Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
1. Un po’ di storia
Un breve sunto della storia del rapporto tra film e narrativa di provenienza non può che
essere fatto sulla base di casi emblematici in grado di descrivere le direttrici che hanno
guidato, nella prassi, il rapporto fra cinema e letteratura del quale ci andiamo occupando.
1.1 Le origini
Il cinema nasce come fenomeno popolaresco. La logica fotografica dei suoi inventori ufficiali
(1895), i fratelli Lumière, porta a privilegiare la rivelazione di aspetti meravigliosi del mondo
(stupore). Anche quando, grazie a Méliès e alla sua scoperta del meccanismo del
montaggio, il cinema inizia a muovere i primi passi in un orizzonte narrativo, a tenere banco
è sempre l’attrazione. Solo dopo qualche anno dalla sua invenzione il cinema inizierà a
predisporre di una narrazione vera e propria, per raccontare una storia di una certa
complessità.
Già nel corso del primo decennio del Novecento si assiste alla fioritura di brevi film che
raffigurano scene famose tratte da testi shakespeariani, dalla Divina Commedia o da altri
grandi racconti. Scene famose o singoli momenti che fanno appello al fatto che certi
personaggi e certi avvenimenti costituiscono un patrimonio comune, ma non cercano alcun
rapporto diretto con il testo di riferimento. Il rapporto vero e proprio fra il cinema e la
letteratura viene perseguito dal cinema italiano del periodo muto. A differenza dell’America e
di altri paesi, il cinema italiano è sostanzialmente borghese e soffre per la scarsa
considerazione in cui esso è tenuto. Si vanno a ricercare allora soggetti letterari e scrittori
famosi per la redazione di soggetti originali che possano godere di una patente artistica
inoppugnabile (es. Verga, Gozzano, Pirandello, D’annunzio).
Nei confronti del cinema gli intellettuali hanno un atteggiamento ambivalente: da un lato vi si
dedicano per ragioni economiche, dall’altro lato lo guardano con sufficienza poiché era
considerato una forma d’arte minore.
Anche durante gli anni venti, il cinema continua a trarre “liberamente” ispirazione da testi
letterari. Si entra nel periodo del sonoro e la sceneggiatura cinematografica comincia a
richiedere l’intervento di figure in grado di elaborare non solo intrecci appassionanti, ma
anche dialoghi capaci di catturare l’attenzione dello spettatore. Queste figure vengono
spesso reclutate fra gli scrittori.
Anche il neorealismo italiano abbraccia la letteratura: “Ladri di biciclette” di De Sica è, prima
che un film, un romanzo di Luigi Bartolini, “Ossessione” di Visconti è tratto da “Il postino
suona sempre due volte” di James Cain…
Nel corso degli anni cinquanta e nel decennio successivo il rapporto fra cinema e letteratura
subisce un radicale cambiamento.
Nel 1948 esce su una rivista francese un articolo del romanziere e regista Alexandre Astruc,
che riguarda il principio della cosiddetta “caméra stylo”, ovvero la pretesa per un autore
cinematografico di potersi esprimere con la stessa libertà di cui godevano gli scrittori (sia per
quanto riguarda i temi, che per lo stile con il quale metterli in scena). Infatti, in Europa il
cinema era una vera e propria industria, e come tale era legata a una serie di vincoli di
mercato e sociali in grado di condizionare pesantemente l’apporto individuale dei singoli
registi. L’idea di Astruc trova molto supporto dai giovani critici della rivista “Cahiers di
cinéma”, critici che diventeranno poi registi della nouvelle vague (es. Truffaut, Godard…).
Bisogna fare film con la stessa “disinvoltura” con cui gli scrittori scrivono libri e mantenere,
però, un sacro rispetto per la natura profonda di un testo letterario e per le leggi che ne
hanno determinato la struttura.
TRUFFAUT —> da un lato fa film in cui racconta se stesso, utilizzando la macchina da presa
come una penna (es. I 400 colpi, Antoine e Colette, Baci rubati…), dall’altro lato si cimenta
con la trasposizione di grandi testi letterari (es. Jules e Jim, Le due inglesi, Fahrenheit
451…).
Il legame con il noveau roman francese arriva a influenzare direttamente il cinema, dando
vita a opere in cui viene stravolta la consueta sintassi, in cui le coordinate spazio-temporali
risultano alterate e in cui dominano voci fuori campo e flussi di coscienza.
In America, invece, le cose seguono il filo di una tradizione che va progressivamente in crisi
sotto la spinta concorrenziale della tv e del mutamento dei gusti del pubblico.
Con la rivalutazione della letteratura popolare e la caduta di una distinzione tra cultura bassa
e cultura alta, il piano cinematografico e il piano letterario si intersecano di continuo.
Molti autori letterari hanno fornito, con le loro opere, una base per un rinnovamento vero e
proprio di alcuni dei principali generi e sono stati saccheggiati in modo sistematico (es.
Stephen King).
Tutt’altra storia è quella che coinvolge scrittori o singoli romanzi di grande successo, ai quali
il cinema si è rivolto per approfittare di un lancio promozionale avviato in modo quasi
automatico (es. Harry Potter).
2. Le teorie
“Il cinema sta alla letteratura come il film sta al libro da cui è tratto” —> definizione parziale
Da un lato abbiamo la scrittura, basata sui codici di lingua scritta e parlata; in quanto codice,
essa è fatta di segni arbitrari e convenzionali. Il cinema, invece, è una lingua che utilizza
segni iconici, che rimandano direttamente all’oggetto preciso che intendono rappresentare.
(per esempi rileggere il paragrafo)
La lingua scritto-parlata articola le sue parole in due momenti: monemi e fonemi. Nel 1964 il
semiologo francese Christian Metz scrisse un saggio (“Il cinema: lingua o linguaggio?”) dove
stabiliva che il cinema non può essere assimilato a una lingua, perché non possiede unità di
senso stabilite a priori come i monemi, dal momento che ogni inquadratura è unica e
irripetibile, e neppure unità malleabili come i fonemi, da combinare tra loro per formare nuovi
monemi, poiché tutti gli elementi che compongono un’inquadratura sono già dotati di senso.
Inoltre, il cinema non possiede nessuno dei tre fenomeni che contraddistinguono il fatto
linguistico in senso stretto: la langue, i segni, intercomunicazione.
Per Metz quindi, “rispetto al binomio letteratura/lingua, abbiamo un solo cinema, che
assomiglia più alla letteratura che alla lingua”. Inoltre, sempre Metz propone di distinguere i
piani del discorso e chiarire sempre a quali di questi quattro elementi si riferisce l’eventuale
analisi:
Pier Paolo Pasolini, nel 1966, in un saggio intitolato “La lingua scritta della realtà”, sosteneva
che le inquadrature sono simili ai monemi e i singoli oggetti che rientrano in ciascuna
inquadratura, chiamati da lui cinemi, sono simili ai fonemi. Quindi anche il cinema possiede
una doppia articolazione.
In qualsiasi romanzo si alternano questi due piani e si può dire che un romanzo è tanto più
espressivo quanto più il suo autore si muove sul piano della connotazione.
Questo vale anche nel cinema, ma in forma differente: ad esempio inquadrature puramente
descrittive o inquadrature fortemente elaborate. (per esempi rileggere il paragrafo)
Nel corso degli anni il cinema ha elaborato una sorta di vocabolario autonomo, quasi
autoreferenziale, di segnali; inoltre, si sono andate cristallizzando un certo numero di
immagini convenzionali (es. scene in aeroporto). Questa capacità di fissare veri e propri
topoi della cultura di massa, da utilizzare a più riprese magari combinandoli assieme con
variazioni nella successione e nel ritmo, è una capacità che il cinema desume dalla
letteratura di genere.
Il cinema ha la capacità di andare oltre l’oggettività, oltre le cose concrete. Infatti, pur
dovendosi limitare a utilizzare segni che rientrano nell’ordine del visibile, il cinema, come la
letteratura, può esprimere idee e concetti astratti, appartenenti al regno dell’invisibile.
Il cineasta Lev Kulesov era riuscito a dimostrare che il cinema può esprimere concetti astratti
attraverso la pratica del montaggio. Infatti, se in due singole inquadrature si possono
rappresentare solo un oggetto A e un oggetto B, attraverso la relazione che si instaura tra A
e B può scaturire un significato C, che è la moltiplicazione degli elementi mostrati e può
benissimo essere un concetto astratto.
Boris Ejchenbaum concentra i suoi studi su analogie e differenze fra i modi della poesia e
della prosa nel film e nel testo scritto, e la conclusione cui si giunge è che, anche nel
cinema, la poesia non è mai “già nelle cose” e non può quindi essere ottenuta attraverso la
mera riproduzione di oggetti intrinsecamente poetici. La poesia è il risultato di precise scelte
stilistiche (montaggio, illuminazione ecc…) che implicano conseguenze sotto il profilo
semantico.
Nel 1965 Pasolini scrive un saggio dedicato proprio al cinema di poesia, partendo dalle
considerazioni degli autori russi. Egli distingue quindi:
CINEMA DI PROSA —> (es. Ford, Chaplin) narrazione lineare e “frontale” della storia,
seguendo le regole di una “sintassi” del racconto filmico che si sono andate
istituzionalizzando nel corso dei decenni
CINEMA DI POESIA —> (es. “Prima della rivoluzione” di Bertolucci o “Deserto rosso” di
Antonioni) ricorso a inquadrature fortemente stilizzate in base alla posizione della cinepresa,
alla messa a fuoco o all’illuminazione, che diano conto della soggettività del personaggio
senza essere propriamente delle soggettive (senza permettere allo spettatore di stabilire con
certezza che quell’immagine corrisponde a ciò che sta
vedendo uno dei protagonisti del film): soggettiva libera indiretta pretestuale (simile al
discorso libero indiretto in letteratura)
Un libro e un film sono la maniera con cui un autore porge al mondo dei significati. Tuttavia,
il cinema ha dovuto scontare un lunghissimo periodo di anticamera prima di essere
ammesso nel sistema delle arti. Si può dire quindi che la maggior parte degli studi e delle
numerose analisi testuali comparative tra cinema e letteratura sono atte a dimostrare che un
il film possiede la stessa dignità artistica e culturale del libro da cui è eventualmente tratto.
Il cinema e la letteratura sono, oltre che delle arti, dei mezzi di comunicazione e per di più di
massa, quindi luoghi di produzione e di circolazione di discorsi sociali.
Lo scopo delle sceneggiatura è quello di fornire una base alla lavorazione del film. È un
genere di testo particolare, a metà tra il testo di un’opera teatrale e un romanzo. Nella
sceneggiatura ci sono continui riferimenti alla situazione, ai personaggi, al modo in cui sono
vestiti, in cui si muovono, all’ambiente che li circonda. Ci può perfino essere una serie di
riferimento al rapporto che le cose descritte intrattengono con un qualcosa di ulteriore come
la macchina da presa. Siamo di fronte a una specie di diario di lavorazione, una struttura di
passaggio, che non si accontenta di essere libro ma non è neppure, ancora,
cinematografica.
● storia
● personaggi
● dialoghi (quelli cinematografici, rispetto a quelli letterari, dipendono molto
dall’interpretazione degli attori)
● didascalie, cartelli, sottotitoli (rileggere paragrafo)
La parola “sceneggiatura” può riferirsi a una serie di cose diversissime tra loro, quindi
bisogna fare delle distinzioni.
Nel processo industriale di produzione dei film su cui si basa Hollywood il primo passo per la
realizzazione di una pellicola è quello di sedersi al tavolo di un tycoon (imprenditore
cinematografico) e raccontargli il film, nel minor tempo possibile e con il minor numero di
parole. Questo “riassunto” del film (scritto o non) è generalmente chiamato soggetto. Se un
film, invece, è tratto da un’opera letteraria, si è soliti considerare come soggetto l’opera
letteraria stessa.
La sceneggiatura è quel testo letterario che comprende la suddivisione della trama in scene,
i dialoghi che devono svolgersi in ciascuna scena, l’indicazione degli ambienti e a volte dei
movimenti di macchina. Il testo della sceneggiatura non è molto differente dalla maggior
parte dei testi letterari, poiché anch’essi forniscono informazioni riguardo chi sta parlando,
l’ambiente in cui si trova, le azioni che sta compiendo.
Si può fare una distinzione, individuando due tipi di sceneggiature: sceneggiature vere e
proprie e trascrizioni (o sceneggiature desunte). Le prime sono testi “al servizio del regista”,
che su di esse basa l’organizzazione del proprio lavoro, ma che si possono modificare in
corso d’opera. La sceneggiatura desunta, invece, coincide a tutti gli effetti con il film,
essendo un lavoro di trascrizione, in cui si cerca di dare conto dell’opera finita, ai fini
dell’analisi o della semplice documentazione, per studiosi o cinefili. Le trascrizioni possono
essere più o meno dettagliate (vedi esempio nel paragrafo).
Poiché è difficile tradurre delle immagini in una lingua verbale, il regista fa seguire alla
sceneggiatura una story-board, cioè una raccolta di schizzi che rappresentano le
inquadrature. Nelle produzione più costose viene aggiunta anche una simulazione di
movimento ottenuta con le immagini digitali.
Ci sono almeno tre grandi tipologie di approccio a un testo letterario da parte di colui che è
incaricato dell’adattamento.
La più aperta delle tre è quella che consiste nel prendere il romanzo, mantenere alcuni
elementi e lasciare che il film segua la sua strada liberamente (es. Apocalypse Now di
Coppola, adattato dal romanzo Cuore di tenebra di Conrad [rileggi bene spiegazione nel
paragrafo]).
Un altro tipo di approccio è quello che consiste nel trasporre cinematograficamente un testo
cogliendone solamente alcuni momenti chiave, alcune scene significative. È questo il caso
della maggioranza dei film che siamo soliti inserire nella categoria delle opere “tratte da” (es.
Il Gattopardo e Senso di Visconti, Morte a Venezia di Boito, American Psycho).
La terza categoria è in qualche maniera utopica, in quanto si propone l’obiettivo della fedeltà
assoluta, che è forse possibile solamente nel caso di un romanzo che nasca in
contemporanea al film (es. Teorema di Pasolini).
Allo sceneggiatore che sta cercando di adattare un libro per il cinema si presenta,
concretamente, una pagina scritta che egli deve tradurre in immagini. Il discorso diretto può
rimanere tale e quale, può diventare dialogo del film (in toto o in parte). Anche le
considerazioni dell’autore, quelle sue personali o quelle che attribuisce a una persona,
tramite monologhi interiori o altri espedienti, possono essere mantenute, limitandosi a
interpretarle attraverso la recitazione di un attore che andrà a comporre la voce
extradiegetica (o VoiceOver screen).
Ogni testo filmico e ogni testo letterario si possono analizzare separando i piani
dell’espressione e del contenuto, ed è proprio da quest’ultimo che si deve partire per
comprendere come sia possibile che un film e un libro possano arrivare a esprimere
qualcosa di così simile da indurre gli spettatori/lettori ad associarli e la critica a compararli.
Da qui gli studiosi di semiotica sono arrivata a individuare il concetto di isotopia, cioè di linee
di coerenza testuali, che consentono di collegare un film e un libro a partire dalla
somiglianza fra alcune (o tutte) loro componenti a livello del contenuto. Greimas individua tre
tipi di isotopie (rileggere bene esempi nel paragrafo):
— isotopie tematiche -> sono le questioni di fondo di cui si occupano tanto il romanzo
quanto il film
— isotopie figurative -> riguardano i dati oggettivi in cui questi temi sono rappresentati (dati
che riguardano l’identità dei personaggi, le loro azioni, le coordinate spaziali e temporali in
cui il racconto si svolge)
— isotopie patemiche -> cambiamenti caratteriali ed emotivi che i personaggi subiscono nel
corso del racconto, la loro trasformazione ( o la mancata trasformazione) nel corso della
vicenda.
— sottrazioni -> nel film può mancare qualche elemento presente nel libro, poiché bisogna
fare una sintesi (tra i 90 e i 180 minuti di film). Inoltre, ci sono scene che “possono essere
raccontate in un testo letterario ma non mostrate in un film” (es. scene violente,
sessualmente esplicite…)
— aggiunte -> nel film possono essere aggiunti elementi che nel libro non ci sono
Di solito queste due operazioni sono combinate. Inoltre, esiste anche l’espansione, cioè un
film molto lungo, tratto da un’opera letteraria estremamente breve.
Il film “Lolita” di Stanley Kubrick è tratto dal romanzo di Vladimir Nabokov; entrambi sono
considerati dei capolavori e hanno una sostanza e un tono tutto sommato comparabili, pur
con delle differenze.
Il libro è fra i più difficili da trasporre, visto che è narrato in prima persona dal protagonista,
ha una lunghezza notevole, racconta una storia che va avanti per un arco di tempo molto
ampio e affronta un tema scabroso come l’attrazione di un uomo maturo per un’adolescente.
Lo stesso Nabokov fu coinvolto nella scrittura del film, ma il suo screenplay risultò una vera
e propria riscrittura del romanzo, e Kubrick lo dimezzò.
Le differenze fra libro e film cominciano da particolari minimi per poi espandersi in fenomeni
macroscopici. L’incipit del film è completamente inventato da Kubrick, la moglie di Humbert
Humbert nel film è più sciatta e anziana, la sequenza in cui la “famiglia” va al cinema a
vedere Frankestein nel libro non c’è ecc…
L’insieme delle varianti apportate da Kubrick finisce per avere ripercussioni sul senso
profondo dell’opera: quello che in Nabokov era comunque il racconto di un sentimento
amoroso, un amour fou, sconsiderato, patetico, ma sempre un sentimento autentico, nel film
tende a diventare la cronaca feroce di un’ossessione contorta.
Adattamento è “il processo di traslazione con cui si crea un’opera O2 a partire da un’opera
O1 preesistente, laddove O2 non utilizza, o non utilizza solamente, le stesse materie
dell’espressione di O1” (Thierry Groensteen).
Solitamente si ritiene sempre il romanzo superiore al libro, non tenendo conto dei diversi
ambiti di competenza.
Il vero obiettivo che il cineasta dovrebbe proporsi nella sua scelta di firmare un testo
letterario, non è “un film paragonabile al romanzo, o degno di lui, ma un nuovo oggetto
estetico che è qualcosa come il romanzo moltiplicato per il cinema” (André Bazin).
4.1 La storia
Per storia intendiamo il contenuto del racconto al quale stiamo assistendo, come lettori o
come spettatori. In pratica è ciò che accomuna effettivamente un libro e un film, perché può
rimanere invariata.
Gli eventi che compongono una storia sono praticamente sempre legati da un ordine, da una
successione, da una selezione e da una gerarchia che ne determinano l’intreccio. Gli eventi
possono essere presentati in ordine cronologico o anche con i procedimenti di analessi e
prolessi (flashback e flashforward). Normalmente, dunque, la disposizione degli eventi non
viene lasciata a una pura casualità ma presuppone, al contrario, una contingenza e una
causalità. Quando vediamo un personaggio comportarsi in una determinata maniera
dobbiamo essere informati delle ragioni che lo hanno spinto ad agire e esse devono
rispondere a un criterio di verosimiglianza.
Suspense —> predisporre gli eventi in maniera da creare nel lettore/spettatore una forte
tensione relativa alle modalità con cui verrà sciolto l’intreccio medesimo
— tempo diegetico -> dato dal protrarsi degli avvenimenti narrati (un libro può raccontare
una storia che si svolge nel corso di qualche giorno o che abbraccia l’arco di una vita intera
e perfino più generazioni)
— tempo concreto -> dato dalla somma delle ore che il lettore impiega a leggerlo
— terzo tipo di tempo -> equivale alla lunghezza che l’autore decide debba avere ogni
singolo segmento nell’economia complessiva dell’opera
La temporalità del cinema prevede tutte queste figure, tuttavia differisce per il fatto che la
sua durata non è soggettiva e non può essere negoziata (a parte nella visione domestica,
ma è un tipo di fruizione del tutto particolare).
Per entrambi è una questione di stile: in letteratura l’effetto è perseguito tramite l’espressività
delle scelte lessicali, nel cinema attraverso il rapporto che si decide fra la location e la
macchina da presa.
In una storia non è importante solo quello che i personaggi fanno, ma anche chi sono, come
sono tratteggiati. Un grado zero del personaggio, la sua riduzione a motore della storia,
costituisce un limite. Si possono distinguere due tipi di personaggi:
— personaggio di superficie -> si limita a svolgere una funzione all’interno del racconto,
senza essere troppo “tratteggiato”
— personaggio a tutto tondo -> svolge una funzione all’interno del racconto, ma allo stesso
tempo può essere recepito dal pubblico anche come figura autonoma, definita da una serie
di tratti che sono soggetti a interpretazione e arricchimento
4.2 Il discorso
Il piano del discorso è quello che riguarda l’espressione di una storia, realizzata con tutti i
mezzi a disposizione. Tutto ciò che compone una storia deve essere ordinato in un intreccio
e ogni discorso deve necessariamente operare una selezione fra ciò che è utile dire e/o
mostrare e ciò che può essere sottinteso, omesso, tagliato fuori dai bordi dell’inquadratura o
“scavalcato” tramite un’ellissi.
L’autore può essere un gruppo di persone (come accade spesso in un film) o perfino un
numero incalcolabile di persone (chi è l’autore reale della Bibbia?). Tuttavia, un testo ha
anche un narratore, cioè colui che all’interno del testo concretamente formula gli enunciati.
All’altro polo della comunicazione abbiamo il narratario, ovvero il ricevente al quale gli
enunciati dichiarano di rivolgersi.
Il rapporto che lega il cinema alla letteratura agisce in due direzioni. Infatti, se da un lato il
cinema trae dalla letteratura storie, trame, personaggi, tecniche narrative, è altrettanto vero
che esso le rielabora e le restituisce all’universo di provenienza, esercitando su di esso a
sua volta un’influenza. Questo fenomeno di ricaduta del cinema sulla letteratura è definito
“effetto rebound”.
Ci sono romanzi che si occupano di cinema per capirne i segreti (es. Serafino Gubbio di
Pirandello), altri che sfruttano il fascino dell’esotismo massmediatico di un’ambientazione
che ha a che fare con il cinema (es. le Hollywood novels di Fitzgerald).
Riguardo alle sale cinematografiche sono state scritte pagine illuminanti da parecchi scrittori,
che hanno sottolineato la funzione storica di quella sorta di tempio in cui si officiava il rito
(sociale) della proiezione.