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C​ap I (Introduzione)

I 40 anni che separano la morte di Enrico IV e l’ascesa al trono di Isabel dalla morte di Fernando il cattolico costituiscono un
periodo di eccezionale importanza nella storia della trasformazione politica e culturale della Spagna.

A partire dal 1479 con la conclusione definitiva della guerra di successione per il trono di Castiglia e la contemporanea
ascesa di Fernando al trono d’Aragona, i due maggiori regni della penisola risultano uniti e i monarchi potranno avviare un
efficace politica di restaurazione dello stato e di riorganizzazione del regno.

Quanto alla congiunzione dei due regni è bene precisare che non si tratto di una raggiunta unità nazionale, configurandosi
piuttosto come una semplice unione personale e dinastica dalla quale restarono esclusi, oltre che l’apparato istituzionale ed
economico, lo stesso sistema monetario e doganale e la lingua. Per altro verso la politica di espansione condotta dalla
corona che si protrasse per l’intera durata del regno consentì sul fronte interno la riunificazione pressoché totale della
penisola e, su quello esterno, la scoperta del nuovo mondo e il controllo del mediterraneo. Le tappe di tale processo sono
ben note. La riunificazione della penisola fu il non facile risultato della decennale guerra con l’Islam per la conquista del regno
di Granada. Quanto al Portogallo furono i re cattolici ad avviare quella politica matrimoniale che però dette i suoi frutti solo
alla fine del secolo seguente.

Naturalmente lo straordinario sforzo espansionistico che nel giro di pochi decenni trasformò il debole e isolato regno
castigliano in una potenza mondiale, sarebbe risultato impensabile se, contemporaneamente, non si fosse operata una
radicale riforma dello stato, nel corso della quale i re cattolici si impegnarono nel raggiungimento di un doppio obiettivo
principale: porre fine al periodo di anarchia che aveva caratterizzato il regno di Enrico IV e restaurare il potere reale facendo
sì che la monarchia conquistasse forza e prestigio.

Quanto alla evangelizzazione delle comunità musulmane del regno di Granada, essa può considerarsi un episodio per
quanto rilevante di un problema più vasto e di più lunga durata: quello della coesistenza sul suolo della penisola iberica di
cristiani, ebrei e musulmani. L’epoca dei re cattolici segnò una svolta decisiva, ponendo fine all’atteggiamento di tolleranza
religiosa che aveva caratterizzato a lungo la storia della penisola. In tal senso si potrebbe dire che la nascita di uno stato
moderno finì col coincidere con la conclusione del plurisecolare processo di reconquista e che, nella concezione che
presiedeva al progetto dei sovrani di una nazione ideologicamente omogenea, l’unità politica del regno si fondava sul
presupposto dell’unità di fede religiosa. La conversione forzata dei musulmani costretti a convertirsi o ad abbandonare il
paese costituiscono i 3 momenti salienti con i quali quel progetto si concretizzò, lasciando alla Spagna futura una pesante
eredità i cui frutti non tarderanno a dare il loro contributo.

Se passiamo all’ambito più specificamente culturale è bene dire che su tale terreno il livello di rinnovamento va misurato in
rapporto al grado di ricezione e di assimilazione della cultura umanistica e che la funzione svolta dalla corona non fu meno
egemonica improntando il proprio intervento alla medesima opera riformatrice che ne aveva caratterizzato l’azione negli altri
settori.

La risposta più efficace al rinnovamento culturale arrivò non dalle case dei nobili e neppure dalla scuola palatina bensì dalle
università che, divenute nell’ultimo quarto di secolo i più importanti centri di educazione, videro impegnati alcuni dei migliori
maestri spagnoli e italiani nella formazione di quei giovani, sui quali la riorganizzazione amministrativa dello stato e la riforma
del clero dovevano fare maggiore affidamento. I funzionari pubblici, comunemente conosciuti come Letrados, furono i veri
protagonisti della riorganizzazione amministrativa dello stato voluta dai re cattolici: essi finirono coll’occupare tutti quei posti
che andavano dai corrigedores delle singole città fino ai membri del consiglio reale.

Risulta comprensibile come nell’accingersi a combattere la battaglia contro la barbarie medioevale, in nome dei nuovi principi
umanistici, Antonio de Nebrija scegliesse di cominciare da un’università, la più antica e prestigiosa della penisola: Salamanca
dove qualche anno dopo il suo insediamento come professore di grammatica si dotò dell’arma più efficace per ottenere la
vittoria nella difficile lotta che aveva intrapreso: un esile manuale intitolato Introductiones Latinae, col quale diverse
generazioni future sarebbero state avviate alla lettura dei classici latini.

La necessità di riformare il vecchio sistema educativo e in particolare quello dell’insegnamento del latino lo invitò a preparare
un’edizione bilingue del manuale.

Tuttavia pur nella pluralità delle forze in campo è facile supporre che le riforme e le conquiste culturali legate al movimento
umanista, avrebbero tardato ancora di più ad imporsi se non avessero trovato un valido alleato nella stampa. A ciò si
aggiunse un altro fattore che contribuì non poco alla circolazione delle idee; con una decisione delle cortes di Toledo veniva
assicurato il libero commercio nella penisola dei libri stampati all’estero.

La maggior parte dei libri pubblicati a cavallo tra i due secoli era costituito da opere di consumo strettamente peninsulare,
molte delle quali erano rappresentate da testi concepiti in funzione della loro utilità, come corpus di leggi, manuali, trattati.
Una percentuale non trascurabile era formata da opere classiche. Di queste però furono davvero pochissime le edizioni
originale, mentre abbondavano le traduzioni.

In ogni caso succede con frequenza che i traduttori colgano l’occasione dei prologhi per una riflessione sul rapporto tra la
lingua castigliana e il latino. Così nel pubblicare la sua versione delle bucoliche virgiliane, Juan de la Encina aveva modo di
esprimere la sua lagnanza.

L’episodio più significativo di nobilitazione del castigliano è rappresentato dal prologo di Nebrija alla gramatica castellana. Il
breve testo che è dedicato alla regina è largamente imperniato sul vincolo che l’autore stabilisce tra norma linguistica e norma
letteraria, attraverso il criterio dell’uso. Comunque se Nebrija esprime il convinto augurio che la propria lingua si trovi “tanto en
la cumbre que mas se puede temer el decendimiento de la que esperar la subida” per altro verso sostanzialmente denuncia
l’assenza in quella stessa di una tradizione letteraria illustre.

La questione viene ripresa 4 anni dopo da Juan de la Encina ne l’Arte de la poesia castellana con il riferimento al “Dotissimo
maestro Antonio de Lebrixa” e al suo prologo.

L’arte di Encina è l’unico testo di precettistica poetica in un’epoca che risulta avara di testi teorici in campo sia poetico che
retorico.

Sempre nel 1515 fu lo stesso Nebrija a dare alle stampe un trattato retorico nel quale come indica il titolo “Artis rhetoricae
compendiosa coaptatio ex Aristotele, Cicerone et Quintiliano”, l’umanista, ormai settantenne non offriva un lavoro originale
ma si limitava a compendiare i 3 grandi autori classici.

Cap 2

Un programma contro la moderna barbari: Nebrija e gli studia humanitatis

Nebrija enuncia il nucleo essenziale del programma umanistico: L’ignoranza della lingua latina è la causa principale dello
stato di decadenza in cui versano tutte le altre scienze e colloca a fondamento dell’intero ordinamento del sapere la
grammatica, il commento e l’imitazione degli autori classici, soprattutto i poeti, gli storici e i moralisti.

Nel penultimo decennio del 400 Nebrija ingaggia in Spagna la stessa “battaglia” contro i barbari che aveva intrapreso in Italia.
Prima che Nebrija imprimesse una decisiva svolta riformatrice, la situazione degli studi classici nella penisola iberica si
presentava simile a quella italiana anteriore a Valla e, per molti aspetti simile a quella contro la quale reagì Petrarca.

Nonché, nei primi ¾ del secolo le opere degli autori classici non avessero circolazione negli ambienti colti spagnoli; solo che
vi circolavano per lo più nei vari volgarizzamenti, essendo più rare le copie in latino.

Nebrija ottenne la cattedra di grammatica presso la prestigiosa università di Salamanca, dopo un lungo soggiorno bolognese.

Il momento decisivo in questa battaglia condotta contro la moderna barbarie fu costituito da un piccolo libro che, non contava
più di una 50ina di pagine: le “introductiones latinae”. Si trattava di un succinto manuale in cui Nebrija si proponeva di
insegnare ai giovani i rudimenti del latino. I criteri con cui compose il libello (piccolo libro) si fondavano sul rifiuto dei
grammatici medioevali, e sulla concezione della grammatica come arte, una grammatica cioè basata sull’uso degli autori
classici degni di essere imitati. In tal modo, alle introductiones Nebrija affidava il compito di costituire il momento iniziale di
quel programma umanistico che descriverà nella menzionata dedica alla regina. Il manuale ebbe subito un successo enorme.

Le poche decine di pagine di cui si componeva l’edizione del 1481 erano destinate a crescere nelle successive edizioni, dove
l’autore finì con l’assumere sempre più l’aspetto di una sorta di enciclopedia linguistica.
Il fatto è che, raggiunta ormai la piena maturità, Nebrija aveva spostato il suo interesse dall’impegno pedagogico a quello per
la ricerca filologica. Ciò è anche testimoniato dal fatto che lascia l’università di salamanca per mettersi al servizio di Juan de
Zuñiga, arcivescovo di Siviglia.

Allo studio Salmantino Nebrija fece ritorno nel 1504, dopo la morte del suo mecenate, e vi restò fino al 1513 anno in cui
dovette subire l’umiliazione di vedersi preferito per la cattedra di grammatica un certo Garcia de Castillo. Allora fu il grande
Cisneros a venirgli in soccorso, accogliendolo nell’università di Alcalà.

Torniamo al prologo dei volgarizzamenti delle introductiones dove, nella parte finale, Nebrija non esita ad annunciare un
opera, che nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto costituire una sfida per tutti quei letterati che, non avendo che una
conoscenza superficiale del latino classico, di fatto non potevano accedere ai testi fondamentali della loro disciplina.

Nel prologo dedicato alla regina Isabel, Nebrija riconosceva che la situazione spagnola era profondamente mutata.

L’intensa attività scientifica che lo tenne impegnato nei 30 anni e più che separano la sua morte dal volgarizzamento delle
Introductiones, dimostra che Nebrija rimase sostanzialmente fedele al progetto di una riforma di tutte le scienze. Fermamente
convinto che alla grammatica spettasse il compito di risanare tutte le altre scienze, Nebrija non rinunciò mai al titolo di
gramaticus, il che vuol dire che non tralasciò mai gli studi propriamente linguistici.

Nelle numerose edizioni commentate ad uso scolastico che Nebrija ebbe modo di curare, il posto maggiore è occupato da
quelle che riguardano i testi sacri e i poeti cristiani.

Comunque stiano le cose, il progetto annunciato nel prologo al volgarizzamento delle Introductiones, quello cioè di una
riforma di tutte le scienze condotta con la sola arma della filologia umanistica, costituì il filo conduttore degli studi che Nebrija
portò a termine nei diversi campi del sapere.

Maggiormente complesso è il caso della filologia biblica la quale implicava una triplice competenza linguista (latino, greco ed
ebreo), che però Nebrija ebbe il merito straordinario di possedere. Alla filologia biblica, egli dedicò le migliori energie della sua
maturità, e un tale sforzo si concretizzò, nella Tertia Quinquagena, una miscellanea in cui venivano discussi 50 “loci critici”
delle sacre scritture, col duplice intento di correggere gli errori della tradizione, e di chiarire il senso recondito di alcune parole
per dar luogo a una corretta interpretazione. Naturalmente affrontava le sacre scritture con gli unici strumenti a sua
disposizione, vale a dire quelli linguistici, limitandosi di conseguenza alla discussione di problemi testuali: l’accento,
l’ortografia, il significato dei termini. Che un grammatico entrasse, in un campo riservato ai teologi, introducendovi così una
prospettiva laica, non poteva certo essere ben tollerato, tant’è vero che la prima Quinquagena di Nebrija fu sottoposta a
confisca da parte dell’inquisitore generale.

La battaglia contro i barbari che Nebrija aveva intrapreso raggiungeva ora, con gli studi biblici, il punto più alto, perché ciò che
si veniva a dimostrare era il primato della grammatica niente di meno che sulle sacre scritture: per un umanista, il testo biblico
non sfuggiva alle leggi della lingua e, in quanto tale, poteva e doveva essere trattato con gli strumenti della grammatica. Era
inevitabile che Nebrija, nella sua attività di biblista si incontrasse col progetto della Bibbia Poliglotta, che il fior fiore degli
intellettuali spagnoli, ispirati da Cisneros stava portando a termine nell’altro prestigioso centro di studi universitari, quello di
Alcalà de Henares.

Il cardinale de Cisneros fu una delle personalità centrali dell’epoca dei re cattolici: confessore della regina, arcivescovo di
Toledo e primate di Spagna, inquisitore generale avviò un’importante riforma degli ordini monastici. L’ideale corso di studi di
un giovane che decidesse di iscriversi ad Alcalà era, dunque, di cominciare dalla grammatica, per passare poi alle arti liberali,
e finire con la teologia. Insomma la nuova università era stata concepita in funzione della formazione del clero spagnolo.

Nell’apologia, Nebrija espone una teoria dell’Emendatio del testo sacro, che risulta ispirata a principi diversi da quelli che, di lì
a qualche anno Cisneros adotterà per la Poliglotta.

La filologia biblica di Nebrija si iscrive a pieno titolo nella tradizione umanistica che prende le mosse dal Valla e giunge fino ad
Erasmo.

Se a Nebrija va il merito maggiore di avere introdotto in Spagna, almeno nei ristretti gruppi universitari le idee che erano alla
base dell’Umanesimo italiano, non bisogna però dimenticare che in quest’opera egli fu affiancato da altri intellettuali, alcuni
dei quali provenivano direttamente dalla nostra penisola.
Negli ultimi decenni del secolo la Spagna divenne meta di non pochi umanisti italiani, i quali, attratti dalla fama di ricchezza e
potenza che il paese si era guadagnato grazie ai suoi nuovi monarchi vennero a cercarvi una più vantaggiosa collocazione
come professori di grammatica, che in patria era forse più difficile ottenere. Su costoro ricadde spesso il compito di
provvedere all’educazione di un ceto aristocratico, che dava segni di nutrire un crescente interesse per la nuova cultura
umanistica, e per l’apprendimento del latino.

Quanto ai discepoli e continuatori di Nebrija, costoro portarono avanti la battaglia contro la barbarie col loro insegnamento, i
loro manuali di grammatica e i loro commenti ai testi latini.

Nell’ambito della corona d’Aragona, l’umanesimo si andò sviluppando con peculiarità proprie, tra cui conviene sottolineare il
carattere laico e, una maggiore propensione per la produzione in latino, piuttosto che per il lavoro filologico che, risultò essere
abbastanza scarso.

In conclusione, grazie all’opera dei discepoli le Introductiones di Nebrija avevano ormai conquistato l’intero territorio iberico.

Cap 3

L’intellettuale e il potere: gli storici e la fondazione dell’identità nazionale

Si noterà che col rafforzarsi dell’istituzione monarchica, la corona mostrò un crescente interesse per la storiografia, e ciò in
virtù della sempre maggiore importanza politica che le riconobbe.

La storiografia finì con l’assolvere a una duplice finalità. In primo luogo, la costituzione di una monarchia forte richiedeva che
il passato e il presente della nazione fossero sottoposti a una nuova visione, la quale fosse a sua volta ancorata a una
prospettiva maggiormente unitaria, rispetto alle ricostruzioni storiche dei precedenti decenni. In secondo luogo essendo la
monarchia impegnata in uno sforzo di proiezione all’esterno, la corona dovette sentirsi obbligata non solo a garantire una
maggiore conoscenza della Spagna all’estero, ma anche ad adoperare un rovesciamento dell’immagine spagnola, di un
paese cioè barbaro e marginale.

Questa duplice finalità, che la storiografia era chiamata a svolgere fu all’origine di una serie di conseguenze, che
riguardarono sia la figura del cronista regio, sia il tipo di ricostruzione storica che, più o meno direttamente, ci si attendeva da
lui, sia i nuovi modelli letterari.

Per quel che riguarda la prima questione, è noto che l’ufficio di cronista regio aveva acquistato un prestigio sconosciuto nei
precedenti decenni. Nel periodo dei re cattolici, tale processo fa ulteriori passi in avanti.

Quando Isabel salì al trono l’attività di cronista era svolta da Alfonso de Palencia; Palencia compose in latino la sua cronaca
che, però, il dissidio con la regina che si manifestò, fece sì che Palencia fosse sostituito da Fernando del Pulgar.

Ricevuto l’incarico dalla regina Pulgar si dedicò esclusivamente alla preparazione della sua opera storica che rimase inedita
ancora per molti decenni dopo la morte del suo autore, finchè non fu pubblicata nella versione latina di Nebrija. Una sorte
peggiore è toccata all’opera del Palencia dal momento che, nell’originale latino, essa rimase inedita. Palencia e Pulgar
coincidono, in larga misura, nell’incarnare la figura del cronista ufficiale come Letrado al servizio della corona che, sentiva di
contribuire con la sua opera al disegno di fondare l’identità nazionale, ed era perciò in grado di far sentire la sua voce che
ormai poco o nulla aveva a che vedere con quella dell’anonimo segretario di un tempo.

Se passiamo alla seconda metà del regno, alcuni episodi ci aiuteranno a comprendere meglio come l’interesse storiografico
della corona si fosse accresciuto col passare degli anni e come, la figura dello storico avesse subito ulteriori mutamenti.

All’inizio del secolo Fernando dette l’incarico a Lucio Marineo Siculo, di redigere una biografia di suo padre Giovanni II
d’Aragona. Pare che l’umanista siciliano vi lavorò intensamente nei primi anni del secolo e, per quanto l’opera non arrivasse a
vedere la luce autonomamente, tuttavia la biografia del re aragonese fu l’unica delle cronache latine dell’epoca ad essere
pubblicata in vita dell’autore. Fernando aveva affidato lo stesso incarico a Gonzalo Garcia de Santa Maria, giurista e storico
saragozzano, col mandato di comporre l’opera in latino prima e di volgerla al castigliano poi.

Sappiamo che il re ricevette il testo latino nel 1515; il volgarizzamento rimase invece lettera morta, a causa della morte del re.
Antonio de Nebrija fu nominato storico reggio della corona di Castiglia, col compito di redigere una cronaca latina del regno
dei re cattolici. E’ certo che Nebrija non fu chiamato a tale impegno in qualità di storico, bensì come grammatico. Le decades
non furono mai portate a termine da Nebrija, al contrario di quanto si verificò qualche anno più tardi con la più breve
Conquista del reino de Navarra, che Nebrija provvide a tradurre in latino col titolo di de bello Navariensi.

Il monarca, nel suo crescente interesse per la storiografia, che è testimoniato dal moltiplicarsi delle iniziative da lui avviate,
mostra di avere particolarmente a cuore la scelta linguistica, e ciò si spiega col fatto che la sua maggiore preoccupazione era
per un più ampio orizzonte culturale e, per un destinatario non solo spagnolo. All’opera storiografica affidava il compito di
rendere possibile la conoscenza del paese all’estero, con ciò mirando ad accrescere la reputazione della corona.

Secondo i canoni della più moderna storiografia umanistica, dallo storico della corona si pretendeva una rielaborazione dei
fatti più o meno lontani, che fosse in grado di servire parimenti la causa del patriottismo e quella propagandistica della
monarchia. Di fatti, la molteplicità dei punti di vista da cui gli avvenimenti erano stati spesso descritti nella storiografia dei
primi ¾ del secolo, doveva far posto a una prospettiva maggiormente unitaria, dalla quale il passato veniva ricostruito e
interpretato come una logica concatenazione di eventi che dalla triste confusione delle lotte intestine portava alla monarchia
dei re cattolici, intesa come culmine ed esito felice dell’intero processo storico.

Pulgar scrisse la cronaca castigliana più funzionale alla politica della corona in cui essa si collocava: il suo autore intendeva
mostrare la positiva trasformazione che la Castiglia aveva subito dall’unione di Fernando e Isabel alla conquista di Granada.
Una copia della cronaca del Pulgar fu consegnata a Nebrija perché la traducesse in latino. Abbiamo già visto come il grande
umanista non si limitasse alla traduzione, ma operò un vero e proprio rifacimento del testo di partenza. Nebrija mirò a due
scopi fortemente solidali: in primo luogo il complesso di aggiunte e soppressioni; in secondo luogo il processo di adattamento
nel privilegiare una maggiore coesione e compattezza del racconto storico.

Nebrija, nell’adattare la cronaca castigliana, prestò la dovuta attenzione alle esigenze della inventio, preoccupandosi di
evidenziare le cause, come pure di esporre e discutere i progetti dei protagonisti; né si sottrasse alle richieste della dispositio,
che soddisfece ordinando e distribuendo il materiale; infine ottemperò agli obblighi della elocutio, osservando la norma
capitale del decorum, e operando la scelta del latino.

E’ innegabile che Nebrija nelle sue Decades come nel De bello si sia ispirato ai modelli antichi, in particolare a Cesare,
Sallustio, Livio e Tacito.

Cap 4

La poesia fra intrattenimento cortigiano, gusto popolareggiante e rinnovata spiritualità.

1. Cancionero General

Nei primi giorni del 1511 usciva a Valenza il Cancionero General. Mettendo insieme un così vasto corpus di poesia Hernando
del Castillo ha finito col fornirci una testimonianza insostituibile dei gusti e delle tendenze poetiche che furono maggiormente
in auge nei decenni a cavallo tra i due secoli. La raccolta costituiva il primo canzoniere collettivo a stampa. La maggior parte
dei canzonieri manoscritti quattrocenteschi di fatti, erano organizzati secondo un criterio cosiddetto “nucleare”, vale a dire che
si era costituita una tradizione di canzonieri ognuno dei quali si era formato attraverso l’aggiunta a un comune nucleo
originario di un certo numero di nuove poesie la cui scelta era subordinata a condizionamenti geopolitici. Verso la fine del
secolo, tale criterio risultò superato e sostituito da più moderni criteri compositivi.

Tornando ai canzonieri e al loro compositivo, in quelli collettivi si impose il principio di classificare le liriche per generi metrici e
poetici, cosicché si configurarono intere sezioni che raggruppavano testi in base alle sole caratteristiche metriche, oppure in
base a comuni caratteristiche sia tematiche sia metriche.
Basta dare una rapida scorsa all’indice del Cancionero General per rendersi conto che Hernando del Castillo per raggruppare
le poesie antologgizzate, utilizzò più di un criterio. Agli estremi iniziale e finale del libro compaiono due sezioni ottenute con
un criterio tematico. Nella parte centrale, che per estensione costituisce il grosso dell’opera si alternano varie sezioni
suddivise o per autori o per generi poetici. Nelle sezioni tematiche o per autore il componimento viene rubricato come Obra o
Coplas.

Dei generi legati a strutture metriche peculiari, a cui il Cancionero general dedicava specifiche sezioni, la canzone era senza
dubbio quello maggiormente frequente. Nel corso del 400, la canzone aveva subito un lento processo di successive
trasformazioni, alla fine del quale, nell’epoca dei re cattolici, essa aveva acquistato una forma rigidamente definita, il che
ebbe come ovvia conseguenza quella di portare a una drastica riduzione delle varietà che aveva caratterizzato il genere nei
decenni precedenti.

Dal punto di vista metrico la forma più largamente diffusa fu quella che si componeva di 12 ottonari suddivisi in 3 quartine, le
quali corrispondevano ai 3 momenti strutturali di Cabeza, Mudanza e Vuelta. Le rime difficilmente superavano il numero di 4.
E’ nel paradigma del genere che alla prima quartina sia affidata la funzione di esporre il concetto, un topos della poesia
amorosa, che viene poi spiegato o glossato nella Mudanza, per essere infine ripreso nell’ultima strofa.

Nel descrivere la canzone, si è detto che essa si configura come la spiegazione o glossa di un concetto, spesso paradossale,
previamente esposto nella Cabeza. Questa propensione alla interpretazione e al commento trova la sua piena espressione in
quel genero poetico sui generis che è la glossa.

Nell’accezione più generale, invece, con “glossa” si intende un componimento che, dal punto di vista del genere metrico, può
essere di volta in volta un villancico, una canzone, un’esparsa ecc, ma si caratterizza per il fatto che prende a prestito un
breve testo poetico, quasi sempre preesistente per farne oggetto di commento e, inoltre, per incorporarlo a guisa di estribillo.

Massima espressione di una poesia intesa come intrattenimento cortigiano sono proprio quei generi a cui, per altri versi,
saremmo disposti a concedere una minore considerazione, come il motto, l’impresa, le domande e risposte. Si tratta di generi
che si caratterizzano per la brevità e la concentrazione espressiva, ma soprattutto per il loro esplicito legame col contesto
ossia con quella vita di corte, al di fuori della quale essi non avrebbero più alcun motivo di essere. Il motto, per esempio, era
costituito da un solo verso, un ottonario, a cui veniva affidata la sintetica espressione di un concetto, di un sentimento, o,
addirittura, di un progetto di vita.

Un’intera sezione del Cancionero general è dedicata al genere che, in ultima istanza, può farsi risalire alla tensò o al joc partit
provenzale, e che consisteva nello scambio di testi poetici tra due poeti, uno dei quali poneva una pregunta, generalmente
una copla real, e un altro forniva la respuesta con una strofa che riproduceva esattamente la struttura metrica della prima. Ma
è l’ultimo dei 3 generi brevi mensionati –l’impresa – che forse rivela maggiormente una concezione della poesia come
intrattenimento di corte da parte della raffinata aristocrazia tardomedioveale. L’impresa univa un immagine a una massima in
versi che esprimeva una regola di vita o un proposito personale di chi la portava. Ricamate sui bei vestiti di dame e cortigiani,
o sulle armi e bandiere dei cavalieri, le imprese facevano bella mostra di sé, e al tempo stesso fungevano da segno di
riconoscimento delle persone che le portavano.

Delle 6 sezioni che il Cancionero general dedicava ai generi con una peculiare struttura metrica, la penultima raccoglieva
poco meno di una 50ina di poesie col nome di “Villancicos” Il villancico era un componimento tipico di “tipo tradizionale” con
delle peculiarità riguardo sia alla forma metrica che ai temi e al linguaggio poetico. Verso questo tipo di componimento, gli
ambienti colti avevano sviluppato un interesse che si realizzò seguendo una doppia strada: da un lato, accogliendo e
conservando la produzione più antica e, dall’altro, sperimentando il nuovo genere del villancico colto, nato dalla confluenza
dell’imitazione del genere popolare nelle forme della poesia aulica. Potendo senz’altro rimandare la trattazione del primo tipo
al paragrafo sulla lirica tradizionale, per il momento rivolgeremo la nostra attenzione al villancico, quale concretamente lo
praticarono i poeti aulici della corte dei Re Cattolici.

Nella maggior parte dei casi però al poeta colto si deve l’intero componimento cioè l’insieme della canzoncina iniziale e delle
strofe che la glossano.

Insomma, non si trattava solo della poesia del Petrarca, ma, come questi ultimi esempi ben dimostrano, gli autori e i lettori del
cancionero general rivolgevano la loro attenzione anche contemporanea poesia italiana, anche se non sempre era facilmente
riscontrabile.
2. La lirica di tipo tradizionale

Negli stessi anni in cui a Valenza Hernando del Castillo era impegnato a raccogliere i testi poetici che avrebbero formato il
Cancionero General, presso la corte dei sovrani si andava compilando il Cancionero Musical de Palacio, una vasta raccolta
che riuniva il repertorio poetico musicale della cappella reale. Non si trattava di un’antologia letteraria ma di una compilazione
ad esclusivo uso degli esecutori di musica.

Naturalmente, l’inestimabile pregio del canzoniere non è quello di essere unico, bensì di costituire la fonte più ricca e più
varia di antica poesia popolare.

Tra i canzonieri spiccano quello conservato presso il British Museum e alcuni più tardi come quello sivigliano della Hispanic
Society del 1568.

Dovrebbe ormai essere chiaro che i testi dell’antica lirica popolare ci sono pervenuti grazie soprattutto all’interesse di cui essa
godette, in un determinato momento, negli ambienti colti. L’inizio di un tale interesse si suole datare alla metà del 400.

Poeti e musici di corte portarono così alla superficie una tradizione poetica che aveva sicuramente goduto di una grande
vitalità a livello orale. Insomma, prima di ricevere l’accoglienza dei canzonieri 4/500eschi che ce le conservano, queste poesie
parteciparono di un’antica tradizione che dovette svilupparsi lungo tutto il medioevo. “Popolare” non significa che queste
liriche siano state composte genericamente dal popolo. Con “popolare” si intende che queste canzoni avevano una diffusione
esclusivamente orale, e che la loro esistenza era legata alle innumerevoli esecuzioni che, nel corso del tempo si andavano
realizzando nella collettività.

Naturalmente le modalità della trasmissione non è che non abbiano avuto alcuna conseguenza sulla loro stessa natura.
Innanzitutto, si tratta di una poesia che vive di varianti, vale a dire che una singola poesia si realizza in una molteplicità di
versioni più o meno distanti tra loro, le quali dipendono dalla continua rielaborazione a cui la poesia era soggetta nella sua
lunga e complessa vita collettiva. Ma si tratta anche di una poesia dotata di ben precise peculiarità tematiche stilistiche e
metriche, il che dipende ancora una volta dal tipo di trasmissione cui era legata.

E poiché si riteneva che nel popolo fosse rappresentato uno stadio primitivo dell’umanità. Di conseguenza si finiva per
concedere ai suoi prodotti culturali il seducente privilegio di una maggiore prossimità allo stato naturale. Gli ambienti colti si
decisero ad accordare maggiore alle canzoncine popolari. La contraddizione è solo apparente; il fatto che uno stesso
ambiente culturale e lo stesso poeta potesse praticare una lirica così preziosisticamente concettosa divenendo protagonista
di un recupero estremamente sofisticato ed elitario della poesia popolare ed anonima, può sorprendere solo chi non è
avvezzo a considerare che è proprio dei circoli culturalmente evoluti, mostrarsi parimenti inclini verso quei caratteri di
semplicità e schiettezza, che non a caso e non di rado si finisce per ritrovare nei prodotti autenticamente popolari. In
conclusione, nell’ultimo quarto del secolo, i tempi erano ormai maturi perché i letterati della corte dei Re Cattolici si facessero
interpreti di un gusto che altrove aveva raggiunto esiti simili, se non identici, di osmosi fra il livello basso e quello alto
dell’espressione lirica.

All’epoca dei Re Cattolici, il villancico con estribillo di tipo popolare non aveva ancora raggiunto presso i poeti lirici quel
prestigio di cui godrà alcuni anni più avanti.

Poiché sappiamo che è grazie all’interesse mostrato dagli ambienti colti che la poesia tradizionale, è pervenuta fino a noi, non
è vano chiedersi quale sia stato il prezzo che essa ha dovuto pagare alla mediazione in cambio della conservazione.

La sopravvivenza di testi scarsamente documentati e che non configurano in opere di grande diffusione, per esempio, può
costituire una buona garanzia circa la loro autenticità popolare. Altri criteri consistono nella coincidenza con poesie popolari
anteriori, oppure nella plurima testimonianza di fonti prive di relazioni tra loro o, ancora, nella maggiore affidabilità di quelle
raccolte preparate con finalità più vicine al procedimento scientifico, come le antologie di proverbi, i trattati di grammatica,
musica, lessicografia. Insomma esistono dei solidi criteri che permettono di garantire l’autenticità dei testi.

Cominciamo col dire che il villancico poteva assumere due forme: poteva limitarsi a una breve canzoncina, oppure poteva
essere costituito da una composizione più complessa nella quale la canzoncina rappresentava l’elemento di base.
Quando alla canzoncina iniziale fa seguito lo svolgimento di una o più strofe, queste, pur presentando una discreta varietà
medica, finiscono per rientrare in un tipologia alquanto ridotta. Una buona parte dei villancicos che conserviamo è composta
di distici.

Tutte le forme che abbiamo finora esaminato possono presentare una struttura parallelistica. Il procedimento consiste nel
parallelismo delle singole strofe, che ripetono la stessa struttura sintattica e lessicale con l’introduzione di minime varianti.

Il tema centrale di queste canzoni tradizionali è costituito dall’amore, che trova spesso diretta espressione in una figura
femminile, la quale vi compare per lo più nelle vesti della graziosa fanciulla desiderosa di ottenere l’amore dell’uomo cui si è
arresa e si lamenta per l’assenza dell’innamorato e la solitudine che patisce, oppure per l’infedeltà dell’amante e la gelosia
che prova.

In altre occasioni, la donna compare nelle vesti di sposata, che suole imprecare contro il suo stato, o, addirittura, come
monaca il cui stato non impedisce di ritrarne le grazie fisiche messe in risalto dall’abito religioso.

Può forse sorprendere l’immediatezza con cui i personaggi di queste canzoni solo soliti esprimersi: il desiderio amoroso, così
come il dolore per un amore non corrisposto o perduto, sono spesso introdotti come un linguaggio che sembra volersi affidare
esclusivamente all’enunciazione chiara e diretta.

La sintassi impiegata nelle canzoni suole essere assai semplice, ma le proposizioni di cui si compongono sono anche
estremamente brevi, essendo per lo più formate dalle 4 alle 8 parole. Egualmente, le scelte lessicali ubbidiscono a frasi
grande semplicità e, non di rado, di concretezza, a differenza di quanto accade col lessico con la contemporanea poesia
cortigiana, che risponde ai criteri non meno selettivi della ristrettezza e dell’astrattezza.

Dal punto di vista più specificamente stilistico, non è chi non veda nelle canzoni una coloritura discorsiva particolarmente
enfatica, ottenuta con l’impiego di varie tecniche, tra le quali la ripetizione occupa certamente un posto privilegiato.

Ma il tono enfatico che spesso caratterizza le canzoni, oltre che con le diverse modalità della ripetizione, può ottenersi con
l’impiego di altre tecniche discorsive.

Non si deve, comunque pensare che le canzoni conoscano unicamente i toni enfatici, dal momento che molte di esse
presentano un carattere stilistico più piano e disteso.

Un’ultima questione riguarda il tipo di rapporto che unisce le due parti del villancico: la canzoncina, che funge da nucleo
iniziale e lo svolgimento in una o più strofe che ad essa segue. Margit Frank, che ha studiato il problema in maniera
sistematica, ha proposto di dividere l’intero corpus dei villancicos conservati in due grandi gruppi: quelli in cui le strofe di
svolgimento “costituiscono una versione ampliata” della canzoncina iniziale della quale ripetono una parte più o meno estesa,
ampliandola con l’aggiunta di nuovi elementi; e quelli in cui le strofe di svolgimento “costituiscono una entità a parte”,
rappresentando rispetto alla canzoncina iniziale una narrazione esplicativa o un complemento.

Quando la ripetizione si fa del tutto assente, tra le due parti del villancico resta in piedi la sola connessione tematica; la quale
può a sua volta realizzarsi come breve narrazione con funzione esplicativa.

3. Il romancero

Tra i diversi generi che appaiono citati, e che erano all’ora di moda negli ambienti poetici di corte, figurano anche i romances
che, come forma poetica nuova, fanno la loro entrata in quella che, non ha torto, è considerata la summa della poesia colta
nell’epoca dei Re Cattolici.

Poesie composte di doppi ottonari assonanzati, prima di essere raccolte per la lattura dell’esigente pubblico del nostro
canzoniere erano destinate al canto o, comunque ad essere recitate con accompagnamento musicale, costituendo così una
forma di poesia tradizionale.

Del resto la denominazione di romances viejos, con cui queste poesie erano conosciute già alla fine del XV secolo, al tempo
cioè della loro prima grande diffusione degli ambienti colti lascia chiaramente intendere come esse fossero considerate dei
testi di antica origine, le cui radici affondavano in un lontano quanto indefinito passato. La loro sopravvivenza era stata
assicurata dalla trasmissione orale, grazie alla quale avevano circolato nei vari strati della popolazione. Trattandosi perciò di
poesie concepite per la comunicazione artistica orale, i loro testi oltre che da uno “stile tradizionale” erano caratterizzati da
una forte fluidità. Ognuno di questi atti apportava una serie di innovazioni o varianti più o meno sostanziali.

Alcuni degli effetti che si produssero nel romancero cominciarono a mostrare un interesse particolare nei suoi confronti. Il
primo di essi fu l’introduzione della diffusione scritta in un tipo di poesia che fino ad allora aveva conosciuto quasi
esclusivamente la trasmissione orale. Quest’ultima però non scomparve ma era destinata a sopravvivere.

A ciò si aggiunga che uno dei caratteri peculiari del romancero orale, quello della fluidità testuale, risultò fortemente
ridimensionato con l’uso del veicolo scritto e in modo particolare poi quando si concretizzò nella stampa.

Ora non si tratta solo del fatto che il mezzo scritto fissa il testo di un romance una volta per sempre, rendendolo per così dire
immutabile nel corso delle successive letture; è anche che la circolazione a stampa tende a proporre di un romance il
medesimo testo. In tal modo il romancero ha visto ampliarsi le possibilità di diffusione.

Con le poche nozioni finora esposte torniamo al Cancionero general i cui 6 romances viejos menzionati sono ben lungi
dall’esaurire l’intero numero delle composizioni che formano la sezione dedicata al genere. Nessuno di essi vi compare da
solo, ma sono tutti accompagnati da altrettante glosse attribuite a poeti dell’epoca.

Il Glossatore Nuñez al pari di altri non si fa certo scrupolo di restare fedele al senso del testo da cui parte; al contrario, a volte
arriva a intervenire anche sulla lettura dei versi che cita, apportando quelle modifiche più o meno significative che meglio gli
consentono di adattare il romance alla nuova composizione che lo ingloba.

Ma se un interesse per il romancero risulta chiaramente documentato negli ambienti colti, fino a diventare una vera e propria
moda tra 4/500, è altrettanto evidente che le forme di cui tale interesse si realizzò non sempre si esaurirono nella raccolta di
antichi testi di circolazione orale, i romances viejos, ma assunse spesso i connotati di una più aperta contaminazione tra
poesia tradizionale e poesia colta come con assoluta chiarezza ci testimonia la sezione del Cancionero general, dove
accanto ai romances viejos troviamo glosse e contraffazioni, ma soprattutto una serie di romances che possiamo definire
“nuovi” in quanto come quello di Nuñez escono direttamente dalla penna dei poeti colti sul modello di quelli tradizionali. La
critica suole riferirsi a questi romances col termine di Trovadorescos evitando così la confusione così col romancero cui
spetta da tempo la denominazione di nuovo.

Il romancero trovadoresco nacque perciò dalla volontà dei poeti colti di sperimentare nuove forme sotto il segno, non tanto
della rottura, quanto del parziale rinnovamento e della variazione rispetto a quel modello di poesia cancioneril che, proprio a
cavallo tra i due secoli aveva raggiunto la vetta della piena maturità. Insomma una poesia che trovò nuovi stimoli nell’incontro
con una forma di poesia popolare, da cui ricavò schema metrico e determinate convenzioni letterarie, peculiari di un genere
tradizionale.

Va da sé che quello trovadoresco è un romancero d’autore e, pertanto non ha nulla a che vedere con ciò che definisce la
tradizione.

Si ricorderà che a proposito del Cancionero musical de Palacio abbiamo avuto modo di accennare a un tipo di romances
storici, cosiddetti noticieros il cui tema è costituito dal racconto di un avvenimento storico, più precisamente il riferimento era
ai romances fronterizos nei quali l’avvenimento storico consiste in un episodio più o meno noto della Reconquista. Per il
momento di questi romances ci interessano due elementi: che essi narrano un evento per lo più facilmente databile, e che la
loro composizione doveva seguire di poco l’evento narrato. In ogni caso, ciò che ora maggiormente importa al ragionamento
è che la quasi contemporaneità di evento e composizione ci consente di datare i romances sulla base del fatto storico
narrato. Contemporanei ai fatti narrati, per esempio i romances sulla ripresa della guerra di Granada.

A proposito di alcuni romances epici, è stato notato che essi presentano uno stretto legame con i corrispondenti passi delle
cronache e poiché queste ultime si formarono spesso dalla prosificazione di antichi cantari epici, è stato ipotizzato che gli
stessi romances potessero avere la loro origine nei cantari da cui derivavano per via di frammentazione.

Bisognerà pensare che alla nascita del genere offrì un decisivo contributo il progressivo affermarsi di un nuovo gusto, che
trovò espressione nelle modalità poetiche del romancero, ossia in una peculiare combinazione dei caratteri narrativi
dell’epopea con i tratti lirici delle canzoni tradizionali.
In realtà, si è già visto come il romance sia dal punto di vista metrico un componimento in doppi ottonari assonanzati, la cui
estensione varia notevolmente.

Il romance è dunque un racconto in doppi ottonari assonanzati; ma con ciò nulla è stato ancora detto su quali siano le
modalità narrative che esso adotta o per lo meno predilige.

La forte carica emotiva si combina col carattere teatrale che è in qualche modo connaturato a quella modalità narrativa
costituita dal racconto di parole.

Emotività e teatralità finiscono, pertanto, per formare i tratti distintivi di molti romances, nei cui dialoghi e monologhi
scorgiamo una doppia funzione: essi sono di fatti, l’ultimo atto della storia e, al medesimo tempo l’unico mezzo col quale il
destinatario viene a conoscenza della storia stessa.

La trama di ripetizioni conferisce alla lingua del romancero il suo peculiare tono enfatico e, attraverso di esso contribuisce a
datare il racconto di una particolare carica emotiva.

Uno dei tratti stilistici più suggestivi del romancero è rappresentato dall’uso dei tempi verbali. Lo scarto si nota
nell’abbondante presenza di imperfetti e piucheperfetti.

Un gruppo di ancora maggiore autonomia è formato dai romances epici, distinguendo al loro interno tra quelli che trattano di
epica nazionale nei suoi vari cicli o di epica francese. Questi ultimi danno luogo ai romances carolingi.

4. La poesia religiosa

Fino all’ultimo quarto del XV secolo, la letteratura religiosa era costituita nella sua massima parte da opere agiografiche: vite
dei santi e miracoli mariani a cui si aggiungevano lunghe composizioni poetiche su temi come quello dei 7 peccati capitali,
oppure brevi liriche dedicate per lo più alla vergine. Negli ultimi due decenni del 400 tale panorama era destinato a un rapido
e radicale rinnovamento, poiché anche nella letteratura spagnola cominciò a circolare un diverso tipo di opere religiose. Nel
giro di pochi anni, di fatti, vide la luce un folto gruppo di opere in versi, quasi tutte intitolate alla passione o alla vita di Cristo,
che finì con l’imporre un nuovo modello di letteratura religiosa: il lungo poema narrativo su una parte della vita di Cristo. La
significativa innovazione formale non può considerarsi disgiunta da un più generale rinnovamento della spiritualità di fine
secolo.

L’attenzione concentrata sulla figura di Cristo che proponeva limitatio Christi come “ via reggia” per raggiungere l’intimità con
Dio; il ritorno al testo biblico, a quello dei Vangeli, in particolare, col conseguente rifiuto di molti tradizioni stabilite; la tendenza
anti speculativa ossia lo spiccato carattere anti intellettualistico che si concretizzò in un atteggiamento di scetticismo nei
confronti della teologia scolastica; e per finire l’insistenza sulla vita spirituale intesa come dimensione interiore e soggettiva
dell’individuo che portò a far leva sulla sfera affettiva dell’uomo, il quale veniva anche spinto ad assumere una posizione di
distacco dal mondo e di sostanziale ascetismo.

Conviene non trascurare il fatto che la vasta corrente conosciuta come devotio moderna risulta essere qualcosa di molto
complesso e diversificato nel suo sviluppo europeo, intrecciandosi spesso con movimenti spirituali ad essa affini i quali
ebbero uno svolgimento autonomo. Uno di questi fu il francescanesimo dell’Osservanza. Esso presentava più di un punto di
contatto con la devotio moderna, con la quale coincideva nel cristocentrismo; nell’insistenza sull’umanità di Cristo come
principio di spiritualità; nel rifiuto della teologia in funzione di una spiritualità pratica e affettiva e infine nel disprezzo del
mondo e nella correzione ascetica dei vizi e delle vanità mondane. In questa prospettiva è bene sottolineare che due dei
nostri maggiori autori Mendoza e Montesino appartennero all’ordine dei francescani riformati.

Quanto ai testi concreti che furono alla base del rinnovamento non possiamo non ricordare le Meditationes Vitae Christi.

La poesia religiosa di fine secolo, per quanto non di rado si serva di alcune forme di stile elevato come il lessico colto, gli
Exempla di tipo erudito, le metafore e i paragoni di origine libresca, più spesso ricorre a un genere di comunicazione più
semplice e diretto che è giudicato più conveniente.

A rifiuto dello stile ornato i nuovi poeti religiosi fanno corrispondere, nelle loro scelte, l’elaborazione di uno stile che si
caratterizza per l’introduzione di similitudini, che mettono l’una affianco dell’altra realtà quotidiana e spiritualità religiosa; per il
ricorso a esemplificazioni basate anch’esse sulla realtà quotidiana; e per l’inserimento di proverbi ed espressioni colloquiali.
Una delle prime opere della nuova letteratura religiosa sono le Coplas de Vita Christi che il francescano Iñigo de Mendoza
compose all’epoca di Enrico IV (1467/68). In questa fase, il testo reca chiare tracce della disordinata situazione politica di
quegli anni. Il racconto dell’infanzia di Gesù risulta difatti spesso interrotto da estese e violente digressioni di carattere
politico, nelle quali l’autore denuncia le colpe dei nobili.

In conclusione appare evidente la complessità della costruzione della complessità della costruzione sia per l’unione di
elementi colti e popolari sia per l’elaborata struttura che, nel costante intreccio di parte narrativa e apparato
didattico-edificatorio, non rinuncia a concedere un certo spazio ora alle invettive satiriche ora alle brevi parentesi
d’intrattenimento.

A una parte della vita di Cristo, la Passione, sono dedicate la Pasòn trovada che Diego de San Pedro compose
probabilmente negli anni 70 e le Coplas de la Pasiòn con la Resurrecciòn le cui 3 parti ebbero tempi di composizione diversi.
Nella sua opera San Pedro segue il racconto dei 4 Vangeli riuscendo a volte a mantenersi così sorprendentemente fedele
all’originale, che gli unici scarti riscontrabili sono quelli dovuti alle inevitabili esigenze metriche, anche se più spesso ricorre
alla tecnica dell’amplificazione, come accade nel racconto della Crocifissione. In tal modo la descrizione si arricchisce di
dettagli raccapriccianti il cui effetto finisce per generare nel lettore un forte sentimento di orrore per le sofferenze patite da
Cristo.

Non c’è dubbio che San Pedro, più di qualsiasi altro poeta dell’epoca abbia insistito sui truculenti dettagli del racconto della
Passione, al fine di suscitare nel lettore un coinvolgimento emotivo di dolorosa angoscia per le drammatiche crudeltà che
Gesù dovette subire.

Dal punto di vista stilistico l’autore dimostra la massima coerenza, optando per un linguaggio semplice e diretto.

Cap 5

L’Amadis de Gaula e il romanzo cavalleresco.

1. L’Amadis de Gaula e il romanzo cavalleresco

Nel 1508 a Saragoza vengono pubblicati Los cuatro libros del virtuoso caballero Amadis de Gaula, di Garci Rodriguez de
Montalvo, “regidor” de la città di Medina del campo.

Per i primi 3 libri Montalvo si sarebbe limitato a ripulire il testo di un Amadis primitivo di cui, in verità, non mancano
testimonianze dalla metà del 300 in poi.

Alla fine del secolo, in anni prossimi alla conquista di Granada, e comunque prima del 1504, Montalvo rielaborò i materiali
della precedente redazione, o di un’altra ancora, aggiunse un quarto libro e continuò l’opera con un quinto dedicato a Las
sergas de Esplandiàn fornendoci così il romanzo che tutt’ora leggiamo nel testo dell’edizione Saragozzana.

Il romanzo di Montalvo ripropone a un pubblico di lettori cinquecenteschi dei materiali narrativi i cui legami con la vecchia
“materia di Bretannia” sono fortissimi. Di fatti, prescindendo dai singoli episodi, i due principali modelli dell’Amadis sono il
Tristàn en prose e, soprattutto, il Lancelot della Vulgata.

Non è da trascurare che l’Amadis costituisce una preistoria dell’epoca arturiana.

Sin dalla fine del 300 sul romanzo arturiano pesava un severo giudizio critico da parte dei settori culturali più esigenti e
avvertiti. Le critiche dovevano essere tanto più sentite alla fine del secolo successivo quando anche nella penisola iberica si
realizzò un forte rinnovamento culturale che vide l’affermazione degli ideali umanistici. A tale rinnovamento culturale non
poteva restare indifferente Montalvo né esso doveva restare ininfluente nella composizione dell’Amadis.

Su tutti gli altri temi e motivi spicca l’erranza del cavaliere che costituisce l’oggetto del racconto e, al tempo stesso, il modo di
raccontare: da un lato, la lunga sequenza delle avventure traccia un percorso tortuoso, contrassegnato dalle leggi
dell’imprevedibile e dell’ignoto, in contrasto con una realtà che, grazie agli sforzi dell’intelligenza umana, si faceva sempre più
nota e, perciò stesso, determinabile; d’altro lato, il modo di raccontare mostra una chiara tendenza, se non all’accumulo
caotico, all’espansione oltre misura, riluttante all’esercizio del controllo e della misura. L’amore, nella codificata forma cortese,
che cominciava a cedere il passo a una nuova etica sessuale, nonché a una rinnovata concezione del desiderio, com’è
evidente nella Celestina; l’amore è ciò che muove il cavaliere a “Demandar aventuras”, spingendolo in uno spazio che finisce
col coincidere con una geografia dai contorni e luoghi totalmente imprecisati e facendogli vivere un tempo mitico, determinato
dal ciclico susseguirsi delle profezie e della loro realizzazione.

Come, dunque, giustificare la riproposta di un tal cumulo di “devaneos, de mentiras provadas”, senza incorrere, o incorrendo
il meno possibile, nelle critiche degli umanisti e di tutti coloro che, essendo impegnati in uno sforzo di comprensione
razionale, consideravano con sospetto, o disprezzo, chi preferiva volgere le spalle al nuovo per attardarsi in un mondo di
superate fantasticherie? L’accusa più radicale restava che i libri rappresentavano un’offesa alla verità. Nel prologo al suo
romanzo, Montalvo si accinge perciò a far fronte a tali accuse, scegliendo una forma alquanto strana di difesa: fa propria
l’accusa invece di negarla. Comincia col distinguere 3 tipi di storia. La prima è quella degli storici illustri come Sallustio e Tito
Livio, i quali fanno riferimento esclusivamente alla verità, ossia ai fatti realmente accaduti; c’è poi un secondo tipo di storia
che ha ad oggetto “le cose vere quanto quelle inventate”, com’è facile vedere nelle cronache della guerra di Troia o in quelle
della conquista di Gerusalemme, dove gli storici, accanto alla verità dei fatti fanno posto a “quelle spaventose ferite, a quegli
stupefacenti scontri”, che il lettore farà bene ad attribuire piuttosto agli scrittori che non alla realtà degli avvenimenti. Esiste
infine un terzo tipo di storia, che Montalbo definisce “storie fittizie”, in cui “si trovano cose meravigliose al di fuori dell’ordine
naturale, e che a buon diritto dovrebbero essere considerate meglio frottole che cronache”. Non crònica, ma patraña è il
racconto delle imprese di Amadis, le quali rientrano perciò nel genere di “cosas admirables fuera de la orden de natura”.
Facendo atto di umiltà, nel riconoscere a sé un minore ingegno rispetto a quello degli storici, Montalvo sta di fatto
rivendicando la pura natura di fictio della materia da lui trattata.

Insomma, il racconto delle imprese di Amadis e di suo figlio, non potendo essere spacciato per vera storia, finisce per
accomodarsi nelle forme del compendio di virtù cavalleresche o, di altri termini, in quelle di un moderno manuale del perfetto
cavaliere.

Il primo prezzo che l’autore dovrà pagare a una tale operazione di ammodernamento consisterà nelle interruzione a cui di
tanto in tanto si vedrà sottoposto il discorso narrativo per fare spazio a Ejemplos e Doctrinas, a quegli ammaestramenti che
intervengono a giustificare le ormai poco credibili “cosas admirables fuera de la orden de natura”.

L’autore non poteva limitarsi all’introduzione di qualche ejemplo e doctrina nel corso della narrazione, ma finì
necessariamente con l’intaccare l’impianto generale del racconto, coinvolgendo cioè nel processo le stesse strutture
narrative.

Il romanzo medioevale di tipo arturiano da cui l’Amadis dipende in larga misura, si fondava su due strutture portanti: la cellula
di base era costituita dal aventure, vale a dire dall’impresa d’armi del singolo cavaliere, che era andata perdendo il significato
di “avvenimento” meramente fortuito per essere reinterpretata nel concetto di “destino-caso”, e addirittura in una concezione
provvidenziale, poi, il che ebbe come ulteriore conseguenza che le singole ed isolate avventure fossero reintegrate sul piano
narrativo come su quello ideologico, in una cornice più unitaria costituita dalla quète; al livello delle tecniche narrative,
l’entrelacement consisteva nel portare avanti contemporaneamente più filoni narrativi, con l’effetto di creare una continua
alternanza di abbandoni e di riprese, il che dava luogo a una narrazione estremamente varia e molteplice.

Un altro elemento non trascurabile è che una delle due grandi linee lungo le quali si sviluppò il romanzo medioevale fu quella
biografica, facendo però ben attenzione al fatto che i romanzi cavallereschi di tipo biografico “si fermano al momento in cui il
protagonista raggiunge il massimo del successo mondano e della perfezione morale”.

Non sono di poco conto le novità di composizione negli ultimi libri dell’Amadis, rispetto ai primi due. Vediamo, che un disegno
unitario presiede alla composizione dell’intera seconda metà del romanzo, che si sviluppa attorno a una vicenda principale,
rappresentata dallo scontro fra Lisuarte e Amadis, a cui risultano variamente subordinati i diversi nuclei narrativi di minore
estensione: le avventure, o almeno alcune di esse, come quelle durante il viaggio di Amadis in oriente, ma anche altri episodi.

Si tratta pertanto di una nuova poetica improntata a un ideale di maggiore unità narrativa.

Il disegno unitario, che è alla base della nuova poetica compositiva, ha una serie di più o meno dirette conseguenze sulla
storia come sul discorso narrativo. Considerate nel loro insieme, tali conseguenze finiscono con l’operare una profonda
trasformazione del modello narrativo che soggiace alla seconda metà del romanzo. In primo luogo, si fa sentire con maggiore
insistenza la voce dell’autore, il quale interviene sempre più spesso nella sua doppia veste di moralizzatore e di organizzatore
del racconto. In sostanza, ciò che si nota è una maggiore preoccupazione di giustificare, così come una maggiore volontà di
controllare la narrazione di cui l’autore tende a sottolineare il valore pedagogico e morale e a segnalare le interne
connessioni. In secondo luogo come si sarà già compreso le guerre o battaglie collettive prevalgono sulle imprese individuali.

Tornando alla seconda parte del romanzo, si nota che accanto al sapiente uso della parola essa concede uno spazio sempre
maggiore al racconto di episodi da cui emergono maniere e comportamenti raffinatissimi, frutto di un’educazione aristocratica
esemplare. Insomma, col prevalere della corte come luogo narrativo privilegiato, l’Amadis da romanzo di avventure
cavalleresche finisce col prendere le forme del racconto in cui le vicende narrate sembrano al servizio dei modelli di
comportamento etico e culturale che s’intende proporre.

Con l’Amadis de Gaula la storia del genere dei libros de caballerias non è che agli inizi, ed è lo stesso Montalvo ad indicare il
cammino lungo il quale esso si sarebbe sviluppato fino alla fine del secolo.

Che l’Amadis fosse destinato ad essere continuato oltre il quarto libro, attraverso la perpetuazione della stirpe dell’eroe, è
cosa che Montalvo aveva abbondantemente anticipato in tutta l’opera; ma è solo col

vaticinio finale che il lettore viene predisposto a un seguito, che si annuncia ancora più seducente della storia che si avvia alla
conclusione, se davvero le imprese del figlio arriveranno ad oscurare la fama di quelle del padre.

L’implicita promessa contenuta nell’ultimo capitolo dell’Amadis si concretizzò per il lettore nel 1510 quando videro la luce las
Sergas de Esplandiàn dello stesso Montalvo; in seguito, il ciclo degli Amadigi vedrà raddoppiare il numero dei libri che al
momento lo compongono.

Sebbene non siano mancati tentativi di restringere il gruppo di lettori alla sola aristocrazia, in considerazione sia del vasto
numero edizioni, a cui si è accennato, sia anche di altri fattori, è più verosimile pensare che i lettori di romanzi cavallereschi
andassero oltre la cerchia nobiliare, costituendo un gruppo socialmente molto più esteso ed eterogeneo. Naturalmente, non
c’è alcun dubbio che tra i loro più accaniti lettori, questi romanzi contassero proprio quei guerrieri e cortigiani che formavano il
ceto aristocratico, ma dai molteplici dati a nostra disposizione è difficile escludere che allo stesso tipo di piacevole
intrattenimento non ricorressero anche le èlites intellettuali, salvo poi ergersi a detrattori di quanto in privato e in gioventù si
erano concessi, e, con minore spirito critico, borghesi, rappresentanti del ceto popolare, donne e militari.

Più difficile è rispondere altrettanto sinteticamente alla domanda circa le motivazioni che furono all’origine dello straordinario
successo del genere; quindi dovremo accontentarci di una considerazione generale che evitando di entrare nello specifico
delle caratterizzazioni sociali, dia ragione del fenomeno nel suo complesso, ovvero la compensazione.

Compensazione: è il termine giusto con cui risulta perfettamente indicato un processo che potrebbe essere così sintetizzato:
ciò che la vita reale sottrae a seguito delle incessanti trasformazioni storiche e delle conquiste umane, la letteratura provvede
a restituire sotto forma di surrogato fantastico.

L’esistenza dei cavalieri si vide sottoposta a un processo di regolazione e sottomissione alle esigenze dell’assolutismo
monarchico, ed è vero che, sul piano generale, l’esistenza nel suo complesso fu sottoposta alle “regole” e alla “potestà” di un
maggiore, anche se non definitivo controllo da parte della razionalità e della verità storica. A livello del singolo ceto sociale,
come dell’intera collettività, i romanzi cavallereschi servirono a compensare quanto gli uomini andavano perdendo in fatto di
concezione prodigiosa e fantastica della realtà storica e dell’esistenza individuale.

2. Il romanzo sentimentale

Alla metà circa della Càrcel de amor il protagonista dell’opera, sta per affrontare in duello il perfido Persio, che lo ha accusato
di tradimento. Ma, dopo il racconto dei primi colpi, il narratore decide di tagliar corto, ricorrendo a una dichiarazione nella
quale con “historias viejas” il narratore intende riferirsi ai romanzi di cavalleria.

Bisognerà attendere più di 4 secoli per ritrovare, nel libro di un grande erudito, la Carcel de amor unita ad altre opere
considerate affini a formare quel genere letterario a cui siamo soliti riferirci con la denominazione di romanzo sentimentale.

A partire dalla metà del 400 un nuovo tipo di narrativa cominciava a differenziarsi da quella cavalleresca per il fatto di dare
“molta più importanza all’amore che allo sforzo”; e attraverso questa via, i nuovi racconti concedevano uno spazio maggiore
alla “descrizione e anatomia degli affetti dei suoi personaggi”, dando così origine a un “tentativo di romanzo intimo e non
meramente esteriore”. Una delle opere più significative è il Siervo libre de amor di Juan Rodriguez del Padròn, considerato il
prototipo dell’intero genere.

Emerge come il genere si sia sviluppato lungo l’arco di una intera centuria per cui qualsiasi discorso su di esso potrà
prescindere da quello sulla sua diacronia.

Tornando ai criteri del genere narrativo, essi erano essenzialmente due: il primo, di natura contenutistica, faceva appello alla
“materia amorosa” come tema pressappoco unico di queste narrazioni; il secondo, che

potremmo definire genealogico, metteva in causa i modelli italiani (Boccaccio) a cui gli autori spagnoli si sarebbero ispirati.

Cominciamo con l’osservare che nelle nostre “brevi storie d’amore”, l’amore è quasi sempre presentato come desiderio
inappagato o, almeno, fortemente contrastato, dall’esito spesso tragico per i personaggi che vi erano coinvolti più
direttamente; una versione della passione amorosa che mostrava non poche affinità con quella della coeva poesia dei
canzonieri. In fondo, non è avventato considerare le nostre opere come un tentativo di trasposizione narrativa dei temi e
motivi che alimentavano la poesia, anche se una tale coincidenza tematica si spiega in parte con la comune matrice della
grande tradizione cortese. Tutti gli altri romanzi sono, in realtà, dei prosimetri, dal momento che alle parti in prosa mescolano i
componimenti poetici con diversità di funzioni e varietà di generi.

Il romanzo sentimentale, dal punto di vista strutturale, nasce dallo sforzo di integrazione narrativa di unità discorsive, tutte
retoricamente ben definite. Di tali unità, quelle che risultano maggiormente costanti, da poter essere considerate elementi
strutturali del genere, sono: l’allegoria, il dibattito o la disputa, il discorso e l’epistola oltre naturalmente la poesia di cui si è gia
detto in precedenza.

L’allegoria ha svolto una funzione essenziale nella fase iniziale del genere; ma una funzione ancora maggiore dovrà
riconoscersi al debate, da cui nessuna delle nostre opere può dirsi veramente esente.

Poesia, allegoria, debate, discorsi, epistole: sono questi dunque gli ingredienti che con maggiore costanza, insieme ad altri di
più modesto uso anche se non meno significativi confluiscono nella formazione del genere sentimentale. Naturalmente le
modalità con cui essi sono fatti coesistere, vale a dire le forme in cui pervengono ad integrarsi narrativamente, non sono
meno importanti della stessa individuazione dei singoli ingredienti che vi partecipano. Si tratta perciò di prestare un po’ di
attenzione alle soluzioni narrative di cui il romanzo sentimentale si rese protagonista, e che costituiscono spesso il lato tanto
interessante quanto problematico delle opere che si suole far rientrare nel genere. Di tali soluzioni un cenno meritano
l’autobiografismo, l’intreccio di trame e livelli narrativi, la tecnica epistolare.

In molte delle nostre opere si presenta un fenomeno di identificazione tra autore fittizio e autore effettivo, anche se spesso gli
studiosi hanno adoperato il termine di autobiografismo, intendendo con esso riferirsi alla più ampia questione della presenza
del narratore nella storia.

Per quanto riguarda la tecnica epistolare sarà bene distinguere tra l’epistola dedicatoria che fa da cornice all’intero racconto,
autobiografico o meno, e lo scambio di lettere, più o meno prolungato che si verifica tra i personaggi della storia.

Lo scambio epistolare si ritrova in misura e con modalità diverse, nella maggior parte dei nostri testi. Esso costituisce spesso
il mezzo principale attraverso il quale i protagonisti delle storie comunicano rendendo possibile il lento processo di
innamoramento e, al tempo stesso fungendo da strumento di analisi psicologica.

Nell’introdurre alcuni elementi costitutivi delle nostre opere, come la poesia, l’allegoria e il debate, abbiamo già avuto
l’occasione di accennare brevemente alle tradizioni a cui quegli elementi facevano capo; vale a dire, rispettivamente, alla
poesia amorosa dei canzonieri, ai grandi componimenti allegorici quattrocenteschi, alla trattatistica mondana e didattica, che
spesso privilegiava i temi che le dispute delle nostre opere si preoccuperanno di raccogliere, inserendoli alla meno peggio in
un intreccio narrativo: le virtù delle donne, danni e vantaggi dell’amore, responsabilità maschili e femminili nella passione
amorosa.

Alle 3 caratteristiche generali finora illustrate: l’eterogeneità degli elementi costitutivi, un certo sperimentalismo narrativo, la
combinazione di diverse tradizioni letterarie, dobbiamo aggiungerne una quarta: lo stile elevato.

La sintassi latineggiante, col costante ricorso al verbo in posizione finale e all’esuberante subordinazione, si aggiunge l’abuso
del congiuntivo; l’ossessivo ripetersi crea ripetutamente costruzioni parallelistiche e oppositive; tutte queste tecniche
contribuiscono a fare un modello di quel virtuosismo retorico, che sarà uno dei principali bersagli di quel rinnovato gusto
umanistico.

Cap 6

Il teatro, dall’auto alla commedia

Nella città dove Antonio de Nebrija aveva sferrato la sua battaglia contro la barbarie e dove Fernando de Rojas ambienterà il
suo capolavoro, vide anche la luce il Cancionero di Juan de Encina: un libro, in verità, composito che iniziava col trattatello
sull’Arte de la poesia castellana, proseguiva con vari generi di poesia religiosa e d’amore, faceva posto all’originale versione
delle Bucoliche virgiliane, e terminava con un’intera sezione intitolata Representaciones. In quest’ultima comparivano 8 brevi
componimenti destinati alla rappresentazione teatrale che, come si deduce dalle rubriche delle singole opere, doveva
effettuarsi in coincidenza del Natale, della Pasqua, e di altre occasioni festive.

Le egloghe presentano una grande semplicità nello schema compositivo: 3 o 4 personaggi per egloga generalmente pastori,
si esibiscono in un dialogo fatto per lo più di rapide battute su di un unico tema, sacro o profano, con una conclusione
musicale.

L’autore era stato tra gli allievi di Nebrija e aveva ottenuto il titolo di baccelliere di diritto.

Nei confronti delle rappresentazioni a cui il pubblico era abituato, gli elementi innovativi che Encina introdusse nelle sue
opere non furono né pochi né di scarso rilievo. Oltre ad accentuare il processo di teatralizzazione e a potenziare l’elemento
musicale, il nostro autore innovò su un doppio versante: rispetto alla tradizione drammatica cortigiana, egli accordò un peso
al testo letterario che ne guadagnerà in consistenza e autonomia; e, nel contempo, egli concesse uno spazio notevolmente
maggiore alla figura del pastore.

“L’Estilo pastoril” di Encina quello delle rappresentazioni salmatine, fu ripreso dal suo concittadino, Lucas Fernandez, che a
Salamanca vincolò l’intera sua esistenza.

Torres Naharro tracciava le linee maestre della propria teoria drammatica, cominciando dalla definizione stessa di commedia
la quale “non è altro che un ingegnoso artificio di notevoli avvenimenti con lieto fine, recitato da personaggi”.

Quanto alla classificazione in generi, allontanandosi dalla precettistica classica, il nostro autore preferisce distinguere la
commedia “a noticia”, espressione con cui si intende che non devono essere così pochi che lo spettacolo ne risulti privo di
efficacia, né tanti da generare confusione.

Delle commedie “a noticia” fanno parte la Soldadesca e la Tinellaria. In entrambe, è facile notare come l’esile filo conduttore
permetta all’autore di congegnare una lunga serie di scene, nelle quali copiosi episodi e tipi umani vanno alternandosi in
rapida successione. In assenza di uno schema perfettamente organico e di una storia unitaria da sviluppare, ciò che finisce
per prendere il sopravvento sono le battute, per lo più rapide, che i personaggi si scambiano nei fitti dialoghi che si
susseguono di situazione in situazione.

Nella Soldadesca o nella Tinellaria fra i soldati spagnoli a Roma o fra i servitori di un cardinale, la realtà rappresentata è la
medesima: uomini e donne, dalle origini ed esperienze più diverse, spinti il più delle volte da bassi desideri e vili avidità,
agiscono quasi sempre all’unico scopo di tessere mirabili astuzie nei confronti dei compagni, o di chiunque abbia la ventura di
imbattersi nel loro cammino, certi solo di essere ricambiati appena se ne presenterà l’occasione; di congegnare continue frodi
e ruberie ai danni dei loro padroni, a cui fanno così pagare con gli interessi lo stato di indigenza e di maltrattamento in cui
sono sospinti da quegli stessi padroni.

La rappresentazione di una simile deplorevole realtà non dà mai luogo a un discorso serio di analisi e di condanna, ma
preferisce affidarsi esclusivamente ai toni scherzosi dei dialoghi, alla beffarda volgarità dei tipi, alla pesante ilarità degli
episodi.

Questo tipo di satira sociale non risparmia neppure l’ambito religioso.

Le commedie di Torres Naharro non solo costituiscono il culmine che aveva raggiunto il teatro spagnolo all’inizio del secolo,
ma esse svolsero la non trascurabile funzione di trasmettere al futuro teatro classico una serie di temi, motivi, figure e
tecniche, a cui i continuatori seppero dare pieno sviluppo, in una rinnovata temperie culturale e letteraria. Ed è proprio in tale
prospettiva, quella cioè dell’apporto al teatro spagnolo come alla futura commedia del “secolo d’oro” che non sarebbe giusto
concludere senza aver accennato al contributo che a quel teatro recò un autore come Gil Vicente.

La Comedia del Viudo e le due cosiddette “tragicommedie”, Don Duardos e Amadis de Gaula sono il frutto di una svolta nel
teatro vicentino, a cui forse non furono estranee la conoscenza e l’influenza di Torres Naharro.

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