Sei sulla pagina 1di 4

Fantasticheria

Completata definitivamente nel 1878 circa, "Fantasticheria" è una novella di Giovanni Verga, fondamentale
nella sua opera, non solo per l'avvicinamento stilistico al Verismo, ma anche per la forte dichiarazione
poetica, che prende per la prima volta in esame il mondo dei "vinti" e i suoi principi. Essa racconta di una
nobile donna, da quanto si evince amica del narratore, che giunge ad Aci Trezza, una frazione di un piccolo
paese della Sicilia, ed essendosene innamorata, decide di trattenersi per addirittura un mese. In realtà ben
presto, affievolitisi lo stupore e l'ammirazione per la bellezza del paesaggio, la donna termina le attività da
poter svolgere e si scopre stanca di quel luogo che tanto aveva amato. Decide perciò di tornare a casa
propria e, una volta pronta per la partenza, si chiede come possa la gente del luogo trascorrervi una vita
intera. A questo punto il narratore, utilizzando una serie di flashback e intrecci temporali, inizia a
raccontare le storie del popolo di Aci Trezza, costituito prevalentemente da pescatori. Costoro
conducevano una vita grama, fatta di stenti, miseria e molte sventure. Nonostante tutto il loro desiderio più
grande era proprio quello di morire laddove erano nati. Questo loro principio di vita è definito "l'ideale
dell'ostrica", poiché i Trezzani, così si chiamano gli abitanti di Aci Trezza, proprio come le ostriche, non
volevano staccarsi dal proprio scoglio per nessuna ragione. Quando tuttavia decidevano di farlo, allora
venivano inghiottiti dal mare della vita, che se li portava via.

Riassunto Prefazione I Malavoglia


Il 19 gennaio 1881 Giovanni Verga scrisse la prefazione del romanzo "I Malavoglia", che inizialmente doveva
essere inserita in una raccolta di cinque opere intitolata in un primo tempo "La Marea", e successivamente
"I Vinti", che però non fu mai conclusa. Cinque opere distinte ma accomunate dello stesso tema principale
ossia la lotta dell'uomo per l'esistenza, il benessere e il progresso ma anche le loro tragiche conseguenze, la
comunanza di tutte le classi sociali (dalle più basse alla più alte) e l’analisi di tale fenomeno. La decisione di
scrivere questo racconto fu influenzata molto dal ciclo di opere "Rougon-Macquart" di Émile Zola,
protagonista per eccellenza del Naturalismo francese, da cui Verga trasse spunto. La prefazione venne
scritta dopo la stesura del romanzo, pubblicato nel febbraio del 1881 dall'editore milanese Treves, e aveva
come obbiettivo non solo quello di illustrare i contenuti dell'opera, ma di spiegare al lettore le motivazioni e
finalità dell'autore. Verga, fin da subito, si mostra infatti interessato alla questione meridionale e in
generale agli aspetti più critici del progresso, non negando i pro delle grandi rivoluzioni dell'800, le quali
però nascondono e tralasciano le vicende minori dei singoli vinti. Nella visione dell'autore, l’umanità,
sembrerebbe procedere verso condizioni d’esistenza sempre migliori, ma questo solo all'apparenza. Infatti,
il progresso avanza grazie alla forza di un potere superiore che assorbe ognuno di noi, per poi lasciarci allo
sbaraglio dopo che ce ne siamo serviti. E in realtà siamo proprio noi singoli individui, bramosi di successo, a
venire travolti dai nostri stessi desideri. Per quanto riguarda lo stile narrativo, Verga si serve di un narratore
esterno alla vicenda che parla in terza persona, questo perché, secondo la sua opinione il compito dello
scrittore è solo quello di studiare e rappresentare le cose come stanno realmente, non quello di giudicarle.

Rosso Malpelo
Rosso Malpelo, così chiamato per la rossa capigliatura, è un ragazzo che lavora duramente in una cava di
sabbia in Sicilia. E’ un povero infelice sfruttato e deriso. L’opinione popolare attribuisce una personalità
malvagia a coloro che hanno i capelli rossi e per questo motivo Malpelo viene trattato con pregiudizio da
tutti ed anche dalla stessa madre. Egli è costretto a vivere emarginato e isolato, trattato come una bestia e
non come un essere umano. Il padre, soprannominato “il bestia” per la sua remissività e la resistenza alla
fatica, proprio come se fosse una bestia da soma, è l’unico che ha dell’affetto per Malpelo ma muore nella
stessa cava sotto una frana di sabbia. L’emarginazione e le difficoltà portano Malpelo ad assumere
atteggiamenti cinici e spietati, soprattutto nei confronti di chi vive una condizione ancora più debole e
fragile della sua, come Ranocchio, un ragazzetto infelice come lui che lavora come manovale alla cava.
Dietro questo carattere indurito e indifferente Malpelo nasconde però una sua umanità e un bisogno di
amore che manifesta nei confronti dello stesso Ranocchio e del padre morto nella cava per la caduta di un
pilastro di sabbia. Quando Ranocchio si ammala ed in breve tempo muore, stroncato dalla fatica e dalle
inumane condizioni di lavoro, Malpelo rimane completamente solo. Nel finale Malpelo si offre volontario
per esplorare un passaggio della cava, egli si smarrisce così nei cunicoli intricati, nell’indifferenza generale e
senza lasciare alcuna traccia di sé.

Nedda
L'attenzione del lettore si concentra soprattutto sulla figura di Nedda la varannisa (così chiamata perché
viene dal borgo di Viagrande), la prima di una lunga galleria di umili protagonisti che Verga descrive come
costretti alla miseria e a una vita di stenti. Non c'è amore che salvi o speranza che permetta di essere
ottimisti. Nedda è la storia di un'umile raccoglitrice di olive che si svolge nelle campagne siciliane dopo
l'Unità d'Italia. La sua figura e la sua storia diventano la personificazione del pessimismo verghiano.
Verga narra come un giorno, davanti al caminetto con il fuoco acceso, si ricordò di una fiamma vista ardere
un giorno nel camino della fattoria del Pino alle pendici dell'Etna. Intorno a quella fiamma, si stanno
asciugando una ventina di ragazze, raccoglitrici di olive, fradice di pioggia. Una sola tra loro resta in
disparte, Nedda, diminutivo di Bastianezza. Alle domande delle compagne, la fanciulla povera e timida,
narra della sua miseria e della madre gravemente malata. Alla fine della settimana, con i pochi soldi della
paga, Nedda parte per ritornare a casa. Nel tragitto incontra Janu, un giovane del suo paese che è stato a
lavorare a Catania. Giunta a casa, trova la madre quasi agonizzante e poi la donna muore. Dopo averla
seppellita, Nedda accetta una nuova occupazione ad Aci Catena. Il lavoro è ora più redditizio e consente alla
ragazza maggiore serenità; Janu dopo pochi incontri, le chiede di sposarlo. Fra i due nasce un rapporto
passionale e gioioso, ma che non porta alla felicità. Nedda infatti mostra presto i segni infamanti di una
gravidanza prematrimoniale; come se non bastasse, Janu si ammala di malaria e tuttavia, per affrettare le
nozze, non rinuncia a lavorare. Cade però da un ulivo e muore tra le braccia di Nedda. La fanciulla rimane
sola: abbandonata, disprezzata, sfruttata; presto le muore anche la figlioletta che ha avuto da Janu e in cui
Nedda aveva riposto tutte le speranze per raggiungere una felicità che, ovviamente, non arriva.

Jeli pastore
Jeli è un giovane pastore che passa tutto il tempo pascolando i puledri del padrone nelle pianure e sui
monti attorno a Tebiti. È però solo perché i genitori sono lontani a lavorare. Lì intorno lo conoscono tutti e
gli vogliono tutti bene, poiché è un ragazzo gentile e disponibile. Un giorno conosce e stringe amicizia con
don Alfonso, detto il signorino perché figlio di un ricco signore che si trova lì in villeggiatura.
Stanno spesso insieme ed entrambi invidiano qualcosa dell'altro: don Alfonso ama la vita all'aria aperta e
vorrebbe poter fare quello che fa il giovane pastore, mentre a Jeli piacerebbe saper scrivere, ma "non
riesce che si possa poi ripetere sulle carta quelle parole che egli ha dette".
Parlano spesso assieme e un giorno il pastorello dice al signorino di aver conosciuto tempo addietro una
bella ragazza, Mara di massaro Agrippino, che abitava anch'ella a Tebiti. In quel periodo gli erano morti
anche i genitori e lei e lo sua famiglia lo avevano aiutato ad andare avanti. Poi però si erano spostati in valle
a cercare fortuna e lei lo aveva dimenticato. Lui però pensa sempre a lei e ne è ancora innamorato.
Arriva il giorno della festa di San Giovanni, in cui Jeli deve vendere i puledri del padrone. Durante il viaggio
verso la valle però un cavallo scappa e cade in un burrone, rompendosi le reni. Giunge il fattore e vedendo
che il cavallo è ormai carne da macello, gli spara e consiglia al giovane pastore di non farsi più vedere dal
suo padrone.

Cavalleria Rusticana
Turiddu Macca, appena tornato dal servizio militare, venne a sapere che Lola, la sua compagna, si era
fidanzata con Alfio, un ricco carrettiere. Dapprima egli voleva vendicarsi su Alfio ma poi si limitò a cantare
canzoni di sdegno sotto la finestra della bella. Dopo il matrimonio, in presenza di Lola, Turiddu fingeva
indifferenza, andava dietro ad altre ragazze ma dentro di lui prevaleva ancora la gelosia e progettava una
vendetta. Per questo proposito, si fece assumere come contadino dall’uomo che abitava di fronte ai due
sposi e iniziò a corteggiare, anche pubblicamente, Santa, la figlia dell’uomo. Lola, rossa dalla gelosia per ciò
che sentiva ogni sera da Turiddu alla finestra di Santa, un giorno invitò il suo ex-fidanzato a casa sua,
approfittando della momentanea assenza di Alfio: così i due ricominciarono a frequentarsi, all’insaputa del
marito di lei. Santa venne a conoscenza della relazione di Turiddu e Lola e, per vendetta, lo disse ad Alfio.
Egli, tradito e furioso, sfidò l’amante della moglie a duello. Così Turiddu e Alfio si diedero appuntamento in
un campo, entrambi consapevoli che tutti e due erano disposti a tutto per non rinunciare a Lola e al loro
orgoglio. Lo scontro si conclude con la morte di Turiddu, colpito in modo sleale da Alfio. Alla fine del
racconto, tuttavia, non si ristabilisce un equilibrio perché l’autore lascia in sospeso le sorti dei protagonisti
dopo la morte di Turiddu.

L’amante di Gramigna
La novella di Verga "L'amante di Gramigna" è ambientata nella campagna siciliana e racconta le vicende di
una ragazza di buona famiglia che si innamora perdutamente di un brigante. Peppa, questo il nome della
giovane, sta per sposare compare Finu (anche detto "candela di sego"), da tutti considerato un buon partito
poiché possiede molti campi e addirittura una mula con cui ha intenzione di accompagnare la sposa nella
loro futura casa. La madre di Peppa è contentissima per questo fidanzamento e controlla in continuazione il
corredo e l'oro che la giovane porterà come dote. Nelle campagne circostanti, intanto, i carabinieri e diversi
contadini si sono organizzati in squadre e pattuglie per dare la caccia ad un terribile brigante di nome
Gramigna. Nonostante sia braccato da tempo, l'uomo è abilissimo a fuggire e non si fa catturare. La fama
delle sue imprese giunge alle orecchie di Peppa che, solo a sentirne parlarne, se ne innamora a tal punto da
rompere il fidanzamento con compare Finu. Rinchiusa in casa dalla madre che non accetta la sua decisione,
Peppa decide di fuggire e andare in cerca di Gramigna. Una volta trovato il brigante, decide di restare con
lui, aiutandolo a restare nascosto, cercando per lui acqua e cibo e sopportando le sue botte. Dopo un certo
tempo, però, i due vengono catturati. L'uomo è condotto in carcere e Peppa, che è rimasta incinta, dopo un
breve processo viene rimandata a casa dalla madre dove rimane rinchiusa fino alla morte di quest'ultima. A
questo punto Peppa lascia il figlioletto presso un istituto di orfanelli e va a cercare l'uomo in carcere. Qui
scopre che Gramigna è stato trasferito altrove, ma la donna decide comunque di rimanere lì, sopravvivendo
grazie alla pietà altrui e a qualche lavoretto di pulizia.

La Roba
La roba è una novella che si incentra sull’ascesa sociale e la tragedia personale di un contadino, Mazzarò,
arricchitosi fino a estendere i propri possedimenti a gran parte delle terre a sud di Catania. Il racconto si
apre con una tecnica narrativa sperimentata dal Verga in varie occasioni: la presentazione del protagonista
attraverso la narrazione indiretta. La ricchezza del protagonista viene infatti implicitamente rivelata
attraverso lo stupore di un viandante che attraversa la pianura di Catania, lungo la strada che costeggia il
Lago Lentini, contemplando le grandi fattorie di Mazzarò, i suoi immensi magazzini, le sue vigne, i suoi ulivi
e i suoi campi di grano, nonché i suoi pascoli, i suoi muli e le sue greggi. Il racconto prosegue con
un’approfondita descrizione fisico-psicologica di Mazzarò: egli è “un’omiciattolo basso e pingue”, ma è
molto astuto; è ricco, ma vive da uomo povero, vestendosi in malo modo e nutrendosi a malapena a
sufficienza, e lavora insieme ai suoi braccianti al fine di accumulare più “roba” possibile; non possiede una
famiglia e non ha alcun vizio come le donne, il fumo, il gioco o il vino. La “roba” è quindi un’ossessione per il
protagonista. Mazzarò accumula “roba” con la propria fatica e ne è ossessionato per via della sua avidità.
Il racconto quindi ha un unico protagonista umano di cui si racconta l’ascesa sociale e la morte. Mazzarò
inizia a lavorare come contadino, ma è un bracciante sfruttato, come molti nella sua condizione. È un uomo
analfabeta che riesce a diventare ricchissimo a forza di lavoro e sacrifici. Verga narra che deride il padrone
per i metodi poco astuti di controllare i braccianti e per la poca praticità per gli affari, fino al momento in
cui, grazie alla furbizia e al lavoro, riesce a sottrargli tutte le tenute. Una volta acquisito un certo potere,
però, non si comporta in modo corretto e leale nei confronti di chi lavora per lui, anzi specula sull’ingenuità
altrui, solo per ottenere propri vantaggi. Non teme niente e considera tutte le lamentele solo una
seccatura. L’unica sua terrificante paura è la morte, semplicemente perché non potrà portare con sé la sua
roba: non si rende conto minimamente che, una volta deceduto, tutto scomparirà. Nel periodo della
vecchiaia, infatti, il solo pensiero di doversi separare dalle sue terre lo fa diventare matto, fino al punto che
” quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un
pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: “Roba
mia, vientene con me!”

Libertà
E’ l’anno 1860: dopo lo sbarco dei Milla a Marsala, ha inizio una folgorante compagna militare che
sbalordisce il mondo. I garibaldini avanzano vittoriosi in Sicilia, travolgendo la debole resistenza borbonica.
Tutti l’isola è pervasa da un brivido di libertà, si vive uno dei momenti cruciali e più esaltanti del
Risorgimento. Nella piazza di Bronte, paesetto sulle pendici dell’Etna, prende l’avvio una vera e propria
insurrezione contadina contro i proprietari terrieri e gli amministratori favorevoli ai Borboni. Ma la
sommossa presto sfugge di mano ai capi politici c così la secolare miseria dei contadini, sfruttati come
bestie dai padroni, fa esplodere in tutta la sua violenza la rabbia popolare. Le lame di scuri e falci brillano al
sole, le strade e le case vengono invase da una marea urlante, travolgente; la plebe si scatena, uccide: ha
così inizio un bagno di sangue al quale nessuno sfugge, nemmeno gli innocenti. Si cerca, forse prima
dell’interminabile serie di torti subiti e di dare sfogo al cumulo di risentimenti personali. Alla fine del brutale
massacro, calmatosi la tempesta, ognuno incomincia a sognare di spartire col vicino i boschi e i campi del
vecchio padrone, ciascuno calcola quello che gli potrebbe toccare. Ma presto si sparge la voce che a
normalizzare la situazione e a fare giustizia stanno arrivando, per ordine di Garibaldi, le camicie rosse,
guidate da Ninio Bixio. A questo punto iniziano le amare delusioni dei rivoltosi, che hanno lottato non per
un’astratta libertà ma per la liberazione dal bisogno e dalle prepotenze dei galantuomini, per avere un
pezzo di terra da lavorare in pace e trarne da vivere, così come loro promesso. Infatti, a ogni combattente e
ai contadini non possidenti era stata assicurata la suddivisione in piccole quote delle proprietà
ecclesiastiche e dei terreni comunali, anche di quelli abusivamente privatizzati da nobili e borghesi. Perciò i
contadini, scrive nel 1910 uno studioso di Bronte, Benedetto Radice, non vedevano in Garibaldi solo il
liberatore dalla tirannide borbonica, ma soprattutto il liberatore dalla miseria. Tuttavia Bixio, il secondo dei
Mille, non può approvare il comportamento feroce e illegale dei brontesi. Trascinato dal suo carattere
impietoso, istituisce un tribunale di guerra che, sbrigativamente, fa fucilare le teste più calde, e impone così
l’ordine con il terrore. Molti verranno condotti in catene nel carcere di Catania, in attesa di un vero
processo, la cui conclusione, dopo tre anni, sarà piuttosto deludente per i rivoltosi: non otterranno niente di
tutto quello per cui si erano battuti, non avranno né terra né libertà. Mentre tutti gli altri rimasti in paese
ritorneranno tristemente a fare quello che facevano prima. E’ un grande affresco drammatico quello che
Verga compone nel presentarci l’episodio storico della sanguinosa rivolta di Bronte, che nel 1972 il regista
Florestano Vancini fece rivivere nel film “Cronache di un massacro”

Potrebbero piacerti anche