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4 CAPITOLO

IL MODELLO E LA SUA METODOLOGIA DI RICERCA

INTRODUZIONE

Assumere il modello relazionale-simbolico per lo studio della famiglia ha forti implicazioni


sul metodo di ricerca e sulla pratica di intervento. Si tratta di mettere a punto congegni di
ricerca che siano in grado di avvicinarsi all’oggetto di interesse visto da un peculiare punto
di vista, quello relazionale-simbolico.
Nel ciclo della ricerca, la scelta dei costrutti da indagare e la scelta del metodo da
applicare rappresentano momenti cruciali. Tra le principali opzioni che si presentano al
ricercatore vi sono: la definizione dell’unità di analisi (individuale, diadica, gruppale), la
scelta dell’approccio più idoneo (quantitativo, qualitativo, integrato), l’individuazione degli
strumenti d’indagine da applicare (self-report, osservativi, grafico-simbolici) e la modalità di
trattamento dei dati(punteggii di coppia, di discrepanza, costruzione di tipologie). Ma come
possiamo delineare il percorso di ricerca che meglio ci consenta di cogliere la struttura
relazionale della famiglia con i suoi aspetti affettivi ed etici? Deal, partendo da una
rassegna di ricerche condotte sulla famiglia, individua due differenti prospettive di studio:
la prospettiva convergente e la prospettiva divergente. Gli studi che partono da
quest’ultima prospettiva presuppongono che la famiglia come totalità possa emergere solo
accostando le percezioni parziali dei singoli membri: ciascun membro esprime il suo punto
di vista che corrisponde ad una parte della famiglia e l’oggetto famiglia è dato dall’insieme
delle singole percezioni. Per gli autori che utilizzano la prospettiva convergente la famiglia
è invece ciò che i membri hanno in comune ed è tale comunanza che va ad influenzare le
percezioni individuali. Crediamo che una via per cogliere l’unità molteplice del familiare sia
quella di confrontare e integrare la prospettiva convergente e quella divergente: la famiglia
allo stesso tempo influenza le prospettive di ciascun membro ed è data dai punti di vista
individuali; i membri della famiglia però mantengono sempre una propria unicità/specificità.
C’è così la necessità di cogliere informazioni sia su ciò che è condiviso tra i membri, ciò
che li accomuna e che è il prodotto della loro storia, sia su ciò che ciascuno sente e pensa
in particolare.

UNITA’ DI ANALISI, APPROCCIO, STRUMENTI DI INDAGINE E TRATTAMENTO DEI


DATI

L’unità di analisi prevede l’incontro con la diade o con il gruppo famiglia poiché è solo in tal
modo che è possibile distinguere gli elementi individuali/di specificità, relazionali/diadici e
gruppali. Rilevante è anche il timing dell’incontro con la famiglia, in cui si cerca di
privilegiare la presenza di una specifica transizione o evento critico, con la convinzione
che nella transizione evolutiva la struttura latente dell’organizzazione familiare si renda più
facilmente accessibile. L’incontro con il gruppo familiare si attua attraverso la mediazione
di strumenti, taluni tipici di un approccio quantitativo e altri in grado di fornire dati più
qualitativi; nelle ricerche a volte si somministrano scale di misurazione, compilate in
autonomia dal soggetto, altre volte si preferiscono strumenti che consentono di stimolare
interazioni congiunte (intervista, disegno..). Con
le scale di misurazione l’incontro è ricostruito a posteriori dal ricercatore attraverso l’analisi
dei dati, mentre negli strumenti che attivano l’interazione l’incontro è il setting di
produzione dei dati. È a partire dall’analisi di interazioni congiunte che è possibile giungere
a quello che Fisher ha definito come il livello di valutazione “transazionale” delle relazioni
familiari. È questo il livello di analisi che consente di cogliere l’azione familiare intesa come
“lo scambio interattivo tra i membri del sistema che indica l’unità transattiva degli elementi
in un tutto che deriva dal funzionamento dell’intera unità e non riflette semplicemente i
contributi dei singoli membri”. “Transattivo” e “relazionale” non sono omologhi tra loro: un
conto è ricercare pattern e regole di scambio e un conto è ricercare tipologie e senso dei
legami. La produzione di
dialogo (attraverso colloqui e interviste mirate) e la realizzazione di attività e compiti
congiunti (attraverso la somministrazione di test grafico-simbolici) rendono disponibili
informazioni di natura diversa. Tali informazioni riguardano due registri. Il primo è quello
verbale, considerato nella sua dimensione semantica o di contenuto rappresentazionale
(aspetti immaginari e simbolici). Il secondo registro fa riferimento all’azione congiunta dei
membri familiari che così “si irvelano” e si mettono in comunicazione con il ricercatore
mentre “fanno”. La produzione congiunta di elementi verbali e grafico-simbolici costituisce
la base informativa che consente di cogliere contemporaneamente sia le dimensioni
complessive del gruppo familiare, sia le modalità rappresentazionali e di azione proprie di
ciascun membro familiare. Una via per catturare l’unità del molteplice può essere utilizzare
un approccio multi metodologico. In tal caso nel piano di ricerca si indagano gli stessi
costrutti applicando strumenti diversi (quali self-report, griglie di osservazione
dell’interazione e compiti congiunti), così si moltiplicano i punti di vista in modo da
ricostruire un intreccio significativo. I ricercatori hanno compiuti numerosi tentativi in
questa direzione, ma le informazioni prodotte difficilmente si accordavano. Allora come
possiamo affrontare la difficoltà metodologica che attiene alla confrontabilità di
informazioni di natura diversa? Un modo può essere quello di considerare le differenze
dovute al confronto non come ostacolo ma utilizzarle come potenziale fonte di
informazione. Il ricercatore può per esempio chiedersi: perché quello che i familiari
riferiscono relativamente alle loro relazioni è diverso da ci che manifestano nell’interazione
oppure da ciò che essi agiscono attraverso un compito congiunto?
Affinchè le differenze si traducano in informazioni significative è necessario che esse non
siano il semplice prodotto della diversità degli strumenti, ma siano imputabili alla
complessità dell’oggetto che si vuole indagare. In una prospettiva plurale ogni
informazione dice qualcosa della relazione. Chiamiamo tale visione “posizione triangolare
del ricercatore”. Il ricercatore fa parte del congegno di ricerca, vale a dire che è inserito in
una relazione. Tipi diversi di strumenti strutturano un diverso tipo di rapporto tra i soggetti
della ricerca e il ricercatore: lo strumento utilizzato nella ricerca si situa tra il soggetto e il
ricercatore e contribuisce a creare specifiche configurazioni relazionali. Quando il
ricercatore applica strumenti self-report (scale di misurazione e interviste), ponendo delle
domande al soggetto, rivela inevitabilmente molto di ciò che vuole indagare. Il compito dei
membri della famiglia diventa quello di decidere cosa e quanto svelare al ricercatore. I dati
prodotti attraverso i self-report sono da leggersi come il risultato di due fattori: da un lato,
la rappresentazione che il singolo membro ha delle relazioni familiari indagate dal
ricercatore e, dall’altro, la vicinanza che intende instaurare con lui e l’immagine che
intende dargli. La desiderabilità sociale è infatti un elemento ineliminabile degli strumenti
self-report, anche se può essere, entro alcuni limiti, controllata.
Utilizzando strumenti osservativi il ricercatore rivela in misura minore l’intento della ricerca.
Così il contesto di ricerca distanzia il ricercatore dai soggetti, mentre avvicina questi ultimi
tra di loro. Essi infatti devono rispondere come gruppo, interagendo.
La divergenza dei risultati è anche un utile antidoto al riduzionismo, cioè alla ricerca di uno
o due fattori in grado di spiegare tutta una serie di fenomeni. Nel modo di trattare le
informazioni prodotte attraverso uno o più metodi, l’oggetto famiglia rivela tutta la sua
complessità: il ricercatore, data la natura relazionale della famiglia, ha a che fare con dati
non indipendenti e quindi non può utilizzare molte delle tradizionali tecniche di analisi che
si basano proprio sulla indipendenza dei dati. Vi sono tre fattori che danno origine alla non
indipendenza dei dati: la composizione del gruppo, il suo destino comune e l’influenza
reciproca. La composizione del gruppo indica che le persone non sono state assegnate in
modo casuale al gruppo: nel caso della famiglia, i ruoli non sono casuali né intercambiabili.
Inoltre i membri della famiglia hanno un destino comune individuabile nella condivisione
dell’ambiente di vita e di aspettative comuni rispetto al futuro. Infine le relazioni tra i
membri familiari sono caratterizzate da reciproca e duratura influenza. La non
indipendenza dei dati familiari obbliga il ricercatore a ragionare per famiglie anzicchè per
singoli membri della famiglia. La pista che si è aperta tenta di scomporre la
variabilità/varianza delle relazioni familiari nelle componenti individuali, diadiche, gruppali e
di errore (cioè di ciò che non è spiegato). Queste linee rappresentano avanzamenti
importanti nella direzione di una “concezione relazionale” che colga l’aspetto gruppale
senza perdere le informazioni fornite dai singoli e dai sottoinsiemi. Nel trattamento e
nell’analisi dei dati si è passati dal costruire punteggi diadici o familiari in grado di
approssimarsi il più possibile al “relazionale” all’utilizzare un approccio per modelli che
consente di tenere simultaneamente presenti diversi livelli di analisi della famiglia
(individuale/diadico, gruppale). L’uso di punteggi fornisce un indice sintetico della diade o
del gruppo familiare, ma non considera le specificità individuali; i modelli, invece,
permettono di inferire costrutti latenti da variabili osservate, scomponendo il contributo
specifico di ogni membro della famiglia in aspetti di comunanza e di specificità. Nell’uno
(punteggi) e nell’altro caso (modelli) può essere recuperata l’influenza del contesto
sociale, per esempio attraverso la stima dell’ “effetto stereotipico”, cioè di quella posizione
tipica che permea il soggetto e che rientra in famiglia. Nel caso degli strumenti che
stimolano l’interazione si utilizzano tecniche di analisi dei dati che privilegiano lo studio del
processo relazionale e che consentono di svelare l’organizzazione latente delle relazioni
familiari.

5 CAPITOLO
IL LEGAME DI COPPIA NELLA RICECA PSICOSOCIALE E
CLINICA

INTRODUZIONE

A differenza di quegli approcci basati principalmente su competenze individuali (come nel


caso del modello cognitivo-comportamentale), o centrati sul rapporto esclusivo del
genitore con il figlio (come nella teoria dell’attaccamento), è proprio nella coppia che il
modello relazionale-simbolico individua il dispositivo di trasmissione intergenerazionale
per eccellenza.

LA RICERCA PSICOSOCIALE: LE TRADIZIONI DI RICERCASU CONFLITTO, COPING


DIADICO E PERDONO NELLA COPPIA

Gli studi sul conflitto di coppia hanno consentito di comprendere meglio sia le modalità con
cui una coppia gestisce un disaccordo, sia come viene percepita dai partner la gestione
del conflitto. In particolare si è evidenziato che i comportamenti conflittuali negativi che un
partner manifesta vengono percepiti in maniera più accurata rispetto a quelli positivi, e che
i coniugi tendono in genere a percepirsi più simili nella gestione del conflitto di quanto non
lo siano in realtà. Pare dunque che per i coniugi sia importante, oltre al comportamento
durante il conflitto, anche la percezione del comportamento stesso. Il grado di somiglianza
dei coniugi nel percepire il conflitto risultano essere predittori di soddisfazione.
Per quanto riguarda il coping diadico, occorre osservare come tale costrutto superi un’idea
della gestione dell’evento critico in termini individuali e consenta una visione relazionale
dello scambio di coppia. La forma di coping più relazionale, il coping diadico “comune”,
che vede i partner fronteggiare congiuntamente gli eventi stressanti, è quella che si rivela
essere il miglio predittore di una buona qualità della relazione, a riprova dell’importanza
della capacità di gestione del legame ai fini di promuovere il benessere e la soddisfazione
coniugale. Importante si è rivelato lo studio lo studio del coping diadico attraverso le
variabili di congruenza percettiva che hanno permesso di mostrare l’influenza del coping
diadico auto ed eteropercepito sul funzionamento di coppia. Utilizzando una particolare
strategia di analisi consentita dal confronto tra auto ed eteropercezioni di entrambi i
membri della coppia, si è potuto tener conto di due componenti fondamentali della
somiglianza: la somiglianza “stereotipica” e la somiglianza “unica”.
La somiglianza stereotipica fa riferimento a ciò che accomuna i membri della diade al
resto del campione, in termini di background culturale condiviso. La somiglianza unica
riguarda il grado di somiglianza tra i membri della diade che non è dovuto al background
che essi condividono, ma che è unico e specifico della loro relazione. Si è considerata la
somiglianza stereotipica non tanto come un “errore” da eliminare per valutare la
somiglianza “vera” tra i membri della diade, quanto come uno degli aspetti della
somiglianza espressa nella diade, diverso da quello relativo alla somiglianza unica. E’
stato così possibile catturare la dimensione sociale della coppia, mostrando come questa
dimensione entri di fatto nella relazione di coppia. La dimensione stereotipica è rilevante
nel facilitare l’accuratezza percettiva, cioè la comprensione dello stile di coping adottato
dal partner. Un altro costrutto importante è quello del perdono. Se la coppia nasce dal
riconoscimento fiduciario dell’altro, il perdono s’inserisce al suo interno rappresentando
una delle espressioni che attualizzano il valore che ciascun partner attribuisce si all’altro
che al legame stesso. Il perdono si può intendere come un atto fiduciario, una modalità
inattesa e donativa, che eccede cioè la dimensione di equità dello scambio tra i soggetti,
che alcuni partner utilizzano per affrontare le offese subite all’interno del legame. Il
perdono ha un valore predittivo rispetto alla qualità della relazione: la capacità di
perdonare risulta essere un fattore in grado di proteggere il legame di coppia nel presente
immediato, sia nel corso del tempo. E’ stata avviata una riflessione su cosa sia il perdono:
se, infatti, da un lato risulta immediato definire cosa il perdono non sia (non è
dimenticanza, non è desiderio di vendetta), problematico risulta invece definire cosa possa
essere in termini positivi. Con l’obiettivo di colmare questa lacuna, è stata creata una scala
in grado di misurare il perdono verso il partner a seguito di un’offesa ricevuta che tiene
conto nello stesso momento sia della dimensione negativa insita nel processo, l’assenza
di vendetta ed evitamento, che quella positiva, la presenza di benevolenza verso
l’offensore. La ricerca ha spostato il proprio focus anche sull’altro soggetto dell’offesa, cioè
l’offensore. Si sono focalizzati sul costrutto del perdono del sé, di chi ha commesso
l’offesa. È fondamentale la capacità del coniuge che ha offeso di sapersi perdonare per il
dolore arrecato al partner, ovvero di riuscire a riconnettersi con un’immagine positiva di sé
in modo da poter ritrovare ancora energie spendibili nella relazione in quanto soggetto
nuovamente degno di fiducia.

L’IDENTITA’ DI COPPIA: UN’ECCEDENZA INCONOSCIBILE?

Negli ultimi anni è stato introdotto un filone di ricerca che indaga il tema dell’identità di
coppia prendendo spunto dagli studi sull’identità sociale. Come quest’ultimo costrutto si è
rivelato difficile da misurare, così anche l’indagine sull’identità di coppia risulta altrettanto
complessa. Facendo riferimento alle ricerche sull’identità sociale, nelle quali
l’identificazione di un senso di “noità” è stato rilevato indirettamente attraverso
l’individuazione di meccanismi che favoriscono il proprio gruppo di appartenenza, ci si è
chiesti se gli stessi meccanismi fossero rintracciabili nelle coppie. I risultati finora acquisiti
hanno messo in luce che i partner di coppie reali (rispetto a pseudo-coppie formate da
individui non legati da una relazione intima) esprimono valutazioni positivamente distorte,
dette positive illusion, nei confronti della propria relazione di coppia e che tali percezioni
contribuiscono al benessere relazionale e individuale del partner. In compiti sperimentali le
persone che vivono una relazione di coppia tendono a compiere attribuzioni benevole nei
confronti del partner, dando al partner il merito per il conseguimento di un successo e
assumendosi la colpa per un fallimento. Tali pattern risultano importanti nelle fasi iniziali
della relazione in cui è centrale il processo di costruzione dell’identità di coppia,
confermando la presenza di un analogo meccanismo rispetto a quello relativo alla
costruzione dell’identità sociale e del senso di appartenenza gruppale.

RELAZIONE, TRANSIZIONE E GENERATIVITA’: I PILASTRI DEL MODELLO


RELAZIONALE-SIMBOLICO NELLA RICERCA SULLA RELAZIONE DI COPPIA

Ci si è preoccupati di tradurre in costrutti indagabili l’aera affettiva, quella etica, quella


intergenerazionale e quella sociale che caratterizzano la relazione di coppia, concependo
il legame di coppia come collegato alla storia familiare e intergenerazionale e si sono
confrontate le differenze di genere e di generazione rispetto a tali costrutti. Le ricerche più
recenti sono state impostate secondo un impianto longitudinale, che consente di mettere
in evidenza i cambiamenti e di verificare le connessioni tra i costrutti nel tempo. È stato
evidenziato che la qualità della relazione di coppia è fortemente legata alla qualità dei
legami che la coppia ha con le famiglie di origine. L’acquisizione di alcune competenze
cruciali per il buon funzionamento della coppia non può essere compresa facendo
esclusivo riferimento agli scambi interni alla coppia, ma richiede l’assunzione di un’ottica
familiare che tenga conto delle esperienze di socializzazione fatte dai partner nella
famiglia d’origine: genitori e figli per esempio manifestano somiglianze significative per
quanto concerne la loro capacità di gestione dello stress e il comunicare con il partner. Tali
somiglianze sono moderate dalla capacità dei figli di discriminare tra modelli genitoriali più
o meno positivi. Figli e genitori tenderebbero infatti ad essere tanto più simili quanto più i
genitori riferiscono di utilizzare modalità positive di coping diadico e quanto meno i genitori
mettono in atto modalità di coping negativo. Anche le ricerche sul tema del perdono
evidenziano come la tendenza al perdono tra partner sia collegabile alle esperienze di
perdono apprese dai propri genitori. È importante, dunque, l’influenza della famiglia di
origine sul processo di sviluppo della dimensione identitaria. Le positive illusions
sviluppate nei confronti della famiglia di origine, che vanno considerate un indicatore di
appartenenza positiva alla famiglia, influiscono positivamente anche sulle positive illusions
sviluppate nei confronti della propria coppia.
Un altro costrutto importante è quello denominato “parenting intrusivo”, una strategia
ritenuta disfunzionale in quanto i genitori paiono incapaci di riconoscere ai figli la
possibilità di conquistare il proprio spazio psicologico e di differenziarsi dalla famiglia di
origine. Gli individui in difficoltà a differenziarsi dalle famiglie di origine incontrano poi
maggiori ostacoli ad acquisire un’identità di coppia, mostrando livelli più bassi di positive
illusions. Oltre all’attenzione alle tematiche intergenerazionali, si è avuto cura di condurre
indagini su coppie che stessero attraversando transizioni cruciali quali il matrimonio,
l’uscita di casa dei figli, la crisi coniugale, con l’intento di indagare il legame nelle situazioni
critiche. Le ricerche hanno dimostrato come non sia tanto la differenza di età o il passare
del tempo in se stesso a far emergere elementi specifici della relazione, quanto la
presenza di passaggi, transizioni critiche che consentono di leggere fenomeni relazionali
in modo diverso. Per esempio, confrontando coppie che vivono la transizione al
matrimonio con coppie mature che vivono la transizione dell’uscita dei figli di casa, si è
osservato come nelle coppie più mature e consolidate l’accuratezza percettiva del coping
diadico, ossia il comprendere accuratamente il comportamento del partner in situazioni di
stress, è fortemente correlata con la soddisfazione di coppia, mentre nelle coppie giovani
la percezione accurata del comportamento del partner risulta addirittura dannosa per la
soddisfazione relazionale, forse perché non in linea con il bisogno di idealizzazione tipico
delle prime fasi della relazione. In riferimento
al pilastro della generatività si è operata la scelta di introdurre, nell’impostazione di alcune
ricerche, il costrutto di “generatività di coppia”. Se infatti non si può negare che il
benessere e la stabilità siano effettivi indicatori di una coppia che ha raggiunto un grado di
maturità adulta, l’ispirazione al modello relazionale-simbolico ha condotto a ritenere che
l’obiettivo di una coppia adulta non possa essere ridotto solo allo “star bene” e alla sua
durata nel tempo. Per questo motivo nelle ricerche sono stati inseriti sia costrutti che
indagano gli esiti individuali e di coppia sia alcuni strumenti che “illuminano” la
generatività/progettualità della relazione che si oppone alla degeneratività/stallo. Dove
questo costrutto è stato analizzato è emerso come esso sia positivamente correlato con
alcuni apsetti del funzionamento di coppia, come l’impegno per il mantenimento della
relazione, la passione e l’intimità. Sono le coppie con figli e, in generale, le coppie più
mature, a registrare maggiori livelli di generatività. Rimane tuttavia aperta la domanda sul
concetto di identità di coppia che introduce un’eccedenza rispetto alla somma delle singole
identità individuali dei partner che la compongono. Tale eccedenza rappresenta un vero e
proprio “terzo” rispetto ai due costituenti, che porta con sé un carattere misterioso, di
inconoscibilità non tanto degli “ingredienti” che lo compongono, quanto soprattutto
dell’elemento che trasforma due individui in qualcosa di più e di diverso dalla loro somma.

LA RICERCA CLINICA: DAL RESOCONTO DI CASO ALLA VERIFICA DI PERCORSO DI


CURA

Se è vero che il modello relazionale-simbolico può guidare le scelte di ricerca sin dalle
prime fasi operative, per esempio nella determinazione dei costrutti d’indagine, esso può
anche funzionare da dispositivo di lettura che il ricercatore utilizza a posteriori
nel’interpretazione dei dati. Punto di partenza è un’indagine che mediante una
metodologia di tipo induttivo si propone di individuare le categorie di senso alla base del
resoconto clinico nel caso in cui il “soggetto” del resoconto sia la coppia coniugale. Il
modello che organizza la stesura dei resoconti in analisi confluisce attorno a cinque grandi
aree tematiche: sessualità; diade coniugale; diade madre-figlio; funzione materna (delle
origini); funzione paterna (delle origini). Potremmo aggregare le cinque aree tra loro su
base triadica, nel senso di un triangolo ai cui vertici poniamo rispettivamente l’ambito dei
sintomi (la sessualità), a seguire la diade di base (diade coniugale), infine il tema delle
origini (diade madre-figlio, funzione materna, funzione paterna). Ora bisogna qualificare
ciascuna area tematica e leggerla alla luce del modello relazionale-simbolico. D’ora in
avanti ci riferiremo a quest’ultimo chiamandolo “modello teorico”; chiameremo invece
“modello emergente” quello che raggruppa le cinque aree.

1. Sessualità: Questa prima are atematica risulta essere la più rappresentata nei
resoconti presi in esame, a conferma dello stereotipo culturale secondo cui i
problemi coniugali scaturirebbero “sotto le lenzuola”. Questa prima area tematica
riguarda per lo più giovani coppie al primo figlio. Tali disturbi sono in genere
attribuiti a uno dei due membri della coppia e nella maggior parte dei casi quella “in
difetto” sembra essere la moglie. Il modello relazionale-simbolico viene in aiuto sia
attraverso uno dei suoi pilastri (la transizione), sia attraverso uno dei suoi principi
(quello organizzativo). Critico è il momento di transizione a cui la relazione di coppia
è sottoposta, nel senso che proprio nella transizione i punti di forza e di debolezza
del legame escono allo scoperto. Non stupisce quindi che il tema della sessualità,
nei suoi aspetti di criticità, prevalga nei resoconti di giovani coppie impegnate sul
fronte della genitorialità. Vi è la tentazione sempre più diffusa di applicare al legame
di coppia le categorie diagnostiche tipiche dell’approccio individuale. Se ci riferiamo
ai criteri propri della nosografia individuale, è difficile rintracciare tali criteri in modo
equanime e simultaneo nei due partner.
2. Diade coniugale: A questo livello prevale una concezione descrittiva della diade,
per lo più in chiave di interazione e comunicazione. I problemi coniugali sarebbero
principalmente dovuti all’incapacità ei partner di comunicare, o di gestire il conflitto.
Kernberg scrive: “Talvolta, la comunicazione può servire a mettere in atto
esplicitamente un’aggressività controllata, il che non significa che gli sforzi per
comunicare i bisogni e le aspettative non siano utili, ma quando entrano in gioco
profondi conflitti inconsci lo stesso processo di comunicazione può esserne
contaminato e la comunicazione aperta può servire solo ad accentuare i conflitti”. In
questo senso Kernberg parla di conflitto inconscio e della sua profondità; riferendoci
al modello teorico dovremmo parlare di qualità simbolica dell’interazione tra i
partner, qualità che rimanda a qualcosa che va al di là di ciò che è in superficie.
3. Diade madre-figlio: Tutto ruota attorno al tema del rapporto madre-figlio, nel senso
della posizione che i partner della coppia hanno ricoperto in seno alla propria
famiglia. Siamo entro un legame che è a un tempo esclusivo ed escludente. Tutta la
psicologia dà rilievo a questa struttura diadica, oscurando la possibilità di
identificare altre categorie utili a comprendere i punti di snodo della vicenda
familiare e dello sviluppo della persona nei suoi risvolti generativi e degenerativi. La
centratura sul rapporto madre-figlio ha anche prodotto alcune teorie svilenti in
merito alla funzione genitoriale; si pensi all’idea sottesa a talune forme d’intervento
centrate sull’attaccamento, quasi quest’ultimo fosse un “marchio di fabbrica”,
un’impronta che ci portiamo dietro senza che nessuna quota di libertà,
responsabilità, possa cambiare il destino che ci è stato dato in sorte nelle
vicissitudini della vita.
4. Funzione materna (delle origini): La donna è colei che dà origine, il “cuore” e la
sede della memoria; è colei che intreccia e dispiega. Se mettiamo questo cluster
tematico insieme al precedente ciò che ne viene è la visione matricentrica in merito
alle vicende di coppia e di famiglia.
5. Funzione paterna (delle origini): Relativamente alla figura paterna emerge una
perdita di valore simbolico, relegata ad una mera funzione di autorità. Il modello
teorico distingue tra ruolo e funzione, ossia tra “esercizio della genitorialità” e
“legame genitoriale”. Il modello teorico ci mette in guardia di fronte all’esercizio di
un ruolo che senza la mediazione della funzione sortisce una sorta di legame in cui
il figlio può fare fatica a riconoscersi; pensiamo per esempio alla figura del pater
familias, tutta schiacciata sul fronte normativo e del principio di autorità. Allo stesso
tempo, però, la funzione, se privata del ruolo, decade in una forma debole di
relazione.

Emerge come i clinici impegnati a rendicontare i casi di coppia che incontrano nel lavoro di
cura scivolano facilmente in una visione della relazione che è pensata in termini diadici,
sommatori e per lo più descrittivi. L’enfasi è data alla diade, sia che si tratti del rapporto tra
i partner, sia del rapporto madre-figlio. Manca una visione “triangolare” del legame, cioè
del legame come terzo; è come se i resoconti fossero quelli di due individui trattati
separatamente, anche se in realtà il trattamento avviene alla presenza dell’altro. Invece la
clinica di coppia impone uno sguardo sul legame al di là dei singoli membri e questa forma
di trattamento non può essere concepita come la sommatoria di due trattamenti individuali.
Manca poi un rimando generazionale esteso, oltre le figure primarie di accadimento. La
visione dell’origine e della vicenda di coppia è “matrifocale” con perdita della funzione
simbolica da parte del padre che tutt’al più sembra appartenere ad un passato autoritario.

VALUTARE GLI INTERVENTI CLINICI DI COPPIA ALLA LUCE DEL MODELLO


REAZIONALE-SIMBOLICO

Sul fronte della valutazione degli interventi si è operata una scelta di campo in favore di
una metodologia di lavoro che sonda il percorso clinico in momenti caratteristici e ne
studia la connessione e l’esito finale. Si tratta di rilevare come, quando e a carico di quali
elementi è possibile evidenziare il cambiamento relazionale. Si è anche operata la scelta
di indagare le diverse forme di legame al di là degli aspetti di interazione tra i partner,
attraverso la costruzione di griglie di osservazione appositamente predisposte per la
codifica delle videoregistrazioni di sedute. L’osservazione diretta, più degli strumenti self-
report, aiuta il ricercatore ad avvicinarsi all’aspetto di senso sotteso alle diverse forme di
scambio e di comunicazione tra i partner. Uno stesso
fenomeno rilevabile nel contesto clinico può assumere forme differenti a seconda del
vertice di osservazione considerato. Per esempio, in riferimento al legame che viene a
stabilirsi tra il clinico e i membri della coppia, quello che ad un primo livello può definirsi
“disaccordo verbale” confluirà ad un altro livello in “resistenza terapeutica” e nella
“mancata reciprocità” del legame. È il legame tra i partecipanti al contesto di cura che si
impone all’attenzione del ricercatore. La sfida che si impone al ricercatore è di
operazionalizzare il costrutto di relazione attraverso momenti rivelativi del legame, e di
sviluppare strumenti di siglatura che siano congruenti al modello teorico di riferimento. Tra
i primi annoveriamo gli episodi che prendono il nome di enactment, ossia momenti di
maggiore impegno e coinvolgimento tra i partner nella relazione. Per quanto riguarda lo
sviluppo di strumenti di siglatura congruenti con il modello teorico di riferimento, la
procedura di codifica fa risalire i contenuti del discorso a dieci variabili gerarchicamente
ordinate e raggruppabili in tre macrocategorie, definite di senso, di contesto e di
contenuto. Le variabili di senso
riguardano rispettivamente la capacità dei partner: di esprimere speranza e fiducia nella
relazione, per esempio riuscendo a guardare al di là delle difficoltà contingenti; di fare
qualcosa per l’altro attraverso movimenti di riconciliazione e perdono; di sentirsi parte in
causa nella relazione, in termini di coinvolgimento, impegno e assunzione di
responsabilità; di aprirsi al nuovo e accettare l’imprevisto; di riconoscere e rievocare
momenti importanti per il legame. Le variabili di contesto riguardano le
modalità con cui i partner si rapportano al contesto di cura, che valorizzeranno oppure
attaccheranno, potendo ritualizzare proprio nella cornice del trattamento le medesime
modalità con cui agiscono nella vita di tutti i giorni. Tali variabili riflettono il livello di
adesione della coppia al progetto terapeutico e si esprimono: nella capacità di ascolto e
rispetto reciproco; nella concreta quota di impegno e fiducia che i partner ripongono nel
lavoro proposto dal clinico.
Le variabili di contenuto riguardano l’oggetto del contendere (del conflitto) e spesso
ruotano attorno ai temi: della sessualità e dell’intimità di coppia; dei rapporti
intergenerazionali, nel senso dei rapporti tra le generazioni e dell’influenza esercitata sul
legame di coppia dalla famiglia allargata e da quella nucleare; dagli eventi critici, siano
essi “attesi” come nel caso della nascita di un figlio che è stato cercato, oppure “non
previsti” come nel caso di una malattia fisica, di un tradimento o di un lutto improvviso e
traumatico. Nel descrivere
queste variabili si è tenuto conto della forma del legame funzionale, cioè della forma
“reciproca” della relazione. A tale forma si aggiungono due modalità di fare ed essere della
coppia contrarie alla generatività, definite “assimilazione” e “divisione delle parti”. Nel
primo caso ciò che i partner hanno in odio è la differenza; il tentativo ricorrente da parte di
ciascuno è quello di ridurre l’altro a sé. Né è una manifestazione caratteristica il ribadire
continuamente le proprie ragioni e i propri bisogni personali, il rifiutare la differenza di
pensiero, di azione e sentimento dell’altro. Al contrario, la divisione delle parti ha in odio la
somiglianza; i partner si percepiscono come distanti, trovandosi su posizioni contrapposte.
Le tre differenti forme di legame individuate non sono da considerarsi come assolute;
ciascuna coppi infatti, nel corso del trattamento, si trova a sperimentarle tutte. Ciò che
acquista valore è la predominanza di una di esse.

6 CAPITOLO
DA COPPIA A FAMIGLIA: IL LEGAME GENITORIALE TRA BIOLOGIA E
CULTURA

INTRODUZIONE

Tra i pilastri del modello relazionale-simbolico figura quello di transizione che va connesso
con gli altri pilastri, quelli di relazione e generatività. La transizione innesca eventi critici,
ha un percorso che ha uno scopo che ha sempre a che fare con il mondo dei legami e con
la generatività. La dinamica di ogni transizione è quella di fondarsi sul rapporto tra perdita
e acquisizione e i riti che l’accompagnano hanno proprio lo scopo di favorire il passaggio.
Le transizioni non riguardano mai una singola persona, ma un gruppo che vi è implicato. È
nella transizione che è possibile cogliere le caratteristiche del funzionamento dei legami.
Le transizioni espongono le persone e i gruppi di appartenenza alla decisione. O si
guadagna o si perde; definiamo questo guadagno come “generatività” che si manifesta
nello scambio tra le generazioni e nell’apertura nei confronti di quelle successive. Un
concetto importante è quello di “transizione chiave”, cioè il passaggio da coppia a famiglia
sollecitato dall’evento critico che consiste nell’acquisizione di un nuovo membro (per
nascita o per adozione). Vi sono transizioni che si impongono con la forza
dell’accadimento biologico (la nascita, la pubertà, la morte) e altre con la forza
dell’accadimento culturale (l’adozione, il matrimonio, il divorzio).

LA NASCITA DEL LEGAME GENITORIALE E I SUOI PRIMI PASSI

In molte culture il passaggio da coppia a famiglia vede come protagoniste le famiglie di


origine e a volte anche le appartenenze ai clan. La cultura dell’Occidente odierno trova
non pochi ostacoli relativi proprio alle appartenenze familiari e sociali. Il diritto del singolo e
la ricerca della sua autorealizzazione non possono fare a meno del legame con l’altro. Il
focus della transizione dalla coppia alla famiglia è per noi la nascita del legame genitoriale
che vive del nostro tempo presente ma che porta con sé il suo compito di “cura”
responsabile delle nuove generazioni, proprio in quanto legame. Il figlio infatti si identifica
e interiorizza non solo il suo legame con il padre e con la madre ma anche il legame tra di
loro in quanto coniugi-genitori. Parlare di legame genitoriale è cosa diversa dal parlare di
cogenitorialità. Quest’ultimo concetto è di derivazione individualista e di sommatoria degli
individui (madre,padre), mentre parlare di legame genitoriale introduce il riferimento al
“terzo”.

LA COPPIA NELLA TRANSIZIONE ALLA GENITORIALITA’


La letteratura appare assai ricca di contributi dallo sguardo individuale. Tale sguardo è
ovviamente focalizzato sulla donna-madre e, più di recente, sull’uomo-padre. Molto più
rara è una ricerca che considera il passaggio dalla coppia alla genitorialità. Più di recente
ci si è focalizzati sulla differenza tra coppia “responsiva” di fronte allo stress della nascita,
caratterizzata da supporto, fiducia e buona gestione dell’ansia, e coppia “evitante e
disimpegnata”, in cui lo stress è considerato un problema dell’altro e dove non ci sono
supporto e fiducia di fondo. Le ricerche sottolineano la presenza di un calo di
soddisfazione nell’intimità di coppia a seguito del parto. La qualità della relazione di coppia
è un fattore fondamentale che covaria con la qualità della relazione genitoriale. Una
“buona coppia” è quella che progetta la gravidanza, che esprime e controlla le emozioni,
che mantiene una buona sessualità. Le ricerche che utilizzano fondamentalmente
strumenti self-report fanno vedere che nelle coppie il desiderio declina e il conflitto
aumenta. In una ricerca che ha implicato direttamente coppie con figli e senza figli
utilizzando tecniche osservative, hanno evidenziato come ciò che dà soddisfazione nel
matrimonio siano proprio la cura dei figli il sentimento di intimità che deriva dall’avere un
compito congiunto e la considerazione che si ha dell’altro come genitore. Hanno
evidenziato la presenza tra gli effetti predittivi ella tenuta della relazione di coppia, il modo
in cui viene concettualizzato il matrimonio, il sentimento di “noità” e la consapevolezza
della differenza dell’altro. Di particolare interesse è la focalizzazione di traiettorie utili a
differenziare tra loro i percorsi che i membri della coppia genitoriale realizzano
nell’inserimento del “terzo” che fa famiglia. La ricerca, attraverso la messa a fuoco di
categorie identificate mediante le interviste, ha individuato quattro “super codici” rilevanti
per la differenziazione delle traiettorie già peraltro presenti nella prima fase (la
gravidanza). Si tratta della disposizione verso la gravidanza (non tanto se è programmata
o meno, quanto se è accettata e muove sorpresa); delle aspettative relative ai primi mesi
di vita del bambino (l’integrazione tra timore e desiderio) ; del supporto affettivo e dello
spazio pensabile per il terzo. Nel periodo post partum emergono sostanzialmente sempre
tre categorie. La prima è il rapporto con il neonato (tra fatica e sorpresa); la seconda è il
riconoscimento del cambiamento avvenuto: la terza categoria è la relazione di coppia, da
un lato sacrificata e dall’altro totalmente assorbita. È la connessione tra i codici ad indicare
la presenza di traiettorie differenti nel passaggio alla genitorialità. In particolare ne
emergono due. La prima combina tra loro l’accettazione della gravidanza, l’apertura al
“terzo” (il neonato) e la valorizzazione del supporto. Vengono riconosciuti come dalla
coppia la trasformazione profonda del legame, il valore dell’impegno e del rapporto
reciproco. La seconda traiettoria parte dalla difficoltà di accettare la gravidanza e procede
attraverso la difficoltà a rappresentarsi il bambino e la nuova vita familiare. Siamo in
situazioni di vulnerabilità che posso esitare in un blocco evolutivo: ne sono il segno il
sentirsi in balia degli eventi, l’essere sommersi dalla fatica, non scambiare supporto, ma
piuttosto squalifica reciproca e vivere un declino del legame in cui non è possibile porre
rimedio.

LA GENITORILAITA’ NELLA TRAMA DEI LEGAMI INTERGENERAZIONALI

Gli itinerari di costruzione della genitorialità sono direttamente legati alle relazioni che i
coniugi intessono con le famiglie di origine, alla storia familiare e valori, miti e tradizioni ad
essa connessi. L’esperienza che ciascun genitore ha interiorizzato in quanto figlio funge
da paradigma nell’esercizio della funzione genitoriale. I genitori consegnano al figlio il
“patrimonio” familiare. Questa eredità ha sia un versante biologico che simbolico/culturale:
il figlio è infatti il frutto della combinazione del patrimonio genetico trasmesso da padre e
madre e, attraverso di loro, dalla generazioni precedenti. Questa componente genetica si
manifesta fin dalla nascita nei tratti somatici. Le ricerche hanno evidenziato come al
neonato venga attribuita con maggiore probabilità una somiglianza alla linea familiare
paterna: sembra dunque esserci un “movimento” corale e condiviso dal punto di vista
sociale nel sancire l’appartenenza del nuovo nato alla stirpe del padre. La relazione di
coppia, vista nei suoi aspetti di differenza di ruoli di genere e di percezione elle relazioni
con la famiglia d’origine, è il focus di un’altra ricerca condotta su un campione
rappresentativo di giovani coppie con figli piccoli. In questa ricerca è emersa, per quanto
riguarda le differenze di genere, la salienza di quel fenomeno della “tradizionalizzazione
dei ruoli” che si manifesta con un drastico cambiamento nel gioco delle parti tra marito e
moglie con aumento delle incombenze domestiche e familiari a carico della moglie/madre
e che si protrae anche nella fase immediatamente successiva in cui i figli sono piccoli.
Questo però non deve mettere in ombra il fatto che in un terzo del campione il
coinvolgimento paterno è assai rilevante ed è risultato essere determinante per il
benessere psicologico dell’intero nucleo, e in particolar modo per la giovane madre: infatti,
laddove il marito risulta essere attivamente coinvolto nell’accudimento dei figli, la moglie
presenta livelli superiori di soddisfazione coniugale. I dati confermano il massiccio
coinvolgimento dei nonni nella cura dei figli; le giovani famiglie paiono più propense ad
utilizzare risorse interne alla rete familiare, piuttosto che servizi pubblici o privati. Sono in
particolare le madri della generazione precedente a prestare aiuto non solo materiale ma
anche morale; la giovane famiglia risulta essere molto legata alle famiglie di origine. Ciò
porta con sé anche alcuni elementi di rischio: l’aspetto critico degli scambi tra le due
generazioni è rappresentato dall’equilibrio tra gli aspetti di libera scelta e gli aspetti di
vincolo e obbligo insiti nel supporto che la famiglia di origine offre alla giovane famiglia.
Dai dati della ricerca emerge infatti che l’apporto dei genitori risulta essere una scelta
quasi obbligata e ciò non può non avere ripercussioni sulla qualità dello scambio nel breve
così come nel lungo periodo.
Le giovani coppie vantano una qualità di relazione di coppia decisamente più positiva
rispetto ai propri genitori quanto ad apertura nella comunicazione, intimità e modalità di
gestione della conflittualità. È la moglie che sembra risentire maggiormente dei mutamenti
inerenti la transizione e manifesta un calo nella soddisfazione di coppia qualora non possa
contare su un significativo supporto e sostegno da parte del proprio partner. Le giovani
coppie dichiarano di aver ricevuto in passato e di ricevere anche nel presente livelli elevati
di supporto sia organizzativo che economico dalle proprie famiglie di origine, in modo
particolare dai genitori della moglie. Dunque le mogli/madri, seppur caricate dalla maggior
parte delle incombenze legate alla cura dei figli, di fatto appaiono anche saldamente
sostenute da positive relazioni con i propri genitori e in modo particolare con la propria
madre. I profili di coppia che ne emergono sono assai variegati: da un lato, un gruppo
assai consistente di coppie sembra intessere solide relazioni con entrambe le famiglie di
origine o in modo elettivo con quella della moglie; le coppie appaiono stabili, mediamente
soddisfatte della loro relazione. Dall’altro lato, possiamo collocare un altro gruppo di
coppie caratterizzate da una notevole distanza dalla famiglia di origine della moglie. In
questi casi vi è una discrepanza percettiva tra le due generazioni: i genitori ritengono di
aver contribuito di più alla vita dei propri figli in termini di sostegno rispetto a quanto non
riconoscano i figli stessi. Accanto a questo gruppo si colloca un altro insieme di coppie
accomunate da elevate insoddisfazioni e conflittualità nei confronti di entrambe le famiglie
di origine: emergono un considerevole vuoto relazionale, anche nel passato, una totale
assenza di vicinanza e supporto e un blocco nella trasmissione valoriale. Le coppie più a
rischio sono quelle in cui è la moglie ad essere in difficoltà dal punto di vista delle relazioni
con la propria famiglia di origine, in particolare con il proprio padre: questo aspetto è quello
che sembra poi ripercuotersi su molteplici aspetti della famiglia attuale (basso livello di
intimità e supporto con il marito, difficoltà comunicative, scarsa soddisfazione per la
relazione e per la divisione dei compiti domestici). I legami intergenerazionali appaiono
nella maggior parte dei casi saldi e fonte di supporto per la giovane coppia: essi
costituiscono una base sicura che consente alla giovane coppia di affrontare la transizione
alla genitorialità; ma laddove essi presentano sfaldature e carenze, possono
rappresentare un fattore di rischio. In particolare, le giovani madri sembrano poter contare
su un numero più consistente di risorse relazionali rispetto ai loro mariti, ma proprio per
questo qualora esse vengano meno è tutta la famiglia a risentirne profondamente.
Come viene percepita dalla generazione dei genitori e dei nonni la trasmissione della
famiglia e del suo valore? È questo il tema affrontato in una ricerca qualitativa in cui sono
state intervistate coppie con figli piccoli e coppie con figli preadolescenti e i loro genitori.
L’unità di analisi è quindi rappresentata da tre coppie genitoriali (la giovane coppia e i
genitori di lei e di lui) appartenenti a due generazioni diverse. Il “valore famiglia” non è mai
oggetto di domanda diretta nelle interviste ma “ricavato” attraverso alcuni ambiti discorsivi.
Il congegno di ricerca ha permesso di mettere in luce la presenza di cinque diverse
tipologie che vanno dalla presenza di un processo di trasmissione ottimale, per arrivare
fino alle situazioni più critiche. Allorchè la famiglia è giovane e con figli piccoli, resta vivo il
legame preferenziale con una delle famiglie di origine (secondo la nostra cultura quella
materna) ed è difficile che vi sia una consapevole presa d’atto della differenza tra le
generazioni che invece è più chiara nella famiglia con preadolescenti. Lo scambio tra le
generazioni (nel caso della famiglia giovane) è più prossimale che distanziale, ricevendo
tutta una serie di aiuti di cui peraltro necessita. È peraltro possibile già nella famiglia con
figli piccoli evidenziare la presenza di problemi. I “segnali” sono la chiusura nei confronti
dello scambio tra le generazioni o un’asimmetria netta tra le stirpi, con l’”esclusione”
dell’altra. È però nel tempo della preadolescenza dei figli che è possibile considerare il
processo di trasmissione nella sua qualità relazionale; qui si vede, cioè,, o la sua riuscita,
o la sua caduta. Al proposito degno di nota è la tipologia che riguarda famiglie con figli
adolescenti che hanno alle spalle una “matrice debole” (vale a dire famiglie di origine che
presentano mancanze anche gravi), ma che hanno saputo riparare a tali mancanze e sono
state in grado di rilanciare il legame generazionale.

LA GENITORIALITA’ NELL’ADOZIONE

Praticata in tutte le civiltà antiche, dagli egizi all’antica Grecia e alla Roma imperiale, si
ricorreva all’adozione per assicurare una discendenza alla famiglia e quindi la
sopravvivenza della stirpe e del cognome: garantiva dunque il diritto di eredità e la
trasmissione del patrimonio familiare. Con la diffusione del Cristianesimo si delinea un
secondo aspetto fondamentale dell’adozione, quello della accoglienza di un nuovo nato
privo di cure familiari. La trasmissione del nome e dell’eredità e dell’accoglienza
costituiscono così i due fulcri attorno a cui ha preso forma l’adozione attraverso la storia.
Assai più recentemente è andata affermandosi anche la funzione di riparazione affettiva,
ovvero la necessità di assicurare affetto e calore ad un minore che è privo di contesto
familiare adeguato, al fine di garantirne lo sviluppo psicofisico. I coniugi che intraprendono
l’adozione si trovano a far fronte al compito/sfida di stabilire una relazione genitoriale in
assenza di un legame di consanguineità. L’adozione origina da una duplice mancanza
(una famiglia per il bambino, e per la coppia la mancanza di un figlio proprio).
Distinguiamo tra fecondità e generatività: quest’ultima trascende e va ben oltre il mettere
al mondo un figlio, in quanto si configura come capacità tipica degli adulti di prendersi cura
con impegno e dedizione di ciò che si è prodotto o generato. L’adozione si posizione nel
punto di intersezione tra generatività parentale (la cura verso i propri figli)e la generatività
sociale (l’impegno che travalica i confini della propria famiglia e si trasforma in cura verso
gli altri soggetti). Lo snodo cruciale della famiglia adottiva ruota attorno al tema della
differenza, elemento cruciale nel modello relazionale-simbolico.
Nella genitorialità biologica e in quella adottiva il rapporto tra il proprio e l’altrui è diverso.
Mentre nella filiazione biologica la somiglianza è data e connaturata anche geneticamente
e il riconoscimento dell’alterità del figlio è un compito che attraversa le diverse fasi del
ciclo di vita, nell’adozione la differenza è posta all’origine, e la somiglianza/appartenenza è
costruita nel tempo. La sfida con cui i genitori adottivi si trovano a fare i conti consiste nel
comprendere e valorizzare la differenza, resa evidente dai tratti somatici diversi e spesso
anche dall’etnia, dalla cultura e dalla lingua differenti, per costruire una comune
appartenenza familiare. I genitori adottivi sono dunque chiamati a trasformare l’altrui in
proprio, senza per questo annullarlo o cancellarlo. Risulta fondamentale quel processo
interiore di legittimazione di sé e del proprio coniuge come genitori di quel figlio. La
legittimazione è all’opera anche nella filiazione biologica, ma nell’adozione può essere
ostacolata proprio dalla differenza riconducibile alle origini, all’assenza di un patrimonio
genetico comune, alla mancata condivisione dei primi momenti di vita e in molti casi dei
primi anni di vita. La centralità che è stata attribuita al tema della legittimazione, qual
componente cruciale della relazione genitori-figli nell’adozione, ha portato a costruire una
specifica scala che è stata utilizzata in diverse ricerche e che intende misurare quanto i
genitori sono riusciti nel compito di assunzione piena della responsabilità genitoriale e
quanto percepiscono il figlio come continuatore della propria storia familiare e, da parte del
figlio, quanto riconosce il padre e la madre come genitori a tutti gli effetti e si sente
appartenente alla famiglia. I genitori adottivi con un più forte senso di genitorialità
consentono ai figli di percepire se stessi come appartenenti a di “mettere radici” nella
famiglia adottiva, nel riconoscimento della differenza di origine. Inoltre, la genitorialità e la
filiazione adottive sono risultate legate ad una molteplicità di altre dimensioni delle
relazioni familiari e, in particolare, alla comunicazione genitori-figli e al supporto. Quanto
più fluida è la comunicazione nella famiglia e quanto più saldi sono i legami, tanto
maggiore è il senso di appartenenza reciproca per i genitori e per il figlio adottivo. La
percezione della genitorialità adottiva costituisce il più importante fattore protettivo in
quanto riduce la probabilità che il figlio possa manifestare problemi comportamentali.

IL PATTO ADOTTIVO
Il legame genitori-figli nell’adozione è stato definito, alla luce dell’approccio relazionale-
simbolico, come “patto adottivo”. Tale termine, solitamente usato per indicare il legame
coniugale, può essere esteso anche al legame tra genitori e figli adottivi, in quanto
nell’adozione sono salienti, più che nella filiazione biologica, gli aspetti di comune
impegno, sia da parte dei genitori che dei figli, nella costruzione del legame genitoriale. Se
nelle prime fasi sono i genitori che hanno la regia della costruzione del patto, nel tempo
anche i figlio è chiamato a riconoscere quegli adulti che per molti anni lo hanno cresciuto
come genitori a pieno titolo e ad accogliere ciò che essi hanno trasmesso. Sono state
individuate diverse modalità di patto in base alle diverse modalità di trattare la differenza
originaria del figlio. Il patto di riconoscimento e di valorizzazione delle differenze è proprio
di quelle famiglie in cui l’adozione non solo è entrata a far parte della storia familiare, ma è
considerata un valore aggiunto.
Nel patto di assimilazione reciproca l’evento adottivo con le sue origini oscure è tenuto
presente, ma è neutralizzato e messo tra parentesi nel tentativo di assomigliare il più
possibile alle famiglie biologiche e di assimilare il figlio adottivo al figlio biologico.
Il patto imperfetto sta ad indicare un patto “in bilico”, in quanto manca quella quota di
reciprocità; i genitori possono, per esempio, proporre al figlio un patto di assimilazione, ma
il figlio adolescente risulta essere molto ambivalente verso il presente e verso il passato.
Il patto di negazione è caratterizzato dalla espulsione, sia da parte dei genitori, sia da
parte del figlio, dell’adozione dalla propria storia, vissuta da entrambi come troppo
dolorosa. Nel patto impossibile genitori e figli si trovano su posizioni
tanto distanti da risultare impossibile stipulare qualsiasi patto e il figlio è vissuto
sostanzialmente come un estraneo tanto che gli aspetti negativi del suo comportamento
sono imputati alle sue origini. Il legame che si
viene a creare tra genitori e figlio rimanda al legame con le rispettive famiglie di origine.
Infatti, per alcune coppie, il riconoscimento di aver ricevuto dei “doni” dalle famiglie di
origine porta ad individuare nell’adozione una modalità per poter trasmettere in avanti
questo patrimonio. In altri nuclei, invece, le relazioni con entrambe le famiglie di origine, o
con una sola di queste, sono ancora caratterizzate dalla presenza di “conti aperti” e
l’adozione è vissuta come una modalità messa in atto dalla coppia coniugale per prendere
le distanze e marcare una frattura dai rispettivi genitori. Le modalità di patto sono sempre
suscettibili di cambiamento. La costruzione del legame materno e di quello paterno può
seguire itinerari diversi: non sono rari i casi in cui si assiste, subito dopo l’ingresso del
bambino, a una maggiore linearità nella costruzione del legame paterno e ad un
andamento a “meandri” nel legame materno, caratterizzato da movimenti ambivalenti di
avvicinamento reciproco e di distanziamento. Da una parte,infatti, è per la madre assai
faticoso costruire un legame, quando il passato è segnato da fratture spesso ripetute nella
relazione con la figura femminile. Se i comportamenti problematici dei bambini
rappresentano una sfida nel percorso di costruzione della genitorialità, non costituiscono di
per sé un ostacolo nello stabilire un legame saldo e nella definizione dell’appartenenza
familiare. Ciò è possibile nella misura in cui la coppia genitoriale riesce ad accogliere gli
aspetti problematici come manifestazione di disagio e difficoltà del bambino e non come
attacco alla propria genitorialità.

GLI ESITI DEL PERCORSO ADOTTIVO


L’adozione costituisce un fattore di rischio per lo sviluppo psicologico del minore? Questa
è la principale domanda che si è posta la ricerca sull’adozione, focalizzando l’attenzione
sull’adattamento dei bambini e indagando se e in che misura i soggetti adottati presentino
con maggiore probabilità problemi comportamentali rispetto ai coetanei non adottati. La
maggioranza di queste ricerche mette a confronto i bambini adottati con i coetanei nati e
cresciuti nelle famiglie biologiche. Gli adottati, pur manifestando globalmente un buon
livello di adattamento psicosociale, riportano generalmente livelli superiori di problemi
emotivo-comprtamentali e una riuscita scolastica lievemente inferiore rispetto ai coetanei
non adottati. Si ritiene, però, che la ricerca comparativa rischia di oscurare la specificità
del percorso adottivo. Infatti, il limite di questo tipo di ricerca sta nella scelta del campione
cosiddetto “normale” con cui operare il confronto: se questo cambia, anche i risultati si
modificano. Infatti, qualora i soggetti adottati siano posti a confronto con quei minori che
rimangono in istituto o in comunità, le differenze riscontrate vanno a vantaggio dei soggetti
adottati: questi ultimi manifestano con minore probabilità problemi comportamentali, una
migliore riuscita scolastica e un quoziente intellettivo superiore.
L’ obiettivo dell’adozione è la costruzione di una significativa appartenenza familiare che
non cancelli la differenza di origine e che questa sia una risorsa a cui attingere.

IL RUOLO DEI LEGAMI FAMILIARI

Mentre la letteratura dell’adozione ha focalizzato l’attenzione prevalentemente sul


bambino, lasciando in ombra il contesto familiare, il modello relazionale-simbolico mette a
fuoco le relazioni familiari. Nelle ricerche è stato incluso il punto di vista di entrambi i
genitori e il legame tra di essi. Così sono state utilizzate unità di analisi diadiche o anche
triadiche, con l’inclusione dei figli, se adolescenti o giovani adulti. Nei casi in cui sia stata
utilizzata l’ottica comparativa, al fine di evidenziare somiglianze e differenze tra diverse
strutture familiari, il confronto è stato duplice: all’interno della famiglia (tra padre e madre e
tra genitori e figlio) e tra famiglie adottive e non. I genitori adottivi (con figli in età scolare)
percepiscono la relazione con il coniuge caratterizzata da maggior supporto e da una
comunicazione più aperta,u un minor livello di ansia individuale e un livello di stress legato
al ruolo genitoriale inferiore rispetto ai genitori non adottivi. Anche l’accordo tra le
percezioni di padre e madre relativamente ai problemi comportamentali del proprio figlio è
risultato essere più elevato: probabilmente una più solida relazione coniugale e una
comunicazione più fluida conducono i genitori a un maggior confronto all’interno della
coppia e a maturare percezioni più simili rispetto ai comportamenti dei propri figli. Accanto
ad alcuni elementi di comunanza tra famiglie adottive e non, sono state evidenziate anche
alcune specificità: si è osservato che gli adolescenti adottati percepiscono una
comunicazione con il padre più fluida e meno problematica e percepiscono un maggior
livello di supporto rispetto ai propri coetanei che vivono nelle famiglie biologiche. La figura
paterna, sembra occupare uno spazio assai più significativo nelle famiglie adottive
anzicchè in quelle biologiche. In un recente studio si è ritenuto opportuno andare oltre il
costrutto di adattamento e spostare il focus sul benessere. Questo costrutto è un
indicatore appropriato che segnala nel lungo periodo la riuscita dall’adozione stessa, in
quanto rimanda alla capacità da parte dell’adottato di assumere la scelta adottiva fatta da
altri, di integrarla come parte della propria storia, di apprezzare ciò che si è ricevuto e di
rilanciare in avanti. Tale ricerca ha evidenziato negli adolescenti adottati livelli adeguati di
benessere, unitamente ad una buona soddisfazione per la vita. Inoltre, le famiglie che
adottano un minore di diversa etnia hanno un compito evolutivo aggiunto relativo alla
valorizzazione del background culturale di origine, oltre all’assunzione e integrazione di
quanto viene trasmesso dal contesto in cui si trova a crescere. Una recente ricerca
qualitativa ha consentito di cogliere quattro differenti tipologie identitarie:

1. Duale (integrazione e valorizzazione sia del background di origine, sia del


riferimento culturale italiano)
2. Assimilata (valorizzazione esclusiva del riferimento culturale italiano, mentre quello
di origine è svuotato di significato)
3. Separata (riferimento esclusivo al background di origine e rifiuto o distanza da
quello italiano)
4. Sospesa (percezione di estraneità da entrambi i riferimenti culturali)

Gli adolescenti che appartengono alle prime due tipologie mostrano livelli superiori di
filiazione adottiva, una comunicazione sulle tematiche adottive più aperta e maggior
supporto dai propri genitori, rispetto agli altri. Inoltre sono stati evidenziati adeguati livelli di
adattamento e di benessere sia tra gli adolescenti che rientravano nella tipologia “duale”
sia in quella “assimilata”, ma i primi presentano livelli superiori di autoefficacia, di
autostima e di benessere, rispetto agli ultimi. Infatti, si può affermare che gli adolescenti e
giovani adulti che hanno costruito una positiva identità etnica, unitamente ad una salda
appartenenza familiare, abbiano livelli superiori di benessere e soprattutto una
progettualità futura maggiormente definita. Non è scontato che la sola identificazione con i
due background di riferimento, quello nazionale e quello etnico, possa essere un elemento
chiave per il benessere psicosociale dell’individuo, ma è necessario anche un processo di
integrazione tra questi due aspetti, interiorizzati e percepiti come compatibili tra loro. Le
strategie messe in atto perché il figlio possa conoscere e valorizzare il background
culturale da cui proviene, sono risultate avere un ruolo importante nella formazione
dell’identità etnica, a condizione che i legami familiari siano saldi e l’appartenenza
familiare ben consolidata, altrimenti tali strategie rischiano di assumere una valenza
opposta e portare alla distanza, fino addirittura all’estraneità. Sono i giovani adulti (20-25
anni) a mostrare, rispetto agli adolescenti (15-19 anni), livelli inferiori di problemi emotivo-
comportamentali, livelli superiori di benessere, una più salda percezione della filiazione
adottiva, una relazione con i genitori meno conflittuale e maggiormente caratterizzata dalla
promozione dell’autonomia. Infine, l’importanza di assumere uno sguardo lungo nella
comprensione delle relazioni familiari ha spinto ad indagare la transizione alla genitorialità
nelle coppie in cui uno dei partner è adottato. La nascita di un figlio proprio rimanda
inevitabilmente all’essere stati a propria volta figli e ciò può avere risonanze del tutto
particolari per l’adottato. È infatti nel lungo periodo che si può cogliere più chiaramente
l’eco di eventi particolari, che segnano l’intersa esistenza di chi li vive, come l’adozione.
L’adulto adottato quando diventa genitore è chiamato ancora una volta a confrontarsi e a
risignificare la propria storia, in particolare la questione cruciale dell’abbandono, e a
decidere che cosa trasmettere in avanti alla nuova generazione. È emersa un’ampia
variabilità nella modalità di rilettura dell’evento adottivo; per alcuni è qualcosa di chiuso per
sempre, che non ha nessun effetto sull’oggi; per altri, invece, la nascita di un figlio proprio
ha ridestato con nuovi accento molti interrogativi: chi si è preso cura di loro quando
avevano l’età che hanno ora i loro figli? Come mai sono stai abbandonati? Questi
interrogativi hanno portato la maggior parte degli adulti adottati a rileggere il passato, e ad
apprezzare ciò che ha ricevuto dai genitori adottivi; assai più raramente ciò ha condotto a
trincerarsi in un atteggiamento di rivendicazione di ciò che non si è potuto avere. In questo
compito, l’adottato ora non è solo, ma è inserito in una relazione di coppia. A volte è
proprio il partner ad aprire, spingere e sostenere l’adottato nel compito di risignificazione
degli eventi della propria storia; altre volte, al contrario, chiude, copre, ostacola.

LA GENITORIALITA’ NELL’AFFIDAMENTO FAMILIARE

Nell’affido l’esercizio della funzione genitoriale non viene trasferito in toto alla famiglia che
accoglie il minore, ma è “condiviso”: i genitori affidatari assumono temporaneamente la
responsabilità della cura, mentre l’appartenenza familiare rimane alla famiglia di origine.
La letteratura internazionale ha concepito l’affido nei termini di un interventi ripartivo e
migliorativo, se messo a confronto con l’istituzionalizzazione. L’affido è stato inteso come
evento familiare e sociale ed è quindi stato concepito come uno scenario nel quale si
incontrano più attori e si intrecciano diverse rappresentazioni di genitori affidatari, famiglie
di origine e operatori, questi ultimi considerati come fondamentali protagonisti nel ruolo di
mediatori tra le famiglie implicate. Il benessere del minore è stato collegato non solo al
mero adattamento comportamentale ma ad una pluralità di dimensioni. In particolare una
grande rilevanza è stata attribuita al tema della percezione dei confini familiari da parte del
minore e al nodo cruciale della “doppia appartenenza”, intesa come la condizione tipica
del minore in affido che si trova a gestire il suo rapporto tra due famiglie. Diverse ricerche
hanno messo in evidenza come il figlio in affido mantenga un legame tenace con le origini,
anche nel caso in cui i rapporti con le famiglie naturali non vengano coltivati. In diversi
lavori è stato sottolineato un altro tema cruciale del processo di affido, ossia quello
dell’accesso alle origini, come condizione per proteggere la trasmissione
intergenerazionale nella storia del figlio in affido e per consentire al minore di vivere in
maniera non ambigua la propria doppia appartenenza. Lo sviluppo della ricerca ha
riconosciuto nell’affido una forma di genitorialità sui generis, condivisa tra genitori affidatari
e genitori naturali. Le ricerche condotte sull’affido sono state realizzate secondo un
approccio quali-quantitativo. Si è osservato come la percezione della doppia appartenenza
alla famiglia di origine e a quella affidataria fosse rilevabile attraverso strumenti diversi.
Dalle scale self report infatti i ragazzi in affido sembravano esprimere un desiderio di
appartenenza totale alla famiglia affidataria, mentre nel test grafico-simbolico si
disegnavano come appartenenti alla famiglia d’origine. Anche nei genitori affidatari si
osservava spesso una discrepanza tra ciò che dichiaravano attraverso le scale di self-
report e ciò che disegnavano nel test grafico. Gli strumenti self-report mettono in evidenza
l’aspetto fattuale ed esplicito legato al ruolo accuditivo-educativo svolto dalla famiglia
affidataria, mentre le altre due dimensioni, più implicite e legate agli aspetti profondi del
simbolico, sono evidenziate dagli strumenti qualitativi. Dalla ricerca riguardo alla
esperienza innovative di affido di neonati, è emerso in modo particolarmente accentuato il
problema della pensabilità del legame con le origini. Il neonato è considerato spesso dalle
famiglie affidatarie “lindo di storia e di legami”, quasi potesse non portare con sé una storia
e dei legami intergenerazionali, solo perché è stato allontanato precocemente dalla propria
famiglia di origine. Nella ricerca in corso sulla fratria dell’affido, si è osservato come i
fratelli congiunti tendano a schierarsi con la famigli affidataria, forse perché quando il
legame con il polo naturale è assicurato dalla presenza del fratello naturale ci si può
permettere di legarsi anche alla famiglia affidataria. Infatti chi è in affido con una modalità
disgiunta sembra manifestare più frequentemente il problema di “salvare” in qualche modo
il legame con la famiglia naturale: nel fratello i fratelli disgiunti tendono a mettere il fratello
vicino a sé, a voler rimarcare il legame con lui, mentre nei fratelli collocati congiuntamente
si evidenziano maggiormente sentimenti di competizione.

LA GENITORIALITA’ NELLE FAMIGLIE SEPARATE E NELLE FAMIGLIE RICOMPOSTE

Introduzione: continuità genitoriale e accesso alle origini

L’orientamento relazionale-simbolico ha proposto una concezione della genitorialità nelle


famiglie separate radicalmente innovativa e in contrasto con il pensiero psicologico
dominante. In ambito psicologico il riferimento scientifico nei casi di affidamento dei figli
era quello dell’individuazione del genitore psicologico, cioè del genitore che si dimostra in
grado di garantire al figlio una cura affidabile e il sentimento di continuità dei legami. Tale
visione deriva dal primato attribuito alle caratteristiche della personalità del genitore nel
determinare l’adeguatezza genitoriale e dal rilievo pressochè esclusivo della figura
materna nell’esercitare la funziona di accudimento. Prospettiva che ha trovato negli anni
successivi uno sviluppo ampio e generalizzato con l’affermarsi della teoria
dell’attaccamento, che identifica nel criterio di continuità della relazione con la figura di
cura primaria l’elemento che meglio consente al figlio di contrastare gli effetti di divisione
che la separazione comporta.. le ricerche condotte fin dai primo anni Ottanta, al contrario,
si sono fondate su un principio marcatamente familiare. In questa prospettiva la
genitorialità è concepita come una “funzione triangolare”, che si realizza non soltanto
nell’ambito diadico dello scambio tra ciascun genitore e figlio, ma nella interrelazione tra i
due genitori e il figlio, che, unitamente ai sistemi relazionali di origine, costituiscono
l’ambito simbolico e affettivo all’interno del quale il minore fonda e sviluppa la propria
identità. Si tratta di una reinterpretazione del criterio della “continuità” nel senso di
consentire e favorire l’accesso alle origini, in una logica generazionale, riferita cioè non
solo ai genitori, ma anche alle stirpi materna e paterna. Intuizione che, pur non
riscontrando ancora oggi una così diffusa applicazione nella ricerca psicologica e negli
interventi clinici, ha trovato invece un riscontro nello sviluppo della dottrina giuridica.
Infatti,, l’ultima riforma della legislazione sull’affidamento dei minori nei casi di separazione
e divorzio modifica il quadro concettuale di riferimento, introducendo quale forma ordinaria
di regolazione della genitorialità nei casi di separazione e divorzio la modalità
dell’affidamento condiviso dei figli.

DETERMNANTI ED ESITI DELLA GENITORILIATA’ NELLA SEPARAZIONE

Una rilettura trasversale delle ricerche condotte all’interno della prospettiva relazionale-
simbolica in questi decenni sulla genitorialità nelle famiglia divise mette in luce una
caratteristica costante: il tentativo di produrre una conoscenza che sia in grado di
confrontarsi con la letteratura specialistica sul tema, senza rinunciare alla specificità che la
prospettiva relazionale aggiunge. Dal punto di vista metodologico l’aspetto più originale è
senza dubbio il ricorso ad “impostazioni miste”, cioè all’utilizzo di apparati di indagine
multimetodologici, che prevedono una combinazione di strumenti e tecniche di analisi
quantitative e qualitative, e multidimensionali, che prevedono il contemporaneo ricorso a
diverse fonti informative ovvero la considerazione del punto di vista dei diversi soggetti. Si
tratta di procedure non semplici e assai dispendiose dal punto di vista operativo, e non
prive di problemi, soprattutto per quanto riguarda la “confrontabilità” tra dati di natura
diversa. Nella letteratura troviamo moltissima ricerca empirica dedicata agli effetti che il
divorzio può produrre sulle condizioni di benessere e sui processi evolutivi dei figli, con lo
scopo di verificare attraverso la comparazione tra le famiglie intere e famiglie divise quanto
la condizione di separazione dei genitori produca disagio o disadattamento dei figli. Il tema
è trattato attraverso dispositivi di indagine che prendono in considerazione dimensioni e
variabili relative al funzionamento socio cognitivo e comportamentale, oltre che alle
condizioni di benessere o di psicopatologia dei singoli componenti del nucleo familiare.
Nell’ottica relazionale-simbolica queste tema è stato affrontato superando il livello di
analisi individuale e cercando di valutare gli effetti che l’evento separativo produce sullo
sviluppo dei figli in un’ottica perlomeno sommativa, cioè tenendo conto
contemporaneamente delle posizioni di entrambi i genitori e delle loro reciproche
rappresentazioni. Ciò significa considerare in modo esplicito la connessione tra il piano
genitoriale e quello coniugale, superando l’idea che la potenziale problematicità che la
separazione dei genitori può indurre nello sviluppo dei figli sia unicamente riconducibile
alle forme e all’intensità del conflitto esistente tra i genitori e alle modalità con cui esso
viene o meno giustificato, quanto anche alla possibilità concreta per il figlio di continuare a
sperimentare un’appartenenza comune e integrata all’intero sistema familiare. Una
seconda accentuazione specifica delle ricerche condotte riguarda la considerazione degli
elementi simbolici e storico-generazionali che contraddistinguono il processo di
riorganizzazione delle relazioni familiari a seguito del divorzio. Si tratta di tenere conto
degli elementi latenti dei legami familiari che la transizione porta in primo piano. Da una
letteratura centrata esclusivamente sull’adattamento-disadattamento di fronte al divorzio e
che ha avuto come focus gli effetti a breve termine e l’arco temporale immediatamente
seguente la rottura, si è passati a prestare attenzione a ciò che avviene in età giovane
adulta e agli aspetti di coping non solo cognitivo-affettivi ma anche etici delle persone
coinvolte nella situazione di divorzio. Così alcune ricerche hanno preso in considerazione
il sentimento di ingiustizia che attraversa le relazioni familiari a seguito della frattura del
divorzio, mentre altre hanno cercato di considerare se e come figli adulti e genitori hanno
cercato negli anni il conforto e il chiarimento reciproco. I figli nelle famiglie divorziare
risultano più timorosi e incerti per quanto riguarda la percezione del futuro e in particolare
il matrimonio. Inoltre hanno valutazioni meno positive delle relazioni familiari rispetto alle
famiglie intatte: mentre buoni sono i livelli di comunicazione con la madre (anche se
inferiori a quelle delle famiglie intatte), decisamente più problematica risulta la relazione tra
figli e padre che è, nella maggioranza dei casi, il genitore non affidatario. Pur nel
denunciare le difficoltà dell’attuale situazione i giovani riconoscono di aver ricevuto
qualcosa di bene dalle loro famiglie. Il quadro prevalente vede campeggiare la madre sia
per i maschi che per le femmine: è lei in grado di fornire supporto e cura anche con
sacrificio, nonché di trasmettere valori etici e spirituali, che viene identificata come fonte
benefica. Il padre risulta assente o del tutto marginale ed è spesso escluso dalla
rappresentazione della vita familiare. In alcuni pochi casi, però, la fonte benefica viene
riconosciuta alla coppia genitoriale. In entrambe le situazioni comunque i figli si
rappresentano il confronto tra il loro passato familiare e il loro futuro nei termini di errore
(dei genitori) e volontà di riscatto da parte loro. Diverso è l’atteggiamento di maschi e
femmine di fronte alla “mancanza” paterna e all’”eccesso di presenza” materna. I maschi
sentono la mancanza del padre nei termini del genitore che stabilisce le regole e fa da
guida e prendono le distanze emotivamente dalla madre, mentre le femmine invece
avvertono soprattutto la mancanza del partner accanto alla madre. I maschi, nel
prefigurarsi la loro futura vita familiare, evidenziano una identificazione critica con il padre
e perciò temono di ripetere l’errore paterno. Le figlie femmine, invece, temono di non
trovare un partner affidabile o di non essere in gradi di legarlo a sé.

LA RICERCA CLINICA E L’INTERVENTO PSICOGIURIDICO

Lungo questi capisaldi concettuali si è sviluppato anche l’altro itinerario di ricerca,


realizzatosi all’interno del contesto psicogiuridico. Si è trattato di un’attività di ricerca svolta
all’interno di consulenze tecniche disposte dal tribunale o che, in ogni caso, hanno
coinvolto genitori che hanno usufruito di consulenze cliniche o di interventi di aiuto in
relazione a difficoltà anche gravi nel gestire la riorganizzazione familiare dopo la
separazione o il divorzio. L’universo di riferimento è costituito dalle istituzioni più
problematiche, incontrate per di più nella fase più acuta del conflitto. I primi risultati di
questo percorso di ricerca hanno permesso di riconoscere posizioni differenti quanto ai
significati che la separazione assume sul piano latente della vicenda relazionale. Da un
lato appare evidente il dolore che il divorzio può diffondere nelle persone e nei loro legami
e che è proprio come tentativo di difendersi da questo dolore che nella fase “acuta” della
transizione si determina l’escalation conflittuale, con la ben nota sequenza di attacchi
reciproci. Appare evidente il fatto che la difficoltà del passaggio può attivare reazioni
contrastanti, volte a cercare di non sciogliere mentalmente il legame, anche attraverso
l’incremento di sentimenti di odio verso di sé e verso l’altro e le reciproche famiglie di
origine. Allo stesso tempo è possibile distinguere l’ambivalenza con la quale le persone
cercano di trattare il dolore della separazione. Compaiono configurazioni relazionali
orientate a realizzare il “possesso esclusivo dei figli” e la “dannazione dell’altro”, la
rivendicazione e la fissazione sugli aspetti economico-patrimoniali. Questi primi risultati
hanno trovato un importante approfondimento e una sistematizzazione in un successivo
lavoro di ricerca caratterizzato dall’utilizzo di un complesso dispositivo multimetodologico
che prevedeva l’uso di interviste semistrutturate e tecniche innovative per l’osservazione e
l’analisi dell’interazione familiare. Si tratta di una ricerca nata allo scopo di comprendere i
movimenti e gli scopi anche inconsapevoli dei partner che, seppur divorziati, continuano
incessantemente a “occuparsi dell’altro”, sia ricercandolo senza tregua, sia volendo
attaccarne e persino distruggerne vita e patrimonio. L’esito più significativo di questo
lavoro p stato la messa a fuoco del costrutto di legame disperante. Ciò significa che i
partner implicati in situazioni di discordia non possono pensare alla fine del legame,
accettarla, tollerarla e rilanciare la fiducia e la speranza in sé e nell’altro. Così, mentre
sulla scena pubblica è avvenuto il divorzio e ognuno giura sulle sue (buone) intenzioni e
sull’interesse nei confronti dei figli, sulla scena del rapporto con l’altro accade che ci si
ribelli al dolore della fine. “Disperante” vuol dire che non si può smettere di sperare nel
legame. Il carattere disperante del legame rende impraticabile la transizione e assume due
forme differenti nei loto effetti. La prima forma è quella di non poter smettere di sperare
nell’altro, nel senso che l’altro avrebbe potuto cambiare in qualche suo atteggiamento e
potrebbe sempre farlo. Qui si rivela la presenza di una forma di dipendenza che però non
è attribuibile a uno solo dei partner, quanto alla natura del legame costituito. È difficile non
attribuire ai singoli partner ma al legame che essi hanno contratto determinate qualità. “La
parte di lui e la parte di lei” ovviamente esistono, così come le differenze personali, ma
esiste anche quel “terzo” che è rappresentato dal legame che si è venuto formando e
verso cui il destino di entrambi i partner hanno responsabilità. La seconda forma, più
subdola e pericolosa, è quella di dover salvare se stessi come fonte di legame. Nel senso
che per salvare se stessi si deve per forza annullare l’altro, annientarlo, farlo sparire. Qui
rileviamo la presenza della sfiducia profonda relativamente al valore che le persone
attribuiscono a se stesse di “fare e mantenere il legame”. Esse vi fanno fronte con difese
rigide e primitive. Di nuovo si potrebbe pensare che si tratti di un problema personale di
qualcuno dei partner se non fosse che anche questa è una risultanza del legame. Le
modalità di funzionamento relazionale e certe modalità di difesa dall’angoscia provengono
dai legami generazionali dei singoli partner. Non si tratta di ritenere che nella vicenda di
coppia si riproducano inevitabilmente e rispettivamente le esperienze relazionali del
passato, o che nei confronti del partner venga trasferito e replicato il pattern originario di
attaccamento. Va infatti tenuto conto che l’incontro con l’altro contiene sempre una
irriducibile differenza e l’imponderabile funzione svolta dal caso che può essere favorevole
o sfavorevole. La ricerca, pur avendo dedicato un’attenzione specifica alle vicissitudini del
legame di coppia, ha preso in esame anche l’ambito della genitorialità. Nel caso della
prima forma (non smettere di sperare nel legame) i figli vivono in uno “stato limbico”. Essi
vivono, cioè, in continua sospensione, proprio com’è il clima della relazione di coppia. Nel
secondo caso (dover difendere se stessi) i figli sono vissuti come fonte angosciosa di
possesso. Il figlio, infatti, in quanto generato, può sempre essere una “presenza aliena”,
cioè una presenza inquietante e pericolosa perché rimanda all’altro di cui ci si vuole
liberare per sempre. È il clima familiare entro cui i figli si situano e che viene a costituire
l’ambiente di crescita che è decisivo. Occorre però tener conto del fatto ch ei figli non
vivono un solo clima. Altri parenti, il gruppo dei pari e le amicizie, così come figure adulte
possono infatti essere fonti identificatorie benefiche. Queste acquisizioni della ricerca
hanno alimentato la messa a punto di specifiche metodiche di intervento clinico. Esse
sono andate via via definendosi in modo sistematico e differenziato, ma condividono alcuni
presupposti concettuali di fondo:

 Salvaguardare la continuità dei legami in senso generazionale


 Considerare che come insieme ci si lega, così insieme ci si separa; i partner
abbisognano dell’aiuto dell’altro per poter divorziare
 Considerare la genitorialità come un’occasione preziosa per riparare dolori e
rilanciare la fiducia-speranza nei legami; in tal senso legittimare l’altro come
genitore, al di là dei suoi limiti e dei suoi difetti
 Guardare ai figli non solo come soggetti alle storie familiari, ma anche come
membri attivi del sistema

LE FAMIGLIE RICOMPOSTE

La ricerca clinica sulla genitorialità nelle famiglie separate si è negli ultimi anni soffermata
anche su altri due aspetti: lo studio della relazione fraterna e l’analisi delle dinamiche
all’interno delle famiglie ricomposte o ricostituite. Nel primo caso si è trattato di un’indagine
attraverso un dispositivo multimetodologico. È stato possibile evidenziare la presenza di
effetti differenzianti nel divorzio, nel senso ch ei fratelli, tenendo anche conto della loro età
e del genere, provano sentimenti specifici e cercano vie d’uscita dal dolore specifiche. Se
dunque il clima familiare è comune, diverse sono le modalità dei figli di elaborare il lutto
per la perdita dell’unità genitoriale. I genitori possono attribuire ai fratelli una funzione di
sostegno e di riparo dal dolore del divorzio, oppure una funzione di competizione e di
attacco reciproco. I genitori possono commettere errori di attribuzione nei confronti dei figli
(per esempio ad uno di essi attribuire una maturità che non ha). Se i genitori sentono che i
figli hanno loro specificità e che ognuno è in grado di offrire qualcosa all’altro avremo un
fattore protettivo. Se invece essi parlano di una “guerra fratricida” avremo un fattore
deviante. L’esercizio della genitorialità all’interno delle famiglie ricomposte incontra alcuni
potenziali ostacoli relazionali. La letteratura sul tema si focalizza sulla dimensione
spaziale, dedicando particolare attenzione al tema dei “confini”. La variabile relativa ai
confini permette di sottolineare la necessità di una gestione flessibile dei rapporti,,
dovendo gestire il rapporto con i figli e con la parentela precedente e quello con i figli e
con la parentela attuale. La risultanza della ricerca ha in messo in luce la presenza di un
indicatore prognostico importante per la riuscita, o meno, del nuovo legame di coppia-
famiglia. Si tratta del rispetto della triangolarità dei legami. La presenza del “terzo
genitore”, cioè del nuovo partner del genitore, non va considerata come un’alternativa o
un’aggiunta alla precedente relazione ma piuttosto come la spia della riuscita o del
fallimento del passaggio che riguarda la famiglia ricomposta. Infatti, il “terzo”, l’altro
rispetto alla coppia genitoriale non si legittima da sé ma avrà sempre bisogno che gli altri
riconoscano spazio e funzioni. Sono frequenti sia il fantasma dell’abolizione di un genitore
(in genere il padre, che da parte sua può defilarsi dal legame genitoriale vivendo altre
relazioni di coppia) sia quello della sostituzione con il nuovo partner. Da qui discendono
alcuni specifici pericoli a cui sono esposte le famiglie ricomposte dal punto di vista
generazionale. Essi sono stati identificati con la chiusura e la sostituzione. Nel primo caso
infatti si concretizzano il fantasma del genitore unico e l’inclusione del figlio in un’’unica
stirpe, mentre l’altra viene ignorata. Nel secondo caso opera invece l’onnipotenza del
pensiero, vale a dire di poter sostituire, di fatto, un genitore con un altro (in genere il
padre). Il nuovo partner può avere uno “spazio genitoriale” solo se ci sono un padre e una
madre che garantiscono la gerarchia dei legami, ancor più che i confini. Per esempio può
essere un padre che non ha timori relativamente alla propria paternità e così può
consentire che il compagno dell’ex moglie eserciti anch’egli funzioni di guida-sostegno dei
figli. Ciò ovviamente non significa che il nuovo partner costituisca un elemento
problematico. Egli può esercitare funzioni genitoriali che possono compensare non poche
mancanze. Attraverso una ricerca è stata messa in luce una
dissonanza tra l’immagine che i figli hanno della famiglia ricomposta e l’immagine che ne
ha la nuova coppia genitoriale. Due terzi dei figli intervistati dichiarano nelle interviste di
accettare nella vita quotidiana il padre acquisito, di vedere in lui, se non un genitore,
almeno un importante punto di riferimento. Tali affermazioni si accompagnano però ad una
rappresentazione più problematica della propria appartenenza, poiché i ragazzi si
rappresentano graficamente come isolati, segnalando di non riuscire a sentirsi pienamente
appartenenti né ala nuova situazione, né alla famiglia del passato. Emerge qui il tema del
conflitto di lealtà, dovuto alla necessità si trovare un equilibrio tra figure che occupano un
posto diverso entro la geografia familiare. Da parte sua la nuova coppia genitoriale
favorisce una rappresentazione assai diversa della famiglia che infatti disegna un nucleo
familiare compatto, nel quale hanno un posto chiaro i figli acquisiti, e sembra certa della
nascita di una nuova famiglia. Ma, all’opposto dei figli, nell’intervista sottolinea maggiori
elementi di problematicità relativamente al ruolo del genitore biologico nella veste di
“supergenitore” e di quello del padre acquisito come di una figura intermedia tra il “genitore
vero” e il minore. Sono più a rischio le situazioni in cui i tre familiari (madre, padre
acquisito e figlio) parlino lingue diverse tra loro. Le difficoltà della nuova coppia di trovare il
proprio stile relazionale e genitoriale fanno diminuire lo spazio di ascolto del minore e delle
sue esigenze. Così il rischio che si corre in alcune famiglie ricomposte è che di fronte a
comportamenti sottilmente o manifestatamente provocatori del figlio acquisito, il nuovo
partner della madre arretri, lasciando solo il genitore biologico a svolgere un compito
educativo che può diventare sempre più difficile, in particolare se c’è incomprensione nella
coppia genitoriale originaria.

7 CAPITOLO
LA TRANSIZIONE ALL’ETA’ ADULTA

INTRODUZIONE

Tanner ha rinominato la fase del giovane-adulto come emerging adulthood, sostenendo


che questa nuova fase di vita sia distinta psicologicamente, soggettivamente e
demograficamente sia dall’adolescenza che la precede che dall’età adulta che la segue.
Alle teorizzazioni di Tanner di contrappongono coloro che ritengono che, per comprendere
le modificazioni dello sviluppo umano, sia necessario analizzare i meccanismi e i processi
che sottostanno ai cambiamenti sociali. Gli autori sostengono che gli individui e il loro
ambiente non sono due entità separate tra loro, ma formano insieme un sistema aperto
che si inserisce in un sistema più ampio, con il quale è in costante comunicazione. I
sistemi aperti che sperimentano i giovani, quelli in cui essi vivono (famiglia, contesto
lavorativo, ecc) scambiano energia e materia con altri sistemi: di conseguenza essi non
sono statici.
La lettura proposta dal modello relazionale-simbolico legge la giovinezza in termini di fase
di transizione all’età adulta considerando il gioco delle generazioni che a diverso titolo
sono implicate in tale passaggio. La transizione all’età adulta ha assunto caratteristiche
molto specifiche. È evidente oggi un’estensione del tempo della transizione e dei passaggi
che portano a costruire un’identità adulta, una famiglia, un proprio posto nel mondo del
lavoro e nella comunità sociale. È da questa estensione che trae origine la fase del
giovane-adulto. Tale punto di vista definisce la transizione all’età adulta come una doppia
transizione: la prima vede il passaggio dall’adolescenza alla fase del giovane-adulto; la
seconda vede il passaggio dal giovane-adulto all’età adulta. On si tratta di due transizioni
ben definite: la prima è una sorta di microtransizione preparatoria alla seconda che si
configura come una macrotransizione. Nella società italiana postmoderna, non è più
possibile leggere l’adolescenza e la giovinezza come fasi che portano all’età adulta grazie
a rassicuranti riti di passaggio, marcatori in cui convergono desiderata sociali per
attrezzare i giovani alla condizione adulta e che cercano di far acquisire a essi quelle
competenze necessarie per garantire alla società un suo sviluppo. La transizione è
divenuto più individuale e con ampi margini di scelta. Nel panorama italiano non mancano
lavori recenti che compiono due operazioni scientifiche e culturali di notevole interesse: in
primo luogo, la lettura in ottica intergenerazionale e, in secondo luogo, la collocazione nel
contesto attuale della giovinezza, cercando di comprendere il gioco che le generazioni
orchestrano in questa specifica epoca storica. Indagare questo oggetto psicosociale con
gli occhiali del modello relazionale-simbolico ha significato considerarlo in termini di
transizione e assumere un concetto forte di generazione. Ha voluto dire parlare di
transizione familiare all’età adulta che coinvolge diverse generazioni e generi in un
contesto storico-sociale-culturale specifico, quello degli ultimi vent’anni. Ne emerge una
lettura che nel tempo è stata definita “per genere e generazione” collocata nel contesto
comunitario e societario, ove per generazione di intende “quella relazione sociale che lega
coloro che hanno una stessa collocazione nella discendenza familiare”. La transizione
all’età adulta non può che riguardare genitori e figli, non può che divenire un compito
congiunto, facendo riferimento congiuntamente alle generazioni e ai generi, inseriti in una
comunità e in una particolare epoca storica. Il modello relazionale-simbolico parte dalla
lettura storica dei cambiamenti sociali. Quel che avviene nelle famiglie è al contempo frutto
di vicende intergenerazionali specifiche, con i proprio vincoli e le proprie opportunità, e
frutto di uno scambio tra le generazioni sociali e tutto ciò appare nella transizione all’età
adulta. Dinnanzi ad una transizione caratterizzata da imprevedibilità, le generazioni
familiari finiscono con l’aumentare la coesione interna, con il prolungare la vita comune a
l’attivare processi e movimenti “protettivi” nei confronti dei più giovani. Così, da un lato le
generazioni sociali adulte faticano a fare un passo indietro per lasciare posto alle nuove
generazioni, limitano a queste ultime le opportunità di assunzione ed esercizio di
responsabilità; dall’altro lato, le generazioni adulte in famiglia si ricompattano, fanno fronte
unico, riducono le distanze con le giovani generazioni, sostengono le aspirazioni dei
giovani, pensando così di poterli meglio attrezzare per affrontare le sfide. La lunga
transizione alla condizione adulta entro la famigli ad’origine è perciò esito di movimenti
congiunti di genitori e figli in famiglia, ma anche di giovani e adulti nel sociale. La
“costruzione sociale” della transizione all’età adulta, che dilata i tempi di passaggio, può
essere una risposta funzionale a una serie di problemi sociali, ma può rappresentare un
pericolo per il processo di distacco dei figli dai genitori se si trasforma in una condizione di
stallo intergenerazionale, in un protezione prolungata che perse il suo compito evolutivo.

LA SFIDA METODOLOGICA DEL MODELLO

Il modello relazionale-simbolico nel leggere la transizione all’età adulta ha portato a


effettuare scelte metodologiche precise relativamente al tipo di strumenti, alle persone da
coinvolgere nella ricerca, alle tecniche di analisi dei dati e alla lettura e interpretazione dei
risultati. È stato privilegiato unità di raccolta dati “gruppali” che hanno consentito di avere
più fonti informative relativamente ad ogni specifica relazione. Inoltre si è scelto di avere
unità di analisi dei dati composte da più generazioni in modo da rilevare la dimensione
intergenerazionale e in particolare gli aspetti di somiglianza e differenza fra le generazioni.
Sono stati utilizzati metodi qualitativi e quantitativi per operare una lettura dei processi
implicati nella transizione sia riferibili al “quanto” sia al “come”. Diverso anche il tipo di
strumenti utilizzati (self-report, test grafico-simbolici) per produrre dati che riferissero di
percezioni e vissuti individuali ma anche di percezioni e vissuti diadici e familiari. Per
studiare le relazioni familiari si è scelto di indagare costrutti diadici, quali per esempio la
comunicazione, il supporto, la promozione di autonomia, gli obblighi percepiti e familiari,
nei quali il riferimento è all’organizzazione famiglia nel suo complesso come la coesione,
la soddisfazione familiare. Si è poi studiata la connessione tra le relazioni familiari e alcuni
costrutti individuali, quali il rischio psicosociale e l’orientamento valoriale dei figli. Le scelte
inerenti il tipo di costrutti indagati e le unità di analisi considerate sollevano la questione
dell’interdipendenza dei dati familiari. Vi sono due tipi di interdipendenza riscontrabili nelle
ricerche: un’interdipendenza tra le persone (i punti di vista di madre, padre e figlio hanno
una matrice condivisa data dall’appartenenza ad una stessa storia familiare) e
un’interdipendenza fra le relazioni (come il giovane percepisce e valuta le relazione con la
madre è legato a come valuta e percepisce la relazione con suo padre ed è legato a come
valuta e percepisce la relazione con il suo partner).

I RISULTATI DELLE RICERCHE

Nel trattare il tema della famiglia del giovane-adutlo secondo il modello relazionale-
simbolico è stata approfondita l’analisi di alcuni processi e costrutti peculiari: la qualità
delle relazioni familiari, la trasmissione e la generatività familiare e sociale. I partecipanti
alla ricerche sono famiglie con almeno un figlio di età compresa fra i 15 e 30 ani.

RELAZIONI FAMILIARI E TRANSIZIONE ALL’ETA’ ADULTA

Leggere la transizione all’età adulta in ottica familiare significa mettere al centro


dell’attenzione i processi di regolazione delle distanze che tutti i membri della famiglia
mettono in atto per consentire l’acquisizione della piena identità adulta al giovane. Un
primo importante dato confermato in tutte le ricerche è la percezione positiva delle
relazioni familiari condivisa da genitori e figli. Tale lettura non è però esente da differenze
legate alla generazione di appartenenza e al genere. La percezione dei genitori in merito
alle relazioni con i figli è “più positiva” di quanto riportato da questi ultimi, a prescindere
dalla loro età e dal loro genere. I figli, invece, dal canto loro, sebbene condividano la
percezione di una relazione positiva con i genitori la valutano meglio quando sono nella
fase del giovane-adulto rispetto a quando vivono la fase di tardoadolescenza.
Tardoadolescenti e giovani-adulti riportano una migliore relazione con la madre
caratterizzata da una maggiore apertura comunicativa e più alti livelli di supporto rispetto
alla relazione con il padre. I maschi percepiscono una migliore comunicazione con il padre
rispetto alle femmine. L’impiego di punteggi diadici di accordo/disaccordo del figlio con la
propria madre e con il proprio padre ha consentito di rivelare che madri e figli mostrano un
accordo in merito alla comunicazione che rimane pressoché stabile nelle diverse fasi della
transizione all’adultità, mentre padri e figli mostrano un accordo meno stabile nel tempo.
La considerazione delle correlazioni tra le percezioni di figli e genitori, in merito a supporto
e comunicazione, evidenzia differenze legate al genere dei figli: mentre nei maschi non ci
sono correlazioni tra la percezione che ha il figlio e la percezione che hanno i genitori, e
l’unica correlazione significativa è rispetto a come il figlio percepisce la comunicazione con
i genitori, nelle femmine c’è correlazione tra la loro percezione e quella dei genitori mentre
non c’è correlazione tra la percezione della comunicazione con la madre e quella con il
padre. Si può ipotizzare che nelle famiglie con una figlia femmina vi sia una maggiore
reciprocità relazionale. Un fenomeno di particolare interesse messo in luce dai dati è la
differenza tra figura materna e paterna. In una ricerca che poneva a tema lo studio delle
relazioni familiari e lo sviluppo di rischio psicosociale da parte dei figli è emerso che,
sebbene la relazione con la madre risultasse essere caratterizzata da più alti livelli di
comunicazione e supporto rispetto a quella con il padre, essa non aveva legami con lo
sviluppo psicosociale del figlio, come invece accadeva per la relazione con il padre. A
fronte di una descrizione della relazione migliore con la madre, quella con il padre incide di
più, ha più impatto, in questo caso come fattore protettivo, rispetto a quello con la
genitrice. Inoltre la relazione con il padre contribuisce in modo significativo alla costruzione
di una positiva immagine di sé. In un lavoro è emerso che nelle famiglie soddisfatte i padri
risultavano esercitare in maniera chiara e promozionale della crescita dei figli il ruolo di
mediatori tra famiglia e contesto sociale, mentre nelle famiglie insoddisfatte i mediatori tra
famiglia e contesto sociale risultavano essere i pari. In un’altra ricerca pro sociale del
giovane, si è rilevato come questo fosse predetto proprio dal comportamento pro sociale
del padre e dal supporto paterno, e non da variabili materne. La madri influenza
maggiormente le progettazioni del futuro, nonché le scelte universitarie e lavorative dei
figli. Il porre a confronto generi e generazioni ha permesso di comprendere il differente
ruolo dei padri e delle madri. Innanzitutto, è emersa la posizione centrale della madre per
entrambe le generazioni:o oggi come in passato la madre è la figura principale di
riferimento alla quali i figli chiedono consiglio, aiuto e supporto. In particolare, l’asse
femminile madre-figlia risulta essere il più forte entro la famiglia e con indici più elevati di
accordo. Il padre è una fonte di informazione più attendibile per quanto concerne sia le
relazioni familiari sia le reali condizioni del figlio. Infatti è meno probabile che la madre noti
gli aspetti problematici della sua relazioni con il figlio o che ne percepisca i segnali di
stress. Le madri sembrano essere parzialmente cieche sulla condizione psicosociale dei
loro figli. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che esse sono troppo coinvolte nella
relazione, si identificano troppo con il loro figlio. Nello studio che ha posto a confronto
famiglie soddisfatte e insoddisfatte il padre è un importante punto di riferimento nella
pianificazione del futuro dei figli. Il ruolo paterno in questo primo decennio del XXI secolo
si caratterizzerebbe per una posizione angosciosa (pessimista,timorosa) relativamente al
“sociale”, mentre quello materno si caratterizzerebbe per una posizione di connessione
relativamente al rapporto interno ed esterno familiare.
Dopo aver studiato le variabili “affettive” del legame (comunicazione, supporto, coesione,
soddisfazione), negli ultimi anni si è incominciato ad indagare anche le variabili “etiche”. Si
è iniziato ad indagare i sentimenti connessi agli obblighi familiari, visti come esito del
processo di negoziazione delle norme familiari che organizzano e regolamentano la vita in
famiglia. Essi costituiscono il collante che collega le generazioni. Nella fase di transizioni
all’età adulta gli obblighi che assumono maggiore importanza risultano essere quelli
relativi al mantenimento del legame e all’offrire cura e sostegno ai propri genitori,
sottolineando come il passaggio all’età adulta comporti, per il giovane, l’iniziare a restituire
ai propri genitori quanto ricevuto in passato, prendendosi cura di loro, sostenendoli,
ascoltandoli. La lettura per generi e
generazioni dell’acquisizione di uno status identitario adulto e, quindi, di autonomia è stata
coniugata negli ultimi anni con diversi contesti culturali attraversati e vissuti dalle famiglie,
siano essi determinati dallo stile di vita familiare e dallo status di lavoratore o studente del
giovane e del luogo geografico di vita. I lavoratori, diplomati o laureati che siano,
sembrano più in grado di gestire uno spazio di autonomia rispetto alle relazioni familiari,
mentre gli studenti sembrano vivere un conflitto temporale, tipicamente familiare, tra attesa
a pausa. Se i lavorati sono alla ricerca di uno spazio affidabile (legami extrafamiliari da
vivere e in cui credere), gli studenti fanno copro unico con le speranze e i timori che il
gruppo familiare vive relativamente al futuro. Emerge anche una differenza tra famiglie con
giovani diplomati lavoratori e famiglie con giovani laureandi: nelle prime il centro dello
spazio di vita è occupato dalla famiglia, mentre nelle seconde il centro è occupato dai
singoli, o da eventi. Mentre le famiglie con lavoratori diplomati si rappresentano un futuro
costruttivo, quello con figli lavoratori laureati si raffigurano un futuro angoscioso. È dunque
proprio il passaggio a un altro stato che pare difficile. Sembra che il prolungamento
continuo del tempo degli studi e la mancanza di un progetto professionale, sostenuti da
concrete attività anche durante il percorso universitario, creino una scissione tra tempo
familiare e tempo sociale. Le differenze culturali nella costruzione dell’autonomia da parte
dei giovani e della promozione di autonomia da parte dei genitori divengono ancora più
evidenti se si considerano contesti geograficamente molto diversi. Mentre per i giovani
adulti italiani la maggior quantità di tempo libero trascorso con i genitori predice un miglior
funzionamento familiare e maggiore benessere, per i giovani adulti inglesi maggiori livelli
di benessere psicosociali sono associati alla maggior distanza dalla famiglia d’origine nel
tempo libero. Il processo di regolazione delle distanze fra genitori e figli avviene oggi
sempre più all’interno di un contesto di relazioni significative più ampio in cui è coinvolto il
giovane, quali le relazioni con gli amici e il partner sentimentale, che influenza il modo in
cui il giovane negozia le proprie relazioni cin i genitori. Particolare rilevanza acquista la
relazione sentimentale per il processo di regolazione delle distanze fra genitori e figli in
quanto permette al giovane-adulto di iniziare a pensare ad un futuro da adulto insieme a
un’altra persona con cui costruire una nuova famiglia. Occorre sottolineare come la
relazione genitori-figli e la relazione sentimentale siano profondamente interconnesse e
che, in questa fase, diventa difficile studiare la relazione genitori-figli non prendendo in
considerazione l’effetto che la relazione sentimentale ha su tal relazione. Hanno rilevato
come la percezione di sostegno emotivo nella relazione con il partner sentimentale
influenzi il sostegno emotivo percepito nella relazione con il padre mentre l’idealizzazione
della storia sentimentale incida sul grado di idealizzazione della realizzazione con la
madre. L’accettazione del partner da parte dei genitori influenza sia la qualità della
relazione genitori-figli sia la relazione sentimentale. Lo sviluppo di una relazione
sentimentale stabile e duratura è un segno di una buona differenziazione dalle figure
genitoriali. I giovani che hanno una relazione sentimentale stabile, rispetto ai coetanei
single, pensano in misura maggiore di lasciare la casa dei propri genitori e avere un figlio
nei successivi cinque anni.

TRANSIZIONE E TRASMISSIONE IN FAMIGLIA E NEL CONTESTO SOCIALE

Pensare per generazioni alla luce del modello relazionale-simbolico implica mettere a
fuoco i concetti di ambivalenza insita nei rapporti tra le generazioni e di responsabilità
sociale. Considerare l’ambivalenza presente nei rapporti tra le generazioni familiari e
sociali significa tener conto della categoria dell’imprevedibilità, generata dalla libertà di cui
dispone la singola persona. L’esercizio della libertà nelle relazioni tra i membri di diverse
generazioni può avere esiti imprevedibili. La libertà di cui ciascuno dispone non esime
però le generazioni precedenti dall’assumersi la responsabilità di promuovere ostacolare
la possibilità che la generazione successiva possa essere generativa o meno. Ci si chiede
se tra le generazioni ci sia continuità o meno, somiglianza o differenza e come ogni
generazione possa costruire un’identità generazionale che sappia coniugare innovazione
e conservazione, che sappia essere generativa partendo da un patrimonio valoriale e
simbolico ricevuto in dono dalla generazione precedente. A queste domande si è cercato
di rispondere con due filoni di ricerca: l’uno sullo pro socialità e l’impegno civico delle
giovani generazioni, e l’altro sulla somiglianza-differenza di valori tra le generazioni in
famiglia. Il primo filone di ricerca ha previsto l’impiego di strumenti qualitativi e quantitativi
al fine di misurare l’influenza del contesto familiare e delle relazioni in esso presenti
sull’impegno di giovani volontari. Da queste ricerche emerge l’esistenza di un tipo di
famiglia “prosociale”, ossia in grado non solo di trasmettere un bagaglio valoriale
improntato alla solidarietà, alla pro socialità, alla condivisione, ma anche di consentire alle
nuove generazioni uno spazio per poter dire di nuovo quanto ricevuto dalla generazione
precedente. Sono famiglie in cui i genitori sono generativi: mostrano di avere uno stile
educativo autorevole. Le ricerche condotte su questo tema mostrano la presenza di una
matrice familiare in cui padre e madre esercitano a titolo diverso un’influenza sui figli: i
padri offrono il “terreno” pro sociale e di impegno personale e la madre agisce poi sulla
scelta concreta dell’impegno nell’ambito del volontariato offrendo esempio, valori, modalità
relazionali con il mondo esterno improntate alla’apertura, alla condivisione, allo scambio
sociale. Dalle ricerche emerge la figura del padre come mediatore tra la famiglia e il
mondo sociale. I genitori delle famiglie prosociali si assumono il compito di
promuovere generatività e i valori a essa connessi, bilanciando aspetti di tradizione relativi
alla propria generazione e al proprio ruolo adulto genitoriale e aspetti di innovazione,
portati dalle nuove generazioni. Perché sia efficace questo passaggio di consegne da una
generazione all’altra è necessario che vengano riconosciute tutte e tre le componenti della
generatività: dare vita, curare e lasciare andare. Tale passaggio di consegne prevede
anche il passaggi odi valori. Nel processo di acquisizione dei valori da parte delle giovani
generazioni, la famiglia è ritenuta essere ancora oggi la principale fonte di socializzazione.
La trasmissione dei valori tra i genitori e i figli riguarda i patrimonio morale che i primi
consegnano ai secondi e ciò che questi ultimi ritengono meriti di essere accolto,
trasformato e che scelgono a loro volta di trasmettere. In letteratura i risultati di tale
processo sono stati spesso valutati in termini di similarità: proprio la rilevazione di questa
similarità o meno è al cuore di una ricerca sui valori nelle famiglie con adolescenti e
giovani adulti, fase in cui riuscire a differenziarsi, cioè a mantenere sia continuità che una
propria autonomia, costituisce il compito evolutivo cruciale che coinvolge l’intera famiglia.
Nella ricerca sono state considerate tre generazioni (figli adolescenti o giovani-adulti,
genitori e nonni) ponendo l’accento sulla loro diversa appartenenza generazionale ma
anche sottolineando il fatto che si tratta sì di generazioni diverse, ma tra loro legate da
vincoli di parentela. Trasmettere è far passare un oggetto, un pensiero, una storia, degli
effetti da una persona all’altra, da una generazione all’altra. I risultati consentono di
affermare che, al di là di alcune differenze, i figli riconoscono la presenza di un “nocciolo
valoriale”, condiviso con i genitori, ma anche con i nonni. Le femmine mostrano valori più
simili a quelli dei propri genitori rispetto ai coetanei di sesso maschile: le giovani sono più
accurate nel percepire i valori dei genitori. Si potrebbe ipotizzare che la sensibilità alle
relazioni, tipica del genere femminile, e il valore attribuito alle relazioni facilitino la
trasmissione e l’interiorizzazione. Inoltre, la similarità genitore-figlio adolescente è risultata
di minor entità rispetto a quella tra genitori e figli giovani-adulti. Questo risultato va a
sostegno dell’ipotesi di un progressivo avvicinamento, con la crescita dei figli, a quelli che
sono i valori dei genitori. L’assunzione di responsabilità adulte che comporta un impegno
sul piano personale, affettivo e sociale si accompagna a una maggiore vicinanza tra figli e
genitori in relazione alle rispettive priorità valoriali. Nel corso della transizione all’età adulta
genitori e figli tendono ad avere percezioni maggiormente condivise; migliorano la
comunicazione e il supporto, mentre si riducono gli aspetti conflittuali e di disaccordo. Ciò
che viene trasmesso può mutare forma in tempi di grandi cambiamenti, ma ciò che deve
sempre essere salvaguardato è il desiderio di essere generativi, ovvero a partire dal
riconoscimento di ciò che si è ricevuto, il desiderio di trasformare il patrimonio simbolico-
valoriale e di riconsegnarlo in avanti alla generazione successiva.

GENERATIVITA’

Nell’attuale clima culturale decisamente individualistico, il passaggio dalla generatività


parentale alla generatività sociale, compito della coppia genitoriale durante la transizione
all’età adulta dei figli, è particolarmente critico. Dalle ricerche emerge con chiarezza come
da una parte il figlio tenda a essere una forma di realizzazione dell’adulto, e dall’altra parte
il genitore tenda a rispecchiarsi in lui e a sostenerlo nei suoi bisogni realizzativi che sono a
un tempo importanti e significativi per il figlio e per il genitore. La generatività parentale
assume una configurazione sbilanciata: ha forti elementi protettivi e deboli elementi
emancipativi e di differenziazione. La società ci mostra una dinamica tra le generazioni
adulte e giovanili decisamente sfavorevole a queste ultime, una condizione questa che è
stata etichettata come “disequità generazionale”, una situazione di disequilibrio in merito
alla distribuzione delle risorse tra generazione che rende difficile i processi di
differenziazione e costruzione di identità adulta da parte delle giovani generazioni.
In una recente ricerca hanno letto la generatività come processo ed esito co-costruito
all’interno delle relazioni familiari, dai genitori e dal figlio giovane-adulto: per questo è stato
proposto il costrutto di clima generativo familiare. Sostenere questo non significa
dimenticare la dimensione personale della generatività, ma considerarla, oltre che da
questo punto di vista, anche come esito dello scambio tra generazioni che si verifica entro
una storia e un contesto relazionale. In altri termini, il concetto di clima familiare consente
di considerare la generatività non solo come caratteristica individuale ma come
caratteristica gruppale. È stato costruito un modello di clima familiare generativo che si
articola su tre livelli di generatività: individuale, familiare e relazionale. La componente
generativa si colloca a livello individuale, operazionalizzata come preoccupazione
generativa per gli altri, e anche a livello familiare, in cui la generatività si esplica attraverso
lo scambio fra le generazioni di ciò che è importante e attraverso la soddisfazione per la
propria famiglia. Infine, le componenti di care e letting go si collocano al livello relazionale
e sono state operazionalizzate come cura del legame tra genitori e figli e promozione
dell’autonomia della generazione giovane da parte dei genitori. I tre livelli nel loro insieme
forniscono il clima familiare generativo che consente ai figli di effettuare il passaggio all’età
adulta potendo contare sulla propria famiglia e ai genitori di non lasciarsi travolgere dalla
sensazione di nido vuoto e di fine che il passaggio all’età adulta dei figli potrebbe portare.

8 CAPITOLO
LA FAMIGLIA IN MIGRAZIONE
INTRODUZIONE

Occuparsi di famiglie migranti è particolarmente interessante per una serie di motivi. In


primo luogo perché la migrazione mette in risalto processi tipici del “famigliare”, e poi
perché l’incontro con persone e famiglie straniere rappresenta una sfida per il ricercatore e
la società nel suo complesso in quanto mette alla prova le rappresentazioni e le
concezioni di famiglia condivise nel nostro contesto culturale. Come è possibile fare
ricerca fare ricerca sul famigliare con persone migranti, quali modelli teorici e quali
dispositivi metodologici consentono di affrontare la tematica evitando bias eurocentrici che
rischiano di inficiare i risultati della ricerca? Si ritiene di poter considerare la famiglia
ancorata ad alcuni universali la cui declinazione specifica dipende poi da
geografie,contesti, persone, tempi ed eventi. Così, la funzione paterna di triangolare il
rapporto madere-bambino, al fine di recidere un rapporto potenzialmente simbolico e
inserire il giovane nato nell’ordine culturale e sociale cui appartiene, può essere svolta da
fratelli maggiori, zii si una delle stirpi, piuttosto che dagli spiriti o dalle anime dei morti.
Entrare in relazione con le famiglie immigrate vuol dire definire i confini della famiglia e
capire chi vi appartiene e chi no, non essendo scontati il numero e le persone che la
costituiscono.

LA LETTERATURA SCIENTIFICA E IL NOSTRO PUNTO DI VISTA

Se guardiamo al vasto corpus della letteratura scientifica in merito alla famiglia, notiamo
che essa ha focalizzato l’attenzione sulla variabile e la variabilità culturale sia per spiegare
l’adattamento culturale degli individui migranti, sia per comprendere le pratiche di cura fra
genitori e figli, ma anche per affrontare alcune questioni connesse al rapporto tra i coniugi.
L’aspetto culturale diviene dunque la principale chiave di lettura di molti aspetti connessi
alla migrazione. In realtà ciascuno di noi esperisce ed esprime un modo specifico di
intendere le relazioni familiari, le quali sono difficilmente assimilabili al modello culturale
ipostatizzato. Se ci addentriamo nell’ambito della ricerca sulla migrazione familiare
rinveniamo due importanti tradizioni di studio: la prospettiva intergenerazionale e quella
sulla relazione di coppia. Per quanto riguarda la ricerca intergenerazionale, che si rivolge
in particolar modo alla strategia di adattamento familiare, alle pratiche genitoriali e alla
trasmissione di valori tra le generazioni, la letteratura empirica si focalizza sullo studio
della relazione fra genitori e figli dopo la migrazione, tralasciando la generazione di nonni
e gli aspetti del contesto familiare allargato che sappiamo avere molta rilevanza
nell’educazione dei figli. Ruoli di genere e differenze di potere, strategie di coping e di
acculturazione, soddisfazione coniugale e comunicazione nella coppia sono i temi
maggiormente indagati dai ricercatori. L’obiettivo è quello di analizzare ed evidenziare in
che modo persone, coppie, famiglie che hanno in comune una o più esperienze migratorie
cercano di affrontare e dare senso a questo evento critico e quali ricadute ha comportato
nell’organizzazione della vita familiare. Il tema fondane delle transizioni, in quanto
accadimenti-passaggi che costringono alla riorganizzazione familiare e che quindi svelano
molto dei significati che sostanziano le relazioni familiari, è stato di conseguenza al centro
di ognuna delle ricerche condotte ed è stato sviluppato a partire dal racconto degli eventi
cruciali occorsi prima e dopo la migrazione. Capire come le persone hanno fronteggiato
questi momenti ha permesso di comprendere la portata valoriale e i problemi incontrati.
Particolare attenzione è stata dedicata ad analizzare le relazioni tra i componenti della
famiglia nei loro aspetti simbolici e fondativi, con un focus specifico sulle differenze tra
generi le generazioni nei differenti contesti di vita. L’esito generativo è stato messo a fuoco
e indagato relativamente alla coppia, ai figli e alla prefigurazione del loro futuro, ma anche
attraverso il confronto e lo scambio pensabile e attivo con l società di accoglienza e quella
delle origini. Una lettura del fenomeno migratorio coerente con il modello relazionale-
simbolico ha richiesto la messa a punto di specifici dispositivi di ricerca che hanno
consentito alle persone di raccontare di sé, della propria storia e delle proprie esperienze.
Ciò ha comportato la decisione di optare per l’utilizzo di strumenti di ricerca
prevalentemente di tipo qualitativo, particolarmente in grado di far emergere nella
narrazione condivisa e nella esecuzione di compiti specifici i significati che le persone
attribuiscono alla loro esperienza migratoria. La scelta di utilizzare differenti strumenti di
indagine (l’intervista clinica, le interviste semi-strutturate, i focus group, i compiti di tipo
grafico-simbolico, gli stimoli pittorici evocativi) ha consentito poi la produzione di
informazioni complementari,, nel tentativo di far fronte ai limiti intrinseci di ogni strumento e
con l’obiettivo di sollecitare differenti modalità di espressione personale (riflessioni-parola,
costruzione di significati, azione).

IL LEGAME FAMILIARE: PONTE TRA ORIGINI E NUOVA TERRA

Qui vengono presentate due ricerche che hanno messo a fuoco alcuni aspetti
fondamentali delle relazioni familiari, quello del rapporto tra generazioni e quello del
rapporto coniugale. Sono state intervistate donne di prima e di seconda generazioni
provenienti da paesi del mondo arabo (Egitto e Marocco) e dal Pakistan con un duplice
obiettivo: comprendere l’influenza esercitata dai legami intergenerazionali sulla
costruzione della loro identità e capire il ruolo esercitato dall’evento migratorio nelle
dinamiche familiari di queste donne. Sul piano metodologico il lavoro si è declinato lungo
due direttive: da un alto, consentire alle donne uno spazio di parola per riannodare i fili del
loro percorso migratorio e per condividere il valore attribuito ai propri legami familiari;
dall’altro, invitarle a un gesto-azione per fornire una rappresentazione simbolica del
proprio spazio di vita familiare. Alle ragazze più giovani è stato chiesto anche di portare
degli oggetti che le rappresentassero in quella fase della loro vita. Appare con forza che il
familiare è realmente il simbolico che unisce, e ciò diventa ancora più evidente di fronte
alla possibile disgregazione indotta dall’evento migratorio. Il legame familiare è e rimane la
sorgente primaria nella definizione di sé di entrambe le generazioni. La lontananza dalla
propria patria, le fatiche, i sacrifici non mettono in dubbio il fatto ch esista un ancoraggio
identitario alla propria realtà familiare che è fonte di consolazione per le prima generazioni
ed è fonte di ispirazione per le seconde generazioni. La migrazione fa risaltare il principio
delle relazioni familiari, in particolare il senso del dono/debito inerente lo scambio
familiare. Ogni donna intervistata sente di avere un debito da onorare nei confronti delle
generazioni che seguono o che precedono. In questa prospettiva, la migrazione viene letta
dalla generazione della madri come un dono fatto alle generazioni più giovani perché
possano riscattarsi a livello sociale. Le giovani adolescenti non a caso ribadiscono con
convinzione l’importanza di una riuscita scolastica e professionale che dia ragione e senso
ai sacrifici dei loro genitori. L’equilibrio tra dimensioni affettive ed etiche è sbilanciato sul
secondo versante. La famiglia è innanzitutto il luogo normativo delle tradizioni familiari e
religiose da preservare e da tramandare. La dimensione affettiva è presente, ,a viene
dopo. Il ruolo della donna prevede la sequela del coniuge e non pare che la forte
dipendenza nei confronti dell’universo maschile sia vissuta con particolari tensioni. Anche
le giovani generazioni, spesso attratte da modelli comportamentali e stili di vita diversi
dall’universo culturale dei genitori, si scoprono molto più tradizionaliste rispetto alle scelte
affettive e immaginano un futuro in larga misura determinato dalle scelte genitoriali, senza
che questa consapevolezza sembri mettere in difficoltà. Il legame familiari, anche nelle
culture più tradizionali, non è immutabile nelle sue forme e nei suoi significati. Insieme a
narrazioni che evidenziano situazioni di chiusura o di emarginazione che certamente
rimandano a difficoltà di comprensione e di condivisone dei propri e degli altrui codici
culturali, esistono situazioni in cui le donne sono in grado di trattare le differenze culturali e
negoziare, certe volte in modo sorprendente, il proprio universo valoriale con quello del
nuovo contesto per dare origine a forme di integrazione. Quello che viene espresso come
conquista sono l’accesso e la sperimentazione di una dimensione più affettiva del legame.
Questi mutamenti non avvengono però in maniera automatica. Sono processi di
trasformazione che appaiono destinati a realizzarsi su un arco temporale che si prospetta
lungo. La seconda
ricerca si è prefissata di indagare significati e modalità relazionali di coppie immigrate in
Italia dalle Filippine, dal Marocco e dal Pakistan. Obiettivo dello studio è evidenziare le
storie familiari e le esperienze di vita coniugale prima e dopo l’incontro con la cultura di
accoglienza. In particolare sono stati indagati spazi ed elementi disponibili per il
confronto/incontro con la società ospitante, così come gli aspetti che rendono difficile il
dialogo con la cultura occidentale a causa di differenze ritenute inconciliabili. La coppia
può essere considerata il mediatore generazionale e familiare per eccellenza. La coppia è
snodo generazionale in quanto generazione di mezzo che raccoglie, fa proprio a anche
rifiuta mandati e significati di una generazione che la precede, e allo stesso tempo essa
propone, tramanda, trasmette valori alla generazione che segue. In questa prospettiva è
interessante cogliere i ruoli, i compiti e le funzioni che i partner assumono. Dal punto di
vista metodologico è stato privilegiato il dialogo fra la coppia e il ricercatore. La coppia ha il
suo “proprium” in un insieme di aspetti che vanno al di là delle rappresentazioni
interiorizzate dei singoli partner, così come delle loro percezioni, dei loro affetti o valori.
Non a caso le prospettive psicologiche relazionali hanno ripetutamente teorizzato il valore
dell’incontro delle persone congiuntamente per poter cogliere gli aspetti fondativi e le
specificità della loro relazione. Gli strumenti impiegati esprimono la consapevolezza della
molteplicità degli aspetti che costituiscono la relazione familiare e della sua intrinseca
multidimensionalità. È stato utilizzato un adattamento dell’Intervista clinica generazionale
nel dialogo tra coppia e ricercatore in quanto strumento in grado di indagare le generatività
familiare dal punto di vista della coppia. L’intervista si compone di aree tematiche. La
prima area esplora il rapporto con le origini e in particolare come ciascun partner ha
vissuto nella propria famiglia; quali scambi generazionali ha sperimentato e come sono
stai interiorizzati; quali ricordi, quali regole, riti e ambienti ha esperito, anche relativamente
alla vita di coppia e di famiglia; cosa porta con sé, ma anche cosa lascia del bagaglio
valoriale e del modello di coppia ricevuti.
Il secondo asse si prefigge di indagare il rapporto di coppia e i fondamenti che lo
costituiscono: l’incontro e la scelta, gli aspetti che hanno consentito di costruire il legame,
la capacità trasformativa della relazione relativamente a situazioni/eventi nuovi (tra cui la
migrazione), e le differenze rispetto alle relazioni di coppia dei genitori e delle coppie
conosciute nel contesto di accoglienza. Vi è l’importanza di andare oltre gli aspetti
rappresentazionali in una ricerca sul famigliare, orientata ad un approccio relazionale, che
cerca di cogliere i significati e il senso che le persone attribuiscono ai legami. Tale
obiettivo è stato perseguito anche attraverso l’impiego di uno strumento grafico-simbolico
che elicita, oltre agli aspetti interattivi della coppia (chiamata a disegnare persone,
elementi ed eventi significativi della propria relazione), anche la tipologia, la quantità e la
qualità dei legami che costruiscono lo spazio abitato dai partner. Per tutte le coppie che
hanno partecipato alla ricerca l’organizzatore fondamentale del famigliare è il matrimonio:
non sono immaginabili la convivenza, né la frequentazione fra i sessi al di fuori di esso. I
genitori degli sposi così come alcune persone della famiglia allargata hanno un ruolo
particolarmente significativo rispetto alla scelta del coniuge. In Marocco ci si sposa perché
è “nell’ordine delle cose” e delle prescrizioni coraniche, atte a regolare i rapporti tra gli
uomini all’interno della società. Non si tratta dunque di un evento dai significati religiosi,
quanto piuttosto, di una norma sociale che è prescritta dai testi sacri musulmani. In
Pakistan i matrimoni assumono non solo il valore di contratto sociale, al fine di mantenere
e corrispondere ai bisogni della comunità, ma danno compimento anche alla storia di ogni
famiglia con un figlio maschio. La neo-sposa diventerà a tutti gli effetti un bene aggiunto
alla famiglia del marito che ne deciderà il ruolo e la funzione all’interno della casa. Nelle
Filippine, invece, il matrimonio è una scelta d’amore che si compie una volta per sempre.
Per le coppie filippine intervistate la separazione è inusuale, così come non è concepibile
un matrimonio senza figli. Meno visibile e per nulla citate dalle coppie intervistate sono le
dimensioni affettive del legame coniugale, connesse a sentimenti, desideri e alle volontà
dei coniugi, contrariamente al contesto occidentale che fa dell’affettività il fondamento
della relazione di coppia. Il legame con la generazione che precede è vivo e fondante la
vita coniugale, una vera e propria priorità per le coppie immigrate. La sua pregnanza è
visibile nell’evento del matrimonio, nella scelta della migrazione, nelle rimesse economiche
che garantiscono alla famiglia di origine una vita meno povera, così come nelle abitudini
che molte coppie raccontano relativamente al tempo trascorso nella terra di origine. Prima
della migrazione, infatti, la convivenza con i genitori (prevalentemente quelli del marito) è
un’esperienza molto diffusa e tutte le coppie intervistate raccontano della condivisione
della cura dei figli e del contributo di tutti al mantenimento economico della famiglia
allargata. La generazione che precede la coppia continua a guidare e orientare le scelte
dei figli anche dopo il matrimonio e, molto spesso, anche dopo la migrazione. Peraltro,
dalle interviste emergono anche i limiti e le fatiche di un rapporto caratterizzato da tale
dipendenza e sottomissione e in alcune occasioni la scelta di migrare rappresenta
l’occasione più opportuna per stabilire una certa distanza e indipendenza dalla famiglia di
origine. Per le coppie intervistate non è pensabile la scelta matrimoniale al di fuori del
progetto famigliare. Sposarsi significa fare famiglia e mettere al mondo figli. A essi è di
frequente connessa la scelta di stanziarsi stabilmente nel paese d’immigrazione che
assume la funzione di garantire ai figli prospettive di vita più vantaggiose. Eccezione fatta
per le coppie di origine pakistana, gli intervistati esternano la consapevolezza che inserire
un giovane figlio nel contesto italiano significa esporlo ad un’influenza significativa del
luogo di accoglienza, così come offrirgli un’appartenenza identitaria plurima e molto meno
radicata e univoca della propria. Tuttavia il richiamo del benessere è molto forte e gran
parte dei genitori immigrati si trova ad affrontare il compito di mediare tra i valori e le
generazioni dei genitori e i valori del contesto di accoglienza sperimentati dalla
generazione dei figli. Essere coppia nella migrazione rappresenta un insieme di attese
particolarmente difficili da realizzare e indubbiamente molto onerose. Tra le sfide più
rilevanti emergono: la solitudine per la lontananza della generazione precedente; la
responsabilità assoluta e totale dei figli, non più condivisibile con la parentela; la vicinanza
quotidiana ed esclusiva del proprio congiunto, molto spesso mai sperimentata prima della
migrazione. Dopo la migrazione la relazione coniugale si delinea come il legame principale
e fondante il famigliare, a fronte di un’esperienza nei paesi di origine in cui essa si
collocava come componente di una più vasta dimensione familiare allargata. La
migrazione consente peraltro esperienza sul versante della relazione coniugale: è il caso
di quelle coppie immigrate che scoprono e sperimentano nella relazione con il partner
aspetti affettivi, di reciprocità e intimità mai vissuti prima d’ora. Oppure, al contrario, ci si
trova di fronte ad esperienze di solitudine di paura, prevalentemente femminili, attribuibili
alla situazione di isolamento in cui tante mogli immigrate versano, in conseguenza di un
mandato familiare originario che fa della donna la matrona della casa e dell’uomo il
mediatore con il contesto sociale. Quest’ultimo aspetto rappresenta la fatica della coppia
immigrata nel rispondere ai cambiamenti richiesti dal contesto occidentale. Nella
migrazione, infatti, trasformare almeno in parte gli aspetti costitutivi della relazione
coniugale e poter “trasgredire” certe eredità (in questo caso i rigidi modelli di riferimento
della relazione di coppia) ricevute dalla generazione che precede possono essere
considerati risorse preziose e vitali sia per la coppia migrante, sia per gli esiti della
migrazione medesima.

10 CAPITOLO
PROMUOVERE GENERATIVITA’: INTERVENTI ED ENRICHMENT,
MEADIAZIONE E GRUPPI DI PAROLA

INTRODUZIONE

In ambito familiare gli interventi preventivi sono accomunati da un lavoro di potenziamento


delle abilità dei soggetti cui si rivolgono e si prefiggono come obiettivi la riduzione o il
contenimento del “danno” (la devianza, la patologia..) e/o lo sviluppo delle risorse .
quest’ultimo obiettivo è quello che negli ultimi decenni ha preso di gran lunga il
sopravvento a seguito del mutamento di prospettiva da un approccio centrato sul deficit ad
un approccio centrato sulle risorse. Enrichment familiare, mediazione familiare e gruppi di
parole per figli e genitori separati sono attività diverse tra di loro ma che hanno come
ambito di interesse i legami familiari concepiti all’interno del quadro di riferimento
relazionale-simbolico. Una delle sfide cruciali per chi si occupa della ricerca sulla famiglia
e con le famiglie è rappresentata dalla possibilità di trasferire il potenziale conoscitivo
prodotto dalla ricerca in stimoli per u’azione e viceversa saper cogliere dall’agire con le
famiglie stimoli per ricercare. Le vicende familiari sono fatte di accadimenti, incontri e
decisioni che è utopico riuscire del tutto ad anticipare. Ci si è mossi perciò in un’ottica
promozionale progettando interventi che aiutassero le famiglie a far emergere le loro
risorse generative, lavorandole.
I PERCORSI DI PROMOZIONE E ARRICCHIMENTO DEL LEGAME FAMILIARE

Il termine enrichment compare nella letteratura che si occupa di interventi per la famiglia
negli anni Settanta. Esso sta ad indicare qualcosa che si sviluppa, appunto rende più ricco
un patrimonio di risorse che la famiglia possiede. Gli interventi di enrichment mirano
appunto ad incrementare le risorse, manifeste o latenti, in modo che la famiglia possa
giocare “tutte le carte a disposizione”. L’obiettivo dei programmi di enrichment è quello di
far apprendere competenze e abilità peculiari alle coppie e/o ai componenti della famiglia,
per migliorarne/arricchirne il funzionamento e prevenire eventuali sviluppi problematici, tali
da compromettere la qualità e la stabilità delle relazioni. La proposta denominata Percorsi
di promozione e arricchimento dei legami familiari fa riferimento al modello relazionale-
simbolico. I Percorsi sono stati pensati come strumenti di accompagnamento alla famiglia
lungo le diverse transizioni del ciclo di vita, finalizzati a custodire e implementare quella
quota di generatività insita nei legami familiari stessi. Parlare di Percorsi consente di
mettere a tema la presenza di ostacoli da superare, o meglio di transizioni significative da
affrontare. L’aspetto peculiare dei temi affrontati dai Percorsi è la scelta di lavorare non
solo sulle competenze familiari ma anche sui “pilastri” su cui ruota la famiglia. Si parla di
“identità relazionali” con un’attenzione centrata più che sui comportamenti dei singoli
membri, sui legami reali e simbolici della rete relazionale. I legami familiari, i loro significati
e la loro interdipendenza sono al centro di questi interventi; in tal senso lavorare per
esempio con i genitori richiede di prestare attenzione anche alle loro relazioni, da quella di
coppi a quella intergenerazionale.

FINALITA’

I Percorsi, pur declinati di volta in volta in modo specifico a seconda della richiesta della
committenza, dei bisogni formativi dei genitori o delle coppie, sono ispirati a precisi
obiettivi ch orientano il lavoro formativo. La prima finalità dei Percorsi è quella di
promuovere la capacità riflessiva delle persone, perché queste diventino maggiormente
consapevoli dei “pilastri” sui quali le loro relazioni sono costruite, ovvero le dimensioni
etico-affettive, intergenerazionali e sociali. Una seconda finalità è rivolta ad incrementare
la capacità che le persone possiedono di utilizzare risorse e abilità per affrontare più
efficacemente la vita quotidiana, le transizioni familiari normative (la formazione della
coppia, la nascita dei figli, l’uscita di casa dei figli..) e gli eventi critici non normativi o
inattesi (una separazione, un’adozione, una malattia improvvisa..). queste due prime
finalità sono fortemente intrecciate: la consapevolezza che le persone hanno dei loro
ambiti relazionali e dei significati che questi veicolano ha strettamente a che fare con la
modalità che le persone adottano per gestire le loro relazioni, attraverso l’esercizio di
specifiche abilità (per esempio, come io comunico con il mio partner o con i miei figli ha
strettamente a che fare con la rappresentazione del mio rapporto coniugale o genitoriale).
Le domande che le coppie o i genitori portano al formatore, spesso centrate sulla esigenza
di riuscire a comunicare meglio o a far fronte ai conflitti, in realtà racchiudono un bisogno
latente e profondo di avere una legittimazione di sé come coniuge o come genitore (che
genitore sono? Sono un genitore bravo?). Una terza finalità degli incontri è quella di
promuovere la dimensione sociale della famiglia perché essa non imploda in un
atteggiamento autoreferenziale, ma possa utilizzare in un’ottica generativa il confronto e lo
scambio con un sociale organizzato. A questo scopo viene proposta alle famiglie
partecipanti ai Percorsi una modalità di lavoro di gruppo. Obiettivo principe sotteso ai
Percorsi è quello di “incrementare” il famigliare ovvero quelle qualità che permettono alle
famiglie di essere tali, ossia di prendersi cura e sviluppare il legame sia coniugale che
genitoriale: in una parola, capaci di essere generative.

METODOLOGIA DI INTERVENTO

Dal punto di vista del metodo si cerca una “terza via” rispetto ad un approccio di taglio
psicoeducativo, che trasmette una serie di regole che la famiglia deve in qualche modo
assumere e mettere in pratica nel proprio contesto, e a un approccio esclusivamente di
empowerment che mira a potenziare le risorse esistenti, rifacendosi spesso a una
prospettiva “debole” di famiglia, nella quale non vengono posti obiettivi. Il metodo dei
Percorsi mira a far emergere l’esperienza, i bisogni e le domande dei partecipanti
attraverso dei momenti esercitativi, al fine di poter riflettere sull’esperienza e connetterla a
un sapere teorico, in modo da stimolare le capacità riflessive dei partecipanti in un
processo di ri-significazione della realtà. Il lavoro gruppale, consente di realizzare
un’esperienza relazionale con le sue qualità etico-affettive grazie alla quale i partecipanti
possono sperimentare la generatività della relazione anche nel gruppo. Il gruppo, infatti,
facilita l’espressione e la riflessione su di sé. Grazie al lavoro gruppale si crea tra i
partecipanti un aspetto di comunanza e di condivisione di ansie, timori speranze che
facilita l’apertura di sé e la rielaborazione individuale. Il gruppo presenta anche altri aspetti
analoghi alla famiglia: la realtà gruppale può svolgere una funziona familiare creando per i
partecipanti un’esperienza di appartenenza e di contenimento, di accoglienza e di
riconoscimento del Sé, attraverso un lavoro orientato da obiettivi. Tale lavoro è
efficacemente accompagnato da due conduttori, esperti sia in dinamiche familiari che di
gruppo, che svolgono un’azione di catalizzatore del processo, riformulando, restituendo
significati, aprendo nuovi sguardi. Se i conduttori sono un uomo e una donna la relazione,
tra loro e con il gruppo, può evocare la funzione paterna e materna che anima la famiglia.
Il gruppo inoltre presenti fica il sociale; è proprio attraverso il lavoro gruppale che si può
sperimentare come ogni relazione sia necessitante di altre relazioni e come il confronto
sociale possa promuovere processi generativi e contrastare un pericoloso ripiegamento
verso atteggiamenti autoreferenziali. Per promuovere la riflessione e il confronto, durante
gli incontri vengono proposti e utilizzati diversi dispositivi formativi, quali filmati,
brainstorming, giochi di ruolo, strumenti grafico-simbolici. Un’altra scelta metodologica
riguarda la modalità semi-strutturata: pur tenendo fissi gli obiettivi, la scelta della modalità,
della sequenza e degli strumenti dipende dal gruppo, dal suo processo e dalla valutazione
che il formatore compie non solo all’inizio del Percorso ma anche in itinere. Dopo la
progettazione iniziale, il Percorso viene realizzato in 4-6 incontri della durata di 2-3 ore;
ogni incontro tratta specificatamente temi familiari ma anche aspetti del processo
formativo; con i partecipanti si mette a tema l’esperienza familiare ma anche l’esperienza
di gruppo, alla quale vengono rivolti specifici dispositivi formativi (per esempio, a fine
incontro si può suggerire ai partecipanti di rappresentare con un’immagine, che poi sarà
condivisa, il lavoro che si è realizzato in gruppo, così da risignificare quanto fatto insieme).
ESEMPI: “NEI PANNI DEL FIGLIO”, “LO STEMMA ATTRIBUITO”, “ROLE-PLAYING
SULLA COMUNICAZIONE”

Tre dispositivi formativi che offrono ai partecipanti la possibilità di risignificare e rielaborare


la propria esperienza familiare grazie alla connessione con la propria storia (familiare e
con le famiglie d’origine) e all’appartenenza al gruppo formativo, con i suoi aspetti sociali e
familiari. Preferiamo adottare l’espressione “dispositivi familiari” invece che “strumenti”
perché questi termini consentono di evocare meglio qualche cosa che viene preparato,
collocato a sostegno di processi di apprendimento e di rielaborazione e pensato secondo i
contesti formativi. È infatti n relazione al contesto da cui proviene la domanda, al tipo di
gruppo coinvolto che lo strumento prende valore e senso: gli strumenti non hanno valore
per sé. Un primo dispositivo formativo che consente ai genitori di conoscere e riconoscere
il proprio figlio e i suoi bisogni attraverso la ricostruzione della propria storia è quello che
viene chiamato Nei panni del figlio. Ai membri del gruppo viene chiesto di rispondere a
due domande: “quali sono i bisogni di mio figlio?” L’obiettivo del lavoro è duplice:
riconoscersi come persone bisognose e cogliere, attraverso uno sforzo empatico, i bisogni
dei propri figli. Questa esercitazione stimola le capacità riflessive dei partecipanti perché
questi, attraverso un lavoro di rilettura della propria storia personale, riescano a cogliere
con maggiore empatia i bisogni dei propri figli. L’esito delle risposte dei partecipanti è
raccolto e condiviso in gruppo in modo da facilitare il confronto sociale tra i genitori. In
genere, grazie a questa esercitazione, i formatori riescono a portare la riflessione sul fatto
che l’avere bisogni non è una qualità del mondo infantile, ma è una dimensione
antropologica che definisce l’umano; i partecipanti, tramite l’esercitazione, riescono a
cambiare la rappresentazione del bisogno: dalla rappresentazione del bisogno come
mancanza da saturare, che rimanda anche ad un’immagine di sé come genitore non
adeguato (“dire che mio figlio ha bisogno è come accusare qualcuno di non averlo dato”),
a quella che considera il bisogno come risorsa e occasione di crescita (“se noi non
avessimo avuto bisogno non saremmo qui a fare formazione”). L’esperienza fatta durante
l’esercitazione e l’elaborazione successiva guidata dai formatori consentono ai genitori di
cogliere anche una analogia tra la famiglia e il gruppo formativo: come l’esperienza
genitoriale non satura tutti i bisogni dei figli, così lì esperienza formativa lascia nei
partecipanti delle domande aperte e dei bisogni inappagati.
Un secondo dispositivo formativo che consente ai partecipanti, in questo caso coppie, di
sviluppare un’abilità riflessiva non solo sulla propria relazione ma anche sulle connessioni
tra questa e la relazione di coppia dei propri genitori è quella dello Stemma familiare
attribuito. A ciascun partner delle coppie presenti si chiede di disegnare uno “stemma
familiare” dividendo un foglio in 4 quadranti entro i quali indicare la più grande forza, la più
grande debolezza, il più grande desiderio e il motto dei “propri genitori come coppia”. Lo
stemma è “attribuito” perché le coppie attribuiscono ai loro genitori delle qualità relazionali.
In secondo luogo si chiede ai partner, congiuntamente, di disegnare un nuovo stemma
riferendosi questa volta alla propria coppia. La coppia è poi chiamata a confrontare e a
confrontarsi sui disegni fatti. Attraverso la realizzazione di questo semplice strumento
grafico-simbolico, i partecipanti possono non solo fare un’esperienza di coppia ma anche
rappresentare graficamente alcuni aspetti del loro legame. Tale lavoro acquisisce poi una
valenza sociale attraverso la sua presentazione e condivisione con il gruppo. Il confronto
nel gruppo facilita la possibilità per le coppie di sperimentare vicinanza e rassicurazione
con gli altri partecipanti, in quanto in genere molti disegni risultano simili.
Un terzo dispositivo formativo, il Role-playing sulla comunicazione, viene proposto ai
genitori , non solo per promuovere un’abilità riflessiva sul tema della comunicazione, ,a
anche per acquisire delle specifiche competenze comunicative. Ai partecipanti è chiesto di
condividere con il gruppo le situazioni in cui si comunica con i figli in modo sereno
indicando specificatamente dove si comunica, quando e di cosa. Il confronto di gruppo
sulle modalità comunicative sollecita i partecipanti a prestare attenzione alle proprie abilità
comunicative, dialogiche e di ascolto dell’altro. Essi riescono a constatare come in uno
scambio comunicativo non sia rilevante solo il contenuto ma anche la modalità con cui
questo contenuto viene trattato. Il gioco di ruolo, in cui tre persone sono chiamate a
inscenare una conversazione tra un padre, una madre e un figlio adolescente, mette
proprio a tema il come una comunicazione possa essere condotta in modo differente,
attraverso alcune specifiche tecniche comunicative. Il gioco di ruolo prevede la presenza
di osservatori che hanno il compito di evidenziare alcuni aspetti cruciali della
comunicazione: per esempio la postura e lo sguardo dei personaggi, le modalità
comunicative che aprono il dialogo (messaggi in seconda persona, domande chiuse..). al
termine del gioco si apre uno spazio di rielaborazione dell’esperienza, attraverso il quale il
gruppo rilegge la dinamica comunicativa evidenziando non solo i bisogni relazionali
sottostanti alle diverse forme comunicative, ma anche le conseguenze di alcune modalità
comunicative. I formatori, a conclusione dell’esercitazione, riportano l’esperienza fatta alle
teorie sulla comunicazione, dando al gruppo una spiegazione e degli stili comunicativi che
favoriscono o ostacolano la comunicazione.

LA MEDIAZIONE FAMILIARE

La mediazione familiare, ha costruito un importante ambito di applicazione empirica del


modello relazionale-simbolico. Essa è una pratica di aiuto nata allo scopo di facilitare la
riorganizzazione delle relazioni familiari nel caso di separazione e di divorzio con l’intento
di salvaguardare e promuovere la genitorialità. La mediazione familiare ha trovato negli
ultimi decenni una crescente diffusione quantitativa, in ragione dell’espansione delle
separazioni e dei divorzi e degli evidenti limiti della procedura giudiziaria nel garantire una
risoluzione costruttiva del conflitto separativo.

FINALITA’

La mediazione familiare può qualificarsi come una pratica clinico-sociale (non terapeutica),
orientata non solo ad offrire un aiuto per la risoluzione di conflitti, ma volta a trattare il
rischio evolutivo presente in ogni passaggio trasformativo dell’organizzazione familiare. Si
tratta di passaggi trasformativi che in alcuni casi possono rivelarsi estremamente difficili e
dolorosi e che richiedono un rimodellamento degli assetti relazionali. Dolore e difficoltà,
che non di rado si manifestano attraverso conflitti distruttivi, possono determinare una
grave lacerazione delle relazioni. Il lavoro mediativo non ha altra finalità che la ricerca
consapevole e responsabile di accordi: è nient’altro che un itinerario che procede dal
conflitto o dal disaccordo ad una soluzione condivisa. Non è la presenza/assenza del
conflitto ciò che distingue il funzionamento di una coppia o di una famiglia ben funzionante
da una coppia più problematica, ma piuttosto la modalità di gestione costruttiva o
distruttiva dello stesso. Il conflitto non è affatto considerato invariabilmente un indice di
disfunzionalità, quanto più un sintomo della difficoltà di procedere attraverso la
riorganizzazione delle relazioni che l’evento critico o evolutivo rende necessaria. È proprio
nella transizione separativa che si manifestano la valenza sintomatica del conflitto e il
carattere rischioso del passaggio, soprattutto laddove sono presenti dei figli. A differenza
di altri contesti, i legami familiari sono costitutivi dell’identità soggettiva e per questo non
contemplano la possibilità di fuoriuscirne volontaristicamente. In questo senso appare
chiaro perché il conflitto familiare, pur assumendo dal punto di vista fenomenico e
interattivo le medesime caratteristiche di tutti i conflitti interpersonali, non è a questi del
tutto assimilabile. In molti conflitti interpersonali, infatti, la soluzione del contenzioso può
essere facilitata proprio per il fatto che non vi è la necessità di proseguire il rapporto: la
soluzione del conflitto può coincidere cioè con la fine della relazione. Nei legami familiari,
al contrario, la soluzione del conflitto è necessaria per il proseguimento della relazione.
Possiamo dunque parlare di mediazione come aiuto di un terzo equidistante dalle parti al
quale ricorrere volontariamente nelle transizioni familiari difficili, ovvero in quei momenti
critici in cui la dimensione del conflitto esplode più drammaticamente con il rischio della
distruzione di un valore indispensabile per vivere: la fiducia e la speranza nei legami.
Questo modo di concepire la mediazione familiare come pratica utilizzabile per trattare i
conflitti in senso ampio non è ,molto diffuso, né da tutti condiviso. La diffusione in Italia
della mediazione ha visto maturare esperienza differenziate, ma riferite in modo quasi
esclusivo alla separazione e al divorzio. La riflessione teorica e metodologica ha dato
luogo a diversi modelli operativi che possono essere distribuiti lungo un continuum in cui a
un estremo troviamo le mediazioni “strutturate”, assimilabili a forme di negoziazione
facilitata con l’esclusivo obiettivo di sedare il conflitto e redigere accordi in sede
extragiudiziale, e all’altro estremo incontriamo le mediazioni “trasformative” o terapeutiche.
Nel primo caso si assegna alla mediazione la funzione di garantire una “buona
separazione”, nel tentativo di promuovere una sorta di riduzione del danno; nel secondo
caso si assegna alla mediazione una forte valenza terapeutica, assegnandole finalità
curative e aspettandosi dai genitori una trasformazione del funzionamento personale o di
coppia. Il modello relazionale-simbolico condivide i caratteri di fondo e comuni a ogni
approccio, quelli cioè ch identificano il profilo proprio e distintivo della mediazione, ma
presenta anche alcuni aspetti specifici. Tra questi vi sono:

 La focalizzazione sull’obiettivo di ricercare una soluzione negoziata del conflitto e


quindi la necessità che ci sia un compito decisionale possibile
 L’autonomia dal contesto giudiziario, la volontarietà dell’accesso e la riservatezza
del processo di lavoro
 La specificità del ruolo del mediatore, identificato in una posizione terza rispetto alle
parti in conflitto, a cui non compete nessuna responsabilità circa il merito delle
decisioni (che dovranno essere prese liberamente dalle parti), bensì il compito di
guidare il processo di lavoro
 Il carattere paritetico della relazione di lavoro tra il mediatore e le parti, pur nella
precisa distinzione di compiti e di responsabilità

I principali elementi specifici del modo di proporre la mediazione secondo il modello


relazionale-simbolico riguardano quattro aspetti:

1. L’utilizzabilità della pratica mediativa, non solo nelle situazioni di separazione e


divorzio, ma anche in riferimento ad altri conflitti familiari, a condizione però che tra
le parti vi sia una pariteticità di responsabilità decisionale
2. La possibilità di negoziare all’interno del percorso mediativo tutti i temi oggetto di
conflitto e suscettibili di una decisione autonoma delle parti: non solo la definizione
delle modalità di affido e di frequentazione con i figli o la distribuzione dei carichi di
cura, ma anche gli aspetti economici e patrimoniali
3. Il rilievo attribuito alle dimensioni relazionali
4. L’inclusione all’interno del percorso di mediazione di una fase preliminare finalizzata
alla “costruzione della mediabilità”, ovvero all’aiuto alla “presa di decisione”

METOFOLOGIA D’INTERVENTO

Uno degli aspetti cruciali rispetto ai quali si differenziano i diversi modelli di intervento è il
ruolo del mediatore, in quanto i compiti che lo contraddistinguono derivano direttamente
dai presupposti teorici e dagli obiettivi assegnati alla mediazione stessa. Nell’approccio
relazionale-simbolico il mediatore gioca un ruolo ispirato alla valorizzazione dei legami tra
le generazioni e tra le stirpi, e per questa ragione dedica tempo e spazio all’esplorazione
della natura dei legami tra genitori e figli,tra figli e nonni, tra stirpe materna e stirpe
paterna. Il percorso di mediazione si snoda attraverso fasi successive, ognuna
contraddistinta da specifici obiettivi e da tecniche e strumenti di lavoro differenti. La fase
iniziale del percorso mediativo, che precede la negoziazione vera e propria, risponde alla
necessità di costruire un progetto di lavoro condiviso. Questa prima tranche di lavoro non
costituisce semplicemente la fase preliminare del processo di negoziazione. Il suo scopo,
infatti, non è limitato alla verifica delle “condizioni di mediabilità” e alla
spiegazione/accettazione delle “regole di lavoro” e alla definizione dei temi rispetto ai quali
sviluppare le negoziazioni e prendere accordi. Essa consiste piuttosto in un lavoro
finalizzato ad aiutare i coniugi a discutere e riflettere sul senso della loro vicenda di coppia
e a confrontarsi con l conseguenze della separazione, sia sul piano personale, sia sul
piano dell’organizzazione della vita familiare. Le tecniche e gli strumenti utilizzati in questa
fase, assumono un carattere specifico nella misura in cui sono utilizzati in modo coerente
con il paradigma teorico adottato. Fanno ricorso al Genogramma familiare e all’Intervista
clonica generazionale: due modalità che strutturano l’interlocuzione, favoriscono
l’emersione di affetti e significati latenti, propri della dimensione relazionale e simbolica.
L’uso del genogramma risulta essere utile nell’aiutare i genitori a ricollocarsi nel proprio
scenario generazionale. Attraverso il disegno, si rende evidente che vi sono più
generazioni interessate e coinvolte nella transizione e nel conflitto separativo e che il
significato e gli effetti della separazione interessano l’intera organizzazione familiare. Nel
genogramma vengono portate sulla scena le due stirpi che hanno generato quel gruppo
familiare. Con l’aiuto di un terzo diventa possibile per i genitori riconoscere e valorizzare la
duplice matrice familiare e rende così possibile ripensare a ciò che ha fatto (e può fare)
problema, ma anche rintracciare nella rete generazionale risorse e supporti per sé e per i
figli. Questa modalità di procedere coinvolge i coniugi in una ri-narrazione della vicenda
familiare e di coppia che non è puramente descrittiva; essa, al contrario, li sollecita a un
coinvolgimento attivo e carico di affettività e li stimola a riappropriarsi del senso della
propria vicenda. In tal modo diventano visibili, al mediatore quanto ai coniugi stessi, la
necessità e la possibilità che qualcosa di tale legame sopravviva, o più precisamente, la
possibilità di ricostruire un nuovo patto come coppia genitoriale al di là della rottura della
relazione coniugale. La possibilità di procedere alla distinzione tra il legame coniugale (che
finisce) e quello genitoriale (che prosegue), e di procedere quindi a una negoziazione
costruttiva attorno alle modalità attraverso le quali esercitare la genitorialità, è complicata
concretamente e non può certo considerarsi garantita dalla dichiarata intenzionalità di
procedere in tal senso, ma richiede, di fatto, almeno una preliminare comprensione ed
elaborazione della fine del legame. Tale modalità di lavoro non ha alcuna intenzionalità né
finalità terapeutica ed è solitamente circoscritta a pochi incontri con la coppia. Il percorso
di premediazione si chiude con la definizione del “contratto di mediazione”. Questo viene
redatto a cura del mediatore, che ne offre alla firma una copia a ciascun genitore, dopo
aver discusso insieme l’ordine con il quale conviene affrontare ogni questione. La finalità
della redazione scritta in questo documento, e la richiesta di sottoscriverlo in modo
autografo, hanno una valenza simbolico-affettiva: “ritualizzano” l’ingaggio dei due genitori
nel lavoro comune di costruzione degli accordi, a conferma della loro intenzione e del loro
impegno a intraprendere il percorso di mediazione. Ciascuno dei temi individuati viene
affrontato secondo una sequenza quadripartita:

1. Definizione comune del problema


2. Esplorazione e identificazione degli interessi e dei bisogni a esso correlati
3. Ricerca e sviluppo delle possibili opzioni
4. Valutazione critica delle opzioni e decisione

Tale modo di procedere è comune a ogni modello di mediazione familiare. La differenza,


risiede nella possibilità di trattare solo questioni che riguardano l’affidamento, la
frequentazione e l’esercizio della genitorialità (mediazione parziale) o di includere, se i
genitori lo ritengono opportuno, anche le questioni economiche e patrimoniali (mediazione
globale). Si crede sia pertinente accompagnare i genitori nella negoziazione di questi due
aspetti per due ragioni. Anzitutto perché è evidente che i temi sono interrelati e che la
sostenibilità di un’opzione rispetto al collocamento dei figli va valutata anche nelle sue
implicazioni economiche e patrimoniali. In secondo luogo perché si crede che il conflitto
sia l’espressione della medesima difficoltà a transitare oltre la separazione. È poi evidente
che i beni materiali assumono spesso importanti significati simbolico-affettivi e che la
difficoltà a trovare accordi sul piano economico altro non è che l’espressione della difficoltà
ad accettare il cambiamento dell’assetto relazionale. Il ruolo del mediatore si esplicherà
nell’aiutare i genitori a comprendere e esplicitare il significato profondo dei beni materiali
contesi. La fase della negoziazione può considerarsi conclusa nel momento in cui, per
ciascuno dei temi indicati nel contratto o nell’agenda dei lavori, è stata individuata
un’opzione, ovvero un’ipotesi di accordo. Si può così procedere alla fase conclusiva,
dedicata alla redazione degli accordi, vale a dire alla stesura del “progetto d’intesa”: il
documento, che sottoscritto dai genitori, potrà essere utilizzato per predisporre il ricorso di
separazione da depositare in tribunale. Questa fase del lavoro è tutt’altro che una
semplice formalizzazione di quanto deciso precedentemente. Intanto perché occorre tener
conto che tutte le opzioni individuate durante la negoziazione devono essere riconsiderate
e valutate congiuntamente: gli accordi trovati sui vari elementi di discussione devono
trovare un equilibrio complessivo. La conclusione degli incontri di mediazione ripropone la
fine di un legame e pone i genitori di fronte al timore che l’”assenza del terzo” possa
rendere fragile o impraticabile la fiducia nell’altro. Per questo motivo si dedica l’ultimo
incontro a un’attività definita di “meditazione”, vale a dire a una riflessione che ripercorre il
cammino compiuto e aiuta i genitori ad individuare le ragioni e le loro personali risorse che
lo hanno reso possibile.
LA MEDIAZIONE INTERGENERAZIONALE

Si ritiene che la mediazione possa essere utilizzata non solo nelle situazioni di
separazione e divorzio, ma anche in riferimento ad altri contesti familiari. Tale posizione è
tutt’altro che condivisa all’interno della comunità professionale dei mediatori italiani. La
denominazione di mediazione intergenerazionale è poco utilizzata. Allo stesso tempo,
però, occorre prendere atto che sono sempre più frequenti e diffuse le sperimentazioni di
interventi tesi a rispondere a richieste di aiuto per risolvere conflitti familiari. Essa è
pensata e praticata come una variante della mediazione familiare o come una forma
particolare di mediazione sociale. Per parlare di mediazione intergenerazionale in modo
non equivoco è senza dubbio necessario provare a delineare la specificità, circoscriverne
il campo di applicazione e verificare se e a quali condizioni essa si possa considerare
come una forma di aiuto/intervento distinta da altre pratiche professionali. Operazione che
richiede siano soddisfatte due condizioni preliminari:

(1) Deve trattarsi non di una forma generica di aiuto, ma di una vera e propria
mediazione, vale a dire che
 Deve costituirsi una domanda esplicita e condivisa affinchè un terzo
sia chiamato a occuparsi della controversia
 Deve esserci un oggetto di lavoro circoscritto e definito
congiuntamente
 Deve avere come finalità il tentativo di prendere accordi
 Deve prevedere una posizione precisa del mediatore (che non valuta,
non tutela, non dà consigli, ma garantisce il setting e il processo di
negoziazione)
 Deve esserci, tra i vari soggetti coinvolti, una posizione di
potere/responsabilità sufficientemente equilibrata, per lo meno per
quanto riguarda il conflitto/compito decisionale oggetto di intervento
(2) Il conflitto/ compito decisionale deve coinvolgere almeno due diverse
generazioni
 Conflitti tra figli adulti (e/o tra figli adulti e genitori) per questioni
economico/patrimoniali (eredità e successioni, compartecipazione ad
“aziende familiari”)
 Conflitti tra figli adulti per la gestione della cura e della tutela di
genitori anziani o di fratelli minori (nei casi di interdizione e tutela
giudiziaria)
 Conflitti tra figli adulti e genitori per la regolazione della frequentazione
tra nonni e nipoti minorenni
 Conflitti tra stirpi, ovvero tra nonni materni e nonni paterni (per l’affido
di nipoti minorenni o per la frequentazione con gli stessi)

La mediazione familiare è la matrice storico-empirica da cui hanno preso corpo le


principali esperienze di mediazione intergenerazionale. È facile notare come vi sia una
somiglianza tra queste due forme di mediazione, soprattutto per quanto riguarda gli
elementi fondamentali (finalità e funzione del mediatore); come in ogni mediazione di tratta
di cercare una soluzione ad un conflitto e di un processo di presa di decisione che, se non
risolto consensualmente e direttamente dalle parti, è suscettibile di una decisione
dell’autorità giudiziaria. Le differenze riguardano principalmente la natura e gli oggetti del
conflitto, la tipologia dei soggetti coinvolti e la caratteristica dell’evento critico/transizione.
Si tratta, al momento, di una modalità di intervento ancora assai poco diffusa, ma che negli
ultimi anni ha cominciato in alcune realtà ad essere proposta in modo estensivo,
soprattutto come percorso alternativo nella gestione di conflitti tra figli adulti chiamati a
prendersi cura di genitori anziani non più autosufficienti. Questo tipo di intervento, dalla
struttura flessibile e di breve durata, è offerto nei casi di anziani che litigano con i familiari,
il tutore, gli assistenti domiciliari, o in situazioni di litigi nelle imprese familiari. L’ipotesi di
intervenire in questi contesti nasce dall0evidente bisogno dei familiari di fronteggiare
episodi di aggressività, abbandono, assenza di gratitudine, fino all’impossibilità di
salvaguardare le lealtà intergenerazionale. Anche in queste situazioni che generano un
malessere diffuso vi è non solo la problematicità propria del conflitto, ma la necessità di
ricostruire il senso di giustizia e di fiducia/speranza nello scambio tra le generazioni, quale
condizione per poter agire la cura e la riconoscenza nei confronti dell’altro.

I GRUPPI DI PAROLA PER FIGLI DI GENITORI SEPARATI

I gruppi di parola sono una proposta nata per rispondere all’esigenza di supportare i figli di
famiglie che attraversano il dramma della frattura coniugale e sono perciò anche un aiuto
indiretto alla coppia genitoriale stessa. Essi sono un aiuto del sociale alla famiglia esposta
ad una transizione difficile, per prevenire difficoltà nello sviluppo delle nuove generazioni.

FINALITA’

L’obiettivo dichiarato è quello di facilitare l’adattamento del bambino alla nuova situazione
familiare. Ma non si può normalizzare un evento di tal fatta, che per il bambino
rappresenta una minaccia alla propria identità (se sono il frutto di un’unione cosa sono io
se questa unione non c’è più?), se non si passa, accompagnati, attraverso questa
domanda, alle emozioni che suscita, ai pensieri che evoca. La finalità di questi percorsi è
tesa non tanto e non solo a sedare ma piuttosto a contrastare attivamente i possibili esiti
degenerativi del divorzio per mettere in campo risorse di fiducia, speranza e di
salvaguardia di giustizia per il futuro del legame tra genitori e figli che è per sua natura
indissolubile. Lo strumento principe è la Parola: essa viene fatta emergere attraverso la
messa in atto di un dispositivo (il gruppo) centrato sulla cura che proviene dai legami e su
strumenti e gesti che ne sappiano esprimere la portata simbolica. Di volta in volta il
conduttore introduce alcuni temi su cui lavorare utilizzando diversi strumenti e diverse
attività (drammatizzazione, disegno libero, collage, scenette..) che si prestano ad essere
commentati. Può essere la proposta di commentare una storia che tratta la vita di un
bambino che vive in due case, oppure quella di portare da casa qualcosa di significativo
da mostrare agli altri bambini, o il “gioco dei fili” in cui i bambini sperimentano dal vivo
come il filo tra papà e mamma può rompersi ma restano nelle loro mani i fili che li
uniscono ai genitori. In tutte le occasioni che lo consentono viene dato spazio alla
presenza dei nonni di entrambe le famiglie in modo da evitare il pericolo di endogamia
legato al fatto che una delle due figure (più spesso il padre e la sua stirpe) venga eliminata
e di consentire così al bambino di accedere alle sue due genealogie e di figurarsi un suo
posto come continuatore di entrambe.

METODOLOGIA DI INTERVENTO

Ai genitori viene proposta l’iniziativa del gruppo di parola come sostegno per i bambini o
ragazzi che vivono l’esperienza della separazione dei genitori, come aiuto a esprimere i
loro sentimenti attraverso la parola, il disegno, i giochi di ruolo, come luogo in cui porre
delle domande, avere delle informazioni e trovare una rete di scambio e di sostegno. I
genitori vengono invitati a un breve colloquio informativo che ha il significato di rinforzare
l’alleanza tra di loro e rimarcare che il professionista si inserisce in un legame
preesistente. Essi firmano il consenso autorizzando il bambino ad accedere a un luogo
dove poter parlare sia di mamma che di papà, sia dell’una sia dell’altra famiglia d’origine.
L’iniziativa consiste in 4 incontri di due ore settimanali con gruppi di 6-8 bambini. L’età
diversa dei bambini e le varie fasi della separazione che stanno vivendo (un genitore è
appena uscito di casa, un altro vive con un altro partner, il giudice ha emesso la
sentenza..) consentono loro di esprimere quel che pensano di casi simili ai loro ma non
accaduti o non ancora accaduti e danno al conduttore l’occasione di riconfigurare il loro
ruolo di figli, che non sono arbitri della contesa, e di riconoscere quello che è nelle loro
possibilità e ciò che compete ai grandi. Il lavoro di gruppo ha come esito finale la
redazione comune di un messaggio scritto che viene letto ai genitori. L’ora finale del
gruppo vede la presenza dei padri e delle madri ai quali i bambini leggono una lettera da
loro redatta e che raccoglie in forma anonima i loro desideri.

È stata effettuata un’analisi del contenuto di queste lettere: in esse si evidenzia la


conferma chiara e aperta del bene ch ei figli vogliono ai genitori, che sono quasi sempre
evocati al plurale, come coppia genitoriale. L’espressione del profondo legame che li lega
ai genitori è a volte accompagnata da una fantasia di riconciliazione e molto più spesso
accompagnata da sentimenti di tristezza, rabbia e paura (paura di parlare, dei litigi, di un
nuovo compagno). Emerge anche con insistenza il bisogno di essere informati e di sapere
quello che li spetta e qual è il loro posto nella nuova geografia familiare. A questa lettera i
genitori rispondono con un messaggio anonimo individuale in cui affermano con forza di
voler loro bene, li rassicurano sul loro futuro, dichiarano di essere consapevoli del disagio
provocato loro, a volte chiedono scusa, riconoscono i loro errori e si assumono
pubblicamente le loro responsabilità e, in alcuni casi, riconoscono esplicitamente il valore
dell’altro genitore. Nella maggior parte dei casi i genitori rispondono usando la forma
lessicale del “noi” e ciò offre al gruppo dei figli la possibilità di fare riferimento a una coppia
genitoriale.
Il gruppo è l’elemento centrale in questa metodologia di intervento. Il vantaggio del lavoro
di gruppo e della lettera in gruppo consiste nel fatto che i figli dei genitori separati non
sono “costetti” a un’osservazione introspettiva, ma, all’interno di uno spazio
intersoggettivo, un contenitore “familiare”, possono parlare delle emozioni, delle paure, dei
conflitti in modo meno pericoloso del rapporto diretto uno a uno e al tempo stesso possono
osservare e comunicare con coetanei, fratelli di condizione. Spesso si tratta di figli unici e
la dimensione fraterna è a loro sconosciuta. Ciascun bambino, nel gruppo, dice del suo
ma al contempo lo dice a nome di tutti. Nel gruppo il bambino può sostare in un’area
creativa dove si può fare memoria del passato e prefigurare il futuro. Per quanto riguarda
la conduzione, questa viene svolta quasi sempre da due formatori, possibilmente di sesso
diverso (una presentificazione della coppia genitoriale). La copresenza è assai opportuna
in quanto facilita la gestione del processo e permette una cura particolare delle necessità
dei singoli bambini. Può capitare infatti che uno dei due offra un contatto fisico o si
soffermi a conversare con un bambino particolarmente agitato per la nominazione di
qualche evento per lui assai doloroso, mentre l’altro porta avanti una proposta operativa
per il gruppo. Questa iniziativa risulta avere una grande efficacia testimoniata dal
commento unanimemente positivo dei genitori che, al termine del corso, partecipano in
coppia a un colloquio con i conduttori. È stato introdotto un dispositivo di ricerca che
prevede, oltre a un questionario somministrato ai genitori e al figlio, anche alcuni strumenti
per osservare le modificazioni avvenute prima e dopo l’intervento. I riscontri finora ottenuti
ci dicono della positività di un intervento che mette al centro la cura del legame familiare a
partire dalla domanda del figlio e dalla sua sofferenza.

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