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FILIPPO II DI MACEDONIA

Introduzione
- Un Filippo, tanti Filippo
Fin dall’antichità la figura di Filippo fu posta in antitesi a quella del figlio
Alessandro: da una parte un re, emblema della Macedonia e la sua cultura,
dall’altra chi l’aveva rinnegata per abbracciare le culture orientali. Il confronto tra
i due divenne tema degli autori della Seconda Sofistica, ma era già presente in
opere storiografiche, come quelle di Arriano di Nicomedia. Secondo
l’irlandese Thomas Leland, Alessandro era stato inferiore al padre in
quanto si era lasciato travolgere dai successi militari e aveva coltivato l’insana
dea di essere figlio di Zeus. Johann Gustav Droysen, nella sua opera vide nella
Macedonia di Filippo un parallelo dello stato prussiano e l’unificazione tedesca da
parte di Bismarck, linea ripresa da Beloch Grote, invece, in maniera negativa,
mise Filippo in parallelo con Napoleone Bonaparte, per attaccare il
dittatore francese, ma anche Hitler e Mussolini secondo Treves. Per alcuni
Filippo determinò la nascita e l’affermazione di uno stato nazionale
forte, per altri, decretò la fine della libertà greca e ad esso l’ultimo
baluardo che si oppose fu Demostene. Filippo, dunque, mentre otteneva prestigio
e potenza fra i suoi Macedoni con riforme civili e militari, riusciva a farsi stimare
da varie cerchie di intellettuali e di politici in Grecia, tra i quali Isocrate.
Cheronea e la conseguente sistemazione panellenica servirono da lezione e da
modello ai Greci per le consociazioni successive.
- Fonti
Per via della forma estremamente frammentaria con cui sono pervenute, le opere
sulla Macedonia elaborate da storici di origine macedone come i Makedonikà di
Marsia, Filippi o Teagene, non sono sufficienti a fornire un quadro esaustivo della
storia macedone. Tutte le fonti che parlano di Filippo e dei primi re macedoni
sono greche. È lo storico Teopompo di Chio, che risiedette alla corte macedone,
che decise di dedicare un’opera dal titolo di Philippikà nella quale mette in
evidenza sia i lati positivi che negativi del sovrano. Abbiamo anche le fonti di
Diodoro Siculo, ovvero la sua opera la Biblioteca storica, dedicando a Filippo una
parte del libro 26 offrendo informazioni preziosissime sulle imprese del re
macedone, basando la sua opera sugli scritti di Eforo di Cuma. Importante
ricordare anche Marco Giuliano Giustino, Pompeo Trogo, Polibio, Arriano,
Plutarco, Strabone, Antipatro di Magnesia, Speusippo, Anassimene di Lampsaco,
il quale visse alla corte del re.
Parte Prima: Ai confini del mondo greco
Nella “Terra di Mezzo”
1. Macedonia e Macedoni
I termini Macedonia e macedoni derivano da un personaggio chiamato,
probabilmente, Makedon. Se ne trova menzione in uno scritto attribuito al poeta
Esiodo (VIII-VII secolo), pervenuto sotto il titolo di “catalogo delle donne”: la figlia
di Deucalione, Thya, si narra avrebbe generato da Zeus due figli: Magnete e
Makedon, amanti dei cavalli, i cui territori si trovavano intorno ai monti della
Pieria e al monte Olimpo, a sud nella bassa Macedonia. E sarebbero stati eponimi
rispettivamente delle due regioni adiacenti di Magnesia e Macedonia. Da
Makedon avrebbero preso il nome i macedoni. Altre fonti, cronologicamente
disposte tra il I secolo a.C e II secolo d.C, rilevavano che Makedon era il figlio di
Licaone, o il figlio del dio egiziano Osiride. Il termine compare comunque anche
nell'Odissea a indicare l'altezza dei pioppi, cosa che ha fatto pensare a un popolo:
i Makedones. Poiché abitavano luoghi montagnosi, a ragione, potevano essere
ritenuti dei montanari. La discendenza greca dei re macedoni è ricordata per
primo da Erodoto, storico del quinto secolo, originario di Alicarnasso in Asia
minore; nelle sue storie Erodoto ricordava così l'origine dei macedoni: settimo
progenitore di Alessandro il filelleno fu Perdicca che si procurò il Regno sui
macedoni. L’origine greca dei macedoni è confermata nella seconda metà del
quinto secolo dallo storico ateniese Tucidide, quale riteneva che Alessandro il
filelleno, e Perdicca 2°, e i suoi antenati, erano provenienti in origine da Argo.
Altre fonti, come Plutarco nella “vita di Alessandro”, facevano di Alessandro
magno un discendente di Eracle.
2. Nella “Terra di Mezzo”
La Macedonia era una regione montagnosa e per molti versi aspra. Partendo da
sud vi erano i monti Cambunii e le catene montuose della Pieria. Quest’ultima si
incrociava con il massiccio dell’Olimpo creando una sorta di angolo. Alle pendici
della Pieria e del monte Olimpo si estendevano le pianure della Pieria, che
arrivavano fino alle coste del golfo Thermaico. Montagna, colline e pianure,
caratterizzate da clima differente, offrivano alla Macedonia una varietà di risorse.
Le montagne producevano il legname utile per la cantieristica. Le zone collinari
erano adatte al pascolo, e insieme a quelle pianeggiati, si prestavano alla
coltivazione. Intervallo com’era da una seria di laghi e solcata da tanti fiumi, la
regione era ricchissima d’acqua. Fu in particolare l’abbondanza del legname
proveniente dalle foreste di pini, abeti, querce, betulle, credi e cornioli a rendere
celebre la Macedonia. Sulle montagne e nelle valli viveva una fauna selvatica
assai variegata formata da linci, lupi, cervi, volpi, la cui presenza rendeva
praticabile la caccia, tra le occupazioni più care alla nobiltà macedone. A essa si
univano le greggi di pecore e capre, che fornivano carni ma soprattutto latte e
derivati e lana, ma anche le mandrie di buoi e cavalli, che i pastori trasferivano
stagionalmente da una parte all’altra della regione seguendo percorsi di
transumanza. Alcune regioni della Macedonia erano adatte anche alla
coltivazione dell’ulivo, mentre resta da verificare la coltivazione della vite e la
produzione di vino. La Macedonia era ricchissima soprattutto di risorse
minerarie: non solo di metalli preziosi come argento e oro, presenti in grandi
quantità soprattutto nella parte est della regione, ma anche di ferro e rame. Le
città di Macedonia erano piccole e poco numerose. La stessa Pella, capitale con
Archelao, per estensione e numero di abitanti doveva essere ben pcoa cosa
rispetto alle più popolose e ricche polis del sud come Atene, Corinto, o nel mondo
coloniale d’Occidente, Siracusa. Sebbene, come rivelato, la Macedonia non
mancasse di risorse naturalistiche e minerarie, a penalizzarla per lungo tempo fu
soprattutto la possibilità di trarne profitto con commercio. Le città portuali,
dislocate lungo la costa, e in particolare, lungo l’ampio arco del golfo Thermaico
non sempre furono sotto il controllo dei diversi.
3. I predecessori di Filippo
Da Aminta I ad Alessandro I
La storia della Macedonia si fa più chiara allorché si intreccia alle vicende che
videro coinvolto il mondo greco, come le guerre persiane o la guerra del
Peloponneso. Nel 513 il re persiano Dario I venne in contatto per la prima volta
con i re macedoni, e in quel periodo era al governo Aminta I, al quale inviò la
richiesta di terra e acqua, che stava a significare completa sottomissione e
rinuncia a ogni diritto sulle proprie terre. Questo episodio, che sotto Filippo
costituirà un tema succulento per motivi politici e intellettuali, utile a sostenere e
attaccare il re persiano attraverso il suo antenato, presenta Alessandro I sotto
una luce favorevolissima, oscurando il padre Aminta, e rafforzando la sua
immagine di amico e difensore dei greci. Il rapporto tra Macedonia e Persia venne
comunque rafforzato da un matrimonio, ma le nozze non evitarono che la
Macedonia ricadesse comunque nell'orbita di Dario. Nel 492 infatti, con
Alessandro ormai re di Macedonia (la successione al padre si pone tra il 498 e il
494), il generale Mardonio, nella sua marcia di avvicinamento dalla Tracia verso
Atene, sottomise le popolazioni che incontrò al suo passaggio, tre le quali vi erano
anche i macedoni. Morto Dario, i persiani vollero la rivincita sui greci. Così il
nuovo re Serse, costruita un'imponente flotta e allestito un potente esercito, si
rivolse contro la Grecia allo scopo di vendicare la sconfitta. Anche la sua armata
attraversò, nella marcia di avvicinamento ad Atene e alla Grecia, la Macedonia. E
in questa occasione Alessandro I, nel 492, dovette piegarsi ai persiani. Tuttavia, il
suo atteggiamento fu bifronte: da una parte manifestò un necessario e per molti
versi inevitabile sostegno ai persiani, finalizzato a scongiurare l'invasione del
proprio Regno, dall'altra non mancò di aiutare i greci svelando loro i piani del
barbaro. Infatti, il re macedone inviò alcuni suoi messaggeri ai contingenti greci,
informandoli della consistenza delle truppe e della flotta persiana. Se per un
verso Alessandro I aiutò i greci, per un altro non fece mancare il suo sostegno ai
persiani grazie ai quali era riuscito a mantenere l'indipendenza del suo Regno.
Nella duplice e imbarazzante veste di alleato dei persiani da una parte, e amico
dei greci dall'altra, Alessandro fu incaricato dal generale Mardonio (persiano) di
condurre un'ambasceria ad Atene, dove qualche tempo prima il re macedone era
stato onorato, riconoscendolo di fatto benefattore e protettore dei cittadini
ateniesi in Macedonia. Poiché il suo compito era quello di persuadere gli ateniesi
a non proseguire nel conflitto, il re Alessandro parlo all'assemblea avanzando le
proposte del gran Re, ovvero scendere a patti, abbandonare il territorio,
scegliendone un altro, liberi e autonomi, e i templi non sarebbero stati distrutti.
Sdegnati per una simile proposta, gli ateniesi non solo la rifiutarono, ma
imposero al re macedone di non portare in futuro offerte del genere. Stando
ancora ad Erodoto, Alessandro ha un ruolo decisivo anche nel 479 a Platea, nella
battaglia che pose fine alla guerra, perché fu lui a recarsi nel campo dei greci e a
mettere al corrente gli strateghi ateniesi dei piani militari persiani. La sua figura
fu quindi a metà tra l'appoggio ai greci e l'accusa di parteggiare per i barbari. In
ogni caso fu con Alessandro che la dinastia Argea ricevette il primo e autorevole
riconoscimento di grecità, in una data che si aggira forse intorno al 476, quando
fu ammesso a partecipare ai giochi, tradizionalmente riservati solo ai greci,
riconoscendo di fatto l'origine argiva, e dunque greca.
Da Perdicca II ad Archelao
Alla morte di Alessandro I, avvenuta nel 454, Il Regno passò ai suoi figli Alceta,
Aminta, Filippo, Menelao e Perdicca. Quest'ultimo, dopo una serie di guerre tra i
pretendenti al trono che esplose all'interno della famiglia, prese il potere intorno
al 440 e lo mantenne fino al 413. Alla sua morte divenne re il figlio Archelao che
regnò fino al 399. Per mantenere il controllo del proprio Regno, Perdicca II si
trovò compresso tra il blocco spartano e quello ateniese, con le due città rivali
impegnate a fronteggiarsi nella lunga guerra del Peloponneso. Schierarsi
apertamente per una delle due potenze avrebbe inevitabilmente portato delle
conseguenze per il Regno, al confine con città o territori legati all'una o all'altra
dei suoi contendenti. interessato all'area compresa tra il Golfo Termaico e la
penisola calcidica, nel 432 sostenne la nascita della Confederazione calcidese con
capitale Olimpo. In questo modo il sovrano tentò di arginare la presenza ateniese
nella regione e tutelare i propri interessi commerciali. Nelle fonti le notizie sulla
Macedonia e i suoi re non mancano di larghe pause, dando più spazio alle due
potenze principali, Sparta e Atene, e infatti riprendono a offrire informazioni più
continue e dettagliate sulla Macedonia a partire dal Regno di Archelao. Archelao
prese il potere nel 413, alla morte del padre, e lo mantenne per 14 anni. In questo
breve periodo il sovrano, da una parte seppe rinsaldare i legami con la potente
famiglia tessala degli Alevadi di Larissa, al fine di consolidare il confine a sud, e
dall'altra dotò la Macedonia di strade, potenziò l'apparato militare, rese la sua
Corte meta di noti artisti e intellettuali greci. Archelao fu in ottimi rapporti con
Atene. E la collaborazione con Atene, in anni difficili per via della guerra contro
Sparta appoggiato dal re di Persia nell'ultima parte del conflitto, si tradusse in
onore, che il re ricevette nella polis attica. Nel decreto gli ateniesi indicavano
Archelao come benefattore della città, poiché le aveva fornito sia il legname per la
costruzione delle navi, sia ogni altro bene. Fu ancora Archelao a spostare la
capitale del Regno da Ege a Pella, ed Ege divenne un centro religioso, affiancato e
superato tuttavia da Dion, dove sorgeva un santuario di Zeus olimpio. Archelao
fu noto anche per la sua azione di mecenatismo e l'opera di ellenizzazione della
Corte, accolsero infatti numerosi intellettuali e artisti, tra cui il tragediografo
Euripide.
Da Aminta III a Perdicca III
Nel 399 la morte violenta di Archelao, ucciso da membri della sua Corte, fece
precipitare il regno in un lungo periodo di instabilità dal quale solo Filippo lo
avrebbe finalmente risollevato. Scomparso Archelao presero il potere prima il
figlio Oreste, poi altri discendenti, fino a quando il potere passò nel 392 nelle
mani di Aminta III, che avrebbe regnato fino al 370. Anche Aminta III non mancò
di oscillare tra il sostegno a Sparta, egemone del mondo greco dopo la vittoria
nella guerra del Peloponneso, e Atene che via via si stava risollevando dalla
sconfitta. Il suo Regno fu complessivamente assai lungo. Schiacciato tra Sparta e
Atene, e sempre minacciato dalla potente Confederazione calcidese, Aminta III nel
tre 383 si appoggiò a Sparta per fronteggiare la minaccia portategli dai calcidesi,
che erano arrivati a occupare addirittura Pella. L'aiuto spartano li costrinse a
ritirarsi e a ripristinare gli antichi rapporti con la Macedonia. Di contro Aminta III
non mancò di sostenere Atene e i suoi strateghi, portando legname alla città
dell'attica, e stipulando tra il 375 e il 373 un trattato di alleanza con Atene, che
ne faceva della Macedonia il principale fornitore di legname della città. Fu alla
morte di Aminta III, nel 370, che la Macedonia conobbe un periodo di lotte
intestine tra innumerevoli aspiranti alla successione, che potevano contare sul
sostegno di potenze straniere interessate ad avere il controllo della regione. Una
lotta per il potere che si concluse con Perdicca III, che prese il potere nel 365.
Perdicca, che regnò per soli 5 anni, diede al suo giovane fratello Filippo una parte
di regno da amministrare. Anche La Corte di Perdicca divenne meta di
intellettuali, come Platone. L'apporto di personalità greche nel risollevamento
della Macedonia fu notevole sotto Perdicca, che riuscì a migliorare la situazione
finanziaria e politica, dopo anni di difficili e tormentate vicende dinastiche. Ma
durante una spedizione a nord contro gli illiri il sovrano perse la vita, e questa fu
una disfatta da un punto di vista militare e politico, perché la morte del re faceva
sprofondare ancora una volta la Macedonia nell'instabilità, privandola di una
guida, e lasciandola ai pericolosi popoli confinanti. Poiché legittimo erede al
trono, Aminta IV, figlio di Perdicca, era ancora troppo giovane, e la situazione era
assai grave, a prendere il potere fu Filippo, fratello minore di Perdicca, nel 360.
La strada verso il Regno
La situazione che Filippo trovò in Macedonia dopo la sconfitta del fratello contro
gli illiri è assai grave, con le popolazioni vicine, da sempre ostili, pronte ad
approfittare del rovescio militare e di una monarchia vacillante virgola e le
aspirazioni al trono di diversi pretendenti sostenuti da che aveva interesse ad
assumere il controllo del Regno e a sfruttarne le ingenti risorse minerarie e
boschive. La ricostruzione doveva partire proprio dalle truppe massacrate dagli
illiri poco tempo prima, uomini che Ehi sembravano aver perso coraggio e ardore.
Occorreva quindi un uomo maturo, sufficientemente addentro alle questioni
politiche, militari e amministrative virgola che potesse ridare al Regno stabilità e
solidità militare ed economica, ovvero Filippo.
1. Una difficile infanzia
Nato tra il 383 e il 382, Filippo era il terzo dei figli di Aminta III ed Euridice, dopo
il primogenito Alessandro II e il secondogenito Perdicca III. Della sua infanzia
nulla è stato tramandato dalle fonti, è verosimile credere che la condusse a Pella.
Quanti non si soffermano nemmeno sull'educazione ricevuta, è tuttavia probabile
che fosse quella riservata ai paggi reali. I paggi ricevevano una solida educazione
greca, che si univa all'addestramento militare e alla partecipazione alle battute di
caccia. Dopo aver dimostrato le proprie capacità in queste due attività, il giovane
era ammesso ai simposi, che costituivano il momento più alto della vita sociale
della nobiltà macedone. Filippo acquisì così una solida conoscenza della cultura
greca, unita al rispetto per le più antiche tradizioni macedoni. Nell'adolescenza di
Filippo si colloca un episodio di cui fanno menzione le fonti: il soggiorno forzato
come ostaggio di guerra prima presso gli illiri, poi a Tebe. Questi fatti avvennero
come garanzia degli accordi e raggiunti per terminare le sofferenze da parte degli
illiri e poi dai tebani, in particolar modo dal generale Pelopida. Le fonti
accompagnano la vicenda con versioni particolarmente differenti. Ma sicuramente
Filippo visse nella casa di un comandante tebano, e questo è un elemento non da
poco per comprendere le abilità militari che Filippo avrebbe mostrato nell'arco di
tutto il suo Regno, grazie al generale Pammene. Fu quest'ultimo a ideare il
famoso battaglione sacro che tanti successi avrebbe garantito ai tebani negli anni
della loro egemonia. Il legame tra Filippo e il suo maestro Pammene dovette
essere forte e duraturo. Il soggiorno di Filippo a Tebe durò circa tre anni, dal 369
al 366 circa. La liberazione è confermata da un documento epigrafico che attesta
nel 365 la concessione di onori, e dunque il ripristino di rapporti di amicizia tra la
Macedonia e i Beoti. Nel 365 perciò Filippo, ormai diciassettenne/diciottenne,
doveva essere già tornato in patria.
2. L’organizzazione dell’esercito
È Opinione condivisa che la riorganizzazione dell'esercito da parte di Filippo,
all'indomani della disfatta del fratello contro gli illiri, trovasse la sua prima origine
proprio nel soggiorno tebano. Al valore e alle tattiche militari di Epaminonda e
Pelopida si sarebbe ispirato Filippo nelle strategie di guerra. Esse avrebbero
costituito un vademecum per il nuovo re che riorganizzò il proprio esercito
creando la falange. Così dai tebani Filippo riprese lo schieramento obliquo
scegliendo di rafforzare un'ala E concentrandovi gli uomini migliori. Rese più
compatto rispetto al modello di partenza il reparto di fanteria, alleggerendo i
soldati delle armi non necessarie, e dotandoli di uno scudo meno pesante appeso
al collo, di una spada e di una lancia, la larissa, lunga oltre i 7m, dei quali
almeno 5m sporgevano in avanti oltre le braccia del soldato che la impugnava.
Abbassandole in maniera sincronizzata in direzione del nemico, i fanti disposti in
un numero di file che variava da 16 a 32, rendevano pressoché impenetrabile la
formazione protetta sia in avanti sia dall'alto delle lunghe lance. La falange
dimostrò la sua efficacia soprattutto nei combattimenti in località pianeggianti e
prive di vegetazione, nelle quali più agevolmente poteva distendersi. Col tempo,
aumentando le rendite del Regno a seguito della conquista di nuovi territori e
dell'accaparramento di giacimenti di metalli preziosi, Filippo ebbe l'opportunità di
dare vita a un corpo di fanteria leggera, e di assoldare arcieri e mercenari. Pensò
anche di creare un reparto di guardie del corpo. Alle truppe di terra Filippo
unificò col tempo anche quelle di mare, e lo fece a partire dal 342, spostando con
più forza i suoi interessi verso la zona degli stretti, ed ebbe bisogno di una
potente flotta in grado di battersi con successo anche in scontri navali. Contando
sulla macchina da guerra che aveva costruito, Filippo non esitò a guidare il suo
esercito ponendosi sempre in prima fila e assumendosi onori e rischi di chi
combatte corpo a corpo contro il nemico. Non sempre il combattimento si
tradusse in uno o più scontri campali, laddove l'assedio riduceva la forza di
impatto delle truppe e ne metteva alla prova la resistenza, Filippo fece intervenire
macchine d'attacco quali la catapulta. Costante fu il suo sforzo nel rafforzare e
migliorare l'apparato bellico. Così nel 348 durante l'assedio di Olinto per la prima
volta impiego la cosiddetta macchina dello scorpione, un congegno lancia dardi a
torsione.
3. Tenere a bada i vicini! Guerra e strategia matrimoniale
Filippo prese il potere tra l'estate del 360 e l'estate del 359. Le fonti, costituite da
Diodoro e Trogo Giustino, sono alquanto contraddittorie in merito alla carica
assunta. Secondo il primo, Filippo divenne subito re, secondo il secondo, prima di
essere acclamato re, per alcuni anni mantenne il ruolo di tutore del giovane
nipote Aminta quarto. È comunque chiaro che immediatamente si pose alla guida
del Regno, forte anche delle esperienze che aveva maturato sia a Tebe sia in
Macedonia. Con i bellicosi vicini pronti ai nuovi attacchi, e numerosi pretendenti
interessati a occupare il trono, Filippo mostrò fin da subito le doti di capo
militare, ma anche di tessitore di accordi e alleanze, qualità che le fonti
riconoscono anche attraverso una serie di aneddoti, e di evidenziarne la capacità
strategica e le abilità diplomatiche. Oltre agli interventi attraverso le armi,
impiego strumenti più sottili ma efficaci quali gli accordi politici, alleanze
matrimoniali, corruzione, inganno. In molti casi furono gli interlocutori e le
circostanze a fargli scegliere la migliore: strada militare o percorso diplomatico.
Nel 363 159 gli interlocutori erano: le nobili famiglie dell'alta Macedonia; l’esercito
duramente provato; le bellicose popolazioni confinanti come i traci e gli illiri; e
Atene. Le scelte di Filippo tracciano una linea di comportamento multiforme;
infatti, le parole d'ordine per il sovrano furono: spezzare il fronte, indebolire il
nemico, frantumando nella compattezza e dando vita a unità più piccole, più
facilmente assoggettabili. Seguendo un modus operandi che sarebbe diventato
una costante del suo Regno, Filippo innanzitutto acquisì il consenso e il sostegno
delle nobili famiglie dell'alta Macedonia, attraverso un'alleanza matrimoniale. Ai
primi mesi di Regno sembra risalire infatti il primo dei suoi sette matrimoni. In
questo caso la prescelta fu Fila, figlia di membri di una delle più importanti e
autorevoli casate della regione. Quanto alla multiforme minaccia rappresentata
sul fronte interno, dalla condizione emotiva delle truppe terrorizzate e scoraggiate
all'indomani del disastro contro gli illiri, su quello esterno dalla minaccia delle
popolazioni confinanti, Filippo ricorse alla forza della parola, così da una parte
esortò con i discorsi i suoi uomini convocandoli in continue assemblee, dall'altra
mostrò di rinunciare ad Anfipoli, pur di disinnescare l'ostilità di Atene. Verso le
altre situazioni dei popoli confinanti utilizzò la parola attraverso ingannevoli
promesse, con l'efficacia persuasiva della corruzione, attuata attraverso
l'elargizione di doni. Si trattò però, come avrebbero dimostrato le azioni future,
solo di scelte momentanee dettate dalla necessità di rompere l'accerchiamento e
indebolire i pericolosi vicini isolandoli. Non era certo questo il momento per
sostenere una guerra su più fronti, occorreva attendere. Il re si mise in azione nel
358 quando mandò un'ambasceria ad Atene. Allo scopo di siglare un accordo di
pace, le garanzie che nessuna pretesa avrebbe avanzato su Anfipoli e in questo
modo tenne buono il potente avversario e poté concentrarsi su altre situazioni.
Poco tempo dopo, infatti, violando l'accordo di pace, attacco i nemici peoni e dopo
averli battuti, li sottomise, e questa fu l'occasione per riprendere confidenza con
la guerra e tornare a combattere contro le popolazioni del nord, ma anche per
iniziare a prendere consapevolezza della ritrovata forza che Filippo aveva saputo
instillare nella sua nuova creatura, una macchina da guerra che cominciava a
carburare. Successivamente Filippo rivolse le sue attenzioni al nemico principale,
gli illiri, che continuavano a minacciare l'integrità e la sicurezza del Regno
macedone premendo sulla frontiera a nord ovest. Fu proprio nella guerra agli illiri
che per la prima volta il macedone ebbe modo di verificare la reale forza del suo
nuovo esercito. Per tale motivo, curando l'aspetto psicologico dei suoi uomini, già
preparate sul piano fisico e tattico, indirizzo loro discorsi dal carattere
evidentemente motivanti, finalizzati a dare coraggio nell'imminente battaglia,
rivolgendosi dunque ai suoi uomini con le parole più efficaci, per raddoppiarne il
coraggio e stimolarne ira e odio contro il nemico, guidandoli in prima fila,
portando sempre alla massima potenza l'espressione militare dei macedoni. Così
dispose le truppe, attaccò in battaglia e ottenne la vittoria. Il successo portò un
ulteriore risultato, oltre alla vendetta, i suoi soldati ora avevano acquisito piena
consapevolezza della forza ed erano pronti a seguirlo in altre imprese militari. La
Macedonia quindi si allargava sempre.
Atene: uno scontro inevitabile
1. Una contesa senza fine: Anfipoli
Ottenuto l'appoggio delle famiglie dall'alta Macedonia, e soggiogate popolazioni
bellicose ostili come peoni e illiri, gli interessi di filippo si volsero prima a
occidente poi a nord-est del regno. Vicino si trovava il Regno d’Epiro, e anche in
questo caso Filippo non ricorse alla guerra ma strinse un legame matrimoniale.
Prese dunque moglie, la quarta al momento, Olimpiade. Il forte legame creato con
l’Epiro attraverso l’ennesima alleanza matrimoniale da una parte contribuì a dare
sicurezza alla frontiera occidentale del regno, dall'altro, rappresentò un deterrente
contro eventuali nuove insurrezioni sia da parte delle famiglie dell'alta
Macedonia, sia degli illiri. A nordest vi era invece la ricca regione mineraria del
Pangeo, a ridosso della quale sorgeva la città di Anfipoli, e comprendendo
l'importanza commerciale e strategica che avrebbe avuto, gli ateniesi fin dal 476
avevano cercato, senza successo, di mettervi piede attraverso la fondazione di un
avamposto, e vi erano riusciti solo nel 347 quando fondarono Anfipoli, così
denominata dal momento che il fiume Strymon la circondava bagnandola su due
lati. È strategicamente ubicata alla foce del fiume Strymon, che consentiva il
trasporto su acqua delle merci del massiccio pangea fino al Mar egeo. Anfipoli
permetteva di controllare i ricchi giacimenti d'oro e d'argento dislocati nella
regione e di esportare i preziosi metalli sia per terra, sia via mare. Per tale
ragione, il suo controllo era stato motivo di scontro tra Sparta e Atene nel corso
della guerra del Peloponneso. Rimase autonoma per lungo tempo fino a quando
Perdicca III nel 360 la occupò, installandovi una guarnigione. La risposta degli
abitanti fu immediata e produsse la sconfitta del re macedone, che stipulò col
sovrano una tregua al fine di ottenere dei vantaggi ad Anfipoli, continuò a
rimanere sotto il controllo della guarnigione macedone fino al 359, quando Filippo
la liberò dal presidio e le restituì l'autonomia. Conquistò la fiducia degli ateniesi,
che nel 358 furono disposti a stipulare un accordo di pace su sua richiesta. Sì,
trattò di un inganno. La richiesta di pace in realtà era stata funzionale solo al
proseguo della guerra ai suoi vicini. Una volta vinti e sottomessi i due popoli,
riemergevano con la forza su Anfipoli e sulla regione del Pangeo. A nulla valsero
promesse e accordi, ora che l'esercito appariva più che mai ingaggiato dai recenti
successi, la conquista di Anfipoli e dell'area del Pangeo si configurava nella
prossima mossa. In questo caso però occorre giustificare un'azione che infrangeva
un accordo di pace. Nel 357, Filippo, dopo essersi premurato di inviare una
lettera agli ateniesi, nella quale attestava la legittimità delle loro pretese su
Anfipoli, dichiarò che l’avrebbe conquistata per poi cederla a loro. Al di là degli
accordi veri o presunti, e chiaro che il controllo Anfipoli avrebbe segnato un
punto di svolta per Filippo e il suo regno. Così, ignorando le promesse agli
Ateniesi e seguendo solamente la scia dei propri interessi, che lo portava verso
una regione ricca di minerali, il re macedone nel 357 attaccò Anfipoli e la
conquistò rapidamente. La necessità di possedere un’area strategicamente
importante e controllare risorse minerarie di rilievo, sopravanzarono così la
sacralità di un accordo di pace. Tuttavia, non fu un delitto violarlo, se a
determinare l’azione era stata la “presunta” e “mai provata” perdurante ostilità di
Anfipoli alla Macedonia, ed era questa, evidentemente, la giustificazione che
Filippo diede al suo gesto, di fatto addossando ogni responsabilità del conflitto
alla polis tracia. Espugnata la città, anche attraverso l’uso di macchine d’assedio,
Filippo espulse la fazione antimacedone e filoateniese, ma trattò con filantropia
gli altri. Anfipoli in breve tempo divenne una città macedone, popolata da coloni
macedoni, caratterizzata da trazioni macedoni come il calendario, battente
moneta macedone. Tutto ciò accrebbe di molto la potenza di Filippo, ma rese
chiaro lo scontro con Atene solo mascherato dalla pace/farsa del 358. Privati di
un avamposto così importante, gli ateniesi non avrebbero mancato per anni di
reclamare il possesso della città tracia. La rivendicazione sarebbe diventata tema
caro gli antimacedoni, pronti ad attaccare Filippo usando quest’argomento per
evidenziarne l’inaffidabilità.
2. Il controllo dei centri costieri e l’autosufficienza della Macedonia
Oltre che contro Anfipoli, Filippo volse la sua attenzione anche a sud, dove
risiedevano i Tessali. L’occasione gli venne da un fatto di sangue. Alessandro,
tiranno di Fere, venne ucciso dalla moglie Tebe e dai fratelli di lei. Costoro presero
il potere il potere con la forza esercitandolo sull’intera Tessaglia. A essi si oppose
la potente famiglia degli Alevadi di Larissa, molto considerata nella regione per il
suo alto lignaggio, i quali chiesero soccorso proprio a Filippo. E Filippo non esitò
a intervenire. Penetrato in Tessaglia, sconfisse i tiranni di Fere, ridiede la libertà
alle città e si mostro bendisposto verso i Tessali, ottenendone appoggio e
consenso. Dopo, seguendo un piano di espansione preciso, Filippo si lanciò
dunque nella conquista di città strategicamente e politicamente funzionali agli
interessi della Macedonia. Una spinta ulteriore a proseguire nel suo piano di
conquista delle città ubicate sulla costa venne a Filippo dal desiderio di Olinto,
capitale della Confederazione dei Calcidesi di Tracia, di fronteggiare
l’espansionismo ateniese nella regione. Il desiderio dei Calcidesi di mettere un
freno alle mire espansionistiche ateniesi, tutelando e accrescendo i propri
interessi nella regione incontrò il bisogno di Filippo di controllare le coste e
fornire al suo regno i necessari e indispensabili sbocchi sul mare. Fu proprio
questo incrocio di obiettivi, nonché la presenza di un comune nemico, a favorire
l’accordo tra le due parti. Il trattato poneva in evidenza la sacralità dell’accordo,
poggiandosi su un vaticinio delfico, su un formale giuramento in nome degli dèi,
sui sacrifici agli dèi, sulla collocazione di tre copie dell’accordo in tre templi (Delfi,
Olinto e Dion). I primi risultati dell’accordo non si fecero attendere, poiché
l’alleanza diede forza a entrambe le parti contro il comune nemico e si rivelò
vantaggiosa. Sul versante macedone, Filippo, dopo aver preso Pidna nel 357,
pochi mesi dopo si rivolse contro Potidea. Fece la stessa cosa con Anthemus,
soggiogata e ceduta agli alleati. Mostrò così di mantenere i termini del trattato,
perseguendo gli interessi propri, senza dimenticare quelli degli alleati. L’accordo
così gli permetteva di arginare gli Ateniesi e di impedire così un riavvicinamento
tra le due parti (Olinto e la Confederazione). Era comunque Filippo a trarre i
maggiori vantaggi dal trattato, perché più che dare garanzie ai Calcidesi contro le
mire ateniesi, di fatto ne disinnescava la forza isolandoli e tenendoli lontani
proprio da Atene, in quel momento la potenza più attrezzata per contrastare le
mire macedoni. Diede poi soccorso alla città di Crenide, ribattezzandola dopo
Filippi. Dunque, se la conquista di Anfipoli prima, e di Crenide/Filippi poi,
consentì a Filippo di controllare tutta la ricchissima regione del pangea, la presa
di Pidna alla fine del 300 gli offrì lo sbocco al mare nel Golfo Termaico. Una
presenza macedone sul mare che diventava doppia solo a distanza di un anno,
quando attaccò la città di Methone, sottratta anche in questo caso agli Ateniesi. Il
356 fu dunque un anno davvero denso di eventi per Filippo che aveva conquistato
Anfipoli e Methone e soggiogato una parte del regno di Tracia, oltre l’obbedienza
dei Peoni e degli Illiri, con la presa anche di Potidea e Pidna, città portuali. E in
quell’anno, il 356, che ebbe la notizia anche della nascita di Alessandro dalla
moglie epirota Olimpiade.
Parte seconda: L’avvicinamento al mondo greco
Filippo Paladino della Giustizia Divina
1. Religio instrumentu imperii: la “Guerra di Vendetta” in nome di Apollo nella
Terza Guerra Sacra
Alla fine del 355 la Macedonia poteva dirsi uno stato solido. Lo era militarmente,
per via della macchina da guerra che Filippo aveva costruito e che non avrebbe
mancato di implementare; lo era economicamente per le varie risorse boschive e
minerarie di cui era ricca. Complessivamente fino a quel momento il mondo
greco, dove si estendevano le ampie pianure della Tessaglia e sorgevano le città
che avevano dato lustro i greci come Tebe, Argo, Sparta e soprattutto Atene, non
era stato toccato dall'azione di Filippo. L'azione di Filippo era stata periferica e il
mondo greco ne era stato escluso. Tutto questo fino a quando nel 354 tebani e
tessali, avendo subìto la sconfitta per mano dei focesi nella cosiddetta terza
guerra sacra, decisero di chiedere l'aiuto del macedone e di affidargli il comando
delle operazioni militari. E Filippo accettò. La terza guerra sacra era scoppiata
due anni prima. Nel 356 i tebani, pilotando le decisioni del consiglio
dell'anfizionia, accusarono i focesi di aver coltivato illegalmente un'ampia parte
del territorio sacro che si estendeva al di sotto del Santuario di Apollo, la
cosiddetta Pianura di Cirra/Crisa. Le infezioni così prima li multarono, poi
chiesero di cedere il territorio che avevano coltivato illegalmente. Le proteste dei
Focesi, guidati da Filomelo, sfociarono non solo in un ulteriore rifiuto al
pagamento, ma anche nella plateale occupazione del Santuario di Delfi, del quale
rivendicarono la propria appartenenza. Fu questo il detonatore del conflitto.
Investito dei pieni poteri, Filomelo organizzò un forte esercito. Ed ebbe subito il
sostegno degli spartani. Occupò il santuario, sbaragliò le truppe dei vicini locresi,
che avevano tentato di opporsi e, alla fine lo depredò. La guerra si allargò
rapidamente. Oltre che degli spartani, i Focesi trovarono il sostegno anche degli
ateniesi. I tebani alla guida dei Beoti ebbero dalla propria parte i locresi, i tessali,
i dori e tante altre popolazioni. Si trattava così di una guerra tra le comunità
greche che facevano parte della anfizionia pilaico delfica. Il nuovo conflitto. Entra
subito nel vivo. Nel 354 i Focesi penetrarono nella Locride e affrontarono con
successo l'esercito composto dai tebani, tessali e locresi. Poco tempo dopo
l'esercito Tebano si prese la rivincita. La guerra era solamente alle prime fasi e
tutt'altro che concluso. In quello stesso anno le elezioni di Onomarco come
comandante focese riaccesero il conflitto. Il nuovo comandante riuscì ad ottenere
la neutralità dei tessali e ad effettuare scorrerie nella Locride e nella Beozia. Così i
tebani trovatosi da soli chiesero a Filippo di prendere parte al conflitto invitandolo
a intervenire in Tessaglia. Il ricorso all'aiuto di Filippo da parte dei tebani segnò
una svolta nel conflitto sia dal punto di vista militare sia di quello ideologico. Per
la prima volta una guerra che coinvolgeva solo le comunità greche si apriva
all'intervento di uno straniero: un re macedone è estraneo alla Lega sacra e non
vincolato dagli obblighi che tutti i partecipanti si erano dati sulla base di un
solenne giuramento. Filippo seppe sfruttare al meglio l'occasione sia sul versante
militare sia su quello ideologico facendo proprio il tema della Giustizia violata che
era alla base del conflitto. Nell'estate/autunno del 353 le truppe di Filippo
insieme a quelle dei tessali ebbero la peggio in due scontri contro Onomarco.
Nell'occasione, Filippo non solo contò i morti ma dovette fronteggiare anche il
tentativo di dispersione di molti dei suoi uomini, e ricondurli all'ordine,
risollevarne il morale e ridare loro fiducia, che fu certamente il compito più arduo
per lui. Così ricondusse all'ordine e li rese pronti ad affrontare nuovamente il
nemico. Ad attenderli era la rivincita contro Onomarco. Si profilava un nuovo
scontro dall'esito incerto. La resa dei conti si ebbe in Tessaglia, ai Campi di
Croco. Fu in questo delicato momento che il re seppe contrapporre all’incertezza
la certezza nella Vittoria attraverso un gesto simbolico. Ordinando ai soldati,
macedoni e tessali, di porre sulla testa delle corone di alloro, Filippo per la prima
volta offriva alla guerra, che era stato chiamato a condurre, la connotazione di
guerra di vendetta il nome della Giustizia. Si presentava così nel ruolo di
vendicatore del dio Apollo e del suo santuario contro i sacrilegi che avevano usato
violarlo. Dava di fatto alle truppe la speranza di successo contro chi le aveva
battute poco tempo prima perché sotto la guida e la protezione di Apollo il
successo era certo. Si trattava di un gesto propagandistico in piena regola. Se la
propaganda mira a creare determinate convinzioni spesso distanti dalla realtà dei
fatti e ad offrire immagini che non sempre corrispondono al vero creando
consenso; se essa poggia generalmente su quattro elementi: emittente, contenuto
e presentazione del messaggio, destinatario, si può dire che tutti questi fattori
siano presenti in questa occasione. Filippo coniava personalmente il messaggio
capace di abbinare la guerra alla vendetta e alla giustizia il nome di Apollo.
Ricorrendo alla forza di persuasione della religione e alla suggestione che il gesto
delle corone era in grado di infondere, riusciva così a motivare al meglio gli
uomini del suo esercito nell'imminente battaglia contro il temibile Onomarco,
eliminando di fatto il GAP psicologico tra loro e gli avversari che trovava linfa nel
ricordo delle due recenti sconfitte. Venuto allo scontro ai Campi di Croco l'esercito
di Filippo ebbe la meglio su quello di Onomarco. Oltre che sancirne la superiorità
strategica, il successo consacrava Filippo nel ruolo di vendicatore di Apollo, che
egli stesso si era dato. All'indomani del successo Filippo volle cogliere i frutti
concreti del suo sforzo militare. Ed è in questa occasione che si sgretolava la
maschera di difensore di Apollo che aveva indossato e dietro di essa emergeva il
volto di un re attento al proprio tornaconto. Filippo non si dimostrò più leale
verso i suoi alleati e infatti occupò da nemico e distrusse le città di cui proprio
poco prima era stato condottiero. Vendette come schiavi le mogli e i figli di tutti
gli abitanti, non risparmiò i tempi degli Dei, né gli edifici sacri. Aggiunse al
dominio della Macedonia l'intera regione della Tracia. Ma per cancellare la sua
fama di odiosità mandò attraverso i regni e le città più ricche messaggeri per
spargere la voce che re Filippo con grandi contributi di denaro appartava
l'erezione di mura, santuari e templi nelle città. Anche in questo caso fu Filippo in
persona a farsi promotore di una strategia del consenso mirata a riconquistare
l’antica approvazione degli alleati. In questa occasione il re fu abile ad assumere i
panni nobili del benefattore, presentandosi come promotore e sostenitore di
un'iniziativa improntata alla pietà, sbandierata sapientemente nelle diverse
comunità attraverso i suoi araldi. Riottenendo così la fama per le sue recenti
azioni e reintegrato nel ruolo di difensore di Apollo, Filippo non mantenne le sue
promesse. Prima rimandò l’avvio del piano, poi lo archiviò definitivamente.
Rimase solo il buon nome e la fama. Così chiuse momentaneamente la sua
partecipazione alla terza guerra sacra e se ne tornò in Macedonia nel 352. E la
vittoria contro Onomarco diede a Filippo il controllo della Tessaglia. È proprio sui
tessali che Filippo montava l'attenzione per realizzare i successivi progetti e piani
per l'infiltrazione graduale ma inesorabile nel cuore della Grecia delle poleis. E nel
352, al fine di celebrare la vittoria sui Focesi e un nuovo successo olimpico col
carro, Filippoo conio gli stateri d'oro detti Filippi, una moneta di grande impatto
sul mondo greco, che presentava al dritto la testa di Apollo e al rovescio la biga al
galoppo con la leggenda Filippu.
2. Le paure dei Calcidesi di Tracia, i sospetti di Atene
Il successo di Filippo contro i Focesi rappresentò un punto di svolta anche nella
percezione del re ad Atene e tra i greci. Tale svolta coincide con l'ingresso
prepotente nella documentazione letteraria pervenuta dall'oratorio ateniese. La
reale minaccia è compresa e presentata all'assemblea da Demostene. Nella sua
prima filippica, pronunciata con tutta probabilità nel 351, Demostene indicava in
Filippo il nemico di Atene, facendo riferimento alle attività di Filippo che era
arrivato a concepire progetti multiformi, come quello di distruggere Tebe e le
democrazie in Grecia in accordo con Sparta, ed inviare ambasciatori al re di
Persia, sicuro che nessuno l'avrebbe ostacolato. Per la sua città (Atene) era giunto
dunque il momento di agire, per riprendersi quanto Filippo aveva sottratto,
conquistando città come Pidna, Potidea e Methone. Invitava dunque i concittadini
a non lasciarsi distrarre da quanto gli oratori dicevano sul se in assemblea, ma a
passare all'azione considerando il macedone un nemico che privava la città di
quanto le apparteneva e che, se non avessero preso consapevolezza della
pericolosità di Filippo, la situazione sarebbe diventata gravissima. Nel frattempo,
nel 352 Demostene segnalava un possibile avvicinamento tra Atene e la
confederazione guidata da Olinto.
3. La guerra a Olinto
L'avvicinamento di Olinto ad Atene con la promessa di un'alleanza rappresentò di
per sé una violazione dell'accordo del 357. È tale lo considerò Filippo che
necessitava ora di un casus belli per lanciare le sue truppe contro l'ex alleata. La
presenza ad Olinto dei suoi fratellastri, Arrideo e Menelao, accolti nella città, gli
diede una giustificazione plausibile ponendogli su un piatto d'argento l'occasione
che stava cercando. Accusandoli di attentare al suo potere, nel 350 le richieste
alla consegna immediata ad Olinti. Il rifiuto della città segnò l'inizio della guerra,
che di fatto si aprì nel 349 e si chiuse un anno dopo con la conquista e la
distruzione della città. Così accompagnò l'azione militare con una corta
comunicazione, secondo una sorta di copione che, come in tutte le azioni di
propaganda finalizzate a ottenere, mantenere o rafforzare il consenso, aveva la
sua forza e trovava la sua efficacia nella ripetitività dei temi, adatti alle
circostanze, e nella liturgia dei comportamenti. Nel caso di Olinto, la prima mossa
consistette nel costringere l'avversario alla guerra, lo fece inoltrando alla città una
richiesta che aveva la forma di un ordine: una richiesta irricevibile che, violando
di fatto l'autonomia della polis, avrebbe generato il rifiuto e, conseguentemente
l'apertura del conflitto. Nello scontro con Olinto e la Confederazione dei Calcidesi
Filippo dispiegò il suo imponente apparato bellico e fece anche ricorso alle armi
subdole della paura e della corruzione. Così prima distrusse la città di Stagira,
poi quando ormai la guerra andava avanti da un anno fece ricorso a una diffusa
azione di corruzione in tutte le città e nella stessa Olinto. Fu proprio la corruzione
a consentire a Filippo di accerchiare il nemico, si impossessò sia del porto sia
della città di Torone, e in questo modo impedì agli Olinti di ricevere rifornimenti e
di accettare così lo scontro. Filippo così costrinse gli avversari a rinchiudersi nelle
loro mura, dando inizio a un lungo assedio. Anche in questo caso fu la corruzione
a permettere a Filippo di chiudere vittoriosamente il conflitto. Avendo comprato la
collaborazione di alcuni esponenti politici più autorevoli degli Olinti, Filippo con il
loro aiuto riuscì a espugnare la città. La saccheggiò, la ridusse in schiavitù e
trasse dal bottino una grande quantità di denaro. Con la presa e la distruzione di
Olinto veniva sciolta anche L'Antica Confederazione. La tragica fine di Olinto
rappresentò certamente uno scacco per Atene che in tre occasioni aveva inviato
aiuti alla città ormai sotto assedio. Così Demostene, in un crescendo di accuse a
Filippo presentato come il nemico di Atene, aveva scosso la città dal suo torpore
adottando la linea della fermezza mettendo da parte le preoccupazioni del
bilancio.
4. Olinto: una “distruzione giusta” in nome degli dèi
Occorreva dimostrare la legittimità di un'azione, quale la distruzione di Olinto,
che apparve brutale e venne ricordata a lungo. Lo scalpore era nato dal fatto che
a perpetrarla era stato un re macedone. Questo marchio crudele costrinse Filippo
a trovare una necessaria giustificazione che lavasse la macchia e lo riabilitasse.
L'occasione in questo caso gli venne dalle tradizionali feste di Dion, la città sacra
dei Macedoni, luogo deputato per la custodia dei trattati, è sede del grande
santuario di Zeus Olimpio. Le feste duravano nove giorni e prevedevano
competizioni ginniche musicali. E in quelle del 348, secondo Demostene, Filippo
convocò per le competizioni tutti gli artisti, offrì loro un banchetto e premiò i
vincitori. Le feste si prestavano in primis a celebrare il recente successo contro
Olinto e la confederazione dei calcidesi; tuttavia, gli fornivano anche l'opportunità
di giustificare la distruzione di Olinto, nonostante Demostene la considerasse solo
come l’occasione per celebrare la vittoria dei Macedoni e la disgrazia dei Greci. Di
fronte a un pubblico costituito dalle delegazioni provenienti da moltissime
comunità, il re macedone ebbe modo di mostrarsi come chi aveva rispettato la
giustizia divina nella recente tragica vicenda. I magnifici sacrifici a Zeus Olimpio
nel suo tempio di Dion erano l'occasione per ricordare che proprio lì, in quel
tempio era stata posta copia del trattato di alleanza stipulato con i calcidesi nel
357. A violarlo era stata Olinto che aveva scelto di legarsi ad Atene e di porsi
contro il suo alleato Filippo. La guerra e la successiva distruzione erano state
giuste e legittime. Filippo aveva agito in difesa di un giuramento e di un responso
oracolare e aveva rispettato, proprio come nel 352 nella Guerra ai Focesi, la
giustizia divina punendo chi l'aveva violata. Il pubblico era il primo destinatario di
questo messaggio ispirato ancora una volta al rispetto degli Dei, e tutti lo
portavano nelle rispettive comunità di appartenenza accreditando Filippo come
era giusto e devoto, ma anche generoso è disponibile. Dunque, con
l'annientamento di Olinto e la conquista della penisola calcidica Filippo, non solo
riuscì ad annettere al suo regno una regione strategicamente importante,
completando la sottomissione di tutta l'area iniziata nel 357 con la presa di
Anfipoli, ma colse anche un nuovo successo di immagine, consolidandosi nel
ruolo di difensore della giustizia divina e vendicatore di ogni azione ispirata
dall'empietà. La vittoria è su Olinto gli aveva mostrato non solo tutti i limiti degli
ateniesi, incapaci di sostenere i conflitti su più fronti, ma anche la fragilità delle
comunità dislocate a sud delle Termopili.
La pace con Atene e la fine della Terza Guerra Sacra
1. Un riavvicinamento apparente: le trattative con gli Ateniesi e la stipula della
pace di Filocrate
Fu in questo momento di grave difficoltà che Atene e Filippo cercarono un'intesa
diplomatica. Le lunghe e contorte trattative tra le due parti sono ricordate da
Demostene ed Eschine. Si tratta di due fonti tutt'altro che imparziali, rendendo
complicato una esatta ricostruzione delle trattative che portarono alla
conclusione dell'accordo. Filippo mostrò segni di apertura verso gli avversari già
prima della distruzione di Olinto quando Atene ricevendo gli ambasciatori
dall'isola aveva preso da essi l'intenzione del re di riconciliarsi con loro
mantenendo la pace. Così, su proposta di Filocrate, la città decise di avviare
trattative di pace con Filippo, ma la trattativa naufragò. Gli antimacedoni
intentarono un processo per illegalità a Filocrate che venne assolto solo grazie
alla difesa di Demostene. Di lì a poco però le trattative ripresero. Ad avviarle
furono gli ateniesi che, attraverso l'attore tragico Aristodemo di Metaponto,
chiesero al re macedone di rilasciare gli ateniesi caduti suoi prigionieri a Olinto,
tra i quali era presente Iatrocle. La richiesta venne accolta e, al ritorno in città,
Aristodemo fu accompagnato da Iatrocle (liberato senza riscatto). A parlare
all'assemblea fu Aristodemo, il quale riferì della benevolenza del re verso Atene e
della sua intenzione a diventarne alleato. Fu all'indomani del rientro di
Aristodemo che gli ateniesi, spinti da Filocrate, decisero di avviare concrete
trattative col re macedone, inviando in Macedonia dieci i loro rappresentanti, tra i
quali: Demostene, Eschine, Filocrate, Aristodemo, Iatrocle, Cimone e Ctesifonte. Il
proseguo dei negoziati è illustrato da Eschine nell'orazione contro Timarco del
345 e dai discorsi contrapposti che Demostene ed Eschine. I lunghi negoziati
furono scanditi da una laboriosa procedura formale. Prima ci fu l'invio di una
delegazione ateniese a Pella incaricata di fare delle proposte al re: tornata ad
Atene, essa riferì all'assemblea sull'esito della missione, portando una lettera del
sovrano piena di promesse e di buone intenzioni, alla stipula di una pace e di
un'alleanza tra le due parti. Poco tempo dopo arrivarono ad Atene gli
ambasciatori di Filippo con le proposte del re. Le proposte del re erano
sostanzialmente tre: riconoscimento dello status quo: ciascuno dei contraenti
avrebbe esercitato il potere sui territori di cui era in possesso al momento del
giuramento; trattato di pace tra Atene e i suoi alleati e Filippo e i suoi alleati;
stipula di un'alleanza tra le due parti. Dopo un lungo dibattito iniziato il giorno
prima, il 19 del mese di Elafebolione (16 aprile) 346 a.C. e gli ateniesi accettarono
e giurarono gli accordi davanti agli Ambasciatori macedoni. Adesso occorreva
acquisire il giuramento di Filippo: da qui la necessità di inviare in Macedonia una
nuova ambasceria. Così partì per Pella una seconda delegazione ateniese, che a
lungo attese il rientro del re dalla spedizione in Tracia. Una volta raccolto il
giuramento, l’accordo sarebbe andato in vigore e Filippo avrebbe dovuto astenersi
da ogni altra operazione in entrata. È chiaro che, ritardando il giuramento agli
ambasciatori ateniesi che lo attendevano a Pella, Filippo di fatto avrebbe reso
legittime le sue conquiste in Tracia. Così prima di giurare gli accordi il sovrano
sottomise definitivamente il regno nella Tracia occidentale. Solo al suo ritorno
dalla Tracia, Filippo fu pronto a giurare davanti agli Ambasciatori ateniesi. La
pace e l'alleanza appena concluse legavano di fatto Atene a Filippo. In veste di
alleata la città avrebbe dovuto prendere parte alle azioni che il re avrebbe
intrapreso: prima tra tutte la conclusione della guerra sacra contro i Focesi,
diventati ora il principale obiettivo.
2. La resa dei conti in nome di Apollo e il tragico destino dei Focesi
Così Filippo riprese in mano la guerra ancora aperta contro i Focesi, e nella
primavera del 346 il re, raccogliendo la richiesta di tebani e di tessali, si preparò
a chiudere i conti con il nemico. La decisione fu preceduta da un incontro a Pella
di tutte le comunità coinvolte nel conflitto: tessali, tebani, focesi, spartani,
ateniesi, lì presenti per concludere il trattato di pace col re. Da una parte i
delegati focesi, sostenuti da ateniesi e spartani, spingevano per una soluzione
morbida (rimandare il conflitto dietro pagamento), dall’altra, tessali e tebani, lo
pregarono addirittura di proclamarsi condottiero (dux) della Grecia contro i focesi.
Prevalse quest’ultimo parere. Così Filippo oltrepassò le Termopili e questa volta
non trovò alcuna resistenza, è così poté agevolmente penetrare in Focide. Ma
invece di attaccare subito i nemici venne con loro a un accordo, promettendo la
salvezza in cambio della resa. Iniziata nel 356, la guerra sacra si chiuse così
senza uno scontro militare e senza ulteriore spargimento di sangue: una vittoria
senza armi che non mancò di portare a Filippo una serie di vantaggi. Ebbe la
possibilità di sedere a consiglio con i beoti e i tessali, fu ammesso nella confezione
anfizionia, e varie azioni di distruzione e di prigionia nei confronti dei Focesi. Sul
piano strettamente strategico, Filippo penetro così legittimamente della Grecia
divenendo membro della anfizionia e pilotandone le decisioni grazie ai suoi voti e
dei tessali che lo sostenevano. La vittoria sui focesi gettò nel panico gli ateniesi
che è decretarono di far rientrare in città dalla campagna bambini e donne, e di
rafforzare le fortificazioni, temendo un attacco da parte del re e dei suoi alleati.

3. Filippo “vendicatore di Apollo”: festa del 346


Con la vittoria sui focesi Filippo. di fatto si aprì la strada verso il sud. il controllo
della Tessaglia, di Delfi e della Focide, l'amicizia dei tebani gli consentirono di
portare la sua Longa manus fin nel cuore della Grecia e a ridosso dell'Attica.
All'indomani della vittoria la tradizione far registrare ulteriori importanti
riconoscimenti per Filippo, che del successo era stato l'artefice principale. Gli
abitanti di Delfi gli concessero una serie di onori, mentre i membri della
anfizionia, oltre ai giochi pitici, gli dedicarono una statua d'oro, collocandola forse
al fianco di quella di Apollo. Per celebrare il successo Filippo organizzò delle feste,
Una procedura diventata ormai un vero e proprio rituale nelle strategie del re. E
in questo caso sì preoccupò di invitare moltissimi ospiti provenienti dal mondo
greco. Le feste del 346 che non potevano non enfatizzare il ruolo di difensore della
Giustizia di Apollo contro i sacrileghi Focesi. Per suo tramite, la giustizia divina
aveva trionfato, e i sacrilegi erano stati puniti. Filippo ormai era al comando della
anfizionia, controllava il santuario Delfico, e aveva esteso i suoi tentacoli nella
Grecia centrale.
4. Filippo “vendicatore di Apollo”: da tema propagandistico a memoria storica
La formazione della memoria storica è un processo non sempre facile da definire.
Nel caso di Filippo il ricordo e la rielaborazione dei fatti nella narrazione
storiografica si intravede con un po’ più di chiarezza. Come rilevato, il motivo
propagandistico creato personalmente Da Filippo in relazione alla guerra contro i
focesi era stato quello della vendetta in nome di Apollo. Un tema che il re aveva
proposto sia verso il nobile progetto di ricostruzione della città, sia mediante la
coniazione di monete con la testa di Apollo, sia, ancora, attraverso l'esemplare
punizione che aveva fatto infliggere ai focesi alla fine del conflitto. Molti
intellettuali quale vicini a Filippo, negli anni immediatamente seguenti alla
chiusura del conflitto, si mobilitarono per offrire la loro personale narrazione della
guerra appena conclusa, Scegliendo come chiave di lettura proprio il tema della
vendetta sui sacrileghi in nome della giustizia di Apollo tanto caro al sovrano: la
propaganda filtrava così nel racconto storiografico; tuttavia, finiva per
condizionare pesantemente la trasmissione della memoria. L'opera storica di
Antipatro di Magnesia si colloca subito dopo la chiusura del conflitto e non
mancava di celebrare le imprese di Filippo; nello specifico, in relazione al
successo nella guerra contro i focesi, lo storico trovava opportuno richiamare le
vicende della prima guerra sacra, nella quale Apollo, Eracle e gli anfizioni avevano
sconfitto rispettivamente flegi, driopi e crisei. Al pari dell'antenato Eracle, anche
aveva combattuto al fianco di Apollo e degli anfizioni contro i sacrileghi, e aveva
meritato perciò di essere riconosciuto nel ruolo di vendicatore. Ancora Callistene,
dopo la conclusione della guerra contro i focesi, compose uno scritto storico sulla
Guerra sacra focese di cui rimangono alcune testimonianze e solo un frammento.
La competizione tra gli intellettuali disposti a celebrare Filippo trovava dunque
nel terreno fertile nell’erudizione e nella riesumazione di fatti antichissimi, che in
pochi ormai erano in grado di ricordare. Autori di opere sulla guerra sacra furono
Cefisodoro di Atene/Tebe, e Leone di Bisanzio. Il primo fu autore di un’opera di
12 libri, e aveva un carattere celebrativo. Per quanto riguarda il secondo, anche la
sua opera storica era favorevole a Filippo e si pone in linea con l’orientamento
celebrativo. Anche le “Philippika” di Anassimene, probabilmente, avevano una
intonazione filomacedone, opera che già nel titolo mostrava la centralità di Filippo
e delle sue imprese. Anche Eschine, l’oratore, e trattatore, forniva una sua lettura
della Terza Guerra Sacra, innestandola in un contesto mitico/storico più ampio.
La parte più consistente della memoria storica legata alla Terza guerra Sacra
deriva dalle opere di Eforo e Teopompo, i cui scritti, sebbene siano stati
variamente datati, tuttavia vennero elaborati e resi noti solo diversi anni dopo la
chiusura del conflitto. Rimaneva la memoria fortemente condizionata dal tema
ideologico della vendetta. Anche le opere di Trogo-Giustino e Diodoro dedicarono
vari capitoli al conflitto sacro, entrambi connotati dal tema della vendetta.
Parte terza: Ombre macedoni su Greci e Barbari
Tra promesse e inganni
1. Illiri e comunità del Peloponneso (345)
Dopo la vittoria della terza guerra sacra chiuso un fronte, il re fu pronto ad
aprirne altri. Gli anni compresi tra il 346 e il 342 video il macedone impegnato sia
in Grecia, sia contro i nemici storici del nord, a volte in operazioni belliche, altre
senza il ricorso alle armi. I rapporti tra Filippo e Atene continuavano a rimanere
tesi nonostante la pace di Filocrate, siglata nel 346. Fu in questo momento di
calma apparente, che Filippo, dando priorità a mezzi più subdoli ma non meno
efficaci delle armi, con più forza che in passato, promosse un'ampia opera di
corruzione, della quale se ne trovò attestazione in Diodoro, secondo il quale il
sovrano era solito con loro superare le mura della città, procurandosi l'appoggio
di traditori che ne diventavano suoi amici e ospiti. Tale azione non risparmiò
nemmeno Atene, dove Eschine, inizialmente favorevole alla guerra al macedone,
divenne sostenitore dopo averne ricevuto il denaro. Filippo non mancò di
sovvenzionare atti di sabotaggio. Al 345 si data infatti la vicenda di Antifonte, uno
straniero residente ad Atene che, pagato dal re, fu sorpreso da Demostene mentre
cercava di incendiare gli arsenali del Pireo, e nello stesso anno sorse poi la
questione di Delo, l’isola, sede di un noto santuario di Apollo che gli ateniesi
controllavano fin dalla seconda metà del secondo secolo, è che dal 477 era stata
sede del tesoro della lega delio attica. Stando alle poche fonti disponibili,
all'indomani della chiusura della terza guerra sacra, l'isola, forse approfittando
dello smacco subìto da Atene e del crescente peso politico assunto da Filippo, si
rivolse al consiglio anfizionico per chiedere di poter amministrare autonomamente
il santuario senza alcuna ingerenza straniera. In questa occasione l'atteggiamento
di Filippo apparve del tutto conciliante. Il re, infatti, ha avuto l'interesse di
smorzare i toni, e così portò il consiglio anfizionico a decidere in favore degli
ateniesi: una dimostrazione di benevolenza e di amicizia che qualche effetto
positivo dovette averlo ad Atene, guadagnando a Filippo molti favori. L'attivismo
di Filippo riprese in vigore anche sul piano militare e strategico, tanto che il
sovrano diede inizio, infatti, ad azioni mirate a rafforzare la sicurezza del regno. Si
concretizzarono soprattutto nel trasferimento di intere popolazioni. L’azione
aveva comunque un obiettivo preciso: rafforzare i confini a nord, nord ovest e
nord est. Qui risiedevano gli Illiri, Peoni, le popolazioni sconfitte ma mai del tutto
domate. Ancora al 345 si collocano le operazioni di Filippo nel Peloponneso.
Questa volta non si trattò di un intervento diretto, quanto di un sostegno in
denaro e truppe mercenarie alle comunità che si sentivano minacciate da Sparta.
Fu proprio il diffuso sentimento antispartano che Filippo cavalcò. Approfittando
del timore di Messeni, Megalopolitani e Argivi per un attacco della pericolosa
vicina, il Macedone si avvicinò a queste comunità trasformando timore e odio
verso i Lacedemoni in vantaggioso strumento di consenso, mandando così in
soccorso truppe per i Messeni e i popoli vicini. Così un elenco di popolazioni era
passato dalla parte di Filippo per difendere la propria comunità e incolumità dagli
interessi ateniesi e spartani.
2. Amici ieri, nemici oggi: gli Alevadi di Larissa e la riorganizzazione della
Tessaglia
Dopo aver risistemato i territori a nord, l’attenzione di Filippo si spostò a sud. Nel
344 si registra un intervento in Tessaglia: una regione che fino ad allora gli era
stata al fianco. Il motivo che portò il Macedone ad intervenire in Tessaglia fu la
potente famiglia degli Alevadi di Larissa, sfuggita ai suoi tranelli. Il re penetrò
nella regione in maniera subdola, evitando l’uso delle armi, approfittò delle
contese interne, corse in aiuto di quanti lo chiamavano, non umiliò i vinti ma se li
conciliò, soffocò le rivolte interne, soccorse i più deboli e abbatté i più potenti,
divenne amico del popolo. Questa strategia gli fruttò il controllo della regione, il
cui governo affidò ai suoi fedelissimi incaricati di amministrare ciascuna
tetrarchia, e di penetrare nelle oligarchie cittadine. Dunque, dopo essere stato
amico degli Alevadi a seguito delle loro richieste di aiuto contro i tiranni di Fere
nel 357 e nel 354, Filippo ora decise di voltare pagina. Desiderando di fornire alla
regione un sistema di governo solido e stabile che impedisse il predominio di una
città sull'altra, e non esitò a sbarazzarsi di quei nuclei di potere storici che ancora
sopravvivevano nella regione. La riforma non poteva tenere conto perciò di
amicizia passate. Tuttavia, ora la ragion di stato portava il sovrano a nuove scelte
indirizzate sia al rafforzamento dei confini del regno, sia al consolidamento del
potere macedone in regioni confinanti e strategicamente importanti come la
Tessaglia. Non esitava perciò a valutare le spalle ai vecchi amici Alevadi, che
rappresentavano ormai una vecchia Tessaglia fatta di scontri tra famiglie il cui
potere cittadino si estendeva poi sulla Confederazione. Lo faceva dunque
dall'interno, servendosi di quei Tessali che avevano deciso di stare dalla sua
parte. Filippo, dunque, pose fine alle tensioni interne, avviando la Tessaglia a un
periodo di grande stabilità e legandola ancora più strettamente a sé. Con
un'azione politica portata avanti attraverso i suoi sostenitori, coperta e
giustificata mediante il sempre efficace slogan della lotta alla tirannide,
indirizzato questa volta contro le famiglie della regione un tempo amiche e alleate,
Filippo si assicurò una regione che disponeva di grandi pianure, dove poteva
mettere al suo servizio la formidabile cavalleria.

3. Isocrate e i suoi allievi al fianco di Filippo: l’ambasceria di Pitone di


Bisanzio ad Atene
Le manovre di Filippo nel Peloponneso e in Tessaglia a cui erano i motivi di
tensione con gli ateniesi, che mandarono Aristodemo e Demostene nelle comunità
del Peloponneso per cercare di allontanarle dall'amicizia con il re macedone.
Nonostante le motivazioni riportate come esempio quanto era capitato tre anni
prima ad Olinto, il tentativo ateniese si risolse in un totale fallimento. Più che la
paura di Filippo poté infatti il timore di Sparta nemica di sempre più che le
promesse ateniesi, poterono le truppe di Filippo che è concretamente mostrava di
porsi in difesa della comunità contro la minaccia spartana. La risposta del
macedone all'iniziativa diplomatica ateniese si coglie nell'invio di una delegazione
ad Atene sulla quale le fonti non forniscono molti dati. Con tutta probabilità essa
portava una lettera nella quale il re presentava all'assembla le proposte,
richiedendo una rapida risposta. Più dati si hanno invece sull'ambasciata
macedone giunta ad Atene quasi un anno dopo. Nel giugno del 343 a guidarla fu
Pitone di Bisanzio, allievo di Socrate e fidato collaboratore di Filippo. In un
contesto di tensione tra le parti, con gli ateniesi pronti ad ascoltare le proposte
del re, il sostegno di Socrate della sua scuola si dimostrò assai vantaggioso per
Filippo in considerazione sia dell'autorevolezza del retro nella città, sia della
disperata provenienza dei suoi studenti in grado di portare altrove le tematiche
affrontate dal maestro dei suoi discorsi. L'invio di Pitone fu Forse sollecitato dal
contemporaneo arriva in Grecia di delegazioni mandate dal re persiano Artaserse
III. Il sovrano, versando in grave difficoltà nella repressione di una rivolta in
Egitto, chiese agli ateniesi e alle principali città greche, Sparta, Tebe e Argo, di
fornirgli gli aiuti militari. Atenesi e Spartani li rifiutarono, viceversa li
accordarono Tebani e Argivi. Probabilmente il sovrano macedone, temendo la
forza persuasiva esercitata dal denaro persiano, intese scongiurare la formazione
di un eventuale asse tra le polis greche e il Gran Re. Il compito di pitone era
dunque delicatissimo: persuadere le delegazioni greche presenti e gli ateniesi a
negare ogni sostegno al barbaro. La ricchezza del discorso dell'ambasciatore
macedone è unanimemente evidenziata dalle fonti. Demostene, a distanza di
tempo ricordava di essersi opposto al torrenziale eloquio di Pitone. Il discorso di
Pitone fu indubbiamente un successo ed è probabile che proprio le parole
dell'oratore di scuola isocratica, che portava le proposte concilianti di Filippo,
inducessero gli ateniesi al respingere con decisione la richiesta del re persiano
pervenute contemporaneamente. Dunque, non solo gli ateniesi opposero un
rifiuto perentorio a ogni forma di aiuto, ma addirittura proprio in quell'occasione,
decisero di promulgare un decreto nel quale stabilivano che, in caso di minacce
persiana, essi avrebbero richiesto l'aiuto del macedone e degli altri greci contro il
Gran re. Un momento favorevole a Filippo, dunque, pur in un contesto
complessivo ancora carico di sospetti.
Promesse, azioni, ancora promesse
1. Tra traccia ed Epiro: la creazione di stati vassalli
Il 343 fu un anno denso di eventi. Il successo diplomatico di Filippo ad Atene era
stato costruito su promessa abilmente presentate dal suo alfiere Pitone nel suo
discorso all'assemblea. Ora il Re macedone doveva mutare le promesse. Infatti, se
davvero intendeva dare solidità al fragile consenso ottenuto, trasformando in atto
concreto quella che al momento appariva come mera propaganda. Ma le azioni
intraprese dopo l'ambasciata di Pitone dimostrano che Filippo intendeva soltanto
stemperare l'ostilità ateniese. Avendo momentaneamente congelato la situazione
a sud della Tessaglia, con gli ateniesi persuasi delle sue promesse e impegnati a
formulare delle proposte di revisione del trattato di pace, Filippo rivolse la sua
attenzione verso i territori posti a nord-est e a ovest del regno. Tra la fine del 343
e inizio a 342 si datano, infatti, le nuove operazioni militari in Tracia. Esse si
ponevano sulla scia di quelle realizzate contro Chersobleptene, sia nel 352, sia
nel 346. Le operazioni probabilmente ebbero inizio intorno al 343 e durarono per
anni. Filippo, infatti, si dedicò alla fondazione di varie città come Filippopoli,
quest'ultima è nata con tutta probabilità solo nel 340 dopo la vittoria definitiva su
Chersobleptene. Inizialmente la città si chiamava Poneropoli, ovvero la polis dei
malvagi, dove vi confinò criminali, spie, esattori e gentaglia simile. Tra il 343 e il
342 si pongono altre azioni. Dopo aver stabilizzato le regioni a nord del regno e
ancorata a sé la Tracia anche attraverso la fondazione di città, Filippo rivolse
l'attenzione a occidente. Tra la fine del 343 e l'inizio del 342 si colloca infatti la
cacciata del re Ariba dall'Epiro. Al suo posto il sovrano macedone Alessandro,
fratello della moglie Olimpiade, secondo legittima relazione. Nei suoi piani
Alessandro il molosso avrebbe dovuto garantirgli il controllo dell'Epiro, ormai a
tutti gli effetti stato vassallo della Macedonia, e con esso la sicurezza del versante
occidentale del regno. L'affidamento del potere al cognato Alessandro, se, per un
verso, consentì a Filippo di estendere la sua sfera di influenza a occidente, per un
altro, in presenza di un parente alla guida dell'Epiro, giustificò le sue azioni
militari nelle altre regioni a ovest del suo regno che miravano a rinsaldare il regno
vassallo, dare sicurezza al confine occidentale della Macedonia, tenere a bada le
spinte separatiste dell'alta Macedonia, in particolare della famiglia dei Lincestidi.
Fu in questo stesso frangente temporale che Filippo marciò contro Ambracia e
dopo aver messo a ferro e fuoco le colonie di Pandosia, le consegnò al cognato.
Ancora una volta fu Atene e a contrastare l'azione, infatti mandarono le loro
truppe in soccorso di Ambracia e impedirono a Filippo di giungere nella città e di
penetrare nel Peloponneso.
2. La questione di Alonneso
Le manovre di Filippo non si arrestarono. Spostando la sua attenzione ai suoi
interessi in contesti diversi, nel 343 intervenne nell'Egeo, cozzando nuovamente
contro gli interessi ateniesi. In questo caso le sue navi liberarono la piccola isola
di Alonneso, collocata nel cuore dell'Egeo, dai pirati che l'avevano occupata dopo
averla sottratto al controllo ateniese. Prontamente il re macedone la offrì in dono
agli ateniesi. Dopo la positiva ammissione diplomatica di Pitone e le aperture
mostrate da Filippo attraverso i suoi commissari, i rapporti con Atene tornavano
così a farsi incandescenti. Soprattutto dopo che la città, recepita la disponibilità
di Filippo a rivedere il trattato di pace del 346, aveva inviato in Macedonia
un’ambasceria con una serie di proposte, e tra esse rientravano il riconoscimento
delle due parti di quanto già possedevano, e la concessione di libertà autonomia
ai Greci non inserite nel trattato, e in caso di aggressione essi avrebbero dovuto
ricevere soccorso dai firmatari della pace. L'inserimento di quest'ultima clausola
avrebbe sottratto a qualsiasi attacco le comunità escluse dall'accordo e
politicamente non schierate, e di fatto bloccato ogni azione militare di Filippo in
regioni e contesti territoriali non soggetti al potere ateniese. Ma Filippo negò
quanto prima aveva promesso attraverso Pitone, anzi, in palese contraddizione,
rivendicò la piena sovranità su Anfipoli, dimenticando che nel 357 aveva
promesso gli ateniesi di restituire loro la città dopo averla espugnata, indicandoli
come legittimi possessori. Quando la proposta di revisione dell'accordo di pace, a
parole si disse pronto ad accettarla, nei fatti la respinse. Nella risposta Filippo
toccava anche la questione di Alonneso, dicendo di averla liberata e di volerla ora
restituire agli ateniesi. Il tema della restituzione, unito al mancato rispetto alle
promesse, alimentò nuovamente da Atene l'ostilità degli antimacedoni. Si vedeva
nella presa di Alonneso l'inizio di una politica navale di Filippo, l'unico vero
obiettivo era quello di staccare da Atene le isole dell'egeo servendosi di un'ampia
opera di corruzione. Di questo disegno erano la prova la costruzione di triremi e
di arsenali, e lo stanziamento di grandi somme di denaro per armamenti navali.
Filippo invitava nel frattempo l'assemblea ad affidarsi ai filomecedoni e non ai
calunniatori, i cui discorsi lo inducevano a cambiare i suoi benevoli proposti
verso la città. Anche in questo caso Filippo esortava gli ateniesi ad affidarsi ai
suoi sostenitori e a punire chi invece lo diffamava, in cambio costoro avrebbero
ricevuto ampi ma indefiniti vantaggi.
3. Scontro tra scuole in nome di Filippo
Sia Demostene, sia Egesippo, attestavano la presenza di un forte numero di
sostenitori di Filippo ad Atene, specialmente dopo la stipula della Pace di
Filocrate. Se filomacedone era Isocrate che nel 346 aveva indirizzato al re un
pamphlet e due anni dopo una lettera, invitandolo in entrambi i casi a riconciliare
le principali poleis greche e intraprendere la spedizione contro i persiani,
filomacedoni erano ora diventati Eschine e Filocrate, artefici della pace del 346.
Lo scontro tra filomacedoni e antimacedoni si consuma non solo in assemblea su
questioni che riguardavano l'atteggiamento e le misure che la città avrebbe
dovuto prendere per sostenere e contrastare Filippo, ma anche in forma più
sottile, in ambito strettamente culturale all'interno delle principali scuole delle
poleis. Il re macedone era diventato ormai una figura principale dello scenario
politico, e la sua Corte meta o punto di riferimento per molti intellettuali. Già
dopo la conclusione della terza guerra sacra, intellettuali di prestigio come
Aristotele e Callistene, Leone di Bisanzio, Antipatro di magnesio, Teopompo ed
Eforo, avevano celebrato il successo del sovrano direttamente, scegliendo come
chiave narrativa del conflitto il tema della vendetta del sacrilegio in nome di
Apollo. Era stato soprattutto Isocrate, attraverso il pamphlet del 346 e la lettera
di due anni dopo, a porsi con la sua scuola come il più valido e affidabile
supporto di Filippo e della sua politica ad Atene e tra le polis.

Manovre di Accerchiamento
1. Filippo alle porte di Atene: la contesa per l’Eubea
Dopo le manovre sul confine occidentale con il consolidamento del regno dei Piro,
affidato al cognato Alessandro, Filippo riprese a manifestare i suoi interessi sia a
sud sia a nord-est. Da parte sua Atene, che rimaneva ormai l'avversario
principale più temibile, sotto la guida degli antimacedoni tentò di ostacolare in
ogni modo il sovrano, creando una rete di alleanze, ma anche intervenendo
militarmente in alcune regioni. Fu un conflitto su diversi fronti apparentemente
senza nemici. Ma procediamo per ordine. Nel 342-341 la contesa si svolse nelle
Eubea e nel Chersoneso tracico. In Eubea, Filippo sostenne i filomacedoni contro
gli antimacedoni appoggiati da Atene. Il re inviò mercenari nell'isola in aiuto ai
filomacedoni per avere il controllo soprattutto delle città di Eritrea e di Oreo. La
reazione ateniese alla tentacolare strategia di Filippo fondata sull'appoggio in
denaro e truppe ai filomacedoni dovunque se ne presentasse la possibilità si
coglierebbe nella “terza fililippica” che Demostene pronunciò nel 341. In
quest'anno Filippo aveva offerto il suo appoggio anche a tutta quella folta schiera
di sostenitori che l'oratore ateniese indicava come traditori, quindi filomacedoni
presenti in Tessaglia, in Arcadia, ad Argo, in Messenia, a Corinto, a Megara. Si
trattò di un'azione di infiltrazione ad ampio raggio, alla quale gli antimacedoni
ateniesi cercarono di replicare muovendo una campagna diplomatica che si
tradusse in una serie di ambascerie nel Peloponneso. Nonostante ciò, Demostene
riuscì ad agganciare al fronte fronte antimacedone tutti i peloponnesiaci e gli
arcani, ma Filippo non si scoraggiò e mantenne inalterato il suo interesse verso
l’Eubea sostenendo le tirannidi di Eretria e Oreo.
2. Lo scontro per il controllo degli stretti e il "nuovo" ruolo dei Persiani
Al fronte euboico e alla situazione in costante evoluzione nel Peloponneso si univa
l’altro fronte caldo costituito dal Chersoneso tracico e dalla nevralgica zona degli
stretti controllata da Atene. Filippo diede avviò una nuova campagna in Tracia
nella tarda primavera del 342. Dopo aver esautorato negli anni precedenti i fragili
regni della regione, la zona degli stretti, costituita da Ellesponto e Bosforo, ciò gli
appariva il naturale completamento del confine orientale. Operazione non del
tutto semplice. Tutta la regione, infatti, da lungo tempo era sotto l'influenza di
Atene. In un contesto dominato quasi completamente dagli ateniesi che avevano
popolato alcune zone con i propri cittadini, faceva eccezione la città di Cardia.
Proprio Cardia nel 342 richiese e ottenne l'intervento militare di Filippo.
L'avvicinamento tra Cardia e il re macedone rappresenta una minaccia concreta
per Atene: un avamposto macedone nel cuore dei suoi possedimenti. Così
trovandosi con la sua flotta nella regione, lo stratego di Diopite attaccò i Cardiani
dando origine a un incidente diplomatico con Filippo. Furono proprio le accuse a
Diopite, lanciate ad Atene dai filomacedoni a spingere Demostene a prendere la
parola in difesa dello stratego e della politica atenese nella regione. Nei discorsi
Demostene esortava l'assemblea a sostenere Diopite e il suo esercito che
difendeva gli interessi cittadini, non andando ascolto ai filomacedoni disposti a
mantenere la pace con Filippo a qualsiasi costo, e promuovendo in tutta la Grecia
e l'invio di ambasceria al fine di allargare il fronte antimacedone. La guerra contro
Filippo, nel caso ci fosse stata, sarebbe stata una guerra di difesa. Era stato
Filippo ad attaccare per primo: Filippo nemico di ogni forma di democrazia.
Demostene indicava anche le ripetute violazioni del trattato di pace da parte del
re macedone, e invitava ancora i concittadini a non dare ascolto ai filomacedoni
uscendo finalmente da un pericoloso stato d'inerzia e passando all'azione. Li
esaltava perciò a promuovere l'unità dei Greci contro il re e a diffidare i traditori
che vendevano la loro patria. Demostene metteva in guardia anche le restanti
comunità greche invitando tutti a porre maggiore attenzione all'operato del
sovrano macedone. Demostene chiamava i concittadini alla lotta per la libertà,
invitandoli a mandare ambascerie ovunque al fine di raccogliere consensi e creare
una vasta rete di alleanze. Demostene nei suoi discorsi tornava a presentare la
dicotomia tra quanti in diverse comunità desideravano la tirannide macedone e
prevalevano grazie al denaro all'inizio fornito loro da Filippo, e quanti invece,
come gli ateniesi, vivevano sotto la democrazia, e rimarcava l'ostilità di Filippo a
quanti erano retti da questa forma di governo. Ritornava spesso l'argomento della
guerra contro Filippo, reo di aver violato ripetutamente il trattato di pace, e a suo
dire la guerra andava condotta chiedendo aiuto al re persiano. Così, ad unire
vecchi nemici e a renderli amici era la comune minaccia macedone che
interessava la zona degli stretti, nevralgica per gli interessi di Atene, ma anche
per l'impero persiano. Perché, se Filippo, infatti, avesse marciato contro una
Atene lasciata sola e l'avesse sconfitta, la sua successiva mossa avrebbe
comportato l'attacco ai territori del grande Re posti al di là degli stretti. Nessuno
però aveva dimenticato le raccomandazioni fatte dall'oratore nel 354, quando
aveva indicato nel Gran Re il comune nemico di tutti i greci. Quindi le necessità
del momento erano evidentemente motivo valido per superare ogni contraddizione
e rendere accettabile agli occhi dell’assemblea che un nemico storico, quale i
persiani, ora venisse presentato nelle vesti di possibile nuovo alleato. Per
respingere così la minaccia macedone occorrevano ora le truppe e il denaro dei
Persiani. Di fronte al pericolo comune Demostene non esitava a porre da parte la
retorica antipersiana, che lui stesso aveva impiegato e alimentato fin dal 354. Da
barbaro e nemico dei Greci, il gran Re assumeva ora, nella visione dell'oratore, la
connotazione di alleato nella lotta dei greci per la loro Libertà. La guerra era
contro un nuovo barbaro sceso dal nord, ovvero Filippo.
3. L'attacco a Perinto.
La martellante propaganda antimacedone orchestrata soprattutto da Demostene,
guadagnò ad Atene nuove alleati. Oltre all’Eubea, aderirono all'alleanza Bisanzio
e Abido che garantivano il controllo degli stretti, poi Megara, Corinto, Ambracia,
Corcira e Rodi. Nel 340 tutto era pronto ormai per la resa dei conti finale. Se, da
una parte, le azioni dell'ateniese Diopite nel Chersoneso avevano intaccato gli
interessi macedoni nella regione e minacciato Cardia, dall'altra, Filippo dopo aver
ulteriormente esteso verso nord i suoi domini, rendendo suo vassallo il re dei
Geti, che gli diede in sposa alla figlia Meda, il sesto matrimonio, sferrò l'attacco a
Perinto, un tempo amica di Filippo, che aveva scelto poi di legarsi ad Atene, dopo
aver visto i confini macedoni allargarsi pericolosamente a ridosso del proprio
territorio. Contrariamente ai precedenti attacchi, questa volta il sovrano dovette
confrontarsi con un assedio più duro del previsto, e nonostante il martellamento
delle catapulte e l'ingente numero di uomini impiegato, la città resistette grazie
anche agli aiuti in armi forniti, in un primo momento dalla vicina Bisanzio,
successivamente anche dal re dei Persia attraverso i suoi satrapi. Le manovre
sempre più vicine alle coste persiane e il costante allargamento dei confini del
regno a est erano motivi sufficienti per allarmare il grande re persiano, che ruppe
gli indugi e diede i satrapi l'ordine di agire contro il sovrano macedone. Troppo
vicina ai propri domini erano Perinto e tutta la zona degli stretti, perché potesse
rimanere inerte. Troppo importante dal punto di vista strategico commerciale era
per lui tutta la regione per permettere che Filippo vi si infiltrasse.
Alla ricerca di una “Guerra Giusta”
1. L’attacco a Bisanzio
L'attacco a Perinto e a Bisanzio si risorse in un fallimento. Fu il primo è vero e
insuccesso che seguiva le tante vittorie inanellate una dietro l'altra. Per la prima
volta Filippo fu costretto a ritirarsi e a trovare un accordo di pace con Atene e gli
altri greci, alleati della polis. Un ruolo decisivo nella resistenza di Bisanzio ebbe
l'ateniese Focione, che venne inviato con una squadra di navi in soccorso della
città. Focione venne accolto a Bisanzio grazie all'aiuto dell'accademico Leone, uno
dei politici più in vista della città, studente all'accademia di Platone, un tempo
sostenitore di Filippo. Lo stratego ateniese disinnestò qualsiasi tentativo
macedone di espugnare la polis e costrinse il sovrano macedone alla ritirata. In
questo stesso frangente, un certo Efialte, fautore della politica antimacedone, fu
inviato dagli ateniesi presso Artaserse III Ocio per chiedere sostegno. Il gran Re lo
accontentò e l'emissario tornò in città col denaro persiano destinato a finanziare
la guerra contro Filippo. Di fronte al pericolo macedone, così, occorreva voltare
pagina, e il re persiano non poteva più essere considerato il pericolo da guardarsi,
al contrario era il più valido aiuto nella lotta a Filippo. Il fallito attacco a Perinto e
Bisanzio mostrò dunque agli ateniesi e ai Greci che Filippo non era imbattibile, se
tutti si fossero compattati contro di lui reputandolo nemico comune. Molti col
tempo avevano aperto gli occhi e ora scorgevano con chiarezza i reali obiettivi del
macedone, ritenendolo la vera minaccia per il mondo greco.
2. La “creazione di un causus belli
Aprire una guerra non è mai azione semplice. Lo insegnano tanti conflitti antichi
e moderni. Essa comporta un investimento di risorse materiali, ma anche un
impegno sotto il profilo ideologico. Chi apre un conflitto si sforza di presentare
delle valide ragioni, mostrandolo come la scelta è inevitabile, l'unica in grado di
fermare l’ingiustizia e ripristinare il diritto. Questi concetti si rivelano in tutta la
loro forza nelle vicende che portarono allo scontro finale tra Filippo e i greci.
Tanto Filippo, quanto Atene, fu consapevole della necessità di presentare la
guerra come legittima e giusta, addossandone responsabilità e conseguenze
all'avversario, una partita a scacchi giocata sul suolo greco che ebbe il suo
epilogo nel 338 con la battaglia di Cheronea. Le tradizioni superstiti muovono da
un punto di vista filomacedone, o filoateniese. La prima, costituita da Diodoro e
Trogo Giustino, ricorda che la guerra venne scatenata dall'attacco di Filippo a
Bisanzio; la seconda, rappresentata da Demostene e Teopompo, indica come
motivo vero la cattura della flotta commerciale ateniese da parte di Filippo. Si
ricorda quindi che Filippo desiderava impadronirsi di Perinto e Bisanzio sia per
sottrarre agli ateniesi il commercio del grano, sia per privarli di due città situate
lungo la costa del Chersoneso Tracico, nelle quali le loro navi avevano la
possibilità di attaccare trovandosi un luogo di rifugio nella guerra contro di lui.
Fu in questo frangente che il re macedone catturò la flotta commerciale ateniese.
Dalle navi Filippo ricavò settecento talenti. Sia che fosse scoppiata anche se non
dichiarata, sia che fosse stata formalmente dichiarata, la guerra vide gli ateniesi
impegnati a guadagnarsi l'appoggio del gran re, come rileva chiaramente Filocoro.
3. Lo scambio di lettere tra Atene e Filippo e l’attribuzione di responsabilità
Nella documentazione superstite relativa all'inizio delle ostilità un posto di rilievo
merita lo scambio di lettere tra Filippo e Atene. I due documenti sono pervenuti
all'interno del Corpus Demosthenicum. Come rilevato, non è facile stabilire se a
far deflagrare il conflitto fosse stato L'attacco di Filippo di Filippo a Bisanzio, o
l'atto di pirateria ai danni della flotta commerciale Punto in funzione delle due
conclusioni, l'attacco alla flotta potrebbe aver costituito la prima azione di una
guerra dichiarata, o la causa della dichiarazione di guerra. La lettera di Filippo e
la risposta alla lettera di Filippo fanno riferimento alla fase immediatamente
precedente all'apertura del conflitto. La prima si configura come un ultimatum
agli ateniesi, la seconda come una richiesta all'assemblea a prendere atto delle
ripetute violazioni del trattato di pace da parte di Filippo e a decidere per la
dichiarazione di guerra al macedone. I toni della lettera di Filippo agli ateniesi,
ritenuta autentica e datata dopo l'assedio del re a Perinto del 340, appaiono del
tutto differenti da quelli concilianti usati dal re nelle sue precedenti missive alla
città. Ciò portò a credere che Filippo Questa volta non intendesse scendere a Patti
con gli ateniesi, quanto piuttosto giustificare una guerra ormai inevitabile
addossando al nemico la responsabilità di averla provocata. Innanzitutto, il re
evidenziava, elencandoli, i torti subiti. A suo dire gli ateniesi avevano preso
prigioniero per dieci mesi Micia, il latore delle sue lettere, e avevano permesso che
le navi di Bisanzio e quelle dei pirati attraccassero presso l'isola di Tasso, alleato
di Atene. Inoltre, lo stratego ateniese Diopite non solo aveva conquistato in Tracia
alcune città, possedimenti macedoni, e devastato i territori vicini, prese
prigioniero anche il suo emissario Anfiloco, che egli stesso aveva inviato per
richiedere il rilascio dei prigionieri. L'elenco dei torti subiti non si fermava, e
ricordava infatti incursioni, catture, azioni ostili alla sua flotta, sostegni a città
non corretti. Al termine di questo elenco, Filippo passava a giustificare le proprie
azioni, che tanto proteste avevano sollevato tra gli ateniesi. Rivendicava
innanzitutto di aver legittimamente aiutato Cardia, in quanto sua alleata, contro
gli attacchi ateniesi punto; avere giustamente punito l'isola di Pepareto, rea di
aver occupato la vicina Alonesso e di averlo aggredito, e rivendicava poi il
legittimo possesso di Anfipoli, ritenendola appartenuta inizialmente al suo avo
Alessandro I. Dopo aver ripetutamente affermato di aver sempre cercato la via del
dialogo, preferendola all'azione militare, ma di aver trovato continui rifiuti da
parte di Atene, Filippo chiude la sua lettera affermando che egli si difenderà, e
chiamando a testimoni gli dei, prenderà le misure necessarie contro di loro. Si
trattava non solo di un ultimatum ad Atene, ma anche di una puntuale risposta
alle accuse degli oratori antimacedoni. La lettera poneva in evidenza due
elementi. Da una parte, celebrava Alessandro I di macedonia, presentandolo
come difensore dei Greci durante le guerre persiane e nelle vesti di legittimo
possessore di Anfipoli. Dall'altra, tentava di screditare il glorioso passato di Atene
fondato sostanzialmente sulle vittorie contro i Persiani nel V secolo. Nelle lettere
Filippo cavalcava quest'ultimo tema soprattutto per criticare il recente
ravvicinamento tra Atene e il re persiano caldeggiato dagli antimacedoni e
soprattutto da Demostene. Esso era in totale contrasto con la decisione presa
dagli ateniesi nel 344, allorché avevano votato un decreto in base al quale, in
caso di minaccia persiana, avrebbero richiesto il suo aiuto e quello degli altri
greci. Tale scelta, da una parte, gli permetteva di accostare gli ateniesi ai tiranni
pisistratidi, dall'altra di esaltare i meriti filellenici del proprio antenato Alessandro
I. La lettera di Filippo ebbe immediata eco ad Atene e produsse una lettera di
risposta da parte della città. Lo scritto è sostanzialmente un invito alla guerra
determinata dal fatto che Filippo in numerose occasioni aveva violato la pace di
Filocrate. Le speranze di vittoria erano date dal supporto degli dèi, che
certamente avrebbero sostenuto gli ateniesi contro chi, come Filippo, aveva
violato gli accordi. Ma anche dall'aiuto dei Persiani, già concretizzato nel soccorso
a Perinto. Così, invitando i concittadini alla guerra, l'autore chiudeva il suo
appello alla comunità ateniese esortando all'alleanza tra i greci. Atene, dunque,
era chiamata ad intraprendere una guerra giusta contro chi ripetutamente aveva
violato la pace.
4. Dal Chersoneso alla Scizia
La delusione per la mancata conquista di Perinto prima e di Bisanzio poi, non
arrestarono l'attivismo di Filippo. Se la contesa per il controllo degli stretti avesse
portato a un nulla di fatto, vi sarebbe stato necessario almeno puntellare i suoi
possedimenti nel Chersoneso e soprattutto in Tracia. Il nemico, questa volta,
erano gli Sciiti, una popolazione che occupava un largo tratto di territorio della
Tracia. Il loro re negò ogni aiuto al re macedone che perciò gli fece guerra. Dopo
vari cambiamenti di situazioni politiche come alleanze non giuste, il macedone
tolse l'assedio a Bisanzio e portò le sue truppe contro il regno del re Atea.
Terminate le battaglie nel Chersone e contro gli Sciiti, Filippo si accinse a tornare
in Macedonia. Sul suo percorso trovò tuttavia gli ostili Triballi, una popolazione
stanziata nella regione del basso Danubio, decisi a sbaragliarli la strada. I recenti
incidenti, tuttavia, non gli impedirono di rivolgere l'attenzione a sud delle
Termopili in quello che prometteva di diventare di lì a poco il fronte principale. Ad
attenderlo questa volta c'era la Grecia delle poleis rappresentata da Atene. Tra il
340 e il 338 la polis ateniese stava tentando di portare dalla sua parte un numero
quanto più alto di comunità, facendosi capofila della guerra al re macedone.
5. Tra Delfi e Cheronea: nuovamente “Paladino di Apollo”
L'occasione per tornare in Grecia fu data a Filippo da quanto successe nella
primavera del 339. In questo anno, per la sessione della anfizionia, Eschine fu
nominato Pilagoro della sua città insieme a Midia, noto avversario di Demostene:
due filomacedoni, dunque, ebbero l'incarico di portare la voce della loro polis alla
assemblea anfizionica. Contrariamente alle attese, la sessione si aprì con l'accusa
di sacrilegio agli ateniesi mossa da Anfissa. Gli Anfissei accusarono gli ateniesi di
aver appeso degli scudi d'oro, facenti parte del bottino sottratto ai persiani
durante le guerre del V secolo, nel nuovo tempio di Delfi, prima che questo
venisse consacrato. Eschine, adirato dalle accuse, a sua volta accussò di
sacrilegio gli Anfissei, meritevoli di essere maledetti. Le parole di Eschine
suscitarono le pronta reazione degli Anfizioni che il giorno dopo scesero nella
pianura di Cirra/Crisa e cominciarono a smantellare quanto gli Anfissei avevano
arbitrariamente costruito. Ci riuscirono in parte, ma gli Anfissei furono
comunque dichiarati colpevoli, e innocenti gli Ateniesi. E successivamente fu
mossa guerra ad Anfissa, senza però gli Ateniesi, ottenendo un primo successo,
ma necessitò poi una seconda azione. Le accuse di Eschine in precedenza contro
Anfissa portavano comunque in direzione di una guerra sacra contro i sacrileghi,
nella quale Atene, come membro della Anfizionia, si sarebbe trovata dalla stessa
parte di Filippo. Ancora una volta la corruzione avrebbe permesso a Filippo di
portare dalla sua parte Atene, in una guerra sacra scatenata da Atene stessa, che
gli aveva appena dichiarato guerra. Artefice ne fu quindi il filomacedone Eschine.
Ma il risultato dell’azione dell’oratore fu del tutto opposto ai suoi obiettivi, anche
a causa della ferrea opposizione di Demostene a qualsiasi forma di
riavvicinamento a Filippo. Ma la guerra sacra ebbe comunque il suo inizio e,
come in passato, Filippo anche in questa occasione non fu lieto di accettare
l’incarico che gli consentiva di presentarsi come “re giusto”, rifacendosi al tema
ideologico della “vendetta” in nome e per conto del dio Apollo. Così il consiglio
anfizionico chiese a Filippo di intervenire in soccorso di Apollo e degli Anfizioni, e
di non restare distanza dal sacrilegio, consegnandogli la nomina di comandante
con pieni poteri. Accettando, l’azione militare poteva iniziare sotto i migliori
auspici, complice la protezione di Apollo che, come nel 352, avrebbe sostenuto
quanti si facevano paladini della sua giustizia.
6. La presa di Elatea e l’intesa tra Atene e Tebe
La guerra tra il fronte greco antimacedone e Filippo di fatto venne decretata da
due azioni. Quando Filippo si trovava in Scizia e non aveva ancora ricevuto
l'incarico di capo delle truppe anfizioniche, i tebani come gli ateniesi dopo aver
boicottato la riunione delle Termopili, che aveva sancito la guerra ad Anfissa, si
affrettarono ad occupare la città di Nicea, che nel 346 Filippo aveva consegnato ai
tessali a conclusione della terza guerra sacra. Dopo avere espulso la guarnigione
macedone, i tebani presero il controllo tanto della città quanto delle Termopili,
sbarrando di fatto il passaggio principale che dallla Tessaglia conduceva alle
regioni greche del Sud. Ma questo non bastò a fermare Filippo. Appena eletto
capo degli anfizioni nella guerra ad Anfissa, il macedone, aggirò il blocco tebano e
penetrò nel Focide, e impadronendosi di Kitinion in Doride e soprattutto della
Roccaforte di Elatea, strategicamente collocata nella Focide d'orientale. Con la
presa di Elatea, il macedone di fatto si aprì la strada verso la Beozia e Tebe, e
verso l’Attica e Atene. Prima di scatenare la guerra Filippo non mancò tuttavia di
percorrere la strada del dialogo al fine, soprattutto, di impedire la formazione di
un temibile asse tra Tebe e Atene. Così mandò ai tebani un’ambasceria per
chiedere che Nicea fosse consegnata ai Locresi, ma non ottenne i risultati
concreti, anzi i Tebani risposero affermando che avrebbero inviato un’ambasceria
a Filippo per discuterne la questione. Gli ateniesi dovevano invece impedire che
Filippo si unisse ai tebani e marciasse contro l’Attica. A tal proposito Demostene
invitava la sua città a mettere da parte i passati dissapori con Tebe, e piuttosto a
cercare un accordo con l'antico avversario. Prima di arrivare alla guerra le due
parti diedero spazio così alla diplomazia, schierando il meglio delle loro
cancellerie. Atene invio a Tebe un’ambasceria guidata da Demostene, Filippo si
affidò nuovamente alle doti di comunicatore di Pitone di Bisanzio, incaricato ora
di convincere i tebani a non allearsi ad Atene nella guerra alla Macedonia. Lo
scontro dialettico tra le due delegazioni davanti all'assemblea tebana è ricordato,
non senza parzialità, da Demostene, secondo il quale furono proprio le sue parole
a fare effetto sui tebani, che decisero di respingere proposte portate dagli
ambasciatori di Filippo e di optare per un'intesa con Atene. Gli ateniesi, infatti,
riconoscevano ai nuovi alleati il controllo di tutta la Beozia, si accollavano poi i
due terzi delle spese di guerra, e attribuivano il comando delle truppe navali in
forma equa entrambe le parti, ai soli tebani quello delle forze di terra. Trovata
l'intesa la guerra poteva iniziare.
7. Cheronea
L'alleanza militare tra Atene e Tebe di fatto portò allo scontro armato con Filippo.
Il re macedone, tuttavia, prima di cedere la parola le armi, provò un ultimo
tentativo per arrivare a un'intesa che evitasse lo spargimento di sangue. Ma fu
tutto vano. Gli ateniesi respinsero sistematicamente le sue proposte, e analoga
determinazione mostrarono i tebani. Il fallimento delle trattative rappresentò la
possibilità per Filippo di liberarsi completamente da ogni responsabilità
nell'apertura del conflitto, attribuendone le colpe alla controparte. Scoppiata la
guerra, gli ateniesi inviarono in soccorso di Anfissa 10.000 mercenari, e le loro
truppe, insieme a quelle dei tebani, si posizionarono presso Elatea al fine di
impedire a Filippo di attaccare la città locrese e scendere in Beozia. Filippo fu per
ben due volte fermato. Tuttavia, ricorrendo come in molti altri casi a uno
stratagemma, il re riuscì ad aggirare il blocco nemico e a dirigersi contro Anfissa
conquistandola. Lo stratagemma consistette nello scrivere una lettera ad
Antipatro, suo comandante, e nel fare in modo che venisse intercettata dagli
strateghi nemici, e nello scritto Filippo informava il suo generale che aveva deciso
di recarsi in Tracia e di sospendere la guerra di Anfissa. Venuti in possesso di
informazioni riservate, i generali nemici levarono il blocco, consentendo così al re
macedone di scendere e portare le sue truppe contro Anfissa. Quando si
accorsero di essere stato ingannati era troppo tardi, e Filippo era ormai entrato in
possesso della città locrese e si accingeva a penetrare in Beozia. Cadute le varie
città, le truppe tebane e ateniesi, supportate da altre città greche, si sistemano a
est nei pressi di Cheronea, località ubicata ai confini della Beozia nella pianura
adiacente al letto del fiume Cefiso. L'esercito di Filippo era superiore a quello degli
avversari numericamente e strategicamente, e la narrazione dello scontro è
narrata da Diodoro. All'alba gli eserciti si schierarono e il re macedone collocò il
figlio Alessandro in una delle due ali, affiancandogli i più insigni comandanti.
Ebbe luogo una dura battaglia che si protrasse a lungo ed entrambe le parti
subirono molte perdite, sì che per un po' l'andamento del combattimento faceva
sperare nella vittoria ora gli uni e ora gli altri. Ma poi Alessandro, siccome
desiderava mostrare al padre il proprio coraggio e continuava a combattere con il
massimo accanimento, ruppe per primo il fronte continuo dello schieramento
nemico E mise in difficoltà i suoi diretti avversari, mietendo molte vittime. Mentre
molti cadaveri si ammucchiavano l'uno sull'altro, Alessandro e i suoi
sopraffacevano per primi i loro avversari, e li volsero in fuga. Allora anche il re
Filippo, esponendosi personalmente al pericolo, per primo respinse con forza i
suoi avversari, e avendoli costretti alla fuga, fu l'artefice della vittoria. Dopo la
battaglia Filippo eresse un trofeo e concesse le esequie ai caduti; quindi, compì in
onore degli dèi sacrifici per la vittoria e ricompensò secondo il merito quelli che si
erano distinti.
Parte quarta: L’accorto uso della vittoria
1. La punizione dei Tebani, la benevolenza verso gli Ateniesi
La vittoria sui Greci guidati da Atene e Tebe di fatto consegnò a Filippo il
controllo su tutto il mondo greco. A Cheronea la sua superiorità strategica e
militare era stata schiacciante e le forze che gli si erano opposte si erano
frantumate di fronte alla forza d'urto dell'esercito macedone, nel quale cominciava
a brillare il giovane Alessandro. L'esito della battaglia ebbe delle conseguenze
pesanti per i vinti. Le fonti tacendo completamente la reazione dei tebani alla
sconfitta si soffermarono subito dopo la vittoria sulle reazioni atenesi alla notizia
della sconfitta. La fonte più dettagliata è Diodoro, che narra che alla fine Filippo
rilasciò tutti i prigionieri senza riscatto e mandò ambasciatori al popolo ateniese e
concluse con esso un trattato di amicizia e di alleanza. Mentre a Tebe installò una
guarnigione e concluse la pace con i Beoti. La fonte parla quindi
dell'atteggiamento benevolo di Filippo verso Atene. La fonte accenna poi a dei
provvedimenti ben più duri adottati da Filippo nei confronti di Tebe: la decisione
del macedone di adottare misure differenti verso ateniesi e tebani fu una scelta
ben ponderata, determinata sia dal differente peso storico, culturale e ideologico
delle due comunità in Grecia, sia dai piani futuri del re che, con la Grecia ormai
ai suoi piedi, i confini del regno, abbondantemente rafforzati e allargati tanto a
ovest quanto a est, non poteva non avere nell’impero persiano il prossimo e
immediato obiettivo. Contro Tebe Filippo impose alla città il pagamento di un
riscatto per dei prigionieri e la sepoltura dei caduti, alcuni cittadini li esiliò e altri
ancora li privò dei loro beni, e fece rientrare dall'esilio i filomacedoni e affidò il
governo della città a trecento di essi. Si mostrò invece estremamente e
inaspettatamente magnanimo verso gli ateniesi, quest'ultimi che dopo la sconfitta
si preparavano al peggio prevedendo un imminente attacco macedone e
adottando misure straordinarie. La decisione di non infierire sulla vinta Atene si
configura come un capolavoro diplomazia che viene colto in tutte le sue
sfumature da una storia fine come Polibio. Avviò delle trattative di pace attraverso
Demade, inviato di Filippo: il rilascio dei prigionieri senza riscatto, il rientro in
patria, con ogni onore, dei caduti. L'inaspettata magnanimità del re ebbe come
conseguenza un radicale mutamento nell'orientamento politico ateniese, che da
antimacedone divenne filomacedone. Così che la città affidò a personaggi più
moderati il compito di risollevare la situazione economica: a Licurgo il compito di
riordinare le finanze, a Focione la carica di stratego, a Demade il ruolo di
mediatore nelle trattative con Filippo. Gli ateniesi concessero a Filippo onori: gli
attribuirono la cittadinanza, gli elevarono una statua nell'edificio dell’Odeion, e
forse lo considerarono tredicesimo dio. Che le azioni di Filippo non fossero
distintive ma attentamente ponderate è suggerito dalla sua profonda conoscenza
della cultura ateniese e dalla presenza alla sua corte di personaggi esperti di
politica ateniese. Il gesto più grande fu certamente la restituzione delle salme,
perché mostrando i morti, il sovrano si presentava come l'amico più fidato degli
ateniesi, seguendone scrupolosamente le tradizioni e rispettando il dolore di
un'intera comunità.
2. Tante voci per un successo: il discorso di Demostene per i caduti
In questo caso di vittoria il re macedone stimolò la composizione di vari scritti
indirizzati a lui. Il primo a rivolgersi al sovrano per salutarne il successo e
consigliarlo fu Isocrate che scrisse al re una lettera nella quale il retore poneva
Filippo a Capo dei Greci e invitava il re ad avviare la spedizione contro i persiani.
Anche il commediografo Alessi aveva presentato Filippo nei panni di re pio e
devoto. Fu Demostene a celebrare anche indirettamente e paradossalmente il
successo del re, tentando però di trasformare la sconfitta ateniese in una non
sconfitta. Demostene per quanto si sforzasse di ridimensionare i meriti di Filippo
non poteva negare comunque l'evidenza.
Capo dei Greci
1. La pace comune e la spedizione contro i Persiani
Della benevolenza di Filippo non beneficiarono tutti i greci. Infatti, Filippo
introdusse guarnigioni a Corinto e nella Calcide, e impose governi filomacedoni a
Megara e in Eubea, e per ridurre il potere di Sparta ne ridimensionò il territorio
nel Peloponneso. E ottennero nel mentre vantaggi territoriali i messeni, Tegea e
Argo. Con la Grecia ormai ai suoi piedi un altro grande piano militare si fece
spazio tra i progetti di Filippo: il superamento degli stretti dell'Ellesponto e del
Bosforo, e la guerra all'Impero persiano. Filippo scelse di muoversi così per gradi.
Riunì i greci a Corinto e si fece promotore di una pace comune, sul modello di
quelle che i greci stessi nei decenni passati avevano siglato. Nacque così la lega di
Corinto attraverso un documento epigrafico, in gran parte integro che stabiliva:
l'osservanza della pace e la concordia con i patti di Filippo, nessuna presa delle
armi per andare contro coloro che rispettano gli accordi, nessuna occupazione di
una città o di un presidio di coloro che partecipano alla pace, non si abbatte il
regno di Filippo e dei suoi discendenti. Se qualcuno dovesse agire in violazione
dei patti, Filippo stesso, darà il suo aiuto e farà guerra contro chi violi la pace
comune. Rimaneva defilata e isolata solo Sparta che non accettò l'accordo perché
riteneva che ciò non fosse una pace ma una schiavitù. A distanza di poco tempo
dalla stipula della pace Filippo riunì a Corinto i delegati delle città greche con
l'obiettivo, questa volta, di dare avvio alla guerra dei Persiani.
2. Filippo “vendicatore” dei Greci contro il barbaro
La spedizione contro i Persiani prese dunque il via da Corinto, non un luogo
qualunque, ma proprio quel luogo dove i greci nell'autunno del 481 decisero di
porre da parte ogni contesa e guerra tra di loro e di unirsi invece nella guerra
contro i persiani che si accingevano a invadere la Grecia. A farsene promotore
questa volta fu Filippo, al quale i delegati greci conferirono la carica militare di
Comandante in Capo. Così Filippo, adottando la strategia della comunicazione,
fece circolare tra i delegati una voce, attraverso un motivo ideologico
propagandistico, ovvero che la finalità della guerra contro i Persiani era una
vendetta, colpevoli di aver oltraggiato i templi greci nel 480. Prima di marciare col
suo esercito contro l'impero persiano, il re macedone inviò in Asia i generali
Parmenione e Attalo, incaricandoli di liberare le città greche di Asia. La spedizione
poteva dirsi così iniziata. Alla vendetta si accompagnava dunque il motivo della
libertà, indirizzato soprattutto alle poleis da Asia minore. Una libertà comunque
sui generis, nel senso che pur liberate dal giogo persiano avrebbero dovuto
comunque instaurare forme di governo e funzionari a lui favorevoli.
3. Un grande impero in rovina
La situazione dell'Impero Persiano nel 337 non era delle migliori, le sue tante
fragilità erano state messe a nudo all'inizio del IV secolo sia dalle campagne
militari spartane in Asia minore, sia dalle tante contese interne. Nel corso degli
anni Filippo si era informato sulle varie situazioni persiane notando
l'indebolimento rispetto al passato, quel grande colosso asiatico di cui Filippo ne
aveva preso consapevolezza almeno fin dal 352. Se il piano di Filippo era ormai
maturo, a dargli una spinta ulteriore fu nel 338 l'assassinio del re Artaserse III
Ocio, che fece ripiombare nel caos il grande impero. L'assassino del re nel 338, il
regno breve e incerto di Artaserse, resero qunque evidenti le difficoltà e le
debolezze interne dell'impero e contribuirono ad accrescere le speranze di
successo di Filippo. Il macedone così diede avvio alla spedizione, non solo
inviando in Asia alcuni suoi generali al comando di parte delle truppe ma
percorrendo anche strade a lui del tutto familiare, come la politica matrimoniale.
Così nel 337 accolse di buon grado la proposta del satrapo di Caria, Pissodaro, il
quale ribellatosi al nuovo re dei Persiani intendeva stipulare un'alleanza
matrimoniale con lui. L'accordo prevedeva che la figlia maggiore di Pissodaro
andasse in sposa al principe Arrideo, che Filippo aveva avuto dalla tessala Filinna
nel 357. Ma l'alleanza non andò a buon fine. Preoccupato di essere scalzato dal
fratello nella successione del trono, Alessandro fece saltare l'accordo, e suscitò
così la dura reazione di Filippo che ammonisce severamente il figlio. Il tentativo di
Filippo di legarsi saldamente ad un satrapo di Asia minore dunque falli. Ora era
tutto nelle mani dei suoi generali. La guerra si prefigurò come impresa affatto
semplice. L'azione di liberazione interessò sia Efeso sia Chio, sia Antissa. Non
mancarono comunque le difficoltà, infatti i 10.000 uomini mandati da Filippo
vennero sconfitti presso Magnesia sul Meandro da Memnone. La realtà allora
presentava un volto diverso dalle parole di Filippo, e infatti non mancavano
difficoltà e ostacoli. A ciò si univano i tentativi del nuovo re persiano Dario III, di
sobillare i nemici di Filippo scatenando una guerra in Europa.
Tra Olimpia, Delfi ed Ege
1. Il Philippeion di Olimpia /
2. La visita di Delfi e il responso della Pizia
Diodoro, fonte principale sull'ultima fase del regno di Filippo, registra nel 336 la
scelta del re Filippo di recarsi a Delfi per chiedere il parere del dio sull'esito della
spedizione in Asia che aveva appena lanciato. Secondo Diodoro la Pizia diede
questo responso: il toro è già incoronato, è giunto alla fine, c'è chi lo sacrificherà.
Filippo interpretò la profezia a suo favore, ma la verità non era questa, anzi
Filippo sarebbe stato sgozzato come toro cinto da una corona.
3. Le Feste di Ege
Per celebrare la favorevole profezia Filippo organizzò immediatamente splendidi
sacrifici in onore degli dèi e celebrò le nozze tra la figlia Cleopatra e il cognato
Alessandro il molosso. Cercò di stimolare ulteriormente il consenso dei greci
rimettendo in moto la macchina della propaganda, e lo fece riproponendo a Ege,
l'Antica capitale dei Macedoni, una liturgia. È così mentre si celebravano i giochi
e le nozze a Ege, Filippo ricevette corone d’oro, non solo da singole personalità di
riguardo ma anche dalla maggior parte delle città importanti. Anche in questo
caso Filippo figura come diretto ispiratore di un gesto che aveva nel presunto
positivo responso di vittoria ricevuto a Delfi il messaggio da far circolare, la
finalità era quella di infondere speranze sul positivo esito della guerra. Le feste
furono anche occasione per far circolare tra i presenti un secondo messaggio,
questa volta di natura religiosa, ovvero che Filippo probabilmente intendesse
proporsi come dio o almeno accostare la sua persona ai dodici dei.
La tragica fine e l’eredità di Alessandro
1. Il matrimonio con la macedone Cleopatra e lo scontro Alessandro e
Olimpiade
Nel 336 dunque Filippo era l'apice del consenso e del successo. Ora,
considerando il ruolo di primissimo piano che suo figlio Alessandro, nato dalla
principessa epirota Olimpiade, aveva avuto sia nel 340 sia nel 338, non vi
potevano essere dubbi su chi dovesse essere il successore al trono. Ma non c'era
nulla di ufficiale e le cose sarebbero potute cambiare nel corso degli anni.
Inattaccabili fino al 338 quando Filippo decise di prendere in moglie Cleopatra,
figlia di Attalo, appartenente a una delle più nobili famiglie macedoni, quindi non
di altre popolazioni. Si trattava della settima moglie. Durante la festa di nozze
accade che Attalo dichiarasse che finalmente i macedoni avrebbero potuto avere
dei sovrani legittimi e non dei bastardi. Alessandro lo sentì e lo colpì con la coppa
che teneva in mano, a sua volta Attalo lo ricambiò. Dopo l'incidente Olimpiade si
rifugiò presso i molossi, Alessandro in Illiria e Cleopatra diede a Filippo una figlia
chiamata Europa. Il matrimonio tra Filippo e la macedone Cleopatra creò una
profonda frattura in seno alla corte macedone, portando Alessandro alla decisione
di lasciare la Macedonia. A prescindere dall'evento, evidentemente madre e figlio
temevano che dal nuovo matrimonio potesse nascere un erede di sangue
macedone in grado di rimettere in discussione la successione. Avendo incaricato
Demarato di Corinto a recarsi in Illiria per persuadere Alessandro a fare ritorno in
Macedonia, Filippo ottenne il rientro del figlio. Se l'attrito con Alessandro si
risolse dunque velocemente e Filippo poté serenamente dare avvio a Ege alla sua
festa davanti a greci e macedoni, di contro non potevano dirsi appianati alcuni
contrasti interni alle sue guardie del corpo che, come vedremo avrebbero avuto
per il re conseguenze drammatiche.
2. Pausania il Regicida
Protagonista degli eventi del 336 fu un tale di nome Pausania, le cui vicende sono
narrate con dovizia di particolari da Diodoro. Pausania, spargendo calunnie,
aveva indotto al suicidio un giovane di nome anch'egli Pausania, caro ad Attalo.
Addolorato Attalo meditò vendetta. Così, avendo invitato Pausania ad un
banchetto prima lo fece ubriacare, poi lo lasciò alle violenze e agli abusi dei
mulattieri. A nulla valsero le accuse di Pausania ad Attalo davanti a Filippo.
Tuttavia, il re al fine di spegnere il risentimento del giovane, gli diede un incarico
di rilievo nelle sue guardie del corpo. La promozione non spense tuttavia lo
sdegno. Pausania covava un ostinato rancore e desiderava vendicarsi non solo del
responsabile dell'atto ma anche di chi non l'aveva punito, ovvero Filippo. Una
parte determinante in questa decisione l'ebbe il sofista Ermocrate, di cui
Pausania era allievo. Il sofista gli aveva detto che sarebbe divenuto grande se
avesse ucciso l'uomo che aveva compiuto le più grandi imprese, perché insieme a
lui sarebbe stato ricordato anche il suo assassino. Così attuò il proposito durante
lo svolgimento dei giochi. Lasciò dei cavalli alla porta e si recò all'ingresso del
teatro tenendo nascosto una spada celtica. Quando Filippo ordinò agli amici che
lo accompagnavano di precederlo nel teatro e le guardie del corpo si tennero a
distanza, vedendo che il re era rimasto solo, corse verso di lui, gli trapassò i
fianchi e lo fece cadere morto. Pausania comunque ebbe difficoltà a scappare e fu
preso e ucciso. Nonostante la storia di Pausania, altri storici come Plutarco e
Trogo Giustino tirano in ballo alcuni complici, come Olimpiade e il figlio
Alessandro. Ma tutt’oggi è difficile dire quale sia la verità sulla morte di Filippo.
3. Un ritratto di Filippo
Il gesto di Pausania determinò l'inattesa morte di Filippo, un evento che
interruppe bruscamente i progetti del re. Dopo averne narrato le imprese, tanto
Diodoro quanto Trogo Giustino, a chiusura della parte dei loro scritti dedicata al
personaggio, ne offrono due ritratti che vale la pena ricordare. Diodoro, a
chiusura del sedicesimo libro, descriveva di Filippo il più grande re d'Europa del
suo tempo, che ha saputo governare per ventiquattro anni. Un re che ha la fama
di aver creato la più grande monarchia presso i greci e di avere accresciuto la sua
potenza non tanto con il valore militare quanto con la cortesia nelle trattative.
Trogo Giustino offre una scheda più dettagliata del re macedone, ricordando gli
anni sia di vita che di governo, i suoi vari figli e matrimoni, la sua capacità nel
preparare armi e banchetti, nel procacciarsi ricchezze e conservarle. Un essere
che sapeva equilibrare perfidia e pietà, gentile e pieno di inganni. Filippo lasciò in
eredità al suo successore un regno forte saldo e ampio e gli lasciò anche un
ambizioso progetto di guerra all'Impero persiano. I giorni seguenti all'assassinio
non furono facili, la morte inaspettata del re lasciò nobiltà ed esercito in uno
stato di estrema confusione. In un momento grave per la monarchia, fu proprio
Alessandro a porsi in evidenza. Seppe rassicurare i macedoni e alimentare
speranze nel nuovo corso. Ottenendo da parte di tutti un grande favore. La
promessa che nulla sarebbe cambiato rispetto al regno di Filippo caratterizzò i
primi discorsi di Alessandro agli eserciti e agli alleati. Il tema della continuità fu
alla base della politica del nuovo re, anche nei rapporti con le comunità greche.
Così invitò le diverse delegazioni giunte presso di lui a concedere il consenso già
accordato al padre, e fu eletto comandante supremo nella spedizione contro i
persiani, e come per Filippo, anche per Alessandro la spedizione era determinata
dal desiderio di vendicare le offese che i barbari avevano arrecato ai Greci. Il
giovane re non mancò di ricordare il padre anche successivamente, ma non esitò
a rinnegare il modello paterno successivamente, e in più occasioni davanti ad un
capo sempre meno re e sempre più despota, e gli intellettuali e le truppe non
mancavano di contrapporgli proprio Filippo, emblema della Macedonia autentica.
Un modello, Filippo, che non poteva essere ignorato o negato: il suo fantasma
accompagnò sempre Alessandro, perché, dopo tutto, il merito era di Filippo che
gli aveva consegnato un regno solido e sicuro, un esercito ben organizzato e
abituato alla guerra, una Grecia soggiogata e allineata ai piani macedoni.

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