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- CONSERVAZIONE= curare la materia di cui sono fatti gli edifici. Non significa riportare all’aspetto originale
l’edificio e nemmeno conservare l’immagine originale dell’edificio.
Progettando ci si rende conto che l’edificio deve essere preservato per garantire una conoscenza anche a chi
viene dopo
- RESTAURO = operazione attua a valorizzare e consentire il riuso
Conservare è diverso da restaurare.
CONSERVARE RESTAURARE
(SLIDE 2 )
Abbiamo una rappresentazione grafica dell’evoluzione del
cantiere. In alto a destro quello edilizio tradizionale,
rappresentato negli affreschi, e quello a sinistra attuale. Il
prodotto che ne deriva ha caratteristiche diverse.
A noi tecnici sta il compito di riconoscere le differenze e
adeguare il tipo di intervento da attuare, senza giudizi di
valore. L’estetica è un fattore individuale, non un
parametro di giudizio, ma soggettiva.
(SLIDE 3)
Osserviamo in questa slide le diverse scale di intervento. In
alto a sinistra un centro storico (Massa Marittima) in
cui vediamo l’edificio medievale, probabilmente rifatto
nell’800, l’edificio più tardo al centro, e a destra un
edificio ristrutturato probabilmente nell’800.
Vediamo anche edifici rurali, per esempio a Gorgonzola
lungo il Naviglio della Martesana. Gli edifici rurali sono
anche esse l’espressione di un sistema/stile di vita
produttiva, sociale ed economica di una certa epoca che si
esprimeva attraverso una certa architettura. Sono edifici
rurali ammessi alla principale Villa da cui si governava e
amministrava questi territori agricoli. Fanno parte del
sistema delle cascine della pianura lombarda.
In basso a sinistra vi sono abitazioni/edifici in via San
Gottardo (strade di epoca fine 800 inizi 900). Non si tratta
di monumenti ma sono testimonianza del tessuto urbano storico, testimonianza del modo di vivere.
In basso a destra, si parla di archeologia industriale, ossia tutti quegli edifici, Che sono stati costruiti per attività
produttive che poi sono cambiate o sono cessate e quindi hanno fatto di smettere questi edifici che non erano
più adegua che oggi sono oggetto di studio di interesse e di intervento nell’ambito dell’archeologia industriale
perché rappresentano una stagione della vita sociale, economica, della società, della produzione che è cambiata
nel giro di un secolo.
La materia costruita porta in sé il valore testimoniale della civiltà che l’ha prodotta.
(SLIDE 4)
L’attenzione si focalizza anche sui tracciati viari storici che
attraversano territori diversi (es: Cammino di
Santiago). Percorsi attraverso i quali le notizie si
diffondevano, perché il viandante incontrava nel suo
cammino
persone oppure scambiava merci e quindi sono veicoli sia
con aspetto religioso ma anche commerciale.
Oppure ci si interessa delle case contadine con fienile nelle
zone di montagna e dei fontanili (es: Fontanile
Quattroponti, Liscate, Milano). Essi sono una testimonianza
significante dell’agricoltura lombarda.
(SLIDE 5-6-7)
Un esempio di progetti in cui è presente un riuso
consapevole è CASTEL FIRMIANO (Bolzano) di Werner
Tscholl. Si tratta di un di-uso consapevole. Si parte da opere
importanti, con un passato che viene valorizzato e integrato
con nuove parti, aggiungendo un valore e conservandone
altri.
Ora si tratta di un museo della montagna. Le nuove parti
vengono messe a confronto/in contrasto con la pre-esistenza
storica. Si conserva la materia della massa pre-esistente.
Le nuove parti integranti, ad esempio i camminamenti,
vengono realizzati con materiali diversi da quelli originali
(acciaio, ferro…). Le scale interne non
sovrappongono/sostituiscono quelle originali, le quali
vengono mantenute. Esse vengono però realizzate anche con
materiali diversi per rendere riconoscibile il progetto
contemporaneo.
I piani intermedi e i collegamenti verticali sono strutture poste in “aggiunta”, dove sono necessari per l’uso musicale,
non “in sovrapposizione” alla costruzione preesistente, in modo da non cancellare parti originarie, ma da rendersi
riconoscibili come progetto contemporaneo. Anche i tipi di materiali, per il costo, le tecniche, ecc.. segnavano l’epoca
in cui veniva utilizzato e realizzato un determinato elemento.
(SLIDE 8)
NIMES, “ANTICO” E “NUOVO”, LA MAISON CARRES E IL CARRE’ D’ART (1993), Biblioteca mediatica di N. Foster
In questa slide è importante il confronto tra la BIBLIOTECA DI N. FOSTER e la MAISON CARRÉS.
Il tempio romano, ora chiamato Maison Carres, venne costruito tra il 19 e il 16 a.c da Marco Vipsanio Agrippa e venne
dedicato ai figli dello stesso Agrippa e Giulia, figlia di Augusto, chiamati Gaio e Lucio Cesare, adottati dal nonno come
propri eredi e che morirono entrambi in giovane età. Il testo dell’iscrizione di dedica venne ricostruito dallo studioso
locale Jean-Francois Séguier nel 1758 sulla base dei fori lasciati dalle originarie lettere in bronzo asportate in epoca.
Il tempio si trova nel centro storico, e quando si è deciso di realizzare la biblioteca, esso è stato uno spunto
importante. L’architettura antica come storia di un modo di costruire e vivere. Quando si deve fare un intervento su
un edificio, bisogna ricostruire la storia del cantiere, per esempio come sono stati modificati i muri, le coperture,
come sono stati realizzati i volumi, ecc… Si tratta di un percorso di ricerca.
LA RICERCA STORICA PER IL PROGETTO DI CONSERVAZIONE
Essa utilizza due tipi principali di fonti:
- FONTI DI PRIMA MANO; sono quelle da cui si parte e si trovano negli archivi. E’ il documento del progetto.
Sono le testimonianze dirette, contemporanee al fatto che si vuole conoscere.
- FONTI DI SECONDA MANO; lettura, interpretazione e ricostruzione fatta da uno storico. Sono manoscritti e
sono stampati e presenti in più copie. Esse sono il frutto dell’interpretazione di un solo storico. Variano i
contenuti e gli aspetti su cui ci si concentra.
Per fare una ricerca storica su un edificio bisogna iniziare a documentarsi:
- Sullo “stato dell’arte”, cioè su tutte le possibili elaborazioni critiche già esistite, cioè individuare e analizzare le
fonti di seconda mano
- Si deve costruire e analizzare la BIBLIOGRAFIA (ovvero l’elenco di tutto ciò che è stato scritto e stampato)
FONTI DI PRIMA MANO
Le testimonianze documentarie possono essere:
- SCRITTE; documenti, manoscritti, quali la corrispondenza, le memorie, i diari, i documenti ufficiali
(amministrativi e di rapporto con enti pubblici, privati, ecc..)
- GRAFICHE; i disegni, i progetti, gli studi…
- FOTOGRAFICHE E VIDEO
Esse si trovano:
- Negli archivi di stato (per la cartografia del territorio preunitario e, soprattutto per i catasti, anche
postunitari)
- Negli archivi storici-civici (per la documentazione a carico della municipalità: piani regolatori e permessi di
costruire, l’assetto generale della città e i singoli interventi edilizi)
- Negli archivi privati
- Nelle biblioteche con fondi storici di materiali originali
FONDI DI SECONDA MANO
La bibliografia su un argomento è l’insieme dei materiali a stampa riguardanti testi scritti su quello stesso argomento.
Può essere formata da monografie, saggi in pubblicazione con più autori, articoli su riviste, articoli di giornale.
Può essere redatta in ordine cronologico (preferibilmente) o alfabetico . Gli eventuali testi senza autore (si scrive s.a.)
vanno messi all’inizio dell’ordine alfabetico.
Sono fonti di seconda mano le versioni di un fatto elaborate e prodotte successivamente al fatto stesso. Ad esse
appartengono libri, articoli di riviste, opuscoli, cioè in generale tutto il materiale a stampa.
Le fonti di seconda mano si trovano generalmente nelle biblioteche. Trattandosi di materiale a stampa, esistono più
copie, in biblioteche diverse.
23/09 – LEZIONE 02
https://politecnicomilano.webex.com/politecnicomilano/ldr.php?RCID=3fade011e6d78f85a754cd296a
807031
https://politecnicomilano.webex.com/politecnicomilano/ldr.php?RCID=932c99eaadf25b3f8891961e66
d03a9e
Partire dai testi cartacei (nelle biblioteche), riassumere citando sempre dove si trovano le
informazioni, lavoro prima di analisi e poi di sintesi (estrazione di uno schema cronologico), guide
storiche.
Il modo più corretto è parlare di conservazione e NON di restauro, in quanto vi è una differenza
sostanziale nell’atteggiamento del progettista, nel senso che quando il progettista si pone di fronte
all’oggetto lo valuta ancora prima di iniziare a progettare secondo criteri anche colti ma che
privilegiano la selezione di un valore (storico, artistico, tipologico, ecc.) e quindi già taglia fuori dal suo
modo di affrontare la conoscenza dell’edificio tutti gli aspetti che non gli interessano. Questo è
collegato anche al fatto che chi progetta nell’ambito del “restauro”, sulla base della sua
interpretazione soggettiva, è un singolo ed è quindi suscettibile di mancanza, si accompagna a
un’idea di progetto che viene formulata in modo astratto rispetto alla realtà concreta dell’edificio e una
volta trovato il nuovo assetto, sovrappone il progetto al rilievo dello stato esistente e dove le parti
esistenti coincidono con quello che il progettista ha pensato bene, dove non coincidono vengono
distrutte. Questo modo di procedere dà al singolo architetto che interviene un potere enorme perché
dopo l’intervento tutta la collettività conoscerà un edificio che ha subito le trasformazioni imposte da
questo singolo. L’atteggiamento di chi conserva è opposto: si pone di fronte all’edificio che deve
conoscere ma per prima cosa si mette in ascolto e indaga, prende le misure, fa un procedimento di
conoscenza diretta che è la misura, il rilievo dei materiali, dei degradi dei materiali e delle strutture, la
distribuzione preesistente, in modo da conoscere nel modo più approfondito possibile l’edificio.
Questa conoscenza, che impegna una parte cospicua del tempo e delle energie anche economiche,
ha un senso perché attraverso questo procedimento di conoscenza approfondita lo stesso edificio
suggerisce quali sono le potenzialità e i limiti, così facendo il progetto sarà calibrato su quella che è la
vocazione dell’edificio, andrà incontro all’edificio stesso tenendo conto le sue potenzialità e semmai
valorizzandole, non si mette in sovrapposizione drastica e pesante. Quelli che sembrano limiti nello
stesso tempo già dobbiamo saperli leggere e sono già delle indicazioni di progetto, bisogna imparare
a leggere il costruito per trarne il massimo vantaggio nella conoscenza e nella possibilità di redigere
un progetto consapevole che mette le mani su qualcosa che ha la sua storia materiale, che esprime
un modo di costruire che è frutto di secoli di sapienza del fare e che si inserisce come aggiunta in una
fase successiva della vita dell’edificio senza traumi e riducendo al minimo gli interventi più invasivi
(es. impianti). Questo atteggiamento che ha questa parte istruttoria del progetto, la raccolta dei dati
conoscitivi molto ampia fa sì che la fase del progetto sia più rapida perché so già quali sono i limiti
entro cui devo stare, se so usare le conoscenze acquisite già trovo una soluzione che risponde a
quello che l’edificio già mi offre. Il restauro è uno schema calcato sull’edificio, la conservazione è
l’architetto che deve fare questo sforzo di recepire le indicazioni che gli vengono dalla conoscenza
dell’esistente per usarle al meglio, mettendosi in una condizione un po’ più di subordine, lasciando da
parte gli aspetti creativi e conoscitivi che invece magari sono più espliciti in un progetto di restauro
dove le trasformazioni sovrappongono la poetica dell’architetto allo stato esistente, la conservazione
consiste anche in interventi importanti ma la parte creativa dell’architetto è limitata alle parti nuove
(es. nuovi volumi, ascensori), essendo delle aggiunte che si pone accanto e non sopra, non cancella
quello che c’è, queste parti saranno il luogo dove si può esprimere la qualità progettuale di chi
interviene perché deve mettersi in relazione con le caratteristiche della preesistenza. Sono due
approcci mentali diversi che hanno metodi diversi. Oggi ci sono delle sfumature in questi tipi di
intervento ma sussistono perché si ha un approccio diverso alla conoscenza, tutto con una
declinazione differente. Esempio: il restauratore quando interviene fa del rilievo, delle indagini
fisico-chimiche ma spesso rimangono lì, non hanno delle interferenze con le scelte progettuali. Se
faccio studiare un intonaco che è anche antico, che mi fa capire l’epoca, la relazione tra i modi di
costruire e i materiali, ovviamente l’indagine chimico-fisica ha senso se usata a sostegno di un
intervento che conserva il più possibile intonaci fatti in questo modo mentre in alcuni casi nel restauro
si rifà proprio l’intonaco.
La disciplina del restauro, convenzionalmente, ma anche per ragioni storiche, nasce ai primi
dell’Ottocento come conseguenza di una serie di trasformazioni culturali che investono tutta l’Europa:
cultura del restauro occidentale, diversa ad esempio da quella orientale perché un oggetto del
passato appartiene a quel mondo e ha un sistema di letture che fanno riferimento alla storia, alla
memoria e alla visione del tempo (es. in Cina e Giappone il restauro fino a qualche decennio fa
consisteva nel rifare esattamente uguale i templi perché l'idea di un tempo immobile o che si ripete in
cicli è alla base di quell’idea che hanno le culture orientali di tempo). Nella cultura occidentale, il modo
con cui gli uomini si rappresentano nel loro essere nel tempo è rappresentato dall’idea di storia e dalla
storiografia (= modo con cui gli uomini raccontano la storia del passato). Ovviamente, se noi abbiamo
a che fare con un edificio che c’era già prima che noi dovevamo fare l’intervento, avrà una sua storia
e una sua vita ancora prima che noi magari nascessimo, appartiene a una visione del mondo che è
rappresentata dalla storia. Parliamo di oggetto storico e NON di monumento perché l'approccio
costruito considera tutti gli aspetti costruiti e quindi tutto ciò che è storico che lo è fino a ieri e non fa
differenze tra le architetture importanti e quelle meno importanti anche se ovviamente ne ha piena
coscienza, non esercita una valutazione perché ha come priorità la materia con cui sono costruiti,
l’idea di curare la materia quando si ammala è proprio il fulcro dell’idea di conservazione senza
pregiudizi estetici (che è un fatto soggettivo e relativo e non può essere una regola progettuale). Il
restauro è prima di tutto un atto di cultura perché esprime la capacità di capire un oggetto del passato
e di tragrettarlo verso il futuro senza cancellare le sue caratteristiche. Il clima culturale dei primi
dell’Ottocento del restauro implica considerare alcuni passaggi. La relazione tra la cultura del
momento e il modo di leggere le architetture e quindi il modo di intervento è un dato costante della
storia del fare restauro. Anche oggi dobbiamo renderci conto che il nostro modo di progettare restauro
deve restare consapevole di porsi in relazione con la cultura presente che è quella della
globalizzazione, dei fatti che condizionano l’economia, la cultura e il modo di pensare che si articola in
vari saperi che si articola all’idea di storia che è cambiata. Questo ambito così ampio e generale è ciò
che con diversi passaggi imprime anche dei cambiamenti ai modi con i quali nel corso della storia si
sono compresi e non gli edifici e di conseguenza si sono fatti degli interventi che di questa
comprensione o incomprensione sono figli. Esempio: fino agli anni ‘60/70 del Novecento, le
architetture barocche non erano considerate perché non piacevano (giudicato sotto un profilo morale)
e non erano studiate e quando subentravano esigenze di restauro spesso venivano trasformate
perché non era riconosciuta la loro importanza come stagione dell’architettura. La cultura nelle sue
declinazioni porta ad avere una mentalità e un gusto che finisce a ricadere anche nel nostro terreno.
Vedere attraverso la storia come è cambiato l’approccio dei monumenti nel tempo e come questo
abbia anche fatto cambiare i modi di intervenire, posso riconoscere ciò che già ho imparato ma non
posso riconoscere ciò che non so, è pericoloso per un restauratore che deve essere consapevole dei
limiti della sua conoscenza che è contingente e relativa (agli strumenti di conoscenza). Esempio:
quando negli anni ‘40 si cominciò a pensare che la Ca’ Granda di Milano non era più un ospedale ma
sede universitaria, uno dei primi progetti fu affidato ad Ambrogio Annoni in cui riconfigurò quello che
gli sembrava l’assetto originario della crociera sforzesca e delle parti aggiunte nel Seicento da
Francesco Maria Richini. C’era un secondo piano che Annoni non ritenne da conservare e quindi
venne tolto questo piano in più che si poteva vedere all’interno dei cortili e dalla via Sforza. Quando
dopo la guerra il progetto arriva nelle mani di Liliana Grassi che è stata l’autore di tutto il progetto di
restauro e adeguamento alla nuova funzione, fece fare delle ricerche in archivio ed emerse che
questa sopraelevazione era di Richini ma ormai era stata demolita. Anche questo ci dice quanto la
non conoscenza o la presunzione di conoscenza può portare a perdite, avendo così tolto una parte
significativa come stratificazione della vita della fabbrica e un volume che sarebbe stato utile. Un
atteggiamento conservativo che fa più attenzione a conservare la materia si ripara dai granchi della
storiografia perché cerca di utilizzare quello che c’è sapendo che può non sapere tutto e quindi
astenendosi da un giudizio di valore, ha un'attenzione complessiva al sistema della fabbrica e se
deve conservare una parte all’uso contemporaneo questo lo fa esplorando tutte le strade possibili.
Prima dell’inizio dell’Ottocento si riparavano gli edifici importanti però non c’era l’idea di alterare o
perdere delle architetture importanti. Gli atteggiamenti che noi riscontriamo sono di trasformazioni che
seguono l’esigenza del momento presente. Storicamente le architetture preesistenti rappresentavano
quando non erano usate una fonte di materiali da costruzione.
L’ospedale ormai assestato in una struttura in due bracci paralleli tagliati dal trasverso alla fine
dell’Ottocento vede già un inizio di saturazione dell’edifico e delle proposte di risistemazione
soprattutto nella parte sulla destra dove c’erano delle case frammentarie e viene ipotizzato una
rettifica e regolarizzazione dei volumi. Molti ospedali che sono stati usati fino al Novecento e di
impianto così antico sono stati sovrasaturati, i cortili hanno incominciato ad accogliere altri volumi per
far fronte alle esigenze della cura. A fine dell’Ottocento si ha una proposte che vuole liberare gli spazi,
anche con delle modifiche.
Il progetto a sinistra lascia i due bracci lunghi e il trasverso e il cortiletto
della farmacia mentre il resto lo demolisce, compresa la chiesa,
proponendo la realizzazione di padiglioni e volumi utili ma non viene
approvato. Il secondo è una redazione dove già si vede come la parte
sulla destra è ripulita e viene costruito un nuovo edificio, l’assetto dei
due bracci rimane invariato ma i volumi che saturano i cortili sono
presenti anche se originariamente davano aria e luce alle infermiere.
Il progetto ai primi del Novecento si orienta verso quell’assetto di
distribuzione ospedaliera che si trova in alcuni edifici della via
Francesco Sforza che tende a isolare i padiglioni dedicando a ciascuno
di essi una funzione, alleggerisce di tutte le aggiunte i cortili realizzando
dei blocchi il più possibile separati compreso anche il cortile degli Uffici.
Il tentativo di ridare funzionalità della fabbrica riflette la cultura
architettonica della tipologia ospedaliera. Anche questo progetto non
viene realizzato.
Il progetto del 1952 riflette il modo di leggere la fabbrica a questa data.
Progetto sconcertante che accentua la propensione a costruire strutture
ospedaliere per blocchi alti e innestandosi su una preesistenza, della
quale ignora la conformazione e l’assetto, ritaglia, isolando il cortiletto,
creando un vuoto interno e costruendo una corta di camminamento
sull’area di pertinenza del vecchio ospedale, che viene raso al suolo,
per collegare dei blocchi a destinazione ospedaliera con edifici alti che
sono separati ma collegati. Di questo impianto che interessa un intero
quartiere viene conservata la chiesa, ma con varie modificazioni, il
corpo di fabbrica neoclassico e il chiostrino rinascimentale. Quest’ultimo era intoccabile perché
considerato monumento nazionale, quello che la cultura architettonica riconosce importante viene
conservato mentre il resto no. Nella distribuzione che abbiamo visto prima l’assetto delle crociere
riflette l’architettura di una certa epoca che concepisce la cura, le infermiere erano alte 9 metri; quindi,
le finestre non c’erano al piano terreno perché avrebbero fatto correnti dannose per gli ammalati, ma
erano presenti ballatoi a una quota maggiore raggiungibili con scale a chiocciola. Con il passar del
tempo e il mutare nell’osservare la progettazione ospedaliera cambia il modo sotto un profilo
compositivo-tipologie, come se non ci fosse stato niente di preesistente salvo le eccellenze.
Negli anni 80 del Novecento vengono rifatte
alcune parti con un linguaggio architettonico
audace, uso di pareti a specchio. Negli anni 80
c’era necessità di avere più spazio per gli uffici
quindi le crociere sono state divise
orizzontalmente. Viene posizionato un ascensore
nelle testate all’esterno e la balaustra, che serviva ad aprire le finestre in
quota e delimita il nuovo pavimento che è a quota della beola di questo
ballatoio, come un balcone interno che girava con un balcone esterno, la
beola della balaustra è posta sullo stesso livello del pavimento nuovo
compreso di prese e impianti. Vengono fissate delle possenti travi di ferro,
in una parte a magazzino, infilate nelle murature perimetrali, questa
operazione implica un consolidamento massiccio delle pareti d’ambito
perché questa struttura muraria non sarebbe stata in grado di portare il
carico delle travature. Le travi sono ripiegate in corrispondenza dei
ballatoi che cambiano nettamente l’andamento spaziale e volumetrico,
oltre la capacità di leggere la storia dell’edificio.
Al giorno d’oggi per sfruttare la volumetria e un’altezza così elevata
potrebbe essere risolta inserendo una struttura autonoma e distaccata che
non si innesta sul ballatoio preesistente ma consente una reversibilità nella
struttura per avere una possibilità di percepire com’era lo spazio originario.
Se uno non ha la minima idea di quello che potrebbe essere successo si
ritrova a camminare su un pavimento di linoleum perimetrato da una
ringhiera.
È un esempio che riassume parecchie questioni anche sulla conoscenza di ciò che non è stato fatto
sull’edificio. L’intervento degli anni 50 non riesce a leggere la cultura materiale, estremamente ricco di
informazione ma lo riduce a dei nuclei, che, separati da tutto il resto, perdono il senso.
La facciata neoclassica è stata vincolata nel 1968, quasi cent’anni dopo il riconoscimento
dell’importanza del chiostrino sforzesco, che fino a quando non è stato studiato è stato considerato
tutto rinascimentale anche se in realtà per metà è frutto dell’interpretazione del restauro ottocentesco,
questo ci fa capire che molti monumenti storici medievali che noi oggi vediamo sono frutto della
lettura che ha fatto il restauratore ottocentesco, quindi non sono autentici ma frutto dell’intervento che
ormai fa parte della loro storia. Non è tutto rimasto immobile nel tempo ma ci sono state diverse
interpretazioni, tanto più le architetture erano amate più erano studiate e modificate.
La fotografia, che non è il quadro del pittore o l’iconografia, è un documento che rappresenta la realtà.
Una verifica della ricerca bibliografica può portare a capire meglio le cose e va sempre fatta una
verifica sul campo. La storia dell’architettura per il restauro non è la storia delle forme ma la storia
della costruzione, del cantiere, della lettura di come è cresciuta la fabbrica sia attraverso i documenti
sia attraverso l’osservazione diretta.
Lezione del 30.09.2022
Si data la nascita della disciplina del restauro intorno al 1800. Prima si operava secondo criteri di utilità.
Quindi se ci fosse stata la necessità di ingrandire un edificio, nel caso fosse costituito da una composizione
modulare, si sarebbero ripetuti i moduli estendendoli per acquisire volume ulteriore. Se era necessario fare
dei consolidamenti, questi avvenivano prendendo provvedimenti di rimedio dei problemi statici con le
capacità e con il linguaggio del momento architettonico in cui erano fatti senza il problema di andare a
deturpare degli edifici più antichi. Ciò perché non esisteva la consapevolezza di una separazione del
presente rispetto al passato. Solo quado si acquisisce questa cognizione, ci si rende conto che nel presente
si devono affrontare architetture del passato e queste rappresentano degli esempi importanti. Quindi ci si
pone lo scrupolo di trovare il modo più adeguato di intervenire. Fino a quel momento venivano fatti
ampliamenti, modifiche di edifici del passato anche esemplari, i cosiddetti “Monumenti” con la M
maiuscola, eppure di questa importanza non c’era proprio la consapevolezza. Questo fatto è estremamente
importante perché ci fa capire che il nostro compito non è di giudicare ma di capire come mai in certe
epoche si operava in un certo modo e come a partire dal 1800 nasce questo dibattito. Ci si rende conto che
nell’ambito dell’architettura bisogna operare in un modo particolare. Questo dibattito si evolverà e avverrà
sempre nel campo dell’architettura ma dando al restauro una sua specificità.
Precisazione sull’ospedale vecchio di Lodi. Da un lato è necessario, dal momento in cui si interviene su un
edificio e lo si conosce, fare accertamenti documentali e accertamenti in cantiere, dal vero. Dall’altra parte
c’è una ricerca storica, archivistica, c’è la misura, rilievo geometrico, dei materiali delle strutture degli
impianti. È importante accertarsi dei documenti così come è importante che la bibliografia sia scientifica e
quindi dia conto dei testi ai quali attinge. Nell’ospedale di Lodi si è visto come gli autori fino agli anni 80 del
‘900, copiandosi tra loro, decennio in decennio, si erano tramandati la novella che il giostrino della farmacia
era tutto rinascimentale invece era stato rifatto nel 1800. Questo non si scopre se:
1) Se la bibliografia non è scientifica, non dà conto delle sue fonti anche di testi locali non riportavano le
fonti. Le fonti qui erano quelle dell’Ospedale Vecchio e dell’archivio che registrano le modifiche.
L’accertamento porta il in luce la verifica che porta a sua volta il riconoscimento degli errori.
2) Anche osservando l’edificio, nella parte del loggiato sovrastante il portico, queste formelle che
apparentemente sembravano in cotto in realtà erano in cemento colorato. Questo per un restauratore che
deve intervenire è importantissimo da sapere. Un conto è provvedere con interventi di consolidamento su
un materiale come il laterizio, diverso è per il cemento. Si hanno delle metodologie comuni ma in ogni caso,
bisogna prima riconoscere il materiale. Questa informazione è nata come approfondimento d’archivio,
avendo anche una foto come documento inequivocabile, senza dubbi. Anche sulla scorta di questa verifica,
controllando attentamente tutto il chiostro, si sono cominciati a vedere soprattutto ai piedi delle porte,
come le cornici cominciavano ad avere dei degradi: nei punti in cui era caduto uno spessore sottile di
rivestimento, questo rivelava all’interno un impasto bianchiccio con sassolini. Venne subito verificato che
certe cornici delle porte erano state fatte dopo sul modello di quelle antiche. Sono rimaste mimetizzate
come tutte originarie fino a quel momento. Il momento in cui il degrado è subentrato, prima del suo fattore
negativo, va considerato come un fattore di conoscenza. Ci sono dei degradi che in realtà sono solo una
variazione di stato, esempio il legno esposto alla luce e all’aria diventa più scuro; esempio il rame delle
grondaie quando viene messo in opera è brillante mentre con la esposizione degli agenti atmosferici ci
diventa marrone- verde scuro, come una patina protettiva, è una variazione di stato che bisogna constatare
e in un secondo momento considerare per quello che significa.
Monumenti = episodi della storia del restauro. Nel linguaggio attuale, se si parla nell’ambito della cultura
della conservazione, non si scelgono i monumenti eccellenti. Gli interventi si fanno su tutti gli edifici
costruiti. È preferibile chiamarli oggetti. Un oggetto può essere particolarmente complesso, frutto di un
cantiere particolarmente articolato e ricco di contributi, maestranze differenti, oppure può essere un
edificio molto più semplice. Rimane il fatto che è costituito da materiali.
Nell’ambito della cultura della conservazione, non si privilegia una categoria di oggetti rispetto ad un’altra.
Non ha per interesse solo i monumenti o i beni culturali ma tutto il costruito.
Precisazione sull’ospedale vecchio di Lodi. Ad un certo punto si arriva alla saturazione della sua area di
pertinenza. I primi progetti che vengono fatti sono del ‘900 riguardante un lotto completamente ingombro
di volumi costruiti. Si cerca di alleggerire questa saturazione seguendo il modello tipologico dell’edilizia
ospedaliera che si trova nel manuale di architettura dell’800 dove la tipologia della “cura” vede la migliore
distribuzione per padiglioni separati, affinché siano separate anche le malattie. Spesso venivano costruite
delle passerelle coperte per collegare un padiglione all’altro. Non c’è ancora un’attenzione matura al tema
del “come si farebbe oggi”.
La gratitudine dell’istituzione verso i donatori la possiamo ritrovare per esempio al patrimonio della
pinacoteca dell’ospedale Maggiore di Milano della Ca’ Granda che da tempi antichi illustra con dei ritratti il
volto dei donatori. Questa galleria è anche simbolica dei ceti più facoltosi e generosi nel sostenere queste
attività.
Nella tipologia per padiglioni separati in questi progetti dei primi del ‘900 si nota la trasposizione del
progetto del nuovo e secondo le tipologie dell’evoluzione tipologica codificata nei manuali, sosteneva che
le strutture ospedaliere migliori dovevano essere proprio con degli elementi separati. Perciò il progettista
prende quell’idea di progetto e la sovrappone allo stato di fatto: ipotizza di tagliare delle porzioni, dei bracci
di questo impianto che vede due lunghe corsie parallele tagliate da un trasverso di origine rinascimentale,
se non anche antecedente, e applica sopra un progetto del nuovo. Infatti, all’epoca non esisteva ancora una
consapevolezza così approfondita come quella che ci suggerisce oggi. Si partiva dall’esistente per adattare il
progetto.
P.S. tenere presenti queste scansioni cronologiche dei secoli, dei decenni al fine di saper collocare un
fenomeno nel tempo.
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I mutamenti della cultura occidentale che avvengono verso la fine del ‘700, con un tempo lento, portano a
formarsi su questa consapevolezza di intervento sugli edifici del passato. Ha il punto di svolta, il più
significativo è datato al periodo della Rivoluzione Francese (1789). È il momento di cambiamento della
cultura, della visione del mondo, della società non solo in Francia ma in tutto il mondo.
Cambia la visione culturale del mondo occidentale. La rivoluzione nasce per effetto di una serie di cause, fra
cui la carenza e l’aumento dei prezzi dei viveri. Inoltre, vi era uno stato di predominanza da parte dei ceti
più alti, della nobiltà e del clero, verso i ceti popolari a causa dell’affitto dei terreni. La Rivoluzione francese
però non nasce come rivoluzione popolare perché siamo in un periodo in cui c’è il sovrano e c’è la
convinzione che il potere del sovrano assoluto che regna è sacralizzato, benedetto, confermato da Dio.
Quindi le dinastie di padre in figlio si trasmettono il potere di sovrano assoluto. Ciò era una cosa
indiscutibile. Il sovrano è affiancato dalla nobiltà e dal clero, coloro che posseggono i terreni e che
possiedono le ricchezze. Il potere è in mano ad un numero ristretto di presone.
Nel ‘700 nasce la filosofia dell’Illuminismo che contribuisce a scardinare questo sistema poiché mette al
centro della riflessione la ragione dell’uomo che è una dotazione che hanno tutti, non solo ci appartiene al
clero o la nobiltà. È un fatto che accomuna tutte le persone. Tende a ribaltare il modo di vedere la società.
La ragione è una facoltà di tutti gli uomini. L’Illuminismo porta un interesse verso la conoscenza. In questi
anni viene pubblicata l'encyclopédie di Diderot, un primo tentativo di sintetizzare tutti i saperi di tutti i rami
del fare umano. L’impatto di questa filosofia, che gradualmente dai pochi filosofi si dirama, viene penetrato
nella cultura più vasta, si cambiano atteggiamento verso questa sudditanza forzata. C’è una parte della
società, delle persone istruite che sanno leggere e scrivere e ragionare in modo articolato, ma che non
appartengono ai luoghi dove sono mantenute le redini del potere. Questi sono per esempio avvocati,
architetti, medici, quelle persone che hanno attività pratiche ma che sono istruite. Andranno a costruire la
classe nascente ossia la Borghesia. È questa classe che volendo entrare a far parte dei luoghi del potere,
comincia a costruire la futura rivoluzione, dove si fonde anche quel movimento che parte dal basso
estremo delle popolazioni contadine che non riescono più a sopportare la pressione fiscale che gli
impedisce di vivere. Questo comportamento porta al famoso “libertè, legalitè, fraternitè”. Si ribalta
completamente la situazione. Il re non si era accorto di come si stava evolvendo la situazione.
Cambiamento radicale della società e della politica anche europea. Il 14 luglio, data della presa della
Bastiglia, è simbolica. In quel momento nella Bastiglia vi erano detenuti ma nessuno per cause politiche. La
presa di questa prigione è più simbolica che reale. In ogni caso diventò una sorta di cerniera.
Episodi politici che seguono a questo ribaltamento del potere seguono periodo turbolenti e sanguinosi.
Pian piano si avvia l’assetto di una nuova organizzazione dello stato: non più regno del sovrano ma diventa
la Nazione francese, la prima in Europa. Per tutto l’800, l’Europa vede la crescita di Nazionalismi in cerca di
un’entità nazionale. Un esempio è il periodo del Risorgimento Italiano dagli anni Trenta fino all’unificazione
del 1871.
Tutto questo cosa c’entra col restauro? Stiamo dando delle coordinate molto generali del contesto storico
nel quale nasce il restauro.
Prima però altro passaggio. Finché c’era stato il sovrano, anche la cultura era una condizione a celebrare
questo diritto divino d’ereditarietà del potere sovrano della famiglia Reale. Quindi lo storico costruiva una
storiografia che fosse celebrativa, encomiastica. Non era una storia scientifica, basata su accertamenti
veramente accaduti nel passato. Lo storico, spesso di corte, doveva celebrare la famiglia regnante e il
sovrano. Dopo la Rivoluzione, gli storici si preoccupano di rifondare culturalmente la storia della nazione
francese e si rendono conto che la storia raccontata in precedenza era favoleggiante. Nasce così un metodo
storico per costruire una storia verificata della nazione francese, arrivando a delineare un metodo per dare
rigore a questa lettura dei fatti del passato. Si comincia a parlare di lettura del passato e di verifica. Questo
si chiama metodo filologico: dal termine originario greco significa “accertamento” della parola, della verità
del fatto storico. Ciò riguarda gli storici che studiano la politica. Introducono questo metodo in modo da
rifondare la storia della Francia, uno Stato nuovo che deve costruirsi una nuova identità. Questo metodo ha
anche degli strumenti pratici: dà delle istruzioni per verificare se un documento scritto è vero o falso. Si
analizza la tecnica, lo stile, si verifica la natura del supporto cartaceo, a seconda del secolo quest’ultimo
fattore variava, ma anche il tipo di inchiostro con cui erano stati scritti i testi. A questa data, lo storico si
basa appunto su documenti scritti e deve comprendere se sono autentici o meno. Un altro tipo di analisi è
quella basata sulla formulazione del testo scritto, oggetto di quelle scienze che si riorganizzano in questo
momento storico (inizi ‘800) cioè la paleografia e la diplomatica, che aiutano sia a decifrare gli scritti sia a
riconoscere le formule con cui le istituzioni redigevano i loro documenti. Esistevano dei protocolli, delle
tipologie di scrittura formale per cui si poteva avere la conferma che quel contenuto fosse stato scritto
proprio in quel tempo. La storia politica infatti è anche carta di testi falsi, che gli storici hanno volutamente
interpretato come veri. Un caso famoso di falso-documento è quello della donazione di Costantino che
sanciva l’appartenenza dell’Impero d’Oriente allo Stato Pontificio. In realtà nei primi del ‘500 fu riletto da
Lorenzo Valla che scoprì che non era autentico. Questa scoperta fu resa nota grazie alla pubblicazione fatta
da Martin Lutero. Ci sono anche delle testimonianze scritte ad arte per giustificare un certo potere per
avvallare ciò che il regnante in quel momento voleva. A distanza di 200 anni e oltre sappiamo che
conosciamo solo una verità relativa, non può essere assoluta. La propria conoscenza è fortemente
condizionata dagli strumenti che si introducono e dal punto di vista.
Questo aspetto si posterà gradualmente anche al modo di pensare i monumenti, documenti volumetrici
che appartengono al passato. Questo discorso del metodo filologico si intreccia sempre, nel campo della
cultura francese, con la graduale consapevolezza che se la storia di Francia è fondata sui documenti degli
archivi e trova anche un grosso punto di riferimento nei monumenti francesi. Questo fatto porta anche ad
un ribaltamento nelle disposizioni governative riguardo ad essi. I rivoluzionari danneggiano tutti i
monumenti, pensando che questi fossero proprietà del re. Avvengono espoliazioni, in particolare per
apparati scultorei, oggetti mobili, vengono sfregiati i palazzi e chiese. Questo avviene per un periodo
relativamente breve. Poi nel 1891-92 la Convenzione, la struttura governativa del momento, emana delle
leggi che puniscono coloro che danneggiano i monumenti. Ci si è già accorti che i monumenti non sono del
sovrano ma del popolo francese, sono stati appunto costruiti dai francesi e sono degli elementi identitari
più importanti per la costruzione della nazione. Si stabilisce così che il restauro dei monumenti è un dovere
dello stato. È la prima volta che si ha questa consapevolezza in cui le architetture importanti francesi sono
un patrimonio che rappresenta il popolo. È un elemento di identità anche per il nuovo stato. La sua identità
viene ricostruita sia rileggendo la storia, con un metodo rigoroso, sia proteggendo i monumenti,
riconsiderandoli come il riflesso della cultura del Popolo. Questo atteggiamento prende forma nella Francia
di fine ‘700- inizio ‘800.
In Italia sarà più lunga questa acquisizione. I seguenti casi sono dei primi dell’800 e vedono degli interventi
di restauro molto attenti a essere del minimo impatto sulle fabbriche su cui bisogna intervenire, per evitare
che i dissesti si complichino.
Uno dei primi casi citato regolarmente nella storia del restauro di situazione intermedia, dove ancora non
c’è un’idea organica di restauro come sarà successivamente, ma sono esempi esemplificativi di un
atteggiamento particolarmente cauto nell’operare sui monumenti. Questo perché siamo nel periodo di
architettura neoclassica in cui gli allievi-architetti andavano alle accademie di belle arti dove apprendevano
composizione architettonica con l’impiego degli stili classici: tuscanico, dorico, ionico, corinzio … questo era
il lessico con cui l’architetto del tempo costruiva i nuovi edifici. La formazione dell’architetto col tempo
avveniva all’accademia di belle arti ma doveva essere integrato da un biennio di studi tecnici poiché doveva
essere compensata la parte tecnica di matematica e fisica che era fondamentale. Esempio a Milano,
l’Accademia di Belle Arti formava per la parte più artistica, poi gli allievi che venivano riconosciuti abili per
svolgere l’attività, seguivano un biennio a Pavia di matematica. Coloro che erano più bravi potevano vincere
il pensionato a Roma, cioè una borsa di studio(miserrima) per un soggiorno a Roma per uno o due anni per
studiare, con il compito di misurare gli edifici romani, disegnarli e con la consegna di un resoconto finale al
loro ritorno con delle tavole. Già in questi disegni si vede il tentativo di ridisegnare per intero per capire la
sua origine, sulla base del rilievo dove ovviamente ci sono dei templi con parti mancanti. C’è un tentativo
ideale di ricostruirli per capire com’erano in origine. All’archivio dell’Accademia di Belle Arti si trovano
numerose cartelle con queste tavole con disegni ad acquerello e a china.
La consistenza di questi antichi monumenti romani, seppur in parte spogliati o crollati come per tutto il
Medioevo in cui i erano diventati come delle cave, erano oggetti di grande interesse. Era fondamentale
conoscerli nella loro autenticità. Quando ci si pone il problema di intervenire, non c’è ancora idea di questa
consapevolezza che è propria della disciplina più matura propria della metà dell’800. C’è anche l’esigenza di
non alterare questi modelli sui quali ci si costruisce la stoia dell’architettura dell’antichità e si costruiscono i
modelli per imparare a progettare. Le misurazioni sono tutte basate sulla verifica delle proporzioni,
rapporto modulare, il diametro e l’altezza della colonna, la proporzione coi capitelli etc. Sono tutti elementi
che fanno parte della formazione dell’architetto e si ritrova nella manualistica dell’800. Esempio nel
manuale di Carlo Amati, monzese che operava in Lombardia, si trovano tutte queste istruzioni in cui poi era
fondamentale andare a visitarle sul luogo, a Roma. In questo caso il problema è il non alterare questi
modelli poiché è molto importante la conoscenza dell’architettura classica.
Il Colosseo
Il Colosseo comincia ad essere costruito nel 70 a.C. da Vespasiano, nella zona dove preesisteva il lago che
ornava la villa di Nerone, tra il colle Esquilino, Palatino e Celio. La sua costruzione era proseguita nei periodi
successivi con Tito, Domiziano, Alessandro Severo. La sua caratteristica, oltre alla collocazione presso i
giardini della Villa neroniana, era quella di essere costruito in presenza di un banco di tufo litoide che
rappresentava costruttivamente una base a fondazione a platea. Era una piastra di fondazione sulla quale
edificare questo imponente edificio ideale. Quest’ultimo vede una successione di arcate in facciata ad anelli
concentrici in cui si susseguono gli ordini tuscanico, ionico, corinzio e composito nella parte dell’attico (la
porzione di muro piena in alto). L’architetto neoclassico misurava capitelli e colonne che facevano parte
della sua attività progettuale, di rilievo e restituzione. Nel periodo dell’Alto Medioevo, l’edificio
progressivamente perde porzioni.
Nel 1000 era diventato proprietà di una famiglia molto potente a Roma, i Frangipane. Poi aveva subito
danni a causa di terremoti nel 1200- 300. Nel terremoto del 1349 erano crollate delle arcate dei due anelli
esterni e a loro volta erano crollate le gradinate esterne e le scale. L’edificio si stava progressivamente
deteriorando. Naturalmente l’effetto del terremoto che ribalta a terra delle porzioni, “smontando”
l’edificio, rende disponibili molto più facilmente materiali da costruzione. Alimenta così l’attività di spoglio
tipica di quel tempo. Gli edifici della romanità, realizzati con bozze di pietra squadrati con lavorazioni, già
pronti, venivano spogliati per avere materiale già pronto da costruzione. Diventava o materiale per nuove
murature oppure veniva cotto: i marmi sono carbonato di calcio puro e venivano trasformati in calcina per
fare le malte. Questo processo andò avanti per secoli. Le pietre de Colosseo servirono a metà del ‘400 per
costruire molti palazzi romani importanti fra cui Palazzo Farnese, Palazzo Venezia, Palazzo Senatorio,
Palazzo Barberini, San Giovanni Laterano e pure San Pietro che si stava ricostruendo in quel periodo. Sotto
Niccolò V, la cronaca ci dice che furono portate via dal Colosseo 2522 carrette di materiale, una cospicua
quantità. Questi spogli proseguono ancora per lungo tempo anche se nel primo 500, quando Raffaello viene
nominato da Papa Leone X “Conservatore del patrimonio artistico dello stato Pontificio”. Con una famosa
lettera, denuncia l’espoliazione dei più importanti monumenti in particolare il Colosseo. Eppure,
nonostante questo, non si riuscì ad arginare questa ripetuta espoliazione dei monumenti antichi che dura
fino alla metà del ‘1700.
Nel frattempo, però, si pensa come far uso di ciò che è rimasto. Per esempio, Domenico Fontana (colui che
farà redigere l’obelisco di piazza San Pietro proveniente dall’Egitto) progetta di trasformarlo in un lanificio
per la lavorazione della lana, comprendente anche le abitazioni degli operai. Questo progetto non viene
attuato ma nel 1600, viene destinato a deposito di letame da cui si estraeva in salnitro con il quale veniva
preparata la polvere da sparo. Questo fatto è molto impattante poiché la presenza di nitrati di questi
materiali è altamente dannoso, provoca dei forti degradi per effetto chimico-fisico. È un effetto che si
ritrova negli edifici rurali dove vi è la presenza di stalle.
Nonostante col Rinascimento ci sia la riscoperta della cultura classica, questo non ha una conseguenza
diretta sul fatto di avere attenzione per conservare l’edificio. Ciò che ci restituiscono personaggi come
Alberti, che visitano Roma e osservano, sono rilevamenti di monumenti del passato, ma non ci sono
provvedimenti fino a età 700. Ne 1744 viene emanato un editto per proteggere l’edificio. Questo non ha
particolare influenza nemmeno sulla destinazione da deposito di letame che viene tolto solo ai primi
dell’800. Si va avanti ancora 60 anni con questo uso finché nel 1806 Papa Pio VI decide finalmente di
formare una commissione per promuovere e progettare il restauro del Colosseo. Questo presentava il
problema riguardante le porzioni dell’anello esterno dove il dissesto delle arcate stava provocando il crollo
degli speroni orientale e occidentale. Gli archi sono strutture spingenti e
perciò avendone una sequenza, quelli agli angoli vanno contenuti poiché ne
va compensata la spinta laterale. Nel caso come nel Colosseo che crollano
delle porzioni, gli archi che rimangono senza contrasto sono suscettibili di
ulteriori crolli e dissesti. Questa è la situazione in cui l’anfiteatro si trova
quando Pio VII nomina la commissione formata da Pietro Camporese e
Raffaello Stern. In particolare, era critica la situazione dello sperone orientale.
Bisogna contestualizzare: le ragioni che spingono questi architetti a operare in questo senso non sono
certamente da riportare a quello che noi oggi pensiamo dell’intervento a distanza di 200 anni ma al tempo
in cui loro operavano, al tempo in cui l’architettura classica era il modello sul quale si costruiva la
conoscenza dell’architetto. Questo intervento così discreto, ridotto al minimo indispensabile trova le sue
ragioni. Non sono le stesse che avremmo oggi. È ben leggibile tutt’oggi l’intervento.
Sullo sperone considerevole è stata messa una lapide che ricorda l’intervento. È stata aggiunta in tempi
successivi. Le arcate doppie, 2 per piano, che sono state chiuse, sono state ribilanciate: quelle più
all’esterno rispetto al contrafforte sono ancora relativamente in equilibrio ma non del tutto; quelle vicino al
contrafforte manifestano segni evidenti di dissesto. Questo è un intervento che diremmo oggi
“conservativo”, ma in passato veniva definito di tipo “archeologico” perché il restauro con questo aggettivo
veniva associati ad interventi su memorie del passato. Si sottintende un
rispetto per l’architettura così com’è arrivata poiché funzionale
all’apprendimento dell’architetto. Se fosse stata troppo alterata, avrebbero
cambiato i riferimenti sul quale la cultura neoclassica fondava i propri
insegnamenti per gli allievi-architetti.
Questo è un dettaglio dove si vede questa parte puntellata coi conci che
regolarizzano ma lasciano evidente il dissesto. L’effetto che cede la parte
centrale è evidente. C’è un cospicuo slittamento verticale, verso il basso.
Questo è uno dei casi che la storiografia del restauro riporta come antefatti.
Non siamo ancora nell’ambito di una consapevolezza disciplinare ma
proprio per questo oggetto, per le sue caratteristiche c’è questa
grande cautela.
Si può notare un dettaglio dell’intervento che utilizza un paramento murario di mattoni, quindi con un
materiale riconoscibile, diverso da quello che riveste il Colosseo. Ciò non è per una scelta di distinzione o
per aggiunta, ma è una ragione di tipo economico. Per armonizzare questa parte, Valadier la fa intonacare e
colorare per farla armonizzare al paramento.
Ciò che vediamo oggi è risultato degli anni 90 del ‘900 in cui si scelse di rimuovere l’intonaco e lasciare a
vista ciò che vi era sotto. È avvenuto così un derestauro. In questo caso è un’operazione molto velleitaria
perché è stata tolta una porzione, messa da Valadier nel suo complessivo
intervento, che si era anche sedimentata nella storia dell’edificio come
aggiunta determinata da problemi statici. Questa scelta di tipo estetico,
fatta in un tempo successivo è stata al quanto rozza che nasce per una
questione di gusto personale. Qui si entra nel campo di relatività e di
eccesso di intrusione dell’architetto di cosa è bello o brutto, di cosa va
visto e cosa no. In questo caso ha sottratto una stratificazione che era
parte dell’edificio, determinato anche dall’uso e dal consumo dei materiali
del tempo per sottrarre la possibilità di conoscere anche questa parte. Si
ha anche la documentazione che ci fa conoscere con fotografie che ci fanno vedere queste trasformazioni.
Perciò non c’era bisogno di rimuovere quella sua parte per conoscere ciò che vi era sotto. Questo arbitrio è
un’operazione assolutamente non aggiornata. Da giudizio di valore dato solo al singolo che può essere
deleteria in quanto si sottrae conoscenza.
Derestauri = sono operazioni in cui il restauratore deve intervenire su operazioni già fatte in precedenza. A
volte è doveroso farlo perché un intervento fatto prima può esser stato fatto male, può aver subito delle
distorsioni nel corso del tempo determinandone dei difetti o dei guasti non previsti. Però effettuare dei
derestauri estetici rientrano in quel campo di arbitrio che è soggettivo e quindi non può essere un
parametro scientifico e rigoroso di comportamento.
Anche l’arco di Tito venne sormontato da una pesante muratura a lastre di pietra nel
periodo dal 1000, in cui la famiglia Frangipane era proprietaria di quasi mezza Roma.
Quando giunge il momento del suo restauro, Valadier smonta l’arco e va a verificare
qual è la situazione statica. Scopre che c’è stato anche un difetto di costruzione
poiché probabilmente l’impresa costruttrice è stata un po' vara di calce e generosa
di sabbia. La struttura all’interno non è solida. Perciò la smonta, abbassa tutti i
rivestimenti, risistema la struttura dell’arco e poi la ricompone, riposizionando le
lastre di marmo dove si trovavano e rivestendo le parti senza rivestimento con
porzioni di travertino. Usa un materiale diverso rispetto al marmo di cui era rivestito
l’arco. Riguardo a questo intervento, Valadier non ci lasciò
nessuno scritto ma è presumibile che questa scelta fosse
dettata da un fattore economico. La cosa interessante è che
con un’attenzione archeologica, smonta e rimette al loro
esatto posto i rivestimenti lapidei e ne completa il
rivestimento con un materiale differente che consente di
far capire, anche al di là del suo desiderio o meno di
renderlo riconoscibile, quali sono le parti aggiunte dopo.
Sarà molto celebrato nel campo della cultura architettonica europea. In particolare, ne parlerà Cartehr De
Frasd che è una personalità politica, letteraria, cultore d’arte francese. Sarà anche autore di un dizionario di
architettura che lo esalterà come modello di restauro esemplare per la sua correttezza, per aver risolto il
problema nel miglio modo possibile.
Questi sono due esempi di intervento archeologico tra i più importanti. Siamo nel 1806 e 1820,
cronologicamente all’inizio dell’800. Anche in Italia si sente l’eco di quello che successe in Francia, ma non è
ancora del tutto presente l’idea di un restauro come messa in pratica di un’ideologia come quelle che
guideranno qualche decennio più avanti i restauratori, con l’intento di operare in un modo disciplinarmente
riconoscibile sui monumenti del passato. Qui invece prevale l’amore per il classico sia per il determinato
periodo storico sia dall’architettura neoclassica per la necessità di avere dei modelli puri, non alterati.
L’idea è di un restauro che aggiusta solo quello che necessita di intervento, senza alterare in modo
mimetico la consistenza della fabbrica. Questo è ritenuto il modo più corretto. Avviene così una prima
sperimentazione, ma è ancora prematuro per inserirlo proprio in questo nuovo modo di vedere l’intervento
sui monumenti del passato che anche in Italia prenderà piede ma a partire dalla metà dell’800 (trent’anni
dopo circa). L’intervento svolto si definisce oggi filologico = lascia vedere ciò che si è fatto, facendo il
minimo indispensabile.
L’800 non è tutto istantaneo, bisogna tener conto di queste distanze per saper collocare i vari passaggi.
San Paolo fuori le Mura
Intervento sulla basilica a Roma che risale al 300 d.C. e che nel corso
dei secoli aveva avuto una serie di trasformazioni e arricchimenti. È
una delle 7 basiliche stazionali di Roma, è un luogo importantissimo
per la comunità cristiana cattolica e sorge sul luogo dove fu
collocata la tomba di San Paolo, a cui dà il nome.
A distanza di un secolo, passa all’impianto basilicale di Costantino sopra il luogo di devozione dei pellegrini.
Non sarà però sufficiente a far fronte alla folla di pellegrini. Allora ne viene ampliata con Onorio. Qui si
vedono le differenze tra lo schema originario (Costantiniano) e la planimetria del momento in cui avviene
l’incendio. Ad una certa data, per motivi di stabilità del tetto, era stata costruita questa parete trasversale
lungo l transetto con delle arcate che consentivano la trasparenza per vedere la parte absidale, per soli
motivi statici, per sostenere la parte di colmo del tetto a due falde del transetto. Quindi si incomincia a
guardare la storia della fabbrica e di mettere in fila le sue trasformazioni. Si cerca di fare una lettura dei
documenti relativi alla storia dell’edificio. L’individuare queste tappe del passato poi avrà delle
conseguenze sulle scelte di intervento.
Quindi da un lato, con uno spirito più vicino a quello di chi operava nei secoli passati e utilizzava quello
rimasto, propone un’idea nuova di impianto basilicale. Dall’altro non ci devono essere variazioni, deve
tornare come prima se non meglio perché si correggono gli errori che nel corso degli anni sono stati fatti.
Pio VII era morto pochi giorni dopo l’incendio nel ‘23. Era il mecenate di Valadier, il quale perde presa
d’ascolto del nuovo papa Leone XII. Il nuovo papa sposa la tesi proposta dalle letture delle stratificazioni di
Uggeri e poi dell’architetto Pasquale Belli. Prima viene affiancato a Valadier, a cui inizialmente era stato
affidato l’intervento. Gradualmente verrà estromesso dalla progettazione. Leone XII lascia scritto
l’indicazione di come si deve portar avanti l’intervento, con il desiderio di riportarla alle origini. La lettura
storica serve a mettere in fila le trasformazioni e mettere alla luce con queste conoscenze, qual è l’assetto
originario e predominante da rimettere in luce. Questa è l’operazione che riporterà a ricostruire la basilica.
Il lavoro del cantiere durerà molto. Verso gli anni 50 passerà la direzione dei lavori passerà all’ingegnere
Luigi Poletti, che realizzerà la torre campanaria dietro l’abside. I lavori andranno poi avanti con Virginio
Vespiniani fino agli anni 90 dell’800 quando verrà completato l’avanportico quadrato che oggi si può ancora
vedere. Erano presenti preziose decorature, dorature di marmi pregiati. Viene ricostruita con dovizia e
ricchezza come era in precedenza.
Questo caso fu seguito molto a livello europeo, proprio per la risonanza che aveva avuto questo episodio
drammatico. In Italia in particolare ne parla una rivista che nasce nel 1839, “il Politecnio” il cui nome va in
parallelo col nostro futuro Politecnico, fondato da Cattaneo nel 1839. Questa rivista dura solo 5 anni. È una
grande impresa editoriale che Cattaneo promuove in un momento in cui si è ancora sotto il governo
austriaco. Naturalmente Cattaneo era di idee risorgimentali, in quella fazione che auspicava una
federazione italiana. In questa rivista si pone lo scopo non solo di diffondere le idee rinascimentali ma di
incrementare l’istruzione che è veicolo del miglioramento sociale e civile, economico. Questa rivista avrà
una parte del tutto letteraria di articoli di stampo filosofico, di storiografia ma anche una parte verso la
direzione di diffondere le conoscenze tecniche. Nel primo anno di pubblicazione, nel secondo fascicolo, ci
sarà un articolo sul restauro degli edifici in Milano. Qui compare l’idea che il restauro è un’attività che
attiene l’architetto ma che ha questo risvolto ideologico, identitario che si rivelerà estremamente
funzionale agli ideali del risorgimento. Il restauro dei monumenti è un’azione che aiuta a rendere più
leggibili i monumenti che sono simbolo della radice unitaria dei popoli della penisola italiana. In questo
articolo, tra l’altro, si comincia a discutere di come si possono fare restauri. Il pretesto è il commento di
alcuni interventi fatti a Milano, che ci dà l’idea di qual è la visione dell’intervento di questo periodo, ma più
estesamente e profondamente sta a significare l’intenzione di questo personaggio di grandissima elevatura
in relazione al significato di monumenti come cultura di una nazione e come elemento di riscossa, un
manifesto della causa del Risorgimento.
Il Risorgimento in Italia ha due stagioni: una intorno agli anni 30, una negli anni 50 dell’800. Si parla di
decenni. Sono due stagioni molto diverse. Questa prima ondata degli anni 30 porterà ad un più solito
diffondersi di questi ideali fino ai moti del ’48 e poi con la formazione del Regno d’Italia nel 1860.
Questa rivista, tra l’altro, è importante anche per la cultura degli architetti perché diffonde anche notizie
sulle arti decorative, sui modi di produzione che diventeranno di lì a poco i primi tentativi di produzione
industriale. Cesserà di pubblicare anche per motivi economici ma anche perché era sotto la lente del
governo austriaco. Cattaneo fuggirà in esilio a Lugano. Da lì nel 1860 ricostituirà la rivista. Con una
rivoluzione di denominazioni (andrà avanti fino al 1927) dal 1860 in poi con le figure che promuoveranno
l’istituzione collegio, istituto tecnico e poi politecnico. Saranno soprattutto tecnici e matematici come
Francesco Berti che non sarà rettore, ma direttore matematico di Pavia, a comporre il corpo docente in
cheparte coincidere con quello che fonderà il politecnico. Manterrà sempre una sezione letterario-
scientifica dove venivano pubblicati i testi di letteratura, di filosofia che costituiscono la base delle
convinzioni delle visioni intellettuali del progresso scientifico, del progresso della cultura.
Dal 1860 la rivista avrà nella parte letteraria un inquadramento culturale. Nella parte tecnica troveremo le
pubbliche azioni degli ingegneri con articoli di architettura, ingegneria idraulica, ferroviaria, attinente a
tutte quelle attività che vanno a costruire il progresso della penisola con la diffusione
dell’industrializzazione. Nella parte di notizie, che accompagna tutti i fascicoli, ci saranno aggiornamenti sui
progressi del cantiere di San Paolo fuori le mura, causa della sua grande importanza.
17 ottobre 2022
LEZIONE 4
Nella lezione precedente abbiamo affrontato l’argomento che riguarda gli albori che portano alla disciplina del restauro,
senza vedere però i primi esempi di restauro canonici.
Abbiamo analizzato i primi restauri fatti nei primi anni del 800 a Roma come: il Colosseo e l’arco di Tito. Questo tipo di
intervento è attento a non oltrepassare la stretta necessità di consolidare l’edificio, questo perché nel periodo neoclassico
si aveva molta attenzione nello studiare i monumenti classici e quindi non poteva essere alterato.
Quando si ricostruisce un edificio che non appartiene all’antichità classica si incominciano a vedere diversi aspetti, come
abbiamo visto in San Paolo fuori dalle mura. Si tratta di un edificio medievale, la cui fondazione come chiesa cristiana
risale a Costantino, ma ha delle connotazioni differenti. Essa è la matrice che viene studiata da Angelo Uggeri mette a
confronto questa planimetria con quella della basilica Ulpia.
Si vede come gli architetti lavorino su edifici in un’epoca in cui non sono allenati a progettare, non è classica. Si inizia a
discutere su come ricostruire.
Giuseppe Valadier: utilizza ciò che c’è, ma lo trasforma. Come, ad esempio, questa basilica che presenta cinque navate
con apside terminale dopo il transetto, lo trasforma in una pianta a croce greca. Con questa reinterpretazione cambia
l’assetto dell’edificio. Sostenuto dal papa Leone XII si sceglie di ripristinare un assetto che non c’è più, ma con dei
correttivi. Ad esempio, nella parte del transetto dove era presente un cedimento strutturale per reggere meglio la
copertura era stato costruito una muratura verticale con degli archi nella parte bassa per far vedere la parte di fondo.
Durante la ricostruzione le parti aggiunte per necessità e utilità o per effetto di periodi a venire che vengono giudicati
negativamente, come il barocco (secolo in cui si realizzano cartocci e decorazioni eccessive), si vuole ripristinare l’edifico
eliminando però quello che non è ritenuto autentico. Vediamo una posizione intellettuale che condiziona l’intervento al
modo con cui si legge l’architettura.
Si incomincia ad interpretare la lettura dell’edificio in funzione di un modo di intervenire che tiene conto di come far
ritornare nel presente qualcosa che sia perduto.
Valadier, alla morte di Leone XIII, perde il ruolo di architetto di riferimento del Papa.
È più semplice l’intervento sui monumenti romani come il Colosseo o l’arco di Tito, questo perché gli architetti hanno più
padronanza del linguaggio classico. Quando si trovano nel dover intervenire in edifici su altre epoche cominciano a
disorientarsi.
Prevale l’idea in cui deve rimanere prima, esso è un simbolo religioso e per la sua natura richiede di essere immobile nel
tempo perché rappresenta il divino, qualcosa che non muta mai.
La cultura francese:
L’evento della Rivoluzione francese e le sue conseguenze portarono ad un mutamento culturale che si estende a tutta
l’Europa e in particolare viene abbattuto il potere assoluto del sovrano perché da un lato abbiamo le famiglie contadine
affamate e dall’altro lato, abbiamo la classe della borghesia formata da un ceto istruito che vuole partecipare alla vita
politica, ma non ha voce.
In questo ambito quando ha luogo la rivoluzione con l’odio verso il sovrano e la famiglia. Il sovrano trasmette il suo potere
di padre in figlio.
I rivoluzionari si scagliano contro tutto quello che riguarda la famiglia e il clero, vandalizzano palazzi, sculture ecc.
In particolare, dal 1789 passano 2/3 anni di grandi sommovimenti.
Successivamente nasce la convenzione nazionale è un organismo che ha il compito di legiferare e dare delle direttive
governative. Proclamerà la nazione francese.
Nasce la nuova Nazione francese, essa è una nuova identità, proclama i diritti come: fratellanza, uguaglianza e libertà.
Bisogna costituire una nuova identità e si accorgono che l’identità del popolo francese è testimoniato dai monumenti e
quindi la convenzione (assemblea governativa) stabilisce delle pene severe per chi danneggia i monumenti.
Nasce in questo momento la consapevolezza che il restauro è un dovere dello stato, perché bisogna provvedere a
mantenere e restaurare i suoi monumenti.
La convenzione dura dal 1792 al 1795 nomina una commissione dei monumenti preposta alla tutela degli edifici e delle
opere d’arte. Essa elabora delle istruzioni che sono significative perché costituiscono i passaggi fondamentali di
qualunque azione di tutela.
Questa tutela viene estesa alle opere d’arte di proprietà ecclesiastica, fatto significativo anche riferito all’Italia. In Italia
nasce una legislazione per il patrimonio dei monumenti degli oggetti d’arte a seguito dell’opposizione di una parte del
parlamento a redazione di questa legge che metteva al di sopra della proprietà privata il. Valore del patrimonio artistico.
La chiesa, proprietaria di un gran numero di monumenti e opere d’arte, contrastava a questa visione.
La tutela vale anche per gli oggetti d’arte e la prima. Cosa da fare per proteggere il patrimonio della nazione bisogna fare
un inventario delle opere degne di essere rappresentative dello Stato. Per fare queto bisogna istituire dei corrispondenti
locali che girino e facciano delle ricognizioni e vadano a scoprire gli oggetti d’arte che non sono noti.
Viene sciolta perché viene accusata di scarso patriottismo, perché queta commissione per salvare le opere d’arte o
monumenti faceva togliere i simboli del re per evitare il vandalismo.
È stato fatto quello che si faceva in Italia dopo il fascismo ci sono degli edifici come la casa dei Balilla (per accogliere i
bambini), con a volte simboli e scritti del Duce. Negli anni successivi poi vengono tolti per poter riutilizzare gli edifici.
A Milano per esempio nel 1830 circa, Carlo Cattaneo vuole demolire il Castello Sforzesco perché era il luogo in cui stavano
le truppe del governo austriaco, stato pressore che dominava al lombardo-veneto.
Ci si accorge che demolire opere d’arte ed edifici francesi è un fatto dannoso.
Vengono creati dei magazzini in cui vengono ricoverate le opere che possono essere distrutte, uno di questi depositi
diventerà un museo. Si trova negli edifici religiosi del petit augustin, sorvegliato da Alexandre Lenoir che trasforma questo
magazzino in museo dei monumenti francesi. In questo luogo furono ricoverata ad esempio le tombe dei sovrani francesi
che erano in St. Denis, esse furono portate via come altre opere. Alexander Renoir cercò di scrivere un catalogo con tutte
le opere che viene intitolato museo dei monumenti francesi e viene pubblicato nel 1798 ed è in otto volumi, con più di
300 tavole.
Questa iniziativa porta molti visitatori e promuove lo studio del medioevo francese, ma negli anni successivi verrà critica.
Lenoir non si accontenta di raccogliere ed elencare le opere nel catalogo, ma vuole ricomporre quelle che mancavano di
parti. Ricompone delle sculture con dei pezzi che non rispecchiavano più l’autenticità dell’oggetto, voleva rendere più
comprensibili questi oggetti.
Lenoir da un grande contributo a far nascere l’attenzione verso l’arte, ma allo stesso tempo altera le opere costruendo
dei falsi storici.
Nei primi dell’800 quando la situazione politica si stabilizza, viene concordato con la
chiesa che vengano restituiti tutte le opere che erano state ricoverate nel museo.
Questa operazione di ritorno delle opere è sostenuta da Antoine
Chrysostome Quatremère de Quincy, sarà uno dei primi a fare un dizionario per
l’architettura
con la voce restauro.
Nel 1816 vengono emesse delle ordinanze e tutte le opere sottratte dovevano
essere riportate nella loro giusta collocazione, questo perché un’opera d’arte
assume senso nel contesto in cui si torva.
Quatremère definisce l’opera di Lenoir come un cimitero delle opere d’arte risultato di 25 anni di rapine.
Quatremère ha un’influenza nell’ambiente artistico-francese, lui è impregnato di cultura neoclassico e avverso verso
l’apprezzamento del gotico e nel romanticismo. È importante perché da questo momento si ha la consapevolezza che le
opere d’arte hanno un luogo elettivo, quello per il quale sono nate e che danno degli aspetti riguardo la loro qualità
artistica.
Si inizia a parlare di prime istituzioni della tutela delle opere in Francia.
Nel 1810 il ministro dell’interno dello stato ordina ai prefetti di nominare i corrispondenti che vadano in giro per fare un
inventario di chiese e castelli in modo tale da far riportare le opere d’arte al loro luogo originale di installazione.
Nel 1830 inizia l’attività di un ispettore generale dei monumenti che governa questa azione di indagine nei luoghi periferici
di quali siano gli edifici importanti e quali abbiamo bisogno di una riparazione. Il primo ad essere nominato è Ludovico
Vite.
Lui dice:
“non si ripete mai abbastanza che in fatto di restauro
Il primo inflessibile principio consiste nel non innovare, quando anche si fosse spinti all’innovazione dal lodevole intento
del rinnovare o abbellire.”
Si rende conto che non si devono alterare le architetture, in opere d’arte del medioevo francese.
“non bisogna permettersi di correggere le irregolarità ne di allineare le deviazioni perché le deviazione, le irregolarità, i
difetti di simmetria sono fatti storici pieni di interesse, i quali spesso forniscono criteri archeologici per riscontrare
un’epoca una scuola e un’idea simbolica”
Sono le irregolarità che ci parlano delle caratteristiche autentiche dell’edificio. Manifesta questo atteggiamento che è
contro gli accademici. Questo periodo di attenzione al medioevo on ha un parallelismo con la formazione degli
architetti. Nel periodo gotico non ha un parallelismo con la formazione degli architetti, la questione degli interventi sulle
cattedrali gotiche assume dei contorni drammatici perché no si trovano architetti che conoscono le architetture gotiche
per intervenire in modo appropriato.
Per esempio St. Denis era stato chiamato l’architetto Debre fa rifacimenti così arbitrari sulla torre di sinistra che viene
realizzata con materiali troppo pesanti e che dovrà essere demolita con urgenza nel 1846.
La capacità e bravura di un architetto celebre per l’architettura neoclassica non ha la capacità di occuparsi di edifici
gotici.
Molti letterati si sono sensibilizzati di questo problema dell’incapacità di restaurare delle grandi cattedrali.
Viene nominato un altro ispettore generale che opererà per 20 anni: Prosper Mèrimèe.
Avrà un’intuizione geniale nel trovare un giovane in grado di intervenire sui monumenti gotici. Questo giovane è Eugène
Emmanuel Violet-le-Duc.
Violet le Duc si forma fuori l’accademia delle belle arti, fa numerosi viaggi nel
Nord della Francia, Normandia, Loira, Pirenei e in Italia.
Durante questi viaggi lascia dei diari e acquerelli nei quali ridisegna e annota
tutte le informazioni tecniche che incontra in questi viaggi, in particolare
nell’architettura medievale.
Cerca di individuare il modulo che governa geometria di queste architetture e
per l’architettura gotica è il triangolo.
Cerca di capire come è composto un pilastro a fasce di una cattedrale gotica è
frutto di un assemblaggio di vari pezzi.
Scriverà testi di architettura che pubblica in parte 1854/1868.
L’aspetto interessante che porta Violet a costruire una storia del modo di abitare
è quello di abbinare il modo di costruire con il modo di organizzare la vita.
Nel suo dizionario di architettura ci darà la definizione di restauro e di altri concetti come: stile assoluto e stile relativo.
- Stile assoluto: ciò che da perfezione a un’architettura. Quando u architettura assolve lo scopo per cui è
costruita ha raggiunto la perfezione. È la coerenza che caratterizza il singolo edificio ed è l’espressione del suo
autore.
- Stile relativo: è appartenente ad una certa epoca e linguaggio e ha delle convenzioni formali. C’è
un’espressione architettonica in diverse modalità a seconda delle diverse aree della Francia.
Quello che è importante è afferrare lo stile assoluto, comprendere la logica razionale che è il timbro dell’artefice che
l’ha costruito. È questo il concetto da afferra per quando si restaura perché consente di mettersi nei panni del
costruttore originario per correggere l’opera.
Violet si costruisce il suo modo di imparare a conoscere l’architettura attraverso i suoi viaggi, gli schizzi e gli acquerelli,
ma soprattutto vediamo come cerca di smontare l’architettura, ma soprattutto cerca di smontare l’edificio.
In questi disegni rappresentati dimostra l’innesto delle arcate acute sopra le colonne delle campate delle cattedrali
gotiche.
In basso a sinistra è rappresentato un pilastro a fascio, in particolare gli elementi affiancati l’uno all’altro, scolpiti dagli
scalpelli con il metodo della stereotomia. Un disegno che consente di tagliare le pietre in tridimensionale.
Quando si accosta all’architettura cerca di individuare un modulo costruttivo che per l’architettura gotica è il triangolo.
Qui vediamo rappresentato una serie di disegni che rappresentato le proporzioni applicate alla Cattedrale di Amiens e
di Notre Dame.
Ci sono state nel 1970 delle scuole di pensiero di storici dell’architettura basate sulle proporzioni degli edifici come se
fossero dimensionati secondo dei rapporti precostruititi, non si può assumere però come logica interpretativa.
Quando si studia un’architettura antica, bisogna considerare l’unità di misura, perché solo nei primi del ‘800 si è
unificato il sistema metrico decimale.
Questa uniformazione Violet non la realizza per avere la navata con lo stesso tipo di archi, ma per una questione di
omogeneità nel comportamento statico perché il raccordo fra una campata romanica e una gotica, cambiando
l’andamento delle forze trasmesse nelle colonne d’angolo era più complicato.
Per il rosone costruisce dei contrafforti ai lati dell’apertura in modo tale da consolidare la facciata e pone una copertura
sulla torre nord della cattedrale.
Si limita a fare operazioni di consolidamento.
Chiesa costruita nel XI sec. che vede la distruzione della parte absidale ricostruita nel periodo gotico.
Abbiamo una porzione dell’impianto romanico riguardante l’abside e una porzione di impianto gotico nel transetto e
dell’abside.
Vediamo sopra rappresentata la facciata.
Questa chiesa faceva parte della cinta muraria, infatti vediamo questa particolare connotazione come delle piccole
aperture circolari. Dagli acquerelli vediamo la stratificazione degli episodi costruttivi. La parte più scura che si ferma ad
una certa quota ci fa leggere la merlatura, il tamponamento della merlatura e l’apertura di questi spazi.
Il suo progetto, in questo caso, si pone come interpretazione di ciò che ha letto. Con il restauro accentua queste
connotazioni.
Notre Dame
Partecipa ad un concorso con Lassus e lo vince nel ’44. Vediamo il restauro della facciata, vediamo delle differenze fra il
prima e il dopo.
Per esempio, sopra l’ordine dei portali sono presenti delle nicchie vuote, mentre sulla destra vediamo presenti delle
statue.
Nei vari episodi di vandalismo Notre Dame aveva subito l’asportazione di alcune statue.
Nel 1970 fecero degli scavi in una banca nella piazza e trovarono dei pezzi di queste statue distrutte dai vandali.
Questo concorso viene fatto velocemente con grandi quantità di disegni e piane, successivamente muore Lassus, Violet
prosegue i lavori. Stabilisce la costruzione della guglia.
Qui vediamo gli studi, i disegni e i rilievi compresi i progetti per i ponteggi. Seguendo sempre la matrice razionale di
questa architettura, che verrà completata con la guglia.
Violet mentre opera trova delle tracce di finestre, costituite da un rosone circolare e da una finestra con arco acuto
sovrastante, vengono sostituite con vetrate gotiche. Violet lascia la presenza di queste aperture che non sono
omogenee con il resto dell’edificio, ma le ritiene una testimonianza significativa dell’architettura di quel secolo.
Le sue conoscenze su questa storia dell’architettura lo portano a delle interpretazioni non corrette. La cinta muraria più
interna, Violet credeva fosse una realizzazione dei romani, ma in realtà era stata realizzata da ingegneri del nord della
Francia nel XII sec. V
L’aspetto più evidente è di assumere questa connotazione che ci porta agli esempi dei castelli della Loira a dei coni che
sormontano le torri
Tetti a forma di cono che sormontano le torri, viene introdotto un elemento tipico del nord, inclinazione del tetto.
In questa sua interpretazione dell’oggetto materiale lo porta ad ambientare questi luoghi come se fossero delle
scenografie teatrali.
Castello di Pierrefonds:
Castello di esempio di architettura militare che si trova in stato di abbandono, che Napoleone III decide di restaurarlo
come sua residenza.
Viene completato nello stile originario, arrivando a progettare gli arredamenti per ambientare la vita del sovrano.
Violet è conosciuto in tutta Europa, ne parleranno letterati e storici.
Il suo esempio viene seguito da imitatori, ma non saranno dotati della stessa robustezza nel ragionamento teorico con il
quale supporta e giustifica il suo modo di operare.
In Italia il suo modo di operare si applicherà soltanto l’aspetto nel riconnotare gli edifici facendo riferimento allo stile
relativo, quindi facendo riferimento all’epoca originaria e alle caratteristiche stilistiche.
LEZIONE 05 14/10/2022
Abbiamo inoltre visto come già Prosper Mérimée avesse un’idea di restauro conservativo ante-litteram, cioè
in tempi precorritori. Mérimée diceva infatti che, quando troviamo delle irregolarità, queste devono
suggerirci un’attenzione particolare perché è proprio la specificità di questi oggetti a renderli speciali e
particolari. Mérimée aveva una visione molto ampia e cercava di individuare una persona che fosse in grado
di fare gli interventi sui monumenti. Fino agli anni ‘40 dell’Ottocento, infatti, nelle accademie di belle arti gli
architetti apprendono gli stili classici, e quindi conoscono poco le architetture gotiche, che sono invece il
corpus più importante del patrimonio francese. Abbiamo anche visto i casi di alcuni celebri architetti, noti
per essere costruttori di teatri o comunque di architetture neoclassiche, che falliscono miseramente nel
momento in cui devono intervenire su cattedrali gotiche. Un esempio è l’architetto François Debret che opera
su Saint-Denis e sulla torre occidentale, creando più problemi che soluzioni e addirittura portando alla
demolizione di alcune parti, proprio perché l’intervento non è assolutamente appropriato ma diventa
dannoso per la sopravvivenza della stessa fabbrica. Mérimée però ha un’intuizione e dà l’incarico a Eugène
Emmanuel Viollet-le-Duc, nonostante sia lui giovanissimo (quando viene incaricato del suo primo restauro
ha più o meno 20 anni) e amico di famiglia. Mérimée capisce infatti che Viollet è l’unica persona che può
operare in modo competente su queste architetture poiché si è formato viaggiando in varie parti della
Francia, oltre che dell’Italia, e ha studiato l’architettura del medioevo francese, in particolare quella gotica,
per capirne il funzionamento statico. Viollet si è dunque formato in aperta ostilità con l’accademia, come
abbiamo visto la volta scorsa afferma per esempio che è molto più razionale l’arco acuto gotico rispetto
all’arco a tutto sesto romano, una sorta di eresia per gli accademici. In realtà l’arco acuto sopperisce in modo
più razionale alla distribuzione del carico a terra, e Viollet ha dunque delle buone ragioni, che derivano
proprio dagli studi dal vero che compie, da questo suo processo di scomposizione mentale delle architetture
per capirne l’assemblaggio degli elementi. Come già abbiamo accennato dalle prime lezioni, anche dove trova
una cattedrale in rovina, il degrado gli dà informazioni. Viollet quindi si avvicina all’architettura con un
atteggiamento di curiosità, con un approccio simile a quello che noi oggi dobbiamo avere. Tutte le volte che
troviamo un problema di variazione di stato, dobbiamo recepirlo come elemento di conoscenza della
struttura, perché una muratura priva di intonaco, o in parte crollata, ci fa vedere l’interno. Solamente in un
secondo tempo si valuterà se effettivamente questa è una condizione di degrado, e quindi un problema da
risolvere con opportuni mezzi tecnici.
Tutta l’Europa degli anni ‘60 e ‘70 dell’Ottocento conosce l’opera di Viollet. È una figura alla quale tutti fanno
riferimento, anche per la sua solida riflessione teoretica che dimostra la bontà delle sue soluzioni di restauro.
Per sintetizzare possiamo ricondurre il nocciolo di questo discorso ai suoi due concetti: di stile assoluto e di
stile relativo.
Lo stile assoluto è quella coerenza razionale che è specifica dell’oggetto costruito. È il timbro dato dal suo
costruttore, il segno del lavoro del costruttore e quindi è un dato razionale e oggettivo. Una volta che
l’architetto riesce a comprendere questa logica razionale della costruzione ha in mano l’unica chiave per
comprendere la fabbrica, e quindi per sentirsi autorizzato a intervenire su di essa, mettendosi in una
posizione come quella del costruttore originario. Questo aspetto è quello che ha diffuso nella fortunata critica
di Viollet l’idea che lui che si metta nei panni del costruttore per ripristinare lo stile originario. Tuttavia
abbiamo visto che non è sempre così, perché Viollet era un ottimo costruttore e conosceva come erano
costruite le fabbriche.
Per esempio a Notre Dame (e rettifico qualcosa riguardo la volta scorsa) ci sono finestre formate da un arco
acuto sormontato da un occhio tondo, che sono state costruite nel XII secolo e poi sono state in gran parte
rifatte nel secolo successivo con grandi vetrate acute a tutta parete. In questo caso, dove trova nel transetto
le tracce di queste vecchie finestre, Viollet lascia la difformità e la coesistenza di due manifestazioni differenti
di architettura, perché riconosce entrambe come degne di conservazione in quanto testimoniano la storia di
Notre Dame. Quindi dove c’è la traccia di una volontà progettuale, aldilà della coerenza unitaria, Viollet lascia
le differenze. Un altro esempio riguarda invece le converse, ossia i canali che si trovano al compluvio delle
falde del tetto e che facilitano l’allontanamento delle acque, che venivano spesso aggiunte in tempi posteriori
negli edifici più antichi e che Viollet mantiene perché aiutano a conservare l’edifico.
Lo stile relativo, invece, è quella caratteristica che, nelle diverse aree geografiche, ma nello stesso periodo
di tempo, le architetture hanno. Si chiama stile relativo, quindi, proprio perché le caratteristiche sono relative
al tempo e al luogo.
Un esempio è il romanico, che in Italia è declinato in diverse modalità perché a seconda delle regioni sono
diversi i materiali a costruzione. In Lombardia, dove è più facile la realizzazione di mattoni perché è più facile
il reperimento dell’argilla con cui realizzarli, il romanico ha il paramento in mattoni a vista e alcune parti
strutturali sottolineati con elementi lapidei bianchi, che diventano decorativi ma nascondo i punti sottoposti
a maggiore sforzo (come, ad esempio, i conci in chiave degli archi, quelli alle reni e quelli all’imposta). Mentre
un altro linguaggio sempre del romanico, che si riscontra in area toscana e sarda è quello del rivestimento
con lastre di pietra, di solito e fasce orizzontali e in contrasto cromatico.
I restauri di Viollet sono noti negli ambiti degli architetti europei, ma questa capacità di individuare due stili
e questo impianto razionale-teorico che Viollet dà alla sua idea di restauro, non la ritroviamo nei suoi
imitatori. Questi si limitano infatti a recepire gli aspetti più semplici, cioè fanno riferimento ai caratteri
stilistici dell’epoca e dell'area geografica alla quale appartiene l’edificio sul quale intervengono. La diversità
di approccio è anche determinata dal fatto che la cultura francese ha un solido riferimento razionalista nella
sua evoluzione culturale, non a caso la Francia è la patria di Cartesio. In Italia viene recepito l’aspetto di più
facile acquisizione, quello di operare facendo riferimento ai criteri di adozione del cosiddetto di stile relativo,
a partire da circa gli anni ‘60 dell’Ottocento.
Vediamo due esempi significativi di questa prassi che vediamo appunto in Italia farsi strada a partire dagli
anni 60 dell’Ottocento.
IL CASO DI SANTA MARIA NOVELLA A FIRENZE
(slide 1)
Questo è un caso fiorentino, che è tra i primi in cui si affronta il tema di un intervento di ricomposizione
stilistica, che in Italia preferiamo chiamare restauro analogico (o stilistico-analogico). Usiamo questo nome
perché il restauro analogico adopera a partire dal criterio della analogia dello stile, che si trova innanzitutto
nell’edificio dove intervenire (per esempio se in un edificio manca un pezzo di sequenza di archetti, li posso
copiare da quelli superstiti), ma anche per analogia rispetto agli edifici della stessa epoca e area geografica.
Come diceva Giuseppe Mongeri, che era segretario dell’accademia di belle arti di Milano, si fa riferimento
agli stili coevi e congeneri. Il caso della chiesa di S. Maria Novella è un po’ un antesignano di questa situazione
e nasce dal fatto che si prospetta l’esigenza di ampliare una strada. L’incisione sotto mostra la chiesa ed il
dettaglio che sarà oggetto del nostro approfondimento, ossia la serie di archetti acuti gotici sulla sinistra.
Tutta la parte bassa della basilica presenta questi archetti con sotto delle arche, detti avelli, che è sinonimo
di tomba. Per allargare la strada che vediamo sulla destra, dove ci sono queste case comuni, a un certo punto
nel 1861 il comune decide di demolire tre avelli e rigirarli sul fianco dove c’è la strada.
(slide 2)
La questione resta tuttavia un po’ sospesa e si ripresenta poco tempo dopo, intorno al 1863-1864, quando a
Firenze viene istituita una commissione per la conservazione dei monumenti e degli oggetti d’arte. Questo
aspetto è interessante perché questa commissione, che viene istituita il 12 marzo 1860, nasce in una data
simbolica. Due giorni dopo infatti, il 14 marzo, c’è il plebiscito, ossia la votazione con la quale si chiede al
popolo toscano se vuole essere annesso al regno del Piemonte: si sta andando a costituire il regno d’Italia.
Nel periodo precedente all’annessione c’è un governo toscano provvisorio che ha come capo Bettino
Ricasoli, il quale chiede all’architetto Emilio De Fabris (colui che poi realizzerà la facciata del Duomo di
Firenze) di redigere un documento che delinei l’assetto di questa commissione. Questo organismo viene
quindi deliberato d’urgenza prima dell’annessione in modo tale che, quando il Piemonte recepisce le
istituzioni del governo toscano, questo sia già un dato di fatto. Quindi è una manovra politica molto forte che
cerca di mettere dei paletti su aspetti come quello della tutela del patrimonio artistico, che in Toscana è
molto sentito. Non a caso per tutto il secolo, fino agli anni ‘70 del Novecento, le questioni dei restauri dei
monumenti saranno gestiti dal Ministero della Pubblica Istruzione, perché il patrimonio artistico ha una
grossa valenza didattica. Abbiamo visto già con la Francia che i monumenti sono un fattore identitario: la loro
conoscenza è come la conoscenza della storia patria, e in Toscana questo fatto è estremamente sentito.
Questa commissione viene istituita due giorni prima del plebiscito come un fatto compiuto ed è formata da
professori dell’accademia di belle arti dei vari rami delle arti sorelle, ossia pittura, scultura, architettura e
anche paleografia diplomatica. Quest’ultima riguarda le scienze archivistiche che sono alla base della
conoscenza e della verifica dei fatti storici nei documenti scritti e fanno parte delle conoscenze dei cultori
d’arte che convergono nell’attività della commissione conservatrice. Quindi dopo questo primo momento in
cui viene lasciata cadere l’iniziativa di demolire i tre avelli, nel 1864 il comune si rifà vivo per proporre questo
taglio che si vede nella pianta della chiesa di S. Maria Novella. La commissione conservatrice vede indirizzarsi
questa questione da parte del comune perché gli enti pubblici ed ecclesiastici sono tenuti a chiedere il parere
di questa commissione, che ha il compito di essere il consulente per le questioni di restauro di opere d’arte
della provincia (al tempo era sia per Firenze che Arezzo). Tuttavia la commissione conservatrice ha un grave
difetto di nascita: non ha potere deliberativo. Non può imporre le sue decisioni, può solo dare consigli, e
chiaramente quando non sono graditi non sono ascoltati. In questo caso.
Qui, sopra la scritta “Via degli Avelli”, c’è la cappella della famiglia Della Pura e Ricasoli, e questo è il lato che
si vuole costituire ex novo, ritagliando questa fettina che invece era di troppo per allargare la strada. Siamo
alla vigilia del trasferimento della capitale a Firenze, che avverrà nel settembre del 1864, e la rettifica e
l’ampliamento stradale sono tra le prime operazioni da compiere nell’ambito di un piano regolatore del
centro storico, perché naturalmente si prevede un grande afflusso di persone. Ci saranno grandi lavori per
insediare i Ministeri nei più importanti palazzi, ma anche per accogliere la corte con i numerosi partecipanti
oltre al personale degli uffici. Si prevede quindi un ingrandimento della: fino a questo data Firenze era rimasta
chiusa nelle mura medioevali e l’assetto era rimasto pressoché invariato. È un momento di grande
mutamento, dovuto anche alla storia politica, perché viene redatto un nuovo piano regolatore di
ampliamento di Firenze da Giuseppe Poggi, per disegnare l’assetto stradale sul quale si assesteranno i nuovi
quartieri, demolendo le mura medioevali. In questa situazione, la commissione si ritrova in una situazione di
stallo: vorrebbe negare al comune di fare questa operazione, ma per non pregiudicare la sua capacità di
dialogare con questi enti tentenna un po’.
(slide 4, salta la 3)
Il risultato è che alla fine questa operazione verrà fatta, però dopo che la commissione si sarà dimessa in
blocco proprio per il fatto che non aveva gli strumenti per imporre il suo parere. Di questi avelli, dunque, che
in origine erano 11, ne restano oggi 8 su questo lato. Sotto vediamo il progetto definitivo, che viene
approvato da una commissione, diversa da quella conservatrice che si era dimessa, che è formata
appositamente dal Ministero per aggiustare le cose. Viene quindi approvata la proposta originaria del
comune, e nel progetto si vede il ritaglio di questi tre avelli. L’alternativa che era stata proposta era quella di
ritagliare gli edifici che stavamo sull’altro lato della strada, ma probabilmente la proprietà di questo blocco
di edifici era di una certa importanza e questa operazione non viene minimamente considerata.
(slide 5)
Qui si vede meglio quale era la situazione preesistente. La porzione a destra della facciata, era il cimitero di
S. Maria Novella, ma conteneva diversi altri edifici: c’era la chiesa della confraternita di S. Benedetto Bianco
della quale si vede l’altare (punto 7), poi questa grande aula (punto 6) e gli edifici annessi. Questa operazione
di taglio degli avelli comporterà la demolizione di questo spazio trapezoidale, mentre la chiesa della
confraternita sarà ricostruita vicino alla stazione di S. Maria Novella, che è dietro la chiesa ma dalla parte
opposta. Quindi si va oltre il semplice problema della risoluzione dell’angolo.
(slide 6)
Qui lo si vede ancora meglio. Inoltre, la commissione conservatrice temeva non solo di alterare lo stato delle
cose di questi avelli gotici, ma anche il fatto dando l’assenso ad accorciare questo lato e ad andare dritti, poi
avrebbero voluto anche tagliare la cappella Ricasoli, che è molto importante. Temevano che a forza di
raddrizzare sarebbero arrivati a tagliare via la parte rimasta sporgente. Fortunatamente questo non avverrà,
ma era tra le motivazioni che spingevano ad essere molto cauti.
(slide 7)
Nella foto a sinistra si vede lo stato di fatto iniziale, mentre a destra vediamo il rifacimento di tutto il lato,
conseguente al taglio degli avelli: viene rigoticizzato anche ciò che non lo era. Ad esempio, il portone di
ingresso, che aveva una semplice tettoia, diventa un arco acuto più grande. Già qui vediamo inoltre la
riproduzione per analogia delle arcate sulla Via degli Avelli, sul modello della facciata principale.
(slide 8)
Dopo la costruzione delle arcate nella Via degli Avelli, ci si accorge che la porzione di avelli in facciata appare
vecchia. Perciò Luigi del Sarto, l’ingegnere del comune, propone di sistemare anche quel pezzo di facciata e
a sinistra vediamo degli acquerelli che mostrano il riassetto interno ed esterno conseguente a questi lavori,
che iniziano dopo il 1865. Quindi questa porzione di facciata non aveva bisogno di interventi, ma il fatto che
appariva vecchia e irregolare rispetto a quella nuova spinge a rifare anche questa.
(slide 9)
È interessante quindi come gli avelli della facciata, che erano irregolari perché nascevano da una modalità di
costruzione che non riteneva importante la simmetria, vengano ricostruiti tutti uguali, prendendo la misura
di quello più stretto con quello più largo e stabilendo una lunghezza media, con l’idea di renderli più belli.
Questo è proprio un caso di restauro analogico-stilistico: sulla base dell’analogia con la forma di quello che
c’era prima, si migliora la struttura con l’idea che sia meglio avere degli avelli con gli archi tutti uguali e tutti
regolari. Questi sono i disegni dell’esterno e dell’interno che fanno da guida alla realizzazione.
(slide 10)
Qui vediamo meglio il risultato di questa lettura. In questo caso, quindi, il restauro analogico-stilistico fa
riferimento alle parti che già sono lì ma che vengono corrette. Perciò si contraddice quello che già Viollet
aveva detto, cioè che sono le
irregolarità l’aspetto rilevante per
la conoscenza delle architetture.
Qui già si incomincia a riconoscere
il valore di questa architettura
come testimonianza di un’epoca e
proprio per questo lo si vuole
rendere ancora più perfetto. Si
ottiene questo risultato, cioè di
cancellare la parte autentica
preesistente per renderla agli
occhi della cultura di quel tempo
ancora più gotica. Si fa riferimento
a un’idea dell’assetto e non
dell’autenticità materiale, perché
la materia autentica che aveva
portato ad avere archi irregolari
viene completamente ignorata.
(slide 11)
Questo non ci deve meravigliare, dobbiamo comprenderlo e non censurarlo, ma ci dà anche la misura di
come il modo di leggere l’architettura condizioni il modo di intervenire. In questo caso non era nella mentalità
del tempo l’apprezzamento della autenticità di materiali costruiti nel 1300. Quindi questa porzione a fianco
di S. Maria Novella è tutta dell’Ottocento, non ha niente di gotico.
Siamo negli anni ‘80 dell’Ottocento, e questa prima esperienza, quindi, vede concomitanti due fatti: il primo
è che il restauro inizia a costituirsi come atteggiamento di apprezzamento e allo stesso tempo di volontà di
potenziamento e di correzione; il secondo è che vediamo i primi tentativi di una embrionale organizzazione
della tutela, che poi saranno fondamentali per la storia della tutela al patrimonio storico artistico italiano. La
commissione che viene istituita dal governo provvisorio della Toscana, dura 5 anni, dal 1860 al 1865, e
nonostante sia stata un’esperienza fallimentare farà capire quali sono i limiti di questi organismi per la tutela.
I tempi non sono ancora maturi perché ci siano degli organismi deliberanti, che quindi decidono. La prima
legge della tutela è dei primi del Novecento, e nasce nel momento in cui si trova una mediazione tra il diritto
di proprietà privata e il valore pubblico dello stato, quindi della comunità dei cittadini rispetto a oggetti che
hanno un’importanza che va al di sopra della propria individuale. La commissione conservativa vive poco
perché rimane nella ambiguità la sua capacità di azione, per esempio cercherà di redigere un regolamento
sul suo funzionamento e lo manderà a più riprese al Ministero ma nessuno risponderà mai, perché in quel
contesto la risposta era difficile. Ciononostante, questo organismo, che vede la dimensione provinciale o di
più provincie insieme, aveva ispettori che andavo in giro a cercare le opere d’arte, soprattutto nelle chiese di
campagna. In queste chiese, infatti, venivano venduti sottobanco oggetti preziosi: in quel periodo i mercanti
d’arte inglesi e americani fanno spedizioni in Italia proprio alla ricerca di questi beni artistici, e spesso i parroci
di campagna avendo magari problemi di fondi vendevano questi beni. Nel momento in cui si incomincia a
redigere un inventario di questo patrimonio, si stabiliscono dei limiti. Naturalmente continuano lo stesso le
vendite illecite, ma si sta strutturando questo tipo di funzionamento.
Nel 1866, sotto il regno d’Italia, saranno istituite delle nuove commissioni, sul modello di quella fiorentina,
in diverse provincie italiane per la conservazione degli oggetti d’arte e monumenti. Queste commissioni
avranno proprio nel nome il titolo di commissioni consultive, cioè si riconosce ufficialmente il limite che
hanno, ma si aumentano in estensione: vengono istituite in diverse provincie. Questa dimensione consultiva
continua per i motivi che abbiamo appena visto, ma perlomeno viene ufficializzata. La commissione
conservativa che si era dimessa, infatti, fu attaccata da tutti i fronti, e in particolare dalla stampa, perché non
era chiaro il suo limite di azione e veniva quindi accusata di non proteggere il patrimonio artistico e
monumentale. Dopo queste commissioni del 1866, verrà emanato un nuovo decreto tra il 1874 e il 1876 che
stabilirà in tutte le provincie del regno questi organismi che, seppur consultivi, iniziano a coprire il territorio
nazionale. Questi organismi avevano lo scopo di conoscere, cercare e sorvegliare, dando dei pareri e
rendendo noto ciò che dovrebbe essere il miglior modo di operare. Sarà solo verso la fine del secolo, nel
1891, che verranno formati degli uffici di dimensione regionale per la conservazione dei monumenti. Questi
uffici avranno per la prima volta un ufficio tecnico con un architetto e cominceranno ad avere la facoltà di
gestire direttamente dei cantieri di restauro. Fu un passaggio estremamente importante perché sono i diretti
antenati delle attuali sovrintendenze, istituite nel 1907. In Lombardia il primo direttore dell’ufficio regionale
di conservazione dei monumenti è Luca Beltrami, figure di grande autorità e autore del restauro del Castello
Sforzesco.
Quindi in questo frangente troviamo due momenti iniziali: da un lato l’applicazione dei criteri di restauro
analogico-stilistico e dall’altro la nascita e l’operato di un primo organismo per la tutela del patrimonio
storico- artistico italiano.
CARLO MACIACHINI
(slide 1)
Dopo aver visto un caso fiorentino, ne vediamo ora uno milanese.
Il panorama italiano è connotato da un atteggiamento molto simile in tutti gli stati che nel 1861 sono sotto il
sovrano piemontese, come la Toscana e l’Emilia-Romagna. La tradizione culturale italiana vede già dall’inizio
dell’Ottocento, se non dalla fine del Settecento, la presenza nei singoli stati preunitari di commissioni, di
deputazioni di storia patria, che si dedicano allo studio dei monumenti del luogo e che si preoccupano della
loro conservazione. Sono organismi che non hanno potere decisionale e sono formati prevalentemente da
cultori d’arte, spesso personalità aristocratiche, perché si tratta di cariche onorifiche o di contributi fatti a
titolo personale verso la cultura locale. Quindi questa attenzione rimane in un campo ristretto di persone
colte, soprattutto considerato che le persone istruite erano molto poche in quanto prevale l’analfabetismo.
Come già la commissione conservatrice del 1860, queste commissioni sono formate da professori della
accademia delle belle arti e spesso rivestono anche ruoli nella amministrazione o sono consulenti del
Ministero: erano anche poche persone che ricoprivano spesso anche più ruoli.
Dunque, questo approccio stilistico-analogico è comune alle diverse realtà italiane e ognuna ha i suoi
architetti restauratori di riferimento: a Milano è Carlo Maciachini. Maciachini fra l’altro non è un architetto
con una formazione regolare rispetto all’epoca: frequenta infatti l’accademia di belle arti di Milano ma come
stipettaio, cioè impara a disegnare mobili. Viene però affiancato dal supporto culturale sulla storia
dell’architettura fornitogli dal segretario dell’accademia di belle arti Giuseppe Mongeri, che è un personaggio
importante della cultura milanese della seconda metà dell’Ottocento. Maciachini si dedicherà quindi anche
ad interventi su architetture, e formulerà una sua idea di restauro, che hanno anche altri architetti suoi
contemporanei e concittadini, come Angelo Colla, che per esempio restaura la chiesa di S. Calimero.
Maciachini dice che per restauro intende la conservazione di ciò che esiste e la riproduzione di ciò che è
manifestamente esistito. Dunque, qui esprime l’ottica che se io so come era posso rifarlo, sempre sulla base
della analogia: se trovo elementi simili nella stessa architettura, non faccio altro che copiarli e rimetterli.
Maciachini aggiunge inoltre che non si deve inventare nulla nel restauro, e ribadisce la necessità di partire da
edifici coevi: quando le tracce dello stato antico sono perdute, è più saggio copiare motivi analoghi di un
edificio coevo e congenero, come diceva il suo mentore culturale Giuseppe Mongeri.
(slide 2)
SANTA MARIA IN STRADA A MONZA
Gli interventi che compie sono intorno agli anni ‘70 dell’Ottocento, e uno dei primi è alla chiesa di Santa
Maria in Strada a Monza. Il nome viene dal fatto che questa chiesa si trovava in origini nella campagna, ed
era dunque sulla strada. La condizione nella quale Maciachini trova l’edificio è quella che vediamo nella foto
del 1869, e si vedono evidentemente tracce gotiche ma anche delle aggiunte successive (come il timpano
curvilineo sopra la porta del campanile, come le due finestre ai lati del portale o quella sopra a lunetta, divisa
in tre settori. Queste modificazioni, soprattutto le due finestre laterali, erano state determinate da modifiche
poste nell’ambito della diocesi di Milano da S. Carlo Borromeo, che erano norme riguardanti anche l’assetto
costruttivo delle architetture religiose. Tra le fonti più antiche che abbiamo per conoscere gli edifici
ecclesiastici ci sono infatti le visite pastorali, ossia quando il vescovo girava le parrocchie della sua diocesi
dando indicazioni sui rifacimenti da fare per il buon funzionamento dell’attività della chiesa. In queste norme
di S. Carlo Borromeo si stabiliva che le chiese di campagna ci dovessero essere delle finestre ad altezza uomo
che consentissero ai viandanti di vedere l’altare e quindi di pregare anche quando l’edificio era chiuso. Con
questo provvedimento tutte le chiese della diocesi di Milano aprono dunque delle finestre ai fianchi del
portale per rispondere a queste esigenze di culto. Tuttavia, nell’Ottocento l’edificio viene indagato per capire
qual è l’impianto originario, e questo si riversa poi sulle finalità del restauro, che vuole rendere più leggibile
l’assetto che aveva all’inizio della sua esistenza. Perciò, la prima operazione che Maciachini compie è di
richiudere le finestre laterali perché sono di fine Cinquecento e non sono coeve alla costruzione. Non cancella
invece la finestra sopra il portale poiché la chiesa è molto buia, ma la reinserisce in questa serie di archetti
acuti che erano andati perduti con la realizzazione di questa finestra. Il campanile, che non era completo,
viene invece integrato con delle forme che sono riferite allo stile dell’epoca e della stessa area geografica: un
paramento di mattoni, un cono cestile posto sulla sommità e il ricondizionamento delle aperture per
omogeneità di stile. In questo caso gli elementi per il ripristino analogico stilistico sono già presenti
nell’edificio quindi basta prender spunto da ciò che è rimasto per riprodurlo anche dove non c’è più.
(slide 3)
CHIESA DI SAN SIMPLICIANO A MILANO
Maciachini sottopone questo progetto alla commissione conservatrice milanese e la situazione preesistente
è quella che si vede in alto a sinistra. C’era questa fronte che in parte è stata intonacata, come spesso
succedeva a questi edifici di epoca romanica o gotica e nei secoli successivi. Anche qui ci sono delle aperture
barocche, come il finestrone sopra il portale e le finestre laterali, perché nel Seicento si cerca di dare
luminosità agli spazi e cambia completamente il concetto di architetture religiose. Maciachini redige un primo
progetto, che vediamo in alto a destra, dove riprendendo gli stilemi dell’architettura lombarda del tempo
riporta in luce il mattone facciavista, trasforma in coppie di bifore il finestrone centrale e in trifore le finestre
laterali. Decora le tracce di arcate che si leggono sul prospetto con un’alternanza di mattone e elementi
lapidei bianchi, che diventano elemento decorativo e sottolineano allo stesso tempo l’andamento delle
pressioni negli archi. In questo caso li vediamo alternati regolarmente, molto spesso li troviamo appunto a
sottolineare la chiave, l’imposta e le reni, come si vede nelle due bifore accoppiate al centro. La decorazione
di queste parti in rilievo non fu tuttavia accettata dalla commissione milanese perché ritenne che potessero
non essere tracce incompiute della facciata originaria ma tracce di un portico che non era stato realizzato, e
quindi non dovevano essere decorate come una parte conclusa. Perciò Maciachini arrivò alla seconda
redazione del progetto, che sarà poi approvata e che corrisponde a ciò che vediamo oggi, e che prevedeva
una facciata dove si leggesse l’andamento delle arcate, con quella più grande al centro e quelle più basse
laterali, ma che non avesse nessuna sottolineatura.
(slide 4)
CHIESA DI SAN MARCO A MILANO
Un altro caso è la chiesa di San Marco, che, come si vede nell’immagine a sinistra, mostrava tracce di aperture
gotiche. È evidente la traccia di un rosone tamponato dove è stato ritagliato una specchiatura lobata
tipicamente barocca. Inoltre, erano state chiuse le finestre ad arco acuto in facciata mentre quelle ai lati
erano state trasformate in rettangolari.
(slide 5)
Questo stato è registrato anche nell’iconografia: a sinistra vediamo il rilievo fatto da Maciachini prima del
restauro e a destra la redazione del progetto. Il cambiamento è radicale e in questo caso l’analogia è più
riferita agli stili coevi e congeneri. Ad esempio, nei pinnacoli posti sopra le estremità delle falde della
copertura della navata principale e quelle laterali. Il rosone invece riemerge completamente, e vengono
aperte delle bifore ai lati delle sculture nelle tre nicchie centrali e viene aggiunto un paramento a facciavista:
viene dunque nuovamente ricondizionato con questa connotazione romanico-gotica, anche se qui
prevalgono stilemi gotici. Qui l’analogia è tutta riferita a esempi che non sono dentro l’edificio ma che sono
altrove, però appartengono alla stessa area geografica e periodo temporale.
(slide 6)
Qui ancora vediamo una foto ottocentesca dopo i restauri e una di oggi. Emerge ancora come l’aspetto di
molti edifici monumentali che noi oggi vediamo in città siano frutto della rilettura fatta dai restauratori
ottocenteschi.
(slide 7)
CHIESA DI SANTA MARIA DEL CARMINE
Questo è il caso forse più estremo, significativo della cultura del tempo e del modo di concepire il valore della
architettura che avevano in quel periodo. Si tratta della chiesa di Santa Maria del Carmine a Milano, in zona
Castello, e nell’immagine in alto la vediamo prima dell’intervento di restauro. Era una chiesa costruita in
epoca due-trecentesca e aveva questa connotazione goticheggiante con gli archi acuti che si leggono anche
sul fronte della facciata. Gli edifici religiosi venivano costruiti a partire dalla parte dell’abside, che di solito è
simbolicamente orientata a est, e poi si veniva avanti, ma tra guerre, carestie e pestilenze, spesso la facciata
veniva chiusa con scarsi mezzi. Questo è ciò che è successo a Santa Maria del Carmine, la cui facciata mostra
all’esterno la struttura degli archi interni con aggiunte successive che avevano decorato il portale di ingresso.
Il progetto di restauro di Maciachini lo vediamo sotto ed è un modello di architettura tipicamente milanese
di quel tempo, se confrontato per esempio con S. Marco si evidenziano diversi stilemi ricorrenti. Maciachini
procede dunque per analogia, ma non interna perché nella facciata non c’è niente che suggerisca queste
inserzioni. L’intervento di restauro finisce dunque col rendere la chiesa un monumento nuovo: quando nel
1875, cioè prima dell’intervento di Maciachini, viene fatto il primo elenco degli edifici monumentali nazionali
italiani, questa chiesa non compare assolutamente nella lista; tuttavia nei primi del Novecento, proprio grazie
agli interventi di restauro, comparirà nell’elenco dei monumenti nazionali. Questo sta a significare come il
monumento diventa antico nel momento in cui è restaurato e da quel momento l’aspetto che avrà sarà
connotato in questi termini.
(slide 8)
CHIESA DI SANT’EUSTORGIO A MILANO
Come abbiamo visto, dunque, il restauro analogico-stilistico recepisce la parte più semplice nella lettura del
monumento rispetto al ragionamento articolato e razionalista che fa Viollet. In Italia ha solo questa
declinazione analogica, e lo vediamo anche nella chiesa di Sant’Eustorgio. Anche in questo caso era stata
intonacata e presentava finestre barocche e fu in seguito ricondizionata negli anni ‘70 dell’Ottocento, sempre
con lo stesso criterio.
(slide 9)
CHIESA DI SAN BABILA A MILANO
Questo atteggiamento, che è di facile acquisizione, lo troviamo protrarsi anche nel Novecento. Un esempio
è la chiesa di San Babila, frutto di un restauro dei primi del Novecento di Cesa Bianchi. Si trattava di una
chiesa che, come spesso succedeva, era stata completamente ricondizionata nel periodo barocco. Le
ornamentazioni barocche rivestivano all’interno e all’esterno la struttura romanica o gotica, e il loro
vantaggio era che una volta demolite mettevano in luce quello che c’era sotto. Ad esempio, venivano
costruite le volte a botte sulle navate e demolendole si vedeva il soffitto a cavalletti, magari dipinto, del
periodo romanico. In questo caso, animato da questo criterio di scrostamento per trovare le tracce
dell’assetto originario, Cesa Bianchi elimina tutte le stratificazioni barocche interne ed esterne ma non trova
niente, perché per vicende costruttive avvenute nel corso dei secoli non era rimasto niente sotto. Si trova
quindi a reinventare una chiesa romanica praticamente di sana pianta. Questo, dunque, è l’inconveniente
dello scavo sul monumento, perché non sempre sotto si trova la traccia precedente. In questo caso l’inganno
dato dal fatto di sapere che era in effetti di fondazione romanica, spinge l’architetto restauratore a cercare
di mettere in luce questo aspetto e assetto originario, ma in realtà quando non lo trova è costretto ad
inventare. Dalla foto vediamo anche che a sinistra c’era un’altra chiesa barocchetta, che nel corso del tempo
fu demolita e sostituita da un edificio a cinque piani, sempre nei primi del Novecento, che è diventato un
condominio ricostruito dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale.
Questo approccio, che è di semplice applicazione, lo ritroveremo ancora nella pratica professionale di
sovrintendenza nel secondo dopoguerra, quindi negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento. Naturalmente le
operazioni compiute nella seconda metà dell’Ottocento da Maciachini e ancora da Cesa Bianchi nei primi del
Novecento rientrano in un contesto culturale che giustifica in certa misura questo approccio. Negli anni ‘60
del Novecento questo è invece testimonianza di mancanza di aggiornamento culturale, perché vuol dire non
conoscere tutto quello che la cultura del restauro ha elaborato dagli ultimi anni dell’Ottocento fino a
quell’epoca. Era di fatto un atteggiamento consolatorio: non ho più l’edificio per come penso che fosse e lo
rimetto insieme secondo un’idea che si appoggia a riferimenti, ma è sostanzialmente di invenzione. È un’idea
che una visione del tempo ciclica, come se si potesse tornare indietro al momento originario. È una visione
della storia mitica, già lontana da quello che la cultura del secondo Ottocento elabora perché è di matrice
positivista e progressiva, che entrerà poco dopo anche nella visione di quello che deve essere il restauro. Ma
questo lo vediamo la prossima volta. Quello che è significativo è che questo approccio, che si fonda sulla
ricerca storica, sottende a un’idea di tempo che torna indietro, che fa un percorso circolare, e quindi è come
se si fondasse sull’astrazione dell’architettura, che è invece fatta di pietre, di aggiunte e di modiche che vanno
avanti nel tempo.
LEZIONE 6
In Italia il restauro è fondato su due concetti fondamentali razionali: quello riferito allo stile assoluto (logica e
rispondenza alle necessità d’uso, quindi la corrispondenza fra architettura e lo scopo per la quale viene
costruita) e quello riferito allo stile relativo (caratteristica stilistica che ci fa riconoscere le varie epoche
costruttive nelle architetture).
Viollet che gira per la Francia ha una conoscenza sperimentale delle architetture, mette in evidenza che a
seconda della regione in cui si trovano, anche nello stesso periodo, si trovano degli stilemi differenti.
Anche il romanico in Italia ha delle modalità espressive e caratteristiche differenti: ricorre in Lombardia, con il
mattone, in Sardegna e in Toscana, con connotazione di rivestimenti marmorei a fasce policrome. Traduce
quindi il linguaggio architettonico della stessa epoca utilizzando i materiali che ha a disposizione.
Nella storia del restauro gli avanzamenti della riflessione teorica arrivano poi ad avere una ricaduta effettiva
nella pratica, quindi nel cantiere, con una certa lentezza, e questo accade in particolare a partire dal discorso
di Camillo Boito.
Il restauro analogico, ovvero il restauro che si basa su forme simili dell’edificio o di quelli della stessa epoca,
proseguono sino alla fine del 1800.
Occorre ricordare che i riferimenti per questa operazione sono quelli che i restauratori trovano nelle storie
dell’architettura, organizzate in sequenza cronologica.
Tuttavia, occorre precisare che per Viollet il restauro analogico stilistico ottiene la messa in pratica di un’idea di
un tempo circolare, come se il restauratore potesse far tornare l’edificio nel momento originario, quindi
secondo un’idea di andamento ciclico del tempo.
Nell’Ottocento prende forma un’altra idea di storia intesa come avanzamento progressivo. Si deve ricordare
che si tratta di un secolo di progressi, dove si spera che le condizioni dell’economia e della società migliori,
dove vediamo l’industrializzazione attraversare l’Italia.
L’idea di storia che appare nella cultura ottocentesca, nei due grossi rami che si snodano in parallelo, sono da
una parte l’idealismo e dall’altra il positivismo, che vedono entrambe la storia come sviluppo, quindi come
progresso verso un futuro sempre migliore. Nel caso dell'idealismo si tratta dell'evoluzione dello spirito, nel
caso del positivismo è la successione di fatti concreti secondo un legame necessario in una concatenazione di
cause ed effetti in visione del futuro, che sarà sempre migliore.
Questa visione di sviluppo progressista lo troviamo in Boito nel leggere gli edifici del passato.
Questa catena di eventi era il cardine della cultura ottocentesca (scopro A e B, trovo C, ovvero la scoperta, il
progresso).
È stato uno scrittore prolifico, scriveva articoli sulle principali riviste dell'epoca, come ‘Il Crepuscolo’ o ‘Lo
spettatore’, o il ‘Politecnico’. Il suo parallelo per un certo periodo è ‘Il giornale dell'ingegnere architetto e
agronomo’, riviste fondamentali per la diffusione delle conoscenze non solo letterarie e filosofiche, ma anche
tecniche e pratiche per gli ingegneri. scrisse anche su una rivista molto importante, nuova antologia.
Fra i testi principali sono da ricordare: il volume sull'architettura del Medioevo in Italia, che ha pubblicato a
Milano nel 1880, uno sul Duomo di Milano del 1889, ed un volume che riassume e contiene contributi di
elaborati di vecchia data intitolato ‘Questioni pratiche di belle arti’ del 1893.
Fonda anche una rivista che si intitola ‘Arte italiana, decorativa e industriale’ che nasce nel 1892.
Fu una figura di rilievo, pensando solo al fatto che sia stato membro del consiglio superiore dell’antichità Belle
Arti, struttura consultiva del ministero della pubblica istruzione, nell’ambito del quale ebbe anche una parte
importante per la promozione nel dare pareri sui restauri dove erano presenti idee controverse.
L’atteggiamento di Boito verso l'architettura risente dell’insegnamento di Pietro Selvatico. Nonostante ciò
presenta legami verso la tradizione razionalista, ponendola al centro della valutazione della qualità
dell’architettura. Boito, pur avendo tutta l'attrezzatura culturale del caso, dà un grande spazio all'aspetto
sentimentale dell'approccio all'architettura. Si tratta di una caratteristica personale.
E’ noto il rapporto che aveva con l’allievo Luca Beltrami in relazione alla questione su quale fosse l'epoca
originaria del Duomo di Milano. Nel 1860 era entrata in Italia la cultura dell'evoluzione di darwin. Luca Beltrami
assume questa visione dell'evoluzionismo nella sua lettura dell'architettura (l’evoluzionismo si basa sul fatto
che le specie si evolvono, e le specie hanno in generale un carattere dominante ed uno recessivo, che e
quella caratteristica che per adattarsi all ambiente nello sviluppo della specie viene abbandonato e
modificato). Quindi l'incapacità di adattarsi porta l'estinzione della specie. Sulla base di ciò, Beltrami afferma
che il Duomo di Milano ha un aspetto gotico solo per apparenza, e che in realtà l'impianto è di tipo romanico,
quindi precedente. Giustifica questa sua lettura affermando che, come nell'evoluzione delle specie, il carattere
gotico è stato acquisito dalla fabbrica costruttrice che si adatta ai metodi costruttivi dell'epoca che attraversa e
che agisce in maniera preponderante sulle sue caratteristiche stilistiche. Mentre il carattere dominante è
l'impianto romanico.
Si contrappone Boito esprimendo il suo pensiero, ovvero che osservando il Duomo, il sentimento che desta,
l’impressione che dà, è quella di vedere un’architettura gotica.
Considerando che ci troviamo in un periodo in cui si diffonde la stagione culturale dell’eclettismo storicistico,
tutti gli architetti impiegano stili diversi nel costruire e spesso si associa uno stile ad una funzione o ad una
caratteristica dell’edificio, esempio: per gli edifici religiosi si preferisce lo stile gotico perché lo slancio verso
l'alto sembra più affine alle divinità religiose; gli edifici destinati alle funzioni pubbliche, come può essere una
borsa dove si contrattano i titoli finanziari o le merci, si utilizza lo stile classico, che richiama all'epoca della
basilica come luogo di vita civile…
Boito è contrario all'eclettismo in quanto la sua idea di architettura sostiene che ogni epoca esprime la sua
architettura, e viceversa, conoscendo l'architettura di un'epoca passata noi possiamo riconoscere la civiltà che
l'ha prodotta. Questa corrispondenza fa sì che nel momento presente, che è quello della formazione dello
stato unitario, bisogna individuare un'architettura nuova che corrisponda alla nuova condizione dello stato
italiano.
L’architettura deve trasmettere anche valori positivi del passato, non a caso a partire dalla metà dell’’800 fino a
Boito sono presenti diversi monumenti che rappresentano l'antica unità della civiltà italiana, in particolare del
periodo del Medioevo o dell'età dei comuni. In quest’ultimo momento storico sorgevano palazzi comunali, i
primi edifici civili inseriti nell'elenco dei monumenti nazionali perché individuati come rappresentativi di un
tempo storico lontano, rappresentanti questa radice unitaria dei popoli che abitavano la penisola e che si sono
unificati per poi dividersi in Stati diversi.
Boito si rende conto che i monumenti del passato sono testimonianze importanti e di valore, per questo non
bisogna alterarli, in quanto documenti della storia.
Questo provocherà un modo diverso di concepire il restauro, in quanto si opera in base alla conoscenza del
materiale con cui si ha a che fare, rimanendo positivamente condizionati nelle scelte di messa in opera.
Fra gli aspetti più importanti del restauro e della conservazione degli edifici, Boito prende in riferimento un
motto di un archeologo francese: “Il restauratore deve fare in modo che quello che deve aggiungere o quello
che deve eseguire è fatto adesso. Debbo far sì che ognuno discerna l'opera mia sia tutta moderna”.
Vuole quindi dar conto dell'attualità dell'opera, che non è stata stratificata da diversi interventi. Sostiene
dunque la gradualità dell’intervento, evitando di giungere a situazioni drastiche, si opera a misure minime e se
necessario si procede con interventi più importanti. Non si devono mortificare le opere artistiche.
La storia dei monumenti è vista da Boito come una successione di fatti, che possono corrispondere al
precedente argomento trattato sulla progressione e sviluppo della costruzione degli edifici nella storia: sono le
espressioni stilistiche corrispondenti agli stili architettonici che si susseguono nelle varie epoche.
Gli storici francesi nominano ‘storia evenemenziale’ il periodo ricostruito in sequenza di fatti del passato
riportato dagli storici. In tale trascrizione vengono considerati solo i fatti importanti, le date precise, le figure
rilevanti di uomini che hanno regnato eccetera. Tutti eventi staccati uno dall'altro, dove il legame è
meccanicistico, necessario, cosicché da un punto si riesca a ricostruire l'intera storia dei monumenti.
Dopo la sua morte, Camillo Boito fu ripreso in considerazione da uno storico dell’arte, Carlo Ludovico
Ragghianti, nel suo libro di storia dell’arte in cui a proposito di Boito affermò che scrisse tutto e il contrario di
tutto. Boito era una persona molto ricettiva riguardo tanti argomenti e riusciva a sintetizzarli nei suoi scritti in
modo molto efficace però non arrivò mai a dare una soluzione netta alle questioni che affrontava, forse per
la necessità di un ulteriore maturazione della sua idea, forse per il suo carattere.
Per esempio, sosteneva che il nuovo Stato nazionale unificato doveva necessariamente avere uno stile
architettonico che gli corrispondesse, secondo l’idea che il monumento è un documento della civiltà che l’ha
prodotto e che evolve con essa, ma non avrebbe visto di persona questa architettura perché il restauro che
si operava all’epoca era il restauro eclettico che negava questa corrispondenza biunivoca tra monumento e
civiltà. Tuttavia, non riteneva disdicevole costruire un edificio barocco a Roma o un edificio medievale a
Firenze perché erano stili molto presenti in quelle città. Se da un lato si fa oppositore delle teorie eclettiche
che usano gli stili indifferenziatamente, dall’altro riconoscere una cifra predominante dal punto di vista
stilistico in una città piuttosto che un’altra. Dallo stesso Beltrami, suo allievo, fu descritto come una persona
molto colta e molto attenta, ma in fondo non considerabile come un maestro. Si consideri che, comunque, si
parla di una figura ottocentesca, che risente del clima romantico, appartenente al movimento figurativo e
letterario della scapigliatura, fattori che convergono nel far sfumare la nettezza dei limiti che il suo pensiero
avrebbe potuto avere.
in ogni caso fu un personaggio significativo nella cultura del restauro per la sua assegnazione di valore
documentario al monumento e per la necessità che il restauro non falsifichi la storia del monumento, aspetti
estranei a chi operava nel restauro analogico stilistico. La concezione di Boito sarà sviluppata in anni
successivi da Gustavo Giovannoni che apre il restauro del 900. Tutt’oggi la riconoscibilità dell’intervento è un
valore acquisito e messo in atto.
CONOSCENZA DIRETTA DELL’ORGANISMO COSTRUTTIVO
LA CONOSCENZA DIRETTA
La conoscenza diretta della fabbrica inizia dal sopralluogo. Il
sopralluogo deve seguire delle regole. Di solito si stabilisce un
senso di percorrenza, orario o antiorario, che deve essere lo stesso
per tutti i piani, così da non dimenticarsi di nessuno spazio. Si
guarda, per esempio, l’orientamento dell’edificio perché questo può
determinare eventuali degradi. Il Nord è meno esposto al sole, il
Sud è più esposto, ma possono influire anche le caratteristiche del
luogo specifico nel quale si trova l’edificio.
Alla base della conoscenza diretta c’è il rilievo metrico e
architettonico, cioè la misura e la quantificazione delle distanze e la
cognizione delle caratteristiche dell’architettura. Dopo le misurazioni
e la restituzione del rilievo della “forma” si esegue l’analisi dei
volumi e degli spazi, fondamentale per individuare un nuovo uso possibile. Quindi si precede con il progetto
di riuso.
Dall’altra parte bisogna considerare le caratteristiche delle strutture che l’architetto deve saper riconoscere.
Se un edificio ha una muratura continua, cioè fatta in mattoni e malta, avrà fondazioni continue; se è in
cemento armato avrà delle altre caratteristiche strutturali. A quest’analisi costruttivo strutturale segue il rilievo
dello stato di conservazione sia dei materiali che delle strutture. Ad esempio, se si ha un quadro fessurativo,
si dovrà verificare con dei sistemi di monitoraggio se è incorso un fenomeno di dissesto o se il dissesto è
avvenuto in un tempo passato ed è ormai stabilizzato; lo stesso vale per i materiali di cui è fatto l’edificio. Poi
si cerca di individuare le cause del degrado e di fare una diagnosi e si programmano gli interventi tecnici.
L’ORGANISMO COSTRUTTIVO
Un esempio importante di
architettura è la Cappella
Pazzi a Firenze del
Brunelleschi di metà 400. È
preferibile associare alla foto o
alla vista un disegno, un rilevo
dell’architettura perché aiuta a
capire quali sono gli elementi
che la compongo.
In questo caso, a seguito di un
rilievo geometrico, è stata fatta
questa assonometria che
scompone la cappella e permette di capirne il funzionamento.
LE APERTURE
Lo schema a sinistra mostra due tipi di apertura, una ad arco con le
spalle di mattoni e la ghiera di mattoni messi a raggiera e l’altra fatta
con architrave e stipite. Quello a destra è il sistema trilitico, basato
su due piedritti e un traverso, ovvero il principio che troviamo nel
Partenone; mentre a sinistra l’arco, inventato dai romani, è una
struttura spingente che non trasmette il carico soltanto
verticalmente, ma presenta delle forze inclinate che si trasmettono
da un concio all’altro della raggiera.
Nell’immagine a destra sono visibili gli archi di scarico che
originariamente furono costruiti superiormente alle aperture. Infatti, la struttura dell’arco scarica le forze
lateralmente su quello che si chiama il maschio murario, ovvero la parte muraria priva di aperture, e quindi
più resistente.
L’intervento operato in questo caso è, quindi, inadeguato, perché tratta gli archetti come archi decorativi e
mostra un’idea male intesa di restauro filologico, oltre a una mancanza di conoscenza del sistema
costruttivo. Gli archi di questo tipo nascevano per essere intonacati e nascosti alla vista.
Quest’operazione è un po’ come la sabbiatura che si può vedere nei piani terreni o nei negozi nei centri
storici dove c’è un’apparecchiatura muraria con volte che il più delle volte nascono per essere rivestite di
intonaco e invece vengono messe in vista.
Questa immagine mostra un’altra finestra ad arco e due archetti
all’interno con la colonna al centro e l’accorgimento dello scarico
laterale delle forze.
Analoga suddivisione dei carichi si vede nella foto in basso a
sinistra dove ci sono due architravi poggianti su una colonnina
centrale. Qui la presenza del sostegno centrale è necessaria perché
la lastra di pietra usata come architrave, non essendo elastica, si
spaccherebbe se avesse una lunghezza maggiore; infatti non si
trovano mai grandi luci aperte sotto architravi di pietra.
Prima pagina:
Nella finestra di sinistra inserire un disegno schematico con
didascalia. Si possono fare schizzi scrivendo disegno dal vero di
… e data. Se si prende un’immagine da internet si dà un
titolo/didascalia e si mette l’indirizzo web e la data di
consultazione).
A destra inserire una fotografia (molto apprezzata una foto fatta
da noi)
Non bisogna consultare i testi di tecnologia dove si trovano gli
elementi costruttivi moderni costruiti in maniera anche diversa,
ma preferibilmente i manuali di architettura dell’Ottocento e dei
primi del Novecento anche per ampliare la conoscenza di elementi costruttivi antichi con cui non abbiamo
molta familiarità.
Descrizione:
(Nel pdf 3_BIBLIO-SITOGRAFIATESTI c’è un elenco di testi di
riferimento che si possono consultare.)
È apprezzato lo sforzo di riassumere con parole nostre.
Se si ricopia si mette tra virgolette e in corsivo per far capire che
non sono parole nostre.
Quando si cita all’interno della descrizione basta il nome, l’anno
e la pagina della fonte, poi nei riquadri alla fine ci sarà
l’indicazione completa.
La scheda in tutto ha una lunghezza massima di tre pagine.
Bibliografia e sitografia:
come da indicazione
Come procedere:
Per prima cosa andare a verificare sul vocabolario o sull’enciclopedia Treccani che cos’è l’elemento per non
andare incontro a equivoci perché anche se è sintetico è una fonte scientificamente attendibilissima. Spesso
c’è un nome usato nell’edilizia che però ha anche altri significati (a volte anche più di 5).
Come primo riferimento usare dei dizionari di architettura che sono come dei glossari illustrati che già hanno
delle descrizioni che possono dare dei buoni riferimenti.
Ci sono anche dei manuali storici importanti pubblicati in diversi volumi che in parte si possono anche
trovare online scansionati ma difficilmente completi. Guardare prima l’indice perché possono essere molto
lunghi.
Quando si va sugli OPAC delle biblioteche fare attenzione al numero del volume che interessa e alla
posizione delle tavole correlate perché spesso sono a parte.
Per gli altri riferimenti di bibliografia e sitografia guardare pdf 3_BIBLIO-SITOGRAFIATESTI.
Lezione 8 Data 04/11/2022
Proseguiamo il discorso di storia e cultura del restauro, per capire i 2 fronti diversi di conoscenza della fabbrica che sono
dal un lato la conoscenza indiretta, (sulla quale è abbiamo svolto la prima esercitazione) attraverso le bibliografie, testi
presenti in più copie. L’altra cosa invece sono i materiali archivistici presenti solo nel posto in cui sono conservati. Tutti
questi, insieme alle fotografie, sono le conoscenze indirette riguardante la fabbrica.
L’altro fonte di conoscenza della fabbrica è la fabbrica stessa, (sulla quale svolgeremo la seconda esercitazione per
avvicinarci ad alcuni elementi che costituiscono gli edifici storici, nella loro concretezza). I termini del cantiere,
dell’edilizia storica sono termini che nascono dall’uso quotidiano e risentono dei lessici geograficamente localizzati.
Proseguiamo il discorso che esamina come nel corso della storia è stato concepito il restauro.
La volta scorsa, abbiamo preso in considerazione la nascita del cosi detto ‘’restauro filologico’’, termine nato dopo il
pensiero di Camillo Boito, a fine 800, ed è riferito al fatto che si tratta di un’idea di restauro che chiede l’accertamento
della verità dei fatti storici, riconoscibili nell’edificio.
Camillo Boito presentò questa idea nel 1883, in un convegno a Roma dove elencò i passaggi e le modalità con cui il
restauratore può perseguire questa finalità di verità.
Sull’edificio, si devono leggere i passaggi più importanti della sua vita. Quindi, se troviamo la parola stratificazione per
indicare questi passaggi, non è una parola del tutto appropriata. La parola stratificazione sta a intendere sedimentazione
continua. Il termine più appropriato sarebbe Cronologia.
Nel 1883, a Roma, dove si trovarono tutti i più importanti architetti, venne approvata questa mozione, nella quale
appunto si riconobbe come i monumenti abbiano una vita che inizia in un certo momento e che i passaggi importanti
della loro storia dovranno essere tutti riconosciti, compreso l’ultimo che è il restauro. Però, sono tutti restauratori
analogici, quindi approvarono questa mozione, ma ognuno fece i propri restauri analogici come quello al Maciachini a
Milano.
Questo è il quadro della situazione, che non trovò un riscontro imminente perché fu un passaggio epocale, che lascerà
un segno nel 900, dove Gustavo Giovannoni, riprenderà questo discorso perfezionandolo e soltanto negli anni 20 del
900, ci saranno dei restauri, che proveranno a mettere in pratica queste idee. L’intervento contemporaneo non deve
essere mimetico ma si deve riconoscere.
Giovannoni, è stato un personaggio importante in Italia, nella cultura del restauro del 900, perchè impostò un restauro
moderno e come accade spesso con questi personaggi, ebbe anche ruoli molteplici nell’insegnamento nell’architettura
(Facoltà di Architettura di Roma 1919 -1920), data nella quale nacqero le facoltà come metodo di insegnamento.
Fondò una rivista con Marcello Piacentini (architetto e urbanista attivo negli anni 30).
Nel 1935, fondò un centro di studi di architettura ancora esistente e attivo, mentre, 2 anni dopo, fondò la rivista Palladio
ancora esistente.
Come architetto invece non realizzò tante opere: come edifici nuovi, si può ricordare il Palazzetto Torlonia a Roma e la
Chiesa degli Angeli, mentre, per il restauro non abbiamo un esempio che riprenda il suo stile.
Il discorso aperto da Giovannoni, venne ripreso da Boito, che secondo un’idea di restauro, lo chiamò ‘’restauro
scientifico’’, intendendolo come un tipo di restauro che corrisponde a un rigore metodologico e anche al fatto che
rappresenta una scelta dedicata anche studiosi di diversi campi. In pratica, se per Boito il monumento è un documento
storico artistico, per Giovannoni è un documento con un’ampiezza molto più ampia, che interessa la storia delle leggi,
dei costumi, dei modi di costruire. Per questo motivo, sostenne la necessità di una commissione di studiosi che
concordino la soluzione progettuale. Questa sua idea di documento è sempre incardinata sulla storia positivista
ottocentesca che persiste come fonte di riferimento fino agli anni 50 del 900.
Tra le opere scritte di Giovannoni, si possono ricordare lo scritto ‘’Attraverso la storia dell’architettura ‘’Questioni di
architettura nella storia e della vita del 25’’ e ‘’Vecchie città dell’edilizia nuova ‘’.
Inoltre, nel 1942, negli ultimi anni della sua vita, scrisse un testo importante sulla cupola di San Pietro, ‘’Restauro dei
monumenti’’ derivato dai suoi appunti. Fu un periodo di guerra, dove ci furono notevoli distruzioni che misero in crisi il
discorso del restauro filologico.
Il suo primo contributo sostanziale sul restauro, avvenne in una riunione di sovraintendenti nel 1912.
Lui pose attenzione anche all’ambiente circostante al monumento e ai modi di intervenire sul tessuto urbano.
Questa teoria la chiamò ‘’Teoria del diradamento’’ che si contrappose agli sventramenti urbanistici.
Nei centri storici, l’uso e la sovrapposizione di costruiti e di utenti portò a un riempimento molto elevato, portando
danni nella vita comune (sanità, igiene).
Opponendosi all’idea dello sventramento che per esempio portò alla Via della Conciliazione, cercò di trovare una sola
soluzione, senza demolire i centri storici anche se poi, nel periodo fascista lui contrappose questa idea.
Nel 1902, ci fu la legge Nasi, che stabilì la separazione delle carriere: fino a quel momento nelle sovraintendenze,
venivano chiamati a collaborare anche i liberi professionisti, ma da quell’anno vi saranno solamente dei funzionari
entrati per concorso. Questo porterà anche a una sorta di isolamento delle sovraintendenze rispetto alle attività
professionali perché questi due mondi si staccarono in maniera sempre più evidente.
Giovannoni fu importante anche per il fatto che fu il portavoce della cultura italiana del restauro nell’ambito di una
conferenza ad Atene nel 1931. Venne tenuta ad Atene perchè in quel periodo si iniziò ad utilizzare con frequenza il
cemento armato, e proprio in questa fascia temporale l’architetto Balanos fece un restauro. Questa tecnica nuova
(cemento armato), non fu condivisa dagli archeologi perché suscitava della perplessità.
Questa conferenza segnò come il restauro diventò la collaborazione degli stati perché i monumenti sono patrimonio
collettivo dell’umanità.
Giovannoni, ribadì che conservare è meglio di restaurare, quindi c’è una gradualità degli interventi, cercando di fare
manutenzione. Il restauro è un male per il monumento quindi bisogna evitare di arrivarci.
Il suo sguardo vide applicare un approccio che mise in rilievo l’uso, dove arrivò a stabilire 2 grandi categorie di
monumenti: vivi e morti.
I monumenti vivi sono i monumenti che per costruzione e distribuzione possono essere adattati ad un uso
contemporaneo.
I monumenti morti invece non hanno utilizzazione pratica e sono lontani dalle consuetudini d’uso. (patrimonio
archeologico).
Questa suddivisione era già stata prescritta da un architetto belga.
Per quanto riguarda questa differenza tra i monumenti, vennero stabilite delle modalità differenti di intervento:
in quelli morti l’unico intervento consentito è l’anastilosi, cioè una ricomposizione dello stesso elemento con i pezzi
superstiti. In campo archeologico vi fu l’inserimento di piccole porzioni di altri elementi (malta, zeppa).
Per i monumenti vivi invece, ci sono delle categorie che costituiscono tutte le fasi fattibili su un monumento: restauro
di ricomposizione, restauro di innovazione.
La stratificazione quindi, va sempre intesa come evento accaduto sull’edificio ben circoscritto e riconoscibile che fa
parte di questa storia, leggibile sul monumento.
L’avanzamento che fece Giovannoni fu proprio questo. Il primo documento è il monumento stesso.
Il Monumento è un documento di una civiltà, di un sistema di governo, e proprio per questo motivo si va oltre, si cerca
nella muratura le tracce della sua storia, con un procedimento di tipo archeologico per ricercare gli stati precedenti (in
alcuni casi si analizza l’edificio anche spicconando per vedere gli stati passati). È quello che succede con i capitelli che
vengono tamponati.
Quindi, l’idea ingenua di andare a riaprire il portico, per mettere in vista le colonne che reggevano le arcate, fa trovare
il restauratore davanti a dei capitelli mozzati e di fronte a questo il restauratore non sa più cosa fare, ed è quello che
successe al sovrintendente Alfredo Barbacci che svolse un’operazione simile a Firenze, nel portico dell’Accademia delle
Belle Arti. Trovò dei capitelli impresentabili e li ricostruì rendendoli nuovi, pur essendo una persona che aderiì ai criteri
del restauro archeologico, per cui non si ammetterebbe una falsificazione.
Quindi nell’ambito del restauro che vedremo negli anni 20-30, cominciò a trovare in cantiere una corrispondenza con
queste idee e si arriverà a portarle ad un estremo con tutte le implicazioni che questo comporta.
Quello che importante ricordare, è che ancora nell’ambito di quest’idea, c’è solo una preoccupazione relativamente
all’aspetto dell’edificio, non c’è un’attenzione particolare alla materia di cui è fatta. Quello a cui si fa attenzione, è l’esito
finale rispetto a come sarà l’aspettò del monumento, che, in questo caso non sarà più un’unità riconoscibile come unità
stilistica, ma sarà una sommatoria di tracce di epoche diverse, che convivono per esempio sulla stessa facciata o che
convivono all’interno dell’intero volume proprio.
Giovannoni ribadì, come già si diceva all’ inizio, il fatto che è importantissimo utilizzare gli edifici.
Un dato fondamentale nel pensiero di Giovannoni che lui stesso esplicita è che ‘’un architetto è tanto più un buon
restauratore quanto meno è un buon architetto ’’ nel senso di creativo perchè si pone al servizio dell’edificio, cerca di
far parlare dell’edificio e non sovrappone le sue bell’età creative sull’ edificio stesso.
Quindi l’architetto restauratore, deve mettere in luce ancora di più questo valore documentario, deve mettersi al
servizio dell’edificio e quindi le sue abilità creative le deve tenere a bada.
Inoltre è importante anche l’ambiente circostante. Questo è un passaggio nuovo nella cultura del restauro, perchè fino
a questo momento si interessava della fabbrica in sè. Giovannoni cominciò a mettere in rilievo che l’edificio riceve dal
suo contesto un’ulteriore valorizzazione. Questo è un primo passaggio, che appunto è estremamente significativo.
C’è poi la dimensione urbanistica, che è la teoria del diradamento, che è una sua idea di intervento alla scala della città
con lo scopo di risanare il tessuto edilizio. I casi clamorosi di questo periodo furono l’apertura della Via della
Conciliazione, che inquadra in prospettiva San Pietro, demolendo un intero quartiere a pianta triangolare, che si
chiamava spina di borgo e che fra l’altro consentiva di arrivare a piazza San Pietro con dei tracciati non diretti ma laterali
quindi aumentava lo stupore nella scoperta di questi spazi.
Un altro aspetto interessante, che emergerà nella conferenza di Atene, è quanto Giovanni pensò all’utilizzo della tecnica
moderna del restauro. Su questo aspetto condivide tutte le tecniche moderne del restauro, ma il consolidamento con
queste tecniche può essere fatto solo quando il consolidamento tradizionale non risolva i problemi.
Tutte queste categorie implicano che si riconosca l’opera fatta del restauratore nel momento presente.
La conferenza non va confusa con quella dell’architettura
moderna del 1933 promossa da Le Courbusioer.
Nella cultura architettonica del tempo, vi erano degli stili architettonici non apprezzati come il Barocco, e si disse
all’interno della conferenza, che questi stili non sono da condannare, non sono da mettere nella lista dei reietti e con
ciò indica una linea di tendenza, che di fatto arriva a riconoscere che tutti gli stili di tutte le epoche sono degne di
conservazione
Si ribadì inoltre, che quando possibile, bisogna garantire l’occupazione dei monumenti e che assicurino la continuità
vitale. Purché la moderna destinazione sia tale da rispettare il carattere storico e artistico. Ovviamente un uso
incompatibile può portare a dei problemi.
A Miano, nell’800, la chiesa di San Vincenzo in Prato fu espropriata e comprata da una ditta che produceva acido
solforico. Le pareti subirono molti danni e verso gli anni 80 dell’800, ci fu una rivoluzione dei principali cultori d’arti per
la salvaguardia di questa chiesa. Partì il restauro: i danni erano tali che venne sostituita tutta la muratura perimetrale
fino a un’altezza di 9 metri.
Altro aspetto durante la conferenza di Atene fu rispetto alle rovine e i reperti archeologici.
Per i reperti dove non vi erano la presenza di sufficienti materiali per non conservarli dovevano essere riseppelliti,
naturalmente dopo averli studiati e fatto tutti gli esami del caso, perché era il modo migliore per proteggerli.
Il fulcro principale di questa conferenza fu però quello che riguarda l’utilizzo delle nuove tecnologie. Vennero approvate
le tecniche moderne nel restauro, soprattutto il cemento armato.
Questi elementi di rinforzo, devono essere dissimulati per non alterare l’aspetto e il carattere dell’edificio da restaurare.
Non c’è possibilità di scelta progettuale, perché in quel periodo, vi è un ambito dove nel restauro si pensava solamente
all’aspetto e non all’autenticità della materia. Per esempio le colonne di San Lorenzo, a Milano, furono restaurate con
questo stile, dopo la seconda guerra mondiale.
La conferenza di Atene, per concludere, invitò tutti gli stati partecipanti a redigere un inventario del loro patrimonio
storico artistico e auspicò che al ritorno, ogni stato rediga una sua carta nazionale del restauro. In Italia sarà fatta da
Giovannoni, che nel 32, che pubblicò sul Bollettino d’arte le norme per il restauro dei monumenti, che ricalcano quanti
ribadito nella carta di Atene, ma temperata proprio dalla interpretazione personale.
Nella Carta italiana, si precisò inoltre che si debba attribuire importanza alla manutenzione per assicurare durevolezza
agli edifici. Il ripristino invece, deve essere vietato e si possono riprodurre delle parti solo se documentate. Per i
monumenti viventi si devono utilizzare solo utilizzazioni che non siano troppo lontane dalla destinazione primitiva.
La storia che legge Giovannoni sui monumenti è solo quella rilevante. Il tamponamento, l’apertura di una porta sono
considerate ‘’superfetazioni’’ termine utilizzato da lui stesso per chiarire qualcosa che si è aggiunge per motivi pratici
ma non rilevanti.
La Carta è la sintesi concordata dai presenti sui punti nel quale vi è consenso comune, ma non ha un valore normativo.
Le carte indicano le vie per il restauro, ma non costringono nessuno a seguire le indicazioni date perché non erano
leggi. Tuttavia nel 38, la carta italiana del restauro, venne sintetizzata nelle istruzioni per il restauro dei monumenti,
che diventarono una specie di sistema di riferimento per le sovraintendenze assumendo un carattere normativo.
Da questo momento il restauro ufficiale delle istituzioni seguirà i dettati del restauro filologico.
Nelle istruzioni si ribadirono i criteri del restauro filologico, si abolì questa suddivisione tra i monumenti vivi e morti e si
abolì anche un’altra operazione contemplata nelle 2 carte precedenti: il trasporto dei monumenti. Venne approvata la
possibilità di spostare i monumenti nel caso non si trovino più in un contesto connaturato con le loro caratteristiche.
Nel 38 venne definitivamente cancellata questa possibilità.
Alcuni esempi della Carta italiana.
Questa è l’Abbazia di San Galgano, dove intervenne un importante sovraintendente, Gino Clerici.
Questa abbazia si trovava in uno snodo commerciale relativamente importante, ma cambiando direzione ad esso, andò
in decadenza.
In nome del rispetto della verità del documento, la considerò come un reperto archeologico. Vi è la mancanza della
copertura, conserva le pareti verticali.
Con il cemento armato venne riaperta. Venne costruita una grande trave nella muratura sovrastante, cosi da avere un
portale. Le colonnine invece non ressero nulla perché il lavoro venne svolto completamente da questa trave nascosta
nella muratura.
Questi furono gli esiti della progettazione urbanistica della città dove si arrivò a definire l’apertura del Corso
Rinascimento al di là delle proposte di Giovannoni.
Qui a sinistra vi sono le opere di demolizione.
Un altro aspetto da ricordare è che ancor più di Camillo Boito, Giovannoni insiste sul valore documentario del
monumento. È sua l’affermazione che il primo documento del monumento, è il monumento stesso e quindi allarga
il valore documentario assegnato al monumento, che già inizialmente era stato affermato da Boito. Il monumento
è un documento che serve non solo agli storici o architetti per il valore storico-architettonico, ma per studiosi di
altre discipline come: le leggi, la geografia, la storia politica ecc. Questo produce poi nell’applicazione sempre più
accentuata ed esasperata allo scavo archeologico sul monumento. Scavo archeologico inteso nel senso classico
cioè “levo tutto quello che sta sopra” perché vado a cercare quelle parti che le notizie storiche mi dicono fossero
presenti. Vado a spicconare una muratura per trovare un portico, per trovare la decorazione, per trovare delle
cornici, però questo non sempre accade perché nelle trasformazioni di un edificio a volte le parti preesistenti sono
inglobate nei muri e si trovano, ma a volte non si trovano più o se si trovano, si trovano molto danneggiate. Come
nel caso di cui parla un illustre sopraintendente che si chiamava Alfredo Barbaci, che dopo aver liberato un portico
tamponato dell’attuale accademia di belle arti a Firenze, si ritrova tutti i capitelli completamente scalpellati perché
per farli inserire a filo nella muratura di riempimento ovviamente tutte le sporgenze sono state eliminate. Quindi
si ritrova il problema, che il capitello autentico non può essere lasciato in sede perché nell’estetica del tempo non
esiste l’idea dell’estetica del brutto, è una conquista molto più tarda dell’arte e quindi li rifà uguali. Un filologo che
agisce in nome della verità di un fatto storico si trova costretto a fare un falso che è una contraddizione in termini
di mimesi.
Come per Boito in modo ancora più articolato per Giovannoni bisogna considerare tutti i passaggi nel tempo che
l’edificio fa, ma la stratificazione così come la intende Giovannoni non è come noi la intendiamo oggi, perché il
termine della lingua italiana stratificazione sta ad intendere una successione di starti continua dove non c’è una
differenza tra gli strati importanti e non è tutto quello che si succede in continuo nel tempo. Il termine
stratificazione così come lo menziona Giovannoni sta ad intendere la successione cronologica; quindi, la
successione discontinua di fatti che nei monumenti sono rappresentati dalle espressioni stilistiche delle diverse
epoche, e quindi con un’idea di storia discontinua che è la cosiddetta storia evenemenziale che caratterizza la
cultura storica positivista. È importante contestualizzare le parole relative all’epoca nella quale sono usate, la
parola stratificazione cambia nel corso del tempo e quindi rappresenta concetti diversi.
Chiuse queste precisazioni di fatto abbiamo visto che il restauro filologico mostra un netto sbilanciamento nelle
sue scelte e impostazioni sulla tutela del valore storico del monumento, ancora abbiamo un’idea di monumento
come architettura eccellente e il valore storico è quello che fa dire a Giovannoni per esempio; quanto è più bravo
un restauratore tanto mano fa l’artista sulla pelle del monumento; quindi, deve sapersi tirare indietro e mettersi
al servizio del monumento.
Tutta la storia del restauro è un’oscillazione tra momenti storici in cui si privilegia l’importanza storica del
monumento , cioè il suo essere calato nella realtà concreta delle cose quindi nella storia perché la storia e la
storiografia è come l’uomo rappresenta il suo modo di essere nel tempo, è il suo modo di descrivere i passaggi nel
tempo, i passaggi nel tempo di fatti concreti, nel nostro caso di oggetti concreti, che sono architetture, che sono
esposte alle intemperie, che invecchiano, che si sciupano, che si degradano, che si fessurano. che crollano a
seconda delle vicende della loro esistenza. Dall’altro lato vedremo come ci sono anche degli aspetti che invece
fanno molta più attenzione all’aspetto estetico, al valore artistico che è un valore, che sta fuori dalla storia e che
tende a considerare in un tempo immobile l’espressione artistica. Quella componente del discorso di Viollet e lo
stesso quella componente, che nel restauro italiano porta alla ricerca dell’unificazione dello stile negando lo
svolgimento storica della vita che l’edificio ha avuto nel corso del tempo, si illude di riportarlo al momento iniziale.
Con la Seconda guerra mondiale abbiamo già visto che nelle istruzioni il dettato di Giovannoni, che nella carta
italiana è solo un’indicazione, il punto della situazione condivisa culturalmente sul restauro, ma non ha valore di
legge, diventa però una specie di codice di comportamento da parte delle sovraintendenze.
Il restauro gestito dallo stato assume i criteri del restauro filologico come guida e la differenza è per esempio nella
soluzione del 1938, non si menziona più la differenza tra monumenti vivi e morti e si elimina quel passaggio che
c’era nella carta italiana, che consentiva nel trasporto dei monumenti quando c’era una situazione di crescita
urbanistica o necessità di altro genere a livello di progettazione urbana. I monumenti venivano smontati e spostati
in un altro luogo, ad esempio, qui vicino a Milano, a Brughiero, c’è un tempietto neoclassico che in realtà stava a
Lugano in un confronto e che un nobile milanese, che aveva la villa di villeggiatura a Brugherio apprezzò molto e
se lo comprò facendolo smontare per pezzi, e fu portato attraverso il Naviglio fino a brughiero dove fu rimontato.
Queste operazioni non erano così rare al tempo perché il modus d’opera non costavano nulla; quindi, imbragavano
le porzioni di muratura tagliate e per i tratti su terra con carri portati da buoi e per acqua attraverso le piatte
spostavano questi materiali, non era una cosa così strana, però nelle istruzioni questo aspetto viene già eliminato
perché e un’operazione abbastanza d’impatto.
Siamo nel 1938, c’è la Seconda guerra mondiale, che per la prima volta vede in modo massiccio l’impiego della
guerra aerea. Già nel corso della Prima guerra mondiale c’erano state dei danni di guerra provenienti dal cielo, in
Italia erano stati abbastanza contenuti ed erano avvenuti principalmente a Venezia, Verona, Padova, che erano le
zone più vicine al fronte. Il fronte era quella parte a nord est Italia. A Milano, nel nord Italia erano stati perciò presi
i primi provvedimenti di protezione dei monumenti. Con la Seconda guerra mondiale i bombardamenti sono parte
della guerra e diventano anche una tattica psicologica per demoralizzare le popolazioni. Milano nell ‘agosto del
1943 fu bombardata a più riprese e in modo molto pesante, in modo distribuito su tutta l’area urbana, di solito i
bersagli erano distribuiti in nodi cruciali come i nodi ferroviari, i porti le fabbriche che erano destinate alla
produzione di armi belliche.
Accanto a questa tecnica tradizionale c’è quella di distruggere i monumenti tradizionali di una popolazione per
abbassare il morale e con la speranza che il popolo si ribellasse e rovesciasse il fascismo, era visto come molla per
la ribellione, di fatto molte città italiane furono distrutte in modo veramente esteso e a quel punto c’è un momento
di crisi del restauro filologico. Il restauro filologico si basa sulla verità, sincerità e leggibilità delle diverse fasi della
vita del monumento, non ammetteva ricostruzione se non per piccole parti e solo dove l’esistenza del pezzo che
non c’era più era documentata, ma documentata con le misure e fotografie (una verosimile possibilità di
reintegrare alcune parti ma reintegrare alcune parti era limitata volumetricamente). Quando con la Seconda
guerra mondiale ci si ritrova distrutti per metà il problema teorico si pone perché la ricostruzione diventa un rifare
uguale a prima, non è un restauro filologico è una ricostruzione, un ripristino.
La disciplina del restauro va in crisi e vedremo attraverso alcuni esempi la difficoltà di alcuni sovraintendenti, molti
dei quali sono persone illustri e storici dell’architettura importanti. Sono in difficolta e continuano utilizzare il
linguaggio del restauro filologico per fare delle operazioni che di filologico hanno molto poco, ma questo non è da
intendere come mala fede, ma come incapacità di risolvere il problema e partecipazione drammatica personale a
questo momento che sconvolge completamente, perché bene o male il restauro filologico di Giovannoni era stato
accettato, era entrato nella prassi del restauro, e quindi si trovano disorientati perché ce il problema di ricostruire,
ma soprattutto il problema di come fare per risolvere la questione. Considerando che, come sempre succede
quando c’è una perdita cromatica l’idea collettiva del pubblico è quella di rifiutare la perdita e chiedere che
vengano ricostruite uguali, in fondo c’è questo aspetto psicologico che è anche emotivo, c’è un problema quindi
concettuale, non si riesce più a sviluppare con coerenza un progetto che segue il filo del restauro filologico perché,
se io mi ritrovo con un monumento dimezzato sono già fuori dal campo di esistenza di questa teoria che non aveva
previsto di fare i conti con delle distruzioni come quelle della Seconda guerra mondiale.
Il restauro filologico rappresenta una posizione teorica che da l’importanza fondamentale al valore documentario
del monumento quindi al suo valore storico, il suo valore di documento storico. Con la seconda guerra mondiale
ci sono queste perdite immisurabili, a Milano ad esempio viene bombardata Santa Maria delle grazie, San
Ambrogio , che sono simboli per i cittadini oltre ad esempi importanti per la storia dell’architettura e il valore
simbolico di questi, che ora si chiamerebbero “land mark” anche se non rientrano nell’ambito del panorama della
citta, vengono restaurati durante la guerra, perché c’è proprio una volontà di ricostruire i monumenti come se si
ricostruisse la propria identità ferita dalle bombe.
Il restauro filologico è quell’idea di restauro che mette al centro l’importanza del valore storico, anche sacrificando
quegli aspetti significativi artistici che l’architetto spesso inseriva nel restauro. Lo stesso Giovannoni affermava
come il miglior restauratore era colui sapeva tirarsi indietro e si spogliava delle veletta creative lasciando spazio al
monumento, però sotto sotto, c’era un lato della cultura del momento che sentiva sacrificato l’aspetto artistico
nella idea di restauro e proprio a seguito delle varie distruzioni belliche emerge una nuova idea di restauro( la
prof, dice che non si soffermerà su questo argomento perché è un’idea che fa riferimento fondamentalmente
all’idea di monumento come opera d’arte, l’idea dell’intervento di restauro come un’attività che si dedica
esclusivamente a quei monumenti che sono considerati opere d’arte e che affidano totalmente al restauratore il
predominio sull’oggetto, perché tende a dare al restauratore architetto il ruolo di artista, quindi l’artista
restauratore interviene sul monumento distrutto in parte o in quantità maggiore creando una nuova opera d’arte
che è a sua firma, diventa lui il nuovo autore di questa opera d’arte). È una teoria complessa, ma soprattutto una
teoria che facendo riferimento a questo valore d’arte colloca il monumento in una dimensione metastorica, cioè
fuori dalla storia, dando ad un singolo un potere assoluto di vita o di morte su un oggetto. È una teoria molto ben
articolata sul piano teorico che però poi non trova nemmeno una dimostrazione pratica nel restauro eseguito. Il
motivo per il quale non lo affronterò in modo approfondito è perché non la condivido assolutamente, perché
ignora completamente il valore storico che le architetture hanno. Valore storico vuol dire materia che si consuma
nel tempo, materia che attraversa le generazioni, questa parte non interessa questa elaborazione teoretica che
tra l’altro ha avuto una elaborazione teoretica ben strutturata grazie a Renato Bonelli e poi proseguita con alcuni
aggiustamenti da Cesare Draghi. Quello che è significativo, è che proprio le distruzioni belliche che mettono in crisi
il restauro filologico, perché viene a mancare la materia su cui esercitare l’indagine documentaria suscita il rialzare
la testa di chi sentiva mortificato il lato artistico del restauro. L’ occasione è offerta da un articolo scritto da un
autore importante che insegna restauro a Napoli che si chiama Roberto Pane e prende spunto per parlare di
questa nuova esigenza dalla distruzione, che è avvenuta alla chiesa di Santa Chiara a Napoli che era già una chiesa
molto apprezzata per il cortile, le decorazioni maioliche della parte del chiostro interno.
Il problema che pone Roberto Pane è appunto come si può ricostruire, come si deve anche riconnotare la figura
del restauratore e rivendica il fatto che il restauratore deve riappropriarsi del suo ruolo da artista. In realtà non ci
sono casi che esemplificano questa teoria che ha degli aspetti molto distruttivi perché a arriva a dire che il
restauratore ha l’assoluta libertà di decidere quali parti sono funzionali alla sua idea finale di opera d’arte perché
il suo scopo è ricostituire un unità dell’immagine, non della materia e per fare questo il restauratore ha la libertà
più assoluta di operatività al punto da essere legittimato a distruggere un opera di alta qualità artistica
architettonica, che però ritiene non coerente con la sua creazione artistica finale ed è effettivamente abbastanza
impattante questa idea.
Questa chiesa, tra l’altro, era stata costruita con un’apparecchiatura povera non era costruita con una tessitura
regolare di mattoni, quando si inserisce una struttura in cemento armato in un edificio che ha delle murature così
discontinue non si può creare degli appoggi dei muri o delle capriate così com’è, deve essere fatto un cordolo di
consolidamento altrimenti diventa un elemento che interferisce in modo pesante sull’equilibrio statico; è quello
che succede a Santa Chiara. Le bombe avevano in parte distrutto la
decorazione interna barocca e avevano anche spaccato le murature
all’esterno per cui si erano intraviste delle finestre gotiche e allora
naturalmente dato che siamo in un periodo in cui la selezione
storiografica privilegia certe epoche storiche il discorso che viene fatto è
quello di tirare fuori le tracce dell’epoca gotica e questo produce la
riapertura delle bifore, la ricerca di queste finestre gotiche nella
muratura dove erano avvenute delle trasformazioni, con il risultato però
di creare molto spesso un falso, perché dove ci sono delle aperture la
colonnina centrale non ce più e nella fattispecie anche nella parte
dell’altare sul fondo dove c’era questa finestra gotica a quattro luci, per
riaprire queste aperture viene costruito un portale in cemento armato
nella muratura, quindi l’edificio viene imbottito di cemento armato da
tutte le parti con il risultato di creare appunto una struttura pesante.
Qui siamo negli anni Cinquanta e tra barocco e gotico non c’è storia, perché il barocco non è ritenuto
sufficientemente importante con il risultato di ottenere questo esito piuttosto infelice. Il confronto tra queste due
foto ci mostra la ricchezza che aveva l’apparato decorativo interno e questa veste così spoglia che ha l’interno,
dove appunto per riaprire queste luci, queste luci tonde e il triangolo al centro sommitale, compresa la finestra
dove era appoggiata questa scultura in realtà nasconde questo portale di cemento armato.
Abbiamo visto il restauro filologico che va in crisi e la strada per trovare una soluzione è ancora tutta da scoprire,
ci sono delle distruzioni che costringono ad allargare il campo di interesse della disciplina alla città, al centro storico
e quindi il campo della disciplina, che fino a quel momento si era incentrata sui monumenti, comincia a prendere
in considerazione il settore urbano.
C’era chi si occupava anche del patrimonio monumentale durante la guerra, sia gli
alleati sia i tedeschi avevano delle commissioni fatti da storici dell’arte, architetti che
si occupavano anche dei dispositivi di protezione del patrimonio storico artistico dei
paesi invasi tra l'altro nei tedeschi c’erano quelli che facevano incetta di opere d’arte
e se le portavano via. Durante la Seconda guerra mondiale c’è stata tutta una
trattativa per restituire le opere d’arte con la Germania.
Il ponte Vecchio non fu minato perché si riteneva fosse un’architettura spontanea che
non si sarebbe potuto costruire proprio per la sua particolare caratteristica.
Al contrario ponte di Santa Trinità e tutti gli altri furono minati e fatti saltare dai
tedeschi in fuga, in queste immagini vediamo l’allestimento di un ponte, creato da
una struttura lignea di soccorso proprio come soluzione di opera per ristabilire il
collegamento fra le due rive della città.
Sulla distruzione e ricostruzione del ponte a santa trinità si apre un dibattito molto vivace che vede partecipare le
figure più importanti della cultura architettonica del restauro del momento, in particolare ci sono due tesi
contrapposte una che suggerisce di costruire il ponte com’era e dov’era uguale all’originario e l’altra di costruire
un ponte nuovo, un’architettura contemporanea. Queste due tesi vedono contrapporsi due figure che sono anche
emblematiche per capire le ragioni di questa visione opposta, in occasione di questo dibattito viene pubblicata
una rivista che si intitola “Al ponte”, diretta da Pietro Calamandrei. La tesi della ricostruzione uguale a prima in
nome del fatto che il ponte faceva parte del paesaggio della città che corrisponde al lato pittoresco della città, c’è
uno storico dell’arte che si chiama Bernard Berenson, uno storico dell’arte americano, studioso del Rinascimento
figura di rilievo perché in contatto con i più grandi commercianti d’arte americani, il quale sostiene che va
ricostruito uguale a prima perché va ricostruito il paesaggio urbano, viene messa in luce la sua valenza urbanistica,
si privilegia l ‘aspetto pittoresco e l’immagine, dall’altra c’è una tesi contrapposte che quella di un archeologo che
si chiama Ranuccio Bianchi Bandinelli l’archeologo per definizione, che gli oggetti con i quali lavora siano
autentici, perché non ha documenti scritti e se li trova sono abbastanza limitati quindi è fondamentale che gli
oggetti siano autentici e quindi si oppone all’idea di fare un ponte uguale a prima perché sarebbe un falso e
sostiene la tesi della quale bisogna farsi una ragione di questa perdita , la storia non torna indietro e ciò che e
perduto è perduto. Bisogna avere il coraggio di ricostruire un nuovo ponte che sia un’architettura di qualità
all’altezza dei tempi e quindi sia espressione delle capacità progettuali del tempo presente.
Tra la questione ci fu un dibattito non solo tra intellettuali e restauratori ma anche tra il ministero e la pubblica
istruzione che autorizzava i lavori, che inizialmente aveva sostenuto l’utilizzo del cemento armato per ricostruirlo,
poi dopo alterne vicende venne ricostruito con tecniche tradizionali. Se noi oggi andiamo a Firenze vediamo questo
ponte che si vede nell’immagine a colori sulla destra, sembra autentico anche perché dopo la ricostruzione i
materiali sono invecchiati si sono smorzati quegli aspetti che danno il colore del nuovo, e tuttavia in realtà è una
ricostruzione integrale di quello che non c’era più. Quello che è significativo nella cultura del restauro è che la
ricostruzione di questo ponte fa allargare i confini della disciplina che comincia ad affrontare anche le dimensioni
della città non più il monumento singolo e basta. Qui si vedono le fasi delle ricostruzioni con le centine che seguono
questa curva catenaria e realizzazione del ponte finale.
CASTELVECCHIO A VERONA
Ci sono altri casi di ponti ricostruiti dopo la guerra, non
a caso il ponte è una infrastruttura fondamentale per la
vita della città oltre che monumento e in questo caso c’è
il ponte di Castelvecchio a Verona che vediamo nelle
immagini prima e dopo la ricostruzione.
Il ponte anche questo minato viene fatte saltare
rimangono le basi delle pile e viene ricostruito un ponte
di mattoni, vengono sottolineate alcune parti in bozze di pietra, ma in realtà quello che era stato distrutto era
stato perso nel fiume.
In questo caso l’intervento di restauro viene fatto da Pietro Gazzola che è un sopraintendente presente a Verona
in quel momento che qualche anno prima era stato a Milano e che in anni successivi ,1964 sarà tra gli estensori di
una nuova carta: la carta del restauro di Venezia. Gazzola si trova in quella condizione dove la situazione non
consente un restauro filologico in modo rigoroso e non si sa ancora come procedere. Gazzola questo ponte l’ha
ricostruito per anastilosi (ricomposizione delle parti che si sono smembrate e secondo Giovannoni era
quell’operazione consentita, era l’unica possibilità di intervento nel caso dei monumenti morti).
Quindi con un applicazione restrittiva e che qui viene applicata ad un edificio medievale ma non solo, considerando
che l’anastilosi è la ricomposizione di quando si
hanno i pezzi che facevano parte dell’architettura
in questo caso è del tutto illusoria, perché i
mattoni della parte esplosa ovviamente caduti
nell’Adige erano sbriciolati quindi non era
assolutamente un rimpiego di materiali
preesistenti salvo eventuali blocchi di pietra come
quello che si vedono in alcune parti.
Il fatto che Gazzola dica che questa è una ricostruzione per anastilosi non va intesa come se fosse l’espressione di
una mala fede, ma è una l’espressione di questi dubbi angosciosi che in questo momento ci sono proprio su come
fare per intervenire. Addirittura, come se non bastasse l’anastilosi in questo significato che è stiracchiato a indicare
un'altra operazione che è sostanzialmente di ricostruzione, siccome l’apparenza di questa muratura rifatta era
troppo nuova Gazzola fece scambiare le superfici così almeno si smorzava questo aspetto nuovo, quindi,
ulteriormente viene falsificato questo invecchiamento artificiale.
Treviso è un centro storico molto compatto e la zona dove appunto si trova il Palazzo
non ha grandi spazi non ha una piazza e proprio per il mantenimento del tessuto
costruito si giustifica la ricostruzione, che comporta anche delle soluzioni tecniche di
una certa importanza perché per raddrizzare questo strapiombo della superficie
laterale, che si vede in questo disegno con queste sbadacchiature, opere di presidio che tengono insieme la
muratura, viene creato un punto di cerniera tale da far ruotare la parte che strapiombava che viene trainata da
un cavo di metallo in modo che venga rimessa a piombo, è un operazione tecnicamente complessa, di fatto anche
qui, pur non essendo applicabile in modo rigoroso il restauro filologico il realtà si ricompone l’unità di tutto
l’edificio, ovviamente con un’ apparecchiatura muraria simile a quella superstite e una reintegrazione che va oltre
alla quantità che sarebbe stata consentita nei termini di un effettivo restauro filologico.
PONTE DI PAVIA SUL TICINO
Questo stato di incertezza si vede ancora di più a proposito della ricostruzione del
Ponte di Pavia sul Ticino che viene ricostruito come gran parte dei monumenti con
l’aiuto del genio civile: questo perché il Ministero della Pubblica Istruzione riusciva a
gestire pochi cantieri di restauro monumentale, mentre il Ministero dei Lavori
Pubblici nel dopoguerra si occupa della ricostruzione delle infrastrutture, strade,
ferrovie, ospedali e scuole, ed è il Ministero che ha a disposizione dei finanziamenti.
Gli ingegneri del genio civile collaboravano anche a quei cantieri di restauro dei
monumenti architettonici sotto la sorveglianza della Soprintendenza, in realtà poi,
agendo, a volte, anche in modo abbastanza autonomo, con esiti non sempre condivisi
dall'amministrazione del Ministero della Pubblica Istruzione. Questo perché gli
ingegneri non avevano una specifica cultura architettonica del restauro, quindi
spesso usavano il cemento armato con le migliori intenzioni per risolvere i problemi
di questi monumenti fortemente danneggiati.
La ricostruzione del ponte di Pavia già al tempo sulle riviste di architettura è censurata, è giudicata come
un'operazione rozza e incolta e infatti passa alla storia col nome di ricostruzione come non era e dove non era.
Perché si vede nell'immagine sopra: il ponte ha sei arcate tutte diverse una dall'altra, perché i costruttori l’avevano
fondato costruendo le pile nei punti più solidi del greto del fiume.
Cosa succede nel momento in cui si decide di ricostruirlo? Subentra quel meccanismo che abbiamo visto applicato
cent'anni prima, quando a Santa Maria Novella rifanno uguali tutti gli archetti gotici, anche qui si arriva a
correggere quello che viene considerato un difetto e quindi si ricostruisce con delle arcate tutte uguali. Non solo,
siccome in questo momento si sta rivedendo la progettazione della città, cioè il piano regolatore che prevede per
accordi stradali verso il ponte in posizioni leggermente diverse, approfittando dell'occasione che si sta
ricostruendo, lo si sposta leggermente in modo che il ponte vada a raccordarsi con la maglia stradale nuova e
quindi viene ricostruito come non era e dove non era, quindi è una sorta di intervento analogico stilistico.
Intorno al ‘57, quando la ricostruzione in gran parte delle città per cospicue parti è già fatta ed è già realizzata, si
incomincia a capire che proprio ci sono problemi di gestione urbanistica e di relazione tra la ricostruzione e i
monumenti che si trovano nel centro storico. Ci sarà un convegno dell'Inu, l'Associazione nazionale
dell'urbanistica, nel ‘57 a Lucca; ci sarà questo convegno a Milano nel 1957 che si intitola proprio “attualità
urbanistica del monumento e dell'ambiente antico”, perché tra gli altri aspetti emersi in questa fase di
ricostruzione e c'è un aspetto che è legato al rapporto tra la nuova edificazione, alle nuove costruzioni e alla loro
relazione con l'ambiente antico. Il rapporto tra antico-nuovo, questo è il nome che il dibattito assumerà e che
vedrà anche in questo caso diverse posizioni per cui ci sarà chi, come Brandi, sosterrà che non si può costruire in
un centro storico architettura moderna, altri come Zevi, Roberto Pane e Rogers che sosterranno che si potrà
realizzare armonizzando i volumi. Comunque emerge questo aspetto, proprio perché nelle zone del centro storico
si sono creati dei vuoti e in questi vuoti ovviamente prendono forma delle architetture contemporanee.
È da considerare che fino alla fine della Seconda guerra mondiale, i giovani architetti, che frequentavano le facoltà
di architettura, guardavano agli esempi fuori dall'Italia del movimento moderno ma in Italia non si dava spazio
all'architettura moderna perché nel periodo fascista prevaleva la posizione passatista nel campo dell'architettura
di Gustavo Giovannoni, che era la figura di riferimento, e il carattere internazionale dell'architettura del
movimento moderno naturalmente non era assolutamente in sintonia col nazionalismo fascista, con l'idea
dell'autarchia che dominava in quel momento; e quindi finita la guerra, finalmente i giovani architetti vogliono
sperimentare questa progettazione ispirata ai maestri del Movimento moderno.
Quindi i fatti significativi che avvengono con la ricostruzione sono che il restauro filologico va in crisi: addirittura
Gustavo Giovannoni, che di lì a poco morirà perché morirà nel ’47, arriverà a dire che un edificio distrutto e
ricostruito è una scheda perduta nella storia, ma arriva a comprendere come ci sia l'esigenza psicologica di
ricostruire gli edifici a cui la popolazione è particolarmente legata, quindi lui stesso arriverà ad ammettere che
questa condizione così di emergenza consente di accettare anche la ricostruzione. Si amplia la dimensione
dell'interesse della disciplina alla scala urbana, cosa che è estremamente significativa da questo momento in poi,
e si pone il problema del rapporto tra antico-nuovo, tra architettura antica e architettura nuova: per esempio, ci
sono polemiche su edifici moderni realizzati per esempio a Venezia dove c'è l'hotel Bauer, che è un edificio
razionalista moderno, inserito nel tessuto urbano veneziano, che suscita delle osservazioni in questo senso; lo
stesso l'edificio Casa alle Zattere di Gardella. Quindi, si pone questo problema di come si può relazionare
l'architettura moderna con il tessuto antico e se è lecito farlo ancora di più.
Per alcuni monumenti di altissimo valore e di fama mondiale, tra cui la chiesa di Santa Maria delle Grazie, il Cena-
colo, la basilica di Sant’Ambrogio, il Duomo, il teatro alla Scala e palazzo Marino, l’intervento di sgombero e di
presidio fu immediato, già a partire dall’agosto ’43, prima della fine della guerra.
Per tali emergenze monumentali, la ricostruzione ha inizio subito, fin dal 1944
La Basilica di Sant’Ambrogio
Come abbiamo già visto per Santa Chiara a Napoli,
l'occasione della ricostruzione dà lo spunto, il prete-
sto, per fare delle correzioni, e come a Santa Chiara
vengono tirate fuori tutte le bifore delle navate late-
rali, a Sant'Ambrogio ai correggono alcuni dettagli
che offuscano l'unità dell'insieme. Per esempio, nella
parte retrostante, nella parte dell'abside con la mu-
ratura che ha due finestre e una finestrina polilobata
sopra, in questo caso la muratura viene riempita perché questa finestra polilobata che è proprio dalla conforma-
zione barocca, non è congruente con lo stile dell'edificio, mentre viene messa in luce quest'altra piccola abside
che in parte era nascosta nella muratura che si vedeva: quindi mentre si costruisce già che ci siamo risistemiamo
alcuni dettagli.
Però questo tentativo è significativo per il fatto che c'è questa volontà di realiz-
zare un'architettura secondo i canoni del movimento moderno, ma naturalmente
sussiste il problema della coerenza con il contesto, in questo caso era stata rite-
nuta un pò troppo audace questa proposta che poi viene abbandonata, ma A.
Picca la pubblica comunque sulla rivista Costruzioni, che è il nome che la rivista
Casabella aveva negli anni durante la guerra, quindi su una delle riviste più auto-
revoli di architettura del momento.
La Canonica di Sant’Ambrogio
La ricostruzione è avvenuta grazie a Ferdinando Reggiori.
Anche qui il tentativo di ricostruire con delle leggere diffe-
renze lo si vede nelle proposte (a,b,c) che Reggiori presenta
per completare la costruzione del nuovo corpo di fabbrica,
che prevede anche un nuovo braccio, perché si erano tro-
vate le fondazioni di un lato che non era stato realizzato dal
Bramante, e quindi siccome c'era bisogno di spazio, si pro-
cede alla costruzione di un di un braccio nuovo.
Immagini: I progetti di F. Reggiori per il nuovo braccio: a,b, proposte progettuali bocciate; c
progetto approvato
Qui vediamo diversi progetti che mostrano un tentativo di riproduzione del passo modulare
della parte preesistente anche nel corpo nuovo, con delle varianti che poi si traducono in
questo corpo di fabbrica (nella foto sotto) che in realtà ripete lo schema del portico originario,
con la differenza che però abbiamo dei pilastri e non delle colonne, che appunto c'è una dif-
ferenziazione in pilastri, capitelli e questi elementi in chiave più chiari che denunciano una
differenza.
Questo mette in luce anche la difficoltà di porsi in conti-
nuità con un'architettura antica e questo non è un inter-
vento particolarmente brillante nonostante tutti i tentativi
fatti.
Di significativo c’è il fatto che gli atteggiamenti nell'edilizia corrente o anche in edilizia pubblica importante come
scuola, ospedali, dove intervengono gli ingegneri del ministero dei lavori pubblici che non hanno una formazione
particolare sul restauro e quindi vediamo i casi più vari spesso e volentieri però ispirati a una ricostituzione per
analogia, quindi si torna indietro, in pratica ad un modo di restaurare analogico
Edifici pubblici:
• Anche per gli edifici pubblici si procedette subito dopo le incursioni aeree alla puntellazione e a una serie di
opere di presidio per fermare il progredire dei danni
• La ricostruzione di tali edifici ebbe però inizio nei primi mesi del ’46 e non fu breve come per il caso dei monu-
menti simbolo, sia per motivi economici, sia per problemi legati a scelte progettuali
• Per gran parte degli edifici pubblici si verificò, nella maggior parte dei casi, un intrecciarsi di soluzioni e di at-
teggiamenti che riflettevano la complessità dei problemi e delle varie esigenze che si erano poste
Edifici privati:
• Gli edifici privati ebbero minor fortuna rispetto a quelli pubblici; rare furono le operazioni di restauro e rico-
struzione, sporadiche le opere di salvaguardia che si misero in atto per impedire l’aggravio dei danni subiti
• Pochi edifici furono inseriti nell’elenco che la Soprintendenza stese per la richiesta dei finanziamenti pubblici.
Tali edifici furono: i palazzi Borromeo, Silvestri, Cicogna, Serbelloni, Abbiati, Ponti, Pozzobonelli, villa Simonetta
e torre Gorani
• Gli edifici che scomparvero furono molti e spesso vennero sostituiti da nuovi palazzi condominiali
• Ne sono un esempio palazzo Treves, palazzo Piantanida, palazzo Arcimboldi, palazzo Cicogna, palazzo Cramer,
palazzo Perego, palazzo Melzi di Cusano
Per gli edifici privati, i monumenti notificati, la notifica era lo strumento con cui lo Stato sottopone la sua tutela in
caso di notifica, la proprietà privata ha una precisa normativa di legge per il l'importanza che ha l'edificio di pro-
prietà privata. Cosa succede? Molti palazzi importanti di architetture notevoli di proprietà privata furono lasciati
andare in rovina perché il costo del restauro era molto importante, perché spesso questi edifici si trovavano in
area centralissime, quindi dotata di una rendita fondiaria molto alta e un atteggiamento molto frequente era
quello del proprietario che lasciava in abbandono l'edificio in modo che progressivamente con le intemperie e il
degrado progressivo a seguito poi dei bombardamenti, perdesse quelle qualità per cui era considerato un monu-
mento, quindi cadesse il vincolo. Caduto il vincolo, il proprietario diventava proprietario di nuovo del suolo per
poter riedificare un edificio con un vantaggio economico decisamente significativo.
Per esempio, il palazzo Borromeo in piazza Borromeo è particolarmente interessante perché ha un portale gotico
e all'interno ha una sala bellissima, detta sala dei giochi, con delle pitture gotiche.
Però furono pochi proprietari che cercavano in tutti i modi di restaurare i loro palazzi: sicuramente una ragione
era quella del forte impegno economico che avrebbe comportato restaurarli, in altri casi è la speculazione che
prevale, tenendo conto che comunque questi interventi, sia pure quelli sostenuti dal Ministero della pubblica
istruzione, comunque comportavano uno sforzo da parte dei proprietari.
Quindi, in questa contingenza, spariscono molti monumenti privati che scompaiono del tutto o che diventano
nuova edilizia nel centro della città proprio in ragione della loro posizione molto redditizia sul piano fondiario, sul
piatto fatto di poter ricostruire con numero maggiore di piani spesso e volentieri.
Ca Granda:
Un caso importante è la sede dell'attuale università statale: questo edificio, che si trova vicino al Duomo, vicino a
piazza Fontana, era un ospedale fondato nel periodo di Francesco Sforza, nella metà del 400, con un progetto
fatto dal Filarete, chiamato dalla Toscana per fare il progetto di un ospedale modernissimo per l'epoca.
L’ospedale venne costruito in una zona che è vicina ai Navigli, per cui gode
dell'uso dell'acqua che al tempo era una cosa notevolissima e viene co-
struito sopraelevandolo rispetto al piano stradale, con una specie di gradi-
nata, in modo tale che sia un po più arioso secondo i criteri appunto di mo-
dernità che vengono infusi da Filarete.
La prima crociera viene costruita la metà del 400 su progetto del Filarete,
poi, come tutti i grandi cantieri, l'attività prosegue anche molto tempo
dopo: il cortile grande viene realizzato nel 600 dopo un intervento a fine 500 dell'Omo Deo a cui è attribuito un
lato (indicato con AB), viene realizzato il cortilone da Francesco Maria Richini che nel 600 è l'architetto più attivo
a Milano, che prosegue il disegno della facciata, su richiesta dell'amministrazione dell'ospedale, quindi riproduce
le aperture che ci sono nella parte sforzesca anche nella parte del cortilone Centrale; e solo alla fine del 700 viene
realizzata la seconda crociera, quella delle donne, grazie a un lascito di un facoltoso milanese.
Quindi grossomodo l'edificio è costruito in tre periodi: periodo rinascimentale, periodo seicentesco, periodo set-
tecentesco neoclassico. Questo sarà estremamente influente anche sull'atteggiamento dei progettisti in queste
zone
Nella pianta sono raffigurate le distribuzioni belliche del 1943 (le parti più
scure corrispondono alla totale distruzione): la parte più devastata è la
parte che guardava verso il Naviglio, che è l'attuale Via Francesco Sforza,
dove sotto adesso c'è il Naviglio tombato.
La posizione dell'ospedale era proprio perché lì c'era il passaggio del Naviglio, che poi sfociava in una zona che
oggi è segnalata dal nome della strada che si chiama Via Laghetto, perché c'era un laghetto dove approdavano le
chiatte che portavano i materiali da Baveno, sul
lago Maggiore, per la costruzione del Duomo.
Dopo i bombardamenti, nella prima fase di ricostruzione, precedente al progetto di restauro di Liliana Grassi, le
parti danneggiate furono rifatte con tecnologie moderne ed in particolare con il mas-
siccio impiego di strutture in cemento armato. Le prime operazioni fatte vengono ese-
guite dal comune che, senza porsi troppi problemi critico-culturali, realizza delle coper-
ture con una struttura in cemento armato, facendo delle false travi in cemento armato.
Immagine: il lato verso via Festa del Perdono del cortile centrale durante i lavori. Si
nota la nuova struttura di copertura in cemento armato
I lavori inizialmente vennero affidati ad una commissione presieduta da Piero Portaluppi, che era stato il preside
della facoltà di architettura, poi dopo la guerra, il progetto passa in mano a Liliana Grassi, che è stata una docente
del Politecnico.
In questo intervento vediamo diverse modalità di ricostruzione: naturalmente l'edificio già prima della guerra era
stato destinato ad ospitare l'università, perché la funzione ospedaliera non era più contenibile in questa struttura;
c'erano già stati degli studi di fattibilità però la guerra cambia le carte in tavola e dopo le prime fasi di progetto
guidate da Piero Portaluppi, il progetto viene in toto affidato a Liliana Grassi, che lo porterà a termine.
Nel progetto definitivo vediamo come questa diversa campitura che colora di scuro la parte di muro rimasta in
piedi e più chiaro, quel reintegrata, questo tratto evidenzia il fatto che decide di ricostruire il muro dove non c'era
più arretrato leggermente di qualche cm per creare una linea d'ombra che evidenzia questo stacco tra la porzione
di muro al rudere che è rimasto superstite da quello che invece viene ricucito per chiudere il volume originario.
Stesso lavoro fatto anche per il portico del cortile grande: ven-
gono montati a terra tutti i blocchi di pietra che vanno a for-
mare le ghiere degli archi e vengono naturalmente inserite le
parti mancanti.
Questa è una fase in cui la ricostruzione vede l'impiego di malte
cementizie, che poi in un secondo intervento alla fine degli anni
80 saranno in parte eliminate e in parte conservate. Perché la
soluzione quando ci sono elementi di malta cementizia o ele-
menti in cemento armato, è sempre quello di usare molto buon
senso e cautela: dove il materiale procura dei danni bisogna eli-
minarlo, ma dove non crea problemi al contorno, dove non de-
termina efflorescenze saline e quindi i fattori di degrado, è più
saggio lasciarlo in opera e semmai controllarlo periodicamente.
Perché eliminare una malta cementizia da una muratura vuol dire spaccare anche la muratura perché è ben te-
nace.
Comunque, questo criterio dell’anastilosi, smontaggio e rimontaggio, viene applicato anche alle arcate del cortile
grande.
Infine, l'intervento più significativo è quello sull’in-
terno della crociera che si vedeva dall’esterno, dalla
Via Francesco Sforza, che è quella di questo cortile,
che era il cortile della Ghiacciaia (il cortile appena
sotto era quello della farmacia, questo era della le-
gnaia e quest'altro dei bagni)
Cosa fa qui Liliana Grassi? Siamo nella parte più an-
tica, quella di conclamata importanza storico-arti-
stica, allora qui decide che non fa nessuna opera-
zione di reintegrazione, tratta questa parte come un
reperto archeologico: lascia le volte spaccate a
metà, le colonne spaccate a metà dove sono visibili
in quel modo e protegge le murature come si fa con
le copertine che proteggono la superficie muraria
esposta alle intemperie, ma lascia esattamente così
com'è, in modo che anche in questo caso rimanga una traccia visibile di qualcosa che è capitato all'edificio, perché
è così forte la suggestione data dall'importanza dell'architettura che non c'è bisogno di inserire niente.
Nella parte che invece non aveva più nulla, inserisce un edificio nuovo moderno (foto in basso a dx), che riprende
per colore dell'intonaco il colore del mattone, ma che evidentemente è tutta un'altra cosa: quindi è una porzione
nuova innestata in un'architettura antica, riconoscibile e che cerca di armonizzarsi.
Immagini sotto: questi sono i punti salienti di questo intervento che è particolarmente interessante, che per ogni
parte trova una soluzione differente, fatto da una persona che partecipava al dibattito di quel momento e che ha
ben presenti i criteri di restauro filologico, ma in certa misura anche innesta in quest'idea di unità, dove cerca di
fondere il nuovo con l'antico.
Naturalmente qui la struttura dell'ospedale Sforzesco, con le crociere, è una specie di vincolo, ma in questo caso,
le parti nuove sono di autonoma riconoscibilità pur ponendosi il problema di relazionarsi con la parte preesistente.
8° lezione - 18/11
Il ponte verrà ricostruito sulla scia di quella precedente. Vince la voce popolare essendo il ponte
molto importante per i cittadini. Non è però un operazione per molti con una sensatezza, poiché
va contro la cronologia dei fatti.
Ci fu un edi cio bombardato a milano dove fu distrutta una sala molto importante. La sala delle
Cariatidi, dove sono esposte le pietà di Michelangelo. Ad oggi la sala è frutto di un restauro.
Il comune provvide a seguito dei danni provocati dai bombardamenti a mettere in sicurezza la
sala, ma non furono mai presi dei seri provvedimenti no al 2005, quando decisero di conservarla
e proteggerla lasciando visibili i segni di queste distruzioni, non ripristinando nulla. È stato un
intervento nella sostanza di conservazione, con qualche piccolo intervento di restauro.
Negli anni ’60 Cesare Brandi cerca di mediare tra la necessità di dare un immagine unitaria e di far
percepire il passaggio storico che l’oggetto ha subito nel tempo, ma lui tratta solo un tipo di
restauro che riguarda solo ciò che è considerato opera d’arte. Anche in questa teoria pensata da
Brandi c’è sicuramente una particolare attenzione al restauro delle opere d’arte, alla loro
bidimensionalità non tridimensionalità che fa parte dell’architettura.
Negli anni ’60 si amplia il problema dell’intervento sui centri storici e la disciplina del restauro già
con gli e etti dei bombardamenti si rende conto di dover ampliare la scala di interessi. Bisogna
tenere in considerazione che questi sono gli anni del boom economico, quindi le grandi città
attirano tantissime persone a lavorare nelle fabbriche, e questo porta ad un abbandono di piccoli
centri che non riescono ad o rire le stesse opportunità delle grandi città.
Nel 1960 a Gubbio ha luogo un convegno promosso dalla associazione che diventerà
l’associazione Nazionale per il recupero dei centri abbandonanti, è un antefatto che ritroviamo
oggi in altri modi. Questo convegno viene promosso dagli amministratori, dai sindaci e non dagli
architetti, sono loro a sollecitare la discussione. Il primo risultato di questo convegno è la
consapevolezza che i centri storici sono un patrimonio che merita di essere risanato, utilizzato e
che la prima cosa da fare quando bisogna operare è fare un censimento, ovvero sapere quali
sono e dove si trovano questi centri storici. Al termine di questo convegno prende forme
l’Associazione Nazionale per i Centri Storici che è a tutt’oggi attiva.
Importante aspetto, collegato all’ampliamento dell’interesse per il centro storico, per la
dimensione urbana, è il convegno del 1964 che si terrà a Venezia, convegno internazionale che
darà luogo ad una carta, la carte del restauro di Venezia che sarà pubblicata in diverse lingue.
Un dato comune condiviso in questa sede, è quello che non si può prescindere dal considerare il
centro storico come una dato di interesse.
L’aspetto rilevante è quello dell’apertura dell’ambiente storico della città. Ampliamento che troverà
un ulteriore sviluppo in un successivo convegno dell’Ancsa, che avverrà nel 1971 a Bergamo. In
questa sede si arriva a concludere che non solo il centro storico è un patrimonio da risanare,
anche in un ottica di uso di patrimonio costruito anche se in cattive, condizioni, senza continuare
a costruire ex novo. In un ottica di ridimensionamento dell’espansione edilizia, tendono in
considerazione che negli anni ’70-’80 l’espansione è stata vorticosa.
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Fare riferimento ad una tipologia vuol dire fare riferimento ad una astrazione e quindi ad un
raddrizzamento, ad una trasformazione di fatto del tessuto rubano. Questa teoria dell’intervento fu
abbastanza criticata, nonostante i suoi vantaggi, ovvero nel rendere abitabili alcune porzioni del
tessuto storico poiché di contro andava a snaturare il tessuto urbano. Fu un esperienza
estremamente signi cativa, poiché negli anni ’70 il tema della casa, anche dal punto di vista
politico è un tema molto accesso, per la ricerca di nuove abitazioni e quindi anche del recupero
dell’edilizia esistente e anche il tema del fatto che progressivamente quanto più si interveniva a
restaurare nel centro storico, tanto più venivano estromesse le classi sociali che ci abitavano e
che erano più povere, per dare luogo a nuovi proprietari che erano in grado di acquistare edi ci
restaurati, e sono queste le premesse della terziarizzazione dei centri storici, dove abbiamo interi
palazzi che sono vivi nei giorni feriali e poi nel ne settimana sono deserti perché acquistati da
grandi società, trasformati in u ci, con una perdita di quel tessuto sociale, che vedeva
storicamente la connessione di artigiani, di operai di gente umile, invece digeste facoltosa in un
tessuto dove questi diversi livelli sociali erano mescolati. Questo è un problema che si incomincia
a interfacciare in questi anni, e che verrà trattato in un convegno di Amsterdam del ’75, che ha
come tema la conservazione integrata, ovvero come bisogna conservare i centri storici, cercando
di mantenere all’eterno i vecchi abitanti e consuma diversi cazione delle attività che si svolgono al
suo interno. Questo per molti aspetti non è avvenuto, poiché con il corso degli anni, certe attività
sono state estromesse dal centro storico per motivi, di salubrità e altro.
Vedi Firenze —> operai che lavoravano i metalli nel centro storico, che progressivamente sono
stati estromessi dal centro, poiché la loro attività non era più pertinente con il contesto sociale.
Ma soprattutto il tema più importante è l’estromissione degli abitanti originari che non sono più in
grado, una volta restaurato il loro edi cio, di ritornarci piche non sono più in grado di sostenere i
costi —> vedi gentri cation. Si perde questa commistione del tessuto sociale ed economico.
A seguito di questo dibattito è signi cativo che nel 1975 venga istituito il Ministero per i Beni
Culturali da Pierluigi Spadolini. Il problema dei monumenti nel modo storico di intenderei era
gestito dal Ministero per la pubblica istruzione, che ave aut settore che era quello dell’antichità e
belle arti che si occupava dell’istruzione artistica, dei licei, delle accademie, e delle tutele dei
monumenti. Questo avviene anche perché sempre a seguito delle distruzioni belliche, se da un
lato la ricostruzione edilizia urbanistica corre e nei primi dieci anni post guerra si ha il boom
edilizio, per quel che riguarda le architetture monumentali, il problema persiste, per questioni
economiche e perché il patrimonio dei monumenti italiani è vastissimo. Quesì comporta che nel
1964 venga istituita una commissione, che farà un lavoro di indagine sullo stato del patrimonio
storico e artistico italiano, a tutti i livelli. Questa commissione nota per il suo coordinatore,
Franceschini, lavorò molto bene. Purtroppo gli esiti dei lavori non sfociarono in una legge nuova,
ma da una svolta alla cultura che porterà alla nascita del Ministero.
Pubblicheranno gli esiti del loro lavoro in una studio intitolato “Per la salvezza dei Beni Culturali”,
molto interessante anche per il straordinario repertorio di fotogra e al 1964, dove ancora gli
squarci della guerra non sono ancora stati risanati. Vi sono due fronti di sviluppo di interesse: da
un alto la dimensione urbana e urbanistica che vede le questioni dell’urbanistica intrecciarsi con
l’attenzione ai centri storici, dall’altro anche l’esigenza di fare il punto della situazione post bellico.
Anche nell’ambito del restauro c’è la necessità di ripensare al modo di operare, anche in relazione
alle conseguenze di questo interesse per il centro storico. In questo ambito nasce l’idea di
conservazione. Il primo passo è un rilettura degli autori del passato per cerca di capire, di trovare
degli spunti per orientare in modo diverso l’intervento di restauro, e che fosse un intervento
attento alla conservazione del tessuto storico. Che porterà all’idea di conservazione come
conservazione materiale che mette al centro l’attenzione alla parte sica degli edi ci.
La commissione Franceschini de nisce il bene culturale come la testimonianza materiale della
civiltà e con questo ssa il signi cato del bene culturale ancorandolo alla materia di cui è fatto,
alla sua autenticità. Questo è un passaggio signi cativo, perché da quel momento, prenderà
piede una progressiva attenzione alla materia degli edi ci.
Ruskin nasce nel 1819 e muore nel ‘900. E rappresenta un punto di vista completamente diverso
rispetto a Viollet Le Duc. È glio di una famiglia facoltosa e come tutti i giovani di buona famiglia,
la sua formazione è basata sui viaggi, e in Italia tornerà moltissime volte, circa 17 volte di cui 11 a
Venezia. Questo lo mette in contato con un mondo soprattutto quello veneziano che è molto
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particolare per i colori, per il chiaro scuro delle facciate degli edi ci, e gli farà sviluppare
un’attenzione particolare per gli aspetti materiali delle decorazioni.
Ruskin era uno storico dell’arte molto importante, insegnava ad Oxford, ma la questione della
conservazione, questo suo lato e avversione per il restauro è una questione che è poco
conosciuta nei suoi riguardi. Ha un in uenza decisiva, sul piano della pittura, sul piano della
conservazione e dell’architettura invece la sua in uenza è secondaria. Ruskin era assolutamente
contrario al restauro dell’architettura.
Tra le opere che ci interessano:
1949 —> pubblicazione delle “Sette lampade dell’architettura”, che sono gli aspetti rilevanti
secondo Ruskin dell’architettura. Tra queste sette lampade c’è la lampada della memoria, dove
esplicita il suo pensiero sul restauro.
Per capire meglio quale sia l’approccio di Ruskin, che ha una ipersensibilità che lo porterà alla
follia, infatti morirà anche per questioni personali pazzo.
È interessante capire quali sono le coordinate che gli fanno leggere in tutt’altro modo
l’architettura. Ruskin è inglese, quindi ha come substrato culturale la cultura inglese, che è la
cultura dell’empirismo, nn del razionalismo cartesiano come la Francia. Il suo interesse per il
medioevo non è uguale q bello dell’Europa, non vi è un atteggiamento di riscoperta. Quello che
interessa di più a Ruskin è il modo con il quale è gestito il cantiere dell’architettura medievale/
gotica. Ma bisogna considerare che l’Inghilterra a metà dell’800 è un paese in piena
industrializzazione. E questo fa mostrare prima che in altri paesi il lato negativo dell’accelerazione
industriale. l’Inghilterra vede per prima gli e etti negativi provocati da questa repentina
industrializzazione provocata e sostenuta anche da un economia liberista.
È infatti in Inghilterra che si di onde il pensiero di Hegel e di Marx e quindi le radici di quella che
sarà la ideologia comunista. Nascono anche quelle visioni di socialisti utopisti, e Ruskin farà parte
di questi gruppi, nanziando lui stesso queste iniziative.
Ruskin pone l’attenzione sul valore della persona, sulla dignità della persona. E sarà tra i primi a
sollevare una forte critica verso il consumismo.
Producendo un numero più esteso di un prodotto il prezzo si abbassa diventano più accessibile
ad un numero più alto di produzione, questo però signi ca anche una minore qualità.
La vita nella fabbrica morti ca la personalità dell’uomo che per come è organizzata la fabbrica del
tempo non fa partecipare il singolo alla produzione di un oggetto intero, e quindi non c’è mai
quella grati cazione che invece ha l’artigiano che realizza un oggetto occupandosi di tutto il
processo. Qui vediamo l’interesse per l’artigianato che si svilupperà in un movimento creato da
William Morris chiamato Art&Craft.
L’uomo nella sua visione trae non solo il suo mezzo per vivere, ma la realizzazione dell’oggetto è
anche il completamento, il modo con il quale soddisfa la sua personalità nel vedere compiuto e
realizzato qualcosa che è stato tratto da materiali naturali avendo una funzione di arte ce.
Chiunque lavori un materiale naturale ha questa dimensione, la dignità, che invece non è presente
nella fabbrica, dove si veri ca l’alienazione delle persone. L’artigiano crea l’oggetto e si eleva.
Ruskin apprezza molto il periodo gotico perché secondo lui il cantiere gotico è il sistema
esemplare dell’organizzazione di un lavoro collettivo. Nel cantiere gotico ogni singolo operaio
produce una parte che va a comporre il disegno unitario. Questa è secondo ruskin la modalità di
lavoro per eccellenza, una modalità fatta di armonia, dove il singolo esiste nel collettivo e
viceversa e dove il singolo ha la possibilità di esprimersi nella sua individualità.
Si preoccupa del problema della qualità della produzione e non solo della quantità, perché è e da
quell’epoca che si arriva poi all’estremo consumismo. Questa idea di arte che ha Ruskin è
collegata alla realizzazione materiale da un lato, ma anche spirituale dell’uomo e che risponde alla
sua dignità. L’arte ha una corrispondenza con valori morali e spirituali.
In generale l’arte, è la scoperta di un mondo nuovo, che l’artista fa estraendo dalla natura gli
spunti creativi, e a questa dimensione sono accomunati l’artista in senso tradizionale di gura rara
con l’attività dell’artigiano. La natura è il dato fondamentale della sua idea di bellezza e di verità
che sta nella natura. Per Ruskin nella natura è immanente la divinità. L’uomo che maneggia il
materiale naturale, entra in contatto con il divino, e anche questo aspetto da un signi cato
importante sul piano morale e spirituale sul fare artigianale. L’espressione ideale del lavoro è la
sintesi e la collaborazione che si sviluppa all’interno del cantiere gotico. Un dettaglio importante
del fare individuale. La natura è il luogo della verità dal quale l’artista e l’artigiano attingono e
questo rapporto lo vediamo anche nel modo con il quale ruskin considera l’edi cio come oggetto
costruito e in particolare quando dice che l’edi cio raggiunge il suo massimo splendore nel
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momento in cui diventa un rudere —> perché? —> perché l’edi cio che è frutto dell’elaborazione
materiale del costruttore, ritorna alla natura, al divino. Questo è un aspetto esasperatamente
romantico che va compreso nell’articolazione con il suo pensiero, e con il contesto in cui Ruskin
vive.
In realtà Ruskin dice delle cose molto interessanti rispetto agli edi ci: dice che c’è il bisogno di
costruire bene, con materiali solidi, perché nel momento in cui l’edi cio inizia ad essere degradato
bisogna lasciarlo andare al suo destino, che è un destino di perfezione perché il rudere ritorna alla
natura, ma si deve al tempo stesso ritardare questo avvento.
La storia è il modo con il quale gli uomini si rappresentano il loro essere nel tempo.
La storiogra a mette in ordine le sequenze storiogra che —> cambia la visione storica a seconda
delle epoche. È un modo di rappresentare il nostro essere nel tempo culturalmente
ridimensionato. Fare riferimento ai valori della memoria signi ca fare riferimento a fattori
psicologici, emotivi, del singolo e in questo senso il grande contributo di Ruskin è dire che la
possibilità di riconoscere questo dialogo con le generazioni che ci hanno preceduto trova nei
segni della memoria del tempo trascorso un veicolo di comunicazione.
L’edi cio, che porta i segni del tempo, che mi dice per l’aspetto che ha non nuovo, per ciò che
che ha trascorso mi mette in comunicazione con ciò che mi ha preceduto, con il tempo che ha
vissuto prima che lo vivessi io in prima persona. E questo fa si che la memoria degli edi ci non sia
alterata. Questo fa si che ognuno possa leggere in modo personale i segni del tempo sugli edi ci
che stabiliscono un legame di memoria con il passato.
Secondo Ruskin Cambiando i connotati dell’edi cio, con il togliere questi segni del tempo, si
toglie anche il linguaggio della memoria che ci mette in contatto con il passato, cancellando la
loro più grande qualità, cancellando la loro memoria.
Nel modo di recepire anche il paesaggio urbano, come succede per alcuni edi ci storici di Verona,
sono estremamente apprezzati da Ruskin poiché appartengono a quell’epoca in cui il lavoro è
corale e non morti ca la dignità dell’uomo.
Ruskin terrà delle conferenze a Manchester dove ricorda che anche il paesaggio non è una
proprietà ma è in custodia. Invita a conservare il paesaggio per trasmetterlo nelle condizioni
migliore alle generazioni successive. Riesce a vedere oltre a quello che i contemporanei di quel
momento riescono a cogliere. Dal punto di vista della cultura della conservazione, questo
atteggiamento di attenzione e mancanza di pregiudizi dei segni del degrado, è un approccio
molto positivo.
L’approccio di Ruskin è quello di arricchire di informazioni, così chi osserva si fa delle domande,
se un edi cio è in grado di incuriosire, di suscitare domande, riesce a stabilire una relazione.
Mentre la versione codi cata data dal restauratore è il modo univoco con il quale intendere
l’oggetto.
Noi ad oggi rappresentiamomi materiali e il degrado per conservare l’edi cio, se dovessimo farlo
in toto non ci interesserebbe indugiare in questi dettagli. In comune c’è questa attenzione alla
consistenza materiale, perché è quella che parla a colui che osserva l’edi cio.
Come storico dell’arte Ruskin sostiene la corrente dei pre ra aelliti, pittori che si rifanno alla
pittura del beato angelico, prima del rinascimento, perché a suo avviso l’architettura e la pittura
del rinascimento sono troppo intellettualistiche. Mentre quelle dei primitivi sono più spontanee, e
quindi ritroviamo questa sua predilezione non per ciò che è strutturato razionalmente, ma per ciò
che è più emotivo, primitivo.
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—> Schizzo della Chiesa di Santa Maria della
Spina a Pisa, una chiesa gotica. Anche qui
Ruskin la riduce ad una sequenza di pinnacoli
per darci la sostanza della sua impressione.
Il suo approccio, il suo modo di riconoscere i signi cati dell’architettura sicuramente ha dato una
base per l’approccio che poi la conservazione ha sviluppato, proprio nell’attenzione a quel
signi cato di memoria, che non ha bisogno dei ltri culturali, per essere recepito, apprezzato, per
stabilire un senso di appartenenza con il tessuto storico. I tecnici non devono avere pregiudizi,
considerare il degrado prima di tutto come una fonte di informazione, e poi stabilire se qualcosa è
dannoso e nel caso rimediare. Non sempre ciò che sembra un degrado lo è.
I valori di Ruskin sono: manutenzione, cura quotidiana come mezzo per evitare di avere poi
necessita di interventi drastici, e per prolungare la vita dell’edi cio. E la mancanza di pregiudizi su
ciò che appare invecchiato dal tempo e il fatto di fare riferimento alla materia autentica.
Si occupa di arti minori, di quegli oggetti che non hanno una documentazione scritta. Si occupa
anche di epoche che non sono favorite. Ha un approccio del tutto personale anche come storico
dell’arte, e si sviluppa un metodo di studio partendo dagli oggetti, cercando di ricostruire la storia
di questi oggetti partendo dalle tecniche.
Da persona che non aveva mai a rontato le questioni relative al restauro, la prima cosa che si
chiede è come nel corso della storia siano stati considerati i monumenti e i rapporto a ciò quali
tipi di restauro siano derivati. Quindi mette in relazione il modo di vedere delle culture con le
operazioni fatte. Capisce che nell’antichità il concetto di monumento è legato solo ai monumenti
voluti.
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Lezione 25/11 – FONDAMENTI CONSERVAZIONE
Introduzione
Conservazione= attenzione alla materia degli edifici, come veicolo dei valori di memoria dell’antico
RUSKIN ha dimostrato avere un approccio alla conoscenza degli edifici che segue un canale diverso da quelli
visti e praticati nella storia del restauro, ad esempio di Viollet, o di quelli italiani analogici che hanno come
riferimento la storiografia positivista dell’800 (utilizzata come strumento per arrivare ad una riconfigurazione
dello stile). Un’operazione, che fa riferimento da un lato ad un’idea positivista, ossia dei fatti storici, dall’altro,
è vista come di supporto ad una rintegrazione di un’unità dello stile, di quello che si percepisce osservando
un edificio, ossia con una finalità idealistica che sottende un’idea di tempo ciclico, ossia che può tornare
indietro al punto di origine. La storiografia positivista che classifica le epoche storiche in ragione dei caratteri
stilistici che le varie epoche presentono è la base per la conoscenza del documento storico artistico in Boito
e di quello in Giovannoni. Abbiamo perciò questo sfondo di storiografia evenemenziale, che perdura dal 800
alla metà del 900, che dà gli strumenti dell’organizzazione del sapere della storia dell’architettura ai manuali,
che seguono questo schema classificatorio diviso per eventi, come sequenza di stili. In questo approccio è
prevalente soprattutto, per il restauro filologico in Boito e Giovannoni, il valore storico; non a caso si dice che
il monumento è un documento della storia. Un documento di valenza molteplice come dice Giovannoni, che
va al di là della documentazione della storia dell’arte di un’epoca, ma che interessa anche scelte diverse,
come la legislazione, le scienze giuridiche, dei materiali ecc. Infatti, abbiamo visto che il restauro filologico va
in crisi con la Seconda guerra mondiale, poiché cadono i riferimenti, per cui gli operatori potevano fare
restauri seguendo queste direttive, perché il restauro filologico in caso di piccole porzioni prevedeva di
reintegrarle solo se bene misurate. I danni bellici ridussero il patrimonio, rendendo inapplicabile questo
criterio di rintegrazione del restauro filologico, per cui non si poteva reintegrare un monumento se mancante
il protagonista, l’artista, a cui viene data la piena libertà di intervenire, a cui si dà il potere di reinterpretare
l’opera, per trasformarla in una nuova contemporanea, anche con la privazione di parti importanti. Questa
teoria, che si appoggia soprattutto alla riflessione degli storici d’arte in riferimento alla pittura, non ha avuto
una trasposizione reale in casi esemplificativi di restauro architettonico, poiché già essendo totalmente
sbilanciata sul ruolo del restauratore come artista, gli da un eccesso di potere. Non solo, bensì sappiamo che
l’estetica è un fatto di gusto che varia nel tempo e da soggetto a soggetto, e questo ruolo del restauratore
come artista, non è un approccio funzionale per intervenire nel restauro.
Dopo la Seconda guerra mondiale i problemi della ricostruzione sono enormi, oltre alla crisi del restauro
filologico, si affaccia la necessità di incominciare a interessare il restauro anche alla dimensione cittadina, ad
esempio nel caso di ricostruzione del ponte di Santa trinità a Firenze, che per la sua funzione interessa non
solo la singola ma anche le rive dell’Arno; quindi, si pone il problema di occuparsi del connotato urbano.
Questo concetto sarà ribadito nel 1964 nella carta di Venezia, dove si dice che i monumenti debbano
considerarsi nell’ambiente cittadino e che perciò va considerato anche l’ambiente urbano che lo circonda.
Nel contesto milanese della ricostruzione ad esempio è nata l’esigenza di trovare un nuovo modo di approccio
agli edifici da ricostruire post bombe, nata soprattutto da un personaggio fiorentino che ha insegnato anche
a Milano, Marco de Zibardeschi, in questa fase di ripensamento di ricerca verso anche l’edilizia comune, in
ambio urbano. Un caso concreto negli anni 70 fu il piano di recupero per il centro storico di Bologna, che fu
infatti dal punto di vista amministrativo una grande innovazione, ma con ambizioni disattese, e con
l’applicazione di un metodo di lettura del tessuto urbano discutibile, chiamato restauro tipologico. Si trattava
di Individuare nel tessuto storico di bologna il lotto edificatorio, stabilendo un tipo, una forma di riferimento,
su cui vengono fatti gli interventi. Il tipo è un’astrazione rispetto al reale, quindi il recupero di questa zona
centrale di bologna fu consistente nel raddrizzamento di alcune murature, corrispondente ad una idea
astratta di tipo, che diventò una forzatura sugli edifici. Però fu interessante per la dimensione che includeva
l’amministrazione della città di rendere disponibili edifici che erano vecchi, nonostante il metodo fu
discutibile da un punto di vista teorico. In questo quadro anche la rilettura di autori ha portato a mettere
appunto dei riferimenti che hanno dato corpo a questo approccio che noi oggi chiamiamo conservazione. Qui
interviene la figura di Ruskin, noto anche ai restauratori Boito e Giovannoni, che inizialmente non si erano
soffermati sul suo personaggio visto come ‘’ la rinuncia al fare ’’ , ma rileggendolo però son riusciti a cogliere
un lato importante del suo contributo, ossia la cura quotidiana, la manutenzione, che assicura il buon
funzionamento dell’architettura, e che deve essere dettata dall’amore per le cose tramandate. Alla base del
discorso di Ruskin c’è questo nuovo sguardo che mette al centro la materia, mette al centro la sua autenticità;
il restauro altera i connotati sostituisce la materia, cancellandone i segni, facendo perdere i valori di memoria
che la materia porta con se. La memoria è infatti qualcosa di variabile nel tempo che non è evocabile a
comando come appare in una struttura storiografica che aiuta a collocare gli episodi costruttivi di un edificio.
Parlare di materia segnata dal tempo, fuori dagli schemi della storiografia evenemenziale, significa parlare di
tutto ciò che è costruito che porta con se un valore di antico, di tempo trascorso, che mette in rilievo il tempo
che trascorre, in un dialogo tra il singolo edificio e il contesto urbano. Di conseguenza non c’è più la gerarchia
tra gli edifci comuni e monumenti importanti, poiché sono entrambi costruito.
ALOIS RIEGL
Alois Riegl (1885-1905) partecipò all’intervento di restauro al campanile di Aquileia, proposto a ridosso
dell’episodio traumatico avvenuto nel 1902 quando era crollato il campanile di Venezia (da questo momento
in poi i campanili venivano tenuti sott’occhio). Pur essendo uno storico dell’arte Riegl si era documentato
sulla questione del restauro, poiché incaricato dal governo austriaco di creare una legge per la tutela dei
monumenti, per la quale enunciava prima di tutto che i monumenti devono essere sicuri. (infatti il campanile
di Aquileia, vene restaurato poiché venne costruito in un modo poco regolare, aveva subito terremoti, e
passava l’acqua dal foro della croce in cima alla copertura rimossa, che aveva danneggiato i solai e altre parti;
era stato vietato infatti il suono delle campane per le vibrazioni pericolose) In sostanza però il campanile non
aveva problemi statici ma problemi relativi alle superfici, infatti nel 1877 era previsto già il rifacimento del
paramento murario fino al primo marcapiano (Muratura a paramento, significa di cui non vedo l’interno:
costituita da tre strati, due strati esterni solitamente regolari fatti in pietra squadrata o mattoni, ed uno strato
interno di una malta con ciottoli, pezzi di mattone ed ecc.). Nell’ottica dell’intervento nell’1877, dopo essere
state tolte tutte le bozze che rivestivano l’esterno, venne rifatto utilizzando
delle bozze squadrate di pietra, come si vede in questa foto ai tempi che
precedono l’intervento. Prima al di sopra della parte sostituita che arriva
fino a sotto il primo cordolo, il paramento era come si vede qui, ossia privo
dei spigoli vivi delle bozze,e mancante dei letti e dei giunti di malta->questo
non andava bene perché si infiltrava l’acqua, uno dei veicoli peggiori dei
materiali, e quindi anche delle strutture, perché quando entrava nel muro
indeboliva la struttura, la sua resistenza meccanica, e la malta.
Riegl dice che bisogna rendere sicuri i muri, allora suggerisce di ristillare i
giunti, che significa riempire di nuovo i letti orizzontali e i giunti verticali dove
si accosta una pietra e l’altra, ma senza arrivare a rasarli al filo della
superficie, perché non necessario e perché rimanendo un po’ indietro si
garantisce il chiaroscuro che conserva la qualità, il senso dell’antico del
monumento. Perciò Riegl risana il monumento ma considera la qualità di
antico che il campanile possiede. Egli viene scoperto dai restauratori a partire dagli anni 70, perché prima era
associato alla figura di teorico del visibilismo, e solo in un secondo momento come figura che incaricata dal
governo austriaco per la tutela dei monumenti. Alfredo Barbacci e Giovannone lo citano e lo conoscevano
ma mai con riferimenti espliciti alla sua figura. Ed è interessante vedere come uno storico dell’arte sia in
grado di vedere quello che i restauratori non riuscivano a osservare. Vediamo come arriva ad avere una
visione personale della restaurazione dei monumenti che contribuisce a cambiarne la visione nel restauro.
Riegl dà un contributo importante per la tutela del monumento, fornendo un nuovo concetto di monumento
strettamente connesso alla nozione di tempo, di divenire, di testimonianza storica. Elabora questo pensiero
ai primi del 900, anticipa il restauro filologico in senso moderno che porterà avanti Giovannone, una decina
di anni dopo. Questa visione del monumento, quindi, è una previsione del documento storico moderno che
cominceremo a vedere in Giovannone. Riegl elabora una sua teoria sui valori artistici e come si son evoluti
nel tempo, che sono legati al processo storico, in pratica è la prima cosa di cui si occupa per fare un’analisi
del monumento in maniera corretta. L’Associazione di monumento in senso moderno è una specificità di
Riegl. Questo approccio viene da una strada diversa dall’architettura; nel 1891 Riegl pubblica un testo ‘’
antichi tappeti orientali’’, e con questa prima esperienza inizia a metter in appunto il suo metodo di studio
per comprendere gli oggetti artistici e per farne la storia; Riegl si occupa di quel che poi verranno chiamate
arti decorative, arti minori, ossia la produzione artigianale di oggetti come tappetti e tessuti. Per arrivare a
trarre delle conclusioni scientifiche Riegl si costruisce un metodo basato sull’analisi diretta dei materiali, che
infatti per la storia dei tappetti è fondamentale, perché per oggetti minori come tappeti non ci sono
documenti scritti, quindi è uno studio che lui fa che è strettamente legato agli aspetti artistici, intesi come
vita sociale, economica, e strumenti per il lavoro. Le tecniche artistiche sono legate ai sistemi produttivi,
poiché cambiando gli strumenti in un tappetto ne cambia anche il valore artistico. Partire dagli oggetti fisici
significa mettere a centro i reperti, e la caratteristica del su approccio è di essere completamente scientifico,
cioè si pone con un atteggiamento valutativo, non si pone un fine, non deve dimostrare nulla, ma deve agire
con un metodo rigoroso, per poi trarne delle conclusioni.
Altro tipo di attività che svolge viene poi pubblicata in un testo nel 1893 ‘’problemi di stile’’ relativo ai suoi
studi per comprendere i criteri dell’arte ornamentale, ed in questo caso si occupa di tessuti (altro tema che
non è all’ordine dell’arte di tipo classico). Egli arriva ad elaborare un concetto che poi applicherà anche al
concetto di monumento e di restauro, ossia il cardine del suo modo di pensare innovativo, che prende il
nome di KUNSTWOLLEN termine tedesco : kunst-> arte, wollen -> volontà d’arte -> è il rendersi conto che in
ogni epoca il prodotto artistico artigianale vede l’artefice infondere nell’oggetto non solo la sua creatività ma
anche il clima del suo tempo, ogni oggetto artistico ha un corrispettivo con l’epoca in cui è prodotto, e può
essere dato dal tipo di tecnica che si sviluppa in un determinato periodo storico e che poi produce effetti
artistici. Questo concetto gli fa capire che questa capacità volontaria e non, dell’artefice di immettere
nell’oggetto che realizza anche il clima del tempo, è quel aspetto che lo storico dell’arte deve cercare di capire
per comprendere in modo rigoroso la storia dell’arte. Questo concetto lo riapplica di nuovo su uno studio
che farà sull’industria artistica tardo romana, cioè a un campo di studio di produzione artistica di periodo
tardo romano, che non era un periodo su cui si concentravano gli storici dell’arte del tempo, che al contrario
davano attenzione al periodo in cui l’arte aveva raggiunto la perfezione, l’età classica, dovuta anche ad
un’influenza di Winckelmann. Riegl scardina questa idea di cardine di riferimento su cui si deve misurare
l’arte con l’età classica, perché capisce che ogni epoca ha le sue caratteristiche di produzione artistica, che
associano il contributo del singolo con il clima del tempo. Perciò il KUNSTWOLLEN è la capacità volontaria e
involontaria propria di ogni artefice di porre la propria opera in relazione con la dimensione sociale e culturale
in cui si trova ad agire. Lo storico capendo questo concetto può studiare scientificamente la produzione
artistica. Non esiste perciò un concetto assoluto di bellezza, bensì questa relazione tra il singolo e l’epoca, è
il nocciolo che lo storico dell’arte deve tener conto per capire un oggetto artistico. Il valore artistico perciò è
relativo, in base al periodo in cui sono prodotti. La relatività è una bomba all’interno della visione che
applicherà Riegl poi al campo dei monumenti. Perché arriverà a dire che non si potrà stabilire una regola
assoluta, come nel sistema arcaico, nell’età moderna va capito il KUNSTWOLLEN, ogni epoca ha l sue
caratteristiche, non ci può essere un canone di riferimento. Ai primi del 900 Riegl si rende conto che deve
capire il senso e il contesto di un’altra epoca, ossia il meccanismo dell’indagine su cui deve concentrarsi lo
storico. Per esempio questo atteggiamento che troviamo nell'ottocento rispecchia il fatto che il
KUNSTWOLLEN ottocentesco non è in sintonia con quello che nel 600 era associato alla produzione dell'arte
barocca, in questo caso l'avversione o la negazione di valore si associa a una totale incomprensione, e
produce rispetto al patrimonio monumentale distruzioni e rifacimenti; per converso quando c'è una forte
sintonia tra il KUNSTWOLLEN di una certa epoca produce un amore sconsiderato per questi monumenti e il
desiderio di restaurarli rendendoli ancora più medievali. Quindi Riegl mette a fuoco una questione che fino
a quel momento non era mai stata percepita e affrontata, che era proprio quella di capire come non solo nel
tempo variano le espressioni artistiche, ma bisogna fare i conti anche con quella della cultura contemporanea
perché è quella che in fondo da gli occhiali con i quali si osservano gli oggetti del passato e con questo
appunto scardina proprio l'idea di monumento storico artistico al punto che arriva a dire il valore artistico
relativo non può essere una regola, non possiamo più parlare di monumenti storici artistici, ma solo di
monumenti storici perché la successione dei fatti che si sono susseguiti e accettati nella storia sono tali e
quindi io ne posso prendere atto, mentre il valore artistico è variabile nel tempo quindi non è un riferimento.
Riegl morirà nel 1905, non farà in tempo a completare questa legge, ma farà una conferenza nella quale
presentò una relazione in cui dà l’introduzione degli articoli che avrebbe scritto nella legge, sul culto moderno
dei monumenti, da cui prende il titolo. La prima parte tratta l’analisi dei valori che sono caratteristici dei
monumenti e cerca di capire come appaiono nel corso della storia, mentre nella seconda parte esamina gli
effetti attribuiti ai monumenti nel campo dell’operatività esaminandone anche i conflitti che tra questi valori
possono presentarsi. In sostanza Riegl per avvicinarsi all’architettura, come prima domanda si pone ‘’quali
sono i valori attribuiti ai monumenti nel corso della storia?’’. Dopo aver individuato che il valore artistico è
relativo, che non si parla più di monumenti storici artistici, ma solo di monumenti storici, si arriva al pensiero
che si deve far riferimento ai documenti storici per un approccio scientifico, ed un intervento di restauro.
Riegl cerca di capire le linee di sviluppo dei valori riconosciuti nei monumenti, valori riconosciuti come
memoria, che riprendendo proprio il nome ‘’monumento’’ dal latino -> ‘’monere’’, monumento è ciò che
ricorda. Fino alla meta ’800 il monumento significava la statua, cippo, lapide, oggetti del passato, non veniva
ancora associato all’architettura. Di fatto ci fu una sorta di svolta a metà del secolo quando il termine si
avvicina all’architettura, grazie agli studi di filologia, nei primi dell’800 fine 700, per mettere in luce i
documenti della storia politica; ad esempio, nei volumi pubblicati dallo storico Ludovico Antonio Muratori
con il titolo ‘’monumenti di storia patria’’, la parola monumento è intesa come memorie documentarie scritte
nella storia patria.
Quando abbiamo visto l'intervento di restauro analogico stilistico per Santa Maria Novella a Firenze nel 1860,
a Firenze venne emanato un decreto per formare una commissione per la sorveglianza dei monumenti e degli
oggetti d'arte, e in questo documento parlare di monumenti come oggetti d'arte sta a significare che i
monumenti sono come architetture e oggetti d’arte cioè beni mobili e beni immobili come si direbbe oggi,
immobili sulle architetture e mobili sono quadri sculture ed oggetti d'argenteria. Cambia anche il significato
italiano della parola, l’architettura diviene una testimonianza storica, un documento della memoria. Questi
valori attribuiti ai monumenti, in quanto memoria, vedono alle origini il monumento nato come celebrazione
di figure importante, e questi RIegl li chiama i monumenti voluti: oggetti costruiti apposta per celebrare, ad
es. la colonna traiana, l’Arco di Costantino. In altre parole i monumenti voluti esistono da quando esiste il
potere che vuole autocelebrarsi, poiché finchè esiste questo potere che li ha costruiti, l’operazione di
mantenimento presuppone il ripristino, cioè devono rimanere uguale a stessi in quanto simbolo di trionfo
del potere, che di conseguenza non deve subire un degrado perché poi significherebbe un degrado del
potere. L’architettura dei monumenti voluti nasce per essere un simbolo immortale del potere che lo ha
voluto e costruito. Ci sono quei monumenti che Riegl chiama invece involontari, che sono ad esempio quelli
nati nel rinascimento, in cui il principe, il banchiere, chiama l’architetto per costruire un palazzo per
dimostrare la sua ricchezza -> è un monumento involontario, perché nasce dall’iniziativa personale di un
singolo soggetto ma la sua importanza architettonica è riconosciuta come una tappa importante per
l’architettura, quindi non ha il fine di autocelebrarsi, ma il suo essere monumentale è determinato dal valore
di esempio che assume nei tempi successivi nella storia dell’architettura. Se si innesca questo
riconoscimento, il valore storico richiede che l’oggetto sia conservato, come se congelato nello stato
originario, perché è un oggetto di studio ed è parte della storia dell’architettura (Il valore di antichità invece
è quel valore che nell’immediato di una percezione ci fa percepire che un edificio è antico).
Riegl individua quindi tre classi dei monumenti: intenzionali, storici, e antichi. Queste tre classi sono
appartenenti ad uno stesso insieme, i monumenti antichi sono il gruppo più grande, nel cui interno troviamo
quelli storici, come sottogruppo ancora troviamo quelli voluti. Nel caso dei voluti abbiamo un approccio di
ripristino, in quelli storici abbiamo un approccio di conservazione senza alterazione, in quelli antichi non si
può far nulla poiché prevale il valore di antichità, cioè nell’antichità e nel degrado risiedono i segni del tempo,
quindi non si può far nulla. Riegl è consapevole che i monumenti devono essere utilizzati, trasmessi al futuro
quindi l’intervento deve limitare al possibile questi valori percettivi. Ad esempio se si pensa all’intervento del
campanile di Aquileia, Riegl da un lato propone un approccio conservativo e dall’altro propone di convertirlo
in utilizzabile.
Riegl approfondisce la sua analisi dei valori concentrandosi soprattutto sull’uso. Egli dice che esiste il valore
artistico definito elementare, non filtrato dalla cultura, che è quello che si associa all’idea che se non ci sono
le superfici lisce e gli spigoli vivi, un edificio che deve essere riusato non viene apprezzato, perché l’uso non
solo richiede l’ammodernamento delle dotazioni, ma associato a questa idea elementare, dall’utente viene
associato ad avere le superfici lisce non degradate; in altre parole, l’utente lo vuole vedere come se fosse
nuovo. Questo valore lo chiama valore di novità, valore artistico elementare, che sta nella percezione del
pubblico per cui quando si riutilizza un oggetto storico interviene questa richiesta, associata a questo valore
elementare non filtrato. Valori d’uso e valori di antichità sono i valori più in contrasto, perché messi a
confronto il valore di antichità logicamente perde perché prevale l’esigenza di uso ed elementare di sembrare
nuovo, anche perché le superfici usurate, antiche, danno l’idea di povero. Riegl Quando parla di valore storico
dell’architettura, sostiene che richiede la conservazione così come pervenuto l’oggetto, e fornisce un
consiglio, ossia che l’indagine storiografica va fatta a tavolino, non va fatta sull’edificio, che va conservato
così come è arrivato, l’indagine va effettuata a apre tramite ipotesi.
Borjack scrive un articolo in ‘’paragne arte ‘’ 1978, è un precorritore dell’interesse degli edifici comuni. I
patrimoni anche non eclatante, ma dei monumenti anche piccoli, coo monumenti identitari, che meritano
quasi più cura dei monumenti importanti. La trasformazione del patrimonio degli edifici di minore importanza
rispetto a quelli di grande è una perdita irrevocabile. Borjack associa la conservazione soprattutto di quelli
modesti alla ricchezza spirituale della popolazione. Riecheggiando Ruskin, Borjack dice che la vita si
impoverisce se si impoverisce l’ambiente circostante. Ciò deve essere fatto senza preclusione di stile
seguendo la lezione di Riegl. Borjack cita il barocco dicendo che anch’essi meritano il restauro. Borjack è
contro il restauro positivista. Chiunque sia in grado di cogliere il valore del restauro dei monumenti minori,
deve sentirsi in dovere, chiunque uomo colto. Come diceva anche Ruskin, la ricchezza spiritale determina
un’attenzione di tutti che la devono preservare, e contribuire rispetto al possibile alla conservazione.
A questa operazione di protezione, di conservazione tutti devono concorrere, lo stato per quello che gli
compete, il clero che è proprietario di una grande patrimonio e anche il singolo cittadini che deve
preoccuparsi del mantenimento di questi valor che fanno parte della cultura del luogo.
“I principi basilari della tutela sono elementari e possono essere riassunti in due postulati: 1. Conservare al
massimo i monumenti nella loro funzione e ambientazione originaria. 2. Conservarli nella loro forma e
aspetto inalterati. Questo lo dice perché le trasformazioni anche operate con le migliori intenzioni alterano
e snaturano gli oggetti. In questa sua visione riversa ciò che ha appreso dal pensiero di Riegl e a monte Ruskin.
Per quanto riguarda i restauri bisogna evitare per quanto possibile di arrivare a danni così importanti da
arrivare a manutenzioni drastiche, deve quindi essere perpetrata una manutenzione ordinaria, quotidiana.
Ma se si arriva ad over operare restauri drastici, questi devono essere affidati a persone competenti.
Importante è avere questa attenzione a non sostituire e non rimodernare nell’illusione di rende più bello
l’edificio perché questi rinnovamenti sono una sottrazione di quei valori che sono propri della tradizione di
questi edifici. Tutto questo è stato scritto all’interno di un testo molto importante che mette in rilievo
l’importanza di una tutela diffusa estesa al territorio non solo nelle grandi città.
Sul fronte della cultura austriaca vediamo come sia avanzato il valore spirituale associato alla conservazione
degli ambienti costruiti non solo degli edifici.
Quest’idea di conservazione mette al centro l’attenzione alla cura della materia degli edifici, con un approccio
che azzera questa idea di storia evenemenziale che si legge sui monumenti e che opera una divisione tra
Architetture e architetture. A questa idea di conservazione di cui l’intervento del Palazzo della Regione ne è
stato un po’ il manifesto negli anni ’80 hanno anche contribuito le svolte della cultura materiale associata ad
un nuovo modo di vedere l’archeologia e un nuovo modo di fare la storia. A questo proposito è da ricordare
come l’archeologia, diversamente dalla storia documentale, ha a che fare con la storia del passato ma senza
documenti. In concomitanza con la Rivoluzione russa, la nascita della visione socialista, si cerca di valorizzare
la storia del popolo delle masse, costituita prevalentemente da masse contadine e operaie. Questa
attenzione alla storia trova un punto di riferimento nel 1919 dell’accademia di storia della cultura materiale
che imposta lo studio della storia mettendo al centro l’interesse per queste masse che si possono conoscere
solamente attraverso lo studio dei reperti archeologici di questa popolazione con una vita materiale vissuta
sul territorio, che non lasciava documenti scritti, ma attrezzi da lavoro e la loro evoluzione.
In questa direzione si accende un interesse per l’archeologia medievale, per fondare la storia e l’identità delle
popolazioni.
L’accademia dello studio materiale che nasce in Russia ma ha sviluppo anche in altri paesi dell’Est come in
Polonia dove gli storici cercarono di fondare le radici dell’identità del popolo polacco per contrastare le tesi
della Germania secondo cui la Polonia era una sua dipendenza storica, mentre attraverso gli studi di
archeologia medievale si riesce a rivendicare l’autonomia culturale di questa popolazione. Perciò
l’archeologia medievale diventa uno strumento per attestare l’identità di un popolo. Anche in Inghilterra, in
parte in Italia, Francia e Olanda di afferma l’archeologia medievale, sempre per la necessità di sopperire alla
assenza di fonti scritte, per cui è importante avere dei reperti autentici, per dedurre considerazioni valide.
Questo ci fa capire come la storia basata su documenti sia una versione già interpretata, perché è
l’emanazione di enti che hanno un potere. Questo interesse per la cultura materiale che ha delle implicazioni
storico-politiche-filosofiche nei paesi dell’est ci intreccia con una scuola che prende forma i Francia che sia
chiama Scuola dell’annale, dalla rivista che diffondeva questi studi che dal 1926 mette a fuoco un nuovo
approccio nel quale si capisce che va individuato un nuovo metodo storico che dia voce alle masse che
producevano e lavoravano, e che nel corso del tempo producevano modificazioni nel sistema economico, ma
che erano analfabeti, non producevano quindi memorie, documenti.
Quindi la storia si rende conto che per studiare queste popolazioni sono i registri parrocchiali, dove sono
registrate le nascite, le morti i matrimoni, e si stabilisce un legame tra la geografia dei luoghi e la popolazione
che li abitava. Si fa strada una idea di storia continua dove l’evento si intreccia con i fatti quotidiani e il fatto
quotidiano ha importanza pari se non maggiore all’evento particolare. Per costruire questa conoscenza
storica quantitativa è necessario allargare la raggio di azione alla verifica di tipo statistico basato sugli oggetti
perché le masse contadine non lasciano documenti scritti. Il documento scritto è già filtrato, è quindi un
aspetto di quello che è successo. Questo emerge quanto l’interesse si sposta dalla vita degli eventi ai
fenomeni di trasformazioni che avvengano nella lunga
durata, che sono associati al cambiamento di
mentalità, delle piccole trasformazioni che in un arco
di tempo breve non determinano nessuno
cambiamento ma le determinano nel lungo periodo.
Nel campo dell’architettura questo si traduce nel fatto
che diamo attenzione a tutto ciò che è costruito e non
abbiamo questa selezione gerarchica tra ciò che è
l’architettura eccellente e l’architettura minore.
L’approccio è sempre lo stesso. La materia è materia.
In questo caso l’intervento fatto al Palazzo della
Regione è un po’ l’esempio di questo nuovo approccio
che è un edificio monumentale. Bardeschi fece della
parte superiore che era un sopralzo fatto alla fine del
‘700 per ospitare l’archivio notarile viene conservato
anche se nella storia dell’edificio non era
appartenente all’edifico comunale. Questo sopralzo
ha degli oculi barocchi. L’idea era di togliere questo
sopralzo, ma questo non si verificò mai e si arrivò così
agli anni ’80, approcciandosi all’edificio con un senso
di cura della materia astenendosi dal giudizio estetico
ed artistico. Dove manca qualcosa l’aggiungo, ma
quella cosa che viene aggiunta, l’aggiungo con un
nuovo linguaggio contemporaneo. L’adeguamento
normativo deve essere fatto con accortezza e
competenza. Non deve liberarsi sovrapponendosi a
quello che c’era già prima.
LEZIONE 12 (2/12) – FONDAMENTI DI CONSERVAZIONE
LA CONSERVAZIONE DEL MODERNO – TEMI E PROBLEMI
INTRODUZIONE
È stato affrontato il pensiero di Riegl e Dvořák ed è stato fatto riferimento all'idea di conservazione che
prende forma negli anni 70 del 900, rileggendo autori del passato ma individuando anche altri aspetti
rispetto alla conoscenza che se ne era avuta prima perché ovviamente anche nella lettura critica con tempi
diversi emergono e si rilevano nuovi aspetti. In particolare, riferendoci a quegli autori che sono stati
riscoperti per contributi che fino a quel momento non erano stati colti, proprio nel momento in cui si
ragiona sull'individuazione di un nuovo modo di affrontare l'intervento sugli edifici del passato, un modo
che tenga anche conto della necessità di estendere il compito del restauro non sono più ai monumenti, alle
architetture eccellenti, ma al patrimonio edilizio diffuso dei centri storici. C’è infatti un ampliamento del
campo di interesse della disciplina del restauro che emerge nel secondo dopoguerra quando si pongono i
problemi della ricostruzione edilizia urbanistica delle città bombardate e allo stesso tempo, negli anni 60 e
70, emerge il problema della casa e quindi della ricerca del di nuovi modi per creare abitazioni su una
richiesta che è sempre più estesa. Il dibattito sui centri storici emerge inizialmente, non tanto come
problema di restauro, ma come problema amministrativo cosa che si manifesta per esempio con il
convegno del 1960 di Gubbio nel quale gli amministratori comunali si pongono questo problema in un
momento in cui per il grande sviluppo industriale ha luogo lo spopolamento dei piccoli paesi soprattutto
nelle aree interne nel meridione perché le popolazioni, in cerca di lavoro, emigrano nelle grandi città
industriali Genova, Torino e Milano. A seguito di questo convegno ci sarà tutta una serie di nuovi congressi
che saranno promossi sotto l'egida dell'associazione nazionale legge centri storici che vedranno a questo
punto convergerà anche l'interesse di chi si occupa di restauro nella riflessione su come operare nelle parti
storiche delle città. In particolare, nel convegno di Bergamo del 72 emerge la considerazione che il centro
storico non ha soltanto un valore culturale e storico, ma anche economico perché si tratta di volumetrie già
costruite. Resta poi il dibattito di quanto sia conveniente restaurare piuttosto che costruire ex novo perché
ovviamente un intervento di risistemazione di un edificio esistente può avere dei costi che si pongono più
elevati della costruzione ex novo, questo dipende anche molto dalla capacità di gestire capitolato e lavori
con un controllo economico dei vari passaggi del cantiere. C’è da un lato la necessità di estendere
l'intervento al centro storico, che ebbe un caso di riferimento nell'intervento fatto nel centro storico di
Bologna negli anni 70, e insieme la ricerca di un metodo di intervento generale considerando che la
disciplina del restauro aveva avuto un momento di crisi dopo la seconda guerra mondiale perché non era
più applicabile il restauro filologico ma era emersa una tesi di restauro cosiddetto critico che affidava alla
totale interpretazione soggettiva e artistica del restauratore l'esito dell'intervento.
Quindi, la rilettura degli autori del passato fa scorgere un filo conduttore diverso rispetto a quello che si era
verificato fino a quel momento, e in particolare a partire da Ruskin, c'è un'attenzione non tanto al valore
storico dell'edificio, come oggetto classificabile nelle categorie della storiografia artistica, quanto nel suo
valore di memoria. Far riferimento ai valori di memoria sta a significare avere attenzione per la dimensione
individuale, del soggetto che percepisce questa realtà. La memoria è un fatto del tutto personale,
soggettivo, fa riferimento alla psicologia dell'individuo. Nel discorso di Ruskin, il valore della memoria si
mantiene solo se gli oggetti della memoria, che sono nel nostro caso le architetture costruite, se
mantengono i segni del tempo, che sono i segni della loro vita vissuta, vissuta prima della nostra stessa
esistenza perché gli edifici vivono molto più a lungo di noi. Questo fatto di conseguenza porta la ribalta
come centrale la materia di cui sono fatti gli edifici: è l'autenticità della materia che è indispensabile per
conservare questi valori di memoria che posseggono le cose del passato. Questo atteggiamento
nell’Ottocento portò Ruskin ad essere etichettato come l'anti-restauratore, perché appunto nell'idea di
anti-restauro c'è il fatto che l'edificio ha una sua vita che non va alterata e, pur promuovendo la massima
conservazione con la manutenzione quotidiana, l'intervento di restauro non è consentito e quindi l'edificio
deve arrivare alla conclusione della sua vita in modo naturale. In sintesi, Ruskin da un lato mette al centro la
memoria per la quale è indispensabile l'autenticità della materia e apprezza il costruito anche nei centri
storici, come accade per gli edifici gotici di Verona, dall’altro lato è contrario al restauro ma non rinuncia a
far durare questi edifici suggerendoci la manutenzione.
Questo è ribadito ancora da Riegl nel momento in cui, messo nella condizione di dover elaborare una legge
per la tutela dei monumenti austriaci, affronta questo argomento che per lui è nuovo, quello del restauro,
dei monumenti, e coglie nel valore di antichità quel valore che accomuna tutti gli oggetti costruiti (la
categoria del dei monumenti antichi è quella più ampia e un monumento è antico in quanto mostra i segni
del tempo. Pur essendoci ancora in quel momento storico l'idea di monumento come oggetto eccellente,
ciò che è portatore di segni del tempo appartiene alla più ampia categoria, all'interno di questa ci sono i
monumenti celebrativi, cosiddetti voluti, e quelli storici, che sono stati riconosciuti dalla collettività dopo la
loro edificazione come tappe significative della storia dell'architettura e che quindi meritano di essere
conservate). Ma ciò che dà all'uomo il senso del tempo che trascorre sulle cose è proprio il valore di
antichità e il valore di antichità fa riferimento alla materia, con i segni che testimoniano il suo essere vissuta
nel tempo. Questo discorso poi viene raccolto in modo proattivo quando si parla di restauro come progetto
ed esecuzione cantiere di un'opera che è consenta di riparare e riutilizzare un oggetto, quando negli anni
80 viene fatto l'intervento al Palazzo della Ragione a Milano, dove si fa attenzione a conservare più che si
può l'autenticità della materia, al punto che dove ci sono delle parti di intonaco caduto non sono
ripristinate e la superficie dove appare il mattone a vista messo a nudo dalla caduta dell'intonaco è
conservata così com'è, quindi la materia è curata ma non si interviene sotto il profilo estetico. Tant'è vero
che questo edificio, che fu il manifesto di questo modo di operare, destò molto scalpore perché secondo la
visione comune non sembrava restaurato avendo intonaco sfregiato o con delle parti cadute che mi
mostrano i mattoni sottostanti, un restauro dovrebbe rifare tutto uguale. Se si conserva la materia nella sua
autenticità, si conserva quello che è pervenuto fino a questo momento, anche nelle dissonanze, sostantivo
che però fa riferimento a una visione estetica convenzionale perché appunto fa riferimento all'idea che un
intervento di restauro debba rinnovare o cancellare i segni del tempo.
(fare attenzione alle parole: si dice oggetti costruiti no monumenti perché la dizione monumento è
superata in un linguaggio che faccia riferimento all'idea di conservazione, ciò non toglie che per intendersi
quando si parla di beni culturali, cioè edifici che ai sensi della legge dello Stato italiano sono protetti, si
parla non più oggi di monumenti ma di beni culturali quindi categoria che merita sotto il profilo legislativo
particolari adempimenti da parte del professionista).
Ciò che è stato importante anche in questa idea di conservazione è che ha individuato un metodo operativo
sia per ciò che è bene culturale, sia per ciò che quella che un tempo si chiamava edilizia comune, cioè
qualcosa che ha una sua storicità ma che non ha delle qualificazioni tali da meritare di essere tutelato.
A questo proposito, il discorso si è esteso a considerare una gamma sempre più ampia di oggetti di
interesse, per esempio le vecchie fabbriche abbandonate sono state progressivamente oggetto di interesse
architettonico, soprattutto nei paesi che si sono sviluppati industrialmente prima dell'Italia come
l'Inghilterra, la Germania diventando oggetto della cosiddetta archeologia industriale; così come
l'attenzione ai segni storici segnati sul territorio, per esempio le strade consolari o le strade dei grandi
pellegrinaggi, come il pellegrinaggio a Santiago di Compostela, che un tempo erano percorsi di pellegrini
che avevano anche una valenza estremamente forte sotto il profilo commerciale e culturale, perché con lo
spostamento delle persone si spostano le informazioni e i commerci, e oggi sono diventati parte di un certo
tipo di turismo che ne ha risollevato l'interesse. Questo naturalmente con tutta una serie di problemi
collaterali perché come sempre nella dimensione globale odierna, il grande interesse crea anche dei grossi
problemi, seppure sia un fattore importante di sviluppo e di acculturamento. Qual è il problema delle città
d'arti? il sovraccarico di persone in città come Venezia, Firenze, Roma che portano anche a un consumo del
patrimonio storico artistico.
Ribadendo il fatto che è l'autenticità materiale che ci interessa e che è la cura della materia “malata” della
quale si occupa il conservatore, il lato estetico, essendo una modalità di apprezzamento soggettivo è
estromesso dai criteri operativi e non parliamo più di monumenti storico artistici ma parliamo solo di
monumenti storici, perché l'apprezzamento artistico è relativo.
In questo senso è entrato anche nel campo di interesse del restauro, della conservazione il tema
dell'architettura moderna, dell'architettura non tradizionale, non realizzata con malta, mattoni, pietre e
calce ma con il cemento armato perché ovviamente anche questa è storicizzata. Naturalmente, a seconda
delle caratteristiche dell'oggetto, a seconda del periodo in cui è costruito, saranno differenti le
problematiche che dovrà affrontare chi interviene, ma il metodo è esattamente lo stesso.
SLIDE 1. L'attenzione
all'architettura moderna è un
fatto acquisito nella cultura del
restauro in tempi relativamente
recenti, circa intorno alla metà
degli anni del 900 e in Italia forse
anche un qualche decennio dopo,
a parte le opere di grandi
architetti moderni come Terragni
o Le Corbusier per la Francia.
Questa slide richiama
un’affermazione di un architetto
ottocentesco fiorentino, Giuseppe
Poggi, che fu l'autore dei viali di
circonvallazione del piazzale
Michelangelo e quindi del piano di
espansione della città da metà
dell'Ottocento. Egli in modo del tutto originale arriva ad affermare che bisognerebbe anche tutelare l'opera
degli eccellenti architetti contemporanei e cita a questo proposito il fatto che l'opera di Pasquale Poccianti,
che è un altro architetto toscano realizzata a Livorno: il Cisternone, un edificio collegato al sistema di
gestione delle acque, fosse oggetto di interesse per la tutela. Questo fatto è del tutto originale perché in
realtà il problema del restauro, soprattutto della tutela dei monumenti, fino a tempi relativamente recenti
si è basata sul fatto che questa attenzione doveva essere dedicata ai monumenti antichi come se fosse
direttamente proporzionale alla loro antichità e quindi se un edificio fosse stato troppo vicino al presente
non avrebbe avuto ancora quei requisiti che gli avrebbero fatto meritare una tutela. C’è quindi questa
intuizione molto particolare che rimarrà circoscritta al suo pensiero perché non troverà terreno: infatti del
problema della tutela del patrimonio moderno se ne parlerà praticamente quasi un secolo dopo.
SLIDE 2. Si è già parlato del
cantiere di ricostruzione
dell'edilizia storica, in cui abbiamo
il caso romano del Pantheon, del
cantiere medievale, dei metodi
costruttivi nel cantiere dell'edilizia
storica, che per l'Italia si può dire
che arrivi fino a prima della
Seconda guerra mondiale quindi
fino agli anni 40 del 900, è
fondato proprio sui materiali
tradizionali: malta, mattoni,
pietra, legno.
SLIDE 8. Questo trova motivi di comprensione nel fatto che nella villa Savoye troviamo tutti i criteri di Le
Corbusier: i pilotini, la pianta, la facciata libera, la finestra a nastro, il tetto piano, ma in realtà l'edificio ebbe
le sue vicissitudini, anche perché al di là dei problemi che ebbe appena costruito, durante la seconda guerra
mondiale fu occupata dai nazisti e poi dalle truppe di liberazione, poi diventò addirittura una farm House
circondata da frutteti, poi divenne una specie di ostello e poi una maison de journe; quindi ebbe anche
altre funzioni che sono completamente diverse da quelle originarie di casa unifamiliare. Il restauro ha
raggiunto come scopo finale quello di riprodurre un modello all'esterno, perché all'interno è
completamente cambiato. Questo va compreso sia per il carattere che hanno queste architetture, che è
determinato proprio dalla tecnica costruttiva dal cemento armato, dalle possibilità che consente la
struttura elastica rispetto alla struttura rigida dell'architettura tradizionale, ma il senso del trascorrere del
tempo è in realtà lo stesso.
SLIDE 17. Per l'interesse, la tutela, la divulgazione della conoscenza dell'architettura moderna dagli anni 90
in Italia c'è quest'associazione che si chiama Docomomo Italia che è prima nata a livello internazionale, che
ha una sua pubblicazione e che ha promosso anche un catalogo delle opere di architettura moderna degli
autori più importanti.
La lezione è proprio finalizzata a non considerare oggetto di restauro solo ciò che sembra storico, l'edificio
tradizionale ma anche l'edificio contemporaneo è comunque storico. Siamo usciti da questa idea che il
merito alla tutela fosse proporzionale all'antichità. Le differenze ci sono ma non nel metodo, le differenze
noi le troviamo nei materiali che sono differenti, nel loro comportamento che è differente e anche nella
mancanza di conoscenza che spesso abbiamo dei materiali di questa architettura. Per esempio, le
architetture di Muzio, la Ca brutta di Milano ha visto sperimentare degli intonaci, dei materiali di cui poi
non si aveva più cognizione; soltanto in tempi relativamente recenti anche questi materiali hanno
cominciato a essere studiati perché ovviamente per poter intervenire in modo competente bisogna
conoscere. La veste formale che l’architettura ha dipende dalla tecnica costruttiva ma comunque la tecnica
costruttiva è una tecnica storica.
Lezione del 23/12/22
RIASSUNTO E SUPPORTO PER IL RIPASSO PER L’ESAME
DAL “RESTAURO” ALLA “CONSERVAZIONE”
INTERVENTI SU MONUMENTI PRIMA DELLA NASCITA DELLA DISCIPLINA
Il fatto che oggi si parli di edilizia storica e non più solo di monumento, sta proprio ad intendere che
l'attenzione verso gli oggetti del passato si è estesa, non più soltanto dal monumento importante,
dall'architettura eccellente, ma anche al tessuto costruito.
Ovvero ciò che dà ai centri storici quelle caratteristiche che ne fanno dei luoghi particolarmente
interessanti sotto il profilo culturale, soprattutto in Italia dove sono ricchi di arte e storia.
Risalendo alle origini, e quindi al periodo che connota l’intervento di modificazione, ingrandimento e
consolidamento degli edifici e delle architetture importanti, così come si svolgeva prima che nascesse
la disciplina del restauro.
La disciplina del restauro, secondo un riferimento condiviso viene ascritta al periodo che
corrisponde ai primi dell’800 come conseguenza degli effetti sulla cultura europea successivi alla
Rivoluzione francese e quindi con l’eredità dell’Illuminismo, con l’affacciarsi delle filosofie positiviste
ed idealiste, con il nascere delle discipline scientifiche e la loro strutturazione in un sistema
classificatorio (per esempio come avviene nelle scienze naturali). Quindi fino ai primi dell’800 non
esiste la disciplina del restauro, cioè non esiste l’idea che cambiare i connotati, la distribuzione e
l’assetto generale di un edificio preesistente vada ad interferire con la sua autonoma storia.
Sin dal momento in cui l’uomo iniziò a costruire, trovò anche la necessità di dover riparare e
trasformare gli edifici già presenti. Questo avviene sempre secondo criteri di economia nel costruire,
ovvero nell'utilizzare l’oggetto che già c’è adattandolo alle esigenze del presente.
In particolare l’azione di trasformazione, consolidamento e ingrandimento del presente non si pone
nessun problema di andare ad alterare o cancellare una architettura significativa per l’epoca passata.
Il caso che riassume al meglio tutti quelli che abbiamo visto, pur essendo di connotazione diversa, è
sicuramente il Duomo di Siracusa.
Si tratta di un caso emblematico per il fatto che quando nella colonia della Magna Grecia, quale era
Siracusa, il tempio di Atena cessò le sue funzioni come luogo di culto pagano, in favore della
necessità di costruzione di una chiesa cristiana-cattolica.
E’ visibile sia all’interno che all’esterno, ma soprattutto sul fianco nord, dove gli intercolumni sono stati
riempiti da muratura ma senza cancellare la traccia visibile del colonnato preesistente. Questo perché
non c’è un'idea di separazione tra il presente e il passato, che rende il passato oggetto di interesse.
Il momento presente quindi trasforma usando il linguaggio che c’è in quel momento nell’architettura,
così quando nel ‘600 si vuole dare un facciata dignitosa a questo tempio si costruisce una facciata
Barocca senza avere nessun problema di coerenza con la fiancata in cui si vedono le colonne del
tempio di Atena.
Questa idea di continua modificazione è caratteristica del periodo che precede la nascita della
disciplina del restauro.
La disciplina del restauro nasce quando il presente si rende conto che c’è un distacco con i fatti e con
gli oggetti del passato.
A questo punto ci si pone il problema di non alterare queste testimonianze passate perché il presente
ha questo sguardo più distaccato, separato dal passato e senza una continuità che impedisce di
apprezzare l’edificio per le sue caratteristiche precedenti al momento presente.
Esempi diversi da quelli visti durante le lezioni ma con medesimo significato, sono quelle architetture
del passato in sintonia con gli ideali del Risorgimento. In particolare per la situazione italiana, perché il
restauro prende forma verso la metà dell’800.d.
La storia politica italiana individua due fasi del Risorgimento (l’aspirazione all’unità dei popoli che
abitavano la penisola italiana) ovvero una prima fase negli anni ‘30 e una seconda che porterà alla
formazione del Regno d'Italia negli anni ‘40 con i famosi moti del ‘48.
In questa fase politica, la situazione italiana vede una riscoperta sul piano culturale di quei personaggi
che sono stati dei riferimenti fondamentali per la cultura, la scienza e la lingua italiana. Dante, Galileo
e artisti come Michelangelo diventano come dei padri della patria che si pongono come
rappresentativi della penisola di figure così importanti che stanno al di sopra della politica
frammentata ottocentesca.
Allo stesso modo si riscoprono i periodi della storia antica e medioevale che rappresentano i momenti
nei quali le comunità si governavano autonomamente in modo indipendente dai sovrani dominanti
come nell’età dei comuni, in cui le città gestivano la propria amministrazione in modo locale rispetto
all’imperatore. Una delle epoche più apprezzate e sentite, sia per l’espressione stilistica che politica, è
il Medioevo e in particolare l’età dei comuni.
Sono rappresentativi di quest’epoca i palazzi pubblici dei podestà, dove aveva sede il governo della
città. I primi restauri promossi nel periodo tra il 1861 (Regno d’Italia) e il 1870 (Stato unitario)
prendono come ispirazione proprio questi palazzi pubblici che rappresentano l’autonomia rispetto ad
un dominio straniero. Ne sono un esempio il Bargello, il quale venne restaurato nel 1864 e il Palazzo
gotico di Piacenza il cui restauro risale al periodo successivo di fine ‘800 ma nel quale gli ideali
risorgimentali erano ancora fondamentali per cementare l’unità del popolo italiano.
In questa fase si ha questo tipo di interventi di restauro che ha lo scopo di rendere leggibile nel miglior
modo possibile lo stato originario dell’edificio. Lo si restaura quindi facendo riferimento per analogia
alle tracce superstiti che sono presenti in esso, come ad esempio cornici o parti mancanti che
vengono riprodotte, oppure se non sono più presenti tracce della parte che si presume ci fosse, si fa
riferimento ad edifici della stessa epoca ed area geografica.
RESTAURO STILISTICO-ANALOGICO
Si preferisce chiamare stilistico-analogico il restauro predicato dalla seconda metà dell’ottocento in
Italia per differenziarlo dal tipo di restauro che Viollet le Duc inizia a sperimentare in Francia negli anni
‘40 dell’800.
L’idea di restauro di Viollet è molto più complessa ed articolata e presume i due aspetti che ruotano
intorno al concetto di stile: lo stile assoluto e lo stile relativo.
Lo stile assoluto è ciò che connota l’edificio ed è anche la cifra del suo autore, si tratta di una
coerenza specifica e razionale di quell’oggetto.
Lo stile relativo è quello che caratterizza i modi espressivi caratteristici della stessa epoca ed area
geografica, cioè quelli che vengono assunti nel restauro stilistico-analogico italiano che non ha invece
l’analisi razionale dell’architettura che corrisponde alla ricerca dello stile assoluto che invece vediamo
in Viollet.
Un esempio di restauro stilistico-analogico che è emblematico di questa lettura dell’oggetto prima
dell’intervento, è il caso della Chiesa del Carmine a Milano.
Prima dei restauri non aveva la facciata, il portale era l’unico elemento architettonico definito. La
facciata fungeva da tamponamento alla struttura interna, dove si leggono le volte dotate di archi acuti
e dove erano state aperte delle finestre in epoca seicentesca sopra le due porte laterali e sopra il
portale principale.
In questo caso non c’è nessun riferimento per analogia presente nell’edificio, in questo caso l’autore
Carlo Maciachini fa riferimento a edifici della stessa epoca e area geografica per inventarsi la facciata
che è possibile vedere ai giorni d’oggi.
Nel panorama delle nostre città l’aspetto dei monumenti molto spesso è debitore all’ interpretazione
dei restauratori ottocenteschi.
Il metodo di intervento ispirato a Viollet le Duc è eseguito nel progetto del Castello di Pierrefonds,
nel quale è spiegata la sua capacità di ricostruire e ambientare l’edificio, anche attraverso la
creazione di arredamenti interni ex novo che siano coerenti con l’unità dello stilo.
L’approccio di tipo stilistico-analogico in Italia prosegue anche nel ‘900. Nei primi anni di questo
secolo, quando già si affacciarono altre idee di restauro, uno dei casi più emblematici è quello
dell’intervento alla Chiesa di San Babila.
La chiesa venne trasformata in epoca barocca ed è affiancata da un’altra chiesetta roccocò.
Successivamente l’architetto Cesa Bianchi, volendo ritrovare le tracce di fondazione romanica, scava
la compagine muraria dell’edificio, ma non trovando nessuna traccia dovette reinventare questa
chiesa che oggi è di aspetto romanico pur essendo stata costruita nei primi anni del ‘900.
Questo approccio proseguirà ancora anche nel secondo dopoguerra soprattutto quando ci sarà la
ricostruzione intensa e diffusa fatta da attori che non rappresentano le punte avanzate della cultura
del restauro ma che sono ancorate ancora a queste idee di restauro. Accadde ad esempio con
ingegneri civili che per conto del ministero dei lavori pubblici supportano le soprintendenze nei cantieri
di restauro ma anche a livello professionale da parte di professionisti che sono rimasti ancorati ai
vecchi schemi e che non hanno seguito il dibattito recente.
RIPRISTINO “STILISTICO ANALOGICO” OGGI
Una notazione va fatta per quegli interventi di restauro che spesso sono richiesti a voce popolare
quando c’è la perdita improvvisa di un monumento. Ciò è accaduto per esempio con l’incendio del
teatro La Fenice di Venezia nel 1990, e nello stesso anno il crollo di una parte della chiesa di San
Nicolò a Noto.
Quando c’è un trauma improvviso, spesso vi è l’incapacità di accettare la perdita soprattutto a livello
popolare dove si fa strada la richiesta di ricostruire uguale a prima, come se non fosse successo
nulla. Quindi ci si accontenta di avere un falso ricostruito in scala 1:1, perchè di fatto, degli edifici
autentici non era rimasto nulla, soprattutto per quanto riguarda La Fenice, mentre per la Cattedrale di
Noto la parte sostanziale era rimasta.
Si preferisce avere l'illusione che non sia successo nulla, anche in questa forma “esasperata”, può
capitare di trovare situazioni in cui c’è un ripristino di tipo stilistico.
In tempi recenti, quando accadono questi fatti, c’è comunque un dibattito che contrappone anche tesi
completamente diverse.
La tesi della ricostruzione uguale a prima, è predominante numericamente ma ci sono anche modi di
vedere che, considerando importante l’autenticità materiale, non si accontentano di una ricostruzione
in facsimile.
Questo è quello che accadde per il ponte Santa Trinita, dopo che venne distrutto dai tedeschi verso
la fine della seconda guerra mondiale, si contrapposero queste due tesi. La prima dello storico
dell’arte Bernard Berenson, che dando priorità all’aspetto, chiedeva di ricostruirlo uguale a prima.
Dall’altra parte l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli che, avendo presente quanto il valore di un
oggetto stia nella sua autenticità, sosteneva che non era possibile ricostruirlo uguale, bisogna
accettarne la perdita e se mai costruire un nuovo ponte che fosse all’altezza dell’importanza di quello
precedente.
RESTAURO FILOLOGICO
Nella seconda metà dell’800, si affaccia un’altra idea di restauro, quello filologico che venne
enunciato da Camillo Boito nel 1883 al convegno degli ingegneri ed architetti di Roma. L’idea di storia
progressiva tipica dell’800, viene tradotta nella lettura che viene fatta del monumento, il quale non è
più fermo nella sua unità stilistica ma rappresenta su se stesso tutti i passaggi importanti della sua
vita, passaggi testimoniati dalle diverse espressioni stilistiche (es. traccia della finestra romana e del
portale gotico).
Prevale la sequenza di fatti importanti che architettonicamente hanno connotato l’edificio.
Il nodo centrale di questa idea è che il monumento è un documento storico, per Camillo Boito un
documento storico-artistico, per Giovannoni, che porterà avanti nel ‘900 il discorso di Boito, è un
documento storico.
In questo tipo di intervento l’attenzione è orientata a privilegiare il valore storico dell’edificio, e quindi
si mettono in evidenza le tracce storiche importanti del monumento perché corrispondono alla storia
dell'edificio che è concepita nell’800 come una successione di fatti rilevanti, in architettura coincidono
con gli stili che si susseguono nelle diverse epoche, e che devono essere riconosciuti dall’architetto
restauratore.
Nel restauro filologico, sia di Boio che di Giovannoni, le stratificazioni sono riconosciute solo quando
sono importanti testimonianze di architettura, non tutte le modifiche che l’edificio ha subito ma solo
quelle che hanno portato ad una connotazione stilistica che renda riconoscibile la loro appartenenza
ad una certa epoca e che faccia capire che sono frutto di una progettualità architettonica.
Anche nel restauro filologico viene esercitato un giudizio storico artistico di valore che seleziona tutto
quello che è meritevole di essere conservato e quello che non lo è. Quindi tutto ciò che testimonia i
passaggi importanti della vita dell’edificio nel tempo sono conservati e messi in maggiore evidenza,
invece quelle parti dettate da esigenze funzionali e di uso quotidiano verranno chiamate dal
Giovannoni le superfetazioni, ciò quelle trasformazioni che non avendo qualità architettonica non
meritano di essere conservate secondo il giudizio di valore del restauratore.
Inoltre è bene porre attenzione al fatto che l'effetto del restauro si risolve nella riconfigurazione
dell’aspetto, non vi è ancora, rispetto alla maturazione del pensiero disciplinare, l’attenzione alla
materia dell'edificio come elemento fondante della sua autenticità materiale.
Due esempi individuati da Giovannoni, relativamente all’intervento sugli edifici vivi, riguarda la
liberazione del portico della loggia di San Matteo a Firenze e della chiesa dell’Incoronata a Napoli.
Si tratta dell'eliminazione di tamponamenti che sono ritenuti opere murarie senza qualità, ovvero non
sono frutto di un progetto architettonico ma sono dettate dalla necessita di avere un volume chiuso, e
che quindi successivamente venne riaperto.
Suscita particolare interesse ciò che scriverà Alfredo Barbacci, sovrintendente della liberazione della
loggia di San Matteo a Firenze (attuale sede dell’accademia di belle arti).
Per liberare le arcate e far riemergere le colonne si trovò di fronte ai capitelli danneggiati poiché per
pareggiare il muro di tamponamento tutto quello che sporge viene scalpellato via.
Barbacci scriverà in un articolo sul Bollettino d’arte del Ministero della pubblica istruzione di questo
momento, in cui si viene a trovare dei capitelli mutilati e quindi è costretto a rifarli su modello di quelli
parzialmente superstiti.
Questo è uno degli aspetti delle derive del restauro filologico soprattutto quando comincia a diventare
la pratica di scavo sul monumento per trovare le sue fasi importanti della storia passata e metterle in
luce. Spesso però scavando non si trova ciò che si spera di trovare, il risultato è che il filologo, che ha
come priorità la sincerità delle parti che mette in luce, si troverà a rifare delle parti non più presentabili
ad edificio restaurato.
Ciò è l'estremizzazione nell’applicare il restauro filologico che arriva ad affermare, soprattutto con
Giovannoni, che il primo documento del monumento è il monumento stesso, e questo finisce per
diventare un invito allo scavo nella compagine muraria dell'architettura, a volte con risultati non
previsti a causa di parti che possono essere perse.
Un intervento di Ambrogio Annoni per far vedere la caratterizzazione della lettura dell’edificio che non
ha più lo scopo dell’unità dello stile come nel restauro analogico-stilistico ma la sequenza.
E’ un esempio la facciata del Broletto di Pavia, dove il restauro filologico di Annoni mette in luce
cinque finestre di epoche diverse e quindi c’è una sommatoria di fasi storico-stilistiche che convive
sulla stessa facciata.
Questo intervento, complessivamente, era stato affidato ad Ambrogio Annoni perchè il Broletto di
Pavia era un edificio usato, ma aveva una facciata (come si vede dall’immagine in alto a sinistra)
molto frammentata e derivante dall'accorpamento di diverse abitazioni per questa funzione di tipo
pubblico.
Naturalmente, anche in questo caso, si vede poco nella fotografia in alto a sinistra, ma si trovano
tracce di questi loggiati, al primo e secondo piano, che vengono riaperti. Viene conservata questa
loggetta Quattrocentesca con l’orologio e quando si arriva a questa parete che aveva le finestre
rettangolari normali da abitazione, andando ad analizzare la muratura e scavando, viene scoperta
una bifora dell’XI secolo che si trova anche in uno strato leggermente arretrato della sezione verticale
della muratura. Allora Annoni, per far leggere tutti i passaggi della storia dell’edificio, incornicia
sottosquadro, quindi lasciando ad un livello inferiore (che si vede anche sottolineato dalla linea
d’ombra) questa nuova finestra che è aperta e che si trova quasi sovrapposta a quelle vicine.
Uno dei problemi del restauro filologico è proprio quello: quando va a scavare nella compagine
muraria a volte trova accavallate aperture che poi sono state chiuse, per cui si trova a dover decidere
se mettere in luce, ad esempio, la finestra del X secolo o quella del XII che sono accavallate.
Naturalmente, la messa in luce di una sta a significare la cancellazione dell’altra e questi appunti sono
i dilemmi che il restauro filologico, portato all’estreme conseguenze, arriva ad avere.
L’immagine sotto ci mostra l’assetto che l’edificio assume dopo il restauro, mentre nelle due foto in
basso a sinistra si vede la fase di scavo che porta alla riscoperta di questa bifora e poi la sua
definizione.
Il restauro filologico è proprio quello che sostiene che bisogna rispettare tutti i passaggi nel tempo
dell’edificio, sebbene come abbiamo appena detto, attraverso il filtro di un giudizio di valore (quindi
attraverso un filtro che decide quali sono i passaggi importanti della storia dell’edificio da mettere in
luce e da far conoscere se sono nascosti) e quindi è ancora una storia discontinua, evenemenziale. È
appunto la storia di stampo positivista che è di matrice ottocentesca e che nella cultura del restauro
della storia dell’architettura generale persisterà fino alla metà del Novecento. Difatti però, il portato di
questa idea di restauro è quella che non si torna indietro e del resto, nella Carta di Atene del restauro
del ‘31 e in quella italiana del 1932 si ribadisce il fatto che il restauro stilistico non si deve più fare,
perché è ampiamente superato concettualmente e quindi bisogna conoscere le fasi storiche leggibili
sull’edificio. Questo concetto ce lo portiamo ancora noi oggi nella nostra attuale visione dell’intervento
e possiamo vedere come persista, dopo gli anni Trenta, nei quali Giovannoni esprime questi concetti
e dove cominciamo a vedere degli interventi fatti ispirati al restauro filologico. Fra l’altro vi ricordo che
nel 1938 una sintesi per punti dei concetti fondamentali della Carta Italiana del Restauro del ‘32 sono
tradotti nelle “Istruzioni per il Restauro dei Monumenti (1938)”: istruzioni che sono adottate come
codice di comportamento all’interno delle soprintendenze, quindi il modo di fare il restauro della tutela
dello Stato è fatta seguendo i dettami del restauro filologico.
L’EREDITÀ DEL RESTAURO “FILOLOGICO”
Questo lo vediamo nel trattamento della muratura che viene lasciata a faccia vista nella parte in cui si
risarcisce lo squarcio lasciato dalle bombe, così come nell’altra facciata in basso a sinistra si vede
ripetere il modulo delle finestre ad arco semicircolare, ma sempre con un trattamento della facciata
differente. Questo naturalmente mostra un distacco con un qualcosa che è successo nel frattempo. In
questo caso non c’è una ricostruzione mimetica, ma c’è la volontà di far riconoscere la parte di
integrazione che è stata eseguita dopo le bombe.
Chiesa di San Pietro ad Ortigia
Questo è un intervento abbastanza recente, degli anni Novanta del Novecento. La Chiesa di San
Pietro ad Ortigia è stata restaurata dall’architetto Fidone, poiché mancava di una volta a botte sopra
la navata. Vedete come la struttura che è stata collocata riprende l’andamento della volta che
preesisteva ma con una struttura diversa, con legno lamellare che riconfigura i volumi ma che
decisamente si segnala come aggiunta successiva nel tempo.
Qui passiamo invece ad un altro aspetto, che emerge a seguito della ricostruzione. Abbiamo visto
prima come il restauro filologico è orientato a far sì che ogni aggiunta sia riconoscibile, che
l’intervento presente sia riconoscibile e che quindi si leggano tutti i passaggi che l'edificio ha avuto nel
tempo. Perciò è decisamente e giustamente sbilanciato verso l’attenzione al valore storico, ma
proprio a causa della guerra (momento di particolare crisi per la disciplina del restauro), la disciplina si
rende conto che non può più solo occuparsi di monumenti, cioè di architetture singole sia pur
importanti, ma deve anche allargare il suo campo di interesse verso la scala urbana, perché ci sono
intere città bombardate.
In questo processo di allargamento c’è comunque un momento di crisi perché, proprio in forza del
forte ancoraggio con i criteri del restauro filologico, nel momento in cui ci si trova a dover far fronte
alla ricostruzione di edifici che sono quasi rasi al suolo e dei quali non è rimasto nulla, non è
correttamente applicabile il restauro filologico perché il mantenimento della verità del fatto storico
costruito e rappresentato dall’edificio consentiva la reintegrazione di parti mancanti soltanto se erano
ben documentate (quindi misurate o fotografate) e con appunto elementi distintivi, ma non solo:
questo poteva essere fatto per piccoli volumi. Quando ci si trova di fronte ad un edificio semi raso al
suolo è chiaro che questo discorso non è più applicabile e questo desta una profonda crisi nell’ambito
della cultura del restauro, proprio perché manca un riferimento. In questa occasione emerge un altro
modo di vedere il restauro, che non troverà esempi concreti ed applicativi che lo rappresentano in
modo pieno: è il restauro “critico”, che invece sostiene che questa crisi del restauro filologico sta a
significare che il restauratore si deve riappropriare del suo ruolo di artista e quindi deve realizzare una
nuova opera d’arte, leggendo ed interpretando quella preesistente.
Ora, senza entrare nel dettaglio di questa teoria che è molto ben articolata teoreticamente ma che
come dicevo non ha una applicazione esemplificativa in un caso realizzato, si risolve prevalentemente
in quell’atteggiamento di interpretazione che è considerata lecita per il restauratore che interviene e
che si pone lo scopo di aiutare a leggere meglio l’architettura, andando però a dare una libertà di
interpretazione al soggetto restauratore, quindi dandogli un grado di libertà, direi dal mio punto di
vista, eccessivo.
Questa teoria fu elaborata da Renato Bonelli e poi temperata dallo storico dell’arte Cesare Brandi che
fu anche il primo direttore dell’Istituto Centrale del Restauro e che oggi noi vediamo in un esempio
che vi propongo semplicemente per richiamare questo tipo di atteggiamento e che è per esempio
quello che vediamo qui, nella pulitura della facciata della Basilica di San Pietro in Vaticano.
In questo caso,
l’interpretazione critica si basa
sul fatto che dopo un attento
studio della facciata, dei
cromatismi esistenti e dei
materiali, andando a cercare
le stratifigrazioni delle pitture il
restauratore decide non solo
di pulire la facciata, quindi
liberarla dallo strato di sporco
che è dannoso e che agisce
come fattore di degrado, ma
di riportare alla luce una
diversa cromia della parte di
sfondato che accentui la
profondità rispetto al
colonnato che rientra in
quell’arbitrio critico che il
restauratore, con le migliori
intenzioni e giustamente anche con strumenti culturali di livello, si sente in dovere di applicare. In
questo caso, se noi lo consideriamo da un punto di vista contemporaneo di conservazione è andare
un po’ oltre rispetto a quello che dovrebbe essere l’attenzione alla pulitura e alla conservazione della
superficie, senza una interpretazione che sicuramente ha un’efficacia nel valorizzare la plasticità della
facciata, ma che va a privilegiare uno strato di tinta preesistente rispetto ad altri.
Ecco, sotto questo aspetto, la lettura critica che ancora vediamo oggi in alcuni modi di affrontare il
restauro che non sono rigorosamente conservativi, ha questo margine di interpretazione che si ritiene
lecito per far leggere meglio l’architettura. Mentre se noi parliamo di conservazione, questo è già un
andare oltre, perché se noi parliamo di conservazione il compito di chi interviene è quello di arrestare i
fenomeni di degrado che porterebbero la perdita di questo bene, ma allo stesso tempo di lasciare a
ciascuno la libertà di interpretare esteticamente l’oggetto così come la sua sensibilità, cultura o la sua
non-cultura gli consentono, senza dargli la versione “già letta”.
Arriviamo ora appunto a questo passaggio. Finora abbiamo visto la storia del “restauro tra virgolette”:
“restauro tra virgolette” sta a significare la modalità di intervento su un edificio del passato in base
all’espressione di un giudizio di valore, come primo momento iniziale, che precede tutto il percorso
progettuale. Quindi da un lato la lettura che fa il restauratore analogico-stilistico, dall’altro quello che
fa il restauratore filologo, dall’altro ancora quello che fa il restauratore critico. Sempre c’è alla base, in
partenza, il giudizio di valore.
Quando si parla di conservazione, si ribalta il procedimento: non è più il soggetto che restaura che
decide all’inizio quali aspetti sono importanti e quali no. Chi conserva si pone in ascolto dell'edificio,
cerca di capirlo e studiarlo a fondo, di misurarlo, di conoscere il materiale e gli elementi costruttivi.
Cerca, in un certo modo possiamo dire, di far parlare l'edificio, di fare in modo che l'edificio ci dica lui
stesso come progettare, per individuare un progetto che valorizzi le doti che già possiede e che
possano essere poi rese attuali con l’aggiunta di quelle dotazioni che magari mancano e che servono
ad un uso contemporaneo, quindi per esempio le dotazioni impiantistiche e quant’altro.
In questo caso, nell’atteggiamento che ha il conservatore non c’è un giudizio a priori, cioè all’inizio di
fronte all’oggetto decidere quali sono le parti importanti e quali non lo sono, perché già quelle che non
lo sono saranno scartate ed esclude dall’interesse da parte del progetto.
Chi conserva raccogliete tutti i dati e gli elementi di conoscenza possibili, e solo alla fine, quando
dovrà redigere il progetto che ovviamente è una selezione, stabilirà una gerarchia di valori, perchè
dobbiamo sempre tener presente che l’edificio deve essere usato secondo i modi della vita
contemporanea, quindi se manca di riscaldamento bisognerà adottarlo di impianto di riscaldamento e
così via, ma avendo prima acquisito tutte le informazioni che mi dà e che mi suggerisce, anche per la
distribuzione interna, in modo tale che il progetto non vada a sovrapporsi in modo brutale ad uno stato
di fatto, ignorando le sue caratteristiche, ma nasca proprio dalla conoscenza di com’è l’assetto
preesistente.
Sotto vediamo la situazione preesistente, dove il cerchiolino individua il balconcino che abbiamo visto
rappresentato dall’acquarello di Ruskin in alto a sinistra e poi in alto a destra in una foto storica del
Fondaco dei Turchi restaurato negli anni ‘60 dell’Ottocento secondo i criteri analogico stilistici (quindi
viene ripristinata tutta la regolarità del portico del loggiato superiore) e in una foto recente di oggi,
ancora a ricordarci come i monumenti e le architetture come le vediamo oggi spesso ce le hanno
trasmesse così i restauratori e non certo i costruttori originari.
Quindi Riegl dà questo contributo fondamentale: il valore artistico è relativo, non può essere un
criterio per orientare la tutela del patrimonio monumentale. È il valore storico quello che ci deve
guidare perchè è un documento, quindi Riegl che cronologicamente si colloca prima di Giovannoni,
mette ben a fuoco il valore filologico del monumento come documento storico.
Arriviamo al manifesto della conservazione: l’intervento fatto al Palazzo della Ragione a Milano, che
è il primo intervento fatto secondo l’idea di conservazione come mantenimento di tutte le stratificazioni
che si sono susseguite nella vita dell’edificio. In questo caso il termine "stratificazione" è pertinente in
modo pieno, perché parlare di stratificazione vuol dire intendere una successione continua di
passaggi, di strati, di aggiunte nel tempo e non discontinua, come quella rappresentata dalla
sequenza degli stili architettonici che rispondono alla sequenza degli eventi della storia positivistica
evenemenziale che prende piede a partire dall’Ottocento.
Quindi la parola "stratificazione" fa riferimento in modo più coerente a questa idea di continuità. La
vita dell'edificio è fatta sia dalle trasformazioni macroscopiche (quelle che corrispondono alla
variazione di epoca stilisticamente connotata), ma è anche formata dallo strato dovuto alle
trasformazioni dettate dalle esigenze dell’uso quotidiano, compresi i tamponamenti, i muri divisori,
tutte quelle operazioni che di solito nella storia dell’edificio non salgono agli onori della cronaca, che
non troviamo negli archivi dove, se siamo fortunati, magari troviamo la documentazione di un progetto
importante, ma spesso non troviamo documentazione relativa a tamponamenti di porte e finestre per
esempio. Ma la vita dell’edificio è fatta da entrambi e in questo caso, come in generale quando si
parla di conservazione, non c’è un giudizio di valore a priori.
Tornando al sopralzo barocco con questi oculi tondi, secondo molti restauratori ottocenteschi doveva
essere eliminato perché era un’aggiunta posticcia al Palazzo della Ragione, che è appunto il palazzo
del governo e del comune della città.
Questa demolizione non venne effettuata anche per problemi di dissesto dovuti al sovraccarico
perchè, in questa parte sopraelevata, era alloggiato l’archivio notarile; si decide quindi di effettuare un
restauro.
Ma la cosa che destò molto scalpore era che le superfici sono state conservate, quindi sono stati
presi tutti i provvedimenti per arrestare il degrado e assicurare la permanenza fisica, materiale
dell’edificio, ma non sono stati fatti interventi che modificassero l’aspetto, quindi nessuna scelta di tipo
estetico, compresa quella di lasciare il mattone a vista dove l’intonaco era caduto e lasciare l’intonaco
dove invece era rimasto, senza un rifacimento completo dell’intonaco o senza, dall’altro canto,
l’eventuale scelta di mettere tutto il paramento di mattoni a faccia vista.
È esattamente fermato il
degrado così com’è pervenuto,
senza inserire una scelta di tipo
estetico. L’operazione fatta è
stata quella di conservare
materialmente l’edificio, perché
continuasse a vivere, senza
interpretare esteticamente
alcuna parte. Naturalmente,
anche qui attenzione sempre a
non considerare il progetto di
conservazione come un
progetto di imbalsamazione,
perchè così non è: è di
conservazione della materia
così come ci è pervenuta,
eliminando tutti i fattori di
degrado, ma aggiungendo tutto
quello che serve per una funzione contemporanea, possibilmente non sopra, perchè se io aggiungo
sopra o dentro tolto quello che c’è per inserire una nuova parte, ma mettendola accanto, ed è quello
che qui felicemente si è riuscito a fare, dovendo inserire una scala di sicurezza che è stata accostata
all'edificio, non inserita dentro, quindi ponendola come uno strato ulteriore di questa stratificazione
che l'edificio ha avuto da quando è nato. Quindi è riconoscibile, è un segno di architettura
contemporanea ed è in aggiunta, è accanto, non è sopra, non toglie qualcosa per inserirsi, non
prevalica l’edificio ma si pone accanto in dialogo.
Questi sono quei passaggi in cui c’è la misurazione e la lettura dei materiali del degrado, che è quello
che facciamo quando progettiamo un intervento, quindi tutta la fase istruttoria preliminare. Anche
all’interno, la scelta è stata quella di conservare le superfici interne nella condizione in cui erano
pervenute, per cui certi affrescati sono stati consolidati come lacerti di affreschi, le pareti dove erano
appoggiati degli arredi fissi o dove era caduto l’intonaco sono state trattate e conservate così come
erano arrivate. Quindi non c’è nessun tentativo di interpretazione, né di riconfigurazione di tipo
estetico.
Anche in questo caso c’è un’altra porzione che è stata aggiunta: la mancanza di pavimentazione in
quel caso ha fatto sì che fosse progettato ex novo un pavimento in ciottoli, realizzato dalla scuola del
mosaico di Ravenna, non in sostituzione di un pavimento preesistente ma per pavimentare una parte
che ne era totalmente priva.
Abbiamo visto anche in questo riferimento sempre il tentativo di riutilizzare, di prendere spunto,
semmai, dalla permanenza per quelle aggiunte che sono necessarie, per quelle parti che mancano
che vanno inserite.
Caso molto ben risolto è, ad esempio, quello che si vede nell’imagine di destra dove in un salone che
aveva delle volte di gotico fiorito con queste superfici intrecciate con costole intrecciate, naturalmente
non vede la ricostruzione della struttura della volta di copertura, ma ha sovrammesso questo nuovo
solaio ligneo appoggiato che richiama il soffitto a volta precedente (che se non sbaglio questa era una
cappella) con la struttura di un ‘’corpo illuminante’’ (i lampadari) che evoca l’andamento di questa
volta gotica fiorita.
Quindi la conoscenza approfondita non solo della documentazione come abbiamo visto all'inizio
quando si parlava di ricerca storica, la documentazione bibliografica, quella archivistica sicuramente,
ma anche la lettura diretta dell’edificio. Per esempio anche in questo vano così grande so vede
comunque in questi punti l’attacco delle volte e questo ci dice che era un vano voltato perchè la parte
di imposta della volta è quella parte che veniva costruita quando si tirava su il muro, poi le volte
venivano costruite quando i muri verticali erano già stabilizzati e consolidati perchè la volta è una
struttura spingente quindi doveva trovare a contrasto, nel momento in cui fosse stata messa in
funzione, un muro verticale già ben stabilizzato. Però anche quando ci sono dei rolli la parte d’imposta
rimane sempre facilmente riconoscibile.
APPROCCIO AL MODERNO
‘’Al moderno’’ sta a significare un cambio di tecnica costruttiva, un cambio di materiali, di distribuzione
che è ovviamente anche conseguente alla diversa caratterizzazione della struttura in cemento
armato, ma l’approccio di chi conserva è esattamente lo stesso. Cambiano gli strumenti e le
conoscenze specifiche di materiali e tecniche e qui vediamo (con il discorso che si era fatto in una
delle ultime lezioni) che richiamava il fatto che l’architettura del movimento moderno nelle sue fasi
iniziali di restauro in particolare anche per questo carattere proprio di icona che hanno queste
architetture come quella di Le Corbusier che vediamo la Villa Savoye hanno avuto un destino di
ripristino, cioè di ritorno a punti d'origine nonostante la loro vita ovviamente sia stata la vita di un
materiale che vive nel tempo ovvero esposto agli agenti atmosferici, subordinato agli usi dell'edificio
stesso e quindi subisce delle variazioni nel tempo e dei degradi (come si vede nelle altre immagini
che abbiamo nella slide).
Sicuramente l’architettura moderna ha delle fragilità particolari che sono anche relative proprio alla
sua caratterizzazione: le superfici lisce, alla finestra a nastro, l’assenza di davanzali (quindi di
sgocciolatoi), che sono quella scanalatura sotto il davanzale che aiuta ad allontanare l’acqua quando
piove dal prospetto (questo rende più fragili queste architetture che non hanno questa dotazione).
Per non parlare dei tetti piani che sono da sempre una parte molto delicata delle coperture e sono
spesso e volentieri soggetti a infiltrazioni. Le stesse architetture di le Corbusier ancora in corso
d’opera o appena terminate avevano creato problemi di questo tipo e inoltre proprio a causa del loro
carattere di ‘’modello’’ di quest’architettura sono diventati in molti casi delle specie di oggetti di
ripristino funzionale anche a fini speculativi da parte di un ceto interessato ad avere la casa di Le
Corbusier che viene ripristinata però secondo i parametri di estetica banale modernista, quindi
superfici lisce bianche quando per esempio, almeno in questi primi casi di intervento, non furono
studiati quegli aspetti tecnici e tecnologici tipici delle architetture di Le Corbusier che sperimentava
l’intonaco spruzzato come la gunite che quindi viene poi sostituito da superfici bianche in modo più
speditivo e più economico per la reimmissione sul mercato.
Altro caso dove si stratificano interventi diversi, il primo addirittura di Le Corbusier che interviene in
questo caso sulla Cité de Refuge dotandola di brise soleil (frangisole) perchè era una costruzione
climaticamente complicata, viene poi danneggiata dalla guerra, subisce dei restauri dove alcune parti
sono conservate, altre totalmente trasformate, incluse queste coloriture con i colori primari che in
realtà sono aggiunte successive.
Quindi anche nel moderno c’è un percorso che inizia in anni più tardi perché l’attenzione al restauro
del moderno soprattutto in italia nasce intorno agli anni ottanta, in altri paesi europei nasce un po’
prima e ha come primo passaggio proprio questo del restauro, del ripristino stilistico
Gradualmente si cerca di avvicinarsi a criteri più di conservazione come avviene per esempio a
Milano per il Grattacielo Pirelli restaurato nei primi anni del Duemila dove troviamo parti di
produzione industriale che, al giorno d'oggi, non è più in corso.
Dopo una prima fase in cui si pensava di sostituirli completamente si decide di riparare nella massima
misura ciò che era riparabile in modo tale da conservare ove possibile l’autenticità materiale di queste
parti.
Esempio ultimo quello del Trifoglio dove le piastrelline, caratteristiche dell’architettura di Gio Ponti,
risultano essere molto fragili a causa di problemi di infiltrazione d’acqua e che, con i cicli di gelo e
disgelo, producono fratture che portano a distacchi.
In questo caso sono state reintegrate con piastrelle leggermente diverse che si ‘’mimetizzano’’ in una
visione complessiva, ma sono comunque riconoscibili per la diversa luce, il diverso chiaroscuro che
emettono. Si tratta quindi di un intervento puntuale, solo dove serviva e che si rende riconoscibile.
Parlamento di Chandigarh
Mantenuto inalterato senza interventi anche per questioni economiche
Si tratta di un’architettura che mostra i segni del tempo: vediamo delle patine soprattutto nella parte di
copertura, che arricchiscono l’edificio trasmettendoci il suo significato.
Quindi la conservazione con una pulitura senza un ripristino stilistico è una procedura corretta nei
confronti di un’architettura che è diversa per materiali, tecniche costruttive e tecnologie messe in atto,
rispetto a quella tradizionale del cantiere storico ma che da un punto di vista conservativo va sempre
considerata nella sua autenticità materiale.
TEMPIO DUOMO A POZZUOLI
Intervento progettato dal gruppo capeggiato da Marco Dezzi Bardeschi ed è interessante come
intervento su un’architettura che però ha una dimensione sulla scala urbana, realizzato a pozzuoli che
aveva come oggetto il Tempio Duomo.
Pozzuoli località con un sedime archeologico cospicuo dove (come si vede dalla pianta sinistra)
sussistono tracce dell’epoca della colonia greca. In particolare questo tempio di Augusto che si trova
sulla punta (come si vede nell’immagine di sinistra), si sono stratificate abitazioni e costruzioni sopra
questo sedime archeologico. Quest’area aveva subito diverse vicende: il tempio era riemerso
pienamente dopo un incendio che negli anni 60 del Novecento che aveva interessato una chiesa
tardo barocca. Come abbiamo visto all’inizio, il tempio greco diventa chiesa, spesso ornata e
ricondizionata in epoca barocca e a volte come è accaduto con i bombardamneti, anche con gli
incendi che distruggono parti dell’edificio mettono in luce strati che erano nascosti internamente.
Negli anni 60 quest’incendio aveva messo in luce il tempio e all’inizio si era anche tentato di
ricostruirlo da parte di un museografo: Ezio De Felice.
Un terremoto aveva contribuito ad aggravare la situazione tanto che la popolazione era stata costretta
ad abbandonare questa parte centrale di Pozzuoli. Finalmente a distanza di trent’anni, nei primi anni
del duemila, la regione Campania ha indetto un concorso internazionale per restaurare il tempio
duomo (così chiamato oggi) che aveva visto la partecipazione di numerosi concorrenti, con
l’assegnazione del premio al gruppo capeggiato da Marco Dezzi Bardeschi. E’ significativo il nome
di questo gruppo ‘’Elogio del Palinsesto’’ : il palinsesto è un documento storico scritto in origine che
viene riscritto sopra, vengono cancellate delle parti per scriverci sopra anche altri testi. Questo perché
la pergamena era un materiale molto pregiato e quindi col decadere della funzione del documento
scritto originariamente spesso venivano riscritti altri testi.
''Palinsesto'' oggi si usa in architettura quando si parla di una sovrapposizione di stati diversi alcuni
dei quali cancellano quelli precedenti, oppure convivono con loro.
Immagine dell’antico tempio di pozzuoli in un'incisione settecentesca di Filippo Morgan e la pianta del
tempio. Così come una disposizione del ‘64 della pianta del tempio trasformato in cattedrale nella
parte soprastante.
A destra immagine della navata distrutta dall’incendio. Come sempre succedeva la parte di copertura
con strutture lignee è quella che viene distrutta per prima.
Foto degli elaborati del concorso, sia dei lavori sia dell’esito conclusivo.
Il titolo ‘’elogio del palinsesto'' perché ci troviamo in una zona di sedime archeologico dove a partire
dall’antichità ci sono strati che si sono sovrammessi, alcuni venuti in luce con l’incendio e il terremoto.
Gli sconquassi della natura contribuiscono a mettere in luce aspetti non visibili o che apparivano
cancellati.
Schizzi di progetto a sinistra dove si ipotizza di costruire una copertura per l’aula a cielo aperto, quindi
bisognava recuperare la funzione di edificio ecclesiastico. Nella pianta, nella parte bassa, di vede il
segno di una cupola che si è aggiunta come stratificazione ulteriore, cupola con degli elementi
maiolicati di copertura, molto colorata e molto riconoscibile, in addizione a tutte le parti sovrammesse
nella diverse epoche storiche. Già si vede l’assetto distributivo con la parte dell’altare che si trova ad
un livello un po’ più basso (pavimento in discesa).
Plastico con la cappella Fanzaghiana, nella parte sottostante si vede il sottosuolo ricco di scavi
archeologici che poi è stato sistemato come percorso ipogeo di visita e sopra si vede quello che era
rimasto del portico esterno e della cella. I lati con il colonnato in parte già con degli interventi (la
seconda colonna a sinistra è superstite fino a metà ma poi c’è un pilastro di cemento armato).
Il percorso di studio (che abbiamo visto già applicato al palazzo della Ragione) che è la lettura della
struttura, la lettura delle superfici e qui a sinistra si vede un fotoraddrizzamento dove sono individuati
gli elementi materiali, quelli di degrado, e si prospetta la conservazione di questa superficie che
rimane come palinsesto (sono presenti tracce di timpano). Si tratta proprio di una sommatoria di
elementi che si sono stratificati e che in parte sono stati messi in luce dalle drammatiche vicende di
questo complesso.
La lettura della superficie implica il riconoscimento dei materiali, degli strati (perchè io posso avere un
intonaco ma in una parte vedo l’intonaco intero con il suo intonachino di rivestimento, in altre parti
posso vedere solo l’arriccio, o la perdita completa dell’intonaco) che sono la premessa per procedere
zona per zona a conservare quella specifica parte individuata con un colore diverso perché
l’intervento di conservazione è puntuale, è minimo, si applica solo dove serve, proprio per questo la
mappatura basata sul rilievo geometrico è così accurata. La mappatura che riconosce gli strati diversi
di intonaco e i materiali impiegati è poi seguita dalla decisione del tipo di interventi che è specifico per
ogni zona.
Studio che ipotizza il sistema di copertura, individua il passo delle colonne, una parte di integrazione,
l’individuazione all’interno dello spessore del muro tamponato della colonna.
Foto del progetto che prevede il recupero della pavimentazione barocca (smontata e rimontata per
far passare degli impianti) zona dove è recuperata la pavimentazione originaria mentre in alcune parti
viene usata una nuova pavimentazione (parte retrostante l’area dell’altare e la parte della sagrestia) e
per la parte dell’aula per collegare il livello più alto viene realizzato un pavimento in discesa che dalla
quota più alta della parte azzurra scende verso la quarta del pavimento della zona dell'altare.
La parte blu scura che è una nuova pavimentazione in marmo bianco viene collegata con delle scale
di passaggio sempre al livello di discesa. Questo crea anche una prospettiva, quindi la disposizione
dei banchi per la messa che guarda e vede inclinata da questo punto fino a raggiungere questa zona
viola chiaro.
PRIMA DELL’INTERVENTO
Prima dell'intervento la situazione in cui si
trovava il duomo con le colonne scanalate
accostate a delle cappelle barocche, c’è proprio
questa sovrapposizione (palinsesto) ma si
vedono ammassati degli elementi di marmo pre
cantiere
L’INTERVENTO
Il cantiere prevede di rimettere in luce il pavimento barocco, l'andamento inclinato verso il fondo dà
continuità al volume della navata.
Per quel che riguarda le parti dipinte si è conservata la superficie dipinta dove era dipinta senza fare
reintegrazioni di sorta.
Mentre la copertura è metallica, del tutto contemporanea che viene a coprire questo vano.
Si vedono gli elementi del tempio, parte della trabeazione con metope e triglifi che sono a terra in
attesa di essere poi rimontati in posizione.
Si vede una parte diventata trasparente e la parte della zona dell’altare, quindi le parti dipinte
conservate mentre quelle prive di coloritura rimangono tali.
Gli elementi che erano a terra vengono riposizionati come prima dello smontaggio. Sul fondo si vede
la struttura della copertura in fase di realizzazione.
Il risultato della nuova copertura: fase di allestimento e disegno a
cassettoni che consentono di alloggiare gli impianti elettrici e i
corpi illuminanti.
Si percepisce la discesa della parte dei fedeli mentre la parte che
rimane alla quota originariamente superstite viene collegata con
scalette laterali in modo che percorrendo la cornice esterna si
possa scendere e arrivare alla quota della zona dell’altare.
Sezione dove si vede la cupola barocca, una porzione della
navata che emerge in altezza della chiesa con la nuova copertura
e il campanile che era stato ipotizzato come completamente
trasparente ed è dotato di una lamina di copertura delle campane
che risulta come un elemento di riconoscibilità anche a distanza, è
un elemento significante.
Restauro lasciato visibile dal restauratore che negli anni 2000 ha effettuato l’intervento. Anche il
restauro fa parte delle stratificazioni di questa architettura.
Prospetto ovest: si intravedono i banchi con il piano di marmo, la pavimentazione nuova che
prosegue con un parapetto trasparente per scendere con i gradini e raggiungere il livello dell’altare.
La parte dove sono collocati i banchi è in blanda discesa per raggiungere il livello dell’altare con un
piano inclinato. Il restauratore ha richiamato il passo di colonne che non c’erano più con la tecnica del
vetro acidato con un disegno che evoca il tempio anche nelle parti in cui non c’è.
L’aggiunta esprime le qualità di chi è intervenuto come progettista del restauro. All’interno c’è una
sezione perchè la colonna cilindrica ha un volume, vengono evocate le sezioni con un andamento che
riproduce in modo schematico quello che c’era senza falsificare.
Le parti nuove (panche ed elementi di arredo) sono progettate come elementi schematici.
Si rispetta la riconoscibilità della stratificazione.
Elementi marmorei, dove manca il materiale non viene reintegrato ma c’è la presenza di intonaco
neutro. Dove mancano delle parti non si colmano le lacune.
Parte dove vengono effettuate le letture: soluzione a firma dell’autore, riconoscibile
per la sua contemporaneità.
Cupola maiolicata, con trama disegnata dai colori. La parte del frontone non più esistente è trattata
con un rivestimento semi-trasparente che dialoga con le permanenze trattate come testimonianze
archeologiche.
Copertine fatte sopra gli spessori murari per difenderli dalle piogge (provvedimenti di conservazione
che si fermano allo stretto indispensabile)
A livello ipogeo vi è una planimetria complessa che mostra i percorsi con le passerelle per la visita
che consentono di comprendere i livelli inferiori di stratificazione.
Parete di muratura realizzata con opus incertum. Si vedono diverse apparecchiature murarie. Il
percorso di visita è sempre molto leggero, con passerelle
trasparenti che permettono anche la vista delle parti
sottostanti.
Percorso progettuale, presuppone un apparato di conoscenze
che da forma alla scelta progettuale senza un giudizio di
valore iniziale, ma iniziando con l’ascolto del luogo nel
tentativo di raccogliere tutti i dati possibili per arrivare ad una
scelta che sia il più possibile rispondente alla vocazione che
l’edificio vuole comunicare.
Intervento particolarmente interessante proprio perché nella
discontinuità delle situazioni architettoniche così ben
riconoscibili trova lo spunto creativo per avere l’intuizione che
guida il progetto di intervento.