Sei sulla pagina 1di 22

RIASSUNTO LIBRO PRATO

“RETORICA E COMUNICAZIONE PERSUASIVA”


Nel libro abbiamo una riflessione che prevede l’analisi delle tecniche persuasive, sia a livello cognitivo, nella
misura in cui le parole condizionano le nostre aspettative e convinzioni, sia a livello pragmatico, quando
influenzano i nostri comportamenti. Questo tema è importante se consideriamo il fatto che le ragioni che si
presentano a supporto di una comunicazione finalizzata alla persuasione determinano la qualità della
persuasione stessa: spesso le ragioni portate per convincere l’uditorio di una determinata opinione sono
qualitativamente distorte. È questo il caso della manipolazione disonesta che distorce la visione del mondo
nella mente dell’interlocutore, per indurlo a a perseguire il fine del manipolatore ricorrendo alle fallacie
argomentative, alla menzogna, immagini ingannevoli, personalizzazione del discorso e appello al patetismo.
I mezzi di comunicazione in molti casi sono strumenti di disinformazione e corruzione delle coscienze. La
retorica rappresenta un antidoto rispetto a queste forme di manipolazione disonesta, perché ne evidenzia i
meccanismi e permette di riconoscerle. Ci permette di riconoscere le strategie persuasive e tenere vivo il
pensiero critico.

Cap. 1 PER UN’ETICA DELLA COMUNICAZIONE


1.1 La funzione ermeneutica della retorica
Nella Retorica Aristotele riconosce alla retorica la funzione ermeneutica, che riguarda l’analisi e
l’interpretazione dei discorsi al fine di valutare l’attendibilità delle prove che confermano le tesi in essi
espresse. Questa funzione veniva attribuita all’oratore sia in forma attiva che passiva:

- serviva per mettere in evidenza i punti deboli delle argomentazioni sostenute dall’avversario per
utilizzarle a proprio vantaggio;
- inoltre, si utilizza per mettere alla prova la sostenibilità delle proprie tesi, in modo da anticipare e
neutralizzare le possibili critiche contro la propria argomentazione.

Aristotele considera la f. ermeneutica molto importante in quanto ritiene che la retorica, come la dialettica,
si presenta come la tecnica di costruire discorsi che rendono ragione di una tesi, mostrando al tempo stesso,
attraverso la prova di falsificazione, l’impraticabilità della tesi opposta.

La retorica può svolgere un’importante funzione critica che ha anche un risvolto etico: insegnare al
pubblico come difendersi dalle strategie fraudolente, affinare il senso critico, svelare i meccanismi della
cattiva manipolazione. Permettergli di non essere spettatori passivi.

1.2 La teoria dei sofismi: Locke e Bentham


Le idee di Aristotele sul ragionametno scorretto sono state accolte da John Locke e Jeremy Bentham che si
interessano della possibilità di conseguire un’ideale regolativo del linguaggio.

Essay on human understanding di Locke ha il merito di aver rivisitato e rielaborato la teoria delle fallacie
argomentative di Aristotele e la sua critica degli argomenti usati dai sofisti: argomenti ad hominem, ad
verecundiam, ad ignorantiam che rientrano nelle fallacie informali di rilevanza perché presentano nelle
premesse del sillogismo degli elementi irrilevanti ai fini della giustificazione della conclusione.

(io ci scrivo quello che c’è scritto sul libro poi guardiamo negli appunti)

- Argomento ad hominem
Si basa sul carattere, sulle qualità di una persona o su una categoria alla quale la persona può essere
ricondotta per screditare la tesi che quella persona sostiene. Si rifiuta l tesi di Giorgio che bisogna
usare le cinture di sicurezza dicendo che Giorgio è disonesto.
- Tu quoque
È una variante della fallacia ad hominem: quando per demolire la tesi di un avversario si sottolinea il
fatto che la tesi che egli sostiene è in contraddizione con il suo comportamento o con le circostanze
in cui egli si trova. Si contesta a Paolo di sostenere la tesi che fumare fa male facendo osservare che
lui stesso continua a fumare. Strategia scorretta in quanto ciò che Paolo fa non è rilevante per
giudicare la sua tesi.
- Fallacia di azzeramento
Un comportamento scorretto viene giustificato dal fatto che lo ha tenuto anche un’altra persona,
viene presentato così come se fosse meno grave in quanto non sono l’unico ad averlo compiuto. Un
elemento aggravante viene presentato come un attenuante.
- Argomento ad verecundiam (autorità)
Significa “alla modestia” (Locke”
Sfrutta il timore spesso diffuso nell’opinione pubblica di mettere in discussione una fonte che si
ritiene autorevole. Fa pressione sull’auditorio, affermando la validità del proprio discorso solo
richiamandosi a quanto dice una persona potente o influente come il Papa.
Schopenhauer consigliava addirittura di inventare un argomento di autorità quando non lo si ha a
disposizione data la sua efficacia persuasiva.

In questo modo viene infranta una delle regole della libera discussione, cioè il rispetto dell’avversario e
l’ammissibilità di punti di vista diversi; ancora una volta l’attenzione si sposta dalle prove razionali ad
elementi estranei all’argomentazione, facendo sì che quell’equilibrio presunto tra ethos pathos e logos sia
compromesso. Gli elementi dell’ethos non dovrebbero essere confusi o sovrapposti al logos e viceversa. È
vero che entrambi partecipano alla costruzione del discorso, ed è vero che il fattore personale svolge una
funzione persuasiva molto rilevante, ma ciascuno di essi dovrebbe partecipare all’organizzazione del
discorso secondo le proprie prerogative e specificità che andrebbero tenute distinte e non sovrapposte.

- Fallacia ad ignorantiam
Anche qui viene a mancare la considerazione e il rispetto verso l’avversario. Questa fallacia consiste
nel sostenere che l’avversario dovrebbe accettare la tesi proposta se non riesce a contrapporre ad
essa un’altra tesi valida. In questo modo, si conclude che una tesi è falsa se non si hanno abbastanza
prove a disposizione a favore di questa. La conclusione è illegittima perché non segue dalle
premesse.
Es. non si hanno prove che gli OGM siano dannosi, quindi non lo sono.
Questa viene descritta anche come dogmatismo ad ignorantiam in quanto invece di sospendere il
giudizio, si difende la tesi in modo aprioristico.
- Argomentum ad populum
La verità o falsità di una tesi si pretende confermata dal fatto che un vasto gruppo di persone la
ritiene tale, non considerando che la verità di un enunciato non dipende dal numero di persone che
la sostengono.
Es. fascismo.

(fino a qui tutte fallacie di rilevanza)

Il principio lockiano contro cui tutte queste fallacie entrano in contrasto: la conoscenza deve provenire da
prove e argomenti e la luce deve sorgere dalla luce delle cose stesse e non dai pregiudizi, dall’ignoranza,
dall’errore.

Locke riprende la ricerca che era stata condotta dalla Logique di Port Royal scritta da Antoine Arnauld e
Pierre Nicole, il testo rappresentativo della filosofia del 600. Opera che può essere considerata anche un
vero e proprio trattato di retorica e di sociologia della comunicazione dove la lingua viene considerata un
codice imperfetto, uno strumento comunicativo che tende a sfuggire di mano ai suoi utenti, soggetto a
fallacie di ogni tipo. Alla base di questa interpretazione troviamo la teoria dello “scetticismo comunicativo”:
comunicazione vista come un processo interattivo disturbato da diversi fattori che la rendono improbabile e
rischiosa in quanto riconducibile a esiti spesso incerti e contraddittori. È raro che due umani si servano delle
stesse parole e sintassi per intendere le medesime cose: ciascuno fa riferimento al proprio livello culturale e
repertorio linguistico privato. Per questa ragione sono spesso frequenti fraintendimenti e incomprensioni.
Lo scetticismo comunicativo è uno dei motivi di interesse e di attualità della Logique, in quanto al suo
interno troviamo il problema delle fallacie, dette anche sofismi, che costituisce un punto di incontro tra la
logica e la retorica (già individuato da Aristotele). Gli elementi usati nei sofismi per vincere una discussione
mettendo in crisi l’avversario hanno sia natura linguistica che psicologica e si risolvono in tre fattori
fondamentali che caratterizzano i discorsi pubblici:

- Lo spirito di contraddizione
- La discussione estenuata
- L’impossibilità di definire in modo univoco ed esaustivo le parole.

Negli esempi della Logique troviamo: argomento del Non causa pro-causa, la generalizzazione indebita.

- Non causa pro-causa: si scambia per causa qualcosa che non lo è, affermando che una cosa è causa
di un’altra senza sufficiente ragione. La fallacia assume anche la forma di post hoc ergo propter hoc,
con la quale si dà per scontato che una relazione causale coincida con una relazione temporale,
senza portare alcun elemento di prova in merito e fingendo che i due tipi di rapporto siano
interscambiabili.
Es. tutti gli psichiatri sono nevrotici sulla base che ne ho conosciuti tre con questa caratteristica
Il ragionamento non è accettabile perché ricava una regola generale a partire da un numero non
congruo di elementi, per cui la conclusione, che si pretende generalizzante, è infondata.

Sempre nella Logique troviamo un’altra tecnica manipolatoria: l’abuso delle parole (si passa dal piano
dell’inventio a quello dell’elocutio)  chi parla usa una parola cambiando il suo senso in base alla sua
convenienza senza che di questo cambiamento gli ascoltatori siano consapevoli. Es. di Mills/Berlusconi –
prescrizione/assoluzione (appunti). L’uso abusivo della parola assoluzione da luogo ad una narrazione
menzognera che pretende di manipolare i dati della cronaca falsificandoli, sfruttando la capacità che la
comunicazione ha di manipolare la realtà.

La narrazione dei fatti non è un’operazione neutra come dimostra l’esperimento fatto da Loftus:

è stato mostrato a gruppi diversi di persone un video di un’incidente automobilistico  al primo gruppo è
stato chiesto a che velocità andassero le auto quando si sono “scontrate”, al secondo gruppo quando si sono
“schiantate”. Quelli del secondo gruppo hanno indicato una velocità molto più alta rispetto agli altri. Poi
viene chiesto agli stessi gruppi se avessero notato vetri rotti sulla scena (assenti nel video) e quelli del
secondo gruppo hanno indicato questo dato in percentuale doppia rispetto a quelli del primo. L’uso di
queste due parole diverse nella formulazione della domanda ha sollecitato in modo diverso la memoria
ridisegnandola con una rilevante efficacia persuasiva.

Anche l’espressione “Lodo Schifani” che indica la legge diretta ad istituire uno scudo pensale per le cinque
più alte cariche dello stato durante il loro mandato è fuorviante. Il “lodo” è una formula di compromesso in
una controversia proposta da una persona di cui è riconosciuta l’autorevolezza e imparzialità. Qui non si
trattava di un compromesso né c’era alcuna controversia da risolvere, ma si era di fronte ad un’imposizione
del governo di centro destra la cui autorevolezza p tutta da dimostrare. L’espressione è dunque impropria
ma efficace per la propaganda.
È importante la scelta delle parole/nomi in quanto queste ultime tendono a sostituirsi alle idee e vengono
utilizzati non tenendo conto del loro significato reale.

Altro importante protagonista della filosofia dell’Illuminismo che ha contribuito allo sviluppo delle fallacie:
Jeremy Bentham – Book of fallacies. È un riformatore che persegue l’obiettivo di introdurre nei dibattiti
parlamentari, questioni di diritto ed etica, delle procedure capaci di permettere che il ragionamento sia
desunto dai fatti e risulti guidato dalle finalità che ci si propone, evitando il più possibile i salti logici e
argomentazioni ambigue che perseguono obiettivi diversi da quelli dichiarati. Il fatto che queste
argomentazioni vengano accettate dal pubblico indica la tendenza ad affidarsi ai modi di pensare altrui
invece di esercitare e sviluppare la propria capacità di giudizio.

Tra le fallacie che discute, troviamo la brutta china o pendio inclinato (appunti).

Tra i maggiori meriti del libro di Bentham, c’è anche quello di proporre una sorta di catalogo riepilogativo
dei caratteri comuni a tutti i sofismi esaminati con l’intento di restituire al lettore un vademecum di
autodifesa intellettuale che permetta di riconoscerli e respingerli quando li si incontra, al fine di evitare di
essere vittime di una manipolazione disonesta.

1.2 La manipolazione ingannevole


In molti casi i politici hanno sentito l’esigenza di elaborare strategie per piacere al proprio pubblico avendo
come unico obiettivo il puro convincimento ideologico, senza tenere conto della verità fattuale. In
quest’ottica, le tecniche persuasive retoriche sono state applicate in modo puramente sofistico e
demagogico, ricorrendo, per convincere il pubblico, a strategie discutibili e razionalmente infondate, con lo
scopo di manipolarlo e condurlo a posizioni che andavano a vantaggio di chi detiene il potere, escludendo
qualsiasi altra finalità che esuli dalla persuasione fine a se stessa. Questo modo di intendere la
comunicazione persuasiva - e sul quale si basa oggi gran parte del discorso pubblico - viene considerato da
Meyer un esempio di "retorica-manipolazione".

L'efficacia delle tecniche di manipolazione dipende dal fatto che il rapporto tra verità e politica è spesso di
tipo conflittuale: secondo l'autorevole punto di vista di Hannah Arendt, la verità spesso si configura come un
elemento antipolitico, al punto che tutti coloro che dimostrano di essere in grado di accollarsi il peso della
verità e della coerenza con il dato di fatto reale si collocano generalmente al di fuori della sfera politica.

Ciò che appare ancora più allarmante è che nei paesi liberi, nella misura in cui delle verità di fatto sgradite
sono tollerate, esse sono spesso, consciamente o inconsciamente, trasformate in opinioni; come se fatti
quali il sostegno a Hitler da parte della Germania o il crollo della Francia davanti all'esercito tedesco nel
1940 non fossero dei fatti storici documentati, ma delle questioni d'opinione.

Questo tipo di strategia volta a equiparare i dati di fatto alle interpretazioni è il tratto costitutivo di ogni
sistema propagandistico che ha come obiettivo principale quello di indirizzare il pensiero di un determinato
numero di persone verso una posizione di parte, attraverso un utilizzo della persuasione caratterizzato
dall'alterazione della verità e dei fatti. Le definizioni del termine "propaganda" sono state numerose e in
molti casi dissonanti; tuttavia, è possibile ritrovare un filo conduttore comune proprio nel processo di
manipolazione di opinioni e di atteggiamenti attuato attraverso l'uso deliberato di suggestioni collettive.

Attraverso la propaganda sono anche attivate le strategie patemiche che hanno lo scopo di suscitare
emozioni forti di generi differenti: paura, odio, orgoglio, senso di appartenenza, rabbia. È fondamentale per i
fini persuasivi della propaganda suggerire in primis la paura e, successivamente, mettere in evidenza
l'azione necessaria per sciogliere la situazione pericolosa creata dallo spavento. I messaggi emozionali sono
privilegiati nel flusso comunicativo perché risultano molto più efficaci, in quanto offrono al pubblico una
rappresentazione semplificata della realtà che prevede solo la presenza di due sistemi di valore antitetici -
come il bene e il male, il positivo e il negativo, il modello e l'anti modello - tra i quali le possibilità di scelta
sono obbligate.

Un'altra modalità con cui la politica ridisegna i sistemi di verità è rappresentata dall'uso della cosiddetta
"nobile menzogna" che si propone lo scopo di guidare il popolo verso ciò che viene ritenuto il bene e, a
questo fine, di educarne i comportamenti. È stato Chomsky a dimostrare quanto questa concezione - che
ammette un uso consapevole, finalizzato al bene, della menzogna - possa costituire il fondamento teorico
delle strategie politiche e della loro applicazione nella propaganda del Novecento:

Chomsky fa riferimento allo sviluppo che i sistemi di propaganda hanno avuto nella società anglosassone
della prima metà del Novecento, uno sviluppo determinato e regolato dal potere politico che si avvale della
collaborazione di elementi altamente specializzati, rappresentanti di un'élite perfettamente consapevole del
proprio ruolo decisionale e della propria discrezionalità nel controllare i mezzi di comunicazione. Di questa
élite hanno fatto parte, ad esempio, due grandi esponenti del pensiero politico europeo come Walter
Lippmann e Edward Bernays.

Lippmann è la personalità che forse più ha segnato il giornalismo americano del Novecento; ha ricoperto la
carica di sottosegretario aggiunto USA alla guerra e nel 1922 ha pubblicato lo studio sull'opinione pubblica.
Con questo libro egli ha analizzato il processo complesso mediante il quale si viene a formare l'opinione
pubblica. Lippmann è convinto del fatto che lo stato (in questo caso gli USA) deve essere diretto da
un'avanguardia di persone competenti e responsabili e tutti gli altri cittadini devono lasciar fare, delegando
le proprie decisioni a questa avanguardia; da ciò emerge la necessità di usare le tecniche di propaganda per
controllare le masse.

Bernays, anche lui membro, come Lippmann, dell’apparato ufficiale di propaganda del presidente
americano Wilson, è consapevole dell'importanza delle strategie propagandistiche impiegate dal leader
politico per convincere i cittadini della giustezza delle proprie idee, con la finalità di ottenere l'adesione del
pubblico al suo programma. La manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini
delle masse svolge un ruolo importante in una società democratica, coloro i quali padroneggiano questo
dispositivo sociale costituiscono un potere invisibile che dirige veramente Il paese.

Noi siamo in gran parte governati da uomini di cui ignoriamo tuto, ma che sono in grado di plasmare la
nostra mentalità, orientare i nostri gusti, suggerirci cosa pensare (..) in tutti gli aspetti della vita quotidiana,
dalla politica agli affari, dal nostro comportamento sociale ai nostri valori morali.

Gli esempi di Lippmann e Bernays dimostrano che la propaganda moderna è nata nella società
anglosassone agli inizi del Novecento, non solo negli Stati Uniti ma anche in Inghilterra dove del resto già
esisteva un Ministero dell'informazione. Ciò non deve stupire perché la propaganda risulta particolarmente
congeniale proprio ai sistemi democratici dove, essendo in vigore la libertà di pensiero e di parola, è
necessario impiegare strumenti propagandistici il più possibile indiretti e sfumati, in modo che non siano
riconosciuti dal pubblico come tali.

La presenza della propaganda in democrazia non solo non è affatto occasionale, ma risulta strutturata e
pianificata sia in quanto effetto del legame d'interessi tra lobby e media, sia in virtù della concezione elitaria
del potere. La connivenza tra media e vertici politici garantisce in molti casi il radicamento di questo sistema
di manipolazione.

Chomsky denuncia questo evidente conflitto di interessi tra le proprietà dei grandi media ed i
rappresentanti del potere, giungendo di conseguenza alla conclusione che i media in apparenza liberi siano
un "braccio armato" informativo del potere. Es. giornalismo embedded.

Nei sistemi totalitari la politica costruisce dei dogmi sociali che, attraverso un uso della menzogna più
diretto, tendono a presentarsi come un surrogato della realtà. L’uso della propaganda è più trasparente,
quindi meno interessante per la ricerca. Esso si estende in tutta la società, permeando anche l’ambito
educativo. L’assenza del contraddittorio e di una normale dialettica politica è l’altro elemento che
contraddistingue la propaganda del totalitarismo: essa si presenta come una forma di comunicazione
manipolatoria proveniente da una sola forza politica che si identifica con lo stato e che non offre nessuna
possibilità di replica o di dialogo.

Ad oggi, l’oratoria politica punta sempre di più a portare l’opinione pubblica dalla propria parte e a
provocare un surriscaldamento percettivo che sia capace di stimolare partecipazione, reazione, discussione,
interesse. Per raggiungere questo obiettivo si usa spesso la dicotomia tra modello/anti-modello, basata
sulla figura dell’antitesi, in cui a prescindere dal contenuto, uno dei due poli è connotato positivamente e
l’altro negativamente. Questa strategia si manifesta secondo tre principali modalità:

- Opposizione del “nuovo” al “vecchio”: contrapposizione semantica vuota per due motivi: il nuovo è
tale in quanto non è vecchio e nella politica questa contrapposizione si riferisce a modi di fare
politica, a fazioni.
- Contrapposizione noi/loro: individuazione del nemico permette una costruzione dell’identità
politica altrimenti assente
Es. Berlusconi: il nemico era il comunismo
- Retorica del cambiamento costruita sull’antitesi innovazione/conservazione

Queste tre modalità hanno in comune il fatto di basarsi sulla fallacia di presupposizione nella quale si da
per scontato ciò che si intende dimostrare, senza portarne alcuna prova al riguardo e senza mai entrare nel
merito delle questioni, permettendo al soggetto politico di non rendere conto del proprio operato. Ad es.
per rispondere alle critiche delle varie riforme del governo Renzi, i politici hanno risposto che
un’innovazione era necessario, che riforma = cambiamento e cambiamento = miglioramento. Conservatori
stigmatizzati in modo negativo a prescindere, mentre in realtà le riforme non sono sinonimo di
miglioramento.

Le fallacie di presupposizione sono insidiose perché falsano le regole del dibattito e lo svuotano dal suo
interno: si chiede al pubblico di accettare una tesi in modo del tutto acritico senza esaminare mai l'oggetto
del contendere; in questo modo la discussione si riduce alla proposta di slogan fine a sé stessi tipici di una
retorica assertiva che non ammette repliche e possibilità di discussione.

La retorica assertiva risulta efficace nei contesti elettorali perché è funzionale al fenomeno noto come
"personalizzazione della politica" (Vaccari, 2007) che ha assunto sempre più una notevole rilevanza. Una
conseguenza di questo fenomeno è il fatto che diventa fondamentale quel meccanismo definito come
storytelling, dove i personaggi politici diventano degli eroi al centro di una narrazione che coinvolge sempre
più la sfera della vita privata, per cui sono i dettagli delle loro esperienze personali e delle loro abitudini a
influenzare la pubblica opinione, più che le loro idee e le loro scelte politiche. Non deve sorprendere allora
la sempre più ampia diffusione sui social e sui media di immagini che ritraggono esponenti importanti della
politica italiana in scene di vita quotidiana, ad esempio con gli animali domestici, durante i pasti, nei
momenti di svago ecc. Scene che sono perlopiù insignificanti o irrilevanti, ma che risultano utili per la
costruzione di quel meccanismo di fiducia irrazionale che, se è accettabile nell'ambito del discorso
pubblicitario, dovrebbe essere invece fortemente stigmatizzato per il discorso deliberativo.

Lo storytelling è sempre più utilizzato nella comunicazione politica perché si rivela adatto a indirizzare la
gente verso le cose superficiali della vita, il consumo, lo spettacolo, lo sport, il gossip, evitando che si
interessi delle questioni importanti della vita economica e sociale del proprio paese e che partecipi in modo
attivo alla sfera pubblica. Questa è la strategia della distrazione che l'industria dell'intrattenimento (della
quale fanno parte la pubblicità, la televisione spazzatura, il cinema commerciale ecc.) adotta
frequentemente e che consiste appunto nel distogliere l'attenzione del pubblico dai problemi importanti e
dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o
dell'inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti. Il pubblico in questa maniera resta
prigioniero della «filosofia della futilità" che rende le persone prigioniere del consumismo, dicendo loro
qual è lo stile di vita da seguire, quali oggetti possedere, che cosa fare per la propria salute, promuovendo il
consumo come alternativa alla ribellione, al fine di plasmare consumatori disinformati che fanno scelte
irrazionali addirittura spesso contro i loro stessi interessi.

La televisione si è dimostrata un mezzo estremamente efficace per rappresentare la politica attraverso le


persone e i loro confronti spettacolari, in questo modo la politica viene rivista e costruita come uno
spettacolo, in cui agiscono delle personae, cioè delle maschere teatrali, nelle quali gli spettatori possono
ancora una volta proiettarsi e identificarsi. Se ciò che viene consumato come spettacolo tende a sostituirsi a
ciò che viene vissuto nella realtà, al punto da sostituirlo del tutto, allora possiamo dire che questo grado di
spettacolarizzazione ha coinvolto oggi in massimo grado la politica, fino ad arrivare a quella forma che viene
definita politica pop.

Un'altra strategia molto usata in quanto congeniale alla personalizzazione eccessiva del discorso è la
captatio benevolentiae che enfatizza il fattore identificativo ed il contatto con il destinatario, sfruttando in
modo sistematico la cultura dell'immedesimazione così rilevante nell'ideologia del mondo contemporaneo.

L'intento è quello di annullare la distanza tra l'uomo politico e i suoi elettori, aumentando il più possibile il
grado di fiducia e l'elemento di riconoscimento. Il senso dell'azione politica si basa così su una forma di
illusione molto efficace: prendersi cura degli altri vuol dire caricarsi addosso i loro problemi, viverli come se
fossero i propri, costruendo una reale identificazione empatica con qualunque cittadino tirato in ballo. Si
veda il caso emblematico del video con cui Renzi ha sostenuto la sua riforma della scuola in cui assume il
ruolo del maestro che la riforma come se fosse un insegnante che tiene una lezione. La strategia non è
nuova, visto che era stata già utilizzata da Berlusconi con l'immagine del presidente operaio e continua ad
essere sfruttata da Salvini con l'immagine del ministro che indossa a seconda dei casi la divisa da poliziotto o
da guardia forestale. Si tratta di una strategia meramente pubblicitaria il cui valore razionale è nullo, basata
sullo squilibrio tra il detto e il fatto, tra i discorsi e i comportamenti, che è a sua volta essenza ed emblema
del populismo.

Altre tecniche di manipolazione comuni a tutti i sistemi propagandistici sono state analizzate da Chomsky,
ad esempio la tecnica del creare problemi e poi offrire le soluzioni che si basa sullo schema "problema-
reazione-soluzione": si crea un problema, una situazione prevista per causare una certa reazione da parte
del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desiderano far accettare.

Un'altra tecnica è la cosiddetta strategia della gradualità: per far accettare una misura inaccettabile, basta
applicarla gradualmente per anni consecutivi; in questo modo condizioni socioeconomiche radicalmente
nuove sono state imposte durante i decenni degli anni '80 e '90: privatizzazioni, precarietà, disoccupazione
di massa, salari che non garantiscono più una vita dignitosa. Tutti questi cambiamenti che hanno
notevolmente peggiorato le condizioni di vita dei ceti medi avrebbero provocato una rivoluzione se fossero
stati applicati in una sola volta.

Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come dolorosa e
necessaria, ottenendo l'accettazione pubblica, nel momento, per un'applicazione futura. La strategia del
differire in genere funziona dal momento che è più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio
immediato, in primo luogo perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente e, secondo, perché il
pubblico ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che "tutto andrà meglio domani" e che il sacrificio
richiesto potrebbe essere evitato. Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all'idea del cambiamento e
di accettarlo rassegnato quando arriva il momento.

Per incidere sulle coscienze e orientarle nella direzione desiderata viene anche usata l'arma
propagandistica pedagogica che incide sulle politiche educative e scolastiche che, anche in Italia, sono state
organizzate sempre più in modo da far sì che la qualità dell'educazione data alle classi sociali inferiori sia la
più povera e mediocre possibile, e che la distanza culturale che divide le classi inferiori da quelle superiori
sia tale da non poter essere colmata. Per consolidare questo risultato l'industria dell'intrattenimento ha
stimolato il pubblico ad essere compiacente con la mediocrità, spingendolo da un lato a ritenere che è di
moda essere stupidi, volgari e ignoranti, e dall'altro a rafforzare l'auto-colpevolezza, per far credere
all'individuo che è soltanto lui il colpevole della sua difficile situazione,

Così invece di ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e si incolpa, cosa che crea sua
volta uno stato depressivo uno di quegli effetti è l’inibizione della sua azione.

1.3 Macchina del fango


È una variante della fallacia ad hominem.

Insieme di azioni veicolate dai media volte a raccogliere e utilizzare a scopo intimidatorio informazioni
relative alla vita privata di una persona con il solo scopo di screditarla e di umiliarla per costringerla a tacere
o comunque a farsi da parte. Gioca sull'effetto della paura.

È una forma di delegittimazione, un attacco personale che funziona come deterrente verso chi intende
opporsi a determinati poteri o vuole esprimere un punto di vista diverso da quello che si ritiene dominante
o comunque comunemente accettato. Si tratta di quello che in inglese si chiama "character assasination",
un omicidio ("Killeraggio politico") perpetrato con armi mediatiche ma non per questo meno pericolose. È
un modo per mettere l'altro con le spalle al muro, impedendogli di fatto ogni possibilità di replica.

La macchina del fango è conosciuta anche attraverso l'espressione "Metodo Boffo" (appunti).

Questa strategia è funzionale alla fallacia ad baculum con la quale si intende generare delle paure nelle
persone per addomesticarle secondo gli interessi dei sistemi di potere; è una strategia che rientra nel più
generale metodo di utilizzo dell'aspetto emozionale a discapito della riflessione, al fine di indebolire il più
possibile il senso critico. L'abuso del registro emotivo permette di aprire la porta d'accesso all'inconscio per
impiantare, timori e compulsioni, al fine di indurre comportamenti adeguati a questo stato d'animo.

La fallacia ad baculum prende la forma di una minaccia come negli avvertimenti mafiosi: il soggetto non ha
allora più la possibilità di valutare con libertà di giudizio le proposte dell'interlocutore e il confronto non è
più dialettico.

Queste campagne di diffamazione mettono in gioco questioni importanti, oggi molto discusse nell'ambito
delle teorie dell'argomentazione, come quella relativa al ruolo della dimensione personale (ethos) o
dell'appello emotivo (pathos) nel discorso persuasivo.

Non si tratta di trovare un criterio che ci consenta di distinguere a priori, con nettezza e una volta per tutte
una retorica "buona" vale a dire una retorica "razionale" e "onesta” da una "cattiva", cioè "emotiva" e
"manipolativa", correndo cosi il rischio di dare per scontato che "razionale" coincide con "onesto" ed
"emotivo” con “manipolativo”. Si tratta invece, seguendo la dimensione pragmatica che fa parte della
retorica, di valutare caso per caso come sono state usate le strategie persuasive e qual è il rapporto che
hanno con il contesto storico e fattuale, ovvero che tipo di funzione referenziale mettono in atto.

Il killeraggio politico è un fenomeno antichissimo. Era già noto nell'Atene classica sotto il nome di diabole,
una parola ancora oggi carica di suggestioni negative se si pensa che è da questa stessa area semantica che
deriva il diavolo, l'emblema del male stesso. Il termine significa "mettere discordia" o "seminare zizzania".
Con questa parola i greci indicavano sia l'azione consistente nel separare attraverso maldicenze, sia il
risultato che tale azione produce. Obiettivo: quello di gettare discredito sull'avversario con qualsiasi mezzo,
rendendolo inviso agli altri; metterlo in cattiva luce suscitando nel pubblico un pregiudizio negativo nei suoi
confronti. Attraverso una sorta di captatio malevolentiae, si costruisce sin dall'inizio un'immagine
dell'avversario come persona inaffidabile, minando così alla base quel rapporto di fiducia che dovrebbe
essere a fondamento della relazione con l'uditorio.

Già da questa prima descrizione salta agli occhi una delle caratteristiche principali della dinamica della
diabole: la sua natura "triangolare". Affinché una diabole raggiunga il suo scopo, infatti, è necessario che,
oltre ad accusatore e accusato ci sia anche un terzo, i giudici, l'opinione pubblica; sono loro i protagonisti e i
destinatari reali della diabole. Il terzo elemento non è un semplice spettatore, ma un vero e proprio
complice dell'ingiustizia commessa.

Senza il suo consenso, infatti, i sistemi propagandistici non potrebbero sopravvivere.

Caso Eluana Englaro (appunti + cose che sono carine anche da leggere)

Quotidiani Il Foglio, Il Tempo, Libero, Il Giornale, Avvenire - hanno per molto tempo criticato la decisione del
padre di Eluana Englaro di chiudere la tragica e irreversibile condizione della figlia, organizzando una
campagna mediatica anche molto violenta e aspra che ha avuto un duplice obiettivo. Il primo è stato quello
di costruire una narrazione dei fatti rispondente all'ideologia condivisa dalla Chiesa cattolica che considera
la vita qualcosa di inattingibile rispetto alla volontà umana, con l'intento di presentare la moralità cattolica
come se fosse obbligatoria per tutti i cittadini, anche per quelli che non vi si riconoscono. Il secondo
obiettivo è stato quello di denigrare in ogni modo agli occhi del pubblico la persona del padre - ma anche
della madre e degli altri amici e congiunti di Eluana - cercando di compromettere, se non di distruggere, la
loro reputazione. I genitori di Eluana, gli altri membri della sua famiglia, i suoi amici sono stati tutti vittime di
questo modo distorto di fare comunicazione che ha messo in dubbio la loro buona fede e perfino i loro
sentimenti verso Eluana, presentandoli come persone amorali, fredde, calcolatrici, dando per scontato che
la loro testimonianza (ad esempio riguardo le intenzioni di Eluana espresse mentre era in vita) fosse priva di
valore, negando la loro capacità di giudizio.

II caso di Eluana Englaro insomma è interessante anche perché mostra come le parole possono essere
impiegate con effetti nocivi, da un lato per ferirci in modo più o meno grave fino ad arrivare potenzialmente
a distruggerci, dall'altro per ingannarci, inducendoci a dare credito a una rappresentazione dei fatti distorta
e fuorviante che arriva a manipolare tutta la memoria collettiva. È l'abuso delle parole che, come abbiamo
visto, già Locke e gli autori della Logique condannavano con decisione. Guarda appunti (fame, sete, terapia,
morte orribile fra atroci sofferenze ecc.). si è costruita una narrazione del tutto inverosimile che ha avuto un
effetto di suggestione collettiva di cui è rimasta vittima soprattutto l’opinione pubblico meno avvertita (vedi
sineddoche indebita con cui si mostrano persone con bottiglie d’acqua davanti alla clinica).

CAP. 2 IL POTERE DELLE PAROLE

2.1 La retorica della dissimulazione

La retorica si interroga sul potere delle parole e sulla loro capacità di avere effetti sulla nostra vita sin da
Gorgia da Lentini. Con Gorgia la retorica amplia il suo oggetto di indagine: oltre all’ambito giudiziario, inizia a
dedicarsi anche ai discorsi letterari come l’elologio e il panegirico.

Encomio di Elena – Gorgia  tutta l’opera si risolve in una dimostrazione della forza della parola che è
capace di ribaltare il convincimento popolare a proprio piacimento.

La retorica mette in crisi l’idea che il linguaggio sia solo un codice formale, portando invece una riflessione
più generale sul linguaggio e sulla sua funzione di plasmare i legami sociali. Riflessione che mette in
evidenza quanto le forme di potere sociale operino sempre in prima istanza tramite la comunicazione.

(da appunti)
Gorgia è uno dei fondatori della retorica, uno degli autori che hanno fondato la disciplina e che ha
dato un importante contributo (analisi discorso epidittico e teoria delle figure retoriche). Opera
chiamata “L’encomio di Elena”, in cui Gorgia vuole dimostrare l’innocenza di Elena, che Elena non
sia responsabile di questo tradimento, ipotesi che spiegano il suo comportamento: è stata
costretta, è stata vinta dalla forza della passione, ha seguito il volere degli Dei, convinta dalla
capacità oratoria di Paride. 4 ipotesi diverse alternative. Gorgia però prende in considerazione solo
le 4 ipotesi funzionali alla sua tesi, non prende in considerazione altre ipotesi che smentiscono la
sua tesi. Ragionamento che non funziona, non posso prendere in considerazione solo le ipotesi che
vanno incontro alla mia tesi, costruisco una strategia non accettabile. Apparenza di una
discussione, fingo di prendere in considerazione ipotesi e motivazioni diverse (4 in questo caso),
ma non dimostro quello che voglio dire perché non metto in discussione la mia tesi. Strategia
argomentativa chiamata petizione di principio. Infatti, poi Platone e Aristotele criticano Gorgia.
La petizione di principio

encomio di Elena: Gorgia usa questo modo di ragionare qui

Aristotele gli dice che è un modo di ragionare apparente, perché Gorgia seleziona solo i casi che
confermano la sua tesi e non considera quelli che la contraddicono (nel caso di Gorgia: innocenza di Elena.
Egli prende in considerazione solo le prove a favore della sua innocenza). Aristotele dice che deve prenderli
in considerazione tutti. la petizione di principio gioca sullo scambio tra essere e apparire, perché
sembrerebbe che Gorgia stia esaminando tanti casi diversi (costrizione, volere degli dèi ecc.) ma in realtà
non è così.

Tutte le fallacie argomentative giocano sullo scambio tra essere e apparire.

Nel caso della petizione di principio la premessa maggiore coincide con la conclusione.

Secondo Aristotele:

 A: premessa maggiore
 B: premessa minore
 C: conclusione

A deve essere diverso da C, se C è uguale ad A il ragionamento è apparente.

- A: Io non mento mai


- B: Tutte le volte in cui parlo
- C: Sto dicendo la verità

Io non mento mai è la negazione del contrario di dire la verità – stratagemma retorico: dico la stessa cosa
non solo da un punto di vista contenutistico, ma anche formalmente. La negazione del contrario è la litote,
una figura retorica. È un espediente per dire la stessa cosa ma in modo diverso.

Petizione di principio è un’argomentazione irrilevante, perché con un escamotage linguistico e retorico


sembrerebbe che la premessa maggiore e la conclusione siano diverse ma in realtà non lo sono. Non c’è
nessun ragionamento, è un’illusione. Ragionamento tautologico.

Petizione fa parte dell’argomentazione dogmatica. Dogma: è qualcosa che non può essere spiegato e non
richiede una argomentazione. È evidente per sé stesso e deve essere accettato come tale, di conseguenza è
universale. es. dogma religioso non può essere spiegato, uno ci crede oppure no; se si analizzasse
logicamente non funzionerebbe. Nell’argomentazione devo portare le prove che giustificano le tesi.
La petizione di principio può snaturare il campo dell’argomentazione nel momento in cui si diffonde;
essendo che è un ragionamento che non porta nessuna prova. Si limita a ribadire qualcosa che è stato già
detto e che sono io che lo dico. Se ho fiducia e credo nella persona che lo dice ok, altrimenti non ho altre
prove. Fiducia è un elemento che riguarda l’ethos. L’ethos deve sposarsi con il logos e il pathos, in questo
caso non è così perché non c’è il logos. Petizione è un sintomo di un’eccessiva personalizzazione del discorso
(esasperazione dell’ethos).

- Dio è infinitamente buono (ha una proprietà)


- Per avere una proprietà bisogna esistere
- Dio esiste

Ragionamento tautologico: se dico che Dio ha una qualità sto presupponendo che esista altrimenti non
potrei dirlo. Ragionamento si basa su un principio che non può essere messo in discussione, quindi va bene
per l’argomentazione dogmatica, mentre per quella retorica non va bene perché non posso accettare un
ragionamento che si basa su un principio che non può essere spiegato.

Verbo essere può essere usato sia come predicato verbale che nominale (es. siamo in classe – pv; è buono –
pn). “Dio esiste” può essere detto anche come “Dio è”. Sto usando due verbi diversi ma sto dicendo la stessa
cosa.

Ragionamento che non potrei fare in un campo che non è dogmatico. Ad es. è ok nella religione ma non si
potrebbe fare nella politica.

Distinguere petizione di principio dalla fallacia di presupposizione

Gorgia ha analizzato il processo della persuasione.

Persuasione: quel fenomeno che tramite un uso sapiente delle parole e senza alcuna coercizione, induce le
persone a sostenere un’opinione, ad assumere un comportamento che prima non avevano o, in altri casi, a
cambiare l’opinione in cui credevano o il comportamento in cui si riconoscevano.

Lo stile del discorso politico oggi è molto reader-friendly, con un’espressività informale vicina al
colloquialismo, dove la semplificazione viene spacciata per semplicità. Quindi vengono usate:

- Parole brevi e frasi semplici che per loro stessa natura puntano ad attirare l’attenzione degli
interlocutori. Grazie a questi parametri l’indice di leggibilità dei discorsi, che si basa sulla lunghezza
di parole e frasi, ha superato la soglia minima, questa significa che risulta comprensibile ad un
adolescente come ad un adulto di bassa scolarizzazione
- Metafore calcistiche che risultano comprensibili in quanto sono vicine agli interessi di gran parte
degli italiani
- Enfasi sull’aspetto concreto, visuale del linguaggio: invece di esprimere concetto astratti come
“istruzione, disoccupazione, lavoro” si parla di “chi quotidianamente va nelle nostre classi (docenti),
chi non ha neanche la possibilità di avere soldi per mangiare una pizza (giovani apprendisti)”. Un
linguaggio così pragmatico ha lo scopo di aiutare la comprensione dei concetti e di renderli più facili
da ricordare, quindi più persuasivi.

Questi elementi dovrebbero essere positivi visto che si pongono il problema della comprensibilità del
discorso. Il problema è che se il discorso pubblico sul piano linguistico è molto concreto, è invece
caratterizzato da un certo grado di genericità sul piano dei contenuti. La semplicità dell’eloqui serve
insomma a mascherare la debolezza argomentativa; idem per la velocità del discorso che serve a non
lasciare spazio per una possibile riflessione su quello che si sta dicendo. La vaghezza è utile per nascondere
il fatto che le politiche pubbliche sono rivolte in buona parte agli interessi privati.
I sistemi di potere sono sempre stati consapevoli del potere persuasivo delle parole e hanno sentito
l’esigenza di controllarne l’uso all’interno dei mezzi di informazione per poter conseguire il controllo delle
opinioni e orientarle nella direzione desiderata. Giocando con le parole si possono manipolare i fatti, e alla
fine della catena, l’intera memoria collettiva. Il discorso giornalistico ha fatto propria questa esigenza
diventando in molti casi prigioniero del linguaggio del potere, al punto che il suo stile assomiglia sempre più
a quello dei governanti.

Eufemismo

Si presenta in due forme:

- La prima sostituisce – per ragioni di convenienze sociale, per preoccupazioni di carattere religioso o
morale o motivi politici – l’espressione propria con parole o locuzioni di significato attenuato per
addolcirne o mascherarne l’eccessiva violenza e crudezza
- La seconda mira ad alterare e a trasformare la parola- soprattutto quando è un termine che
interessa l’ambito morale – per non renderlo immediatamente riconoscibile.

In entrambi i casi abbiamo una riformulazione rassicurante attraverso cui il fenomeno viene reso innocuo.

Anche la Logique ne parla e ne denuncia gli aspetti negativi: trasfigurazione onesta della realtà per
ingannare l’interlocutore.

La questione è molto attuale se consideriamo che nei giornali e nelle dichiarazioni dei personaggi pubblici si
usa molto spesso questa figura retorica quando ci si riferisce a temi controversi e drammatici come la
morte, la violenza, la negazione di diritti umani.

Esempi di cui parleremo presi da articoli di giornale tra il 2017 e il 2020 sul Corriere della Sera e Repubblica.

- Tortura
Legato agli abusi commessi a Guantanamo, Abu Ghraib, G8 di Genova, Giulio Regeni
o Al posto di tortura: tattiche di interrogatorio rafforzato, interrogatori coercitivi, pressioni
psicologiche, interrogatori in profondità/duri/potenziati, abusi.
L’effetto semantico è il tentativo di forzare il concetto stesso di legalità, in uno scenario in cui
la legge perde la sua funzione fondamentale di tutelare le vittime e si trasforma in uno
strumento per perpetrare l’impunità dei loro carnefici.
o Ad una domanda sulla legittimità della tortura per fermare le stragi, Emma Bonino
risponde: “sono scelte politiche di riduzione del danno di cui magari non si deve andare
fieri”  litote con valore eufemistico volta ad offuscare la responsabilità di chi ha permesso
questo tipo di operazione che dovrebbe essere del tutto incompatibile con lo stato
democratico.
- Guerra
o Eufemismo: operazione di polizia internazionale, azione militare, azione preventiva, uso
della forza, intervento di sostegno, missione di solidarietà, opera di pacificazione,
operazione di gendarmeria
o Ossimori (in cui la qualificazione del termine è la sua negazione): guerra umanitaria, guerra
etica, fuoco amico (per il bombardamento inavvertito contro la propria gente.
o A volte si aggiunge un complemento di fine contradditorio: guerra per la pace
- Vittime di guerra
o Esse diventano degli effetti, danni collaterali, errori
o I suoi protagonisti diventano manager della sicurezza
o Se la popolazione deve lasciare le proprie case per la guerra: trasferimento delle
popolazioni o rettifica delle frontiere
o Se i prigionieri vengono eliminati sul posto o imprigionati senza processo o rinchiusi in
campi di concentramento: eliminazione degli elementi inaffidabili, consegne straordinarie

Questo modo di esprimersi è necessario se si vogliono nominare cose senza evocarne un’immagine
mentale.

Altri esempi:

- Guerra in Iraq  operazione tempesta nel deserto


- Guerra in Afghanistan
o I giornalisti occidentali chiamavano combattenti stranieri i vari gruppi arabi intervenuti in
aiuto dei talebani
- Durante nazismo e fascismo
o Campo di concentramento e soluzione finale per l’uccisione di minoranze etniche
- Guerra dei Balcani
o Pulizia etnica invece di genocidio
- Genocidio armeno del 1915 di 1.5 milioni di cristiani armeni da parte dell’esercito turco
o In Canada ciò venne definito strage mortale in quanto in Canada è presente una vasta
comunità turca. Questa espressione è una ridicola tautologia, in quanto non esistono stragi
che non siano mortali.
- L’eufemismo è utile anche per far sì che gli eventi del passato vengano riletti seguendo l’ottica
dell’ideologia dominante: i nazifascisti di Salò si definiscono i ragazzi di Salò o giovani che fecero
scelte diverse
- Come i media hanno raccontato la questione palestinese (Israele vs palestinesi e arabi): lo stato di
occupazione di Israele diventa una controversia, come se la terra palestinese non fosse occupata ma
semplicemente fa parte di una controversia legale che potrebbe essere risolta in tribunale.
Le azioni israeliane di colonizzazione della terra araba diventano insediamenti o quartieri ebraici. Ci
si riferisce ai territori palestinesi occupati come terra contestata.
Per l’ufficiale israeliano che finisce di uccidere una bambina  procedura di accertamento della
morte

Normalmente l’aggettivazione di un termine serve a creare l’eufemismo. Es. tortura leggera o gli esempi che
eabbiamo visto di guerra. Non mancano i casi dove si insiste sulla vaghezza e genericità del significato
eliminando l’aggettivo che specifica un concetto. Es. territori per riferirsi ai territori palestinesi occupati da
Israele.

Altro ambito in cui c’è questa tendenza a nascondere la reale dimensione dei fenomeni  economia e
finanza:

- Invece di licenziamento  ristrutturazione, adeguamento del personale dipendente, piano di


alleggerimento
- Aumento del prezzo  ritocchi alle tariffe, assestamento dei prezzi
- Tendenza a chiamare il processo di globalizzazione come un aumento, mai sperimentato prima,
dell’interdipendenza tra le economie nazionali. In questo caso l’eufemismo è tautologico perché non
spiega l’origine, le modalità e le conseguenze di questo fenomeno. Es. la competitività dei cinesi e
dei paesi asiatici viene presentata come se fosse derivata dalla loro grande capacità di sviluppa le
proprie industrie, nascondendo il fatto che questa competitività è stata largamente costruita e
incoraggiata dalle imprese e dai governi degli USA e dell’UE attraverso lo stanziamento di notevoli
investimenti (produrre in quei paesi ha un doppio risvolto: vendere anche nel mercato locale e la
produzione costa molto meno).
La presenza degli eufemismi nella comunicazione politica è molto variegata e ha come conseguenza quella
di erodere il significato proprio delle parole, riducendole a vuoti e diffusi stereotipi, i quali costituiscono lo
strumentario ideale per l’affermazione della lingua della menzogna che chiama le cose con i nomi invertiti,
propone una spettacolarizzazione derealizzante. La corruzione della lingua è l’anima di una retorica volta a
manipolare il consenso e ridurre il senso critico dei cittadini. Questa strategia retorica ha fatto sì che non sia
più importante il contenuto semantico del linguaggio ma basta che quest’ultimo sia efficace. In questo
modo il discorso politico assume a pieno titolo le dinamiche e le prerogative del marketing.

Questo ha contribuito sia all’indebolimento della capacità stessa di argomentare e ragionare sia a minare la
credibilità e l’attendibilità del giornalismo contemporaneo, portando così una gran parte del pubblico
lontano dalla “grande stampa” essendo consapevole di essere stata spesso ingannata. Quindi, è necessario
smentire le rappresentazioni fittizie della realtà sia sottoporre la comunicazione persuasiva a un
monitoraggio critico che permetta di individuare e smascherare le strategie di manipolazione ingannevole
veicolate dalla stampa. La credibilità di quest’ultima è attualmente messa in discussione dalla sua mancanza
di coerenza e imparzialità nella gestione delle informazioni.

2.2 la forza delle metafore

La capacità persuasiva del linguaggio dipende molto dall’uso delle figure retoriche e in particolare della
metafora che già per Aristotele ha un’importanza fondamentale dovuta ai meccanismi linguistici e cognitivi
che presiedono al suo funzionamento. Nella Poetica e nella Retorica Aristotele elabora una teoria della
metafora che è alla base di tutto il filone di studi critici sul linguaggio figurato che si è successivamente
sviluppato. Tra i tratti salienti che Aristotele riconosce a questa figura del discorso, uno dei più rilevanti fa
riferimento alla centralità che essa assume nella sua più generale riflessione sul linguaggio e i problemi della
conoscenza. Questa centralità dipende dal fatto che Aristotele attribuisce alla metafora un chiaro carattere
cognitivo, basato a sua volta su due fondamentali fattori: il primo è l'effetto di straniamento provocato dalla
metafora che produce una sensazione di piacere, la quale costituisce l'elemento di collegamento tra la
metafora e la conoscenza, visto che il principio di piacere è alla base dell'istinto umano orientato a
conoscere e la metafora è una delle modalità attraverso le quali la conoscenza prende forma. Il secondo
riguarda la capacità della metafora di individuare similarità e di identificare elementi eterogenei che a prima
vista hanno pochi fattori in comune. La funzione conoscitiva della metafora è inoltre caratterizzata dalla
rapidità e dalla facilità dell'apprendimento che permettono di collegare la metafora con l'entimema.

Infatti, la riuscita di un buon entimema è in sostanza identica a quella di una metafora.

Uno dei principi fondamentali della linguistica leopardiana è la valorizzazione dell’indeterminatezza


semantica, cioè il fatto che le parole si riferiscono a un numero indefinito di idee, impossibile da calcolare
precisamente; il loro significato cambia a seconda del contesto in cui sono situate e della mentalità dei
parlanti. Le parole possono essere interpretate con accezioni sempre diverse e danno luogo ad associazioni
mentali sempre variabili che dipendono dall'esercizio dell'immaginazione. Il meccanismo associativo delle
idee svolge un ruolo particolarmente importante nel caso delle metafore.

I rapporti istituiti sono naturalmente arbitrari perché basati su criteri non razionali ma fantastici. Leopardi
considera la metafora una figura retorica particolare, diversa da tutte le altre, la più potente e la più
enigmatica, capace di produrre effetti - come quelli di illuminare un concetto, sciogliere un problema
intricato, svelare un aspetto incisivo di una questione importante - molto difficili da ottenere con le
argomentazioni lineari. La metafora, insomma, più che una figura retorica è una forma del pensiero: la
nostra mente quando tenta di allargare il campo di conoscenza procede collegando il noto con l'ignoto, il
concreto con l'astratto. la metafora interessa come «strumento di conoscenza additiva e non sostitutiva».
Leopardi riconosce infatti all'immaginazione - di cui la metafora è il corrispettivo linguistico - una funzione
sintetica nell'ambito del processo conoscitivo, in virtù della quale essa risulta essere la facoltà combinatrice
per eccellenza, deputata a raccogliere i rapporti e le similitudini tra le cose e questa capacità di scoprire
l'uno nel molteplice fa parte di un talento distintivo della natura umana visto che «la scienza della natura
non è che scienza dei rapporti [e] tutti i progressi del nostro spirito consistono nello scoprire i rapporti».

Dato che l’immaginazione è imprevedibile, è stata sempre vista con una certa diffidenza. Ma Leopardi
riconosce quanto l’immaginazione partecipi come protagonista al progresso della conoscenza essendo un
vero e proprio strumento euristico. La piena comprensione della verità esige l’esperienza intellettuale ed
emotiva, non dobbiamo separarle in quanto spesso le grandi scoperte derivano da un’intuizione che
accende l’animo improvvisamente. Secondo Leopardi, l’immaginazione è una facoltà conoscitiva al punto da
vedere in questa facoltà il fulcro attorno al quale ruotano le operazioni mentali, quanto quelle analitiche
perché è la sorgente della ragione, del sentimento e della poesia.

L’immaginazione, in quanto facoltà conoscitiva, è necessaria sia alla poesia che alla filosofia, in quanto
poeta e filosofo hanno in comune il talento di collegare cose diverse tra loro.

La teoria della metafora assume nello Zibaldone un ruolo centrale, poiché oltre ad intersecarsi con la teoria
dell’immaginazione, ha anche connessioni con la teoria del piacere. Leopardi identifica il piacere con la
felicità. Siccome la tendenza alla felicità è insita nella vita dell'uomo, allora ogni piacere è limitato (in quanto
in natura ogni cosa è limitata). Il desiderio del piacere è illimitato ma si spegne quando l'uomo muore.

Tra l’aspettativa del piacere e il piacere realmente conseguito esiste uno scarto da cui scaturisce la
contraddizione che secondo Leopardi caratterizza la condizione umana e che è causa dell’infelicità dato che
infinito ed esistenza si escludono a vicenda.

Operette morali  oltre ad avere un profondo e sottile valore filosofico, sono al tempo stesso un modello
espressivo suggestivo capace di emozionare il lettore e di mantenere l'indole antica della lingua pur
occupandosi dei problemi e delle angosce che caratterizzano la modernità. E proprio in questo felice
connubio di teoria e prassi, che si accompagna alla sostanziale unità dell'inventio con l'elocutio, che sta
l'originalità della filosofia linguistica di Leopardi, nella quale la teoria della metafora gioca un ruolo centrale.

2.3 il valore simbolico delle parole

La forza evocatrice delle parole, ossia la loro capacità di veicolare connotazioni ulteriori che arricchiscono il
loro potere semantico, dipendono dalla ricchezza e complessità dei contesti in cui esse sono iscritte. Ad
esempio, quello che riguarda il cibo e i processi relativi all'alimentazione è importante perché svolge una
funzione culturale e identitaria di grande rilevanza e influenza vari aspetti della cultura, sia di tipo
antropologico e filosofico, sia di tipo linguistico e retorico. In primo luogo, ciò è avvenuto registrando nella
lingua le funzioni simboliche demandate al cibo attraverso delle metafore, o delle metonimie, basate sui
rapporti che avvicinano il cibo ad altri campi semantici come quello relativo alla parola e alla conoscenza,
oppure quello religioso.

Il cibo diventa in questo modo parte integrante della nostra vita, si mescola alle emozioni e al nostro
sistema di Valori, entra a far parte dei rapporti sociali, diventa strumento di piacere ed è connesso
strettamente con le credenze religiose e le convinzioni ideologiche. Le accezioni che il cibo assume in
relazione ai diversi contesti in cui è inserito sono molteplici, ad esempio ricorre spesso l'analogia

tra il cibo, la conoscenza e il linguaggio; questa analogia e fondata sulla relazione tra l'organo del gusto e
quello della parola, è incentrata sulla categoria dell'assimilazione, ossia l'atto di assumere un elemento
esterno trasformandolo in altro.

Sempre in riferimento alla categoria dell'assimilazione, ma con un'accezione negativa, è l'uso del termine
infarinatura nel senso di una cultura sommaria, o una conoscenza generale e superficiale di una materia che
riflette la condizione propria dell'oggetto infarinato.
Nella lingua italiana, inoltre, numerose sono le espressioni diventate ormai parte integrante degli usi
linguistici più diffusi come divorare un libro, sete di conoscenza, digerire un concetto, masticare un po' di
latino, ruminare un'idea, delibare un testo. Altre volte alcuni elementi che rimandano alla sfera del
conoscere e del comunicare vengono qualificati attraverso delle sinestesie con termini relativi al gusto,
come nelle espressioni tipo rimproveri amari, aneddoti piccanti, paragoni gustosi, parole dolci, stile insipido.

Il cibo è anche messo in relazione con la categoria, forse la più significativa di tutte, della relazione, per cui,
come nel caso del Convivio di Dante, il cibo e i processi comunicativi sono considerati l'emblema dello
scambio, della condivisione.

Questa analogia si ritrova anche nel significato etimologico delle espressioni Convivio o Convito che
rimandano appunto al vivere insieme, al condividere non solo il cibo, ma anche i momenti significativi della
vita con gli amici.

Questo valore positivo del mangiare insieme si è sedimentato nella cultura e si ritrova sia nella cultura
popolare, soprattutto nei proverbi come A tavola si diventa giovani, A tavola non s'invecchia, sia nella
cultura alta: nel Galateo di Della Casa.

Ci sono degli alimenti che in modo particolare rappresentano simbolicamente il significato positivo della
mensa; il primo esempio è costituito dal vino che scatena l'allegria, libera la parola, aumentandone
l'efficacia persuasiva e annullando le inibizioni, oltre che le paure. Anche in questo caso i proverbi non
mancano: Buon vino fa buon sangue, L'acqua fa male e il vino fa cantare ecc. L'elogio Virginia Woolf le Onde
(1931), in cui l'autrice evidenzia il potenziale seduttivo e inebriante del bere in questo passo ricco di
metafore e similitudini. Si tratta di un'analogia che è registrata anche da Leopardi nello Zibaldone.

Secondo esempio di alimento con forte valenza simbolica riguarda il caffè, prediletto dai protagonisti
dell'età dei lumi perché ritenuto la bevanda che non offusca la ragione, ma anzi la eccita e l'assottiglia;
risveglia la mente, allontana il sonno e per questi motivi viene contrapposto simbolicamente al vino.

La contrapposizione riguarda anche i luoghi in cui le due bevande generalmente si consumano: da una parte
l'osteria, regno dei popolani, dall'altra la bottega del caffè come il luogo dove si incontrano borghesi e nobili.

La bottega del caffè per gli illuministi rappresenta per antonomasia il luogo deputato allo scambio di idee, è
il posto dove si leggono i giornali, si discute di filosofia e di politica, si elaborano proposte e teorie nuove;
ritorna anche in questo caso il riferimento simbolico al contatto e alla condivisione.

Il caffè dunque è il luogo dei ragionevoli, degli intellettuali, dei "regolari" e l'osteria è il luogo di espressione
della classe popolare e della sua ideologia, dove sono protagonisti gli irregolari: i vagabondi, i pellegrini, gli
avventurieri. Questa immagine dell'osteria come teatro degli imbrogli e dei sotterfugi operati dai furfanti e
dagli scapestrati è presente in due grandi esempi della tradizione letteraria italiana: in Pinocchio che si reca
con il gatto e la volpe all'osteria del "Gambero Rosso" e nei Promessi Sposi.

Un altro grande protagonista di questa retorica alimentare è il pane, da sempre considerato un alimento
ricco di connotazioni importanti. Per le sue qualità di alimento basilare e necessario, la società contadina gli
ha riservato una grande considerazione e un rispetto sacro. Il pane ha rappresentato per metafora il lavoro e
la sopravvivenza, sia nei detti popolari - Lavorare per un pezzo di pane, guadagnarsi il pane, il pane di sette
croste (perché guadagnato con la fatica), sia nella grande letteratura.

Esso rappresenta in modo così emblematico la totalità dei bisogni di vita fondamentali, da essersi radicato
nella lingua quotidiana con una serie di espressioni eterogenee ricorrenti: andare via come il pane, trovare
pane per i propri denti, dire pane al pane e vino al vino, levarsi il pane di bocca, essere un pane perso, se non
è zuppa è pan bagnato, mettere a pane e acqua, chi ha pane non ha denti e chi ha denti non ha pane,
rendere pane per focaccia, mangiare il pane a ufo.
Il suo valore generale è stato sfruttato anche dal fascismo che nel 1928 aveva istituito la giornata del pane e
che vi faceva riferimento per corroborare la sua propaganda e la sua retorica della famiglia e della patria.

Il pane è emblema della bontà assoluta, infatti si dice ancora buono come il pane oppure essere un pezzo di
pane, ma anche della famiglia, della condivisione con i compagni (da cui cum+ panis) e della fratellanza. Il
pane e il vino hanno poi un particolare significato di tipo religioso soprattutto nel mondo cristiano e ciò ha
implicato una rottura con la tradizione ebraica per la quale invece il pane in quanto cibo fermentato viene
considerato corrotto, e il vino in quanto bevanda inebriante viene visto con sospetto. Cristo nel Vangelo è
chiamato il pane di vita.

Il cibo inoltre contrassegna delle identità precise tuttora resistenti nella cultura contemporanea: i risi e bisi
di Venezia, la carbonara della cucina romana, la ribollita di Firenze, la pastiera di Napoli ecc.

L'identificazione culturale non riguarda solo il modo di preparare. un piatto, ma anche la singolarità stessa di
un cibo o di una bevanda, si pensi alla birra per i tedeschi o agli spaghetti per gli italiani.

Le metafore alimentari sono utilizzate anche per designare elementi di tipo letterario: il caso forse più
celebre è rappresentato dall'espressione "il sugo della storia" che Manzoni utilizza nella conclusione del
romanzo per indicare non tanto il suo svolgimento, o la sua morale, quanto il «meccanismo generatore, il
motore che muove l'azione dal di dentro». La metafora funziona perché coglie l'analogia tra il meccanismo
narrativo e quello che avviene in cucina, dove appunto il sugo non rappresenta un accessorio secondario,
ma un elemento fondamentale che dà valore e caratterizza peculiarmente un piatto.

CAP. 3 LA PAROLA E L’IMMAGINE


Tutto sugli appunti.

CAP. 4 LO STATUTO DELLA RETORICA


4.1 Retorica e filosofia
Ancora oggi nel discorso comune la parola retorica è usata con un’accezione negativa, infatti, quando si dice
che un discorso è retorico si intende: intessuto di luoghi comuni, basato su fattori emotivi, che nasconde
insidie argomentative, enfatico ecc. allo stesso modo quando per riferirsi ad una strategia comunicativa
usata da un personaggio politico si fa rifermento alla retorica si vuole intendere che ci troviamo di fronte a
una strategia ingannevole che maschera la realtà dei problemi con elementi fuorvianti per ottenere
l’approvazione dell’uditorio.

Questa cattiva nomea della retorica risale già all’antichità. Nel 600-700 si forma un vero e proprio
schieramento antiretorico di cui fanno parte filosofi come Locke e D’Alembert.

In Essay of human understanding (testo fondativo della filosofia del linguaggio moderna), Locke esprime
una forte diffidenza nei confronti della retorica, considera il parlare figurato come una forma di abuso del
linguaggio perché al posto di trasmettere la conoscenza delle cose è orientato solo ad ottenere il piacere. La
retorica secondo il filosofo coincide con l’arte degli imbrogli e con la tecnica delle fallacie, esercitate con
finalità manipolative a detrimento della verità e della conoscenza. La posizione di Locke ha avuto una
grande risonanza nell’illuminismo europeo. Viene rievocata anche nel Discours preliminaire all’Encyclopedie
di D’Alembert, dove si arrivava a desiderare l’esclusione dell’arte della parola da ogni sistema di conoscenza.

Valutazione negativa della retorica anche nell’antica Grecia, dove l’eloquenza ha visto la sua stessa
fondazione.
Corax, tecnica argomentativa che deriva il suo nome da Corace e Tisia, autori di “un’arte oratoria”,
probabilmente il primo manuale della disciplina (sappiamo dell’esistenza solo perché citato da altri).
(appunti).

Gli ateniesi, dunque, che per primi hanno teorizzato e praticato la retorica in modo magistrale, al tempo
stesso hanno dimostrato una profonda diffidenza verso l'arte e il potere della parola. Questa diffidenza ha
trovato un'espressione radicale e definitiva negli scritti di Platone.I dialoghi platonici dedicati in varia misura
alla condanna della retorica sono numerosi, concentreremo la nostra attenzione su quelli come il Protagora
e il Gorgia, che già nel titolo evocano due dei più grandi sostenitori che animarono la scuola dei sofisti, il
bersaglio privilegiato della critica avanzata da Socrate.

Protagora arriva a sostenere che in ogni discussione è possibile difendere sia la posizione favorevole che
quella contraria; che colui che vuole risultare vincente in un contraddittorio deve essere in grado di essere
convincente sia se sostiene un argomento, sia se sostiene il suo opposto. Al sapiente, cioè al sofista, non
spetta il compito di scoprire i fondamenti stabili delle cose - sui quali Protagora pensava che non fosse lecito
pronunciarsi - bensì quello di rendere più forte il discorso più debole, ossia di rendere più vero, o anche più
buono, o più bello, quello che, invece, sul momento sembra meno vero, così come fanno gli avvocati.

In queste idee di Protagora Platone ritrova la negazione di ogni criterio di obiettività e la messa in
discussione di uno dei principi fondamentali della dialettica, ossia il principio di non contraddizione. Inoltre,
Platone scorge negli scritti di Protagora un ritratto del retore come di colui che è indifferente ai contenuti
del suo discorso e che può legittimare a piacimento la violenza, oppure il rispetto e la tolleranza, a seconda
del ruolo che sostiene in quel particolare momento. La retorica risulta così ai suoi occhi una disciplina che
non ha come obiettivo primario quello di trovare la verità, ma soltanto di esercitare il potere attraverso
l'uso della parola.

Gorgia ha avuto il merito di ampliare gli spazi di applicazione della retorica, superando il ristretto ambito
giudiziario da cui era nata per investire anche le forme dei discorsi letterari ed epidittici come l'elogio e il
panegirico. E proprio verso questa tipologia discorsiva che Gorgia ha dimostrato sia come teorico, sia come
diretto protagonista dei dibattiti dell'epoca, il suo maggior talento. Tra le posizioni di Gorgia più malviste da
Platone spicca senz'altro quella sulla forza della parola, al centro di L'encomio di Elena, la sua opera più
importante, nella quale Gorgia esalta il potere suggestivo e persuasivo della parola che è capace di ribaltare
il convincimento popolare a proprio piacimento.

Nell'Encomio di Elena Gorgia si pone l'obiettivo di scagionare Elena, moglie di Menelao, dalla terribile colpa
di aver provocato, abbandonando il marito per seguire Paride a Troia, la sanguinosa guerra di Troia. Al fine
di spiegare il suo comportamento Gorgia si affida alla forza suggestiva delle proprie parole utilizzando una
strategia argomentativa poco rigorosa agli occhi di Platone, infatti egli presenta una serie di ipotesi che
dovrebbero spiegare il comportamento di Elena, le quali fanno tutte riferimento solo a delle cause estranee
alla sua volontà: la possibilità che Elena fosse stata indotta a tradire e a fuggire per sua scelta non viene
nemmeno presa in considerazione. Elena, secondo Gorgia, era innocente, poiché il movente del suo gesto è
stato esterno alla sua responsabilità riguardando:

1. un decreto degli dei: Elena non sí era potuta opporre al Fato;

2. un'azione di forza: Elena era stata rapita;

3. una persuasione irresistibile: era stata convinta dalle parole di Paride;

4. un coinvolgimento affettivo: era stata vinta dalla passione amorosa.


Tutte e quattro queste ipotesi soddisfano la condizione che Elena non sia colpevole e costituiscono pertanto
una fallacia di presupposizione che appunto dà per acquisita la tesi che bisognerebbe dimostrare,
limitandosi ad enunciarla in forma lievemente diversa.

Nonostante la sua debolezza argomentativa, il discorso di Gorgia ha una sua efficacia che dipende dalla
suggestione della parola che induce a credere alla rappresentazione della realtà costruita dall'oratore.

Platone vede nel discorso apodittico il modello della filosofia basato sul concetto di verità assoluta che
esclude il contraddittorio: la dialettica è formata da un alternarsi di domande e risposte che portano a una
verità univoca e assoluta, il logos, a una sola risposta possibile. La discussione in questo caso si basa su
realtà stabili, le Idee, su una metafisica alla quale la dialettica è subordinata. La dicotomia che separa la
scienza (epistème, ossia la conoscenza incontrovertibile) dall'opinione (dóxa, ossia la conoscenza relativa e
fallibile) è pertanto insuperabile: la prima è sempre vincitrice sulla seconda poiché la certezza della verità si
afferma e supera sempre la fragilità dell'opinabile. Questa dicotomia trova il più fertile campo di
applicazione proprio contro i sofisti accusati di utilizzare gli artefici retorici solo per manipolare l'uditorio
senza conoscere la materia del contendere; in questo modo i problemi non vengono mai risolti e gli uomini
sono così costretti a convivere con opinioni contraddittorie, a essere coinvolti in controversie infinite.

Nel colloquio che intercorre fra Socrate e Gorgia, Platone in un primo momento fa definire al sofista la
retorica come un'arte dei discorsi, la cui esecuzione si realizza solamente tramite la parola e con nessun tipo
di opera manuale; in un secondo momento Gorgia, incalzato dalle domande del suo interlocutore, sostiene
che la disciplina permette di raggiungere quello che è il bene più grande, ossia l'essere capaci di persuadere,
e che il suo unico obiettivo è quello di essere artefice di persuasione. Tutta l'attività della retorica e il suo
scopo si riducono solamente a questo: «si tratta di quella persuasione che si esercita nei tribunali e nelle
altre pubbliche adunanze e che essa ha per oggetto il giusto e l'ingiusto». Gorgia, incalzato dal suo
interlocutore, riconosce che la retorica produce una persuasione in grado di far credere, ma non di
insegnare il giusto e l’ingiusto, posizione di Platone: la retorica, al pari della culinaria, coincide con una
forma di lusinga che «mira al piacere senza tener conto del sommo bene», che non ricerca la conoscenza
profonda, il sapere sistematico, ma si accontenta di compiacere il destinatario senza preoccuparsi di ciò che
può essere l'interesse collettivo. La retorica così intesa è definita da Socrate l'arte "lusingatrice".

La dicotomia tra retorica e dialettica si afferma come un principio cardine del sistema filosofico di Platone: la
prima si basa sull'opinione, porta avanti un accordo tra le parti e consegue una soluzione transitoria che
vale per quel contesto e tra quei determinati interlocutori, essendo sempre possibile rimetterla in
discussione in un momento in cui la situazione dovesse essere diversa. La seconda, invece, si basa sulla
verità, porta avanti una dimostrazione e consegue una soluzione definitiva che soddisfa entrambe le parti.

È necessario allora costruire un tipo di retorica diversa da quello che finora si è affermato, che sia in grado di
condurre il proprio uditorio verso la verità, adattando il discorso all'anima della persona che vuole
persuadere, ma basandosi sulla conoscenza vasta e profonda dei fenomeni. Per far questo Platone sostiene
che la retorica debba avvicinarsi alla dialettica, assumerla come modello e utilizzarne i metodi e gli
strumenti. Il metodo per fare discorsi efficaci si deve basare su due procedimenti: deve «ricondurre le cose
disperse in molteplici modi a un'unica idea» e, nello stesso tempo, deve condurre dal singolo al molteplice;
queste modalità, però, sono proprie della dialettica e non della retorica. Da un lato troviamo una forma
positiva e accettabile di retorica che, se si avvicina alla dialettica, ne condivide le modalità e riesce per
questo a condurre l'ascoltatore a condividere le giuste conclusioni attraverso l'abile uso delle parole;
dall'altro lato ritroviamo invece la "retorica falsa" che produce solo una parvenza di verità, una persuasione
fraudolenta, e a cui interessa più il sembrare che l'essere: è la retorica sofista che non conduce a nessun
tipo di conoscenza.

Uno dei grandi meriti della ricerca portata avanti da Perelman e Tyteca è stato proprio di rivalutare questo
modello di ragione "relativa" e non perfetta che interessa ampi e importanti settori del conoscibile come la
politica, il diritto, la morale, al fine di ridimensionare e vedere sotto altra luce quella condanna così radicale
della retorica che aveva anche portato alla sua lenta disgregazione:

4.2 per una fenomenologia dell’oralità

Elementi comuni tra antropologia e retorica.

1. primo elemento in comune riguarda le forme e le modalità del linguaggio verbale: per la retorica in
quanto arte del discorso, fin dalla sua fondazione e, successivamente, a partire dalla
sistematizzazione aristotelica, il punto centrale di riferimento è stato il discorso orale, anche se in
quanto scienza o arte, essa era e doveva essere un prodotto della scrittura.

Al centro del suo interesse si colloca il discorso pubblico o oratoria. All’epoca, infatti, non era pratica
comune per gli oratori avvalersi o fare riferimento a un testo scritto mentre parlavano davanti a un pubblico,
dovendo dimostrare la propria abilità di tenere a mente il discorso per poterlo utilizzare senza problemi. La
Retorica ad Herennium, la prima opera retorica scritta in latino tra l'86 e il 92 a.C., considera la memoria - la
capacità di tenere presenti nel pensiero gli argomenti, le parole e la loro disposizione - una delle abilità che
l'oratore deve avere. Avere bisogno di un testo scritto era insomma considerato segno di incompetenza. Lo
stesso fondatore della linguistica moderna, Ferdinand de Saussure, ha richiamato l'attenzione sulla
primarietà del discorso orale che è alla base di tutta la comunicazione verbale.

Analogamente per l'antropologia l'espressione orale ha rappresentato un campo d'indagine privilegiato


perché essa può esistere, anzi è prevalentemente esistita, a prescindere dalla scrittura, mentre la scrittura
non può fare a meno dell'oralità. La scrittura può essere considerata un sistema di modellizzazione
secondario che dipende dal sistema primario della lingua parlata. Molte ricerche sul campo svolte dagli
antropologi hanno riguardato le società orali e molte riflessioni sono state condotte, a partire dal
fondamentale saggio di Goody (1981), sul confronto tra le dinamiche della verbalizzazione orale primaria e
la verbalizzazione scritta, oltre che sui cambiamenti delle strutture mentali e sociali verificatesi a seguito
dell'introduzione della scrittura. Ad esempio, nelle società a tradizione orale che non hanno modo di
registrare o mettere per iscritto quanto è accaduto, gli uomini possono pensare al passato solo in modo
molto semplice: alcuni per rifarsi al passato cercano di imparare a memoria i nomi dei padri, dei nonni, dei
bisnonni e così via, altri per fare il computo degli inverni passati incidono dei segni su un tronco d'albero o
su un bastone, così da poter contare all'indietro.

Orale vs scritto

1. Nella cultura orale si privilegia un andamento paratattico corrispondente all'uso dello stile additivo
basato sul polisindeto, in cui l'elemento ridondante e iterativo è utile per la memorizzazione dei
temi da esporre nel discorso. La scrittura invece predilige una modalità ipotattica che fa uso della
subordinazione analitica e ragionata e dove alla ripetizione si preferisce la variatio. L'effetto di
ridondanza appartiene alle figure retoriche dell'epanalessi e della paronomasia che da sempre,
infatti, sono state ampiamente utilizzate nei proverbi popolari, nelle forme liturgiche e rituali.
L'epanalessi raddoppia l'espressione ripetendola, all'inizio, al centro o alla fine di un segmento
testuale. Fra le parole ripetute possiamo ritrovare vocativi, interiezioni, congiunzioni. Il caso della
paronomasia è diverso perché si tratta di un gioco linguistico che presenta una combinazione di
parole con una minima variazione di suono (quindi non si tratta di una ripetizione) cui corrisponde
però una notevole differenza di significato. Ed è proprio in virtù di questo scarto tra espressione e
contenuto che la figura attira l'attenzione del destinatario. E consuetudine distinguere la
paronomasia apotonica da quella isofonica: nel primo caso il gioco si basa sull'apofonia, cioè
sull'alternanza vocalica nella radice delle parole, come nel proverbio "chi non risica non rosica"; nel
secondo caso è presente invece l'isofonia, cioè l'uguaglianza dei suoni su cui cade l'accento di
parola, ad esempio nel detto "traduttore\traditore".
2. La seconda proprietà riguarda il fatto che in una cultura orale si preferisce utilizzare forme
espressive di tipo aggregativo piuttosto che analitico, in questo modo vengono inserite nel discorso
gruppi di parole come gli epiteti o le perifrasi. La perifrasi può essere considerata come «un
sinonimo a più termini», il principio che la governa è l'equivalenza di senso; differisce dalla
definizione perché è usata al posto di un'espressione e non in sua presenza.
3. Nella maggior parte dei casi l’oralità utilizza l'elemento esperienziale e situazionale, lasciando in
secondo piano l'astrazione; la conoscenza, in questo modo, diventa parte integrante dell'esperienza
concreta. Lo stesso significato delle parole, non essendo depositato nei dizionari, viene controllato
da un controllo semantico diretto, ossia facendo sempre riferimento alle situazioni e ai contesti
della vita reale in cui quella parola viene utilizzata. In questo caso la funzione referenziale del
discorso è centrale. Le culture orali tendono invece a usare i concetti in ambiti di riferimento
situazionali ed operativi, ad esempio secondo la ricerca gli illetterati intervistati tendevano a
identificare le figure geometriche non con i nomi astratti (cerchio, quadrato, triangolo ecc.) bensì
con i nomi degli oggetti della vita quotidiana: così un cerchio era chiamato a seconda delle persone
piatto, orologio, luna e un quadrato era di volta in volta uno specchio, una porta, un asse.
Su questo terreno si misura un'ulteriore profonda differenza rispetto alle culture scritte dove sia lo
sviluppo del ragionamento, sia i processi semantici delle lingue storico-naturali, sono per loro
stessa costituzione dipendenti proprio dall'astrazione. Ad esempio tutte le parole che noi usiamo
sono generali, anche un termine concreto come "albero" non si riferisce semplicemente a questo
albero che esiste nella realtà e che io sto ora osservando, ma a un concetto astratto e generale che
si può applicare a ogni albero che esiste, una classe generale basata sui tratti in comune in cui tutti
gli alberi possono rientrare proprio perché si fa astrazione dagli elementi particolari che gli enti
hanno in natura: «la classificazione che sta alla base dei nomi generali non rispecchia una
classificazione naturale delle cose.
4. La quarta e ultima proprietà coinvolge sia l'elemento agonistico, sia il modo enfatico di
rappresentare gli eventi. Nel primo caso ci troviamo di fronte alla dimensione conflittuale
che nelle culture orali è sempre in primo piano in quanto i proverbi e gli indovinelli vengono usati
non solo per stimolare la memoria, ma anche per sfidare gli ascoltatori a rispondere con uno più
appropriato o con uno che lo contraddica: la battaglia verbale è molto frequente e celebrata.
L'elemento agonistico a sua volta costituisce il fattore primario di ogni discorso retorico in cui
l'oratore non è mai da solo, ma si presenta sempre in competizione con un avversario che sostiene
un punto di vista opposto al suo. Per questa ragione la figura dell’antitesi, che è il corrispettivo
linguistico della tecnica argomentativa del contraddittorio, è molto utilizzata. Nel secondo caso ci
riferiamo al fatto che il discorso orale per raggiungere e portare dalla propria parte l'interlocutore si
basa sull'identificazione con l'oggetto del discorso e non sull'oggettività e il distacco personale che
sono invece tipici della scrittura. Per questa ragione si fa uso spesso delle figure della prosopopea e
dell'iperbole. Nella prima si dà vita all'inanimato umanizzando i concetti astratti, i sentimenti o gli
elementi della natura; nella seconda si tende ad amplificare ed esagerare la rappresentazione di ciò
che si vuole comunicare. Per raggiungere il suo scopo l'iperbole deve mantenere un aggancio con la
realtà nel momento in cui la oltrepassa: possiamo dire "annegare in un bicchiere d'acqua" perché
sappiamo che secondo la nostra esperienza si può annegare nell'acqua. In ogni caso è il contesto
discorsivo a determinare l'interpretazione della figura.

Un ulteriore elemento di distinzione tra oralità e scrittura risiede nel fatto che per un alfabetizzato le parole
possono essere "viste”, sono simili a cose e possono infatti essere "ricercate", ad esempio nel vocabolario.
Ad es. se ci chiedono di pensare alla parola “nonostante” saremmo portati a pensare al modo in cui questa
parola viene scritta e non penseremmo solo al suono. Le parole senza scrittura non hanno una presenza
visiva, sono solo suoni che si possono richiamare e ricordare, non sono collocati in uno spazio, sono eventi.
Chiamare per nome significa creare, con la parola si crea e si distrugge.

Del resto, il mito della parola creatrice si ritrova nella tradizione cristiana, basti pensare a quel passo in cui
si dice che "Dio chiama luce la luce e notte la tenebra e così fu notte e poi mattino e fu il primo giorno". La
potenza della parola si risolve inoltre nel suo possibile effetto terapeutico sottolineato da Lévi-Strauss in
riferimento al caso in cui per guarire un malato non si tocca il suo corpo, né viene somministrato alcun
farmaco, ma si ricorre semplicemente alla suggestione operata dalla parola.

Nell’oralità, dato che non esistono testi e non si possono prendere appunti, è necessario pensare in moduli
mnemonici creati apposta per un pronto recupero orale; il pensiero così tende a essere ritmico, sfruttando
allitterazioni e assonanze, poiché il ritmo aiuta la memoria.

A questo punto incontriamo un altro fattore, oltre all'interesse per l'oralità e per i suoi rapporti con la
scrittura, che avvicina la retorica all'antropologia e che permette di costruire un campo di riflessione
comune alle due discipline: l'orientamento ad esaminare i fattori e le condizioni che rendono la parola
efficace e dunque in grado di esercitare un potere persuasivo sulle persone a cui è rivolta. Questa
funzione persuasiva è naturalmente sempre stata al centro dell'interesse degli esponenti più significativi
della retorica (da Aristotele a Perelman e anche oltre), ma è anche molto presente ad uno dei più
significativi esponenti della ricerca antropologica come Lévi-Strauss.

L'efficacia della parola, quella che Jakobson definisce la sua funzione conativa, ossia la modalità con la quale
l'emittente tende ad esercitare un'azione sul destinatario - che può essere di tipo pragmatico se si configura
come un "far fare”, oppure di tipo cognitivo se si risolve in un "far credere" - dipende dal kairós, ovvero la
capacità dell'oratore di adattarsi alle diverse circostanze e al tempo, di tenere conto del contesto in cui si
svolge il discorso per sapere ciò che è opportuno fare in quel momento. Le circostanze comprendono le
disposizioni d'animo sia dell'oratore che del suo uditorio, il momento, il luogo, l'occasione del discorso.

Il kairós è un elemento fondamentale della retorica che si ritrova anche in Aristotele, e che a sua volta è
strettamente legato a quello di politropia, ossia il fatto di padroneggiare diverse modalità di espressione
intorno al medesimo argomento.

Potrebbero piacerti anche