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3.

Il bilancio pubblico e l’economia

3.1. Entrate, spese e bilancio pubblico

Abbiamo già detto che lo stato ha entrate ed uscite, e dunque un suo bilancio.
Le uscite, cioè le spese dello stato per beni e servizi, sono per noi la spesa pubblica.
Per gli scopi della teoria macroeconomica, alcune importanti uscite dello stato non
sono contabilizzate all’interno della spesa pubblica: si tratta delle spese di tipo re-
distributivo, come per esempio il pagamento di pensioni e sussidi. Questi paga-
menti, infatti, sono sì pagamenti a persone (e quindi sono reddito per queste per-
sone), ma non risultano da una prestazione lavorativa o da cessioni di beni da parte
di costoro nei confronti del settore pubblico: si tratta dei cosiddetti “trasferimenti”.
Si conviene invece di includere i trasferimenti come voci negative delle entrate
pubbliche T: in effetti questa voce è composta di trasferimenti in entrambe le dire-
zioni, da privati a stato nel caso di tassazione in senso usuale, e da stato a privati in
caso di trasferimento. Le entrate pubbliche T vanno quindi interpretate come en-
trate pubbliche nette. Tra le uscite del settore pubblico registriamo dunque solo le
spese per l’acquisto di beni e servizi, incluso il pagamento dei redditi dei dipendenti
attivi dello stato, oltre alle spese per gli investimenti pubblici. Nel Capitolo 2 ab-
biamo già introdotto il simbolo G per indicare tale aggregato, ed continueremo ad
usarlo con questo significato.
Per quanto riguarda le entrate pubbliche nette, esse sono formate dalle voci po-
sitive delle imposte dirette e indirette e dei contributi sociali, e dalle voci negative
dei trasferimenti alle famiglie. Ricordiamo che le imposte dirette sono quelle che
si caricano sulle persone, fisiche o giuridiche, per il fatto che queste hanno redditi
o ricchezze: quelle sul reddito (personale o di impresa) sono però decisamente su-
periori a quelle patrimoniali. Le imposte indirette, invece, vengono caricate su
qualche atto economico, come il consumo, la produzione, o gli scambi. I contributi
sociali sono infine prelievi obbligatori di certi enti pubblici per finanziare le assi-
curazioni sociali.
Le imposte dirette sui redditi e i contributi sociali sono commisurati ai redditi
distribuiti; le imposte indirette sono commisurate alla produzione oppure ai con-
sumi. Dunque un’importante fetta delle entrate pubbliche dipende dal reddito. Le
imposte di tipo patrimoniale, invece, sono autonome rispetto al reddito, perché la
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ricchezza non dipende dal reddito corrente. Infine, anche i trasferimenti non dipen-
dono in generale dal reddito nazionale: le pensioni dipendono dal numero dei pen-
sionati e dai contributi da essi versati in passato, e se il reddito corrente aumenta o
diminuisce non c’è ragione che le pensioni varino. Dunque, continuando ad indi-
care con T l’ammontare delle entrate pubbliche nette, che spesso chiameremo per
semplicità “imposte” o “tassazione”, possiamo immaginare che esse abbiamo una
componente autonoma rispetto al reddito ed una invece dipendente dal reddito. La
cosa più semplice è immaginare una relazione lineare del tipo
T  T0  tY ,
dove il primo addendo T0 è detto tassazione autonoma netta (perché è indipendente
dal reddito), mentre tY è la tassazione che dipende dal reddito.
Il parametro t è l’aliquota della tassazione: si chiama anche “aliquota margi-
nale”, poiché si tratta del coefficiente angolare della funzione della tassazione, che
nel nostro caso è evidentemente una retta. Il suo valore rappresenta dunque l’incre-
mento della tassazione dovuto ad un aumento del reddito pari ad un euro. L’ali-
quota t deve essere ovviamente inferiore a uno: non si può prelevare un ammontare
di tasse maggiore del reddito!
Nei sistemi di tassazione concreti non si prevede in realtà un’aliquota costante,
ma aliquote marginali crescenti per scaglioni di reddito: una tassazione di quest’ul-
timo tipo si dice progressiva. Per esempio, in Italia nel 2019 lo schema di tassa-
zione delle persone fisiche è all’incirca il seguente, considerando anche le addizio-
nali delle imposte locali (regionali e comunali) e alcune “detrazioni” di imposta
dovute a ragioni che qui non interessa approfondire:

scaglioni di reddito aliquota


da 0 a 8.000 euro esente
da 8.000 a 15.000 euro 17%
da 15.000 a 28.000 euro 29%
da 28.000 a 55.000 euro 40%
da 55.000 a 75.000 euro 43%
oltre i 75.000 euro 45%

Se per esempio ho un reddito lordo di 25.000 euro, pago le seguenti imposte:


zero sui primi 8.000 euro; il 17% dei successivi 7.000 euro e il 29% dei successivi
10.000 euro, cioè pago 0 + 0,17·7.000 + 0,29·10.000 = 4.090 euro. In media la mia
percentuale di imposte è pari a 4.090/25.000 = 16,4%, e quest’ultima percentuale
prende il nome di aliquota media.
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Se il mio reddito dovesse crescere, pur rimanendo nel terzo scaglione e quindi
non modificandosi l’aliquota marginale, la mia aliquota media sarebbe maggiore.
Per esempio, se il mio reddito fosse 27.000 euro, pagherei le seguenti imposte: zero
sui primi 8.000 euro; il 17% dei successivi 7.000 euro e il 29% dei successivi
12.000 euro, cioè pago 0 + 0,17·7.000 + 0,29·12.000 = 4.670 euro. L’aliquota me-
dia sarebbe allora 4.670/27.000 = 17,3% circa.
A maggior ragione, se il mio reddito passa ad uno scaglione superiore, dove
l’aliquota marginale è maggiore, allora l’aliquota media aumenta ulteriormente.
Per esempio, se il mio reddito diventasse 30.000 euro, l’imposta totale sarebbe:
zero sui primi 8.000 euro; il 17% dei successivi 7.000 euro, il 29% dei successivi
13.000 euro (l’intera ampiezza del terzo scaglione), più infine il 40% degli ultimi
2.000 euro (la parte del mio reddito che si situa nel quarto scaglione). Pagherei
dunque 0 + 0,17·7.000 + 0,29·13.000 + 0,4·2.000 = 5.760 euro, con un’aliquota
media pari a 5.760/30.000 = 19,2%.
A livello macroeconomico, però, quando il reddito cambia è sì vero che aumen-
tano i singoli redditi, ma aumenta soprattutto il numero di persone che guadagnano
un reddito pari al reddito medio preesistente. Nel complesso, dunque, l’aliquota
media non varia di molto, anche perché le variazioni del reddito nazionale da un
anno all’altro sono modeste. Gli esempi precedenti mostrano che per variazioni del
reddito personale da 25.000 a 27,000 e poi a 30.000 l’aliquota media non varia
molto (dal 18,6% al 19,4% al 21,1%)1. E si osservi che si tratta di variazioni di
reddito percentualmente piuttosto elevate (la prima è 8%, la seconda 11%), diffi-
cilmente riscontrabili nella realtà.
Per tale ragione, qui ipotizziamo che l’aliquota t che appare nell’espressione
T  T0  tY sia costante per variazioni non ampie del reddito.

Abbiamo detto nel Capitolo 1 che il saldo del bilancio pubblico è definito come
“entrate meno uscite”, cioè T – G (e il deficit pubblico è definito come G – T). Per
quanto esposto poco sopra, possiamo dunque scrivere:

Saldo del bilancio pubblico = T0  tY  G

1 Ciò è ulteriormente rafforzato da certi meccanismi di “detrazioni di imposta” che operano


proprio al limitare degli scaglioni, in particolare per gli scaglioni bassi, al fine di mitigare
l’aumento delle aliquote medie per modeste variazioni di reddito.
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Ricordiamo che quando tale saldo è negativo viene chiamato deficit, e allora si
tralascia il segno negativo.
Il bilancio pubblico contiene componenti autonome e componenti indotte. La
spesa pubblica è una decisione autonoma del governo, e la componente autonoma
della tassazione T0 non dipende dal reddito corrente. D’altra parte il saldo del bi-
lancio pubblico non dipende solo da decisioni proprie del governo, perché la tassa-
zione indotta t·Y varia al variare del reddito, e le variazioni del reddito possono
dipendere anche dalle decisioni dei privati (variazione degli investimenti, oppure
del consumo autonomo). Dunque il bilancio dello stato migliora quando il reddito
aumenta. Per tale ragione, oltre che per il fatto che un maggior numero loro elettori
ricevono un maggior reddito, i governi sono molto soddisfatti quando il reddito
nazionale aumenta.

3.2. Bilancio pubblico e reddito

La spesa pubblica svolge il ruolo di domanda nel mercato dei beni: infatti si
tratta di acquisto diretto di beni e servizi da parte delle amministrazioni pubbliche,
incluso il pagamento di redditi ai dipendenti pubblici, redditi che si traducono a
loro volta in consumi, cioè in acquisto di beni e servizi. La tassazione T svolge
invece un ruolo opposto a quello della spesa pubblica, nel senso che ogni suo au-
mento fa diminuire la domanda. Infatti aumentando la tassazione, il reddito a di-
sposizione delle famiglie diminuisce, e dunque ci dobbiamo aspettare che diminui-
sca il loro consumo. Infatti il reddito disponibile (delle famiglie) è definito come:

Reddito disponibile: Yd  Y  T  Y  T0  tY .

Dobbiamo ricordare che, per ipotesi, la tassazione autonoma include i trasferi-


menti ai privati (pensioni eccetera) cambiati di segno. Dunque, nella precedente
espressione, quando si sottrae dal reddito la tassazione autonoma, si sottraggono le
imposte indipendenti dal reddito, per esempio quelle patrimoniali, ma si sommano
i trasferimenti alle famiglie, per esempio le pensioni. Il reddito disponibile delle
famiglie, allora, è influenzato dal bilancio pubblico in due modi: è diminuito dalla
tassazione vera e propria, ma è aumentato dai trasferimenti.
La condizione di equilibrio macroeconomico è “offerta = domanda”, come
sempre. Dato quanto esposto in parti precedenti l’offerta è misurata dal Prodotto
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Interno Lordo (PIL), che però –ricordiamolo- è identicamente uguale al valore ag-
giunto dell’economia, e dunque ai “redditi” distribuiti: per tale ragione, indichiamo
l’offerta con il simbolo Y (“yield” = reddito). Dall’altra parte, la domanda macroe-
conomica (in un sistema chiuso a scambi con l’estero, per semplicità) è costituita
dai consumi finali e dagli investimenti (incluse le variazioni delle scorte): C + I.
Ora, conviene osservare che sia i consumi sia gli investimenti includono delle parti
che vengono domandati dal settore pubblico: nei consumi sono inclusi i servizi
pubblici, di cui le famigli godono; negli investimenti sono inclusi gli investimenti
pubblici (strade, scuole, ospedali, ecc.). Ci conviene a questo punto raggruppare la
domanda per consumi e investimenti effettuata dal settore pubblico in un’unica
voce che chiamiamo G (da “governo”), scorporandola dai consumi e investimenti
privati. Dunque, d’ora in avanti la voce C indicherà i soli consumi privati, e la voce
I indicherà i soli investimenti privati. Dunque, il totale della domanda di beni e
servizi può essere indicato come C + I + G. Ne segue che la condizione di equili-
brio macroeconomico si scrive come
Y = C + I + G,
dove il lato sinistro misura l’offerta, mentre a destra, tra le voci della domanda
aggregata, oltre ai consumi delle faglie C e gli investimenti privati I, appare anche
la spesa pubblica G.
Per poter determinare il reddito di equilibrio nell’economia con intervento pub-
blico, dobbiamo osservare che la decisione di consumo privato da parte delle fami-
glie deve ovviamente dipendere dal reddito effettivamente a disposizione dopo la
tassazione, cioè del reddito disponibile. È infatti chiaro che le famiglie, quando
decidono quanto spendere del proprio reddito, guardano a ciò che esse effettiva-
mente percepiscono, al netto delle tasse e contributi, ed includendo invece i trasfe-
rimenti a loro favore. Il reddito nazionale Y continua ad indicare il pagamento lordo
di redditi da parte delle imprese (il valore aggiunto, ovvero il prodotto interno
lordo); il reddito disponibile per le famiglie, invece, è quello al netto dei prelievi
dello stato.
D’altra parte, è ovvio che la spesa pubblica influisce positivamente sulla pro-
duzione e sul reddito dell’economia: se l’amministrazione pubblica acquista carta,
matite, computer, energia elettrica, consulenze, eccetera, ciò è domanda diretta di
beni e servizi che vengono prodotti dall’economia; se l’amministrazione pubblica
paga i dipendenti pubblici, costoro poi consumeranno in parte tali redditi per ac-
quistare beni e servizi dalle imprese.
Abbiamo allora due importanti conseguenze: se la tassazione aumenta, vuoi
nella parte indotta dal reddito (aumento dell’aliquota marginale) vuoi nella parte
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autonoma, allora il reddito di equilibrio diminuisce. Se invece la spesa pubblica
oppure i trasferimenti alle famiglie aumentano allora il reddito di equilibrio au-
menta. Questi sono gli effetti sul reddito di equilibrio di variazioni delle voci del
bilancio pubblico.
Ma la tassazione costituisce entrata per il bilancio del settore pubblico, mentre
la spesa pubblica e i trasferimenti sono uscite. Dunque un aumento delle entrate
oppure una riduzione delle uscite fa diminuire il reddito di equilibrio; il contrario
accade invece in seguito ad un aumento delle uscite o una riduzione delle entrate.
Ne segue allora che un miglioramento del bilancio pubblico ha un effetto de-
pressivo sul reddito, mentre un suo peggioramento (ovvero un aumento del deficit
pubblico) ha un effetto espansivo.

Vediamo schematicamente i risultati appena enunciati:

T – G aumenta (miglioramento del bilancio pubblico)  Y* diminuisce


G – T aumenta (peggioramento, o aumento del deficit)  Y* aumenta

Le manovre sul bilancio pubblico hanno dunque una duplice faccia. Ogni au-
mento di spesa (o riduzione di tassazione) costituisce un peggioramento del deficit
pubblico, ma allo stesso tempo costituisce un stimolo all’attività privata: si tratta di
maggior domanda rivolta direttamente alle imprese, oppure maggior reddito dispo-
nibile in mano alle famiglie di coloro che lavorano per il settore pubblico.
Dunque, quando il deficit pubblico aumenta, l’economia privata, famiglie più
imprese, riceve dallo stato più di quanto debba versare nelle casse pubbliche sotto
forma di tassazione. Ciò appare positivo agli occhi dei privati: quasi nessun citta-
dino privato, infatti, si lamenta mai nei momenti in cui il deficit pubblico aumenta.
Piuttosto, gli aspetti negativi dei persistenti deficit pubblici appaiono più avanti nel
tempo, nel lungo periodo, quando occorrerà porre in qualche modo rimedio ai de-
ficit passati riducendo la spesa pubblica e/o aumentando la tassazione. In questo
nuovo momento le manovre appaiono in tutta la loro evidenza ai cittadini, che se
ne lamentano ampiamente. Non possiamo accusare i soli cittadini di questa miopia:
anche i governi sono responsabili, se conducono politiche fiscali “allegre” senza
avvisare la collettività delle possibili conseguenze future.
Per la verità, dal punto di vista soggettivo, i governi hanno pochi incentivi a
moderare i deficit: infatti l’obiettivo (di breve periodo) di molti governi è in gene-
rale di compiacere ai cittadini per farsi rieleggere, e questo può avvenire sia spen-
dendo molto sia tassando poco. Dunque la persistenza dei deficit pubblici trova
conniventi cittadini e governi: ciò che occorre è qualche regola superiore (“Costi-
tuzione economica”) che vincoli l’operato dei governi, nel senso di far trasparire
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sempre l’effetto di lungo periodo dei deficit odierni. In assenza di ciò, si hanno
importanti redistribuzioni intergenerazionali (ciò che è goduto dai padri deve es-
sere pagato dai figli) senza l’assenso delle generazioni successive. Questa è la prin-
cipale iniquità derivante da una gestione irresponsabile del bilancio pubblico.
Si noti: non stiamo dicendo che il deficit pubblico in sé sia un male. In effetti,
come abbiamo detto sopra, l’aumento del deficit pubblico (nella forma di aumento
della spesa pubblica o di riduzione della tassazione) provoca un aumento del red-
dito nazionale, e ciò può essere necessario in periodi nei quali la spesa privata è
stagnante2. Il problema dei deficit pubblici, piuttosto, è la loro persistenza nel
tempo, non accompagnata da una chiara enunciazione degli effetti di lungo periodo.
Ma quali sono gli effetti di lungo periodo dei deficit pubblici?

3.3. Intermezzo: due idee minime di teoria macroeconomica


Prima di rispondere alla precedente domanda, esponiamo qui qualche minima
idea di teoria macroeconomica, in particolare per ciò che riguarda il cosiddetto
equilibrio macroeconomico dei mercato dei beni. Ciò serve anche a giustificare un
poco più precisamente alcune affermazioni prima enunciate.
Abbiamo visto prima che la condizione di equilibrio (offerta=domanda) si può
scrivere come
(1) Y = C + I + G,
dove il lato sinistro misura l’offerta, mentre a destra, tra le voci della domanda
aggregata, oltre ai consumi delle faglie C e gli investimenti privati I, appare anche
la spesa pubblica G.
Seguendo il suggerimento del famoso economista inglese John Maynard Key-
nes (1883-1946), questa condizione di equilibrio ha una interpretazione causale: è
la domanda che determina l’offerta, e non viceversa (almeno nel breve periodo).
Infatti, se anche le imprese producessero di più ma non riuscissero a vendere il

2 Per essere più precisi, occorrerebbe dire che l’efficacia della spesa pubblica, come anche
di ogni spesa provata, nello stimolare la produzione interna dipende anche da quale quota
dei beni e servizi acquistati da residenti siano di produzione nazionale oppure venga impor-
tata dall’estero. Maggiore è la quota importata e minore sarà l’effetto sulla produzione in-
terna. Ma in questa sede dobbiamo limitarci, per semplicità, all’analisi di un’economia
chiusa.
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prodotto, ben presto annullerebbero l’aumento della propria offerta. Nel contempo,
se le imprese vedono che la domanda (per consumi o investimenti o spesa pubblica)
aumenta allora decideranno certo di produrre di più, supponendo che esse abbiano
almeno un po’ di capacità produttiva inutilizzata come spesso accade.
Ora, tra le voci di domanda che appaiono sul lato destro dell’espressione (1)
almeno una, i consumi C, che però non sono indipendenti dal reddito stesso. Ricor-
diamo infatti che il reddito Y che appare sul lato sinistro dell’espressione (1) è sì
una misura dell’offerta, ma misura anche i redditi percepiti dai partecipanti alla
produzione (si veda il capitolo sulla Contabilità Nazionale). I percettori di reddito
sono le Famiglie, e sono le famiglie stesse che decidono quanta parte del proprio
reddito consumare.
Quale reddito, però, le famiglie considerano per effettuare la propria scelta di
consumo? Si deve trattare ovviamente del loro reddito netto, e non di quanto le
imprese spendono (cioè di quello che chiamavamo Valore aggiunto in Contabilità
nazionale), che include anche imposte e contributi.
Come dicevamo all’inizio della pagina 2 del presente documento, la “tassa-
zione” (inclusiva di contributi sociali) può essere espressa tramite la relazione
(2) T = T0 + tY
dove il primo addendo rappresenta il prelievo indipendente dal reddito delle fami-
glie, mentre il secondo rappresenta quello che dipende dal reddito.
Ne segue che il reddito netto delle famiglie si può scrivere:
(3) YN = Y – T = Y – T0 – tY.
Di questo reddito netto le famiglie possono fare principalmente due cose, spen-
dere per consumi oppure risparmiare3. Anzi, la decisione in realtà è una sola, per-
ché, per definizione, il risparmio è la parte del reddito netto non spesa per consumi;
dunque, il risparmio è una “non-spesa”, cioè non fa parte delle voci della domanda.
Da cosa dipende la decisione di spendere per consumi? La cosa più naturale da
pensare è che essa dipenda dal reddito (netto) percepito: maggiore è il reddito e
maggiore è la spesa per consumi. Una parte dei consumi, inoltre, sarà relativamente
indipendente dal reddito: verosimilmente si tratterà dei consumi di sussistenza, ine-
liminabili.

3 Le famiglie possono anche spendere per investimenti, quando acquistano una casa nuova.
Ma, come sappiamo, questa spesa va classificata tra gli investimenti I e non tra i consumi C.
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Il modo più semplice per farsi un’idea del nesso fra reddito netto e consumo è
ipotizzare la seguente semplice espressione:
(4) C = C0 + cYN
dove il primo addendo misura la parte del consumo che non dipende dal reddito,
mentre il secondo indica che la restante parte è una frazione stabile del reddito
netto. Si tratta ovviamente di una semplificazione, ma è molto utile. Naturalmente,
il termine c è minore di uno (si spende meno del proprio reddito netto).
Assumiamo poi, come pare ragionevole, che le altre voci della domanda (inve-
stimenti e spesa pubblica) non dipendano dal reddito corrente ma siano motivate
da altre circostanze (p. es. aspettative di domanda futura da parte delle imprese,
piani di politica economica del governo, spese obbligate come le pensioni, ecce-
tera).
Mettendo ora assieme ciò che abbiamo visto nelle espressioni (14), vi invito a
verificare che possiamo scrivere quanto segue:
(5) Y = C0 + c(Y – T0 – tY) + I + G,
e, svolgendo due semplici passaggi, si può ottenere:
(6) Y = c(1 – t)Y + C0 – cT0 + I + G,
Raccogliendo a sinistra i termini che contengono Y, abbiamo poi:
(7) Y  c(1 – t)Y = C0 – cT0 + I + G.
Fate un ultimo sforzo (raccogliete i termini in Y a sinistra), e convincetevi che
potete, risolvendo per Y, scrivere la seguente (ultima) espressione:
𝐶0 – 𝑐𝑇0 + 𝐼 + 𝐺
(7) 𝑌=
1−𝑐∙(1−𝑡)

Questa ultima espressione ci dice che, ogni volta che qualcuna delle voci di
domanda che non dipendono dal reddito varia, pro tanto varia il reddito di equili-
brio: se aumentano gli investimenti, o la spesa pubblica, o il consumo di sussi-
stenza, il reddito aumenta; se invece aumenta la tassazione T0 che non dipende dal
reddito (per esempio quella patrimoniale) allora il reddito di equilibrio diminuisce.
Osservate però una cosa: il denominatore della frazione che appare nell’espres-
sione (7) è minore di uno, perché sia c sia (1  t) sono minori di uno, e dunque
anche [1  c(1  t)] è minore di uno. Questo significa che se una delle voci al
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numeratore aumenta di (diciamo) 100, allora il reddito aumenta di più di 100, per-
1
ché è maggiore di uno.
1−𝑐∙(1−𝑡)

Ciò significa che quando una qualsiasi delle voci di domanda indipendente dal
reddito (al numeratore dell’espressione 7) varia, il reddito di equilibrio varia di più.
Supponiamo per esempio che l’aliquota t valga 25% = 0,25 e che il termine c sia
60% = 0,60; abbiamo allora (1  t) = 0,75 e dunque [1  c(1  t)] = 1  0,60,75 =
1 1
1  0,45 = 0,55. Come risultato, otteniamo = = 1,82 circa. Allora, se
1−𝑐∙(1−𝑡) 0,55
per esempio gli investimenti aumentano di 100 il reddito di equilibrio aumenta di
182.
Perché questo risultato? Pensateci bene. Se gli investimenti aumentano di 100
allora le imprese dovranno per prima cosa far aumentare il loro prodotto di 100 per
soddisfare tale domanda addizionale. Ma, come sappiamo, il prodotto è anche red-
dito per i partecipanti (famiglie percettrici di reddito): le famiglie riceveranno un
maggiore reddito netto pari a 1000,75 = 75; di questo maggio reddito netto spen-
deranno 750,6 = 45 per consumi. Ma questi 45 di consumo sono altra domanda
addizionale per le imprese, che dovranno far aumentare il loro prodotto di altri 45;
dunque sinora il prodotto, cioè reddito, è aumentato di 100+45=45. E così via, in
un processo che alla fine vede un aumento complessivo di reddito pari a 182.
1
Il termine è tradizionalmente chiamato “moltiplicatore” in macroeco-
1−𝑐∙(1−𝑡)
nomia: moltiplica le variazioni di domanda per ottenere le corrispondenti variazioni
del reddito di equilibrio.
Osservate infine il reddito diminuisce se aumenta la tassazione che non dipende
dal reddito, T0, che ha segno negativo nell’espressione (7). Non solo, ma il reddito
diminuisce anche se aumenta l’aliquota della tassazione t: provate, nel nostro esem-
pio precedente a porre t = 30% = 0,3. Se fate per bene i conti, troverete alla fine
1 1
che [1  c(1  t)] = 0,58 e allora = = 1,72 circa: per ogni aumento di
1−𝑐∙(1−𝑡) 0,58
domanda pari a 100 il reddito aumenta ora di 172 invece che 182.
Le ultime osservazioni servono a rendere più precise le affermazioni proposte
verso la fine del paragrafo 3.2
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3.4. Deficit, debito e tasso di interesse
Se in un certo anno il governo opera in deficit, ciò significa semplicemente che
spende cifre superiori alle proprie entrate. Ma per fare ciò il governo si deve inde-
bitare, come ogni altro soggetto che operi in disavanzo, ovvero che abbia uscite
superiori alle entrate. Indebitarsi significa chiedere denaro a prestito a qualcuno;
significa cioè cedere a qualche soggetto, in cambio di denaro, un titolo che impegna
il governo alla restituzione della cifra ad una data pattuita, e in più al pagamento di
interessi per tutto il periodo che intercorre sino alla scadenza. Il mercato sul quale
vengono trattati i titoli al momento della loro emissione, cioè al momento in cui il
governo in deficit li emette in cambio di denaro, viene talora chiamato mercato
“primario” dei titoli.
Se alla scadenza il governo non ha risorse per la restituzione (cioè non ha un
avanzo di bilancio), allora emetterà nuovi titoli per ottenere il denaro necessario a
tale restituzione, così come deve fare un qualsiasi privato se ha bisogno di rinno-
vare un debito in scadenza; i nuovi titoli vanno semplicemente a sostituire quelli
scaduti. Le persone a cui deve essere restituita la somma inizialmente presa a pre-
stito possono essere le stesse, oppure altre da quelle che avevano comprato il titolo
all’emissione, specie se il titolo è di lunga durata. Si deve tuttavia osservare che un
sottoscrittore di titoli non è obbligato a tenere quei titoli sino alla loro scadenza.
Esiste infatti un mercato “secondario” dei titoli (la Borsa), sul quale chi vuole può
vendere i titoli in suo possesso prima della scadenza, posto che trovi qualche altro
privato che li vuole comperare. In periodi normali c’è sempre qualcuno che è di-
sposto a comprare titoli: infatti, così come un soggetto può desiderare di vendere
titoli in suo possesso perché ha bisogno di denaro in questo momento, altrettanto
esiste qualcuno che in quel momento ha denaro in eccesso rispetto alle sue esigenze
attuali e decide di comprare titoli.
Ciò che conta per il governo, dal nostro punto di vista attuale, è il suo rapporto
con i privati nel loro complesso: il fatto che i privati scambino tra di loro titoli già
esistenti sul mercato secondario lascia invariato l’indebitamento del governo.
Ogni deficit annuo dà luogo ad un nuovo indebitamento, che va coperto con
nuove emissioni di titoli. La somma di tutti gli indebitamenti degli anni passati
costituisce dunque lo stock complessivo dell’indebitamento del settore pubblico, e
si chiama debito pubblico. Siccome per ogni nuovo indebitamento, dovuto a deficit
annuo, il debito si incrementa pro tanto, vale la seguente relazione tra il debito
dell’anno t e quello dell’anno prima t1:
(1) Debitot = Debitot1 + Deficitt

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Il debito di fine 2011, cioè, è pari al debito di fine 2010 più il deficit verificatosi
durante il 2011. Se per esempio il debito di fine 2010 era 1.840 (miliardi di euro),
e durante il 2011 il governo ha un ulteriore deficit di 60 per il quale deve contrarre
nuovi debiti, allora il debito a fine 2011 è 1.900. Si osservi che, secondo il linguag-
gio introdotto nel Capitolo 1, il debito è uno stock mentre il deficit è un flusso. Si
osservi anche che l’espressione (1) consente al debito di diminuire in un certo anno:
ciò accade se il deficit di quell’anno è negativo, e cioè se il governo ha un surplus
di bilancio; tale surplus può infatti essere utilizzato per estinguere parte del debito
pregresso.
Sino a che continuano ad esistere deficit annui il debito continua ad aumentare,
e il governo deve continuamente trovare nuovi sottoscrittori dei nuovi titoli. Il pro-
blema principale di tutto ciò è che alla lunga, e in particolare in periodi di incertezza
finanziaria, i detentori (effettivi o potenziali) dei titoli del debito pubblico potreb-
bero preoccuparsi della loro eccessiva massa: potrebbero cioè dubitare che il go-
verno sia in grado di restituire il dovuto alla scadenza, e di conseguenza potrebbero
essere indotti a liberarsi di questi titoli che “scottano” se già li posseggono, oppure
potrebbero rifiutare di sottoscriverne se non ne posseggono.
Questi sono periodi molto difficili per le finanze pubbliche e per i mercati fi-
nanziari: quando tutti vogliono liberarsi dei titoli e nessuno li vuole comprare, il
loro prezzo si abbassa, e a perderci sono coloro che hanno ancora in mano i titoli
stessi. Tutto ciò provoca una “corsa” alla vendita di titoli, con crollo dei loro prezzi;
inoltre nessuno più vorrà comprare i titoli nuovi, e il governo non ha risorse per la
restituzione dei debiti pregressi e per il pagamento degli interessi su quei debiti: si
rischia il “fallimento” dello stato.
Nel settembre 1992 l’Italia ha vissuto un momento di questo tipo, che non è
sfociato in una crisi catastrofica, ma ci è andato molto vicino. In quel momento i
nostri governi impararono che il debito pubblico è un problema, e occorre fare
qualcosa per tenerlo sotto controllo, cominciando a ridurre i deficit annui con la
prospettiva di annullarli. Ciò, come abbiamo detto sopra, richiede sacrifici ai pri-
vati.
Tuttavia, con il passare del tempo potrebbe accadere che un parziale risana-
mento convinca i governi successivi che il debito non è più un problema, e si riduca
l’attenzione al suo controllo: infatti, come abbiamo già detto, nel breve periodo un
governo trova vantaggioso, in termini elettorali, operare in deficit. Ciò pare essere
successo in Italia dopo il 2001: i deficit annui hanno ripreso a crescere, e il debito
ha accelerato il suo aumento. Successivamente, si è assistito a un certo rallenta-
mento a partire dal 2015.
Il governo, se opera in deficit, non solo non ha entrate sufficienti per restituire
i debiti, ma non le ha neppure per pagare gli interessi annui; dunque, anche a causa
di ciò il governo deve ulteriormente indebitarsi. In altri termini anche gli interessi,
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e non solo la spesa per servizi o per investimenti pubblici, costituiscono spesa pub-
blica e contribuiscono a generare deficit. A questo punto potete ben capire che il
bilancio pubblico potrebbe essere in deficit anche senza che le altre spese pubbli-
che, diverse dagli interessi, eccedano le entrate pubbliche: basta che esista un de-
bito che obbliga il governo a pagare interessi annui.
A causa di tale meccanismo, conviene effettuare lo studio dell’evoluzione del
debito pubblico nel tempo separando il deficit pubblico in due parti, in modo tale
che sia esplicito il ruolo svolto dal pagamento di interessi.
Chiamiamo spesa pubblica primaria la spesa pubblica al netto di quella per
interessi. Si tratta della spesa che un governo vuole o deve sostenere “normal-
mente” per i suoi compiti istituzionali, anche se non ha debito: acquisto beni e ser-
vizi, pagamento dei dipendenti, investimenti pubblici, pagamento di pensioni, ec-
cetera. Si chiama poi deficit primario la differenza tra la spesa primaria e il totale
delle entrate. Ciò che rimane fuori dall’intero deficit è la spesa per interessi. Pos-
siamo allora scomporre il deficit dell’anno t come somma del deficit primario e
degli interessi di quell’anno:
(2) Deficitt = Deficit primariot + Interessit.

Supponiamo ora per semplicità che il deficit primario sia nullo. Questo non è
vero in generale, e la presenza di un deficit (o avanzo) primario è anzi molto im-
portante per l’evoluzione del debito pubblico; tuttavia, adottiamo tale ipotesi per
far emergere chiaramente il ruolo del pagamento degli interessi nel meccanismo di
evoluzione del debito.
Abbiamo parlato prima del “rischio del debito pubblico”, tale per cui i poten-
ziali acquirenti cominciano ad avere timori sulla restituzione futura e non vogliono
più acquistare i titoli, provocando così un inizio di panico finanziario. Si potrebbe
pensare che per invogliare il pubblico a sottoscrivere i titoli basti innalzare il tasso
di interesse riconosciuto ai sottoscrittori. Ciò avviene effettivamente nei momenti
di sfiducia: si paga un maggiore tasso di interesse sui titoli per compensare il rischio
percepito dai sottoscrittori; questa parte aggiuntiva del tasso di interesse si chiama
“premio per il rischio”. Inoltre, si chiama spread la differenza fra il tasso di inte-
resse pagato da un certo governo rispetto al tasso di interesse pagato da un governo
molto credibile, il cui premio per il rischio cioè sia molto basso: un esempio di tale
ultimo tipo di governo è, agli occhi dei mercati finanziari attuali, quello tedesco;

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mentre un esempio dell’altro tipo, con spread elevato, è il governo italiano, assieme
a quelli spagnolo e greco4.
Ma qual è l’effetto di un aumento del tasso di interesse? L’effetto è ovviamente
di far ulteriormente aumentare il carico delle spese per interessi annui, e dunque il
deficit e il debito. Vediamo più precisamente il fenomeno.
Sotto l’ipotesi semplificatrice che il deficit primario sia pari a zero, la prece-
dente espressione (2) si riduce a Deficitt = Interessit. Ricordando poi la definizione
(1), abbiamo allora la seguente evoluzione del debito nel tempo:
(3) Debitot = Debitot-1 + Interessit

Come si calcolano gli interessi pagati sui titoli in un dato anno? Essi sono sem-
plicemente il prodotto fra il debito preesistente e tasso di interesse (medio) vigente
nell’anno t. Infatti se il mio debito a inizio anno, cioè alla fine dell’anno scorso, è
1000 e il tasso di interesse quest’anno è il 5%, allora durante l’anno devo pagare
per interessi una somma pari a 5%1000 = 0,051000 = 50. Più in generale, se i
rappresenta il tasso di interesse, avremo:
(4) Interessit = Debitot-1 · i

Mettendo assieme le due espressioni (3) e (4), cioè sempre ipotizzando che il
deficit primario sia pari a zero, otteniamo infine:
(5) Debitot = Debitot-1 + Debitot-1 · i = Debitot-1 · (1+i)

Dunque, anche in assenza di deficit primario, il debito pubblico si cumula nel


tempo con un ritmo dato dal termine (1+i). In effetti, come sappiamo da altre parti
del corso, il tasso di interesse si può interpretare come il tasso di crescita del capi-
tale da restituire. Questa progressione del debito è “esponenziale”, nel senso che il
debito pubblico, in assenza di correttivi, tende a crescere sempre più velocemente,
e ad esplodere, nel tempo.
Per esempio, se il debito iniziale è 100 e il tasso di interesse è fisso ogni anno
al 5%, dopo un anno il debito è 100(1+0,05) = 105. Dopo due anni il debito è
diventato 100(1+0,05) (1+0,05) = 100(1+0,05)² = 110,25. Dopo dieci anni il de-
bito ammonta a 100  1  0,0510  163 circa. Ma se il debito iniziale è 100 e il
tasso di interesse è il 15% (più o meno il suo valore medio in Italia fra il 1979 e il

4 Le differenze tra tassi di interesse necessarie per indurre i potenziali sottoscrittori ad acquistare effet-
tivamente un titolo posso essere anche molto modeste, dell’ordine di decimi o centesimi di un punto
percentuale. Per tale ragione i differenziali di tassi di interesse sono misurati in centesimi di punto, detti
anche “punti base”: per esempio, uno spread di 350 punti base significa un differenziale del 3,5%.
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1989), allora dopo dieci anni il debito diventa 100  1  0,1510  404 . Ecco dun-
que un serio problema per i governi che sono costretti ad affrontare elevati tassi di
interesse.
La crescita del debito pubblico, però, non va vista in termini assoluti, cioè indi-
pendentemente dall’andamento di altre variabili macroeconomiche. La capacità di
restituzione di un debito dipende infatti dall’andamento delle entrate del soggetto
debitore: se un debitore ha un debito grande, e magari anche crescente, i suoi cre-
ditori non si preoccupano se costui ha cospicue entrate annue che lo mettono in
grado di pagare gli interessi annui e di restituire più avanti anche il debito.
Per quanto riguarda il governo, le entrate pubbliche dipendono dal reddito na-
zionale, essendo ad esso proporzionali. Dunque se il reddito nazionale è elevato, e
cresce a sufficienza, le entrate prospettiche dello stato sono elevate e crescenti, e
ciò fornisce le risorse per il pagamento degli interessi, ed in futuro anche per la
restituzione del debito. In altri termini, se il debito cresce, ciò può non costituire un
grave problema se anche il reddito cresce a sufficienza. Di conseguenza il debito
pubblico va valutato non di per sé, ma in relazione al reddito. Per esempio, è sì vero
che negli anni 2007-2012 i debiti pubblici di economie come la Germania, la Fran-
cia e gli USA sono aumentati; ma contestualmente si è verificata una crescita del
loro reddito: una crescita maggiore di quella italiana, anche se non dobbiamo di-
menticare che quello è stato un periodo di crisi in tutto il mondo. Quella crescita,
benché non rapida, ha fatto sì che gli operatori finanziari non fossero troppo preoc-
cupati dei loro debiti, continuando dunque a prestare loro a tassi moderati. Non
altrettanto valeva allora per Grecia, Spagna, Italia.
D’altra parte, la disponibilità dei privati a detenere titoli del debito pubblico
dipende dalla loro ricchezza totale: se la ricchezza è ampia i soggetti sono disposti
a tenere “in portafoglio” anche molti titoli del debito pubblico assieme agli altri.
Ora, benché la ricchezza (finanziaria + reale, cioè titoli più capitale reale, p. es.
costruzioni e terreni) non sia facile a misurarsi, non è irragionevole pensare che
essa sia in qualche modo in relazione col reddito nazionale, almeno nel lungo pe-
riodo. Ciò spiega ulteriormente perché, ai fini di valutare l’importanza del debito
pubblico, lo si debba valutare in relazione al reddito.
Ne segue che un buon indicatore della gravità del problema del debito pubblico
è il rapporto tra debito pubblico e reddito, o PIL: è infatti molto frequente sentir
parlare del rapporto Debito/PIL. Come evolve nel tempo questo rapporto?
Per definizione, il reddito evolve ad una velocità che è il “tasso di crescita del
reddito”, diciamo g (dall’inglese growth = crescita). La variazione percentuale del

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PIL, cioè il suo tasso di crescita dall’anno t-1 all’anno t, è infatti per definizione
PIL PILt  PILt 1
g  , da cui, con due semplici passaggi5, segue che
PIL PILt 1

(6) PILt  PILt 1 1  g 

Per misurare come cambia nel tempo il rapporto Debito/PIL basta allora sfrut-
tare le espressioni (5) e (6), ottenendo

Debitot Debitot 1 1  i  Debitot 1 1  i


(7)   
PILt PILt 1 1  g  PILt 1 1  g

Dunque il rapporto Debito/PIL dell’anno t è pari al rapporto Debito/PIL


dell’anno precedente, moltiplicato per la frazione (1+i)/(1+g). Ne segue che il rap-
porto debito/PIL cresce nel tempo se il tasso di interesse è maggiore del tasso di
crescita del reddito (sempre nell’ipotesi che il deficit primario sia pari a zero).
Per esempio, negli anni ‘80 in Italia i tassi di interesse erano molto elevati in
rapporto ai tassi di crescita, e ciò ha accelerato enormemente la crescita del rap-
porto Debito/PIL. Nel periodo 1995-2001 i tassi di interesse si erano abbassati de-
cisamente rispetto ai primi anni novanta; nel contempo i tassi di crescita del reddito
erano aumentati, anche se di poco; ciò ha contribuito positivamente alla riduzione
del rapporto Debito/PIL. Tale risultato era rafforzato dal fatto in quegli anni anche
il deficit primario si era ridotto, diventando anzi un avanzo primario. In seguito a
ciò il rapporto Debito/PIL italiano, che partiva nel 1994 a livello di circa il 125%,
è arrivato nel 2002 attorno al 105%. Tra il 2002 e il 2007, poi, i tassi di crescita del
PIL sono nuovamente diminuiti, i tassi di interesse sono aumentati, e si è ridotto
l’avanzo primario: l’effetto è stato un nuovo aumento del rapporto debito/PIL, che
nel 2006 è tornato attorno al 108%. A partire dal 2007, poi, la crescita del PIL
italiano si è ulteriormente ridotta (è stata addirittura negativa, si badi, in termini
nominali, nel 2009), mentre i tassi di interesse, dovuti a elevati spread, sono au-
mentati: dunque, il rapporto debito/PIL è ulteriormente aumentato, fino a raggiun-
gere il 135% nel 20156. Infine, tra il 2015 e il 2019 il rapporto è rimasto stabile,
principalmente per il fatto che i deficit annui sono stati piuttosto modesti, anche
grazie a un progressivo ribasso dei tassi di interesse a livello internazionale (pur
rimanendo il tasso italiano maggiore di quello tedesco).

5 Moltiplicate entrambi i lati della definizione del tasso di crescita per PILt1; poi portate a destra tutti
i termini che contengono tale termine; risolvete infine per PILt.
6 Si veda la Figura dell’Appendice a questo capitolo.
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Per il prossimo futuro, il permanere di tassi di interesse molto bassi potrebbe
favorire una nuova diminuzione del rapporto Debito/PIL italiano, posto che
l’avanzo primario non riprenda ad essere significativo. Tuttavia, la pandemia
COVID-19 sta richiedendo a tutti i governi forti interventi di sostegno alle proprie
economie, e c’è da attendersi un significativo aumento del rapporto debito/PIL a
fine 2020, rapporto che si era attestato al 134% a fine 2019.
A parte il contesto specifico generatosi nel 2020 a causa del COVID, una cosa
va tenuta presente in generale. Il rapporto debito/PIL deve essere mantenuto sotto
attento controllo, per evitare che i potenziali sottoscrittori di titoli se ne vogliano
liberare, causando così il “fallimento” (default) del settore pubblico.
Per fare ciò si spera di poter continuare a pagare, ancora in futuro, bassi interessi
sui titoli pubblici, e inoltre occorre ridurre il deficit primario (cioè migliorare
l’avanzo primario). Sia l’ottenimento di un significativo avanzo primario via ri-
duzione delle spese pubbliche o aumento della tassazione sia la riduzione degli
interessi pagati sui titoli pubblici possono non piacere ai cittadini, i quali sono chia-
mati a incassare meno risorse e/o a pagare più tasse. Ma, questo non è che l’esito
di decenni precedenti durante i quali avveniva il contrario: da questo punto di vista,
si può dire che i figli sono chiamati a pagare per ciò di cui i padri hanno goduto.

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Rapporto % debito/PIL in Italia

1967
1971
1975
1979
1983
1987
1991
1995
1999
2003
2007
2011
2015
Appendice – Il rapporto percentuale fra debito pubblico e PIL in Italia, 1863-2019

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