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INTRODUZIONE
L’unità di analisi prevede l’incontro con la diade o con il gruppo famiglia poiché è solo in tal
modo che è possibile distinguere gli elementi individuali/di specificità, relazionali/diadici e
gruppali. Rilevante è anche il timing dell’incontro con la famiglia, in cui si cerca di
privilegiare la presenza di una specifica transizione o evento critico, con la convinzione
che nella transizione evolutiva la struttura latente dell’organizzazione familiare si renda più
facilmente accessibile. L’incontro con il gruppo familiare si attua attraverso la mediazione
di strumenti, taluni tipici di un approccio quantitativo e altri in grado di fornire dati più
qualitativi; nelle ricerche a volte si somministrano scale di misurazione, compilate in
autonomia dal soggetto, altre volte si preferiscono strumenti che consentono di stimolare
interazioni congiunte (intervista, disegno..). Con
le scale di misurazione l’incontro è ricostruito a posteriori dal ricercatore attraverso l’analisi
dei dati, mentre negli strumenti che attivano l’interazione l’incontro è il setting di
produzione dei dati. È a partire dall’analisi di interazioni congiunte che è possibile giungere
a quello che Fisher ha definito come il livello di valutazione “transazionale” delle relazioni
familiari. È questo il livello di analisi che consente di cogliere l’azione familiare intesa come
“lo scambio interattivo tra i membri del sistema che indica l’unità transattiva degli elementi
in un tutto che deriva dal funzionamento dell’intera unità e non riflette semplicemente i
contributi dei singoli membri”. “Transattivo” e “relazionale” non sono omologhi tra loro: un
conto è ricercare pattern e regole di scambio e un conto è ricercare tipologie e senso dei
legami. La produzione di
dialogo (attraverso colloqui e interviste mirate) e la realizzazione di attività e compiti
congiunti (attraverso la somministrazione di test grafico-simbolici) rendono disponibili
informazioni di natura diversa. Tali informazioni riguardano due registri. Il primo è quello
verbale, considerato nella sua dimensione semantica o di contenuto rappresentazionale
(aspetti immaginari e simbolici). Il secondo registro fa riferimento all’azione congiunta dei
membri familiari che così “si irvelano” e si mettono in comunicazione con il ricercatore
mentre “fanno”. La produzione congiunta di elementi verbali e grafico-simbolici costituisce
la base informativa che consente di cogliere contemporaneamente sia le dimensioni
complessive del gruppo familiare, sia le modalità rappresentazionali e di azione proprie di
ciascun membro familiare. Una via per catturare l’unità del molteplice può essere utilizzare
un approccio multi metodologico. In tal caso nel piano di ricerca si indagano gli stessi
costrutti applicando strumenti diversi (quali self-report, griglie di osservazione
dell’interazione e compiti congiunti), così si moltiplicano i punti di vista in modo da
ricostruire un intreccio significativo. I ricercatori hanno compiuti numerosi tentativi in
questa direzione, ma le informazioni prodotte difficilmente si accordavano. Allora come
possiamo affrontare la difficoltà metodologica che attiene alla confrontabilità di
informazioni di natura diversa? Un modo può essere quello di considerare le differenze
dovute al confronto non come ostacolo ma utilizzarle come potenziale fonte di
informazione. Il ricercatore può per esempio chiedersi: perché quello che i familiari
riferiscono relativamente alle loro relazioni è diverso da ci che manifestano nell’interazione
oppure da ciò che essi agiscono attraverso un compito congiunto?
Affinchè le differenze si traducano in informazioni significative è necessario che esse non
siano il semplice prodotto della diversità degli strumenti, ma siano imputabili alla
complessità dell’oggetto che si vuole indagare. In una prospettiva plurale ogni
informazione dice qualcosa della relazione. Chiamiamo tale visione “posizione triangolare
del ricercatore”. Il ricercatore fa parte del congegno di ricerca, vale a dire che è inserito in
una relazione. Tipi diversi di strumenti strutturano un diverso tipo di rapporto tra i soggetti
della ricerca e il ricercatore: lo strumento utilizzato nella ricerca si situa tra il soggetto e il
ricercatore e contribuisce a creare specifiche configurazioni relazionali. Quando il
ricercatore applica strumenti self-report (scale di misurazione e interviste), ponendo delle
domande al soggetto, rivela inevitabilmente molto di ciò che vuole indagare. Il compito dei
membri della famiglia diventa quello di decidere cosa e quanto svelare al ricercatore. I dati
prodotti attraverso i self-report sono da leggersi come il risultato di due fattori: da un lato,
la rappresentazione che il singolo membro ha delle relazioni familiari indagate dal
ricercatore e, dall’altro, la vicinanza che intende instaurare con lui e l’immagine che
intende dargli. La desiderabilità sociale è infatti un elemento ineliminabile degli strumenti
self-report, anche se può essere, entro alcuni limiti, controllata.
Utilizzando strumenti osservativi il ricercatore rivela in misura minore l’intento della ricerca.
Così il contesto di ricerca distanzia il ricercatore dai soggetti, mentre avvicina questi ultimi
tra di loro. Essi infatti devono rispondere come gruppo, interagendo.
La divergenza dei risultati è anche un utile antidoto al riduzionismo, cioè alla ricerca di uno
o due fattori in grado di spiegare tutta una serie di fenomeni. Nel modo di trattare le
informazioni prodotte attraverso uno o più metodi, l’oggetto famiglia rivela tutta la sua
complessità: il ricercatore, data la natura relazionale della famiglia, ha a che fare con dati
non indipendenti e quindi non può utilizzare molte delle tradizionali tecniche di analisi che
si basano proprio sulla indipendenza dei dati. Vi sono tre fattori che danno origine alla non
indipendenza dei dati: la composizione del gruppo, il suo destino comune e l’influenza
reciproca. La composizione del gruppo indica che le persone non sono state assegnate in
modo casuale al gruppo: nel caso della famiglia, i ruoli non sono casuali né intercambiabili.
Inoltre i membri della famiglia hanno un destino comune individuabile nella condivisione
dell’ambiente di vita e di aspettative comuni rispetto al futuro. Infine le relazioni tra i
membri familiari sono caratterizzate da reciproca e duratura influenza. La non
indipendenza dei dati familiari obbliga il ricercatore a ragionare per famiglie anzicchè per
singoli membri della famiglia. La pista che si è aperta tenta di scomporre la
variabilità/varianza delle relazioni familiari nelle componenti individuali, diadiche, gruppali e
di errore (cioè di ciò che non è spiegato). Queste linee rappresentano avanzamenti
importanti nella direzione di una “concezione relazionale” che colga l’aspetto gruppale
senza perdere le informazioni fornite dai singoli e dai sottoinsiemi. Nel trattamento e
nell’analisi dei dati si è passati dal costruire punteggi diadici o familiari in grado di
approssimarsi il più possibile al “relazionale” all’utilizzare un approccio per modelli che
consente di tenere simultaneamente presenti diversi livelli di analisi della famiglia
(individuale/diadico, gruppale). L’uso di punteggi fornisce un indice sintetico della diade o
del gruppo familiare, ma non considera le specificità individuali; i modelli, invece,
permettono di inferire costrutti latenti da variabili osservate, scomponendo il contributo
specifico di ogni membro della famiglia in aspetti di comunanza e di specificità. Nell’uno
(punteggi) e nell’altro caso (modelli) può essere recuperata l’influenza del contesto
sociale, per esempio attraverso la stima dell’ “effetto stereotipico”, cioè di quella posizione
tipica che permea il soggetto e che rientra in famiglia. Nel caso degli strumenti che
stimolano l’interazione si utilizzano tecniche di analisi dei dati che privilegiano lo studio del
processo relazionale e che consentono di svelare l’organizzazione latente delle relazioni
familiari.
5 CAPITOLO
IL LEGAME DI COPPIA NELLA RICECA PSICOSOCIALE E
CLINICA
INTRODUZIONE
Gli studi sul conflitto di coppia hanno consentito di comprendere meglio sia le modalità con
cui una coppia gestisce un disaccordo, sia come viene percepita dai partner la gestione
del conflitto. In particolare si è evidenziato che i comportamenti conflittuali negativi che un
partner manifesta vengono percepiti in maniera più accurata rispetto a quelli positivi, e che
i coniugi tendono in genere a percepirsi più simili nella gestione del conflitto di quanto non
lo siano in realtà. Pare dunque che per i coniugi sia importante, oltre al comportamento
durante il conflitto, anche la percezione del comportamento stesso. Il grado di somiglianza
dei coniugi nel percepire il conflitto risultano essere predittori di soddisfazione.
Per quanto riguarda il coping diadico, occorre osservare come tale costrutto superi un’idea
della gestione dell’evento critico in termini individuali e consenta una visione relazionale
dello scambio di coppia. La forma di coping più relazionale, il coping diadico “comune”,
che vede i partner fronteggiare congiuntamente gli eventi stressanti, è quella che si rivela
essere il miglio predittore di una buona qualità della relazione, a riprova dell’importanza
della capacità di gestione del legame ai fini di promuovere il benessere e la soddisfazione
coniugale. Importante si è rivelato lo studio lo studio del coping diadico attraverso le
variabili di congruenza percettiva che hanno permesso di mostrare l’influenza del coping
diadico auto ed eteropercepito sul funzionamento di coppia. Utilizzando una particolare
strategia di analisi consentita dal confronto tra auto ed eteropercezioni di entrambi i
membri della coppia, si è potuto tener conto di due componenti fondamentali della
somiglianza: la somiglianza “stereotipica” e la somiglianza “unica”.
La somiglianza stereotipica fa riferimento a ciò che accomuna i membri della diade al
resto del campione, in termini di background culturale condiviso. La somiglianza unica
riguarda il grado di somiglianza tra i membri della diade che non è dovuto al background
che essi condividono, ma che è unico e specifico della loro relazione. Si è considerata la
somiglianza stereotipica non tanto come un “errore” da eliminare per valutare la
somiglianza “vera” tra i membri della diade, quanto come uno degli aspetti della
somiglianza espressa nella diade, diverso da quello relativo alla somiglianza unica. E’
stato così possibile catturare la dimensione sociale della coppia, mostrando come questa
dimensione entri di fatto nella relazione di coppia. La dimensione stereotipica è rilevante
nel facilitare l’accuratezza percettiva, cioè la comprensione dello stile di coping adottato
dal partner. Un altro costrutto importante è quello del perdono. Se la coppia nasce dal
riconoscimento fiduciario dell’altro, il perdono s’inserisce al suo interno rappresentando
una delle espressioni che attualizzano il valore che ciascun partner attribuisce si all’altro
che al legame stesso. Il perdono si può intendere come un atto fiduciario, una modalità
inattesa e donativa, che eccede cioè la dimensione di equità dello scambio tra i soggetti,
che alcuni partner utilizzano per affrontare le offese subite all’interno del legame. Il
perdono ha un valore predittivo rispetto alla qualità della relazione: la capacità di
perdonare risulta essere un fattore in grado di proteggere il legame di coppia nel presente
immediato, sia nel corso del tempo. E’ stata avviata una riflessione su cosa sia il perdono:
se, infatti, da un lato risulta immediato definire cosa il perdono non sia (non è
dimenticanza, non è desiderio di vendetta), problematico risulta invece definire cosa possa
essere in termini positivi. Con l’obiettivo di colmare questa lacuna, è stata creata una scala
in grado di misurare il perdono verso il partner a seguito di un’offesa ricevuta che tiene
conto nello stesso momento sia della dimensione negativa insita nel processo, l’assenza
di vendetta ed evitamento, che quella positiva, la presenza di benevolenza verso
l’offensore. La ricerca ha spostato il proprio focus anche sull’altro soggetto dell’offesa, cioè
l’offensore. Si sono focalizzati sul costrutto del perdono del sé, di chi ha commesso
l’offesa. È fondamentale la capacità del coniuge che ha offeso di sapersi perdonare per il
dolore arrecato al partner, ovvero di riuscire a riconnettersi con un’immagine positiva di sé
in modo da poter ritrovare ancora energie spendibili nella relazione in quanto soggetto
nuovamente degno di fiducia.
Negli ultimi anni è stato introdotto un filone di ricerca che indaga il tema dell’identità di
coppia prendendo spunto dagli studi sull’identità sociale. Come quest’ultimo costrutto si è
rivelato difficile da misurare, così anche l’indagine sull’identità di coppia risulta altrettanto
complessa. Facendo riferimento alle ricerche sull’identità sociale, nelle quali
l’identificazione di un senso di “noità” è stato rilevato indirettamente attraverso
l’individuazione di meccanismi che favoriscono il proprio gruppo di appartenenza, ci si è
chiesti se gli stessi meccanismi fossero rintracciabili nelle coppie. I risultati finora acquisiti
hanno messo in luce che i partner di coppie reali (rispetto a pseudo-coppie formate da
individui non legati da una relazione intima) esprimono valutazioni positivamente distorte,
dette positive illusion, nei confronti della propria relazione di coppia e che tali percezioni
contribuiscono al benessere relazionale e individuale del partner. In compiti sperimentali le
persone che vivono una relazione di coppia tendono a compiere attribuzioni benevole nei
confronti del partner, dando al partner il merito per il conseguimento di un successo e
assumendosi la colpa per un fallimento. Tali pattern risultano importanti nelle fasi iniziali
della relazione in cui è centrale il processo di costruzione dell’identità di coppia,
confermando la presenza di un analogo meccanismo rispetto a quello relativo alla
costruzione dell’identità sociale e del senso di appartenenza gruppale.
Se è vero che il modello relazionale-simbolico può guidare le scelte di ricerca sin dalle
prime fasi operative, per esempio nella determinazione dei costrutti d’indagine, esso può
anche funzionare da dispositivo di lettura che il ricercatore utilizza a posteriori
nel’interpretazione dei dati. Punto di partenza è un’indagine che mediante una
metodologia di tipo induttivo si propone di individuare le categorie di senso alla base del
resoconto clinico nel caso in cui il “soggetto” del resoconto sia la coppia coniugale. Il
modello che organizza la stesura dei resoconti in analisi confluisce attorno a cinque grandi
aree tematiche: sessualità; diade coniugale; diade madre-figlio; funzione materna (delle
origini); funzione paterna (delle origini). Potremmo aggregare le cinque aree tra loro su
base triadica, nel senso di un triangolo ai cui vertici poniamo rispettivamente l’ambito dei
sintomi (la sessualità), a seguire la diade di base (diade coniugale), infine il tema delle
origini (diade madre-figlio, funzione materna, funzione paterna). Ora bisogna qualificare
ciascuna area tematica e leggerla alla luce del modello relazionale-simbolico. D’ora in
avanti ci riferiremo a quest’ultimo chiamandolo “modello teorico”; chiameremo invece
“modello emergente” quello che raggruppa le cinque aree.
1. Sessualità: Questa prima are atematica risulta essere la più rappresentata nei
resoconti presi in esame, a conferma dello stereotipo culturale secondo cui i
problemi coniugali scaturirebbero “sotto le lenzuola”. Questa prima area tematica
riguarda per lo più giovani coppie al primo figlio. Tali disturbi sono in genere
attribuiti a uno dei due membri della coppia e nella maggior parte dei casi quella “in
difetto” sembra essere la moglie. Il modello relazionale-simbolico viene in aiuto sia
attraverso uno dei suoi pilastri (la transizione), sia attraverso uno dei suoi principi
(quello organizzativo). Critico è il momento di transizione a cui la relazione di coppia
è sottoposta, nel senso che proprio nella transizione i punti di forza e di debolezza
del legame escono allo scoperto. Non stupisce quindi che il tema della sessualità,
nei suoi aspetti di criticità, prevalga nei resoconti di giovani coppie impegnate sul
fronte della genitorialità. Vi è la tentazione sempre più diffusa di applicare al legame
di coppia le categorie diagnostiche tipiche dell’approccio individuale. Se ci riferiamo
ai criteri propri della nosografia individuale, è difficile rintracciare tali criteri in modo
equanime e simultaneo nei due partner.
2. Diade coniugale: A questo livello prevale una concezione descrittiva della diade,
per lo più in chiave di interazione e comunicazione. I problemi coniugali sarebbero
principalmente dovuti all’incapacità ei partner di comunicare, o di gestire il conflitto.
Kernberg scrive: “Talvolta, la comunicazione può servire a mettere in atto
esplicitamente un’aggressività controllata, il che non significa che gli sforzi per
comunicare i bisogni e le aspettative non siano utili, ma quando entrano in gioco
profondi conflitti inconsci lo stesso processo di comunicazione può esserne
contaminato e la comunicazione aperta può servire solo ad accentuare i conflitti”. In
questo senso Kernberg parla di conflitto inconscio e della sua profondità; riferendoci
al modello teorico dovremmo parlare di qualità simbolica dell’interazione tra i
partner, qualità che rimanda a qualcosa che va al di là di ciò che è in superficie.
3. Diade madre-figlio: Tutto ruota attorno al tema del rapporto madre-figlio, nel senso
della posizione che i partner della coppia hanno ricoperto in seno alla propria
famiglia. Siamo entro un legame che è a un tempo esclusivo ed escludente. Tutta la
psicologia dà rilievo a questa struttura diadica, oscurando la possibilità di
identificare altre categorie utili a comprendere i punti di snodo della vicenda
familiare e dello sviluppo della persona nei suoi risvolti generativi e degenerativi. La
centratura sul rapporto madre-figlio ha anche prodotto alcune teorie svilenti in
merito alla funzione genitoriale; si pensi all’idea sottesa a talune forme d’intervento
centrate sull’attaccamento, quasi quest’ultimo fosse un “marchio di fabbrica”,
un’impronta che ci portiamo dietro senza che nessuna quota di libertà,
responsabilità, possa cambiare il destino che ci è stato dato in sorte nelle
vicissitudini della vita.
4. Funzione materna (delle origini): La donna è colei che dà origine, il “cuore” e la
sede della memoria; è colei che intreccia e dispiega. Se mettiamo questo cluster
tematico insieme al precedente ciò che ne viene è la visione matricentrica in merito
alle vicende di coppia e di famiglia.
5. Funzione paterna (delle origini): Relativamente alla figura paterna emerge una
perdita di valore simbolico, relegata ad una mera funzione di autorità. Il modello
teorico distingue tra ruolo e funzione, ossia tra “esercizio della genitorialità” e
“legame genitoriale”. Il modello teorico ci mette in guardia di fronte all’esercizio di
un ruolo che senza la mediazione della funzione sortisce una sorta di legame in cui
il figlio può fare fatica a riconoscersi; pensiamo per esempio alla figura del pater
familias, tutta schiacciata sul fronte normativo e del principio di autorità. Allo stesso
tempo, però, la funzione, se privata del ruolo, decade in una forma debole di
relazione.
Emerge come i clinici impegnati a rendicontare i casi di coppia che incontrano nel lavoro di
cura scivolano facilmente in una visione della relazione che è pensata in termini diadici,
sommatori e per lo più descrittivi. L’enfasi è data alla diade, sia che si tratti del rapporto tra
i partner, sia del rapporto madre-figlio. Manca una visione “triangolare” del legame, cioè
del legame come terzo; è come se i resoconti fossero quelli di due individui trattati
separatamente, anche se in realtà il trattamento avviene alla presenza dell’altro. Invece la
clinica di coppia impone uno sguardo sul legame al di là dei singoli membri e questa forma
di trattamento non può essere concepita come la sommatoria di due trattamenti individuali.
Manca poi un rimando generazionale esteso, oltre le figure primarie di accadimento. La
visione dell’origine e della vicenda di coppia è “matrifocale” con perdita della funzione
simbolica da parte del padre che tutt’al più sembra appartenere ad un passato autoritario.
Sul fronte della valutazione degli interventi si è operata una scelta di campo in favore di
una metodologia di lavoro che sonda il percorso clinico in momenti caratteristici e ne
studia la connessione e l’esito finale. Si tratta di rilevare come, quando e a carico di quali
elementi è possibile evidenziare il cambiamento relazionale. Si è anche operata la scelta
di indagare le diverse forme di legame al di là degli aspetti di interazione tra i partner,
attraverso la costruzione di griglie di osservazione appositamente predisposte per la
codifica delle videoregistrazioni di sedute. L’osservazione diretta, più degli strumenti self-
report, aiuta il ricercatore ad avvicinarsi all’aspetto di senso sotteso alle diverse forme di
scambio e di comunicazione tra i partner. Uno stesso
fenomeno rilevabile nel contesto clinico può assumere forme differenti a seconda del
vertice di osservazione considerato. Per esempio, in riferimento al legame che viene a
stabilirsi tra il clinico e i membri della coppia, quello che ad un primo livello può definirsi
“disaccordo verbale” confluirà ad un altro livello in “resistenza terapeutica” e nella
“mancata reciprocità” del legame. È il legame tra i partecipanti al contesto di cura che si
impone all’attenzione del ricercatore. La sfida che si impone al ricercatore è di
operazionalizzare il costrutto di relazione attraverso momenti rivelativi del legame, e di
sviluppare strumenti di siglatura che siano congruenti al modello teorico di riferimento. Tra
i primi annoveriamo gli episodi che prendono il nome di enactment, ossia momenti di
maggiore impegno e coinvolgimento tra i partner nella relazione. Per quanto riguarda lo
sviluppo di strumenti di siglatura congruenti con il modello teorico di riferimento, la
procedura di codifica fa risalire i contenuti del discorso a dieci variabili gerarchicamente
ordinate e raggruppabili in tre macrocategorie, definite di senso, di contesto e di
contenuto. Le variabili di senso
riguardano rispettivamente la capacità dei partner: di esprimere speranza e fiducia nella
relazione, per esempio riuscendo a guardare al di là delle difficoltà contingenti; di fare
qualcosa per l’altro attraverso movimenti di riconciliazione e perdono; di sentirsi parte in
causa nella relazione, in termini di coinvolgimento, impegno e assunzione di
responsabilità; di aprirsi al nuovo e accettare l’imprevisto; di riconoscere e rievocare
momenti importanti per il legame. Le variabili di contesto riguardano le
modalità con cui i partner si rapportano al contesto di cura, che valorizzeranno oppure
attaccheranno, potendo ritualizzare proprio nella cornice del trattamento le medesime
modalità con cui agiscono nella vita di tutti i giorni. Tali variabili riflettono il livello di
adesione della coppia al progetto terapeutico e si esprimono: nella capacità di ascolto e
rispetto reciproco; nella concreta quota di impegno e fiducia che i partner ripongono nel
lavoro proposto dal clinico.
Le variabili di contenuto riguardano l’oggetto del contendere (del conflitto) e spesso
ruotano attorno ai temi: della sessualità e dell’intimità di coppia; dei rapporti
intergenerazionali, nel senso dei rapporti tra le generazioni e dell’influenza esercitata sul
legame di coppia dalla famiglia allargata e da quella nucleare; dagli eventi critici, siano
essi “attesi” come nel caso della nascita di un figlio che è stato cercato, oppure “non
previsti” come nel caso di una malattia fisica, di un tradimento o di un lutto improvviso e
traumatico. Nel descrivere
queste variabili si è tenuto conto della forma del legame funzionale, cioè della forma
“reciproca” della relazione. A tale forma si aggiungono due modalità di fare ed essere della
coppia contrarie alla generatività, definite “assimilazione” e “divisione delle parti”. Nel
primo caso ciò che i partner hanno in odio è la differenza; il tentativo ricorrente da parte di
ciascuno è quello di ridurre l’altro a sé. Né è una manifestazione caratteristica il ribadire
continuamente le proprie ragioni e i propri bisogni personali, il rifiutare la differenza di
pensiero, di azione e sentimento dell’altro. Al contrario, la divisione delle parti ha in odio la
somiglianza; i partner si percepiscono come distanti, trovandosi su posizioni contrapposte.
Le tre differenti forme di legame individuate non sono da considerarsi come assolute;
ciascuna coppi infatti, nel corso del trattamento, si trova a sperimentarle tutte. Ciò che
acquista valore è la predominanza di una di esse.
6 CAPITOLO
DA COPPIA A FAMIGLIA: IL LEGAME GENITORIALE TRA BIOLOGIA E
CULTURA
INTRODUZIONE
Tra i pilastri del modello relazionale-simbolico figura quello di transizione che va connesso
con gli altri pilastri, quelli di relazione e generatività. La transizione innesca eventi critici,
ha un percorso che ha uno scopo che ha sempre a che fare con il mondo dei legami e con
la generatività. La dinamica di ogni transizione è quella di fondarsi sul rapporto tra perdita
e acquisizione e i riti che l’accompagnano hanno proprio lo scopo di favorire il passaggio.
Le transizioni non riguardano mai una singola persona, ma un gruppo che vi è implicato. È
nella transizione che è possibile cogliere le caratteristiche del funzionamento dei legami.
Le transizioni espongono le persone e i gruppi di appartenenza alla decisione. O si
guadagna o si perde; definiamo questo guadagno come “generatività” che si manifesta
nello scambio tra le generazioni e nell’apertura nei confronti di quelle successive. Un
concetto importante è quello di “transizione chiave”, cioè il passaggio da coppia a famiglia
sollecitato dall’evento critico che consiste nell’acquisizione di un nuovo membro (per
nascita o per adozione). Vi sono transizioni che si impongono con la forza
dell’accadimento biologico (la nascita, la pubertà, la morte) e altre con la forza
dell’accadimento culturale (l’adozione, il matrimonio, il divorzio).
Gli itinerari di costruzione della genitorialità sono direttamente legati alle relazioni che i
coniugi intessono con le famiglie di origine, alla storia familiare e valori, miti e tradizioni ad
essa connessi. L’esperienza che ciascun genitore ha interiorizzato in quanto figlio funge
da paradigma nell’esercizio della funzione genitoriale. I genitori consegnano al figlio il
“patrimonio” familiare. Questa eredità ha sia un versante biologico che simbolico/culturale:
il figlio è infatti il frutto della combinazione del patrimonio genetico trasmesso da padre e
madre e, attraverso di loro, dalla generazioni precedenti. Questa componente genetica si
manifesta fin dalla nascita nei tratti somatici. Le ricerche hanno evidenziato come al
neonato venga attribuita con maggiore probabilità una somiglianza alla linea familiare
paterna: sembra dunque esserci un “movimento” corale e condiviso dal punto di vista
sociale nel sancire l’appartenenza del nuovo nato alla stirpe del padre. La relazione di
coppia, vista nei suoi aspetti di differenza di ruoli di genere e di percezione elle relazioni
con la famiglia d’origine, è il focus di un’altra ricerca condotta su un campione
rappresentativo di giovani coppie con figli piccoli. In questa ricerca è emersa, per quanto
riguarda le differenze di genere, la salienza di quel fenomeno della “tradizionalizzazione
dei ruoli” che si manifesta con un drastico cambiamento nel gioco delle parti tra marito e
moglie con aumento delle incombenze domestiche e familiari a carico della moglie/madre
e che si protrae anche nella fase immediatamente successiva in cui i figli sono piccoli.
Questo però non deve mettere in ombra il fatto che in un terzo del campione il
coinvolgimento paterno è assai rilevante ed è risultato essere determinante per il
benessere psicologico dell’intero nucleo, e in particolar modo per la giovane madre: infatti,
laddove il marito risulta essere attivamente coinvolto nell’accudimento dei figli, la moglie
presenta livelli superiori di soddisfazione coniugale. I dati confermano il massiccio
coinvolgimento dei nonni nella cura dei figli; le giovani famiglie paiono più propense ad
utilizzare risorse interne alla rete familiare, piuttosto che servizi pubblici o privati. Sono in
particolare le madri della generazione precedente a prestare aiuto non solo materiale ma
anche morale; la giovane famiglia risulta essere molto legata alle famiglie di origine. Ciò
porta con sé anche alcuni elementi di rischio: l’aspetto critico degli scambi tra le due
generazioni è rappresentato dall’equilibrio tra gli aspetti di libera scelta e gli aspetti di
vincolo e obbligo insiti nel supporto che la famiglia di origine offre alla giovane famiglia.
Dai dati della ricerca emerge infatti che l’apporto dei genitori risulta essere una scelta
quasi obbligata e ciò non può non avere ripercussioni sulla qualità dello scambio nel breve
così come nel lungo periodo.
Le giovani coppie vantano una qualità di relazione di coppia decisamente più positiva
rispetto ai propri genitori quanto ad apertura nella comunicazione, intimità e modalità di
gestione della conflittualità. È la moglie che sembra risentire maggiormente dei mutamenti
inerenti la transizione e manifesta un calo nella soddisfazione di coppia qualora non possa
contare su un significativo supporto e sostegno da parte del proprio partner. Le giovani
coppie dichiarano di aver ricevuto in passato e di ricevere anche nel presente livelli elevati
di supporto sia organizzativo che economico dalle proprie famiglie di origine, in modo
particolare dai genitori della moglie. Dunque le mogli/madri, seppur caricate dalla maggior
parte delle incombenze legate alla cura dei figli, di fatto appaiono anche saldamente
sostenute da positive relazioni con i propri genitori e in modo particolare con la propria
madre. I profili di coppia che ne emergono sono assai variegati: da un lato, un gruppo
assai consistente di coppie sembra intessere solide relazioni con entrambe le famiglie di
origine o in modo elettivo con quella della moglie; le coppie appaiono stabili, mediamente
soddisfatte della loro relazione. Dall’altro lato, possiamo collocare un altro gruppo di
coppie caratterizzate da una notevole distanza dalla famiglia di origine della moglie. In
questi casi vi è una discrepanza percettiva tra le due generazioni: i genitori ritengono di
aver contribuito di più alla vita dei propri figli in termini di sostegno rispetto a quanto non
riconoscano i figli stessi. Accanto a questo gruppo si colloca un altro insieme di coppie
accomunate da elevate insoddisfazioni e conflittualità nei confronti di entrambe le famiglie
di origine: emergono un considerevole vuoto relazionale, anche nel passato, una totale
assenza di vicinanza e supporto e un blocco nella trasmissione valoriale. Le coppie più a
rischio sono quelle in cui è la moglie ad essere in difficoltà dal punto di vista delle relazioni
con la propria famiglia di origine, in particolare con il proprio padre: questo aspetto è quello
che sembra poi ripercuotersi su molteplici aspetti della famiglia attuale (basso livello di
intimità e supporto con il marito, difficoltà comunicative, scarsa soddisfazione per la
relazione e per la divisione dei compiti domestici). I legami intergenerazionali appaiono
nella maggior parte dei casi saldi e fonte di supporto per la giovane coppia: essi
costituiscono una base sicura che consente alla giovane coppia di affrontare la transizione
alla genitorialità; ma laddove essi presentano sfaldature e carenze, possono
rappresentare un fattore di rischio. In particolare, le giovani madri sembrano poter contare
su un numero più consistente di risorse relazionali rispetto ai loro mariti, ma proprio per
questo qualora esse vengano meno è tutta la famiglia a risentirne profondamente.
Come viene percepita dalla generazione dei genitori e dei nonni la trasmissione della
famiglia e del suo valore? È questo il tema affrontato in una ricerca qualitativa in cui sono
state intervistate coppie con figli piccoli e coppie con figli preadolescenti e i loro genitori.
L’unità di analisi è quindi rappresentata da tre coppie genitoriali (la giovane coppia e i
genitori di lei e di lui) appartenenti a due generazioni diverse. Il “valore famiglia” non è mai
oggetto di domanda diretta nelle interviste ma “ricavato” attraverso alcuni ambiti discorsivi.
Il congegno di ricerca ha permesso di mettere in luce la presenza di cinque diverse
tipologie che vanno dalla presenza di un processo di trasmissione ottimale, per arrivare
fino alle situazioni più critiche. Allorchè la famiglia è giovane e con figli piccoli, resta vivo il
legame preferenziale con una delle famiglie di origine (secondo la nostra cultura quella
materna) ed è difficile che vi sia una consapevole presa d’atto della differenza tra le
generazioni che invece è più chiara nella famiglia con preadolescenti. Lo scambio tra le
generazioni (nel caso della famiglia giovane) è più prossimale che distanziale, ricevendo
tutta una serie di aiuti di cui peraltro necessita. È peraltro possibile già nella famiglia con
figli piccoli evidenziare la presenza di problemi. I “segnali” sono la chiusura nei confronti
dello scambio tra le generazioni o un’asimmetria netta tra le stirpi, con l’”esclusione”
dell’altra. È però nel tempo della preadolescenza dei figli che è possibile considerare il
processo di trasmissione nella sua qualità relazionale; qui si vede, cioè,, o la sua riuscita,
o la sua caduta. Al proposito degno di nota è la tipologia che riguarda famiglie con figli
adolescenti che hanno alle spalle una “matrice debole” (vale a dire famiglie di origine che
presentano mancanze anche gravi), ma che hanno saputo riparare a tali mancanze e sono
state in grado di rilanciare il legame generazionale.
LA GENITORIALITA’ NELL’ADOZIONE
Praticata in tutte le civiltà antiche, dagli egizi all’antica Grecia e alla Roma imperiale, si
ricorreva all’adozione per assicurare una discendenza alla famiglia e quindi la
sopravvivenza della stirpe e del cognome: garantiva dunque il diritto di eredità e la
trasmissione del patrimonio familiare. Con la diffusione del Cristianesimo si delinea un
secondo aspetto fondamentale dell’adozione, quello della accoglienza di un nuovo nato
privo di cure familiari. La trasmissione del nome e dell’eredità e dell’accoglienza
costituiscono così i due fulcri attorno a cui ha preso forma l’adozione attraverso la storia.
Assai più recentemente è andata affermandosi anche la funzione di riparazione affettiva,
ovvero la necessità di assicurare affetto e calore ad un minore che è privo di contesto
familiare adeguato, al fine di garantirne lo sviluppo psicofisico. I coniugi che intraprendono
l’adozione si trovano a far fronte al compito/sfida di stabilire una relazione genitoriale in
assenza di un legame di consanguineità. L’adozione origina da una duplice mancanza
(una famiglia per il bambino, e per la coppia la mancanza di un figlio proprio).
Distinguiamo tra fecondità e generatività: quest’ultima trascende e va ben oltre il mettere
al mondo un figlio, in quanto si configura come capacità tipica degli adulti di prendersi cura
con impegno e dedizione di ciò che si è prodotto o generato. L’adozione si posizione nel
punto di intersezione tra generatività parentale (la cura verso i propri figli)e la generatività
sociale (l’impegno che travalica i confini della propria famiglia e si trasforma in cura verso
gli altri soggetti). Lo snodo cruciale della famiglia adottiva ruota attorno al tema della
differenza, elemento cruciale nel modello relazionale-simbolico.
Nella genitorialità biologica e in quella adottiva il rapporto tra il proprio e l’altrui è diverso.
Mentre nella filiazione biologica la somiglianza è data e connaturata anche geneticamente
e il riconoscimento dell’alterità del figlio è un compito che attraversa le diverse fasi del
ciclo di vita, nell’adozione la differenza è posta all’origine, e la somiglianza/appartenenza è
costruita nel tempo. La sfida con cui i genitori adottivi si trovano a fare i conti consiste nel
comprendere e valorizzare la differenza, resa evidente dai tratti somatici diversi e spesso
anche dall’etnia, dalla cultura e dalla lingua differenti, per costruire una comune
appartenenza familiare. I genitori adottivi sono dunque chiamati a trasformare l’altrui in
proprio, senza per questo annullarlo o cancellarlo. Risulta fondamentale quel processo
interiore di legittimazione di sé e del proprio coniuge come genitori di quel figlio. La
legittimazione è all’opera anche nella filiazione biologica, ma nell’adozione può essere
ostacolata proprio dalla differenza riconducibile alle origini, all’assenza di un patrimonio
genetico comune, alla mancata condivisione dei primi momenti di vita e in molti casi dei
primi anni di vita. La centralità che è stata attribuita al tema della legittimazione, qual
componente cruciale della relazione genitori-figli nell’adozione, ha portato a costruire una
specifica scala che è stata utilizzata in diverse ricerche e che intende misurare quanto i
genitori sono riusciti nel compito di assunzione piena della responsabilità genitoriale e
quanto percepiscono il figlio come continuatore della propria storia familiare e, da parte del
figlio, quanto riconosce il padre e la madre come genitori a tutti gli effetti e si sente
appartenente alla famiglia. I genitori adottivi con un più forte senso di genitorialità
consentono ai figli di percepire se stessi come appartenenti a di “mettere radici” nella
famiglia adottiva, nel riconoscimento della differenza di origine. Inoltre, la genitorialità e la
filiazione adottive sono risultate legate ad una molteplicità di altre dimensioni delle
relazioni familiari e, in particolare, alla comunicazione genitori-figli e al supporto. Quanto
più fluida è la comunicazione nella famiglia e quanto più saldi sono i legami, tanto
maggiore è il senso di appartenenza reciproca per i genitori e per il figlio adottivo. La
percezione della genitorialità adottiva costituisce il più importante fattore protettivo in
quanto riduce la probabilità che il figlio possa manifestare problemi comportamentali.
IL PATTO ADOTTIVO
Il legame genitori-figli nell’adozione è stato definito, alla luce dell’approccio relazionale-
simbolico, come “patto adottivo”. Tale termine, solitamente usato per indicare il legame
coniugale, può essere esteso anche al legame tra genitori e figli adottivi, in quanto
nell’adozione sono salienti, più che nella filiazione biologica, gli aspetti di comune
impegno, sia da parte dei genitori che dei figli, nella costruzione del legame genitoriale. Se
nelle prime fasi sono i genitori che hanno la regia della costruzione del patto, nel tempo
anche i figlio è chiamato a riconoscere quegli adulti che per molti anni lo hanno cresciuto
come genitori a pieno titolo e ad accogliere ciò che essi hanno trasmesso. Sono state
individuate diverse modalità di patto in base alle diverse modalità di trattare la differenza
originaria del figlio. Il patto di riconoscimento e di valorizzazione delle differenze è proprio
di quelle famiglie in cui l’adozione non solo è entrata a far parte della storia familiare, ma è
considerata un valore aggiunto.
Nel patto di assimilazione reciproca l’evento adottivo con le sue origini oscure è tenuto
presente, ma è neutralizzato e messo tra parentesi nel tentativo di assomigliare il più
possibile alle famiglie biologiche e di assimilare il figlio adottivo al figlio biologico.
Il patto imperfetto sta ad indicare un patto “in bilico”, in quanto manca quella quota di
reciprocità; i genitori possono, per esempio, proporre al figlio un patto di assimilazione, ma
il figlio adolescente risulta essere molto ambivalente verso il presente e verso il passato.
Il patto di negazione è caratterizzato dalla espulsione, sia da parte dei genitori, sia da
parte del figlio, dell’adozione dalla propria storia, vissuta da entrambi come troppo
dolorosa. Nel patto impossibile genitori e figli si trovano su posizioni
tanto distanti da risultare impossibile stipulare qualsiasi patto e il figlio è vissuto
sostanzialmente come un estraneo tanto che gli aspetti negativi del suo comportamento
sono imputati alle sue origini. Il legame che si
viene a creare tra genitori e figlio rimanda al legame con le rispettive famiglie di origine.
Infatti, per alcune coppie, il riconoscimento di aver ricevuto dei “doni” dalle famiglie di
origine porta ad individuare nell’adozione una modalità per poter trasmettere in avanti
questo patrimonio. In altri nuclei, invece, le relazioni con entrambe le famiglie di origine, o
con una sola di queste, sono ancora caratterizzate dalla presenza di “conti aperti” e
l’adozione è vissuta come una modalità messa in atto dalla coppia coniugale per prendere
le distanze e marcare una frattura dai rispettivi genitori. Le modalità di patto sono sempre
suscettibili di cambiamento. La costruzione del legame materno e di quello paterno può
seguire itinerari diversi: non sono rari i casi in cui si assiste, subito dopo l’ingresso del
bambino, a una maggiore linearità nella costruzione del legame paterno e ad un
andamento a “meandri” nel legame materno, caratterizzato da movimenti ambivalenti di
avvicinamento reciproco e di distanziamento. Da una parte,infatti, è per la madre assai
faticoso costruire un legame, quando il passato è segnato da fratture spesso ripetute nella
relazione con la figura femminile. Se i comportamenti problematici dei bambini
rappresentano una sfida nel percorso di costruzione della genitorialità, non costituiscono di
per sé un ostacolo nello stabilire un legame saldo e nella definizione dell’appartenenza
familiare. Ciò è possibile nella misura in cui la coppia genitoriale riesce ad accogliere gli
aspetti problematici come manifestazione di disagio e difficoltà del bambino e non come
attacco alla propria genitorialità.
Gli adolescenti che appartengono alle prime due tipologie mostrano livelli superiori di
filiazione adottiva, una comunicazione sulle tematiche adottive più aperta e maggior
supporto dai propri genitori, rispetto agli altri. Inoltre sono stati evidenziati adeguati livelli di
adattamento e di benessere sia tra gli adolescenti che rientravano nella tipologia “duale”
sia in quella “assimilata”, ma i primi presentano livelli superiori di autoefficacia, di
autostima e di benessere, rispetto agli ultimi. Infatti, si può affermare che gli adolescenti e
giovani adulti che hanno costruito una positiva identità etnica, unitamente ad una salda
appartenenza familiare, abbiano livelli superiori di benessere e soprattutto una
progettualità futura maggiormente definita. Non è scontato che la sola identificazione con i
due background di riferimento, quello nazionale e quello etnico, possa essere un elemento
chiave per il benessere psicosociale dell’individuo, ma è necessario anche un processo di
integrazione tra questi due aspetti, interiorizzati e percepiti come compatibili tra loro. Le
strategie messe in atto perché il figlio possa conoscere e valorizzare il background
culturale da cui proviene, sono risultate avere un ruolo importante nella formazione
dell’identità etnica, a condizione che i legami familiari siano saldi e l’appartenenza
familiare ben consolidata, altrimenti tali strategie rischiano di assumere una valenza
opposta e portare alla distanza, fino addirittura all’estraneità. Sono i giovani adulti (20-25
anni) a mostrare, rispetto agli adolescenti (15-19 anni), livelli inferiori di problemi emotivo-
comportamentali, livelli superiori di benessere, una più salda percezione della filiazione
adottiva, una relazione con i genitori meno conflittuale e maggiormente caratterizzata dalla
promozione dell’autonomia. Infine, l’importanza di assumere uno sguardo lungo nella
comprensione delle relazioni familiari ha spinto ad indagare la transizione alla genitorialità
nelle coppie in cui uno dei partner è adottato. La nascita di un figlio proprio rimanda
inevitabilmente all’essere stati a propria volta figli e ciò può avere risonanze del tutto
particolari per l’adottato. È infatti nel lungo periodo che si può cogliere più chiaramente
l’eco di eventi particolari, che segnano l’intersa esistenza di chi li vive, come l’adozione.
L’adulto adottato quando diventa genitore è chiamato ancora una volta a confrontarsi e a
risignificare la propria storia, in particolare la questione cruciale dell’abbandono, e a
decidere che cosa trasmettere in avanti alla nuova generazione. È emersa un’ampia
variabilità nella modalità di rilettura dell’evento adottivo; per alcuni è qualcosa di chiuso per
sempre, che non ha nessun effetto sull’oggi; per altri, invece, la nascita di un figlio proprio
ha ridestato con nuovi accento molti interrogativi: chi si è preso cura di loro quando
avevano l’età che hanno ora i loro figli? Come mai sono stai abbandonati? Questi
interrogativi hanno portato la maggior parte degli adulti adottati a rileggere il passato, e ad
apprezzare ciò che ha ricevuto dai genitori adottivi; assai più raramente ciò ha condotto a
trincerarsi in un atteggiamento di rivendicazione di ciò che non si è potuto avere. In questo
compito, l’adottato ora non è solo, ma è inserito in una relazione di coppia. A volte è
proprio il partner ad aprire, spingere e sostenere l’adottato nel compito di risignificazione
degli eventi della propria storia; altre volte, al contrario, chiude, copre, ostacola.
Nell’affido l’esercizio della funzione genitoriale non viene trasferito in toto alla famiglia che
accoglie il minore, ma è “condiviso”: i genitori affidatari assumono temporaneamente la
responsabilità della cura, mentre l’appartenenza familiare rimane alla famiglia di origine.
La letteratura internazionale ha concepito l’affido nei termini di un interventi ripartivo e
migliorativo, se messo a confronto con l’istituzionalizzazione. L’affido è stato inteso come
evento familiare e sociale ed è quindi stato concepito come uno scenario nel quale si
incontrano più attori e si intrecciano diverse rappresentazioni di genitori affidatari, famiglie
di origine e operatori, questi ultimi considerati come fondamentali protagonisti nel ruolo di
mediatori tra le famiglie implicate. Il benessere del minore è stato collegato non solo al
mero adattamento comportamentale ma ad una pluralità di dimensioni. In particolare una
grande rilevanza è stata attribuita al tema della percezione dei confini familiari da parte del
minore e al nodo cruciale della “doppia appartenenza”, intesa come la condizione tipica
del minore in affido che si trova a gestire il suo rapporto tra due famiglie. Diverse ricerche
hanno messo in evidenza come il figlio in affido mantenga un legame tenace con le origini,
anche nel caso in cui i rapporti con le famiglie naturali non vengano coltivati. In diversi
lavori è stato sottolineato un altro tema cruciale del processo di affido, ossia quello
dell’accesso alle origini, come condizione per proteggere la trasmissione
intergenerazionale nella storia del figlio in affido e per consentire al minore di vivere in
maniera non ambigua la propria doppia appartenenza. Lo sviluppo della ricerca ha
riconosciuto nell’affido una forma di genitorialità sui generis, condivisa tra genitori affidatari
e genitori naturali. Le ricerche condotte sull’affido sono state realizzate secondo un
approccio quali-quantitativo. Si è osservato come la percezione della doppia appartenenza
alla famiglia di origine e a quella affidataria fosse rilevabile attraverso strumenti diversi.
Dalle scale self report infatti i ragazzi in affido sembravano esprimere un desiderio di
appartenenza totale alla famiglia affidataria, mentre nel test grafico-simbolico si
disegnavano come appartenenti alla famiglia d’origine. Anche nei genitori affidatari si
osservava spesso una discrepanza tra ciò che dichiaravano attraverso le scale di self-
report e ciò che disegnavano nel test grafico. Gli strumenti self-report mettono in evidenza
l’aspetto fattuale ed esplicito legato al ruolo accuditivo-educativo svolto dalla famiglia
affidataria, mentre le altre due dimensioni, più implicite e legate agli aspetti profondi del
simbolico, sono evidenziate dagli strumenti qualitativi. Dalla ricerca riguardo alla
esperienza innovative di affido di neonati, è emerso in modo particolarmente accentuato il
problema della pensabilità del legame con le origini. Il neonato è considerato spesso dalle
famiglie affidatarie “lindo di storia e di legami”, quasi potesse non portare con sé una storia
e dei legami intergenerazionali, solo perché è stato allontanato precocemente dalla propria
famiglia di origine. Nella ricerca in corso sulla fratria dell’affido, si è osservato come i
fratelli congiunti tendano a schierarsi con la famigli affidataria, forse perché quando il
legame con il polo naturale è assicurato dalla presenza del fratello naturale ci si può
permettere di legarsi anche alla famiglia affidataria. Infatti chi è in affido con una modalità
disgiunta sembra manifestare più frequentemente il problema di “salvare” in qualche modo
il legame con la famiglia naturale: nel fratello i fratelli disgiunti tendono a mettere il fratello
vicino a sé, a voler rimarcare il legame con lui, mentre nei fratelli collocati congiuntamente
si evidenziano maggiormente sentimenti di competizione.
Una rilettura trasversale delle ricerche condotte all’interno della prospettiva relazionale-
simbolica in questi decenni sulla genitorialità nelle famiglia divise mette in luce una
caratteristica costante: il tentativo di produrre una conoscenza che sia in grado di
confrontarsi con la letteratura specialistica sul tema, senza rinunciare alla specificità che la
prospettiva relazionale aggiunge. Dal punto di vista metodologico l’aspetto più originale è
senza dubbio il ricorso ad “impostazioni miste”, cioè all’utilizzo di apparati di indagine
multimetodologici, che prevedono una combinazione di strumenti e tecniche di analisi
quantitative e qualitative, e multidimensionali, che prevedono il contemporaneo ricorso a
diverse fonti informative ovvero la considerazione del punto di vista dei diversi soggetti. Si
tratta di procedure non semplici e assai dispendiose dal punto di vista operativo, e non
prive di problemi, soprattutto per quanto riguarda la “confrontabilità” tra dati di natura
diversa. Nella letteratura troviamo moltissima ricerca empirica dedicata agli effetti che il
divorzio può produrre sulle condizioni di benessere e sui processi evolutivi dei figli, con lo
scopo di verificare attraverso la comparazione tra le famiglie intere e famiglie divise quanto
la condizione di separazione dei genitori produca disagio o disadattamento dei figli. Il tema
è trattato attraverso dispositivi di indagine che prendono in considerazione dimensioni e
variabili relative al funzionamento socio cognitivo e comportamentale, oltre che alle
condizioni di benessere o di psicopatologia dei singoli componenti del nucleo familiare.
Nell’ottica relazionale-simbolica queste tema è stato affrontato superando il livello di
analisi individuale e cercando di valutare gli effetti che l’evento separativo produce sullo
sviluppo dei figli in un’ottica perlomeno sommativa, cioè tenendo conto
contemporaneamente delle posizioni di entrambi i genitori e delle loro reciproche
rappresentazioni. Ciò significa considerare in modo esplicito la connessione tra il piano
genitoriale e quello coniugale, superando l’idea che la potenziale problematicità che la
separazione dei genitori può indurre nello sviluppo dei figli sia unicamente riconducibile
alle forme e all’intensità del conflitto esistente tra i genitori e alle modalità con cui esso
viene o meno giustificato, quanto anche alla possibilità concreta per il figlio di continuare a
sperimentare un’appartenenza comune e integrata all’intero sistema familiare. Una
seconda accentuazione specifica delle ricerche condotte riguarda la considerazione degli
elementi simbolici e storico-generazionali che contraddistinguono il processo di
riorganizzazione delle relazioni familiari a seguito del divorzio. Si tratta di tenere conto
degli elementi latenti dei legami familiari che la transizione porta in primo piano. Da una
letteratura centrata esclusivamente sull’adattamento-disadattamento di fronte al divorzio e
che ha avuto come focus gli effetti a breve termine e l’arco temporale immediatamente
seguente la rottura, si è passati a prestare attenzione a ciò che avviene in età giovane
adulta e agli aspetti di coping non solo cognitivo-affettivi ma anche etici delle persone
coinvolte nella situazione di divorzio. Così alcune ricerche hanno preso in considerazione
il sentimento di ingiustizia che attraversa le relazioni familiari a seguito della frattura del
divorzio, mentre altre hanno cercato di considerare se e come figli adulti e genitori hanno
cercato negli anni il conforto e il chiarimento reciproco. I figli nelle famiglie divorziare
risultano più timorosi e incerti per quanto riguarda la percezione del futuro e in particolare
il matrimonio. Inoltre hanno valutazioni meno positive delle relazioni familiari rispetto alle
famiglie intatte: mentre buoni sono i livelli di comunicazione con la madre (anche se
inferiori a quelle delle famiglie intatte), decisamente più problematica risulta la relazione tra
figli e padre che è, nella maggioranza dei casi, il genitore non affidatario. Pur nel
denunciare le difficoltà dell’attuale situazione i giovani riconoscono di aver ricevuto
qualcosa di bene dalle loro famiglie. Il quadro prevalente vede campeggiare la madre sia
per i maschi che per le femmine: è lei in grado di fornire supporto e cura anche con
sacrificio, nonché di trasmettere valori etici e spirituali, che viene identificata come fonte
benefica. Il padre risulta assente o del tutto marginale ed è spesso escluso dalla
rappresentazione della vita familiare. In alcuni pochi casi, però, la fonte benefica viene
riconosciuta alla coppia genitoriale. In entrambe le situazioni comunque i figli si
rappresentano il confronto tra il loro passato familiare e il loro futuro nei termini di errore
(dei genitori) e volontà di riscatto da parte loro. Diverso è l’atteggiamento di maschi e
femmine di fronte alla “mancanza” paterna e all’”eccesso di presenza” materna. I maschi
sentono la mancanza del padre nei termini del genitore che stabilisce le regole e fa da
guida e prendono le distanze emotivamente dalla madre, mentre le femmine invece
avvertono soprattutto la mancanza del partner accanto alla madre. I maschi, nel
prefigurarsi la loro futura vita familiare, evidenziano una identificazione critica con il padre
e perciò temono di ripetere l’errore paterno. Le figlie femmine, invece, temono di non
trovare un partner affidabile o di non essere in gradi di legarlo a sé.
LE FAMIGLIE RICOMPOSTE
La ricerca clinica sulla genitorialità nelle famiglie separate si è negli ultimi anni soffermata
anche su altri due aspetti: lo studio della relazione fraterna e l’analisi delle dinamiche
all’interno delle famiglie ricomposte o ricostituite. Nel primo caso si è trattato di un’indagine
attraverso un dispositivo multimetodologico. È stato possibile evidenziare la presenza di
effetti differenzianti nel divorzio, nel senso ch ei fratelli, tenendo anche conto della loro età
e del genere, provano sentimenti specifici e cercano vie d’uscita dal dolore specifiche. Se
dunque il clima familiare è comune, diverse sono le modalità dei figli di elaborare il lutto
per la perdita dell’unità genitoriale. I genitori possono attribuire ai fratelli una funzione di
sostegno e di riparo dal dolore del divorzio, oppure una funzione di competizione e di
attacco reciproco. I genitori possono commettere errori di attribuzione nei confronti dei figli
(per esempio ad uno di essi attribuire una maturità che non ha). Se i genitori sentono che i
figli hanno loro specificità e che ognuno è in grado di offrire qualcosa all’altro avremo un
fattore protettivo. Se invece essi parlano di una “guerra fratricida” avremo un fattore
deviante. L’esercizio della genitorialità all’interno delle famiglie ricomposte incontra alcuni
potenziali ostacoli relazionali. La letteratura sul tema si focalizza sulla dimensione
spaziale, dedicando particolare attenzione al tema dei “confini”. La variabile relativa ai
confini permette di sottolineare la necessità di una gestione flessibile dei rapporti,,
dovendo gestire il rapporto con i figli e con la parentela precedente e quello con i figli e
con la parentela attuale. La risultanza della ricerca ha in messo in luce la presenza di un
indicatore prognostico importante per la riuscita, o meno, del nuovo legame di coppia-
famiglia. Si tratta del rispetto della triangolarità dei legami. La presenza del “terzo
genitore”, cioè del nuovo partner del genitore, non va considerata come un’alternativa o
un’aggiunta alla precedente relazione ma piuttosto come la spia della riuscita o del
fallimento del passaggio che riguarda la famiglia ricomposta. Infatti, il “terzo”, l’altro
rispetto alla coppia genitoriale non si legittima da sé ma avrà sempre bisogno che gli altri
riconoscano spazio e funzioni. Sono frequenti sia il fantasma dell’abolizione di un genitore
(in genere il padre, che da parte sua può defilarsi dal legame genitoriale vivendo altre
relazioni di coppia) sia quello della sostituzione con il nuovo partner. Da qui discendono
alcuni specifici pericoli a cui sono esposte le famiglie ricomposte dal punto di vista
generazionale. Essi sono stati identificati con la chiusura e la sostituzione. Nel primo caso
infatti si concretizzano il fantasma del genitore unico e l’inclusione del figlio in un’’unica
stirpe, mentre l’altra viene ignorata. Nel secondo caso opera invece l’onnipotenza del
pensiero, vale a dire di poter sostituire, di fatto, un genitore con un altro (in genere il
padre). Il nuovo partner può avere uno “spazio genitoriale” solo se ci sono un padre e una
madre che garantiscono la gerarchia dei legami, ancor più che i confini. Per esempio può
essere un padre che non ha timori relativamente alla propria paternità e così può
consentire che il compagno dell’ex moglie eserciti anch’egli funzioni di guida-sostegno dei
figli. Ciò ovviamente non significa che il nuovo partner costituisca un elemento
problematico. Egli può esercitare funzioni genitoriali che possono compensare non poche
mancanze. Attraverso una ricerca è stata messa in luce una
dissonanza tra l’immagine che i figli hanno della famiglia ricomposta e l’immagine che ne
ha la nuova coppia genitoriale. Due terzi dei figli intervistati dichiarano nelle interviste di
accettare nella vita quotidiana il padre acquisito, di vedere in lui, se non un genitore,
almeno un importante punto di riferimento. Tali affermazioni si accompagnano però ad una
rappresentazione più problematica della propria appartenenza, poiché i ragazzi si
rappresentano graficamente come isolati, segnalando di non riuscire a sentirsi pienamente
appartenenti né ala nuova situazione, né alla famiglia del passato. Emerge qui il tema del
conflitto di lealtà, dovuto alla necessità si trovare un equilibrio tra figure che occupano un
posto diverso entro la geografia familiare. Da parte sua la nuova coppia genitoriale
favorisce una rappresentazione assai diversa della famiglia che infatti disegna un nucleo
familiare compatto, nel quale hanno un posto chiaro i figli acquisiti, e sembra certa della
nascita di una nuova famiglia. Ma, all’opposto dei figli, nell’intervista sottolinea maggiori
elementi di problematicità relativamente al ruolo del genitore biologico nella veste di
“supergenitore” e di quello del padre acquisito come di una figura intermedia tra il “genitore
vero” e il minore. Sono più a rischio le situazioni in cui i tre familiari (madre, padre
acquisito e figlio) parlino lingue diverse tra loro. Le difficoltà della nuova coppia di trovare il
proprio stile relazionale e genitoriale fanno diminuire lo spazio di ascolto del minore e delle
sue esigenze. Così il rischio che si corre in alcune famiglie ricomposte è che di fronte a
comportamenti sottilmente o manifestatamente provocatori del figlio acquisito, il nuovo
partner della madre arretri, lasciando solo il genitore biologico a svolgere un compito
educativo che può diventare sempre più difficile, in particolare se c’è incomprensione nella
coppia genitoriale originaria.
7 CAPITOLO
LA TRANSIZIONE ALL’ETA’ ADULTA
INTRODUZIONE
Nel trattare il tema della famiglia del giovane-adutlo secondo il modello relazionale-
simbolico è stata approfondita l’analisi di alcuni processi e costrutti peculiari: la qualità
delle relazioni familiari, la trasmissione e la generatività familiare e sociale. I partecipanti
alla ricerche sono famiglie con almeno un figlio di età compresa fra i 15 e 30 ani.
Pensare per generazioni alla luce del modello relazionale-simbolico implica mettere a
fuoco i concetti di ambivalenza insita nei rapporti tra le generazioni e di responsabilità
sociale. Considerare l’ambivalenza presente nei rapporti tra le generazioni familiari e
sociali significa tener conto della categoria dell’imprevedibilità, generata dalla libertà di cui
dispone la singola persona. L’esercizio della libertà nelle relazioni tra i membri di diverse
generazioni può avere esiti imprevedibili. La libertà di cui ciascuno dispone non esime
però le generazioni precedenti dall’assumersi la responsabilità di promuovere ostacolare
la possibilità che la generazione successiva possa essere generativa o meno. Ci si chiede
se tra le generazioni ci sia continuità o meno, somiglianza o differenza e come ogni
generazione possa costruire un’identità generazionale che sappia coniugare innovazione
e conservazione, che sappia essere generativa partendo da un patrimonio valoriale e
simbolico ricevuto in dono dalla generazione precedente. A queste domande si è cercato
di rispondere con due filoni di ricerca: l’uno sullo pro socialità e l’impegno civico delle
giovani generazioni, e l’altro sulla somiglianza-differenza di valori tra le generazioni in
famiglia. Il primo filone di ricerca ha previsto l’impiego di strumenti qualitativi e quantitativi
al fine di misurare l’influenza del contesto familiare e delle relazioni in esso presenti
sull’impegno di giovani volontari. Da queste ricerche emerge l’esistenza di un tipo di
famiglia “prosociale”, ossia in grado non solo di trasmettere un bagaglio valoriale
improntato alla solidarietà, alla pro socialità, alla condivisione, ma anche di consentire alle
nuove generazioni uno spazio per poter dire di nuovo quanto ricevuto dalla generazione
precedente. Sono famiglie in cui i genitori sono generativi: mostrano di avere uno stile
educativo autorevole. Le ricerche condotte su questo tema mostrano la presenza di una
matrice familiare in cui padre e madre esercitano a titolo diverso un’influenza sui figli: i
padri offrono il “terreno” pro sociale e di impegno personale e la madre agisce poi sulla
scelta concreta dell’impegno nell’ambito del volontariato offrendo esempio, valori, modalità
relazionali con il mondo esterno improntate alla’apertura, alla condivisione, allo scambio
sociale. Dalle ricerche emerge la figura del padre come mediatore tra la famiglia e il
mondo sociale. I genitori delle famiglie prosociali si assumono il compito di
promuovere generatività e i valori a essa connessi, bilanciando aspetti di tradizione relativi
alla propria generazione e al proprio ruolo adulto genitoriale e aspetti di innovazione,
portati dalle nuove generazioni. Perché sia efficace questo passaggio di consegne da una
generazione all’altra è necessario che vengano riconosciute tutte e tre le componenti della
generatività: dare vita, curare e lasciare andare. Tale passaggio di consegne prevede
anche il passaggi odi valori. Nel processo di acquisizione dei valori da parte delle giovani
generazioni, la famiglia è ritenuta essere ancora oggi la principale fonte di socializzazione.
La trasmissione dei valori tra i genitori e i figli riguarda i patrimonio morale che i primi
consegnano ai secondi e ciò che questi ultimi ritengono meriti di essere accolto,
trasformato e che scelgono a loro volta di trasmettere. In letteratura i risultati di tale
processo sono stati spesso valutati in termini di similarità: proprio la rilevazione di questa
similarità o meno è al cuore di una ricerca sui valori nelle famiglie con adolescenti e
giovani adulti, fase in cui riuscire a differenziarsi, cioè a mantenere sia continuità che una
propria autonomia, costituisce il compito evolutivo cruciale che coinvolge l’intera famiglia.
Nella ricerca sono state considerate tre generazioni (figli adolescenti o giovani-adulti,
genitori e nonni) ponendo l’accento sulla loro diversa appartenenza generazionale ma
anche sottolineando il fatto che si tratta sì di generazioni diverse, ma tra loro legate da
vincoli di parentela. Trasmettere è far passare un oggetto, un pensiero, una storia, degli
effetti da una persona all’altra, da una generazione all’altra. I risultati consentono di
affermare che, al di là di alcune differenze, i figli riconoscono la presenza di un “nocciolo
valoriale”, condiviso con i genitori, ma anche con i nonni. Le femmine mostrano valori più
simili a quelli dei propri genitori rispetto ai coetanei di sesso maschile: le giovani sono più
accurate nel percepire i valori dei genitori. Si potrebbe ipotizzare che la sensibilità alle
relazioni, tipica del genere femminile, e il valore attribuito alle relazioni facilitino la
trasmissione e l’interiorizzazione. Inoltre, la similarità genitore-figlio adolescente è risultata
di minor entità rispetto a quella tra genitori e figli giovani-adulti. Questo risultato va a
sostegno dell’ipotesi di un progressivo avvicinamento, con la crescita dei figli, a quelli che
sono i valori dei genitori. L’assunzione di responsabilità adulte che comporta un impegno
sul piano personale, affettivo e sociale si accompagna a una maggiore vicinanza tra figli e
genitori in relazione alle rispettive priorità valoriali. Nel corso della transizione all’età adulta
genitori e figli tendono ad avere percezioni maggiormente condivise; migliorano la
comunicazione e il supporto, mentre si riducono gli aspetti conflittuali e di disaccordo. Ciò
che viene trasmesso può mutare forma in tempi di grandi cambiamenti, ma ciò che deve
sempre essere salvaguardato è il desiderio di essere generativi, ovvero a partire dal
riconoscimento di ciò che si è ricevuto, il desiderio di trasformare il patrimonio simbolico-
valoriale e di riconsegnarlo in avanti alla generazione successiva.
GENERATIVITA’
8 CAPITOLO
LA FAMIGLIA IN MIGRAZIONE
INTRODUZIONE
Se guardiamo al vasto corpus della letteratura scientifica in merito alla famiglia, notiamo
che essa ha focalizzato l’attenzione sulla variabile e la variabilità culturale sia per spiegare
l’adattamento culturale degli individui migranti, sia per comprendere le pratiche di cura fra
genitori e figli, ma anche per affrontare alcune questioni connesse al rapporto tra i coniugi.
L’aspetto culturale diviene dunque la principale chiave di lettura di molti aspetti connessi
alla migrazione. In realtà ciascuno di noi esperisce ed esprime un modo specifico di
intendere le relazioni familiari, le quali sono difficilmente assimilabili al modello culturale
ipostatizzato. Se ci addentriamo nell’ambito della ricerca sulla migrazione familiare
rinveniamo due importanti tradizioni di studio: la prospettiva intergenerazionale e quella
sulla relazione di coppia. Per quanto riguarda la ricerca intergenerazionale, che si rivolge
in particolar modo alla strategia di adattamento familiare, alle pratiche genitoriali e alla
trasmissione di valori tra le generazioni, la letteratura empirica si focalizza sullo studio
della relazione fra genitori e figli dopo la migrazione, tralasciando la generazione di nonni
e gli aspetti del contesto familiare allargato che sappiamo avere molta rilevanza
nell’educazione dei figli. Ruoli di genere e differenze di potere, strategie di coping e di
acculturazione, soddisfazione coniugale e comunicazione nella coppia sono i temi
maggiormente indagati dai ricercatori. L’obiettivo è quello di analizzare ed evidenziare in
che modo persone, coppie, famiglie che hanno in comune una o più esperienze migratorie
cercano di affrontare e dare senso a questo evento critico e quali ricadute ha comportato
nell’organizzazione della vita familiare. Il tema fondane delle transizioni, in quanto
accadimenti-passaggi che costringono alla riorganizzazione familiare e che quindi svelano
molto dei significati che sostanziano le relazioni familiari, è stato di conseguenza al centro
di ognuna delle ricerche condotte ed è stato sviluppato a partire dal racconto degli eventi
cruciali occorsi prima e dopo la migrazione. Capire come le persone hanno fronteggiato
questi momenti ha permesso di comprendere la portata valoriale e i problemi incontrati.
Particolare attenzione è stata dedicata ad analizzare le relazioni tra i componenti della
famiglia nei loro aspetti simbolici e fondativi, con un focus specifico sulle differenze tra
generi le generazioni nei differenti contesti di vita. L’esito generativo è stato messo a fuoco
e indagato relativamente alla coppia, ai figli e alla prefigurazione del loro futuro, ma anche
attraverso il confronto e lo scambio pensabile e attivo con l società di accoglienza e quella
delle origini. Una lettura del fenomeno migratorio coerente con il modello relazionale-
simbolico ha richiesto la messa a punto di specifici dispositivi di ricerca che hanno
consentito alle persone di raccontare di sé, della propria storia e delle proprie esperienze.
Ciò ha comportato la decisione di optare per l’utilizzo di strumenti di ricerca
prevalentemente di tipo qualitativo, particolarmente in grado di far emergere nella
narrazione condivisa e nella esecuzione di compiti specifici i significati che le persone
attribuiscono alla loro esperienza migratoria. La scelta di utilizzare differenti strumenti di
indagine (l’intervista clinica, le interviste semi-strutturate, i focus group, i compiti di tipo
grafico-simbolico, gli stimoli pittorici evocativi) ha consentito poi la produzione di
informazioni complementari,, nel tentativo di far fronte ai limiti intrinseci di ogni strumento e
con l’obiettivo di sollecitare differenti modalità di espressione personale (riflessioni-parola,
costruzione di significati, azione).
Qui vengono presentate due ricerche che hanno messo a fuoco alcuni aspetti
fondamentali delle relazioni familiari, quello del rapporto tra generazioni e quello del
rapporto coniugale. Sono state intervistate donne di prima e di seconda generazioni
provenienti da paesi del mondo arabo (Egitto e Marocco) e dal Pakistan con un duplice
obiettivo: comprendere l’influenza esercitata dai legami intergenerazionali sulla
costruzione della loro identità e capire il ruolo esercitato dall’evento migratorio nelle
dinamiche familiari di queste donne. Sul piano metodologico il lavoro si è declinato lungo
due direttive: da un alto, consentire alle donne uno spazio di parola per riannodare i fili del
loro percorso migratorio e per condividere il valore attribuito ai propri legami familiari;
dall’altro, invitarle a un gesto-azione per fornire una rappresentazione simbolica del
proprio spazio di vita familiare. Alle ragazze più giovani è stato chiesto anche di portare
degli oggetti che le rappresentassero in quella fase della loro vita. Appare con forza che il
familiare è realmente il simbolico che unisce, e ciò diventa ancora più evidente di fronte
alla possibile disgregazione indotta dall’evento migratorio. Il legame familiare è e rimane la
sorgente primaria nella definizione di sé di entrambe le generazioni. La lontananza dalla
propria patria, le fatiche, i sacrifici non mettono in dubbio il fatto ch esista un ancoraggio
identitario alla propria realtà familiare che è fonte di consolazione per le prima generazioni
ed è fonte di ispirazione per le seconde generazioni. La migrazione fa risaltare il principio
delle relazioni familiari, in particolare il senso del dono/debito inerente lo scambio
familiare. Ogni donna intervistata sente di avere un debito da onorare nei confronti delle
generazioni che seguono o che precedono. In questa prospettiva, la migrazione viene letta
dalla generazione della madri come un dono fatto alle generazioni più giovani perché
possano riscattarsi a livello sociale. Le giovani adolescenti non a caso ribadiscono con
convinzione l’importanza di una riuscita scolastica e professionale che dia ragione e senso
ai sacrifici dei loro genitori. L’equilibrio tra dimensioni affettive ed etiche è sbilanciato sul
secondo versante. La famiglia è innanzitutto il luogo normativo delle tradizioni familiari e
religiose da preservare e da tramandare. La dimensione affettiva è presente, ,a viene
dopo. Il ruolo della donna prevede la sequela del coniuge e non pare che la forte
dipendenza nei confronti dell’universo maschile sia vissuta con particolari tensioni. Anche
le giovani generazioni, spesso attratte da modelli comportamentali e stili di vita diversi
dall’universo culturale dei genitori, si scoprono molto più tradizionaliste rispetto alle scelte
affettive e immaginano un futuro in larga misura determinato dalle scelte genitoriali, senza
che questa consapevolezza sembri mettere in difficoltà. Il legame familiari, anche nelle
culture più tradizionali, non è immutabile nelle sue forme e nei suoi significati. Insieme a
narrazioni che evidenziano situazioni di chiusura o di emarginazione che certamente
rimandano a difficoltà di comprensione e di condivisone dei propri e degli altrui codici
culturali, esistono situazioni in cui le donne sono in grado di trattare le differenze culturali e
negoziare, certe volte in modo sorprendente, il proprio universo valoriale con quello del
nuovo contesto per dare origine a forme di integrazione. Quello che viene espresso come
conquista sono l’accesso e la sperimentazione di una dimensione più affettiva del legame.
Questi mutamenti non avvengono però in maniera automatica. Sono processi di
trasformazione che appaiono destinati a realizzarsi su un arco temporale che si prospetta
lungo. La seconda
ricerca si è prefissata di indagare significati e modalità relazionali di coppie immigrate in
Italia dalle Filippine, dal Marocco e dal Pakistan. Obiettivo dello studio è evidenziare le
storie familiari e le esperienze di vita coniugale prima e dopo l’incontro con la cultura di
accoglienza. In particolare sono stati indagati spazi ed elementi disponibili per il
confronto/incontro con la società ospitante, così come gli aspetti che rendono difficile il
dialogo con la cultura occidentale a causa di differenze ritenute inconciliabili. La coppia
può essere considerata il mediatore generazionale e familiare per eccellenza. La coppia è
snodo generazionale in quanto generazione di mezzo che raccoglie, fa proprio a anche
rifiuta mandati e significati di una generazione che la precede, e allo stesso tempo essa
propone, tramanda, trasmette valori alla generazione che segue. In questa prospettiva è
interessante cogliere i ruoli, i compiti e le funzioni che i partner assumono. Dal punto di
vista metodologico è stato privilegiato il dialogo fra la coppia e il ricercatore. La coppia ha il
suo “proprium” in un insieme di aspetti che vanno al di là delle rappresentazioni
interiorizzate dei singoli partner, così come delle loro percezioni, dei loro affetti o valori.
Non a caso le prospettive psicologiche relazionali hanno ripetutamente teorizzato il valore
dell’incontro delle persone congiuntamente per poter cogliere gli aspetti fondativi e le
specificità della loro relazione. Gli strumenti impiegati esprimono la consapevolezza della
molteplicità degli aspetti che costituiscono la relazione familiare e della sua intrinseca
multidimensionalità. È stato utilizzato un adattamento dell’Intervista clinica generazionale
nel dialogo tra coppia e ricercatore in quanto strumento in grado di indagare le generatività
familiare dal punto di vista della coppia. L’intervista si compone di aree tematiche. La
prima area esplora il rapporto con le origini e in particolare come ciascun partner ha
vissuto nella propria famiglia; quali scambi generazionali ha sperimentato e come sono
stai interiorizzati; quali ricordi, quali regole, riti e ambienti ha esperito, anche relativamente
alla vita di coppia e di famiglia; cosa porta con sé, ma anche cosa lascia del bagaglio
valoriale e del modello di coppia ricevuti.
Il secondo asse si prefigge di indagare il rapporto di coppia e i fondamenti che lo
costituiscono: l’incontro e la scelta, gli aspetti che hanno consentito di costruire il legame,
la capacità trasformativa della relazione relativamente a situazioni/eventi nuovi (tra cui la
migrazione), e le differenze rispetto alle relazioni di coppia dei genitori e delle coppie
conosciute nel contesto di accoglienza. Vi è l’importanza di andare oltre gli aspetti
rappresentazionali in una ricerca sul famigliare, orientata ad un approccio relazionale, che
cerca di cogliere i significati e il senso che le persone attribuiscono ai legami. Tale
obiettivo è stato perseguito anche attraverso l’impiego di uno strumento grafico-simbolico
che elicita, oltre agli aspetti interattivi della coppia (chiamata a disegnare persone,
elementi ed eventi significativi della propria relazione), anche la tipologia, la quantità e la
qualità dei legami che costruiscono lo spazio abitato dai partner. Per tutte le coppie che
hanno partecipato alla ricerca l’organizzatore fondamentale del famigliare è il matrimonio:
non sono immaginabili la convivenza, né la frequentazione fra i sessi al di fuori di esso. I
genitori degli sposi così come alcune persone della famiglia allargata hanno un ruolo
particolarmente significativo rispetto alla scelta del coniuge. In Marocco ci si sposa perché
è “nell’ordine delle cose” e delle prescrizioni coraniche, atte a regolare i rapporti tra gli
uomini all’interno della società. Non si tratta dunque di un evento dai significati religiosi,
quanto piuttosto, di una norma sociale che è prescritta dai testi sacri musulmani. In
Pakistan i matrimoni assumono non solo il valore di contratto sociale, al fine di mantenere
e corrispondere ai bisogni della comunità, ma danno compimento anche alla storia di ogni
famiglia con un figlio maschio. La neo-sposa diventerà a tutti gli effetti un bene aggiunto
alla famiglia del marito che ne deciderà il ruolo e la funzione all’interno della casa. Nelle
Filippine, invece, il matrimonio è una scelta d’amore che si compie una volta per sempre.
Per le coppie filippine intervistate la separazione è inusuale, così come non è concepibile
un matrimonio senza figli. Meno visibile e per nulla citate dalle coppie intervistate sono le
dimensioni affettive del legame coniugale, connesse a sentimenti, desideri e alle volontà
dei coniugi, contrariamente al contesto occidentale che fa dell’affettività il fondamento
della relazione di coppia. Il legame con la generazione che precede è vivo e fondante la
vita coniugale, una vera e propria priorità per le coppie immigrate. La sua pregnanza è
visibile nell’evento del matrimonio, nella scelta della migrazione, nelle rimesse economiche
che garantiscono alla famiglia di origine una vita meno povera, così come nelle abitudini
che molte coppie raccontano relativamente al tempo trascorso nella terra di origine. Prima
della migrazione, infatti, la convivenza con i genitori (prevalentemente quelli del marito) è
un’esperienza molto diffusa e tutte le coppie intervistate raccontano della condivisione
della cura dei figli e del contributo di tutti al mantenimento economico della famiglia
allargata. La generazione che precede la coppia continua a guidare e orientare le scelte
dei figli anche dopo il matrimonio e, molto spesso, anche dopo la migrazione. Peraltro,
dalle interviste emergono anche i limiti e le fatiche di un rapporto caratterizzato da tale
dipendenza e sottomissione e in alcune occasioni la scelta di migrare rappresenta
l’occasione più opportuna per stabilire una certa distanza e indipendenza dalla famiglia di
origine. Per le coppie intervistate non è pensabile la scelta matrimoniale al di fuori del
progetto famigliare. Sposarsi significa fare famiglia e mettere al mondo figli. A essi è di
frequente connessa la scelta di stanziarsi stabilmente nel paese d’immigrazione che
assume la funzione di garantire ai figli prospettive di vita più vantaggiose. Eccezione fatta
per le coppie di origine pakistana, gli intervistati esternano la consapevolezza che inserire
un giovane figlio nel contesto italiano significa esporlo ad un’influenza significativa del
luogo di accoglienza, così come offrirgli un’appartenenza identitaria plurima e molto meno
radicata e univoca della propria. Tuttavia il richiamo del benessere è molto forte e gran
parte dei genitori immigrati si trova ad affrontare il compito di mediare tra i valori e le
generazioni dei genitori e i valori del contesto di accoglienza sperimentati dalla
generazione dei figli. Essere coppia nella migrazione rappresenta un insieme di attese
particolarmente difficili da realizzare e indubbiamente molto onerose. Tra le sfide più
rilevanti emergono: la solitudine per la lontananza della generazione precedente; la
responsabilità assoluta e totale dei figli, non più condivisibile con la parentela; la vicinanza
quotidiana ed esclusiva del proprio congiunto, molto spesso mai sperimentata prima della
migrazione. Dopo la migrazione la relazione coniugale si delinea come il legame principale
e fondante il famigliare, a fronte di un’esperienza nei paesi di origine in cui essa si
collocava come componente di una più vasta dimensione familiare allargata. La
migrazione consente peraltro esperienza sul versante della relazione coniugale: è il caso
di quelle coppie immigrate che scoprono e sperimentano nella relazione con il partner
aspetti affettivi, di reciprocità e intimità mai vissuti prima d’ora. Oppure, al contrario, ci si
trova di fronte ad esperienze di solitudine di paura, prevalentemente femminili, attribuibili
alla situazione di isolamento in cui tante mogli immigrate versano, in conseguenza di un
mandato familiare originario che fa della donna la matrona della casa e dell’uomo il
mediatore con il contesto sociale. Quest’ultimo aspetto rappresenta la fatica della coppia
immigrata nel rispondere ai cambiamenti richiesti dal contesto occidentale. Nella
migrazione, infatti, trasformare almeno in parte gli aspetti costitutivi della relazione
coniugale e poter “trasgredire” certe eredità (in questo caso i rigidi modelli di riferimento
della relazione di coppia) ricevute dalla generazione che precede possono essere
considerati risorse preziose e vitali sia per la coppia migrante, sia per gli esiti della
migrazione medesima.
10 CAPITOLO
PROMUOVERE GENERATIVITA’: INTERVENTI ED ENRICHMENT,
MEADIAZIONE E GRUPPI DI PAROLA
INTRODUZIONE
Il termine enrichment compare nella letteratura che si occupa di interventi per la famiglia
negli anni Settanta. Esso sta ad indicare qualcosa che si sviluppa, appunto rende più ricco
un patrimonio di risorse che la famiglia possiede. Gli interventi di enrichment mirano
appunto ad incrementare le risorse, manifeste o latenti, in modo che la famiglia possa
giocare “tutte le carte a disposizione”. L’obiettivo dei programmi di enrichment è quello di
far apprendere competenze e abilità peculiari alle coppie e/o ai componenti della famiglia,
per migliorarne/arricchirne il funzionamento e prevenire eventuali sviluppi problematici, tali
da compromettere la qualità e la stabilità delle relazioni. La proposta denominata Percorsi
di promozione e arricchimento dei legami familiari fa riferimento al modello relazionale-
simbolico. I Percorsi sono stati pensati come strumenti di accompagnamento alla famiglia
lungo le diverse transizioni del ciclo di vita, finalizzati a custodire e implementare quella
quota di generatività insita nei legami familiari stessi. Parlare di Percorsi consente di
mettere a tema la presenza di ostacoli da superare, o meglio di transizioni significative da
affrontare. L’aspetto peculiare dei temi affrontati dai Percorsi è la scelta di lavorare non
solo sulle competenze familiari ma anche sui “pilastri” su cui ruota la famiglia. Si parla di
“identità relazionali” con un’attenzione centrata più che sui comportamenti dei singoli
membri, sui legami reali e simbolici della rete relazionale. I legami familiari, i loro significati
e la loro interdipendenza sono al centro di questi interventi; in tal senso lavorare per
esempio con i genitori richiede di prestare attenzione anche alle loro relazioni, da quella di
coppi a quella intergenerazionale.
FINALITA’
I Percorsi, pur declinati di volta in volta in modo specifico a seconda della richiesta della
committenza, dei bisogni formativi dei genitori o delle coppie, sono ispirati a precisi
obiettivi ch orientano il lavoro formativo. La prima finalità dei Percorsi è quella di
promuovere la capacità riflessiva delle persone, perché queste diventino maggiormente
consapevoli dei “pilastri” sui quali le loro relazioni sono costruite, ovvero le dimensioni
etico-affettive, intergenerazionali e sociali. Una seconda finalità è rivolta ad incrementare
la capacità che le persone possiedono di utilizzare risorse e abilità per affrontare più
efficacemente la vita quotidiana, le transizioni familiari normative (la formazione della
coppia, la nascita dei figli, l’uscita di casa dei figli..) e gli eventi critici non normativi o
inattesi (una separazione, un’adozione, una malattia improvvisa..). queste due prime
finalità sono fortemente intrecciate: la consapevolezza che le persone hanno dei loro
ambiti relazionali e dei significati che questi veicolano ha strettamente a che fare con la
modalità che le persone adottano per gestire le loro relazioni, attraverso l’esercizio di
specifiche abilità (per esempio, come io comunico con il mio partner o con i miei figli ha
strettamente a che fare con la rappresentazione del mio rapporto coniugale o genitoriale).
Le domande che le coppie o i genitori portano al formatore, spesso centrate sulla esigenza
di riuscire a comunicare meglio o a far fronte ai conflitti, in realtà racchiudono un bisogno
latente e profondo di avere una legittimazione di sé come coniuge o come genitore (che
genitore sono? Sono un genitore bravo?). Una terza finalità degli incontri è quella di
promuovere la dimensione sociale della famiglia perché essa non imploda in un
atteggiamento autoreferenziale, ma possa utilizzare in un’ottica generativa il confronto e lo
scambio con un sociale organizzato. A questo scopo viene proposta alle famiglie
partecipanti ai Percorsi una modalità di lavoro di gruppo. Obiettivo principe sotteso ai
Percorsi è quello di “incrementare” il famigliare ovvero quelle qualità che permettono alle
famiglie di essere tali, ossia di prendersi cura e sviluppare il legame sia coniugale che
genitoriale: in una parola, capaci di essere generative.
METODOLOGIA DI INTERVENTO
Dal punto di vista del metodo si cerca una “terza via” rispetto ad un approccio di taglio
psicoeducativo, che trasmette una serie di regole che la famiglia deve in qualche modo
assumere e mettere in pratica nel proprio contesto, e a un approccio esclusivamente di
empowerment che mira a potenziare le risorse esistenti, rifacendosi spesso a una
prospettiva “debole” di famiglia, nella quale non vengono posti obiettivi. Il metodo dei
Percorsi mira a far emergere l’esperienza, i bisogni e le domande dei partecipanti
attraverso dei momenti esercitativi, al fine di poter riflettere sull’esperienza e connetterla a
un sapere teorico, in modo da stimolare le capacità riflessive dei partecipanti in un
processo di ri-significazione della realtà. Il lavoro gruppale, consente di realizzare
un’esperienza relazionale con le sue qualità etico-affettive grazie alla quale i partecipanti
possono sperimentare la generatività della relazione anche nel gruppo. Il gruppo, infatti,
facilita l’espressione e la riflessione su di sé. Grazie al lavoro gruppale si crea tra i
partecipanti un aspetto di comunanza e di condivisione di ansie, timori speranze che
facilita l’apertura di sé e la rielaborazione individuale. Il gruppo presenta anche altri aspetti
analoghi alla famiglia: la realtà gruppale può svolgere una funziona familiare creando per i
partecipanti un’esperienza di appartenenza e di contenimento, di accoglienza e di
riconoscimento del Sé, attraverso un lavoro orientato da obiettivi. Tale lavoro è
efficacemente accompagnato da due conduttori, esperti sia in dinamiche familiari che di
gruppo, che svolgono un’azione di catalizzatore del processo, riformulando, restituendo
significati, aprendo nuovi sguardi. Se i conduttori sono un uomo e una donna la relazione,
tra loro e con il gruppo, può evocare la funzione paterna e materna che anima la famiglia.
Il gruppo inoltre presenti fica il sociale; è proprio attraverso il lavoro gruppale che si può
sperimentare come ogni relazione sia necessitante di altre relazioni e come il confronto
sociale possa promuovere processi generativi e contrastare un pericoloso ripiegamento
verso atteggiamenti autoreferenziali. Per promuovere la riflessione e il confronto, durante
gli incontri vengono proposti e utilizzati diversi dispositivi formativi, quali filmati,
brainstorming, giochi di ruolo, strumenti grafico-simbolici. Un’altra scelta metodologica
riguarda la modalità semi-strutturata: pur tenendo fissi gli obiettivi, la scelta della modalità,
della sequenza e degli strumenti dipende dal gruppo, dal suo processo e dalla valutazione
che il formatore compie non solo all’inizio del Percorso ma anche in itinere. Dopo la
progettazione iniziale, il Percorso viene realizzato in 4-6 incontri della durata di 2-3 ore;
ogni incontro tratta specificatamente temi familiari ma anche aspetti del processo
formativo; con i partecipanti si mette a tema l’esperienza familiare ma anche l’esperienza
di gruppo, alla quale vengono rivolti specifici dispositivi formativi (per esempio, a fine
incontro si può suggerire ai partecipanti di rappresentare con un’immagine, che poi sarà
condivisa, il lavoro che si è realizzato in gruppo, così da risignificare quanto fatto insieme).
ESEMPI: “NEI PANNI DEL FIGLIO”, “LO STEMMA ATTRIBUITO”, “ROLE-PLAYING
SULLA COMUNICAZIONE”
LA MEDIAZIONE FAMILIARE
FINALITA’
La mediazione familiare può qualificarsi come una pratica clinico-sociale (non terapeutica),
orientata non solo ad offrire un aiuto per la risoluzione di conflitti, ma volta a trattare il
rischio evolutivo presente in ogni passaggio trasformativo dell’organizzazione familiare. Si
tratta di passaggi trasformativi che in alcuni casi possono rivelarsi estremamente difficili e
dolorosi e che richiedono un rimodellamento degli assetti relazionali. Dolore e difficoltà,
che non di rado si manifestano attraverso conflitti distruttivi, possono determinare una
grave lacerazione delle relazioni. Il lavoro mediativo non ha altra finalità che la ricerca
consapevole e responsabile di accordi: è nient’altro che un itinerario che procede dal
conflitto o dal disaccordo ad una soluzione condivisa. Non è la presenza/assenza del
conflitto ciò che distingue il funzionamento di una coppia o di una famiglia ben funzionante
da una coppia più problematica, ma piuttosto la modalità di gestione costruttiva o
distruttiva dello stesso. Il conflitto non è affatto considerato invariabilmente un indice di
disfunzionalità, quanto più un sintomo della difficoltà di procedere attraverso la
riorganizzazione delle relazioni che l’evento critico o evolutivo rende necessaria. È proprio
nella transizione separativa che si manifestano la valenza sintomatica del conflitto e il
carattere rischioso del passaggio, soprattutto laddove sono presenti dei figli. A differenza
di altri contesti, i legami familiari sono costitutivi dell’identità soggettiva e per questo non
contemplano la possibilità di fuoriuscirne volontaristicamente. In questo senso appare
chiaro perché il conflitto familiare, pur assumendo dal punto di vista fenomenico e
interattivo le medesime caratteristiche di tutti i conflitti interpersonali, non è a questi del
tutto assimilabile. In molti conflitti interpersonali, infatti, la soluzione del contenzioso può
essere facilitata proprio per il fatto che non vi è la necessità di proseguire il rapporto: la
soluzione del conflitto può coincidere cioè con la fine della relazione. Nei legami familiari,
al contrario, la soluzione del conflitto è necessaria per il proseguimento della relazione.
Possiamo dunque parlare di mediazione come aiuto di un terzo equidistante dalle parti al
quale ricorrere volontariamente nelle transizioni familiari difficili, ovvero in quei momenti
critici in cui la dimensione del conflitto esplode più drammaticamente con il rischio della
distruzione di un valore indispensabile per vivere: la fiducia e la speranza nei legami.
Questo modo di concepire la mediazione familiare come pratica utilizzabile per trattare i
conflitti in senso ampio non è ,molto diffuso, né da tutti condiviso. La diffusione in Italia
della mediazione ha visto maturare esperienza differenziate, ma riferite in modo quasi
esclusivo alla separazione e al divorzio. La riflessione teorica e metodologica ha dato
luogo a diversi modelli operativi che possono essere distribuiti lungo un continuum in cui a
un estremo troviamo le mediazioni “strutturate”, assimilabili a forme di negoziazione
facilitata con l’esclusivo obiettivo di sedare il conflitto e redigere accordi in sede
extragiudiziale, e all’altro estremo incontriamo le mediazioni “trasformative” o terapeutiche.
Nel primo caso si assegna alla mediazione la funzione di garantire una “buona
separazione”, nel tentativo di promuovere una sorta di riduzione del danno; nel secondo
caso si assegna alla mediazione una forte valenza terapeutica, assegnandole finalità
curative e aspettandosi dai genitori una trasformazione del funzionamento personale o di
coppia. Il modello relazionale-simbolico condivide i caratteri di fondo e comuni a ogni
approccio, quelli cioè ch identificano il profilo proprio e distintivo della mediazione, ma
presenta anche alcuni aspetti specifici. Tra questi vi sono:
METOFOLOGIA D’INTERVENTO
Uno degli aspetti cruciali rispetto ai quali si differenziano i diversi modelli di intervento è il
ruolo del mediatore, in quanto i compiti che lo contraddistinguono derivano direttamente
dai presupposti teorici e dagli obiettivi assegnati alla mediazione stessa. Nell’approccio
relazionale-simbolico il mediatore gioca un ruolo ispirato alla valorizzazione dei legami tra
le generazioni e tra le stirpi, e per questa ragione dedica tempo e spazio all’esplorazione
della natura dei legami tra genitori e figli,tra figli e nonni, tra stirpe materna e stirpe
paterna. Il percorso di mediazione si snoda attraverso fasi successive, ognuna
contraddistinta da specifici obiettivi e da tecniche e strumenti di lavoro differenti. La fase
iniziale del percorso mediativo, che precede la negoziazione vera e propria, risponde alla
necessità di costruire un progetto di lavoro condiviso. Questa prima tranche di lavoro non
costituisce semplicemente la fase preliminare del processo di negoziazione. Il suo scopo,
infatti, non è limitato alla verifica delle “condizioni di mediabilità” e alla
spiegazione/accettazione delle “regole di lavoro” e alla definizione dei temi rispetto ai quali
sviluppare le negoziazioni e prendere accordi. Essa consiste piuttosto in un lavoro
finalizzato ad aiutare i coniugi a discutere e riflettere sul senso della loro vicenda di coppia
e a confrontarsi con l conseguenze della separazione, sia sul piano personale, sia sul
piano dell’organizzazione della vita familiare. Le tecniche e gli strumenti utilizzati in questa
fase, assumono un carattere specifico nella misura in cui sono utilizzati in modo coerente
con il paradigma teorico adottato. Fanno ricorso al Genogramma familiare e all’Intervista
clonica generazionale: due modalità che strutturano l’interlocuzione, favoriscono
l’emersione di affetti e significati latenti, propri della dimensione relazionale e simbolica.
L’uso del genogramma risulta essere utile nell’aiutare i genitori a ricollocarsi nel proprio
scenario generazionale. Attraverso il disegno, si rende evidente che vi sono più
generazioni interessate e coinvolte nella transizione e nel conflitto separativo e che il
significato e gli effetti della separazione interessano l’intera organizzazione familiare. Nel
genogramma vengono portate sulla scena le due stirpi che hanno generato quel gruppo
familiare. Con l’aiuto di un terzo diventa possibile per i genitori riconoscere e valorizzare la
duplice matrice familiare e rende così possibile ripensare a ciò che ha fatto (e può fare)
problema, ma anche rintracciare nella rete generazionale risorse e supporti per sé e per i
figli. Questa modalità di procedere coinvolge i coniugi in una ri-narrazione della vicenda
familiare e di coppia che non è puramente descrittiva; essa, al contrario, li sollecita a un
coinvolgimento attivo e carico di affettività e li stimola a riappropriarsi del senso della
propria vicenda. In tal modo diventano visibili, al mediatore quanto ai coniugi stessi, la
necessità e la possibilità che qualcosa di tale legame sopravviva, o più precisamente, la
possibilità di ricostruire un nuovo patto come coppia genitoriale al di là della rottura della
relazione coniugale. La possibilità di procedere alla distinzione tra il legame coniugale (che
finisce) e quello genitoriale (che prosegue), e di procedere quindi a una negoziazione
costruttiva attorno alle modalità attraverso le quali esercitare la genitorialità, è complicata
concretamente e non può certo considerarsi garantita dalla dichiarata intenzionalità di
procedere in tal senso, ma richiede, di fatto, almeno una preliminare comprensione ed
elaborazione della fine del legame. Tale modalità di lavoro non ha alcuna intenzionalità né
finalità terapeutica ed è solitamente circoscritta a pochi incontri con la coppia. Il percorso
di premediazione si chiude con la definizione del “contratto di mediazione”. Questo viene
redatto a cura del mediatore, che ne offre alla firma una copia a ciascun genitore, dopo
aver discusso insieme l’ordine con il quale conviene affrontare ogni questione. La finalità
della redazione scritta in questo documento, e la richiesta di sottoscriverlo in modo
autografo, hanno una valenza simbolico-affettiva: “ritualizzano” l’ingaggio dei due genitori
nel lavoro comune di costruzione degli accordi, a conferma della loro intenzione e del loro
impegno a intraprendere il percorso di mediazione. Ciascuno dei temi individuati viene
affrontato secondo una sequenza quadripartita:
Si ritiene che la mediazione possa essere utilizzata non solo nelle situazioni di
separazione e divorzio, ma anche in riferimento ad altri contesti familiari. Tale posizione è
tutt’altro che condivisa all’interno della comunità professionale dei mediatori italiani. La
denominazione di mediazione intergenerazionale è poco utilizzata. Allo stesso tempo,
però, occorre prendere atto che sono sempre più frequenti e diffuse le sperimentazioni di
interventi tesi a rispondere a richieste di aiuto per risolvere conflitti familiari. Essa è
pensata e praticata come una variante della mediazione familiare o come una forma
particolare di mediazione sociale. Per parlare di mediazione intergenerazionale in modo
non equivoco è senza dubbio necessario provare a delineare la specificità, circoscriverne
il campo di applicazione e verificare se e a quali condizioni essa si possa considerare
come una forma di aiuto/intervento distinta da altre pratiche professionali. Operazione che
richiede siano soddisfatte due condizioni preliminari:
(1) Deve trattarsi non di una forma generica di aiuto, ma di una vera e propria
mediazione, vale a dire che
Deve costituirsi una domanda esplicita e condivisa affinchè un terzo
sia chiamato a occuparsi della controversia
Deve esserci un oggetto di lavoro circoscritto e definito
congiuntamente
Deve avere come finalità il tentativo di prendere accordi
Deve prevedere una posizione precisa del mediatore (che non valuta,
non tutela, non dà consigli, ma garantisce il setting e il processo di
negoziazione)
Deve esserci, tra i vari soggetti coinvolti, una posizione di
potere/responsabilità sufficientemente equilibrata, per lo meno per
quanto riguarda il conflitto/compito decisionale oggetto di intervento
(2) Il conflitto/ compito decisionale deve coinvolgere almeno due diverse
generazioni
Conflitti tra figli adulti (e/o tra figli adulti e genitori) per questioni
economico/patrimoniali (eredità e successioni, compartecipazione ad
“aziende familiari”)
Conflitti tra figli adulti per la gestione della cura e della tutela di
genitori anziani o di fratelli minori (nei casi di interdizione e tutela
giudiziaria)
Conflitti tra figli adulti e genitori per la regolazione della frequentazione
tra nonni e nipoti minorenni
Conflitti tra stirpi, ovvero tra nonni materni e nonni paterni (per l’affido
di nipoti minorenni o per la frequentazione con gli stessi)
I gruppi di parola sono una proposta nata per rispondere all’esigenza di supportare i figli di
famiglie che attraversano il dramma della frattura coniugale e sono perciò anche un aiuto
indiretto alla coppia genitoriale stessa. Essi sono un aiuto del sociale alla famiglia esposta
ad una transizione difficile, per prevenire difficoltà nello sviluppo delle nuove generazioni.
FINALITA’
L’obiettivo dichiarato è quello di facilitare l’adattamento del bambino alla nuova situazione
familiare. Ma non si può normalizzare un evento di tal fatta, che per il bambino
rappresenta una minaccia alla propria identità (se sono il frutto di un’unione cosa sono io
se questa unione non c’è più?), se non si passa, accompagnati, attraverso questa
domanda, alle emozioni che suscita, ai pensieri che evoca. La finalità di questi percorsi è
tesa non tanto e non solo a sedare ma piuttosto a contrastare attivamente i possibili esiti
degenerativi del divorzio per mettere in campo risorse di fiducia, speranza e di
salvaguardia di giustizia per il futuro del legame tra genitori e figli che è per sua natura
indissolubile. Lo strumento principe è la Parola: essa viene fatta emergere attraverso la
messa in atto di un dispositivo (il gruppo) centrato sulla cura che proviene dai legami e su
strumenti e gesti che ne sappiano esprimere la portata simbolica. Di volta in volta il
conduttore introduce alcuni temi su cui lavorare utilizzando diversi strumenti e diverse
attività (drammatizzazione, disegno libero, collage, scenette..) che si prestano ad essere
commentati. Può essere la proposta di commentare una storia che tratta la vita di un
bambino che vive in due case, oppure quella di portare da casa qualcosa di significativo
da mostrare agli altri bambini, o il “gioco dei fili” in cui i bambini sperimentano dal vivo
come il filo tra papà e mamma può rompersi ma restano nelle loro mani i fili che li
uniscono ai genitori. In tutte le occasioni che lo consentono viene dato spazio alla
presenza dei nonni di entrambe le famiglie in modo da evitare il pericolo di endogamia
legato al fatto che una delle due figure (più spesso il padre e la sua stirpe) venga eliminata
e di consentire così al bambino di accedere alle sue due genealogie e di figurarsi un suo
posto come continuatore di entrambe.
METODOLOGIA DI INTERVENTO
Ai genitori viene proposta l’iniziativa del gruppo di parola come sostegno per i bambini o
ragazzi che vivono l’esperienza della separazione dei genitori, come aiuto a esprimere i
loro sentimenti attraverso la parola, il disegno, i giochi di ruolo, come luogo in cui porre
delle domande, avere delle informazioni e trovare una rete di scambio e di sostegno. I
genitori vengono invitati a un breve colloquio informativo che ha il significato di rinforzare
l’alleanza tra di loro e rimarcare che il professionista si inserisce in un legame
preesistente. Essi firmano il consenso autorizzando il bambino ad accedere a un luogo
dove poter parlare sia di mamma che di papà, sia dell’una sia dell’altra famiglia d’origine.
L’iniziativa consiste in 4 incontri di due ore settimanali con gruppi di 6-8 bambini. L’età
diversa dei bambini e le varie fasi della separazione che stanno vivendo (un genitore è
appena uscito di casa, un altro vive con un altro partner, il giudice ha emesso la
sentenza..) consentono loro di esprimere quel che pensano di casi simili ai loro ma non
accaduti o non ancora accaduti e danno al conduttore l’occasione di riconfigurare il loro
ruolo di figli, che non sono arbitri della contesa, e di riconoscere quello che è nelle loro
possibilità e ciò che compete ai grandi. Il lavoro di gruppo ha come esito finale la
redazione comune di un messaggio scritto che viene letto ai genitori. L’ora finale del
gruppo vede la presenza dei padri e delle madri ai quali i bambini leggono una lettera da
loro redatta e che raccoglie in forma anonima i loro desideri.