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Nella storia dell’umanità nessuna generazione ha sacrificato più

tempo al lavoro quanto quelle che hanno avuto la sfortuna di nascere


sotto il capitale. Ogni invenzione tecnica, sociale e scientifica, anziché
liberare del tempo, non fa che estendere l’impresa del capitale sulle
nostre temporalità. L’arte è dentro la divisione sociale del lavoro come
ogni altra attività. Da questo punto di vista essere artista è una
professione o una specializzazione come un'altra, ed è proprio questa
ingiunzione a occupare, con il corpo e con l’anima, una posizione, un
ruolo, un’identità, l’oggetto del rifiuto categorico e permanente di
Marcel Duchamp.

Maurizio Lazzarato, sociologo e filosofo, vive e lavora a Parigi dove


svolge attività di ricerca sulle trasformazioni del lavoro e le nuove
forme dei movimenti sociali.
Tra le sue pubblicazioni: La fabbrica dell'uomo indebitato e Il
governo dell'uomo indebitato (DeriveApprodi, 2013), Il governo delle
disuguaglianze (ombre corte, 2013).
Diagrammi 1
I edizione aprile 2014

Traduzione dal francese:


Duccio Scotini e Cosimo Lisi

edizioni temporale
Via Ugo Betti 65, 20151 Milano

www.edizionitemporale.it
info@edizionitemporale.it
Progetto grafico: Angelo Castucci e Lilia Di Bella

Stampato da Erredi grafiche editoriali, Genova


ISBN 978-88-909839-0-0
Maurizio Lazzarato
MARCEL DUCHAMP
E IL RIFIUTO DEL LAVORO

A Chiara
PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

Il “rifiuto del lavoro” è forse la categoria politica più importante


dell'operaismo italiano. Rinvia alle pratiche di lotta individuali e
collettive dell'operaio massa nelle grandi fabbriche fordiste che, con le
loro catene di montaggio e le loro grandi concentrazioni operaie,
rappresentavano lo sfruttamento del capitalismo industriale.
Il rifiuto del lavoro di Marcel Duchamp è invece una pratica
individuale di sottrazione alla logica del lavoro (compreso quello
artistico) subordinato alla valorizzazione del capitale che anticipa i
possibili comportamenti di rifiuto nel capitalismo contemporaneo.
Duchamp si è trovato al centro di due momenti essenziali nella
storia del rapporto capitale-lavoro e capitale-arte. Da una parte, il suo
“ozio” arriva alla fine della prima fase di formazione forzata della
forza lavoro che, durante il XIX secolo trasforma la vita di milioni di
proletari in una vita dipendente dal lavoro salariato. Dall’altra
Duchamp è testimone diretto dell’inizio dell’integrazione dell'arte e
dell'artista al mercato, cioè di una diversa, ma non meno pervasiva
forma di subordinazione della vita al capitale.
Il rifiuto del lavoro di Duchamp è sicuramente figlio del rifiuto del
lavoro che ha caratterizzato tutto il XIX secolo, se non altro per
revocazione ricorrente del “diritto all’ozio” di Paul Lafargue (1880)
che di quelle lotte costituisce un omaggio. Se con la socialdemocrazia
la memoria di questi comportamenti si è persa (riemergerà con
l’operaismo italiano per poi scomparire di nuovo), resta presente, in
maniera non direttamente politica, nello stile di vita di Duchamp.
Michel Foucault definisce in questo modo l’“illegalisme” dei
proletari che rifiutano di “impiegare” il loro corpo e la loro forza alla
produzione: “1. la decisione dell'ozio: rifiuto di offrire sul mercato del
lavoro queste braccia, questo corpo, questa forza; 2. l’irregolarità
operaia: rifiuto di applicare la sua forza dove bisogna e nel momento
richiesto: si tratta di disperdere le forze, decidere il tempo durante il
quale si applicheranno; 3. la festa: non conservare questa forza per
renderla utilizzabile, sprecarla non prendendo cura del proprio corpo,
cadendo nel disordine; 4. il rifiuto della famiglia: non utilizzare il suo
corpo alla riproduzione delle sua forza lavoro nella forma della
famiglia; è il rifiuto della famiglia tramite la convivenza e la
dissolutezza”1. È l’irregolarità, l’imprevedibilità, l’indisciplina del
comportamento che bisogna domare, normalizzare. E questo in ogni
genere di lavoro, anche in quello artistico come intuisce benissimo
Duchamp. Già nel XIX secolo rifiutare il lavoro è rifiutare la
normalizzazione del tempo della vita invaso, dalla nascita alla morte,
dalla produzione. L’impiego del tempo che non a caso costituirà la
vera opera d’arte di Duchamp, è l’oggetto principale del controllo e
del disciplinamento capitalista. Bisogna che il tempo sia portato sul
mercato e questo tempo sia trasformato in tempo di lavoro. È questo
il grande rifiuto di Duchamp, neanche l’arte ha il diritto di occupare e
comandare il tempo della vita.
Tanto più che le pratiche artistiche, prototipo di tutte le nuove
forme del lavoro detto “cognitivo, intellettuale, immateriale”,
sembrano aver realizzato la profezia dell’anartista: conformiste,
inoffensive, accomodanti, si pensano, producono e, in ultima analisi,
non hanno altra scelta che vendersi al mercato. Il mercato dell’arte
(sempre come prototipo del mercato del lavoro detto “cognitivo”) è il
mercato del lavoro più diseguale, concorrenziale, differenziato che ci
sia. Per poche decine di eletti le cui opere sono comprate dagli
arricchiti della finanza, migliaia e migliaia di poveri, precari,
“disoccupati” senza nessuna prospettiva, consolati solo dalla pretesa
di fare un lavoro creativo, concetto del quale già Duchamp diffidava.
La piramide delle ineguaglianze ha nel lavoro artistico,
intellettuale, immateriale la sua più completa e perfetta realizzazione.
Qui la distinzione tra lavoro e impiego raggiunge vertici
ineguagliati altrove. L’artista (il lavoratore detto cognitivo) lavora
sempre, ma è pagato (impiegato) raramente. Non solo la maggior
parte del lavoro che eroga è gratuito, ma è anche “alienato”, come si
diceva una volta. Nel senso che deve adeguarsi alla “domanda”,
adattarsi al mercato e alle possibilità che la produzione culturale offre.
Queste nuove e variegate professioni sono “risorse” per
l’urbanizzazione, per la gentrificazione, per il turismo, per l’industria
audio-visiva, per le multinazionali dei social-network, per il marketing,
ecc.. Partecipano così all’impoverimento soggettivo e non solo
economico delle nostre società.
La massificazione di questo tipo di lavoro è andata di pari passo a
una proletarizzazione che i diretti interessati sembrano, per il
momento, non voler riconoscere. Proletarizzazione non significa solo
impoverimento, ma anche perdita dei propri saperi e perdita del
controllo sulla propria produzione. È anzi questa espropriazione che è
all’origine dell’impoverimento economico.
Duchamp può aprire qualche prospettiva in questo dominio del
Capitale, pur sapendo che nel suo caso si tratta di scelte difficilmente
riproducibili oggi e di forme di vita che evitano il conflitto. Non vedo
come si possa uscire da questa situazione se non imparando dai
proletari del XIX e dagli operai non cognitivi del XX secolo. Trovare
cioè delle modalità di lotta, delle forme di organizzazione che da un
lato garantiscono i diritti che, avuti in eredità dagli operai non
cognitivi, la nuova composizione di classe sta perdendo uno a uno. La
maniera per essere all’altezza di questa eredità è di inventarne e di
conquistarne di nuovi, adattati alla nuova situazione. Dall’altro lato
costruire delle forme di solidarietà che impediscano l’esproprio del
proprio sapere e che evitino di farsi dettare la propria produzione
dalle necessità della valorizzazione culturale contemporanea. È
soltanto a questa condizione che si potrà ritrovare, la radicalità,
l’impertinenza, il desiderio d’invenzione e di rottura che sembra sia
stato perso.
MARCEL DUCHAMP E IL RIFIUTO DEL LAVORO

“Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le
cose stanno i modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di
emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno.”

W. Benjamin

“Non ci si può più permettere di essere come un giovane che non fa niente. Chi non
lavora? Non si può più vivere senza lavorare, è una cosa orrenda. Mi ricordo di un
libro che si chiama II diritto all’ozio; questo diritto non esiste più.”

“Lei preferisce la vita al lavoro d’artista?”

“Si” rispose Marcel.

M. Duchamp
“John Cage si vanta di aver introdotto il silenzio nella musica. Io
mi vantavo di aver introdotto l’ozio nell’arte”1, dice da qualche parte
Marcel Duchamp. Il “grande ozio” di Marcel Duchamp ha sconvolto
l’arte in maniera più radicale e duratura della sfrenata attività e
produttività di un Picasso con le sue 50.000 opere.
Duchamp pratica un rifiuto ostinato del lavoro, che si tratti di
lavoro salariato o di lavoro artistico. Rifiuta di sottomettersi alle
funzioni, ai ruoli e alle norme della società capitalista. Questo rifiuto
non interroga solamente l’arte e l’artista, perché differenziandosi dal
“rifiuto del lavoro” teorizzato dall’operaismo italiano degli anni
Sessanta, l’atteggiamento di Duchamp ci può aiutare a comprendere
quei “rifiuti” che si sono espressi dopo il 2008 sulle piazze e nelle
strade del pianeta (Turchia, Brasile, Spagna, Stati Uniti, ecc.).
Da una parte Duchamp estende il suo campo d’azione al di là del
rifiuto del lavoro salariato, verso tutte le funzioni e i ruoli che ci
vengono assegnati (donna/uomo, consumatore, utente, comunicatore,
disoccupato, ecc.). Come la maggior parte di queste funzioni, quella
dell’artista non è subordinata a un padrone, ma a una serie di
dispositivi di potere. Come per il “capitale umano”, l’artista, di cui è
divenuto il modello nel neo-liberalismo, deve sottrarsi non solo ai
poteri “esterni”, ma anche alla gestione del proprio “io” (l’io-creatore
per l’artista e l'io-imprenditore per il capitale umano), che dà a
entrambi l’illusione di essere liberi.
Dall’altra parte, Duchamp ci permette di pensare e di praticare un
“rifiuto del lavoro” a partire da un principio etico-politico che non sia
quello del lavoro. Si tratta così di uscire dal circolo vizioso della
produzione, della produttività e dei produttori. Il lavoro è stato allo
stesso tempo il punto di forza e il tallone d’achilie della tradizione
comunista. Emancipazione dal lavoro o emancipazione attraverso il
lavoro? Un’ambiguità senza via d’uscita. Il movimento operaio è
esistito solamente perché lo sciopero era allo stesso tempo un rifiuto,
un non-movimento, un’inoperosità radicale2, una non azione, un
arresto della produzione, che sospendeva i ruoli, le funzioni e le
gerarchie della divisione del lavoro in fabbrica. Problematizzare un
solo aspetto della lotta, la dimensione del movimento, è stato un
grande ostacolo, che ha fatto del movimento operaio un accelleratore
del produttivismo, dell'industrializzazione e un apologia del lavoro.
Con il neoliberalismo, l'altra dimensione della lotta, che implica il
‘rifiuto del lavoro'', il non-movimento o la de-mobilitazione, è stata
abbandonata o insufficientemente problematizzata.
Il rifiuto del lavoro operaio nella prospettiva comunista, rimanda
sempre a qualcos'altro da sé stesso, alla politica nella sua doppia
forma del partito e dello Stato. Duchamp ci invita a soffermarci sul
rifiuto, sul non-movimento, sulla smobilitazione e a sviluppare e
sperimentare tutto ciò che l'azione oziosa crea come possibilità per
operare una riconversione della soggettività, inventando delle nuove
tecniche desistenza e dei nuovi modi di abitare il tempo. I movimenti
femministi, dopo il rifiuto di esercitare la funzione (e il lavoro) di
“donna", sembra abbiano seguito questa strategia piuttosto che
l'azione politica classica. L'antropologia del rifiuto operaio resta in
ogni modo un'antropologia del lavoro, la soggettivazione di classe è
sempre una soggettivazione di “produttori” e di “lavoratori”. L’azione
oziosa apre a tutt’altra antropologia e a tutt’altra etica. Scalzando le
fondamenta del lavoro, scuote non solo l’identità dei produttori, ma
anche le loro assegnazioni sessuali. Ciò che è in gioco è l’antropologia
della modernità: il soggetto e l’individuo, la libertà dell’uomo,
l’universalità dell’uomo.
Il movimento comunista ha avuto la possibilità di produrre altre
antropologie e altre etiche rispetto a quelle della modernità
lavoratrice, e altri processi di soggettivazione rispetto a quelli centrati
sulla produzione. Il diritto all'ozio, redatto da Paul Lafargue, genero
di Marx, rispondeva al “diritto al lavoro” di Louis Blanc, e aveva le
proprie radici nell’“ozio” degli antichi, che Lafargue ha cercato di
ripensare in rapporto alla democratizzazione della schiavitù operaia,
realizzata attraverso il lavoro salariato. I comunisti non hanno visto le
implicazioni ontologiche e politiche che apre la sospensione
dell’attività e del comando. Hanno così perso la possibilità di uscire
dal modello dell'homo faber, dall’orgoglio dei produttori e dalla
promessa prometeica del dominio sulla natura che questo modello
implica. Spetta a Duchamp sviluppare la sua radicalità, perché il
diritto all’ozio, “un diritto che non esige né una giustificazione né
qualcosa in cambio”, attacca i tre fondamenti della società capitalista.
Prima di tutto lo scambio: “Chi ha inventato lo scambio a uguaglianza
di valore, che è diventato una legge poliziesca delle relazioni tra
individui nella società attuale?”3. In secondo luogo, ancora più a
fondo, attacca la proprietà, condizione di possibilità dello scambio:
“Possessione - d’altronde l’idea di scambio presuppone la possessione
nel senso proprietario del termine”4. E infine attacca il lavoro. In
Marx il lavoro è il fondamento vivente della proprietà, quest’ultima
non è che lavoro oggettivato. Se si vuole dare un colpo mortale alla
proprietà, dice Marx, bisogna combatterla non solo come condizione
oggettiva, ma anche come attività, come lavoro. Il diritto all’ozio
distrugge lo scambio, la proprietà e il lavoro, ma lo fa aggirando la
tradizione marxista.
1. IL RIFIUTO DEL LAVORO

L’azione oziosa duchampiana si presta a una doppia lettura:


funziona allo stesso tempo come critica del dominio socio-economico
e come una categoria “filosofica” che permette di ripensare l'azione, i
tempi e la soggettività, scoprendo nuove dimensioni dell’esistenza e
forme di vita inedite. Cominciamo dalla sua funzione di “critica socio-
economica”: l’azione oziosa non è semplicemente una “non-azione” o
un “minimo di azione”. È anzitutto una presa di posizione rispetto
alle condizioni di esistenza nella società capitalista. Essa esprime
prima di tutto un rifiuto soggettivo nei confronti del lavoro (salariato)
e ogni comportamento conforme imposto dalla società capitalista. Il
rifiuto di “tutte queste piccole regole che stabiliscono come non ci sia
nulla da mangiare se non si dimostrano i segni di un’attività o di una
produzione di qualche tipo”5. Joseph Beuys ha denunciato il
“sopravvalutato silenzio” di Duchamp sulle questioni sociali, politiche
ed estetiche. La maggior parte dei critici non considerano Duchamp
esente da contraddizione. Egli stesso, d’altronde, afferma che non ha
mai smesso di contraddirsi per evitare di rimanere intrappolato in un
sistema, in uno stile, in un pensiero prestabilito. Ma se c’è qualcosa
che ritorna sistematicamente e alla quale è rimasto fedele per tutta la
vita, è il rifiuto del lavoro e l’azione oziosa, che insieme hanno
costituito il fil rouge etico-politico della sua esistenza.
“Sarà possibile vivere solamente come occupante? Senza pagare e
senza possedere? [...] Questo ci riporta al diritto all’ozio proposto da
Lafargue in un libro che mi aveva colpito molto attorno al 1912. Mi
sembra ancora oggi molto valido per rimettere in questione il lavoro
forzato al quale è sottomesso ogni nuovo nato”6.
Nella storia dell’umanità nessuna generazione ha sacrificato più
tempo al lavoro quanto quelle che hanno avuto la sfortuna di nascere
sotto il capitale. Nel capitalismo, l’umanità è condannata ai lavori
forzati qualsiasi sia il livello di produttività raggiunto. Ogni invenzione
tecnica, sociale e scientifica, anziché liberare del tempo, non fa che
estendere l’impresa del capitale sulle nostre temporalità.
“Pur non essendo fascista penso che la democrazia non abbia
portato granché di sensato. [...] È vergognoso che siamo ancora
obbligati a lavorare semplicemente per sopravvivere. [...] Ma essere
costretti a lavorare per esistere, questa è una vera infamia”7. L’Ospizio
per gli oziosi (“Ospizio per anziani oziosi / Orfanotrofio per piccoli
oziosi”), che Duchamp voleva aprire e “dove, ben inteso, sarà vietato
lavorare”8, presuppone una riconversione della soggettività, un lavoro
sul sé, dal momento che l’ozio è un altro modo di abitare il tempo e il
mondo. “Credo, d’altronde, che non vi sarebbero tanti residenti
quanto si possa immaginare”, perché, “in effetti, non è esattamente
facile essere realmente oziosi e non far niente”9.
Malgrado un’esistenza molto austera, a volte al limite della
sussistenza, Duchamp ha potuto vivere senza lavorare grazie a una
piccola eredità familiare, all’aiuto occasionale di ricchi collezionisti
borghesi, grazie alla vendita di qualche opera d’arte e ad altri
espedienti, comunque precari. Duchamp è dunque assolutamente
cosciente dell’impossibilità di vivere in modo “ozioso”, senza una
radicale riorganizzazione della società.
“Dio sa che c'è abbastanza cibo sulla terra affinché tutto il mondo
possa nutrirsi senza dover lavorare [...]. E non chiedetemi chi fa il
pane o qualunque altra cosa, perché ce abbastanza vitalità nell'uomo
in generale perché questi non resti ozioso; nella mia casa ci sarebbero
veramente pochi oziosi, perché non sopporterebbero di rimanere tali a
lungo. In una società come questa, lo scambio cesserebbe di esistere e
gli abitanti migliori raccoglierebbero l’immondizia. Sarebbe la forma
di attività più elevata e nobile. [...] Ho paura che assomigli un po’ al
comunismo, ma non è il caso. Sono seriamente e profondamente figlio
di una società capitalista”10. L’arte è dentro la divisione sociale del
lavoro come ogni altra attività. Da questo punto di vista essere artista
è una professione o una specializzazione come un’altra, ed è proprio
questa ingiunzione a occupare, con il corpo e con l’anima, una
posizione, un ruolo, un’identità, l’oggetto del rifiuto categorico e
permanente di Duchamp. Con l’artista cambiano solo le tecniche di
subordinazione. I dispositivi delle società di controllo sono molto più
“cronofagi” rispetto alle tecniche disciplinari, anche nel caso in cui si
tratti dell’attività artistica.
“Non c’è il tempo necessario per fare un buon lavoro. Il ritmo
della produzione è tale da trasformarla in un’altra corsa sfrenata”11,
che rimanda alla competizione della società in generale.
L’opera “dev’essere prodotta lentamente, io non credo alla velocità
nella produzione artistica”12 introdotta dal capitalismo. Teeny, la sua
seconda moglie, racconta che “Duchamp non lavorava come un
operaio”, ma alternando, nella stessa giornata, brevi periodi d’attività
a lunghe pause.
“Non potevo lavorare più di due ore al giorno. [...] Ancora oggi
non posso lavorare più di due ore al giorno. È veramente
impressionante lavorare tutti i giorni”13. Più in generale rifiuto del
lavoro “artistico” significa rifiuto di produrre per il mercato, per i
collezionisti, per soddisfare le esigenze estetiche di un pubblico di
spettatori sempre più numeroso, rifiuto di sottomettersi ai loro
principi di valutazione, e alle loro esigenze di “quantità” e di
“qualità”.
“Il pericolo è quello di rientrare nelle fila dei capitalisti, di fare una
vita confortevole in un genere di pittura che si ricopia fino alla fine dei
propri giorni”14. Duchamp descrive in maniera molto precisa e
convincente il processo d’integrazione dell’artista nell’economia
capitalistica e la trasformazione dell’arte in merce, “si compra
dell’arte, come si comprano degli spaghetti”.
Nel 1963, William Seitz domanda a Duchamp in che misura
l’artista è compromesso con il capitalismo: “È una capitolazione.
Sembra che oggi l’artista non possa vivere senza un giuramento di
fedeltà al buon vecchio e potente dollaro. Ciò mostra fino a che punto
è arrivata l’integrazione”15. L’integrazione nel capitalismo è anche e
soprattutto soggettiva. Se l’artista non ha, come l’operaio, un padrone
diretto, è in ogni modo sottomesso a dei dispositivi di potere, che non
si limitano a definire l’ambito della sua produzione, ma gli fabbricano
una soggettività. Negli anni Ottanta l’artista è diventato il modello di
“capitale umano”, dal momento in cui incarna la “libertà” di creare.
“Courbet è stato il primo a dire ‘accetta la mia arte o non l’accettare.
Io sono libero’. Era il 1860. Dopo questa data, ogni artista ha creduto
di dover esser più libero dell’artista precedente. I puntinisti più liberi
degli impressionisti, i cubisti ancora più liberi, i futuristi e i dadaisti,
ecc... più liberi, più liberi, più liberi - questa la chiamano libertà.
Perché l'ego degli artisti dovrebbe essere autorizzato a riversarsi e a
inquinare l’atomosfera?”16. Una volta liberato dagli ordini del re e dei
signori, l’artista pensa di essere libero, mentre passa da una
sottomissione all’altra. L’artista, come l’operaio, è espropriato del suo
“saper fare”, perché la produzione è standardizzata e perde, anche
nell’arte, qualsiasi tipo di singolarità. “Con la creazione di un mercato
della pittura, è avvenuto un radicale cambiamento nel campo dell’arte.
Guarda come producono. Credete onestamente che gli piaccia, che
provino piacere a dipingere 50, 100 volte la stessa cosa? Per niente.
Non fanno dei quadri ma degli assegni”17. Duchamp afferma il suo
rifiuto senza esitazione: “Rifiuto di essere un artista, per come lo si
intende oggi”; “voglio trasformare completamente l’atteggiamento nei
confronti dell’artista”, “ho veramente cercato di uccidere il piccolo
dio che l’artista è diventato nel corso dell’ultimo secolo”, “voi lo
sapete, io non voglio essere un artista”, ecc.
Il rifiuto del lavoro “artistico” non è una semplice opposizione.
Non costituisce la negazione di una coppia di termini interdipendenti
(arte/non arte), opponendosi alla causa stessa della loro unione.
Duchamp è molto chiaro su questo punto, rifiutando la posizione
dadaista che “si opponeva e, opponendosi diventava la coda di ciò a
cui si opponeva [...]. Dada-letterario, puramente negativo e
accusatore, dava troppa importanza a quel che noi eravamo decisi a
ignorare. Un esempio, se vuole, con il rammendo-tipo desideravo dare
un'altra idea dell'unità di lunghezza. Avrei potuto prendere un metro
di legno e romperlo in un punto qualunque: sarebbe stato dada”18.
Il rifiuto porta a una eterogeneità radicale. Niente è più lontano
dal lavoro capitalistico dell'azione oziosa, in cui il dispiegamento di un
potenziale politico-esistenziale deve disfare tanto l'arte che la sua
semplice negazione.
“Sono contro il termine 'anti' dal momento che è un po’ come il
termine 'ateo' comparato a quello di 'credente'. Un ateo è grossomodo
tanto un religioso quanto un credente, come un anti-artista è
grossomodo tanto artista quanto un 'artista'. [...] Se potessi cambiare
il termine, 'anartista' sarebbe molto meglio di 'anti-artista'”19.
Se Duchamp rifiuta l'ingiunzione a essere un artista (si definisce
come “uno scomunicato dell'arte”), tuttavia non abbandona le
pratiche, i protocolli e le procedure artistiche. L'“anartista” pretende
una riorganizzazione delle funzioni e dei dispositivi artistici. Si tratta
di un posizione delicata, in cui il rifiuto non si instaura né all'esterno
né all'interno dell'istituzione arte, ma al suo limite, alle sue frontiere, e
che, a partire da questo limite e da queste frontiere, cerca di eliminare
l'opposizione dialettica arte/anti-arte.
2. IL MOULIN À CAFÉ TRA IL MOVIMENTO
(FUTURISTA) E LO STATICO (CUBISTA)

Proviamo ora a comprendere come l’azione oziosa e il suo non-


movimento permetta di ripensare l’azione, il tempo e la soggettività.
Duchamp ha dichiarato a più riprese l’importanza di un piccolo
quadro, il Moulin à café dipinto nel 191120, che gli ha permesso, molto
presto, di uscire dalle avanguardie alle quali non aveva mai totalmente
aderito. Duchamp, come molti dei suoi contemporanei era affascinato
dal movimento e dalla velocità, simboli della modernità “ruggente”. Il
Nu descendant un escalier, aveva tentato di rappresentare il
movimento ispirandosi alle tecniche cronocinematografiche di
Étienne-Jules Marey, ma si trattava di una rappresentazione indiretta
del movimento. Attraverso il Moulin à café Duchamp trova un modo
per uscire dall’opposizione tra il movimento e la sua celebrazione
modernista portata avanti dai futuristi, e l’estetica statica dei cubisti
(“Erano fieri di essere statici, d'altronde. Non smettevano di mostrare
le cose sotto aspetti differenti, ma questo non era movimento"21)
scoprendo un'altra dimensione del movimento e del tempo.
Scomponendo il Moulin à café in tutte le sue parti, Duchamp
introduce, in quello che gli storici dell'arte considerano come la prima
tela “macchinista”, il primo segno diagrammatico della storia della
pittura: la freccia che indica il movimento del meccanismo. “Ho
realizzato una descrizione del meccanismo. Guardate la ruota dentata
e la manovella al di sopra; ho usato anche la freccia per indicare in
quale senso girava la mano [...]. Non si tratta di un solo istante, ma
sono tutte le possibilità del macinacaffè. Non è come se fosse un
disegno”22. Con questo piccolo dipinto Duchamp compie un primo
passo verso la scoperta non della velocità, ma del possibile, non del
movimento, ma del divenire, non del tempo cronologico, ma del
tempo dell'evento.
Il possibile, il divenire e l'evento aprono a delle “regioni non
governate né dal tempo, né dallo spazio”, animate d'altre velocità
(velocità infinite, direbbe Félix Guattari), o dalla più grande velocità e
dalla più grande lentezza (Gilles Deleuze).
Ciò che in questa epoca stava per teorizzare la filosofia (grazie a
Henri Bergson), il capovolgimento della subordinazione del tempo al
movimento, Duchamp lo scopre durante la realizzazione di questo
dipinto, ma aggiungendone una condizione fondamentale, non presa
in considerazione dai filosofi: l'ozio come un altro modo di far
esperienza del tempo e l’azione oziosa come una nuova maniera di
esplorare un presente che è durata, che è possibile ed evento23. Per
Deleuze l'accesso a questa temporalità, al movimento che deriva dal
tempo, è il privilegio del “vedente”, mentre per Duchamp lo è
dell’“ozioso”.
Duchamp resterà sempre interessato al “movimento”, anche se
questo nuovo modo di concepirlo è, propriamente parlando,
irrappresentabile. Il movimento viene reso solamente dalle note che
accompagnano La Mariée mise à nu par ses célibataires, même (Le
Grand Verre), che costituiscono parte integrante dell'opera: “Ad ogni
segmento di durata, sono riprodotti tutti i segmenti futuri e passati
[...].
Tutti questi segmenti passati e futuri coesistono, quindi, in un
presente; questo non è più quello che comunemente chiameremmo
istante presente, ma un tipo di presente fatto di durate multiple”24. Il
tempo è denaro, dice il capitalista, “il mio capitale non è il denaro, ma
il tempo”, dice Duchamp. E il tempo in questione non è il tempo
cronologico che si può misurare e accumulare, ma questo presente,
che racchiude allo stesso tempo il passato, il presente e il futuro, è un
focolaio di produzione del nuovo. “Finito il movimento, finisce il
cubismo”, dirà in un intervista nel 1959, riferendosi a quest’epoca.
Nel suo primo readymade c'è ancora del movimento, ma quello della
ruota di bicicletta “era un movimento che mi piaceva, come quello del
fuoco nel camino”25. Sergej Ėjzenštejn chiarisce di quale movimento si
tratti: “il fuoco è capace di suscitare nella sua più grande pienezza il
sogno di una molteplicità fluida di forme”26. L’attrazione per il fuoco
sta nella sua “eterna variabilità”, nella modulazione delle “sue
incessanti immagini in divenire”27. Il fuoco rappresenta “una originale
contestazione dell’immobilità metafisica”28, che fa concessione alla
velocità futurista. “Il rifiuto della forma fissata una volta per tutte, la
libertà sulla quotidianità, la facoltà dinamica di prendere qualunque
forma”29 che Ėjzenštejn chiamerà “plasmaticità” si adatta
perfettamente alla concezione di Duchamp. Duchamp dà anche un
altro nome alle possibilità scoperte grazie al Moulin à :
“L’infrasottile”30. L’infrasottile è la dimensione del molecolare, delle
piccole percezioni, delle differenze infinitesimali, della cointelligenza
dei contrari, dove non valgono le leggi della dimensione macro e
soprattutto quella della causalità, della logica di non contraddizione,
del linguaggio e delle sue generalizzazioni, del tempo cronologico. È
nell’infrasottile che il divenire ha luogo, è a livello micro che si
producono i cambiamenti.“Il possibile implica il divenire - il
passaggio da un luogo all’altro dell’infrasottile”31. Per poter accedere
a questa dimensione la condizione è sempre la stessa, inventare un
altro modo di vita: “l’abitante fannullone dell’infrasottile”.

Il readymade è una tecnica oziosa?

Il readymade è una tecnica oziosa perché non implica alcuna


virtuosità, nessun saperfare specialistico, nessuna attività di
produzione, nessun lavoro manuale. Fontaine, il Sèche bouteille o la
Pele à neige sono opere che Duchamp ha semplicemtente tratto dallo
“scaffale delle cianfrusaglie oziose”32, dove la produzione seriale e il
consumo di massa le avevano relegate.
Per disfarsi della soggettività creatrice dell’artista e dei suoi tecnici,
con il Moulin à café Duchamp aveva cominciato a utilizzare il disegno
industriale e, concatenando il saper-fare tradizionale dell’artigiano
all’ipermodernità delle macchine, ha prodotto delle opere
meccanomorfe. Il readymade fatto dalla macchina, “sommato
all’impersonalità”33. Il readymade continua a stupire proprio perché si
trova al crocevia di così tanti problemi. La definizione più semplice
che Duchamp ne ha dato è quella di “un’opera senza un artista che la
realizzi”. È prima di tutto “un atto di sfida [...] alla divinizzazione”
dell’artista, il quale abbassa “il suo status nella società, al posto di
innalzarlo, di farne una cosa sacra”34. Non c’è artista che esprima la
sua interiorità e non c’è più creazione, allo stesso modo la funzione
classica dello spettatore è revocata, perché “l’idea di contemplazione
svanisce completamente”35.
A differenza del capitalismo contemporaneo che richiede
creazione ovunque, perché la soffoca dovunque, Duchamp diffida del
concetto di creazione. Il readymade si prende gioco della celebrazione
del genio artistico.
“La parola 'creazione’ mi fa paura. Nel senso sociale, normale, del
termine, la creazione è qualcosa di molto seducente, ma in definitiva
io non credo alla funzione creatrice dell’artista”36.
L’attività artistica è un’attività come un’altra. Il mercato dell’arte fa
della creazione la specificità della produzione artistica. Il suo valore è
determinato dalla rarità, dall’unicità e originalità del creatore.
“I readymade erano un mezzo per sbarazzarsi della
monetarizzazione dell’opera d’arte, che era solo al suo inizio.
Solamente nell’arte, l’opera originale è venduta e al contempo acquista
una sorta d’aura. Ma con i miei readymade, una copia andrà
comunque bene”37. Attraverso il readymade Duchamp voleva
“disfarsi dell’idea dell’originale” (e al contempo dell’idea della copia),
poiché “non ce nulla di unico [...] in realtà quasi tutti i readymade
esistenti oggi non sono degli originali nel senso usuale del termine”.
Ma se non ha niente di unico, se il readymade è prodotto senza la
virtuosità dell’artista e l’intervento della sua mano, il fatto di essere
imperativamente firmato, come vedremo più avanti, rischia di far
rientrare dalla finestra ciò che era stato fatto uscire dalla porta.
Il readymade è una tecnica dello spirito

Il readymade non segna solamente, o principalmente, il passaggio


dal mondo prosaico della merce a quello incantato dell’arte, né la
porosità delle frontiere tra arte e non-arte, e non costituisce più una
semplice combinazione (o choc) di cose tra loro eterogenee, come di
solito lo interpreta la critica d’arte contemporanea.
Le tecniche di Duchamp costituiscono delle procedure che
permettono di liberarsi da tutti i valori stabiliti (compresi soprattutto i
valori estetici) al fine di intraprendere una “transvalutazione di tutti i
valori” (Friedrich Nietzsche).
Il readymade non è né un oggetto, né un’immagine, poiché
bisogna “guardarlo girando la testa”. Non è necessario vederlo, basta
sapere che un’operazione o un gesto sono stati effettuati. Il readymade
non si indirizza e non stimola la retina, ci forza a pensare, a pensare
altrimenti, dando un’altra direzione allo spirito. Da questo punto di
vista possiamo definirlo come una tecnica dello spirito, una tecnica
che desoggettiva e produce una nuova soggettività allo stesso tempo.
Il readymade piuttosto che essere fabbricato, viene scelto. E la
scelta si effettua sospendendo non solo il ruolo dell’artista e della
creazione che gli è attribuita, ma anche neutralizzando i giudizi del
gusto, poiché il gusto è un’abitudine acquisita attraverso la ripetizione.
Tanto il bello che il brutto sono dei modi di giudicare, di sentire, di
vedere prestabiliti, sono dei pregiudizi, dei cliché. Per poter scegliere
un readymade, bisogna raggiungere la “libertà dell’indifferenza”,
ovvero la sospensione delle abitudini, delle norme e delle loro
significazioni sociali. “Per me la cosa interessante era estrarre
(l’oggetto) dalla sua sfera pratica o utilitaria, per portarlo in una sfera
completamente vuota, se volete, vuota di tutto, vuota a tal punto che
mi ha fatto parlare di anestesia completa”38.
Affinché emerga una nuova significazione, perché si produca
qualcosa di nuovo, bisogna passare per questo punto cieco che libera
dei possibili. Ed è a partire da questo punto vuoto, da questo punto di
non senso, che non vediamo più le stesse cose, che non percepiamo
più le stesse cose.
Da una parte questa scelta rimanda alla soggettività dell'artista,
dall'altra la neutralizza completamente. L'artista prende la decisione
estetica di limitarsi a scegliere, piuttosto che dipingere e produrre un
oggetto con le proprie mani. Ma questa scelta lo porta precisamente in
quella dimensione in cui la razionalità, il controllo cosciente del
soggetto e del suo spirito sono sospesi. Ozioso, si lascia andare e si
situa in una temporalità, in una durata “vuota”, dove non è più
l'artista a scegliere. “Come sceglie un readymade?”, qualcuno ha
chiesto a Duchamp. “È lui che ti sceglie, per così dire”. Il readymade
deriva da una scelta deliberata che apre a una dimensione in cui non
c'è più alcuna scelta, ma dove qualcosa succede, dove qualcosa
accade. Il readymade è un incontro, un appuntamento (“ciò che conta
è la data, detto altrimenti, il giorno e l’ora”), la traccia di un evento.

Contro il linguaggio

Duchamp non crede al linguaggio, “il linguaggio è un errore


dell’umanità”. Per raggiungere il vuoto, l’anestesia completa -
condizione per creare dei nuovi blocchi di possibile - bisogna
sospendere tutte le significazioni veicolate dal linguaggio, che come il
gusto, non sono che delle abitudini cristallizzate attraverso la
ripetizione.
“Dal 1913 l’ardore sovversivo di Duchamp si è diretto contro il
linguaggio”39, così comincia l’introduzione di Michel Sanouillet
all’edizione inglese degli scritti di Marcel Duchamp. L’anartista diffida
del potere conformista del linguaggio, poiché “al posto di esprimere
dei fenomeni subcoscienti, in realtà, crea il pensiero attraverso e dopo
le parole”40, operando così un’astrazione che cancella ogni differenza
e ci impedisce l’accesso alla dimensione molecolare dove si da il
divenire, dove si produce il cambiamento. “Sarebbe meglio”, dice
Duchamp, “cercare di attraversare l’intervallo dell’infrasottile che
separa due ‘identici’ piuttosto che accettare convenzionalmente la
generalizzazione verbale per cui due gemelli assomigliano a due gocce
d’acqua”41.
Tutti i readymade sono accompagnati da dei giochi di parole il cui
compito è quello di orientare differentemente il pensiero, facendoci
uscire dal linguaggio, dalla grammatica e dalla sintassi che, prima di
essere dei segni linguistici, sono segni di potere. Perfino con le parole
Duchamp utilizza la tecnica del readymade, estraendole dalla loro
sfera comunicazionale e facendole funzionare in tutt’altro contesto. I
calembour non sono giochi di una mente mediocre. Duchamp vi trova
“una fonte di stimolazione sia in ragione della loro sonorità che per i
loro significati imprevisti, legati alle relazioni tra termini disparati [...].
Delle volte sopraggiungono cinque livelli di significazione diversi. Se
introducete una parola familiare in un ambiente alieno, otterrete
qualcosa di simile alla distorsione in pittura, qualcosa di sorprendente
e di nuovo... ”42.
Duchamp non comprende i segni nell’opposizione saussuriana
significante/significato. Da una parte sono segni-potenza, poiché
forzano a pensare in un’altra direzione, dall’altra parte, come la freccia
introdotta con il Moulin à café, non rappresentano niente, ma
costituiscono lo “schema, il diagramma del movimento”43. “La
soluzione della freccia mi piacque molto, il tema diagrammatico era
interessante dal punto di vista estetico”44. Altrove ritornerà su questa
questione: “dopo tutto, un quadro è il diagramma di un’idea”.
I segni diagrammatici delle grandi macchine scientifiche,
economiche e monetarie non rimandano a una realtà già costituita, ma
simulano e pre-producono una realtà che non esiste ancora, una realtà
che esiste solo virtualmente. L'esistenza, al posto di essere già data (e
quindi da rappresentare), costituisce la posta in gioco dei
concatenamenti artistico-sperimentali e teorico-politico-sperimentali
in altri campi. D’altra parte, “la tirannia della rappresentazione”, di
cui Duchamp parla in un’intervista, riguarda tanto l’arte che il
linguaggio. Con il readymade Duchamp abbandona la
rappresentazione, si accontenta di convocare la realtà stessa (una
merce industriale, un urinatoio, un porta-bottiglie), come aveva
cominciato a fare il cinema qualche anno prima, tecnica che richiede
una nuova semiotica, una “semiotica della realtà”, come direbbe Pier
Paolo Pasolini. Con il readymade non abbiamo a che fare con una
rappresentazione, ma con una “presentazione”.

Rose Sélavy

Il rifiuto del lavoro in Duchamp, a differenza della tradizione del


movimento operaio, non ha né come presupposto, né come risultato,
una soggettivazione fondata su un’antropologia e un’etica del lavoro.
La nuova definizione del rifiuto del lavoro sovverte tutte le identità
sociali e sessuali, aprendo a delle sperimentazioni soggettive.
“Nel 1920, ho deciso che non mi era sufficente essere un solo
individuo, ho voluto cambiare il mio nome, soprattutto per i
readymade, per dare a me stesso un’altra personalità - capite,
cambiare semplicemente di nome”45.
Dopo aver esitato tra molti nomi ebraici, Duchamp applica
rigorosamente le tecniche elaborate in precedenza, per scegliersi
contemporaneamente un nuovo nome e un nuovo divenire “sessuale”.
“Rose Sélavy, nata nel 1920 a New York, nome ebreo, cambiamento di
sesso - Rose, il nome più ‘brutto’ per i miei gusti, e Sélavy, un facile
gioco di parole. C'est la vie”46.
Duchamp confida sempre nell’azione oziosa, perché questa
funziona come un operatore di disidentificazione. L’introduzione
dell’azione oziosa in un mondo fondato sull’attività, sconvolge le
identità e in particolare quelle sessuali.
Dall’antichità, l’attività (sessuale, politica, produttiva) è stata
identificata con l’uomo. La donna è, al contrario, l’incarnazione
dell’inattività e della passività. La democrazia greca celebra l’azione
politica come un ambito riservato esclusivamente agli uomini. La
democratizzazione della schiavitù, attuata dal capitalismo (“il regime
salariale è peggiore della schiavitù”), mette al centro non più l’azione
politica ma la produzione. Tuttavia i produttori sono ancora e sempre
degli uomini e il lavoro ancora una manifestazione di virilità.
La distinzione tra attività (maschile) e inattività (femminile) si
ritrova ancora nelle nuove scienze, come la psicanalisi, che si
affermano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. Per Freud
l'attività è rappresentata dal pisello del padre, e se non ce l'hai diventa
problematico, perché con Fazione castrata ti manca naturalmente
qualcosa.
La permanenza di Duchamp negli Stati Uniti, gli da l'occasione
per disfarsi completamente della sua identità (“io vorrei quasi
liberarmi di me stesso”), non solo della sua identità di artista. “Ero
molto contento di essere sradicato, perché quello che temevo era
l'influenza su di me delle radici. Volevo sbarazzarmene”.
L’azione oziosa è un’operazione di declassificazione, di sottrazione
agli assoggettamenti e soprattutto all’identificazione con la propria
professione. “Lei rifiuta di essere chiamato pittore, come anche uomo
di lettere [...]. Qual è dunque la sua professione?” Risposta di
Duchamp: “Perché volete a tutti i costi classificare la gente? Che cosa
sono? Un uomo, semplicemente un 'respiratore' [...]”47.
3. LA DOPPIA PRODUZIONE

Il concetto di produzione si presta a una doppia lettura. Da una


parte descrive il funzionamento della produzione capitalista e
dall’altra parte quello della produzione di soggettività fondata sul
rifiuto della prima. Cominciamo dall’economia. “Un'opera in sé non
esiste. Sono gli spettatori che fanno i quadri”48. Da questa
affermazione si può trarre una teoria del valore secondo la quale il
valore in sé non esiste, è la relazione che crea il valore.
L’artista ama credere al “valore intrinseco della sua opera. Io non
ci credo affatto. Credo sinceramente che il quadro è fatto tanto dallo
spettatore quanto dall’artista”49.
Il valore di un’opera non rinvia né al lavoro né all’utilità. A una
teoria sostanziale del valore, Duchamp sostituisce una teoria
relazionale che per molti aspetti anticipa largamente il funzionamento
dell’economia contemporanea, dominata dalla finanza.
Da una parte, il valore si determina nel rapporto tra l’artista e il
pubblico. L’opera è una co-produzione, un prodotto a due poli "lo
spettatore è colui che fabbrica, e la scintilla che viene da un’azione
bipolare dà luogo a qualcosa - come l’elettricità”50. Il pubblico, nella
forma di spettatore attuale o futuro, porta l’opera nel “reale” e le
conferisce il suo “valore sociale”. L’artista non è il solo a compiere
l’atto di creazione, poiché lo spettatore stabilisce il contatto con il
mondo esterno, decifrandone e interpretandone l’opera, e così
aggiunge il suo proprio contributo al processo creativo. Jacques
Rancière ha potuto presentare il suo “spettatore emancipato, che
osserva, seleziona, compara, interpreta”51, come una novità solamente
perché ha completamente fatto passare sotto silenzio Duchamp.
“Do a colui che guarda (l’opera) tanta importanza quanto a colui
che la crea” e forse ancor più al pubblico poiché in questa relazione
esso non apporta solamente il suo giudizio, ma anche, e soprattutto, il
suo denaro.
Dall’altra parte, il pubblico è a sua volta la produzione di nuove
autorità culturali (critica d’arte, musei, stampa, curatori, ecc.) e
soprattutto dell’industria culturale che gestisce tutto questo mondo.
“Non sono gli artisti che decidono, sono le autorità, ovvero gli
spettatori di ogni epoca, gli esperti, gli spiriti superiori di queste
epoche che sono tanto importanti quanto l’uomo che fa (l’opera)”52.
Ma il denaro è certamente l’attore principale, perché la sua
introduzione nella relazione tra colui che guarda e colui che fabbrica,
ne determina lo sconvolgimento, e questa stessa relazione va a essere
sovradeterminata e organizzata dalla “speculazione”. Il mercato
dell’arte ci ha dato molto presto un’immagine del rapporto che
l’economia “reale” intrattiene con la “speculazione”.
“Era subito dopo la Prima guerra mondiale, quando un certo tipo
di persone pensavano di comprare per speculare”53.
Duchamp sposta le procedure di valutazione verso il pubblico,
verso l’autorità, ma naturalmente è la speculazione che funziona da
valutazione delle valutazioni (esattamente come la finanza oggi). La
procedura di valutazione più astratta interviene sulla relazione di
produzione e ne comanda le modalità (velocità, ripetizione accellerata,
quantità, ecc.).
“In soli dieci minuti si può fare una cosa che vale tantissimo.
Allora per colui che compra e per l’artista c’è la tentazione di servirsi
di questa cosa per soddisfare il bisogno di speculazione che si è
sviluppato poco a poco, poiché è una forma di concorrenza”54.
Duchamp chiama gli “speculatori” parassiti, truffatori o ricattatori,
perché non intervengono direttamente nella produzione. In realtà
sono decisamente interni alla relazione e costituiscono anche un
“onlooker” (spettatore), ovvero un valutatore particolare, del tutto
specifico dal momento che esercita un'enorme potere nella
determinazione del valore. Mike Wallace, intervistando Duchamp nel
1961, rimase scioccato dal ritratto spietato dell'arte moderna che egli
tracciava. Spiega Duchamp: “Per truffa intendo: fare del denaro con
dei falsi pretesti. In altri termini, la pittura che voi comprate a dieci
centesimi oggi, varrà forse meno di tre in vent'anni. Detto altrimenti,
non c'è del valore reale definitivamente attribuibile alla pittura, poiché
il valore estetico si trasforma in valore monetario. Così è un racket
quando voi approfittate del momento, quando potete fare del denaro
con la pittura, facendo molti quadri e molto denaro"55.
La speculazione introduce l'infinito della valorizzazione capitalista
nella sfera dell'arte (il denaro che produce denaro, come in tutte le
altre attività capitaliste). Duchamp è perfettamente cosciente di questa
dinamica e della crisi che essa implica. “Credo che i prezzi [...] siano
inquietanti. Se la moneta aumenta, bisogna che continui ad
aumentare. Può una cosa numerica aumentare indefinitivamente? [...]
Se essa non aumenta, ci sarà ciò che si chiama un crack, un tracollo
dovuto a una catastrofe politica o ad altre cause"56.

Il capitalismo del consumo

L'introduzione problematica del readymade nel mercato dell'arte


ci insegna molte cose sulla natura dell'economia contemporanea.
“Non ho mai avuto l'intenzione di vendere il mio readymade.
Pertanto è stato un gesto per mostrare come si potesse fare qualcosa
senza cadere nell'idea di poterci fare dei soldi”57.
Quando negli anni Sessanta, Arturo Schwarz, artista e gallerista di
Milano, volle mettere i readymade sul mercato, compie, con il
consenso dell'anartista, le tre operazione che Duchamp aveva
precedentemente rifiutato: la ripetizione (riproduce otto copie di
Fontaine e di altri readymade), la monetarizzazione (attribuisce loro
un valore monetario) e l’estetizzazione (ne fa delle opere d’arte).
Duchamp non è vittima della contraddizione (parla anche di
“contraddizione assoluta, ma questo è gradevole”) e giustifica il suo
comportamento in un’intervista alla BBC. Alla domanda “anche lei,
scegliendo alcuni oggetti e firmandoli con il suo nome, ha creato un
oggetto prettamente commerciale”, rispose senza la perspicacia
abituale: “I prezzi sono molto bassi comparati a qualunque altro
dipinto, le copie sono strettamente limitate e bisogna che i readymade
siano firmati. Sono firmati. Sono numerati”58. Infine Duchamp
riconosce che, “suo malgrado”, ha contribuito a qualcosa che si
chiama “arte” e, sotto la pressione delle avanguardie degli anni
Sessanta che l’avevano riscoperto e adulato, anche a qualcosa
chiamato mercato.
“Mi dispiace, ma se non l’avessi realmente fatto, sarei passato
totalmente inosservato [...]. Ha ragione, ci sono senza dubbio un
centinaio di persone che hanno rinunciato all’arte, che l’hanno
condannata e che hanno provato a se stessi che questa non era
necessaria, come la religione ecc.. Chi se ne interessa? Nessuno”59.
Duchamp è cosciente dell’inevitabile sbocco commerciale che
l’operazione d’estetizzazione comporta.
Nuovo realismo, Pop art, Assemblage sono una “distrazione a
buon mercato che vive di quello che ha fatto Dada. Quando ho
scoperto i readymade, speravo di scoraggiare il carnevale
dell’estetismo. Ma i neo-dadaisti utilizzano i readymade per scoprirvi
un valore estetico. Ho gettato loro in testa il porta bottiglia e
l’orinatoio come una provocazione ed ecco che ne ammirano la
bellezza estetica”60.
Duchamp testimonia una difficoltà, quella di mantenere la
posizione che aveva scelto: né dentro, né fuori, ma sempre al limite.
Egli testimonia soprattutto della difficoltà o dell’impossibilità di
praticare il rifiuto del lavoro solamente in modo individuale. Perché il
suo tentativo di sfuggire al processo d’integrazione nell’economia,
limitando il numero di copie, firmandole e numerandole si rivela
impotente? Perché la firma, la ripetizione e la numerazione sono le
condizioni affinché un’opera entri nel mercato. Nella società
capitalista la firma è sia l’affermazione dell’identità che della
proprietà, come Duchamp sapeva bene, essendo figlio di un notaio.
La firma come salvaguardia dell’originale e della proprietà sono le
condizioni della produzione e del consumo contemporanei. Quando
comprate un prodotto di lusso (Louis Vuitton, Prada, ecc.) o anche un
prodotto di consumo corrente (Adidas, Nike, iPhone, ecc.), non
pagate il prodotto, ma la firma e comprate in realtà il marchio
(l’autore). La contraffazione, in quanto “critica” pratica
dell’economia, è per questa, un crimine (contro il marchio e contro la
proprietà) e braccata in quanto tale. Duchamp aveva giocato con la
firma moltiplicandola per demoltiplicare e così disfare l’identità (e
l’autore). Come ricorda Thierry Davila, Duchamp era “Totor, quando
scriveva a Henri-Pierre Roché, Roger Maurice o Morice quando
scriveva a Brancusi, Marcel Dee, Dee (Vorced), (Marcel) Duche, Rose
Narcek, Stone of Air, Duche, Sélavy, Marcel à vie, Rose, Marcel Rose e
Marcelavy, Marcel Duchamp allo specchio...”61.
Ma con il mercato, la firma deve perdere il suo carattere critico,
ironico, umoristico e designare la marca e la proprietà senza alcun
equivoco possibile (sotto pena di sanzioni giuridiche)62. Mentre,
secondo il desiderio dell’anartista, “la miglior opera d’arte che si possa
fare” è il silenzio, perché “non si può firmarlo e tutti ne profittano” -
definizione poetica di un diritto d’uso “comunista”63. Duchamp
considerava la riproduzione in serie limitate come legittima; al
contrario “i multipli, arrivando alle 150, 200 copie [...] divengono
veramente troppo volgari”. Ma una volta che la porta alla ri-
produzione in serie è stata aperta, l’industria del consumo di massa
personalizzato si occupa del resto, poiché essa ha tutte le
caratteristiche di “un multiplo” (riproduzione “infinita” dell’originale
firmato e ferocemente difeso dalle leggi della proprietà intellettuale).
4. LA PRODUZIONE COME PROCESSO DI
SOGGETTIVAZIONE

Ciò che bisogna riprodurre non è tanto l'oggetto (readymade)


quanto la singolarità dell’esperienza soggettiva dell'anestesia,
dell’incontro, dell'evento, di cui l'oggetto ne costituisce solo la traccia.
Per rifiutare e resistere all'impoverimento e all'uniformizzazione della
soggettività imposte dal “lavoro”, Duchamp ci invita a pensare il
“processo creativo” come un processo di soggettivazione, e l’artista
come un medium. Il processo creativo non riguarda solo la creazione
artistica, ma è presente in tutte le attività.
Duchamp piuttosto che descrivere la produzione dell'oggetto
artistico cerca di “descrivere il meccanismo soggettivo che produce
un’opera d’arte”64. Che l’opera sia bella, brutta o indifferente, poco
importa, perché il principio e la misura dell’arte duchampiana non
sono la “bellezza”, ma la “disposizione ad agire” per la trasformazione
della soggettività. Per descrivere l’attività dell’artista, egli utilizza una
metafora inusuale che ridefinisce profondamente la sua funzione:
l'artista agisce come un essere medianico”65 (come uno sciamano,
direbbe Beuys in continuità con questa tradizione), ritornando
sistematicamente al punto di emergenza della soggettività.
Le tecniche dell'artista-medium sono tecniche dello spirito e
tecniche della produzione del sé che fanno emergere focolai di
soggettivazione, lavorando, a partire da questo punto di emergenza, al
loro divenire e alla loro costruzione. Cattività dell'artista-medium deve
allora svilupparsi “prima” che la soggettività si fissi in una
“ripetizione”, prima che i focolai di mutazioni potenziali soggettive si
cristallizzino in abitudine. Per raggiungere questo punto a monte del
soggetto, per raggiungere le forze pre-individuali, le loro intensità, le
loro temporalità processuali e mutanti, non bisogna “pensare a
niente”, l'anestesia completa che abbiamo già analizzato con il
readymade. La rottura dell'esperienza ordinaria apre allora a un'altra
dimensione, a un “labirinto oltre il tempo e lo spazio”, ovvero a un
tempo generativo, a una proliferazione di possibili. Questa rottura
delle coordinate spazio-temporali ordinarie dell'esperienza sensibile
non ci riporta a una soggettività “originaria”, che basterebbe liberare
dall'assoggettamento e dall'asservimento affinché fiorisca. Essa ci offre
solamente il suo punto d'emergenza, che apre a una processuale che
emette in modo immanente le sue regole, le sue procedure, le sue
tecniche, con le quali la soggettività può metamorfizzarsi.
Il lavoro di costruzione dell'opera sensibile, per la quale si
produce questa metamorfosi, oltrepassa tanto l'artista quanto lo
spettatore. Per Duchamp l'artista non è mai “pienamente cosciente”
della sua attività. C'è sempre uno scarto tra ciò che aveva progettato
intenzionalmente e ciò che realizza effettivamente, e non può mai
controllare gli effetti prodotti sullo spettatore, perché quest'ultimo, a
sua volta, interviene attivamente nel processo, decifrando e
interpretando l'attività dell'artista e ciò che essa produce. Il transfert
di soggettivazione tra l'artista e lo spettatore, opera un'osmosi”, una
“transustanziazione”, una “transmutazione'', termini che indicano il
passaggio da una sostanza a un'altra e che per Duchamp designano il
passaggio da un modo di soggettivazione a un altro. L'artista-medium,
collegandosi e collegandoci a delle forze che ci eccedono, non
produce un oggetto ma una serie di relazioni, di intensità, di affetti
che costituiscono altrettanti vettori di soggettivazione. Piuttosto
dell'oggetto e dell'opera, sono le trasformazioni “incorporee” operate
dal processo creativo (la transustanziazione delle materie inerti
utilizzate) a interessare Duchamp. Il processo creativo è un atto
estetico nel senso che sposta e riconfigura il campo di esperienza
possibile e costituisce un dispositivo di fabbricazione di un nuovo
sensibile e di una nuova “materia grigia”.
Ciò che qui Duchamp enuncia sono anche le condizioni e gli
effetti che caratterizzano una rottura politica, una smobilitazione, che
allo stesso tempo sospende le relazioni di potere stabilite e apre lo
spazio a un processo di costruzione di una nuova soggettività. Ma
sempre a partire da un rifiuto, da una rottura. L’arte contemporanea,
al contrario, senza il rifiuto del lavoro, tanto artistico che salariato,
diventa una facile preda del capitale. Si trasforma in una delle risorse
di estetizzazione del consumo e di ogni altra relazione di potere.
La ripetizione, la monetarizzazione e l'estetizzazione, che
l'anartista aveva cercato vanamente di limitare, sono state assunte e
completamente impiegate dal l’opera di Andy Warhol, compimento
della “capitolazione” evidente dell’artista, poiché al posto del rifiuto,
egli rivendica un’adesione totale ai valori e alla logica del mercato, del
denaro, del consumo: “L’arte degli affari è il momento che succede
all’Arte [...] durante l’era hippie la gente disprezzava l’idea degli affari
- dicevano ‘il denaro è nocivo, e il lavoro è nocivo’, ma fare del denaro
è un’arte, lavorare è un’arte, e i buoni affari sono la più bella delle
arti”66. Messa in scena della “mercificazione assoluta” secondo Jean
Baudrillard, l’arte non esprime alcuno scarto nei confronti di un
potere che, al contrario, si contribuisce a rappresentare come assoluto
(dove non ce spazio possibile per il secondo concetto di “produzione”
duchampiano). Se la figura dell’artista si confonde a quella del
businessmen e della star, se la Factory corrisponde esattamente al
funzionamento dell’impresa contemporanea, allora non ce nessuna
condizione per pensare l’arte come “tecnica dello spirito”, dispositivo
di soggettivazione, tecnica del sé o ancora sistema di segni che forzano
a pensare e a sentire, e non c’è più la possibilità di pensare la funzione
dell’artista come “medium” della soggettivazione.
I critici d’arte comparano lo stile di vita di Duchamp al dandismo,
mentre il suo comportamento è più vicino a quello dei filosofi cinici,
soprattutto per quanto riguarda il suo intervento nello spazio
pubblico (provocazioni iconoclaste, choc, erotismo - che era molto
importante67 - giochi di parole, umorismo, ecc.). Warhol, al contrario,
è la realizzazione del cinico nel senso contemporaneo del termine.
Duchamp è stato fra i primi a comprendere che nelle “società di
controllo” - che hanno iniziato a delinearsi nel campo artistico con
largo anticipo sugli altri settori - l'arte come istituzione, l'arte “nel
senso sociale del termine”, come lui la definisce, non rappresenta più
una promessa di emancipazione, ma costituisce, al contrario, una
nuova tecnica di governo della soggettività: “l'arte è una droga ad
assuefazione. Serve come sedativo per la vita che viviamo”68. Solo il
rifiuto può aprire la possibilità, non di un accesso all'arte per nuovi
pubblici (la loro “acculturazione democratica”), ma alla costituzione e
al potenziamento di una capacità di agire sul reale che sembra
terribilmente mancare alla nostra epoca. “Lo choc verrà
probabilmente da qualcosa d'interamente nuovo, dalla non-arte,
dall'anarte, da ciò che non ha niente a che fare con l'arte e allora
qualcosa sarà prodotto. Dopo tutto, la nozione di ‘arte' significa
etimologicamente 'agire', non 'fare', ma 'agire'. Nel momento in cui
agite, siete degli artisti. [...] In realtà non lo siete, non vendete
un'opera, ma fate un'azione. In altre parole, arte significa azione,
attività di ogni tipo. Chiunque. Tutti. Ma nella nostra società abbiamo
deciso di distinguere un gruppo chiamato ‘artisti', un gruppo
chiamato ‘dottori', e così via, tutto ciò è completamente artificiale.
L'arte, invece di essere incasellata in una struttura di questo tipo, con
una certa quantità di artisti in un determinato spazio, sarà universale,
una componente umana nella vita di tutti, ognuno sarà un artista”69.
L'azione capitalista, finalizzata sempre alla produzione di più
denaro, non ha unicamente degli effetti economici. Ci fornisce una
percezione e una sensibilità, dal momento che percepire e sentire sono
funzioni dell'azione. L'azione oziosa è agli antipodi di quest'azione,
per la quale il fine (il denaro) è tutto, e il processo non è nulla.
Quest'ultima letteralmente non esiste se non produce del denaro.
L'ozio, al contrario, è totalmente concentrato sul processo, sul
divenire della soggettività e della sua potenza di agire. “Modo: lo stato
attivo e non il risultato - lo stato attivo non ha alcun interesse per il
risultato.
[...]
Modo: esperienza - il risultato non deve essere tenuto in
considerazione - non presentando alcun interesse”70. Duchamp non
ha sacrificato la sua vita all'arte, al contrario, nella sua esistenza hanno
predominato la capacità di agire, la condotta e l'etica. L'arte è una
delle tecniche possibili per potenziare e ampliare la capacità di agire,
ma non l'unica.
“La cosa importante è vivere e avere un comportamento.
Questo comportamento ha ai suoi ordini la pittura, i giochi di
parole e tutto ciò che ho fatto dal punto di vista pubblico”71.
L’azione oziosa è incomparabilmente più “ricca” dell'azione
capitalista, poiché contiene dei possibili che non sono considerati
nella produzione economica, ma aprono a un divenire indeterminato
che bisogna costruire, inventare, prendersene cura. Dall’azione oziosa
non deriva un’estetica, ma una pragmatica esistenziale. Da una parte,
Duchamp dimostra che per agire altrimenti, bisogna vivere
differentemente, e dall’altra che nel capitalismo quest’azione non può
generarsi nel lavoro, ma nel suo rifiuto, che rimanda a un’altra etica, a
un’altra “antropologia”.
Il rifiuto del lavoro contemporaneo può generarsi nell’azione
oziosa per sviluppare le sue potenzialità politiche? Sicuramente,
perché, riprendendo le parole di Lafargue, una “follia” ancora più
“strana” si aggira per il pianeta: i dominati non chiedono più lavoro,
ma semplicemente impiego.
“Per lei la creazione non ha nulla a che fare con il lavoro, è sempre
stato...’'Un ostacolo. Penso che lavorare per vivere sia un’idiozia, ma
questa è un’altra storia’”72. È la nostra storia, perché questa idiozia
governa ancora il mondo.
PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA
1 Michel Foucault, La société punitive. Cours au Collège de France (1972-1973), Gallimard-
Seuil, Paris 2013.
MARCEL DUCHAMP E IL RIFIUTO DEL LAVORO
1 B. Marcadé, Marcel Duchamp. La vita a credito, Johan & Levi, Milano 2009, pp. 502-503.
Tutte le citazioni del testo nelle quali il nome dell'autore non è riportato esplicitamente
sono di Marcel Duchamp.
2 L’inoperosità del rifiuto del lavoro non è l'inoperosità” di cui parla Giorgio Agamben.
Quest’ultima appartiene alla “natura umana”, mentre il rifiuto del lavoro appartiene alla
lotta (politica) contro le assegnazioni a occupare una posizione e una funzione dettate dal
capitalismo. Il “far niente”, come dimostra Jacques Rancière a proposito di Stendhal, è un
prodotto della Rivoluzione, l’altra faccia “dell'agire” rivoluzionario, “poter tutto e, di
conseguenza, non far niente”. Secondo Rancière l’arte è obbligata a confrontarsi con questo
nuovo “principio plebeo”, che costituisce una genealogia possibile dell’ozio duchampiano.
3 C. Tomkins, The Afternoon Interviews, Badlands Unlimited, New York 2013, p. 87.
4 B. Marcadé, Laisser pisser les mérinos. La paresse de Marcel Duchamp, L’Echoppe, Paris
2006, p. 47.
5 Tomkins, op. cit., p. 87.
6 Ivi, p. 4
7 Marcadé, La vita a credito, op. cit., p. 466.
8 Tomkins, op. cit., p. 87.
9 Marcadé, Laisser pisser les mérinos, op. cit., p. 48.
10 Tomkins, op. cit., pp. 87-88.
11 Ivi, p. 25
12 Ivi, p. 76.
13 Ivi, p. 76.
14 O. Hahn, Entretien. Marcel Duchamp, “Express”, n. 684, 1964.
15 W. Seitz, What's Happened to Art?, “Vogue”, febbraio 1963.
16 F. Steegmuller, Duchamp Fifty Years Later, “Show”, febbraio 1963
17 D. Rougement, Marcel Mine de Rien, “Etant donné Marcel Duchamp”, n. 3, 2001.
18 M. Duchamp, Scritti, Abscondita, Milano 2005, p. 207.
19 R. Hamilton, Le Grand Déchiffreur, JRP/Ringier, Zurich 2009.
20 “Voi avete dichiarato che il Moulin à café era la chiave di tutta la vostra opera.” Duchamp:
“Sì. [...] Risale alla fine del 1911”. Tomkins, op. cit., p. 25
21 Ivi, p. 72.
22 Ivi, p. 48
23 “L’evento si manifesta come una rottura delle coordinate spazio-temporali. Marcel
Duchamp forza il punto di accordo in modo da mostrare come ci sia sempre dietro a queste
relazioni di discorsività temporale un possibile indice dell’evento, sul punto di
cristallizzazione al di là del tempo, che attraversa il tempo, trasversale a tutte le misure del
tempo.” Félix Guattari e Olivier Zahm (intervista), Félix Guattari et l'art contemporain,
“Chimères”, n. 23 (estate 1994).
24 Marcel Duchamp, Duchamp du signe, a cura di M. Sanouillet, Flammarion, Paris 1999, p.
135.
25 Hamilton, op. cit., p. 122.
26 Sergej Ėjzenštejn, Disney, Potemkin Press, San Francisco 2013, p. 17.
27 Ivi, p. 44.
28 Ivi, p. 28.
29 Ivi, p. 15.
30 M. Duchamp, Scritti, op. cit., p. 205.
31 Ivi, p. 279.
32 Ivi, p. 391.
33 “Non è forse quella che viene chiamata l’età delle macchine? Voglio dire tutto in questa
vita diventa meccanizzato. Se volete, tutto ciò crea un clima favorevole perché io sia attirato
dall’esprimermi in forma meccanografica, piuttosto che utilizzare il vecchio approccio della
pittura. Infatti, per uscire dalla tradizione, mi sono preoccupato di utilizzare un
procedimento meccanico. ”Tomkins, op. cit., pp. 48, 55.
34 Hamilton, op. cit., p. 122.
35 P. Collin, Marcel Duchamp parle des ready-made à Philippe Collin, L’Echoppe Paris, 1998.
36 P. Cabanne, Ingegnere del tempo perduto. Conversazione con Pierre Cabanne, Abscondita,
Milano 2009, p. 12.
37 J. Bakewell, Marcel Duchamp interviewed by Joan Bakewell, The Late Show Line Up, BBC
UK Television, 5 giugno 1968.
38 J. Neyens, Will Go Underground, intervista alla Radio Télévision Belge Francophone nel
1965. Trascrizione disponibile su “Tout-Fait. The Marcel Duchamp Studies Online
Journal”, n. 4, 2002. www.toutfait.com.
39 M. Sanouillet, Introduction, in “The Essential Writings of Marcel Duchamp”, Oxford
University Press, London 1973, p. 5.
40 M. Duchamp, The Portable Museum, a cura di E. Bonk, Thames and Hudson, London
1989, p. 252
41 M. Duchamp, Duchamp du signe. Suivi de Notes, a cura di M. Sanouillet e P. Matisse,
Flammarion, Paris 2008.
42 K. Kuh, Marcel Duchamp. The Artist's Voice: Talks with Seventeen Modern Artists, Da
capo Press, New York 2000, p. 89.
43 G. Charbonnier, Entretiens avec Marcel Duchamp, A Dimanche, Marseille 1994, p. 59.
44 Cabanne, op. cit., p 30. Francis Bacon stabilisce un rapporto tra il diagramma e il
possibile: “I segni sono realizzati e sono considerati come se tracciassero una sorta di
diagramma. E all’interno di questo diagramma si vedono impiantarsi possibilità di ogni
tipo”. Citato in D. Sylvester, Interviews with Francis Bacon, Pantheon Books, New York
1975, p. 56.
45 G. Viau, To Change Names, Simply, intervista alla Canadian Radio Television, 17 luglio
1960. Trascrizione disponibile su “Tout-Fait. The Marcel Duchamp Studies Online
Journal”, n. 4, 2002. www.toutfait.com.
46 Cabanne, op. cit., p. 64.
47 M. Sanouillet, Dans l'atelier de Marcel Duchamp, “Les Nouvelles littéraires”, 16 dicembre
1964.
48 J. Schuster, Marcel Duchamp, vite, “Le Surréalisme, même”, n. 2,1957.
49 Charbonnier, op. cit., p. 73.
50 Tomkins, op. cit., p. 31.
51 J. Rancière, Le spectateur émancipé, La Fabrique, 2008.
52 Charbonnier, op. cit., p. 73.
53 Tomkins, op. cit., p. 34.
54 Charbonnier, op. cit., p. 92.
55 M. Wallace, On the Hot Seat. Mike Wallace Interviews Marcel Duchamp, “Art History”, n.
23, 2000.
56 Charbonnier, op. cit., p. 88.
57 Tomkins, op. cit., p. 26.
58 Bakewell, op. cit.
59 Ivi.
60 H. Richter, Dada. Art and Anti-Art, McGraw-Hill, New York 1965, pp. 207-208.
61 T. Davila, De l'inframince: Brève histoire de l’imperceptible, de Marcel Duchamp à nos
jours, Editions du Regard, Paris 2010, p. 57.
62 “Mi sono impegnato per iscritto a non firmare più altri readymade per tutelare la sua
edizione”, scrisse Duchamp, a proposito delle edizioni Schwarz, al pittore americano
Douglas Gorsline che gli aveva chiesto di firmare readymade realizzati in precedenza alla
stipulazione del contratto fra Duchamp e il gallerista italiano. Marcadé, La vita a credito,
op. cit., p. 494.
63 Ibid.
64 M. Duchamp, The Essential Writings, op. cit., p. 138.
65 M. Duchamp, Scritti, op. cit., p. 161.
66 A. Warhol, The Philosofhy of Andy Warhol, Harvest, New York 1977, p. 92.
67 Volevo afferrare cose con la mente allo stesso modo in cui il pene è afferrato dalla vagina”.
68 Tompkins, op. cit., pp. 55-56.
69 Bakewell, op. cit.
70 M. Duchamp, Marcel Duchamp, Notes, nota 26.
71 Ibid.
72 Marcadé, Marcel Duchamp, op. cit., 285.

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