per andare a “riacchiappare” quelle prime T naive e dare una memoria in quella
direzione. Faremo anche Ig specifiche.
Nella selezione del donatore non valutiamo solo come sta il donatore e le combinazioni che possono
promuovere o meno infezione, bisogna anche pretendere che questo donatore stia accorto ed eviti
qualsiasi circostanza possa metterlo a rischio di contrarre infezioni e poi creare problemi nel
ricevente. Si cerca di bloccare i viaggi del donatore a ridosso della donazione. Poi ci sono tutte quelle
infezioni che possono essere trasmesse durante la donazione e che hanno dato un impatto sulla
qualità di ciò che viene donato.

Torniamo alla fase neutropenica.


Neutropenia febbrile: febbre > 38°C per 2h o più
È una potenziale emergenza ematologica e immunologica. Clinicamente può essere solo febbre
oppure accanto alla febbre ci può essere brivido scuotente, calo di pressione arteriosa, tachicardia,
rallentamento motorio, perdita di coscienza, coma, shock settico. Nelle forme acute è evidente in
genere una marezzatura cutanea dovuta alla venodilatazione indotta dalle tossine batteriche.
Chiaramente poi ci sono sintomi collegati alla localizzazione d’organo. Ad esempio: se abbiamo una
batteriemia a partenza polmonare avremo desaturazione, polmonite. Il paziente va visitato “per
intero”.
Cosa si fa di fronte ad un paziente in fase neutropenica che sviluppa neutropenia febbrile?
Il paziente viene istruito subito a chiamare qualora uno dei sintomi sopracitati dovesse presentarsi. Gli
misuriamo la febbre a cadenza. Normalmente ogni ora e se abbiamo sospetti anche ogni mezz’ora.
Se sviluppa iperpiressia entriamo, prendiamo parametri vitali e facciamo subito emocoltura.
Preleviamo sangue immediatamente prima di iniziare qualunque terapia antibiotica. Chiaramente nel
caso, raro, in cui il paziente avesse i parametri vitali già al minimo dobbiamo prima rianimarlo.
Dobbiamo tenere conto del fatto che il quadro clinico si aggrava in poco tempo, anche nel giro di
qualche ora. È molto veloce di norma, anche se non tutte le batteriemie e non tutte le neutropenie
febbrili sono così veloci.
Una volta prese le emocolture iniziamo subito terapia antibatterica ad ampio spettro. Poi chiaramente,
se i parametri vitali sono alterati, interveniamo per ripristinarli: se c’è ipossia, diamo ossigeno; se c’è
ipotensione, diamo fluidi o se non bastano inotropi, …
Nella neutropenia batterica empirica il farmaco di elezione in prima linea ancora oggi è Piperacillina/
Tazobactam. Importante: si fa terapia in vena (non per os: perché almeno elimino il problema della
biodisponibilità e poi il paziente potrebbe avere problemi di assorbimento, potrebbe avere una
mucosite, …).
Normalmente si fa beta-lattamico+aminoglicoside oppure cefalosporina oppure carbapenemico. La
scelta dipende dall’epidemiologia locale, dal team medico, … Ognuno ha il suo approccio.
Se dopo 48h non ho miglioramento clinico e non ho isolato nulla dall’emocoltura (e quindi rimango in
empirico), shifto la classe antibatterica. Se, rimanendo in empirico, dopo 5 gg il paziente è ancora in
neutropenia febbrile, sono autorizzato ad iniziare una terapia antifungina ad ampio spettro,
tipicamente con Amfotericina B liposomiale. Questo farmaco di per sé è molto tossico, molto
nefrotossico ed epatotossico. Per questo motivo questa molecola è stata incapsulata in liposomi. Gli
acidi grassi (eccipienti) formano delle bolle con l’amfotericina all’interno. Verrà rilasciata gradualmente
per farla tollerare meglio, soprattutto dal rene.
Chiaro che se ho fatto le emocolture e queste, magari dopo 10h, risultano positive, nell’immediato i
microbiologi potranno farmi un Gram, potranno farmi un MALDI-TOF (per vedere le resistenze). A
questo punto aggiusto la terapia, che da empirica passa a mirata.
In genere, nonostante quanto detto, nella pratica si cerca di fare una terapia antifungina che, invece
che essere empirica, sia preventiva, cioè al segno clinico. Quindi faremo esami, come una TAC del
torace, per vedere se ci sono segni di infezione fungina. In questo modo possiamo stringere i tempi.
Chiaro è che se ci sono segni che mi dicono che il paziente è più probabile abbia un’infezione da
Gram+ (es follicolite da stafilococco), andremo a scegliere quella terapia antibiotica che riteniamo più

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adatta per quel paziente. Ovviamente qui conta l’esperienza e sicuramente conta molto anche
l’epidemiologia locale.
Profilassi
Si fa sicuramente profilassi nel trapianto. L’antifungina si fa sempre (obbligatoria), mentre per quanto
riguarda quella anti-batterica ci sono opinioni contrastanti, dal momento che ormai le resistenze sono
così diffuse che non c’è una terapia antibiotica di scelta.
Ci sono poi gli approcci addizionali: ambiente protetto, utilizzo di prodotti trasfusionali screenati per
patogeni, profilassi per la pneumocistosi, vaccini.

Parliamo ora di due infezioni, quella da CMV e quella da Aspergillus


CMV
Il citomegalovirus è un herpes virus. È universale. A seconda delle attitudini abbiamo una percentuale
di prevalenza di adulti infetti che è molto elevata. Vive con noi. La trasmissione è interindividuale ed
ha bisogno del contatto con una persona che elimina il virus per poter essere contratto (saliva, urine,
latte). Poi la trasmissione è anche trasfusionale e sessuale.
Quando parliamo di trapianto non temiamo tanto la prima infezione da CMV quanto la riattivazione di
questo virus. E che differenza c’è? C’è una grossa differenza, perché nel paziente
immunocompetente il CMV dà un quadro che può andare da una completa asintomatocità ad una
mononucleosi infettiva (febbre elevata, linfoadenomegalia generalizzata, angina). Invece nel paziente
immunocompromesso la riattivazione dà problemi più gravi. Può dare tantissimi quadri diversi, quali
epatiti, polmoniti, enteriti, gastriti, mieliti, … e questo perché il virus dormiente risiede
nell’endotelio. E gli endoteli stanno ovunque. Si ha una patologia da microvaso. Il CMV può passare
da una cellula endoteliale all’altra, senza finire nel sangue, quindi il sistema immune fa più fatica a
controllarlo. Però è vero che non integra solo negli endoteli. Può integrare, soprattutto nelle fasi attive,
anche nei leucociti. In particolare, è stato trovato nei neutrofili e nei linfociti. Può infettare quindi varie
cellule.
Quando sono in un trapianto le sierologie IgM e IgG non servono a nulla, perché se non ho linfociti B
e non ho immunità B, ho fatto terapia immunosoppressiva e sono in aplasia midollare, è chiaro che
non farò IgM anti-CMV. Allora oggi si fa PCR, si ricerca il DNA, in maniera quantitativa o qualitativa.
Oggi facciamo soprattutto PCR quantitativa, si fa real time-PCR. Si fanno più PCR nel tempo e vedo
la progressione. Quindi non ci dice solo se c’è o non c’è ma anche quanto. Questo “quanto” conta.
100 copie di CMV in genere le abbiamo tutti. Una microriattivazione di CMV può non essere
minimamente significativa e può non richiede trattamento, in assenza di clinica. Invece alte cariche
spesso devono essere trattate (anche se non sempre).
Il CMV può essere ritrovato anche nei tessuti bioptici.
Oggi lo trattiamo con Ganciclovir o con una seconda linea che è Foscarnet. Sono dei virostatici. Sono
dei farmaci scomodi. Il Ganciclovir in particolare è linfotossico, quindi capiamo che in un trapiantato
non ci aiuta se quei pochi linfociti che provano ad uscire li eliminiamo. Invece per quanto riguarda il
Foscarnet questo è molto nefrotossico.
Dal 2019 abbiamo a disposizione un nuovo farmaco, in indicazione per tutti i pazienti che fanno
trapianto di midollo: il Letermovir. Non è mielotossico né nefrotossico. Non è molto efficace in terapia,
ma lo è in profilassi. Quindi prima non esisteva profilassi anti-CMV perché i farmaci che si
utilizzavano in terapia erano troppo tossici per correre il rischio. Invece oggi con questo farmaco la
profilassi è possibile. Questo farmaco ha sconvolto l’incidenza di CMV pericoloso nel trapianto
precoce. È indicato nei primi 100 giorni del trapianto. Blocca la terminasi virale. Il virus quindi infetta,
cresce, fa il virione, ma nel momento in cui dovrebbe tagliare il DNA per integrarsi (con la terminasi)
quest’azione viene inibita. Quindi il virus si accumula nella cellula ma non la uccide e non va avanti.

Infezioni fungine invasive


Ancora oggi le infezioni fungine invasive hanno una mortalità tutt’altro che trascurabile. E mentre
l’aspergillosi polmonare è un po’ migliorata, la candidemia (si fa meglio profilassi) si associa con una

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mortalità ancora elevata. E così anche l’aspergillosi cerebrale ha una mortalità molto molto elevata:
muoiono quasi tutti.
Il trapiantato e l’HIV+ sono i bersagli tipici.
Un’infezione fungina invasiva è un’infezione fungina di un organo profondo o disseminata.
Non è la tinea corporis o l’onicomicosi, che sono invece localizzate.
Siccome isolare il fungo è molto difficile dagli organi sani, sono stati adottati dei criteri diagnostici che
ci distinguono le infezioni fungine invasive in possibili, probabili, provate. La certezza che lo sia c’è
solo nella provata, ma poiché provarla è molto difficile, non posso aspettare di provarla per salvare la
vita di quel paziente.
Andando in evidenza decrescente:
• La provata è quando ho dimostrazione del fungo in un campione istologico. Consideriamo la
polmonite da aspergillus, la più comune tra le infezioni fungine invasive dopo la candidemia, anche
se nel trapiantato è più comune. Facciamo la biopsia polmonare, mettiamo sotto microscopio,
facciamo il PAS per i funghi e vediamo le ife sul pezzo di polmone. Capiamo che però, per
dimostrare tutto questo, dovremmo fare una biopsia polmonare in paziente con polmonite, che
desatura, che non ha GB e non ha piastrine.
• La probabile è quando ho elementi del paziente, come neutropenia o fattori di rischio che ci dicono
che il paziente può fare infezione fungina + quando ho elementi clinici, come TAC positiva, fondo
dell’occhio positivo per possibile localizzazione fungina + quando ho elementi micologici, cioè
evidenza di fungo ma non in materiale sterile (es: in espettorato, in broncolavaggio, il
galattomannano nel sangue). Non sappiamo se questo fungo dà l’infezione fungina invasiva,
sappiamo solo che ce n’è tanto.
• La possibile è quando non vedo nulla del fungo ma ho criteri clinici e fattori di rischio del paziente.
Per trattare basta la possibile.
Mentre sull’incidenza di candidiasi siamo andati molto meglio utilizzando farmaci specifici arrivati sul
mercato, come le echinocandine, sulle incidenze dell’aspergillosi non si sta lavorando altrettanto
bene. Questo perché l’Aspergillus è una muffa ubiquitaria, sta ovunque. Ci sono specie più comuni
come il fumigatus, niger, flavis. Le spore fungine banalmente le respiriamo. Quindi se facessimo un
tampone nasale c’è una certa probabilità che ci sia qualche aspergillo. Chiaramente se non c’è
immunodepressione, questo non costituirà un problema. Anche l’aspergillo causare tante tipologie di
malattie e dobbiamo ricordare che si tratta di un patogeno angio-invasivo, cioè che mangia i vasi.
Vediamo quali sono le manifestazioni tipiche di un paziente con Aspergillosi polmonare invasiva. I
sintomi sono di solito non specifici. Sono in genere quelli di una broncopolmonite: febbre non
responsiva ad antibiotici, tosse con espettorato, dispnea, dolore pleurico in genere aumentato
dall’inspirazione profonda. Nelle forme più avanzate c’è emottisi, perché essendo angioinvasivo, può
“mangiare” i vasi del polmone.
L’aspergillo può disseminare e diffondersi ad altri organi e quindi dare anche lesioni epatiche,
cerebrali, con tutta la sintomatologia che ne consegue.
La diagnosi si fa con la biopsia, che ad oggi rimane il gold standard. L’utilizzo dell’espettorato o del
BAL come campione dipende dal tipo di paziente che abbiamo davanti. Questo si fa più spesso. Poi
su questi si può fare sia PCR sia il test del galattomannano sia fare l’esame colturale. Questo ci
permette di “trasformare” una polmonite fungina invasiva da possibile a probabile. Il galattomannano
si cerca poi anche nel sangue.
Non funzionano sempre. È lento a venire ma è anche lento ad andarsene.
Ci sono dei caratteristici elementi radiologici che possono essere indicazione importante di infezione
invasiva. Questi elementi sono:
- Noduli multipli diffusi bilateralmente: cosiddetto “halo sign”
- Segno dell’aria crescente
- Forme a vetro smerigliato

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Quindi abbiamo aspetti consolidativi.
L’emottisi, anche letale, si può avere anche dopo trattamento, quando va meglio, perché il fungo ha
fatto danno, si retrae e si rompe il vaso.
Il trattamento è con Amfotericina B liposomiale. Ancora oggi in realtà il trattamento, se abbiamo
sospetto di aspergillosi polmonare di indicazione A1, dobbiamo utilizzare il Voriconazolo o
l’Isoconazolo, due azoli molto potenti. La terapia alternativa è con l’amfotericina B liposomiale.

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Lezione 5
Per gli infettivologi, l’HIV è quello che per gli ematologi è stata la LCM.
HIV (= Human Immunodeficiency Virus)
Conosciamo la malattia da HIV relativamente da poco. È una patologia che all’inzio degli anni ’80
cominciava ad essere descritta in giovani adulti che prendevano polmonite. Tipicamente si trattava di
pneumocistosi.
L’HIV è un lentivirus che fa parte dei retrovirus. Esiste un HIV-1 e un HIV-2. Ha una grandissima
variazione genetica. Possiede una trascrittasi inversa che consente all’RNA virale di integrarsi al
materiale genetico dell’ospite. HIV-1 è più comune in Africa subsahariana e il più comune nel mondo.
AIDS (Sindrome Da Immunodeficienza Acquisita) = è la fase finale dell’infezione. È una sindrome
clinica.
La trasmissione in passato era imputata esclusivamente al contatto sessuale e all’iniezione di droghe.
Oggi esiste anche l’esposizione occupazionale (non del tutto trascurabile), le trasfusioni o i trapianti
(scomparsa alle nostre latitudini), la trasmissione materno-fetale (problema importante).
Il rapporto anale favorisce di più la lesione della mucosa cutanea, facilitando il contatto sangue-
sangue e rendendo più facile la trasmissione.
È chiaro che la possibilità di trasmissione è influenzata dalla quantità di materiale biologico cui si è
esposti, dalla fase di malattia del soggetto, dalla fonte di esposizione, dalla quantità di virus
circolante, dal paziente fonte e dal fatto che il paziente fonte sia o meno trattato con terapia anti-
retrovirale.
Tutti i pazienti HIV+ sono educati ad evitare la trasmissione. Il consenso è fondamentale. Si va per vie
medico-legali.
Il quantitativo di HIV nei diversi liquidi corporei è molto diverso: più di tutto c’è nel sangue, poi nel
seme, nei fluidi vaginali ed è praticamente assente nella saliva.
Il virus utilizza la Gp120 per legare il CD4. La Gp41 lega chemochine cellulari, fa la fusione e viene
rilasciato il virione. Poi la trascrittasi inversa converte l’RNA in DNA, il quale poi si integra nel DNA
delle nostre cellule. Si ha un trascritto nuovo. Poi si ha assemblaggio.
È un virus litico, che uccide. Ha come bersaglio principale i linfociti T CD4+, ma non è l’unico. Può
integrarsi anche in altri linfociti T, in monociti-macrofagi, in cellule presentanti l’antigene.
Fasi dell’infezione:
- Infezione acuta: arriva il virus, il paziente si infetta. Il paziente ha buoni linfociti. C’è un’infezione
virale in atto per cui si ha un primo blocco dei linfociti T CD4 e quindi un’espansione T CD8 reattiva
al virus e c’è sindrome simil-influenzale. Il virus dissemina, poi arriva la risposta T. La risposta T
controlla il virus. Il virus è immunogeno in sé, il problema è che il virus si distrugge eliminando le
cellule che lo ospitano. Ma se il virus dorme nelle nostre cellule linfocitarie CD4, il nostro sistema
immune si autoeliminerà.
- Latenza clinica: dopo il picco avremo tanti HIV dormienti nei T CD4, che ogni tanto si riattivano. I
CD8 intervengono e distruggono i CD4.
Alla lunga si verificherà un crollo della conta T CD4 e si va verso l’immunodeficienza.
- AIDS: l’immunodeficienza diventa AIDS solo nella fase finale, quando le infezioni opportunistiche
prendono il sopravvento. Avremo candidiasi disseminata, sarcoma di Kaposi, polmonite da
pneumocystis, toxoplasmosi cerebrale, …
Il paziente con AIDS muore di infezioni da patogeni opportunistici o di neoplasie secondarie a
riattivazione infettiva (es: Kaposi).
È importante ricordare che ci sono delle sierologie che noi normalmente utilizziamo per dire se il
paziente è o meno siero-positivo. Ma le sierologie (essendo sierologie) non sono positive dal
momento dell’infezione, sono positive nelle settimane successive al contagio. Le IgM hanno bisogno

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di settimane per farsi. Poi le IgG ce le abbiamo dopo almeno 1 mese. Il picco di IgG è a 3 mesi
(periodo finestra per IgG = 3 mesi). Ci vogliono 3-8 settimane per trovare gli anticorpi. All’inizio
troveremo solo l’antigene. Questo periodo è detto periodo finestra, perché, quando andiamo a fare le
sierologie per HIV, quel paziente risulterà infetto ma sieronegativo. Anche se non ci sono questi
anticorpi, il soggetto potenzialmente è contagioso. Per questo non ci accontentiamo di fare le
sierologie. Dobbiamo cercare l’RNA virale.
È evidente che la gravità della malattia è determinata dalla quantità di virus presente nel corpo e dal
grado di immunosoppressione. Più scende la conta CD4 più è grave.
Esiste una stadiazione, la stadiazione di Fiebig (della diagnosi) (6 stadi). È stata utile nella fase acuta.
Vediamo come le IgM compaiano solo nello stadio III. Nello stadio I c’è solo RNA-HIV virale. Poi c’è
l’antigenemia e compaiono gli anticorpi.
È importante ricordare che ci sono pazienti con rapido turnover, che quindi avranno una caduta
linfocitaria CD4 molto rapida. La malattia in questo caso è molto aggressiva. Ci sono invece delle
forme più lente che sviluppano sintomatologia nell’arco di 8-10 anni. Poi ci sono pazienti long-term
non progression, soggetti che pur essendo stati infettati, pur essendo sieropositivi, non vanno in
immunodeficienza. In alcuni di questi ci sono polimorfismi del gene del recettore che rendono più
difficile l’adesione del virus. C’è poi un 2-3% della popolazione sana che ha dei polimorfismi del
recettore per Gp120 tali per cui questi individui non possono essere infettati da HIV. Questo significa
che quell’individuo è sempre protetto dall’infezione.
Il paziente può essere classificato in fase:
- A: asintomatico che ha solo la fase simil-influenzale (linfoadenopatie diffuse, febbre, malessere
generale, come CMV e EBV)
- B: condizioni cliniche HIV-relate
- C: condizioni cliniche proprie dell’AIDS (che dipendono dalle conte CD4)
Non tutte le infezioni opportunistiche sono nell’AIDS. La candidiasi oro-faringea, lo zoster che
coinvolge più di un dermatomero, la listeriosi, la neuropatia periferica non sono patologie
problematiche. Non sono l'AIDS conclamato. L’AIDS conclamato è caratterizzato da infezioni
opportunistiche che possono portare il paziente a condizioni disseminate, a carcinomi, a sarcomi, a
linfomi (molto comuni: soprattutto quello cerebrale). Tra queste infezioni ricordiamo la criptococcosi, la
toxoplasmosi, che sono tipiche dell’AIDS.
L’infezione ha effetti diretti sia neurologici, sia ematologici (ci può essere anche pancitopenia), sia
gastrointestinali. Più rari i cardiaci, i polmonari e i renali.
Poi ci sono quelli indiretti, legati all’immunodepressione causata dal virus: le infezioni opportunistiche.
La terapia antiretrovirale serve a prevenire la replicazione virale, eliminare il reservoir, ripristinare il
sistema immune. Oggi è estremamente efficace. La conta CD4 è patologica < 500, ma ci
preoccupiamo se < 400. Siamo nell’AIDS se < 200. Quando le conte sono molto basse, è molto
difficile riuscire a far tornare indietro questi pazienti. Infatti mentre la terapia antiretrovirale è ottima
per controllare la viremia, quando c’è stato un danno a livello dei linfonodi e del timo con tantissima
morte di precursori anche nel midollo, è difficile che l’immunoricostituzione sia buona.
Oggi possiamo ragionevolmente pensare che in alcuni pazienti si possa addirittura ad un certo punto
interrompere la terapia.
L’HIV ci ha insegnato che ridurre le conte di CD4 significa avere prima un’infezione, poi un’altra, poi
ancora un’altra. Ci ha insegnato cioè quali infezioni possono presentarsi ad una certa conta CD4. Es:
il sarcoma di Kaposi non viene se ci sono 500 CD4. Questo è importante ed è stato estremamente
educativo. La pneumocistosi se abbiamo 300-400 CD4 stabili non viene, però magari con queste
conte iniziamo avere uno zoster recidivante. Tutto ciò dipende dalle frequenze del sistema immune
contro i patogeni.
Caso: arriva un paziente con quadro ematologico e febbre. Fa una TAC. C’è lesione da toxoplasma. Anamnesi
farmacologica, anamnesi familiare, esame obiettivo completo. Esami ematici tra cui sierologie e HIV. Va fatto a
tutti.

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Neutropenia autoimmune (AIN) (non c’è nelle sbobine)
Esistono anche autoimmunità anti-leucocitarie. Il paziente con neutropenia autoimmune è un paziente
cronico. Per parlare di questa condizione, dobbiamo prima parlare dei casi di neutropenia isolata.
Neutropenia = riduzione della conta assoluta dei neutrofili circolanti sotto il range di normalità
Nella popolazione caucasica la neutropenia ha un limite inferiore di 1000 (dalla seconda settimana
all’anno di vita) e di 1500/mm^3 (dopo il 1° anno fino all’età adulta). Parleremo di neutropenia:
- Lieve se neutrofili 1000-1500/mm^3
- Moderata se neutrofili 500-1000/mm^3
- Grave se neutrofili < 500/mm^3
Altre etnie, come quella africana ma anche tante etnie asiatiche, sono in genere più neutropeniche. Il
limite inferiore è molto più basso: 200-600/mm^3.
La neutropenia lieve è un riscontro di laboratorio, non è un problema clinico. La neutropenia
moderata, in presenza di alcune condizioni di rischio, può essere un problema clinico. Un problema
clinico lo è sempre la neutropenia grave, che dobbiamo temere. “< 500” è il nostro cut-off.
Ci sono tante cause diverse di neutropenia. Distinguiamo forme congenite e forme acquisite. Le
acquisite sono tante. Le cause sono infezioni, farmaci, tumori e patologie autoimmuni.
La neutropenia autoimmune è caratterizzata dalla presenza di autoanticorpi diretti contro neutrofili
che portano alla loro distruzione. Tipicamente è isolata, ma si può combinare anche con altre
autoimmunità verso GR o piastrine. Esistono forme transitorie, ma nella maggioranza dei casi è una
patologia cronica. Può avere varie entità e peggiorare nell’arco della vita e può avere andamento non
sempre costante. Gli autoanticorpi sono diretti contro molecole di superficie dei neutrofili. La
neutropenia autoimmune può essere primitiva (incidenza 1:100 000; la caratteristica tipica è il suo
essere isolata; è tipica dei bambini piccoli ma può evidenziarsi anche nei giovani adulti; lieve
prevalenza nelle femmine) o secondaria (tipica dell’adulto). Quest’ultima è secondaria ad altre
patologie autoimmuni come la celiachia, il LES, la sclerodermia ecc..., oppure a patologie
infiammatorie oppure ancora ad una forma di leucemia, il linfoma/leucemia a grandi linfociti granulari
T.
Patogenesi
Si hanno anticorpi contro antigeni specifici espressi sulla superficie dei neutrofili e/o
immunocomplessi legati ai recettori del tratto Fc dell’anticorpo (FcR). Questi anticorpi fanno sì che ci
sia agglutinazione e opsonizzazione dei neutrofili, i quali vengono eliminati da milza e fegato.
Possono poi determinare una distruzione complemento-mediata dei neutrofili e ancora rendere i
neutrofili difettivi nelle loro funzioni.
Come possiamo differenziare le forme primitive da quelle secondarie?
Possiamo guardare l’etnia, i farmaci, le infezioni, possiamo capire se ci sono sintomi che possono
ricondurre a patologie neoplastiche o a patologie autoimmuni (es: febbre, sudorazione notturna,
astenia) e dobbiamo fare un attento esame clinico, che sicuramente ci aiuta ad identificare
secondarietà. È molto importante fare uno striscio, perché questo ci permette di vedere se ci sono
precursori immaturi (leucemie), se c’è iperlobulazione (visto nel deficit di B12), se ci sono inclusi
cellulari (come in alcune infezioni).

La neutropenia autoimmune primitiva non è altro che una diagnosi di esclusione. Si definisce
come neutropenia con positività degli autoanticorpi antineutrofili in assenza di altre cause dimostrate
di neutropenia.
Quindi noi dobbiamo cercare questi anticorpi. Tuttavia questi test non sono così comunemente
disponibili. Inoltre sono test che non sempre sono positivi anche quando siamo di fronte ad una AIN
(come anche visto per le piastrine).
Esistono sia test diretti (= vediamo i neutrofili legati all’anticorpo; questo però è difficile da vedere
perché normalmente il neutrofilo si attiva quando lo andiamo a tirar fuori dal sangue, quindi c’è la

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degranulazione, e perché ci sono immunocomplessi. Si hanno sia falsi positivi che falsi negativi) che
indiretti.
Un test diretto positivo da solo ci dice poco. Il test indiretto è un po’ più affidabile. Prendiamo il siero
del paziente e lo leghiamo a neutrofili di altri soggetti che normalmente starebbero bene. Quindi
avremmo questo controllo, rispetto a sieri sani.
La sensibilità di questi test è del 62,5-74%, è bassa. Questo perché non esiste un test che copra tutti
gli antigeni di superficie per cui ci può essere autoimmunità.

Quindi se arriva da noi un paziente con:


- Leucociti = 1000/mm^3
- Hb = 13 g/dl
- Piastrine = 200.000/mm^3
- Formula leucocitaria: neutrofili 10% (= 100 neutrofili: conta assoluta), linfociti 70%, monociti 20%
Il paziente sta bene. Bisogna sicuramente escludere le secondarie, soprattutto se si tratta di un
paziente adulto. Faremo anamnesi, ricerca di infezioni, esame obiettivo, esami strumentali, anamnesi
per i farmaci (soprattutto). La prima causa di neutropenia isolata sono i farmaci. Va fatta poi
valutazione midollare per vedere se il midollo funziona, se la fabbrica funziona, se c’è
granulocitopoiesi. Poi se tutto è escluso e si trovano anche autoanticorpi anti-neutrofili, sarà
neutropenia autoimmune.
Terapia
Non esiste un trattamento che possa risolvere la situazione. Se uso gli steroidi possono aiutare a far
risalire un po’ le conte, ma questi non correggono completamente il problema. E non solo, mi danno
ulteriore immunosoppressione. E io ho un’immunodeficienza.
Spesso la granulocitopiesi c’è, gli autoanticorpi legano i neutrofili maturi, ma se non ci sono
abbastanza anticorpi per legarli tutti, molti riescono ad uscire nel sangue e riuscire a marginare. Non
è così grave come una neutropenia grave in cui c’è difetto di produzione. Però sono pazienti che
hanno un rischio infettivo importante.
Il paziente va seguito. Può rispondere molto transitoriamente al fattore di crescita, per fare più
neutrofili e superare il numero di anticorpi circolanti. Si deve intervenire con terapia antibatterica al
primo sospetto. Si fa terapia profilattica di fronte ad un intervento, di fronte ad un parto. Il rischio è per
infezioni prevalentemente batteriche.
Il monitoraggio nel tempo è molto importante.
Il rischio infettivo è minore rispetto ad una neutropenia indotta ad esempio da un danno midollare. Se
un farmaco riduce la produzione dei neutrofili, questa condizione sarà più pericolosa di una
neutropenia autoimmune, perché non ci sarà compenso. Nella AIN qualche neutrofilo c’è nel plasma.
Bisogna approcciare il paziente nel lungo termine, ridurre il carico infettivo e intercettare le diagnosi
mascherate.
Bisogna fare fattori di crescita per mantenere i neutrofili sopra a 1000 e per prevenire le infezioni. Si
deve fare antibioticoterapia (ma non profilassi (?)). Ovviamente dobbiamo vaccinare, perché la
funzione T di questi pazienti è buona.
Molte neutropenie autoimmuni sono associate ad eventi genetici che favoriscono autoimmunità.
Quando ho una neutropenia autoimmune studio anche il comparto linfoide, perché potrei essere
davanti ad un difetto genetico raro. Posso andare a cercare forme rare se compaiono elementi clinici
che si associano alla neutropenia.
Leucemia LGL (Large Granular Lymphocytes)
Leucemia cronica tipicamente indolente, con espansione di grossi linfociti con citoplasma abbondante
e alcuni granuli, tanto da non sembrare linfociti. Nella macchina di norma si ottiene come risultato:
cellule atipiche. È normalmente associata a neutropenia isolata. Queste cellule sono poche nel

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sangue, ma favoriscono una autoimmunità contro i neutrofili, con meccanismi ancora non ben chiariti.
E soprattutto inducono, siccome sono cellule resistenti all’apoptosi Fas-mediata, con un meccanismo
Fas-indotto, un’apoptosi dei neutrofili.
Sono forme rare, molto croniche, che però si trattano bene. Hanno prognosi buona.

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Lezione 6
Vasculiti a piccoli vasi
Le vasculiti sono un processo clinico-patologico caratterizzato da infiammazione e danno ai vasi. Il
lume del vaso è di solito compromesso e c’è ischemia a valle. Questo è il concetto di fondo. Possono
essere confinate ad un singolo organo, come la cute, oppure coinvolgere tanti organi. Le vasculiti
possono essere primitive ed essere l’unica manifestazione di patologia oppure secondarie ad un’altra
patologia.
A seconda delle dimensioni del vaso avremo delle forme cliniche diverse.
Le vasculiti dei piccoli vasi si distinguono in vasculiti ANCA-negative e ANCA-positive.
Nelle vasculiti dei piccoli vasi abbiamo questi eventi importanti:
- Formazione di immunocomplessi
- Presenza di anticorpi contro il citoplasma dei neutrofili (non sempre)
- Risposte patologiche T linfocitarie
L’elemento chiave è la formazione degli immunocomplessi. È evidente ormai che la deposizione di
immunocomplessi (anticorpo-antigene) sulla parete dei vasi sia l’elemento patogenetico chiave,
anche se non sempre è chiaro il perché questo avvenga.
Non sempre chi ha vasculite ha immunocomplessi circolanti. Non sempre avere immunocomplessi
circolanti è indice di vasculite.
I complessi antigeni-anticorpi che si formano per eccesso di antigene si depositano sui vasi, questo
richiama cellule infiammatorie con rilascio di amine vasoattive (bradichinina, istamina, leucotrieni) da
parte di piastrine, macrofagi, mastociti, con meccanismi favoriti dalle IgE. L’immunocomplesso
determina anche l’attivazione del complemento e in particolare la formazione del C5a (=
anafilotossina; molto importante contro i neutrofili). Queste cellule infiltrano la parete vasale per
fagocitare gli immunocomplessi e rilasciano enzimi tossici causando danno tissutale.
ANCA = anticorpi diretti contro certe proteine del citoplasma di neutrofili e di monociti. Sono presenti
in elevata percentuale nei pazienti con forme di vasculiti a piccoli vasi ANA positive come la
granulomatosi di Wegener, la poliangioite e la sindrome di Churg-Strauss (granulomatosi eosinofila).
Ne esistono 2 tipi: ANCA citoplasmatici (anticorpi che si trovano in tutto il citoplasma; tipicamente
sono diretti contro la proteinasi 3, una serina proteinasi) e ANCA perinucleari (sono solo intorno al
nucleo ma sempre nel citoplasma. Dopo colorazione danno un pattern perinucleare; il target è di
solito un isoenzima dell’elastasi(?)). La presenza degli ANCA favorisce, in caso di infiammazione, la
degranulazione e la produzione di specie reattive dell’ossigeno che causano danno.
Accanto alla formazione di immunocomplessi c’è anche la possibilità che ci siano risposte T-mediate
a livello della parete vasale, perché l’endotelio vascolare può esprimere delle MHC II e quindi far
attivare i T CD4 con produzione di citochine infiammatorie e adesione leucocitaria. Tutto questo
meccanismo non fa altro che darci quella forma che è la vasculite leucocitoclastica. È una vasculite
con immunocomplessi, danno vascolare e infiltrato infiammatorio misto (vari tipi di leucociti: linfociti T,
neutrofili, macrofagi). Avremo delle manifestazioni cliniche tipiche.
Se la vasculite interessa un grande vaso avremo problematiche, quali: asimmetria di polso,
infiammazione dell’aorta, ipertensione, claudicatio dell’arto. Se è in un piccolo vaso, si avranno lesioni
come uveiti, ulcere mucosali intestinali e soprattutto glomerulonefriti, ecc.
Tipicamente, se la vasculite interessa i piccoli vasi, abbiamo la porpora.
Porpora = lesione cutanea rilevata, palpabile, infiltrata, causata dallo stravaso dei globuli rossi dai
piccoli vasi che sono stati inclusi dagli immunocomplessi nella reazione infiammatoria. Siccome c’è
gravità, la porpora tende ad essere distale. Sono prevalentemente coinvolti gli arti inferiori.
Un’altra manifestazione clinica tipica delle vasculiti dei piccoli vasi è la livedo reticularis.
Livedo reticularis = pattern vascolare marezzato dovuto all’ischemia del letto capillare

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Ci sono tante condizioni che mimano le vasculiti a piccoli vasi. La prima fra tutti è la sepsi (c’è
venodilatazione, quindi la cute è marezzata; in alcuni casi c’è anche stasi ematica e microischemia),
poi abbiamo diverse patologie infettive, CID, tumori, malattia di Moschowitz, sindrome da anticorpi
antifosfolipidi.

Porpora di Schonlen-Henoch
È una vasculite a piccoli vasi caratterizzata da porpora palpabile, tipicamente distribuita sulle
estremità inferiori, a cui si possono accompagnare artralgie, disturbi GI e, alla fine,
glomerulonefrite.
È tipicamente una patologia pediatrica, che si ha dai 4 ai 7 anni, generalmente prevalente nel sesso
maschile.
È una vasculite da immunocomplessi IgA. A livello istologico è una vasculite leucocitoclastica, cioè si
ha un infiltrato infiammatorio che danneggia l’endotelio delle piccole venule e, se andiamo a fare
immunofluorescenza per IgA (anziché che ematossilina-eosina), troveremo positività per IgA attorno
al vaso danneggiato. Ci sono alcuni antigeni che possono scatenare la formazione
dell’immunocomplesso IgA. L’antigene scatenante può essere di origine infettiva, in particolare in
caso di infezioni del tratto respiratorio alto, ma può trattarsi anche di cibi, punture di insetto e in alcuni
casi di vaccini.
Manifestazioni cliniche (importanti da ricordare): porpora palpabile, artralgie, dolore addominale,
glomerulonefrite. In termini di maggiore incidenza abbiamo prima la porpora isolata, seguita dalle
artralgie, poi la gastroenterite e infine la glomerulonefrite. Non è una legge ma di solito è molto più
frequente la porpora rispetto alle artralgie, rispetto alla gastroenterite, rispetto alla glomerulonefrite.
Il problema più grave ma anche il meno frequente è la glomerulonefrite, perché può lasciare danno
renale a questi bambini. Solo il 5% dei bambini però sviluppa insufficienza renale grave tale da
lasciare esiti e necessitare del trapianto.
Le artralgie sono la seconda forma più comune di presentazione. Si riscontrano nell’84% dei casi, di
solito sono transitorie, non deformanti. Tipicamente sono a livello del ginocchio o della caviglia.
Il dolore addominale si ha nel 50% dei pazienti. È un dolore colico che tipicamente compare entro 7-8
giorni dallo sviluppo del rash purpureo. Si associa a danno mucosale (perché molto distale: è un
capillare dell’intestino) con possibile ulcera e emorragia GI. Nei bambini c’è rischio di
intussuscessione (cioè l’invaginamento di un’ansa dentro l’altra), che richiede intervento chirurgico.
Il danno renale si ha 20-50% dei pazienti. Ci può essere ematuria, cilindri, proteinuria da lieve fino a
range nefrosico (> 3 g/24h). Questo determina un danno renale che può essere lieve e transitorio ma
anche grave e permanente.
Questa malattia è comunque una vasculite sistemica, però i danni verso gli altri organi, diversi da
quelli visti, sono molto più rari.
Per fare diagnosi, ci deve essere la porpora e almeno uno tra gli altri 3 danni d’organo.
Per avere una diagnosi di certezza facciamo la biopsia, ma ci aiutiamo con le IgA sul siero e con
l’ecografia addominale. Nella biopsia si vedrà infiltrato infiammatorio e con l’immunofluorescenza si
mettono ben in evidenza la grande quantità di IgA.
La biopsia non è mandatoria. Si fa se la diagnosi è dubbia. Ma se il quadro è chiaro, si evita,
soprattutto perché si tratta di bambini. Però ricordiamo che è importante fare DD con vasculiti da
ipersensibilità, criglobulinemiche, infettive, lupus, artrite settica.
Essendo in genere autolimitante si fa una terapia di supporto (idratazione, riposo, antidolorifici). Poi
ricoveriamo se c’è sanguinamento, se c’è danno renale, se c’è dolore addominale importante, se c’è
un cambiamento dello stato mentale (es: sopore). Nelle forme più aggressive si danno steroidi, però
questi fanno un po’ paura perché si aumenta il rischio infettivo soprattutto a livello polmonare e
intestinale .

44
Vasculite crioglobulinemica
Crioglobulinemia = presenza di immunoglobuline circolanti monoclonali o policlonali che precipiano
a freddo, cioè a T < 37 gradi, e che consumano il complemento.
In questo caso sono le immunoglobuline stesse che precipitano. Le crioagglutinine sono quelle da
anemia immunoemolitica da anticorpi freddi. Queste sono crioglobuline. Poi chiaramente i due eventi
possono anche coesistere. Ma sono comunque due eventi diversi.
Le vasculiti crioglobulinemiche comprendono un gruppo di patologie sistemiche caratterizzate da
lesioni infiammatorie che interessano prevalentemente vasi di piccolo calibro con vasculite
leucocitoclastica. Abbiamo immunocomplessi circolanti che precipitano prevalentemente a freddo.
Possono avere un andamento cronico.
Ne distinguiamo 3 tipi:
- Tipo 1: c’è una componente monoclonale singola. Es: il linfoma linfoplasmacitoide può portare a
vasculite crioglobulinemica come complicanza. Di norma c’è componente M IgM, raramente IgG,
con vasculite associata. La precipitazione di immunocomplessi sulla parete dei vasi determina
l’attivazione del complemento. Si avrà un quadro molto simile a quello della porpora di S-H.
- Tipo 2: è mista monoclonale-policlonale. Non c’è solo una componente monoclonale ma anche
policlonale. Come la tipo 3, è tipicamente secondaria a linfomi, a malattie autoimmuni, a infezioni,
tra cui, la più importante l’epatite C. L’HCV fa danno epatocitario, attivazione policlonale dei linfociti
B, produzione di IgM policlonali o poi alla fine restringimento clonale fino ad una componente IgM
monoclonale. Se facciamo una elettroforesi potrebbe sembrare una MGUS, ma in realtà la
componente monoclonale è associata ad infezione da HCV. Poi queste Ig possono dare
immunocomplessi che possono portare, ad esempio, a danno vascolare con vasculite da
immunocomplessi. In alcuni casi possono dare crioprecipitati di immunocomplessi a livello
macrofagico.
- Tipo 3: è una forma mista policlonale, sia IgM che IgG. Non c’è componente monoclonale.
Associata a linfomi, HCV, malattie autoimmuni.
Nel caso delle vasculiti di tipo 2 e 3, principalmente si ha una secondarietà a infezioni. La tipo 2 è la
più frequente. Sono forme miste.
Noi possiamo avere in un paziente crioglobuline con o senza vasculite. Quando non c’è
vasculite, abbiamo delle condizioni pre-cliniche, le quali sono possibili, ad esempio, in presenza di
fattore reumatoide C4 e bisogna stare anche attenti ad un’eventuale infezione da HBV o HCV oppure
a un eventuale linfoma. Se non c’è la vasculite non trattiamo il paziente. Se c’è un linfoma che non
deve essere trattato, come un Waldenstrom in fase iniziale, non trattiamo. Trattiamo se arrivano la
porpora, le artralgie, l’astenia, il coinvolgimento epatico, il coinvolgimento renale, il coinvolgimento
cutaneo, …
Se facciamo un’istologia sarà evidente la vasculite.
Talvolta c’è vasculite ma non vediamo crioprecipitati. Bisogna andare a ricercarli ancora, non sono
così facili da isolare. È necessaria quindi una valutazione clinica attenta, andando a ricercare anche
l’eventuale presenza di infezioni, linfomi e patologie autoimmuni.

La manifestazione clinica tipica di una crioglobulinemia è definita triade di Meltzer:


- Astenia
- Artralgia
- Porpora palpabile ortostatica
Poi c’è un interessamento multi-distrettuale. Può essere molto acuta e molto veloce.
C’è anche una stadiazione. Si ha varietà A o B a seconda che la funzione renale sia normale o
alterata. Poi abbiamo stadio 1, 2 e 3, che si individuano basandoci su vari parametri (non gli
interessa).

CRYOKNO TEST: andiamo a vedere se il siero del paziente precipita o meno. È sempre siero. Si fa

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prelievo di sangue venoso e si mette prima a 37°C per 2h per farlo coagulare, poi a 4°C per 96h
affinché le crioproteine possano precipitare. I crioprecipitati sono detti criocriti, sono sottoposti a
lavaggio in 4 tempi e passano per immunoelettroforesi. Da che abbiamo fatto il prelievo a che
sappiamo che il paziente ha crioglobuline nel siero passa qualche giorno. Per cui è molto importante
affidarsi alla clinica e fare attenzione all’esordio.
C’è ipocomplementemia nel 90% dei casi. La cosa più comune è la riduzione del fattore C4. Molto
spesso c’è fattore reumatoide ad alto titolo. Possiamo trovare HCV. Se non è HCV di solito c’è HBV.
Terapia
La terapia è causale. È diretta verso la causa scatenante la vasculite. Tratteremo l’epatite, tratteremo
il linfoma, …
Dal 2018 abbiamo a disposizione un farmaco antivirale per la terapia dell’HCV che è eradicante.
l’epatite C è una malattia cronica e questo trattamento non può essere fatto sempre a tutti.
È molto importante dare Rituximab, anche in prima battuta, quando il quadro clinico è grave, anche
se non possiamo diagnosticare il linfoma, per bloccare e uccidere il clone B.
Gli steroidi sono riservati alle forme più gravi.
La plasmaferesi serve per rimuovere il criocrito. Bisogna tenere a caldo il paziente, chiaramente,
perché c’è precipitazione a freddo.
Durante le fasi asintomatiche non è necessario alcun trattamento.

Domanda d’esame: arriva un paziente che fa un farmaco, il paziente perde conoscenza. Come agiamo?

Ipersensibilità
= risposta immunitaria capace di danneggiare i tessuti dell’ospite e causare patologie specifiche,
cosiddette da ipersensibilità
Concetto di fondo:
- Stimolazione primaria con l’antigene —> IgM —> poi IgG
- Stimolazione secondaria —> picco di IgG
Abbiamo 4 tipi di ipersensibilità:
1. Ipersensibilità immediata
2. Ipersensibilità da anticorpi citotossici
3. Ipersensibilità da immunocomplessi
4. Ipersensibilità di tipo ritardato
Ipersensibilità di tipo I
Le allergie sono ipersensibilità caratterizzate da una risposta IgE. Un antigene che causa allergie è
detto allergene.
In un’ipersensibilità di tipo I a lavorare sono le IgE. L’antigene è tipicamente solubile e il meccanismo
di attivazione è mastocitario.
Ne sono esempi: rinite allergica, asma, anafilassi sistemica
Che cosa fa la differenza? La dose? No, la porta d’ingresso. Conta da dove arriva l’allergene. Se
inalo l’allergene avrò asma, rinite. Se ingerisco l’allergene, avrò vomito, diarrea. Se l’allergene passa
in circolo avrò anafilassi (es: farmaci, veleno dell’insetto che punge).
Quando c’è anafilassi, ciò che si verifica è edema, aumento della permeabilità vascolare, occlusione
tracheale, collasso circolatorio fino alla morte (shock anafilattico). Esempio: diamo una goccia del
farmaco, vediamo che il paziente perde conoscenza, va in ipotensione. Prendiamo i PV. Chiaro che

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se non c’è polso facciamo rianimazione. Mentre facciamo questo, la prima cosa da fare è
sospendere il farmaco. Poi diamo adrenalina, steroidi.
È causata da IgE che si legano alla superficie cellulare di mastociti e basofili. I mastociti sono in
prossimità dei vasi sanguigni e presentano granuli lisosomiali ricchi di istamina, eparina, enzimi
proteolitici, fattori chemiotattici, leucotrieni, prostaglandine. Abbiamo contrazione della muscolatura
liscia delle pareti bronchiali e si ha una reazione infiammatoria.
Le IgE sono prodotte dal tessuto linfoide al primo contatto con l’allergene. Quando c’è la seconda
esposizione all’antigene, questo si combina con le IgE che sono legate ai mastociti e queste
determinano, tramite Fc, la degranulazione.
C’è ereditarietà. Ci sono dei geni suscettibili a questi eventi. In particolare parliamo dei geni dell’IL-4 e
del complesso MHC II.
È un derivato del fatto che rispondevamo agli elementi intestinali infestanti che non potevano essere
fagocitati, perché più grandi dei nostri mastociti. E questi venivano eliminati tramite il rilascio di fattori
locali.
Come abbiamo detto, la sintomatologia dipende dal tipo di contatto con l’allergene.
Trattamento
Si fanno antistaminici, antinfiammatori, steroide lento. Si danno anche iniezioni di antigene specifico
che va in competizione con quelle IgE.
Ipersensibilità di tipo II
È un’ipersensibilità citotossica mediata da anticorpi che legano antigeni di superficie delle cellule
dell’ospite. È il tipo di ipersensibilità che si ha nella risposta immunitaria verso alcuni farmaci, dove
questi farmaci si legano alle membrane cellulari, normalmente dei macrofagi, e gli anticorpi che si
formano provocano la rimozione di queste cellule. L’esempio tipico è la PTI, anticorpi contro le
piastrine. L’anemia emolitica autoimmune è un altro esempio. E ancora la trasfusione di sangue
incompatibile, la tiroidite, il morbo di Graves, l’anemia perniciosa.
(da rivedere)
Ipersensibilità di tipo III
È quella da immunocomplessi. In questo caso non è il macrofago che mangia la cellula, ma è
l’immunocomplesso che si deposita, che richiama la risposta infiammatoria che causa danno
d’organo. Le vasculiti da immunocomplessi sono l’esempio classico. Ne sono altri esempi la
glomerulonefrite post-streptococcica e il LES.
Ipersensibilità di tipo IV
In questo caso la patogenesi è da imputarsi a linfociti T citotossici sensibilizzati per un antigene. Per
questo avviene in “ritardo”. Si manifesta almeno 24-48h dopo la stimolazione. Tipico esempio è la
Mantoux, ma anche la dermatite da contatto. È una risposta di tipo cellulo-mediato.

Vaccini
La terapia vaccinale ha sconvolto il rischio infettivo. Ha determinato aumento della sopravvivenza di
fronte a patologie altrimenti letali.
Immunità passiva = sono gli anticorpi materni (IgG e IgA) tramite passaggio attraverso la placente
(solo IgG) e poi tramite il latte (prima IgG e IgA poi solo IgA). È immunità passiva anche la
sieroprofilassi.
La terapia sostitutiva per le immunodeficienze con anticorpi è un esempio di immunità passiva. Un
soggetto che è esposto a una malattia che può causare complicazioni immediate, in cui quindi non c’è
tempo di fare immunità attiva, necessita, nel frattempo, di immunizzazione passiva. Es: tetano in un
non vaccinato.
Immunità attiva = è quella che ci dà l’infezione ed è quella che ci dà il vaccino, il quale mima
l’infezione, senza portare i danni ad essa connessi.

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L’immunità passiva non stimolerà il sistema immune, non c’è presenza di cellule della memoria. Il
rischio è che l’epitopo dell’Ig sia riconosciuto come attivante e che quindi si crei un’immunità attiva
contro quelle Ig, che ci sia allergia, che ci siano reazioni di ipersensibilità.
L’immunizzazione attiva la facciamo con le infezioni naturali o con i vaccini. In questo caso c’è una
proliferazione B e T che risulta nella formazione di cellule effettive e di cellule della memoria. La
formazione delle cellule della memoria è la base degli effetti, che possono essere più o meno a lungo
permanenti, della terapia vaccinale.
È chiaro che ci devono essere principi di fondo della terapia vaccinale:
• Specificità antigenica
• Elementi che distinguano dal self
• Cellule effettrici che possano dare questa risposta
• Il vaccino deve dare protezione al di là degli altri metodi di terapia che possiamo avere
Da un punto di vista tecnico noi possiamo fare vaccini in tanti modi e ci sono tantissimi elementi che
possono interferire con la terapia vaccinale.
Cosa succede quando vaccino:
Faccio il vaccino —> c’è infiammazione —> c’è drenaggio linfoide —> c’è riconoscimento
dell’antigene vaccinato —> si fa memoria immunologica
Se io faccio vaccino sul braccio, la crescita di linfonodi dell’ascella è perfettamente normale. È segno
che la risposta immune sta avvenendo.
I meccanismi effettori stimolati dal vaccino sono:
- Anticorpi che prevengono e riducono l’infezione da parte di agenti extra- e intracellulari ed
“clearano" patogeni extracellulari legando i siti attivi enzimatici di tossine o prevenendo la loro
diffusione. La risposta anticorpale è molto importante. Gli anticorpi neutralizzano la replicazione
virale, prevenendo il viral binding, in modo che i nuovi virus non entrano nelle cellule e promuovono
la fagocitosi opsonizzata da parte dei macrofagi. Sono tutti meccanismi di prevenzione
dell’infezione. Quando invece si parla di linfociti T, non si previene, si riduce.
- Linfociti T: uccidono direttamente o indirettamente le cellule infettate.
Se io faccio il vaccino per il Covid, il virus lo prendo. Ma se ho fatto anticorpi, avrò una riduzione della
capacità da parte del virus di entrare nella cellula e avrò i T citotossici che, appena le prime cellule
sono state infettate, elimineranno quelle 3-4 cellule della mucosa, dando luogo ad una sintomatologia
ridotta, prima che il virus si diffonda. Le CD4 producono citochine stimolanti il sistema immune che
indirettamente favoriscono l’eliminazione del patogeno. Inoltre favoriscono la memoria B.
Tipologie di vaccino:
- Vivo attenutato
- Tossine
- Acidi nucleici: c’è la sintesi dell’antigene indotta dal mRNA che abbiamo inoculato
- …
Ci sono tanti modi di vaccinare.
I vantaggi della vaccinazione sono:
- La memoria immunologica
- L’immunità di gregge: questo vale soprattutto per i pazienti immunodepressi
- La prevenzione infettiva
Ci sono poi altri effetti non specifici che sono oggi oggetto di studio. La terapia vaccinale ha fatto sì
che si siano verificati dei cambiamenti epigenetici nella risposta del sistema immune che quelle

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infezioni magari determinavano, che hanno portato ad una riduzione di cause di mortalità non dirette
e nemmeno legate all’infezione stessa.
È chiaro che ci sono fattori che colpiscono l’immunità di gregge, come fattori ambientali. L’immunità di
gregge ha fatto scomparire il vaiolo.
Ci sono tanti fattori che influenzano la capacità di rispondere ad un vaccino:
- Età
- Tipo di vaccino
- Livelli anticorpali
- Dose
- Posto in cui il vaccino si fa
- …
Quali sono le problematiche della terapia vaccinale? (Vuole che lo sappiamo)
Gli effetti collaterali comuni ce l’hanno quasi tutti:
• Dolore nel punto di iniezione
• Possibile febbre
• Malessere generale
• Linfonodi ingrossati
• Mal di testa
È una risposta infiammatoria, c’è rilascio di citochine infiammatorie. È del tutto normale. Non è un
effetto tossico. È tecnicamente “voluto”.
I vaccini sono molto difficili da effettuare in pazienti con immunodeficienza e sono anche molto meno
efficace in questi pazienti.
Gli effetti collaterali gravi sono più rari:

• Anafilassi: principalmente dovuta agli eccipienti


• Vasculiti: indotte da anticorpi
• Ipersensibilità: indotta da anticorpi o cellulo-mediata
• Cross-reazioni: danno luogo a complicanze rare dovute ai singoli vaccini. Es: Astrazeneca. Il
vettore virale (del vaccino) determina una risposta immune che cross-reagisce con una proteina
importante nella coagulazione e questo ha determinato trombosi venose in una piccola percentuale
di giovani donne. Il problema è stato che, siccome è un effetto molto raro, è stato scoperto in
farmacovigilanza, nella fase 4 dello studio. Es: sindrome di Guillain Barré: neuropatia assonale
acuta che è post-infettiva, ma può essere anche post-vaccinale. C’è sempre una cross-reazione.
Gli effetti off target nell’immunodeficiente possono dipendere dalla disseminazione del virus vivo
attenuato. Questo infatti non si fa nell’immunocompromesso. Non c’è il controllo da parte del sistema
immune.
Se io ho un paziente con patologia autoimmune in atto, che magari è pauci- o asintomatico, faccio il
vaccino, anche questo vaccino, come l’infezione, può determinare un’esacerbazione se la patologia è
infiammatoria.
Es: sclerosi multipla. Faccio un vaccino che stimola risposta T mediata. Posso avere un sintomo
neurologico, ovvero posso riesacerbarlo. Non è il vaccino colpevole in sé. È la situazione del paziente
che di per sé è patologica. Ma chiaramente sta al medico decidere se e come effettuare un vaccino.

Checkpoint inhibitors e car-T: farebbero parte del programma ma non le ha spiegate.

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