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I SERVIZI DI PAGAMENTO

Il recesso di pentimento può essere assimilato all’art. 1520 cc.

La prima disciplina dei servizi di pagamento è stata dettata dalla disciplina del 1997 sui bonifici
transfrontalieri, abrogata 10 anni dopo dalla c.d. PSD (payment services directive), a sua volta
sostituita nel 2015 da una versione aggiornata che ha preso il nome di PSD 2 che è quella oggi
vigente.
I pagamenti elettronici ovviamente pongono rischi per la sicurezza, nonché nuovi prestatori di servizi
rispetto a prima (cioè solo le banche).
La PSD I e poi II sono state attuate in parte mediante un apposito decreto legislativo (n. 11/2010) e
in parte nel TUB. Sebbene la disciplina della PSD/PSD 2 sia di carattere generale, e quindi applicabile
a tutti i clienti delle banche e degli altri prestatori di servizi di pagamento - che si tratti di imprese o
di consumatori (n.b.: finora abbiamo parlato di direttive applicabili soltanto ai consumatori, adesso
no) – c’è comunque una differenza importante perché la disciplina è inderogabile nei confronti dei
consumatori mentre quando il cliente della banca o di un altro prestatore di servizi è un’impresa le
disposizioni della PSD 2 sono derogabili e quindi il contratto può stabilire diversamente. Si specifica
poi che le microimprese devono essere trattate al pari dei consumatori.

Che cos’è l’operazione di pagamento? Secondo la PSD 2, è l’atto disposto dal pagatore o per suo
conto o disposto dal beneficiario di collocare, trasferire, o ritirare fondi indipendentemente da
eventuali obblighi sottostanti tra il pagatore e il beneficiario.
Quindi è un trasferimento di fondi. La PSD 2 disciplina semplicemente il pagamento, cioè appunto
indipendentemente da eventuali obblighi sottostanti, non si preoccupa di stabilire se quel
pagamento sia dovuto, non entra nel merito di eventuali controversie sulla qualità del bene ad
esempio. È possibile che un’operazione di pagamento sia disconosciuta o contestata dal pagatore
perché non ha ricevuto ciò che aveva diritto o si aspettava di ricevere, ma questo non è un problema
della PSD, che si occupa solo del passaggio di denaro. L’allegato I alla direttiva fa un’elencazione dei
servizi che la direttiva disciplina (si va dai tradizionali bonifici bancari fino a forme molto evolute di
pagamento elettronico tramite i wallet ad esempio). La direttiva non disciplina invece i pagamenti
in contanti, e questo perché la PSD 2 disciplina sempre l’operazione di pagamento che è eseguita da
un prestatore di servizi di pagamento (semplicisticamente, una banca, ma non solo), cioè un
intermediario (o meglio due, uno per il pagatore e uno per il beneficiario) che esegue il servizio tra
il pagatore e il beneficiario. Quindi per definizione i pagamenti in contanti non c’entrano.
Non rientrano nemmeno i titoli di credito (assegni bancari, assegni circolari, o altri titoli cambiari).
Chi sono i prestatori di servizi di pagamento? Anzitutto le banche, cioè gli enti creditizi, ma anche gli
istituti di moneta elettronica, uffici postali, istituti di pagamento (es. paypal), la BCE e le banche
centrali nazionali e gli stessi Stati membri.
Il concetto di moneta elettronica: la memorizzazione di un valore monetario che rappresenta un
credito nei confronti dell’emittente che ha precedentemente ricevuto i soldi.
La PSD 2 incoraggia il fatto che non necessariamente il prestatore che emette lo strumento è il c.d.
prestatore di radicamento del conto. Es. si può avere una carta american express e la si può poggiare
presso un conto aperto con intesa sanpaolo. Quindi abbiamo una banca come prestatore di
radicamento del conto e poi l’emittente della carta che è un altro prestatore. Questo è incoraggiato
perché incentiva la concorrenza.
La PSD 2 in particolare ha riconosciuto una nuova categoria di prestatori di servizi di pagamento che
si chiamano Third Party Payment Services Providers (TPPs). È il caso di molti servizi di wallet, ossia
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servizi di pagamento nel commercio elettronico mediante un software che fa da ponte tra il sito
web del commerciante e la piattaforma di online banking della banca del pagatore per disporre dei
pagamenti via internet sulla base di bonifici. Quindi fanno da ponte tra due banche. Si parla di servizi
di disposizione di ordine di pagamento, che hanno la funzione di dare subito riscontro al
commerciante del pagamento affinché possa immediatamente provvedere. Una seconda tipologia
di TPPs riguarda i servizi di informazione sui conti: sono informazioni aggregate su uno o più conti
di pagamento detenuti presso uno o più altri servizi di pagamento. Quindi non fanno da interfaccia
nell’eseguire l’operazione di pagamento ma svolgono una funzione di informazione.
Proprio perché nella realtà attuale dei servizi di pagamento spesso è un terzo che entra e dispone
l’ordine di pagamento, la direttiva, che vuole sempre più libertà di impresa, pone il principio che la
banca non può impedire ciò.

La direttiva sui servizi di pagamento distingue il contratto quadro dalle singole operazioni. Il
contratto quadro disciplina i termini e le condizioni appunto dei servizi di pagamento, e per i servizi
più tradizionali è proprio quello di conto corrente bancario (è quasi per definizione un contratto
quadro). Esso, infatti, stabilisce in via preventiva le condizioni per l’esecuzione di tante operazioni
diverse. Tuttavia, mentre la natura del contratto quadro è relativamente sicura, nel senso che si
tratta indubbiamente di un negozio giuridico che è appunto disciplinato dagli artt. 126-bis e ss del
TUB, per quanto riguarda invece le singole operazioni è controverso se esse a loro volta
costituiscano singoli contratti sotto la cornice del contratto quadro o se si tratta di semplici
comportamenti materiali di esecuzione di un solo contratto che è appunto quello normativo detto
contratto quadro.
Questo dubbio è importante perché se le operazioni sono contratti allora si deve applicare tutta la
disciplina del contratto bancario o finanziario, e i singoli ordini di investimento o disinvestimento
devono soddisfare ad esempio il requisito della forma scritta.
Se adesso esaminiamo i contenuti delle disposizioni della PSD 2 troviamo anzitutto regole di
informazione. Trasparenza contrattuale e correttezza nei confronti della clientela si ottengono
tramite la divulgazione di informazioni. Il diritto privato europeo distingue tra le regole di
informazione per il contratto quadro e per le singole operazioni. In entrambi i casi è fondamentale
ricevere un quadro informativo.
Per quanto riguarda il contratto quadro, le regole di informazione devono essere date
preventivamente, cioè prima che il contratto sia vincolante, e in qualsiasi momento il cliente può
richiedere una copia cartacea del contratto. Questi obiettivi di politica del diritto espressi nei
considerando sono stati attuati dagli artt. 51, 52 e 53 della PSD 2.
Poi abbiamo le regole di informazione che riguardano le singole operazioni che si distinguono in
informazioni che devono essere date prima dell’esecuzione ed informazioni che devono essere date
dopo l’esecuzione.
Notiamo quindi un copione consolidato del diritto privato europeo: regole di informazione in senso
lato che si suddividono in doveri di informazione dell’intermediario per alcune informazioni verso il
cliente in forma scritta o su altro supporto durevole e in diritto di recesso (che facciamo comunque
rientrare nelle regole di informazione, perché le informazioni possono essere veicolate in forma di
duty of disclosure e in diritto di recesso). Esso serve infatti per consentire al cliente di avere qualche
giorno ulteriore dopo la stipula per raccogliere informazioni sul contratto che ha appena stipulato.
È una finestra ex post che il diritto europeo dei contratti apre rispetto al diritto nazionale (secondo
cui tipicamente ci deve pensare prima, dopo la stipula il contratto ha forza di legge tra le parti).
Bisogna distinguere il diritto di recesso dal contratto quadro e il diritto di recesso dalla singola
operazione di pagamento: un conto è chiudere un conto corrente e cambiare banca, che
generalmente è sempre possibile (per entrambe le parti???), in qualsiasi momento (a meno che non
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sia previsto dal contratto stesso un periodo di preavviso che non può essere superiore a 1 mese),
un conto è il recesso dalle singole operazioni, dove i margini sono molto più limitati, vale il principio
opposto di irrevocabilità, perché si comprometterebbe troppo la fiducia da parte della controparte.
Quindi il recesso come diritto potestativo generale è riconosciuto rispetto al contratto quadro.
Abbiamo poi all’art. 118 TUB l’istituto dello ius variandi, cioè il diritto dell’intermediario di
modificare unilateralmente il contratto. In tutti i contratti bancari finanziari e assicurativi è
riconosciuto questo diritto perché dipendono fisiologicamente dall’andamento dei mercati e
considerando che sono contratti a tempo indeterminato che durano a lungo nel tempo in genere.
L’art. 54 PSD 2 disciplina lo ius variandi in particolare con riguardo al contratto quadro della
prestazione di servizi di pagamento. Anche questo è un diritto potestativo come il diritto di recesso,
ma non arbitrario, può essere esercitato se sussiste una giusta causa o un giustificato motivo
(soggettivo o oggettivo).

Veniamo ora alla singola operazione di pagamento. Il principio è opposto, l’art. 64 par. 3 PSD 2 dice
che il consenso dato alla singola operazione di pagamento può essere revocato dal pagatore in
qualsiasi momento ma non oltre il termine di irrevocabilità. Qual è questo termine? Il termine è
determinato dal momento in cui il prestatore di servizi di pagamento riceve l’ordine di pagamento,
cioè in caso di mezzi elettronici è istantaneo. La revoca può avvenire dopo solo se c’è il consenso di
tutti (par. 5). Nella prassi bancaria questo è quello che si chiama recall e lo deve fare la banca del
pagatore.

Cominciamo adesso a parlare dell’altro grande tema della PSD 2, e cioè l’aumento dei rischi di
sicurezza che l’uso di strumenti elettronici di pagamento ha determinato. È quindi il tema
dell’autenticazione delle singole operazioni di pagamento.
I rischi non sono per il contratto quadro ma per l’autorizzazione delle singole operazioni.
L’espressione ‘autenticazione forte del cliente’ (SCA) è il fulcro della materia e sta a metà tra diritto
e tecnologia. Proprio per questa ragione la PSD 2 su quest’argomento è stata integrata da un
regolamento delegato emanato dalla commissione europea per prevedere gli standard tecnici.
Infatti, è stato scritto e predisposto dall’EBA (European Banking Authority). Al centro di questo
regolamento delegato troviamo il concetto di SCA.

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L’autenticazione forte consiste nell’utilizzo di almeno due fattori per l’autenticazione. Quando il
prestatore di servizi di pagamento riceve un ordine di pagamento deve verificare che quell’ordine
sia regolarmente autenticato, e cioè che chi l’ha impartito si identifichi con almeno due fattori di
autenticazione. Tali fattori possono essere di tre tipi: di conoscenza, di possesso e basati
sull’inerenza. I primi si hanno quando si autentica l’ordine inserendo digitando un’informazione
segreta, a conoscenza solo del titolare dello strumento. È questo il fattore più semplice, cioè
l’inserimento di un pin. La seconda categoria (possesso) si basa su un elemento materiale che rientra
nella sfera di controllo, nella sfera di dominio personale del titolare dello strumento di pagamento.
Se ripensiamo alle operazioni di pagamento più comuni, l’elemento di possesso è la tessera
magnetica che è la carta di credito o di debito. Il terzo criterio (inerenza) è qualcosa che è personale,
attiene alla persona, talvolta in senso letterale, come l’impronta digitale o il riconoscimento facciale.
È quindi necessario a seguito della PSD 2 che in linea di principio ogni operazione di pagamento sia
autenticata mediante almeno due di questi criteri appartenenti a due categorie diverse.
Generalmente i codici di autenticazione sono utilizzati una sola volta, ma l’EBA ha precisato che se
l’operazione di pagamento è disposta all’interno della stessa sessione uno dei fattori di
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autenticazione utilizzati può poi essere riutilizzato per le singole operazioni (es. entri nel sito della
banca una volta ma poi fai più operazioni).
L’art. 10 bis del decreto legislativo 11/2010 fa un’ulteriore precisazione, cioè esige quando si
autenticano le singole operazioni di pagamento il c.d. dynamic linking, cioè quando l’intermediario
chiede di autenticare con OTP o con impronta digitale la singola operazione di pagamento questa
richiesta non può essere generica o vaga, ma deve invece dare specifiche informazioni sull’importo
e sul beneficiario.
Un criterio che secondo EBA non è idoneo ad autenticare il cliente dal punto di vista dell’inerenza è
il fatto che sia stato registrato un certo percorso di scorrimento sul touchscreen del cellulare (disegni
per sbloccare il cellulare) ma può valere come requisito di conoscenza.
Opinione EBA sul sistema 3d secure: non è autenticazione forte, in realtà è un solo fattore.

Esonero dall’autenticazione forte: la PSD 2 consente di fare una white list di piattaforme che si
riconoscono come attendibili o per i pagamenti contactless sotto i 50 euro con ulteriori requisiti.

Se il titolare di uno strumento di pagamento disconosce un’operazione, contestandola alla banca,


grava sul prestatore dei servizi di pagamento di provare che l’operazione è stata autenticata
correttamente. E se questa operazione è stata fatta con un’esenzione questa prova non potrà essere
data, perché comunque l’esenzione è a suo rischio.
Dunque, la banca riaddebita subito gli importi non autorizzati, salvo buon fine, cioè poi può fare
tutte le verifiche del caso e se si scopre che invece c’era l’autenticazione forte allora la perdita grava
sul cliente. La banca non deve riaccreditare quando: innanzitutto c’è un termine di 13 mesi di
decadenza per disconoscere le operazioni di pagamento. Questa è l’ipotesi principale di non
riaccredito. Se il prestatore di radicamento del conto è diverso da quello emittente della carta, il
rimborso spetta al primo (es. carta american express e conto intesa, rimborsa intesa, cioè la banca).
Se il proprietario dello strumento di pagamento risulta essere complice di un’operazione
fraudolenta, non sarà rimborsato. È l’intermediario che deve provare il dolo, la partecipatio fraudis.
Che cosa succede invece se il sistema di autenticazione forte c’è ma comunque l’operazione viene
compiuta senza l’autorizzazione del proprietario, perché magari il pin viene captato, o anche
strumenti più sofisticati? Quindi si ha furto, smarrimento o appropriazione indebita. Succede che
l’intermediario deve restituire l’importo dell’operazione non autorizzata ma detratta una franchigia
di 50 euro a meno che non dia la prova del dolo o della colpa grave del titolare del conto. Questo è
il punto su cui si concentra tutto il contenzioso a riguardo.
Si pone il problema di capire in particolare se l’utente ha violato gli obblighi contrattuali di
protezione delle credenziali. Il caso più banale è quando le credenziali vengono conservate insieme
allo strumento di pagamento. O i casi di phishing, cioè si abbocca a richieste false anche in buona
fede.
In questi casi l’arbitro bancario finanziario ha riconosciuto la colpa grave del cliente.
L’arbitro bancario finanziario ha escluso la colpa grave: Ad esempio nel trucco dello pneumatico
forato, o in quello delle banconote cadute a terra, trucco della richiesta di informazioni. I furti
compiuti con questi metodi però sono problematici, infatti se a seguito del furto vengono compiute
operazioni non autorizzate probabilmente è perché custodiva le credenziali unitamente allo
strumento di pagamento o comunque in modo accessibile al ladro, quindi lì si è comportato in
maniera negligente, ma bisogna vedere se è colpa grave; no colpa grave anche nel man-in-the-
middle è una truffa informatica molto più sofisticata ma frequente, che si ha quando si ha un
reindirizzamento automatico dell’utente a dei portali fake identici a quelli della banca, cambia di
poco l’indirizzo IP).
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Comportamenti come salvarsi il pin come numero di telefono è colpa grave? Secondo la cassazione
la colpa grave è un comportamento inescusabile, intollerabile e che costituisce un’anomalia sociale.
Se queste cose le fanno più o meno tutti, sono certamente colpe, violazioni degli obblighi di
custodia, ma non possono considerarsi gravi, soprattutto se subisci comportamenti aggressivi come
i furti.
Un altro caso ancora più imbarazzante è quello in cui il furto/rapina/smarrimento si verifica in una
situazione in cui lo strumento di pagamento era stata affidata a un familiare perché effettuasse
un’operazione. È una colpa grave? L’arbitro bancario finanziario ha ritenuto che non sia un
comportamento socialmente intollerabile, soprattutto perché è molto diffuso nella pratica.
Tanto più un comportamento è diffuso tanto meno si può qualificare come grave quel
comportamento.

Quello che abbiamo detto fin qui vale per le operazioni che si verificano prima che il proprietario se
ne accorga, perché non appena se ne accorge ha l’obbligo di bloccare lo strumento di pagamento,
altrimenti è chiaramente colpa grave la tardività nel blocco. Questo è un punto estremamente
importante, è un altro obbligo previsto dalla PSD 2. Ovviamente un minimo di tempo per reagire
viene dato, perché bisogna chiamare e tutto il resto (o magari anche il telefono è stato rubato). Qual
è la soglia della colpa grave? 15 minuti, mezz’ora? È chiaro che non stia scritto da nessuna parte, è
come quando si parla nella responsabilità contrattuale della diligenza del buon padre di famiglia, è
un criterio elastico che sta al prudente apprezzamento del giudice e alle circostanze concrete. È
comunque facile che oltre la mezz’ora si rinvengano i criteri della colpa grave, ma è solo orientativo.

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Parliamo della direttiva sul credito ai consumatori per l’acquisto di un bene di consumo. Si tratta di
una delle materie che il legislatore europeo ha disciplinato proprio agli albori, all’inizio della pars
costruens del diritto europeo dei contratti (1987). La direttiva è stata poi modificata nel 1990 e
sostituita nel 2008 (a breve verrà sostituita di nuovo). C’è stato anche un mutamento terminologico,
prima si parlava di credito al consumo adesso di credito ai consumatori, per dare enfasi più che alla
funzione al soggetto (ma è solo una differenza terminologica).
Nel diritto italiano le disposizioni della direttiva sono state attuate all’interno del tub (artt. 121 e ss.)
e del codice del consumo (art. 43). Queste disposizioni sono entrate in vigore il 19 settembre 2010.
Gli obiettivi di politica del diritto sono quelli che in generale caratterizzano l’intervento di
armonizzazione svolto dal diritto europeo: rimediare alle distorsioni della concorrenza e rimuovere
le disparità più significative tra i diritti nazionali degli stati. La base giuridica è sempre il vecchio art.
95 del TCE.
Contratto di credito (art. 3 direttiva del 2008): un contratto in base al quale il creditore concede o
s’impegna a concedere al consumatore un credito sotto forma di dilazione di pagamento, di prestito
o di altra agevolazione finanziaria analoga, ad eccezione dei contratti relativi alla prestazione
continuata di un servizio o alla fornitura di merci dello stesso tipo in base ai quali il consumatore
versa il corrispettivo, per la durata della prestazione o fornitura, mediante pagamenti rateali.
Un tema che il diritto civile ha sempre affrontato è cercare di ricostruire il rapporto tra questi due
contratti, da un lato un contratto di vendita (il consumatore compra l’automobile) e dall’altro lato il
contratto di mutuo o finanziamento (il consumatore si rivolge a una società finanziaria affinché
paghi il prezzo dell’automobile e il consumatore si obbliga a restituire con gli interessi). Da sempre
nelle operazioni di credito al consumo si è posto il problema: se il bene o servizio che il fornitore
presta al consumatore è difettoso, se si verifica un inadempimento, il consumatore deve continuare
a pagare per anni quel bene che non era conforme? Stando al codice civile, la risposta che
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l’intermediario finanziario/banca può dare è che ai sensi dell’art. 1372 co. 2 cc principio di res inter
alios acta, cioè principio di relatività del contratto, quindi il contratto produce effetti tra le parti. Il
diritto civile italiano ha attenuato questo principio con l’introduzione del contratto a favore di terzi
(art. 1411) non è più vero che neque nocet neque prodest, cade il prodest, quindi il contratto può
avvantaggiare il terzo ma non lo può svantaggiare, quindi in questo caso la banca sarebbe
svantaggiata. A questo punto la dottrina per offrire una base di risoluzione a questo problema è
arrivata alla ricostruzione concettuale del collegamento contrattuale o contratti collegati, già prima
dell’emanazione di quella direttiva. La dottrina civilistica ha introdotto il concetto di operazione
economica. Per realizzare un’operazione economica non basta un contratto, ne servono di più, e
vanno coordinati all’interno appunto della stessa operazione economica. Il senso di ciò è di arrivare
a dire che se sono collegati simul stabunt simul cadent. Se è nullo il contratto di vendita finanziato
dalla banca questa nullità si riverbera e va a inficiare anche il contratto di finanziamento perché è
collegato.

La direttiva non è applicabile a tutte le operazioni di credito: l’esclusione più importante è data dai
contratti di credito garantiti da un’ipoteca per l’acquisto di un immobile. Si tratta di alcuni tra i mutui
più frequenti (questo ambito è stato poi disciplinato da una direttiva del 2014). Nel linguaggio del
tub questi vengono chiamati crediti fondiari.
Altri contratti esclusi sono quelli riguardanti immobili in corso di costruzione (credito edilizio, una
specificazione del credito fondiario, anch’esso disciplinato dalla direttiva del 2014).
La terza categoria di esclusioni riguarda l’importo, ci sono degli importi minimi e massimi per
l’applicazione della direttiva, perché o sarebbe eccessiva la tutela della direttiva per i contratti di
importo inferiore a 200 euro o insufficiente per importi > 75.000 euro, quindi si passa ad altre
discipline giuridiche più idonee.
La CGUE in una sentenza del 2012 ha precisato che questo non significa che sia vietato estendere la
direttiva anche a queste categorie di contratti, ma non sono obbligati a farlo (in Italia non sono stati
inclusi).
Dal punto di vista dei suoi contenuti precettivi, la direttiva è strutturata secondo lo schema visto più
volte:
1) Fase precontrattuale, in particolare ponendo a carico del creditore (banca/intermediario
finanziario) una serie di doveri di informazione, obblighi mediante i quali alcune informazioni
essenziali devono essere comunicate al consumatore), per permettere al consumatore di
confrontare diverse proposte. Abbiamo un obbligo estremamente importante che è quello
di valutazione del merito creditizio del consumatore che chiede il finanziamento. Consiste in
una valutazione di sostenibilità finanziaria da parte del consumatore così che l’intermediario
deve valutare preventivamente la situazione patrimoniale, reddituale del consumatore in
modo che il finanziamento concesso sia adatto, adeguato alle sue caratteristiche. L’UE ha
posto un’enfasi crescente sulla valutazione del merito creditizio, a seguito dell’esperienza
storica e della riflessione economica e giuridica sulla crisi finanziaria. L’intermediario è
responsabile di un eventuale sovra-indebitamento del consumatore, cioè se lo espone a
pagare rate troppo pesanti, perché questo diventa un problema non solo di quel debitore
ma di tutto il sistema finanziario, si generano enormi esternalità negative. Bisogna che la
banca valuti bene, è una delle novità introdotte da questa direttiva.

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Continuiamo la disciplina sui contratti di credito per l’acquisto di beni di consumo. È una disciplina
fortemente regolatoria, dove si nota fortemente la volontà del legislatore di eliminare i fallimenti
del mercato per renderlo più efficiente.
2) Fase di conclusione del contratto. Queste disposizioni riguardano in particolare l’oggetto e
la forma del contratto, quello che deve dire necessariamente e come deve essere
necessariamente formato.
3) Svolgimento del rapporto contrattuale, cioè quello che succede dopo la conclusione del
contratto.
Il grosso contenzioso che si verifica in questa disciplina avviene nella seconda categoria ma
soprattutto nella terza, perché la parte precontrattuale è fortemente standardizzata. Nell’ambito
dello svolgimento del rapporto contrattuale abbiamo una serie di norme che attribuiscono
prerogative al consumatore fornendogli una tutela per eventi che incidono sul rapporto
contrattuale.
Due particolari modalità di svolgimento del rapporto contrattuale vengono spesso portati
all’attenzione della giurisprudenza e dell’arbitro bancario e finanziario: il primo aspetto è quello dei
c.d. rapporti di finanziamento trilaterali (come detto prima, c’è di mezzo un intermediario/banca) e
il secondo quello dell’estinzione anticipata del finanziamento.
Abbiamo una specifica previsione normativa che consente al consumatore di estinguere
anticipatamente il finanziamento in qualunque momento. In questo caso viene riconosciuto il diritto
del consumatore a ottenere una riduzione proporzionale del credito per quanto riguarda tutti quanti
i costi che sono stati anticipati dal consumatore e di cui non ha usufruito perché facevano parte del
c.d. piano di ammortamento.
Questo ci impone di chiarire una cosa, e cioè che il credito al consumo come tutte le operazioni di
credito è composto da capitale e costi.
A riguardo abbiamo una sentenza della CGUE che ha aperto il dibattito su cosa va rimborsato e cosa
no in questi casi, a seguito l’arbitro bancario e finanziario si è conformato alle indicazioni che ha
dato la corte. Nel luglio di quest’anno il legislatore nazionale è intervenuto su questa problematica
con una norma inserita nella legislazione emergenziale imponendo un passo indietro rispetto a cgue
e arbitro bancario finanziario (per questo esso è intervenuto nuovamente un mese fa circa per
reinterpretare il sistema alla luce di tale normativa). Da ultimo il tribunale di Torino un paio di
settimane fa ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma di luglio 2021, in
quanto potenzialmente in contrasto con i principi affermati dalla CGUE in sede di interpretazione
della direttiva.
Quindi, abbiamo tre contesti normativi. Il terzo (fase di svolgimento del rapporto contrattuale) oltre
che delle questioni sulla struttura trilaterale e dell’estinzione anticipata si compone di altre due
questioni: la nullità del contratto e il diritto di recesso da parte del consumatore.

Prima questione che si pone con riguardo alla fase precontrattuale: cosa è il TAEG? È il tasso annuo
effettivo globale. Si tratta di un parametro che consente al consumatore di avere contezza di quanto
gli costerà effettivamente il ricorso al credito. Il TAEG va distinto dal TEG, cioè il tasso che non
riguarda le operazioni di credito al consumo ma in generale le operazioni di finanziamento e in
particolare sia con riguardo ai consumatori che con riguardo all’attività di impresa; si tratta di un
tasso effettivo globale che si differenzia dal TAEG perché mentre il TAEG comprende tutte le voci di
costo il TEG serve sostanzialmente a valutare se il finanziamento è o meno sotto la soglia dell’usura.
I criteri per determinare TAEG e TEG sono differenti. Dal TEG restano fuori alcuni costi del credito
individuati dalla disciplina secondaria emanata dalla Banca d’Italia. Il TAEG è dunque maggiore per
definizione rispetto al TEG.
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Vediamo sulla base di queste informazioni nell’ambito della fase precontrattuale qual è la disciplina.
Abbiamo due profili che ci interessano e che si sovrappongono: 1) informazioni pubblicitarie che
vengono dirette al consumatore (ad esempio le scritte in piccolo sui cartelli pubblicitari); 2)
informativa più specifica da dare al consumatore nel momento in cui avvia le trattative con il
finanziatore.
Dal primo punto di vista, l’art. 4 della direttiva e parallelamente l’art. 123 del TUB, ci offrono una
prima indicazione del ruolo che ha nell’ambito della comunicazione l’indicazione di un tasso di
interesse. Infatti, tutte le volte in cui il finanziatore effettua una pubblicità relativa a contratti di
credito che implica un tasso di interesse, così suggerendo un’indicazione su una dilazione di
pagamento, si è tenuti a fornire determinate informazioni individuate appunto da questi articoli.
Non abbiamo una corrispondenza col nostro diritto privato, dove ci sono sicuramente delle norme
sulla fase precontrattuale ma il legislatore nazionale non ha mai individuato una disciplina che
impone le modalità con cui deve essere effettuata una pubblicità commerciale e non ha anticipato
fino a questo punto la tutela del soggetto a cui viene destinata la pubblicità commerciale. Quindi si
tratta di una prospettiva che caratterizza il diritto europeo.
Bisogna indicare in particolare il TAEG, ma anche altre cose (art. 4 par. 2).
Il par. 3 dell’art. 4 fa poi riferimento ai servizi accessori, cioè quelli non strettamente connessi al
servizio ma che non consentono al consumatore di avere una chiara percezione del costo del
credito. L’esempio più comune è quello della c.d. assicurazione del credito (CPI). Il consumatore nel
momento in cui viene in contatto con il finanziatore subisce il condizionamento nell’erogazione del
credito dalla richiesta di stipula di un contratto di assicurazione. Il TAEG non contiene i servizi
accessori quindi abbiamo qualche criticità, questo a causa di una lettura formale di questa
disposizione normativa, che fa riferimento alla obbligatorietà, cioè si devono inserire nel TAEG solo
i servizi accessori che sono obbligatori nel senso di previsti dalla legge ma non anche quelli che sono
richiesti dal finanziatore. Questa interpretazione formale è stata superata da un’accezione
sostanziale, infatti la norma fa riferimento all’obbligatorietà per ottenere il credito o per ottenerlo
alle condizioni contrattuali previste.
Affianco (??) a questa disciplina sull’informativa precontrattuale abbiamo una serie di disposizioni
sugli obblighi precontrattuali di informazione per il consumatore che si rivolge al finanziatore.
Guardando una scansione temporale, questi sono successivi. Sono regolati dall’art. 5 della direttiva
e dall’art. 124 TUB. Abbiamo poi la fase di conclusione del contratto e lo svolgimento del rapporto
di credito al consumo.
L’ultima parte dell’art. 5 dice che queste informazioni che vanno date al consumatore devono essere
date su supporto cartaceo o su altro supporto durevole seguendo le c.d. informazioni europee di
base relative al credito ai consumatori che sono riportate nell’allegato II alla direttiva. In questo
modo noi abbiamo una standardizzazione dell’informativa (SECCI, standard european consumer
credit information), cioè non è come per l’art. 4 dove è elencato detto cosa dire, ma direttamente
sono date le informazioni. In sostanza è un modulo precostituito uguale per tutti i finanziatori che
deve essere consegnato al consumatore e che contiene le stesse informazioni e nelle stesse
modalità. La stessa cosa si trova nel caso del credito immobiliare ai consumatori (lì il modulo si
chiama PIES ma il concetto è quello).
Il vantaggio principale è chiaramente quello di agevolare il confronto comparativo tra più
finanziamenti.
La direttiva oltre alle informazioni di base contenute nel SECCI consente delle c.d. informazioni
ulteriori, perché è consentito su richiesta del consumatore – quindi non qualcosa che avviene di
default per il finanziatore – può essere fornita gratuitamente allo stesso una copia della bozza del
contratto di credito. Questa previsione diverge sensibilmente dalla direttiva sul credito immobiliare,
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dove si prevede che è obbligatorio dare questa copia sette giorni prima della conclusione del
contratto.
Nell’ambito dei contratti di finanziamento interviene spesso un intermediario del credito, cioè un
mediatore che mette in contatto il finanziatore con il consumatore. Questa figura è definita dall’art.
3 della direttiva. L’art. 7 ci dice che in ogni caso il finanziatore deve garantire che il soggetto
finanziato riceva le informazioni precontrattuali contemplate in questi articoli.
Nella prassi spesso il fornitore del bene è intermediario del credito (es. concessionario per
acquistare una macchina).

Si tratta poi di comprendere quali sono le conseguenze delle violazioni degli obblighi di informazione
da parte del finanziatore. Come tutte le previsioni circa le conseguenze giuridiche previste dalle
norme di diritto europeo dei contratti, questa direttiva non indica con puntualità quali sono queste
conseguenze. Si limita a dire che le sanzioni devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive,
devono cioè preservare l’effettività del diritto europeo. Sono gli stati membri a individuare tali
sanzioni. In Italia sono da individuare nell’art. 117 del TUB. Questa norma non è inserita nell’ambito
della disciplina del credito al consumo ma è inserito in una sezione precedente, dedicata alla c.d.
trasparenza nelle operazioni bancarie, quindi sono norme che non riguardano solo il credito al
consumo: “sono nulle e si considerano non apposte le clausole che prevedono tassi, prezzi e
condizioni più sfavorevoli per i clienti di quelli pubblicizzati”. Qui si parla dell’informativa
precontrattuale al consumatore. Quindi la conseguenza che individuiamo è quella della nullità. Cosa
succede in caso di nullità? Il co.7 dice che se la nullità afferisce al tasso di interesse si applicherà un
tasso c.d. sostitutivo, il c.d. tasso nominale minimo e massimo relativo alle operazioni attive o
passive dei buoni ordinari del tesoro di durata annuale. Questo vuol dire che il tasso di interesse
sarà praticamente pari allo 0. Se invece la nullità riguarda altri costi dell’operazione, questi costi non
sono dovuti. La logica di questo articolo si inserisce alla luce delle disposizioni previste nella
disciplina generale del contratto del cc e in particolare dell’art. 1339 e 1419, laddove si dice che la
nullità delle singole clausole non importa la nullità di tutto il contratto quando le clausole nulle sono
sostituite di diritto da norme imperative. Quindi, qualificando l’art. 117 TUB come norma imperativa
si ha non la nullità totale del contratto ma la sostituzione.

La prospettiva tradizionale del legislatore europeo di prevedere obblighi di informazione


precontrattuale trova in caso di contratti di credito (anche immobiliare) la sua massima espressione
con l’obbligo di verifica del merito creditizio. L’art. 8 della direttiva e correlativamente l’art. 124-bis
TUB ci dice che il finanziatore prima della conclusione del contratto è tenuto a valutare il c.d. merito
creditizio, e ciò sulla base di una serie di informazioni fornite (non esclusivamente) dallo stesso
consumatore. Questo ci fa notare che nella fase precontrattuale si instaura una cooperazione tra
consumatore e finanziatore.
Le due grandi informazioni ricevute dal finanziatore sono appunto quello che dice il consumatore
sulla sua situazione economica e la consultazione delle banche dati. È una problematica molto
specifica che noi guardiamo solo dalla prospettiva del merito creditizio. In pratica vengono censiti i
consumatori che interagiscono con gli istituti di credito. E abbiamo qui due macrosettori, quello
della c.d. centrale rischi della Banca d’Italia, dove vengono segnalate situazioni critiche, e poi le
banche dati private predisposte appunto da operatori privati quindi fuori dal sistema di vigilanza
ufficiale, e sono quelle istituite presso i SIC (sistemi di informazione creditizia), che seguono regole
diverse rispetto alla centrale rischi. L’art. 124-bis da riferimento sia all’una che alle altre.
Sul tema merito creditizio la giurisprudenza UE è in continuo fermento perché pone dei problemi di
effetti di questa valutazione di fronte all’eventuale inadempimento del consumatore.
10

La CGUE nel 2014 ha dato delle indicazioni sulla valutazione del merito creditizio, emerge quindi la
prospettiva diciamo regolatoria del merito creditizio, perché ha affermato che l’onere di provare di
aver valutato il merito creditizio è e rimane in capo al finanziatore, non possono ritenersi valide
clausole contrattuali tramite le quali il consumatore riconosce che il finanziatore ha valutato il
merito creditizio.
Questo discorso impatta in maniera importante sul principio di auto-responsabilità perché la
valutazione del merito creditizio è in parte basata sulle informazioni fornite dal consumatore. La
CGUE ha detto che queste informazioni sono sufficienti (ovviamente se adeguate e complete) per
consentire una valutazione del merito creditizio, in sostanza non sussiste un obbligo
dell’intermediario di effettuare dei controlli diffusi sulle informazioni fornite dal consumatore. La
consultazione delle banche dati non è sempre necessaria.
La disciplina impone un’informazione al consumatore se viene rifiutata una domanda di credito per
via di una segnalazione in una banca dati, e anche di avvisare il consumatore in occasione della prima
segnalazione negativa (parliamo dei SIC non della centrale rischi della banca d’Italia). Quindi due
obbligazioni principali: che comunichi per iscritto queste circostanze e che di fronte
all’inadempimento del consumatore parimenti preavvisi il consumatore della segnalazione. In
mancanza del preavviso la segnalazione è illegittima e quindi dovrà essere cancellata.
Un’altra decisione della CGUE in tema di valutazione del merito creditizio ha riguardato la disciplina
di attuazione della normativa del 2008 predisposta dal legislatore francese, che aveva individuato
una specifica conseguenza dell’inadempimento della valutazione di merito creditizia a carico del
finanziatore scarsamente dissuasiva, cioè il finanziatore perdeva il diritto agli interessi convenzionali
ma manteneva il diritto agli interessi legali che venivano maggiorati del 5% se l’inadempimento del
consumatore si protraeva per un determinato periodo di tempo. In pratica questo sistema rimediale
non spingeva gli operatori economici ad effettuare un’adeguata valutazione. Questa previsione
legislativa è stata giudicata dalla corte non conforme all’art. 23 della direttiva.
Nel nostro ordinamento invece non abbiamo una previsione normativa ad hoc delle conseguenze e
quindi gli effetti di una non adeguata valutazione del merito creditizio vanno ricercati nel sistema.
Abbiamo una decisione del collegio di Roma dell’arbitro bancario e finanziario che ha collocato la
prospettiva rimediale della violazione del merito creditizio nell’ambito della tutela risarcitoria. Si è
in particolare evidenziato che tale valutazione serve a tutelare non solo il sistema finanziario ma
anche il soggetto, al quale deve essere negata l’erogazione del credito di fronte a una sua evidente
incapacità di rimborsare il credito stesso. Il consumatore può quindi chiedere il risarcimento del
danno subito per l’inadempimento da parte del finanziatore.
Abbiamo così concluso il discorso intorno alla fase precontrattuale (pubblicità, informativa
precontrattuale e merito creditizio sono i punti centrali).

Vediamo ora la disciplina del contratto di finanziamento. Le prime indicazioni sono contenute
nell’art. 10 della direttiva e art. 125-bis TUB. Il primo dato è che i contratti di credito devono avere
una forma scritta o devono essere redatti su altro supporto durevole. Il consumatore deve ricevere
una copia del contratto di credito e soprattutto il contratto deve contenere tutte le informazioni
che sono previste in maniera dettagliata dalle disposizioni di attuazione emanate dalla Banca
d’Italia. È quindi la normativa secondaria che individua il contenuto del contratto. Quella primaria
precisa solo che il contratto è nullo se non contiene le informazioni relative al tipo di contratto, alle
parti, all’importo totale del finanziamento e alle condizioni di rimborso e di prelievo dello stesso. Al
di fuori di ciò il contenuto è nelle disposizioni emanate dal provvedimento sulla trasparenza della
Banca d’Italia, aggiornato periodicamente in base alle normative sopravvenute.
Nell’ambito della documentazione che consente di guardare alle informative relative all’operazione
noi quindi abbiamo in base a una cadenza temporale tre fondamentali passaggi:
11

- Modulo SECCI e foglio informativo (informazione precontrattuale);


- Stipulazione del contratto;
- Documento di sintesi. Qui abbiamo un’informativa contrattuale, cioè una sintesi del
contenuto del contratto che serve a confrontare le informazioni contrattuali con quelle
precontrattuali. Questo perché la divergenza tra le condizioni pubblicizzate e quelle poi
applicate portano alla considerazione come nulle e non apposte delle relative clausole.

Sul punto la CGUE nel 2016 ha fornito informazioni molto importanti, chiarendo che il giudice è
tenuto ad esaminare d’ufficio il rispetto degli obblighi di informazione previsti dalla normativa sul
credito al consumo siano essi di informativa o di valutazione del merito creditizio. Questo serve
ovviamente ad innalzare il livello di effettività della normativa europea. Normalmente, infatti, il
rilievo d’ufficio è eccezionale, lo troviamo ad esempio nella nullità.
Le interazioni tra la disciplina sul credito al consumo con le altre normative sono state indagate dalla
CGUE perché ha chiarito che la mancata indicazione del TAEG è un elemento che può condurre alla
valutazione di non trasparenza della clausola sul costo del credito. La previsione ha rilevanza non
solo nella disciplina del credito al consumo ma ciò non esclude che possa averne anche nell’ambito
della direttiva 93/13 con la conseguente nullità in base a quella disciplina. Ugualmente, il discorso
sull’indicazione del TAEG emerge ancor di più in correlazione con le pratiche commerciali scorrette,
la CGUE ha ritenuto che rilevi dal punto di vista dell’inganno/raggiro del consumatore e quindi si ha
una rilevanza come abusività delle clausole contrattuali.
Questo ci consente di comprendere le interazioni tra la disciplina speciale della direttiva del 2008 e
le altre discipline generali (pratiche commerciali e clausole abusive), sono discipline che si
completano a vicenda, l’una non esclude l’altra.

22/11

La corte di cassazione nell’ambito della problematica dell’abusiva concessione del credito ha


affermato che la valutazione del merito creditizio è un obbligo trasversale che riguarda qualsiasi
rapporto col mercato del credito ed è posto a salvaguardia di due esigenze parallele: la tutela di chi
chiede il credito e la tutela del sistema in generale.
Questa valutazione impatta in maniera rilevante anche nella disciplina sul contenuto del contratto.
Il legislatore europeo ha individuato una serie di previsioni contrattuali che devono essere
necessariamente inserite, prevedendo anche conseguenze per la mancanza. L’art. 125 bis del TUB
recepisce le indicazioni della direttiva dividendo le previsioni contrattuali in due grandi categorie,
quelle la cui mancanza determina la nullità dell’intero contratto (parti del contratto, tipo di
contratto, importo totale del finanziamento e delle modalità di prelievo e rimborso) e quelle in cui
si verifica un fenomeno di sostituzione o integrazione delle clausole nulle o mancanti. Si tratta in
particolare del TAEG (già vista la sua importanza nella fase precontrattuale) e del tempo di durata
del contratto a tempo determinato.
L’art. 125bis TUB al co. 6 afferma che sono nulle le clausole del contratto relative a costi a carico del
consumatore che non sono stati inclusi nel TAEG, ma la nullità della clausola non comporta la nullità
del contratto.
Al 7 comma ci dice cosa succede in caso di assenza o erronea indicazione del TAEG o la durata del
finanziamento.

Quando l’intero contratto è nullo ovviamente non si ha la sostituzione o integrazione delle clausole.
Ciò avviene appunto in mancanza di indicazione delle parti del contratto, tipo di contratto, importo
totale del finanziamento e delle modalità di prelievo e rimborso. La nullità del contratto produce un
12

effetto differente rispetto a quello che si verificherebbe secondo la disciplina generale. Il nostro cc,
infatti, richiama tutta la disciplina dell’indebito e dunque della ripetizione delle somme corrisposte.
Se di fronte a questo tipo di contratti applicassimo la disciplina del cc, il consumatore dovrebbe al
momento della declaratoria di nullità in un’unica soluzione tutto l’importo ricevuto dal finanziatore.
Questo chiaramente produrrebbe degli effetti di deterrenza, cioè una mancanza di effettività del
diritto europeo (il consumatore sarebbe disincentivato dal chiedere l’accertamento della nullità del
contratto).
A fronte di questa situazione il co. 9 dell’art. 125bis TUB prevede che il consumatore mantenga la
possibilità di rimborsare al finanziatore quanto ricevuto con la stessa periodicità prevista dal
contratto (o in mancanza in trentasei rate).

Riprendendo la struttura trilaterale del rapporto di credito al consumo, siamo di fronte a due
contratti: uno tra il consumatore e il venditore/fornitore, che ha ad oggetto l’acquisto di un
determinato bene o servizio, e uno di finanziamento tra il consumatore e il finanziatore in virtù del
quale il finanziatore si obbliga a pagare al posto del consumatore il costo del bene o servizio. Sono
due contratti distinti dal punto di vista della struttura ma dal punto di vista giuridico presentano una
indubbia connessione. Per questo il legislatore europeo ha posto particolare attenzione sulla
questione dell’inadempimento: quali devono essere le tutele per il consumatore di fronte al
possibile inadempimento del venditore? Cosa succede nel rapporto tra consumatore e finanziatore?
Si potrebbe pensare che la strutturale diversità tra contratti avrebbe comportato che il consumatore
dovesse continuare a rimborsare il finanziamento ricevuto pure a fronte dell’inadempimento del
venditore (salva la possibilità di ottenere la risoluzione del contratto con contestuale restituzione di
quanto corrisposto dal finanziatore). Questa soluzione però addossa al consumatore il rischio di
inadempimento.
Questo ha indotto il legislatore europeo ad intervenire già con la prima direttiva sul credito al
consumo del 1986, infatti egli ha attribuito al consumatore il diritto di procedere contro il creditore
(finanziatore) a fronte dell’inadempimento del fornitore/venditore. Tuttavia questa previsione
limitava questa possibilitàin base ad un’altra previsione, e cioè solo nel caso in cui tra finanziatore e
fornitore esisteva un precedente accordo in base al quale il credito è messo esclusivamente da quel
creditore (finanziatore) a disposizione dei clienti di quel fornitore. Sostanzialmente questa
previsione limitava le tutele del consumatore al caso di un c.d. accordo di esclusiva.
La giurisprudenza della cgue ha tuttavia superato il dato normativo ed è andata a chiarire in una
decisione del 2007 che in realtà non è richiesto un accordo di esclusiva e in una successiva decisione
del 2009 che l’esistenza di un accordo non è un presupposto necessario. Il legislatore europeo ha
così recepito queste indicazioni ed ha modificato la disciplina, superando il requisito dell’accordo di
esclusiva. Ha definito in particolare il contratto di credito, affermando che un contratto di credito è
collegato qualora soddisfi le due condizioni seguenti:
- Il credito in questione serve esclusivamente a finanziare un contratto relativo alla fornitura
di merci specifiche o alla prestazione di servizi specifici.
- I due contratti costituiscono oggettivamente un’unica operazione commerciale, cioè uno
non sarebbe stato concluso senza l’altro.

L’art. 15 della direttiva afferma (in modo leggermente diverso da come viene recepita dal TUB per
conciliare il linguaggio giuridico dei diversi stati membri) --> (slide). Si attribuisce al consumatore il
diritto di rappresentare o quantomeno di eccepire l’inadempimento del fornitore anche al
finanziatore. L’art. 125 quinquies TUB è stato appunto adattato, e in particolare ci dice che nei
contratti di credito collegati a fronte di un inadempimento del fornitore il consumatore dopo aver
costituito in mora il fornitore ha diritto alla risoluzione del contratto di credito, sempre che
13

l’inadempimento abbia i requisiti dell’art. 1455 cc. (‘il contratto non si può risolvere se
l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra’).
Possiamo individuare alcune problematiche applicative che riguardano i rapporti trilaterali
prendendo in considerazione recenti pronunce dell’ABF intervenute nell’ambito dell’articolo 125
quinquies. Decisione del collegio di milano nel 2018 --> l’assetto che abbiamo attualmente si ritrova
anche in termini generali nella disciplina del cc, la possibilità di considerare i contratti di credito
collegati anche oltre i contratti di credito al consumo deriva dal fatto che anche nel nostro
ordinamento c’è questa possibilità tutte le volte che esiste un collegamento funzionale a
prescindere dalla volontà delle parti. Ciò non vuol dire che l’art. 125 quinquies non abbia delle
specificità, infatti esso stabilisce che l’interdipendenza tra i contratti distinti non è bilaterale come
nella disciplina generale ma è bilaterale, cioè sono solo gli eventi del contratto di fornitura che
producono i loro effetti nei confronti del contratto di finanziamento e non anche il contrario. Ciò
significa che solo di fronte ad un inadempimento del fornitore si può produrre la risoluzione del
contratto di finanziamento.
Sempre l’ABF ha individuato una serie di criticità sottese a questa disciplina. Con un’ordinanza
dell’aprile 2021 è stata rimessa al collegio di coordinamento (che svolge una sorta di funzione
nomofilattica) una serie di questioni: - criticità relativa all’onere della prova. Ci si chiedeva di fronte
a una giurisprudenza contrastante dei collegi territoriali se esso fosse del consumatore o del
finanziatore (nell’ambito del contenzioso davanti l’ABF non è parte del ricorso il fornitore, perché la
competenza è limitata ai rapporti banca cliente). Questo problema deriva anche da una
giurisprudenza della cassazione del 2001 che ha stabilito che nei giudizi di resp contrattuale ma
anche di inadempimento l’onere della prova non compete al creditore (nel caso di specie il
finanziatore) ma spetta al debitore (consumatore); - la possibilità di pronunciare una c.d. risoluzione
parziale del contratto di finanziamento, perché in diverse ipotesi il contratto di fornitura non è
totalmente inadempiuto ma è parzialmente inadempiuto. L’esempio è quello delle cure
odontoiatriche: il fornitore effettua il 50% delle cure, il consumatore può chiedere una pronuncia di
risoluzione parziale?; - la possibilità di pretese risarcitorie del consumatore nei confronti del
finanziatore; - applicazione dell’art. 125quinquies anche dopo che il finanziamento è stato
interamente rimborsato dal consumatore. Il collegio di coordinamento nel maggio 2021 ha fornito
risposta:
- Per la prova dell’inadempimento, la disciplina da applicare dell’art. 1455 cc deve essere fatta
dando piena applicazione alla giurisprudenza consolidata di legittimità della cassazione,
affermando che l’inadempimento di non scarsa importanza si verifica dando rilevanza sia a
un parametro oggettivo ma anche l’interesse della parte alla prestazione come doveva
essere e come è stata ricevuta. L’onere di provare l’inadempimento e la non scarsa
importanza compete al consumatore;
- Risoluzione parziale: c’è la possibilità di chiederla, ferma restando quella totale;
- Limitare l’operatività dell’art. 125quinquies entro i limiti in cui il contratto di finanziamento
è ancora in essere, quindi in sostanza il consumatore non ha la possibilità di chiedere la
risoluzione del contratto di finanziamento qualora questo sia stato già integralmente
rimborsato e l’inadempimento si sia verificato dopo;
- Risarcimento del danno: esclusione della possibilità di chiederlo al finanziatore.
L’interrogativo deriva dal fatto che la direttiva precedente nominava il risarcimento del
danno e lo faceva anche la cgue, ma questo scompare nella direttiva del 2008, quindi ci si
chiedeva se ci fosse la possibilità, ma la risposta è no. Discorso diverso si deve fare per
quanto riguarda la possibilità di chiedere al finanziatore di chiedere il risarcimento dei danni
subiti come conseguenza di una sua condotta contraria a correttezza e buona fede nella fase
precontrattuale, per esempio per aver concesso un finanziamento nei confronti di un
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fornitore in stato di difficoltà economica conclamata e nota. In questo caso il collegio di


coordinamento ha manifestato la possibilità in astratto di richiedere il risarcimento di questi
danni, chiaramente rimanendo nella prospettiva dell’onere probatorio che compete al
consumatore, nonché la richiesta specifica sul punto.

Quindi volendo definire in modo più puntuale i principi emersi dalla giurisprudenza dell’ABF
possiamo affermare che al contratto di credito al consumo si applica gran parte della disciplina del
cc sulla risoluzione per inadempimento nei contratti collegati, la disciplina dell’art. 1455 sulla non
scarsa importanza dell’inadempimento, essendo onere del consumatore fornire la prova sia
dell’inadempimento sia della non scarsa importanza dello stesso, il fatto che si può chiedere la
risoluzione parziale ma di norma non può essere esclusa la risoluzione totale, la possibilità di
esperire le azioni a tutela del consumatore si limita in ragione del fatto che deve essere efficace il
contratto di finanziamento quindi non deve essere stato interamente rimborsato, mentre per il
risarcimento del danno il finanziatore non può essere chiamato a rispondere dei danni causati dal
fornitore ma può esserlo per quelli cagionati da una sua condotta contraria a correttezza e buona
fede.

Vediamo ora la fase estintiva del rapporto di credito al consumo, perché se è vero che di norma esso
ha estinzione per via del rimborso, il legislatore europeo ha previsto anche altre ipotesi distinte di
estinzione. Una prima ipotesi riguarda il diritto di recesso del consumatore. In questo contesto
dobbiamo distinguere due diverse forme di recesso, e cioè il recesso di pentimento, che è
sostanzialmente quella forma di recesso che ricorre spesso nella prospettiva del legislatore europeo
(come nella disciplina dei contratti a distanza o fuori dai locali commerciali), che consente al
consumatore di liberarsi dal vincolo contrattuale entro un breve lasso di tempo rispetto alla
conclusione del contratto, e il recesso liberatorio, ossia la possibilità per il consumatore di sciogliere
unilateralmente il vincolo contrattuale nei rapporti di credito al consumo a tempo indeterminato, e
sappiamo bene che il legislatore non guarda con favore i vincoli perpetui.

RECESSO DI PENTIMENTO --> l’art. 14 della direttiva, poi attuato nell’art. 125ter del TUB afferma il
diritto del consumatore a recedere dal contratto di credito entro 15 giorni dalla sua conclusione.
Esso può decorrere anche da un momento successivo se il consumatore non ha preventivamente
ricevuto tutte le informative sulle condizioni contrattuali che aveva diritto di ricevere nella fase
precontrattuale. Il co. 2 della norma in questione dice anche come deve essere esercitato questo
recesso: il consumatore è tenuto a dare una comunicazione di recesso al finanziatore, che deve
essere ricevuta quindi con determinati requisiti; se aveva avuto esecuzione, è tenuto a restituire
quanto ricevuto compresi gli interessi. Quindi il recesso è gratuito salvi gli interessi ed è immotivato,
cioè il consumatore non ha l’obbligo di rivelare le ragioni che lo hanno indotto al recesso.
RECESSO LIBERATORIO --> qui l’art. 13 direttiva e l’art. 125quater TUB prevedono espressamente
che il consumatore ha diritto di recedere in ogni momento (solo per contratti a tempo
indeterminato) con un preavviso non superiore a un mese. Qui il diritto è attribuito anche al
finanziatore; il recesso del finanziatore deve avvenire con un preavviso di almeno due mesi, salvo
che sussista una giusta causa (es. inadempimento del consumatore), in questo caso deve darne
comunicazione ma può recedere immediatamente.

Diversa dall’ipotesi del recesso è invece il rimborso anticipato del finanziamento. L’art. 16 direttiva
e 125sexies TUB affermano il diritto del consumatore a estinguere in via anticipata in qualunque
momento il finanziamento rimborsando quanto è dovuto al finanziatore. È quindi un diritto di libera
estinzione anticipata del finanziamento. In questo caso il consumatore ha diritto ad una riduzione
15

del costo totale del finanziamento pari agli interessi non maturati e ai costi collegati alla vita residua
del contratto (equa riduzione del credito, ipotesi che ha generato molto contenzioso). Il co. 2
dell’articolo prevede corrispettivamente che il finanziatore ha diritto ad un indennizzo, una
commissione di estinzione anticipata, anch’esso equo, per eventuali costi direttamente collegati al
rimborso anticipato del credito. È prevista la quantificazione di questo indennizzo dai commi 2 e 3
dell’art. 125sexies: esso non può superare l’1% dell’importo rimborsato in anticipo se la vita residua
del contratto è superiore a un anno ovvero lo 0,5% se la vita residua era inferiore o pari a un anno.
In ogni caso non può superare l’importo degli interessi che il consumatore avrebbe pagato per la
vita residua del contratto. Si aggiunge poi che non è dovuto in una serie di ipotesi, in particolare
l’ipotesi della lettera d) co. 3 se l’importo rimborsato anticipatamente corrisponde all’intero debito
residuo ed è pari o inferiore a 10mila euro.
Le controversie a riguardo hanno riguardato la parte in cui si fa riferimento alla riduzione del costo
totale del credito, cioè ci si è chiesti se il riferimento sia tale da comprendere tutte le voci di costo
corrisposte dal consumatore o solo ed esclusivamente quelle per cui era prevista l’attribuzione nel
corso di tutto il piano di ammortamento perché destinate a maturare periodicamente (c.d. costi
recurring, distinti dai costi up front). Nella prima fase di interpretazione e applicazione di questa
norma, in particolare dall’ABF, era quello per cui il consumatore avesse diritto ad una riduzione
totale del costo del credito solo per le voci di costo recurring. È poi intervenuta la CGUE nel 2019
con una sentenza interpretativa dell’art. 16 della direttiva del 2008, nota come sentenza Lexitor,
dove ha affermato nettamente che vanno inclusi tutti i costi posti a carico del consumatore, anche
quelli up front (cioè le commissioni di intermediazione essenzialmente). Il collegio di coordinamento
dell’ABF ha allora recepito questa indicazione confermando lo stesso principio e specificando che il
criterio applicabile per la riduzione dei costi istantanei, cioè appunto quelli up front, si utilizza come
criterio di rimborso il piano di ammortamento, o meglio degli interessi previsti dal piano di
ammortamento, applicando questa componente del piano di ammortamento si determinano i costi
up front da attribuire; per i costi recurring e gli equiparati oneri assicurativi si applicherà il criterio
c.d. pro rata temporis. Quindi due distinti criteri di rimborso vista la diversa natura dei costi.
Il legislatore ordinario con l’art. 11octies del decreto sostegni-bis varato a luglio di quest’anno ha
riformato in maniera completa la disciplina sul rimborso anticipato. La disciplina contenuta nell’art.
125sexies era in passato applicabile anche al credito immobiliare ai consumatori. Con questo
articolo il legislatore ha innanzitutto fatto sparire il riferimento al credito immobiliare ai
consumatori, dove quindi non si applicherà più tale disciplina, ed è stato poi introdotto
appositamente l’art. 120quaterdecies 1 relativo al rimborso anticipato; quindi abbiamo una
disciplina specifica che non è più quella comune al credito al consumo. Si limita qui il rimborso ai
costi dovuti per la vita residua del contratto, non anche ai costi in generale.
Molto più di impatto è l’ulteriore previsione del decreto sostegni-bis che ha modificato l’art.
125sexies, non sulla disciplina della commissione di estinzione anticipata, ma sulla riduzione del
costo a vantaggio del consumatore. È stato stabilito che il consumatore può rimborsare
anticipatamente l’importo dovuto al finanziatore e in questo caso ha diritto alla riduzione degli
interessi e di tutti i costi compresi nel costo totale del credito escluse le imposte. In questo modo il
legislatore nazionale ha voluto recepire formalmente l’interpretazione della CGUE presa nella
decisione Lexitor. Questa prima parte del nuovo articolo è in tutto e per tutto conforme a tale
decisione. Il legislatore nazionale aggiunge però che i contratti di credito devono indicare i criteri
per la riduzione proporzionale degli interessi e degli altri costi indicando in modo analitico se trova
applicazione il criterio del costo ammortizzato (cioè quello dei costi up front) o quello
proporzionalità lineare (quello pro rata temporis). Aggiunge però il legislatore che ove non sia
indicato verrà applicato il criterio del costo ammortizzato. Attribuisce al finanziatore il diritto ad
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agire in regresso nei confronti dell’intermediario del credito per ottenere la ripetizione delle somme
già corrisposte e restituite al consumatore.
Più problematico è il secondo punto, e cioè la disposizione transitoria secondo cui la nuova
formulazione si applica ai contratti sottoscritti successivamente alla data di entrata in vigore della
legge di conversione del presente decreto-legge, quindi non vale per il pregresso. Per quanto
riguarda le estinzioni anticipate dei contratti precedenti, si applicheranno le indicazioni previgenti.
Ciò pone due alternative all’interprete: 1) non cambia nulla perché comunque c’è la sentenza
Lexitor; 2) il legislatore nazionale ha voluto limitare i principi sottesi alla decisione Lexitor solo ai
contratti successivi al decreto sostegni-bis. Sulla questione è stato interpellato il collegio di
coordinamento dell’ABF che in una decisione dell’ottobre 2021 che ha stabilito che è la seconda
l’interpretazione da avallare. Questa disposizione transitoria è stata vista come una conferma del
vecchio orientamento che distingueva tra costi recurring e costi up front. La questione comunque
non è stata completamente risolta perché il 2 novembre 2021 il tribunale di Torino ha rimesso alla
Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della disciplina transitoria, in contrasto
con gli artt. 3, 11 e 117 co. 1 della Costituzione perché viene limitato un principio derivante dall’UE.
C’è la possibilità che la Corte costituzionale rimetta alla CGUE l’interpretazione.

23/11

IL CREDITO IMMOBILIARE AI CONSUMATORI

Ci occupiamo ora della normativa sul credito immobiliare ai consumatori. Si tratta di una delle
normative più recenti del diritto europeo dei contratti (direttiva del 2014) sollecitata dalle vicende
connesse e riconducibili alla crisi dei mutui subprime. Vi era l’esigenza di garantire il buon
funzionamento del mercato. Ciò si lega anche al discorso dei crediti deteriorati (non performing
loans), cioè quelli considerati impossibili da recuperare.
Dobbiamo leggere queste norme in una prospettiva di forte regolamentazione del mercato.
Vediamo innanzitutto le fonti europee. Il testo di riferimento è la direttiva 17/2014 che ha ad
oggetto il contratto di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali. Si nota già dai
considerando l’impostazione post crisi finanziaria, il legislatore europeo dichiara apertamente di
voler intervenire in prospettiva preventiva, fortemente regolatoria. Vengono poi individuate le
problematiche che hanno condotto alla crisi del mercato immobiliare statunitense e si parla di
‘potenziale margine per comportamenti irresponsabili’. Si parla di erogazione di credito
responsabile.
In questo contesto, la base giuridica nel Trattato della direttiva è individuata nel funzionamento del
mercato interno.
La disciplina del 2014 è caratterizzata, rispetto agli altri atti normativi che abbiamo analizzato, da
una combinazione di fonti che regolano la materia. Ci sono fonti che non ci interessano perché non
sono propriamente norme di diritto civile, e cioè le norme che impongono regole di vigilanza alle
autorità nazionali. Quindi abbiamo delle regole propriamente contrattuali che si coniugano con delle
regole di vigilanza. Questa interazione è un chiaro indice della scelta del legislatore europeo di porre
sullo stesso piano questi due diversi ambiti applicativi delle norme. Esse sono infatti rivolte ad un
unico fine. Questo ha un’importanza non secondaria nell’ambito della rilevanza che hanno le regole
di vigilanza sul singolo rapporto contrattuale, perché se è vero che tali regole sono riferibili al
rapporto tra operatore del mercato e organismo di vigilanza, comunque nel singolo rapporto
contrattuale di fatto nel momento in cui sono affiancate alle norme sul regolamento contrattuale si
traducono in qualche modo in diritti e doveri imputabili al consumatore e agli operatori economici
e che quindi consentono in determinati casi di estrapolare delle c.d. situazioni giuridiche soggettive
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che rilevano e possono avere applicazione nei rapporti tra consumatore ed istituto di credito
(sicuramente non c’entrano in questo discorso le sanzioni, ma se vengono imposti determinati
comportamenti possono avere rilevanza). Si verifica in altri termini quell’integrazione già vista in
altri contesti tra public enforcement e private enforcement. Nell’ambito dei rapporti finanziari
questo è un aspetto nuovo da un punto di vista regolamentare, lo abbiamo in altri contesti,
principalmente nell’ambito della concorrenza. Le regole di vigilanza impongono agli intermediari del
credito di esaminare secondo specifici parametri il merito creditizio. Lo strumento principale per
valutare la congruità del finanziamento e l’erogazione responsabile è costituita dalla valutazione
della condizione economica del soggetto che chiede il finanziamento.
È chiaro che in questo ambito rispetto al credito per l’acquisto di beni di consumo il peso di un
finanziamento è più rilevante visto che si tratta di immobili, quindi anche a livello macroeconomico
è ancora più importante, e anche la lunghezza temporale è molto più ampia. Quindi la valutazione
dell’opportunità di erogare il finanziamento è molto più stringente e puntuale. Le differenze sono
strutturali (sono crediti garantiti da una garanzia reale immobiliare, cioè l’ipoteca) e di
caratteristiche del finanziamento stesso, quindi la lunga durata e l’impatto che ha il finanziamento
sul consumatore e sulla sua vita.

Per quanto riguarda la normativa di recepimento, la direttiva è stata attuata dal legislatore nazionale
nel 2016. Non si può parlare di armonizzazione massima perché ci sono comunque delle disposizioni
della parte sulle conseguenze dell’inadempimento non vengono dettate regole di armonizzazione
massima ma ha usato un approccio più propriamente riconducibile all’armonizzazione minima. La
legislazione di attuazione degli stati membri non è quindi del tutto uniforme. Fanno eccezione gli
obblighi di informazione precontrattuale e gli standard per il calcolo del TAEG, qui gli Stati non
possono discostarsi dalla direttiva.
In Italia il d.lgs. 72/2016 ha introdotto all’interno del TUB un capo specifico sul credito immobiliare
ai consumatori. Vi sono poi fonti secondarie, in particolare il decreto del CICR del 2016 che contiene
le determinazioni in materia di credito immobiliare ai consumatori e il provvedimento della Banca
d’Italia del 2009 sulla Trasparenza, che viene aggiornato in base alla normativa sopravvenuta.
Le norme introdotte nel TUB hanno una struttura spesso su due livelli, una prima parte di ciascun
articolo detta le regole generali e solitamente un ultimo comma in cui il legislatore nazionale ha
delegato il CICR o l’autorità di vigilanza di emanare le norme di attuazione relative alle disposizioni
che riguardano i principi generali.
Quali sono la struttura e il contenuto della normativa di recepimento e della direttiva (lasciando da
parte gli obblighi di vigilanza)?
- Il primo punto è l’ambito di applicazione delle norme sul credito immobiliare ai consumatori
- Obblighi precontrattuali e di valutazione del merito creditizio
- Disciplina dell’inadempimento del consumatore

Rispetto alla direttiva sul credito al consumo, l’intervento del legislatore ha riguardo ad altri aspetti
del rapporto tra finanziato e finanziatore. La parte comune (con differenze comunque) è quella
relativa agli obblighi di informazione precontrattuale e di valutazione del merito creditizio però
manca in questo contesto una disciplina sul contenuto del contratto, una previsione sui rapporti
trilaterali (visto che non si pone questo problema, non c’è un possibile fallimento del mercato da
regolare), mancava una disciplina relativa all’estinzione anticipata (c’era solo il rinvio, ora c’è una
disciplina specifica con il decreto sostegni-bis). Ma abbiamo invece la disciplina dell’inadempimento
del consumatore, perché qui il legislatore ha trovato dei fallimenti del mercato, mentre nella
disciplina dei contratti di credito al consumo no.
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Vediamo innanzitutto l’ambito di applicazione. Il requisito soggettivo chiaramente è costituito dal


fatto che la parte del contratto di credito sia un consumatore e il requisito oggettivo è che si deve
trattare di un contratto di credito secondo la definizione contenuta nell’art. 120quinquies co. 1 lett.
c) del TUB. La definizione di contratto di credito è: “un contratto di credito con cui un finanziatore
concede o si impegna a concedere a un consumatore un credito sotto forma di dilazione di
pagamento, di prestito o altra facilitazione finanziaria, quando il credito è garantito da un’ipoteca
sul diritto di proprietà̀ o su altro diritto reale avente a oggetto beni immobili residenziali o è
finalizzato all’acquisto o alla conservazione del diritto di proprietà̀ su un terreno o su un immobile
edificato o progettato” (quindi anche in mancanza di una garanzia ipotecaria sostanzialmente).
Il legislatore ha poi individuato una serie di casi di esclusione in cui non trova applicazione la direttiva
(es. contratti equity release, somma di denaro come corrispettivo del valore dell’immobile
conservandone il godimento, o anche negozi di vendita della nuda proprietà).
Per quanto riguarda il contenuto della normativa, quindi principalmente gli obblighi di informazione
precontrattuale, noi li troviamo inizialmente enunciati nell’art. 120septies TUB, dove si dice che il
finanziatore ed eventualmente l’intermediario del credito si comportano con diligenza, correttezza
e trasparenza e tengono in considerazione i rischi cui è esposto il consumatore per la durata del
contratto di credito. Abbiamo quindi regole di condotta, espressione dettagliata del dovere di buona
fede nella fase precontrattuale e anche nella fase esecutiva del rapporto.
Nell’ambito della fase precontrattuale abbiamo una disciplina che in maniera pressoché analoga al
credito al consumo si occupa anche della fase pubblicitaria, che non riguarda il rapporto con un
potenziale soggetto finanziato ma è una fase di informativa pubblicitaria. Anche qui, è delegato il
CICR su proposta della banca d’Italia di indicare le caratteristiche che devono avere le informazioni
negli annunci pubblicitari. Se prendiamo l’art. 4 della delibera del CICR vediamo che gli annunci
pubblicitari devono contenere un esempio chiaro, conciso e realistico. Qualora riportino un tasso di
interesse o altre cifre contenenti il costo del credito devono specificare la natura di messaggio
pubblicitario e indicare la documentazione a disposizione della clientela.
Seguono poi gli obblighi propriamente precontrattuali di informazione, e riguardano sia il
finanziatore che l’intermediario del credito. Le informazioni devono essere chiare e comprensibili
ed essere offerte su supporto cartaceo o altro supporto durevole. A queste si affiancano le c.d.
informazioni personalizzate, che riguardano le esigenze specifiche del singolo consumatore.
L’art. 120novies comma 2 TUB si occupa delle informazioni personalizzate, cioè che riguardano
potenzialmente la singola richiesta di finanziamento, parametrate sulle richieste del consumatore.
Ci dice l’articolo che queste informazioni vengono fornite tramite il PIES (prospetto informativo
europeo standardizzato, come il SECCI) che è consegnato al consumatore in tempo utile, cioè prima
che egli sia vincolato dal contratto. È quindi un modulo standard per confrontare varie offerte.
Successivamente è previsto che il consumatore prima della conclusione del contratto ha diritto ad
un periodo di riflessione di almeno 7 giorni in cui sostanzialmente deve essere consegnata un’offerta
vincolante da parte del professionista (con il PIES se è cambiato o se non era ancora stato
consegnato). In pratica il legislatore europeo procedimentalizza la conclusione del contratto. Il PIES
e l’offerta vincolante sono quindi due cose diverse.
Vi sono poi ulteriori obblighi nel caso in cui sia presente anche un intermediario del credito, ci sono
obblighi supplementari per questo soggetto.
Gli obblighi precontrattuali sono implementati, come detto, tramite un rinvio alla normativa
secondaria. Un possibile problema che si pone nell’ambito di questa procedimentalizzazione è
quello relativo alla conseguenza della mancata consegna del PIES oppure di una divergenza tra il
PIES e l’offerta vincolante oppure di un mancato rispetto del termine di 7 giorni. Questo perché nella
prassi tutto ciò non si verifica, prima della direttiva del 2014 nella stessa scansione temporale al
consumatore, entrato in contatto con il finanziatore, veniva prospettata un’offerta non vincolante
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con le condizioni del finanziamento, eventualmente con la consegna di un PIES. Il consumatore è di


solito indotto ad apprezzare l’offerta, avvia le pratiche per la concessione del finanziamento che
sono anche onerose e arrivati al giorno di conclusione del contratto o ai giorni immediatamente
precedenti il consumatore riceve la bozza di contratto che non indica più quelle condizioni, con la
giustificazione che i tassi di interesse si sono alzati a causa delle mutate condizioni dei mercati.
Quindi cosa succede? In un’ordinanza del collegio di Milano dell’ABF si è sollevata la questione dal
collegio di coordinamento ipotizzando la possibilità di applicare l’art. 117 co. 7 TUB (che dice che
sono nulle quelle clausole che riguardano i prezzi differenti rispetto a quelli pubblicizzati). Quindi se
il PIES è una sorta di pubblicità ed è differente rispetto all’offerta vincolante o non sono rispettati i
7 giorni si ha la nullità delle clausole e si applicherebbero le condizioni sostitutive con una funzione
di sanzione dell’intermediario (il tasso di interesse sarebbe infatti pari a quello dei buoni ordinari
del tesoro annuali). Il collegio di coordinamento ha escluso la possibilità di dare continuazione a
questa tesi, sostenendo che trattandosi di obblighi precontrattuali ciò non incide sulla validità delle
clausole del contratto ma dà semplicemente luogo a responsabilità precontrattuale. Il consumatore
può quindi chiedere il risarcimento del danno ma non può chiedere le conseguenze dell’integrazione
e sostituzione delle clausole.
Altro aspetto fondamentale è quello della valutazione del merito creditizio. Anche qui i
considerando ci danno indicazioni sull’importanza di questo aspetto e l’art. 120 undecies TUB dice
che questa valutazione ha come finalità di tutelare il mercato oltre che il consumatore.
Il provvedimento della banca d’Italia contiene l’indicazione che il finanziatore prima della
conclusione del contratto svolge una valutazione approfondita del merito creditizio. La parola
‘approfondita’ non compare nel caso del credito al consumo. Anche qui trova applicazione in caso
di mancata o erronea indicazione del merito creditizio il risarcimento del danno (che sia
precontrattuale o che derivi dalla stipulazione del contratto). In giugno e ottobre di quest’anno,
come già accennato, la Cassazione ha chiarito – nell’ambito della responsabilità per abusiva
concessione del credito ad un’impresa in stato prefallimentare – che si parla di una responsabilità
per omessa valutazione del merito creditizio. Siamo fuori dall’ambito della tutela del consumatore,
ma la valutazione del merito creditizio è trasversale, perciò la pronuncia della cassazione può essere
interessante anche in questo ambito, anche se nel nostro caso probabilmente l’evento dannoso è il
contratto, cioè il fatto che il finanziamento sia stato erogato (responsabilità per contratto
sconveniente o inopportuno).

L’altro aspetto che ci interessa è quello dell’inadempimento del consumatore. Le norme sul punto
non sono di armonizzazione massima. Il finanziatore adotta procedure per gestire i rapporti con i
consumatori in difficoltà, non viene detto altro. O ancora si parla del fatto che gli Stati membri
debbano incoraggiare i creditori ad esercitare un ragionevole grado di tolleranza prima di dare avvio
a procedure di escussione della garanzia, quindi sono disposizioni programmatiche. Gli Stati membri
possono inoltre imporre che, qualora al creditore sia consentito definire e imporre al consumatore
oneri derivanti dall’inadempimento, tali oneri non siano superiori a quanto necessario per
compensare l creditore dei costi sostenuti a causa dell’inadempimento. Gli Stati membri possono
consentire ai creditore di imporre oneri aggiuntivi al consumatore in caso di inadempimento. In tal
caso, gli Stati membri fissano un limite massimo per tali oneri. Questa disposizione non è stata
attuata dal nostro legislatore e ci si potrebbe chiedere se possa essere riferibile agli interessi
moratori; questo porterebbe a un cortocircuito del sistema perché si dovrebbe arrivare a dire che
non avendo il legislatore dato attuazione alla disposizione gli interessi moratori non potrebbero
pattuiti. Questa è un indice di come spesso le direttive europee non vengano attuate in maniera
puntuale e attenzionata proponendosi piuttosto un recepimento acritico senza un coordinamento.
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L’art. 28 co. 4 della direttiva, sempre in armonizzazione minima, ci dice che gli stati membri non
impediscono alle parti di un contratto di pattuire espressamente che la restituzione o il
finanziamento della garanzia reale o dei proventi della vendita della garanzia reale è sufficiente a
rimborsare il credito. Si consente quindi il trasferimento del bene ipotecato al finanziatore in caso
di inadempimento con contestuale liberazione e limitazione della responsabilità del debitore se il
valore del bene venduto o ricavato dalla vendita o trasferito al finanziatore è inferiore rispetto al
debito residuo (esdebitazione del consumatore). Anche qui è una disposizione generica che ha
portato nel nostro ordinamento all’art. 120quinquiesdecies co. 3 TUB, la cui introduzione si pone in
correlazione con il divieto del patto commissorio, perché nel nostro ordinamento l’art. 2744 cc vieta
e rende nulle le pattuizioni in forza delle quali all’inadempimento di un’obbligazione consegue il
trasferimento del bene oggetto di garanzia al creditore. Diverso è invece il patto marciano, del quale
tramite l’art. 120quinquiesdecies co. 3 è stato introdotta un’ipotesi, consentendo il trasferimento
del bene in funzione di garanzia in caso di inadempimento ma con la previsione che vi deve essere
sostanzialmente una stima del valore del bene. Se il valore è superiore al debito residuo il
consumatore ha diritto di recedere l’eccedenza; questo consente di salvare la validità di questo
patto, di non porlo in contrasto con l’art. 2744 cc.

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