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Catilina, nato da nobile famiglia, fu di grande forza sia dell'animo che del corpo, ma di 

indole malvagia e
depravata. A questo fin dalla giovinezza furono gradite le guerre civili, i massacri, le rapine, la discordia civile, e lì
esercitò la sua età matura. Il corpo era tollerante alla fame, al freddo, alla veglia, più di quanto possa essere
credibile per chiunque. L'animo era temerario, subdolo, incostante, simulatore e dissimulatore di qualsiasi
cosa, desideroso dell'altrui, prodigo del proprio, focoso nei desideri; aveva abbastanza eloquenza, ma poca
saggezza. L'animo mutevole desiderava sempre cose smoderate e troppo alte. Dopo la dittatura di Silla lo aveva
occupato il massimo desiderio di impadronirsi dello stato; e non gli importava per niente con quali mezzi
conseguisse questa cosa, pur di procurarsi il regno. Il suo animo impetuoso era agitato sempre di più di giorno in
giorno dalla mancanza di patrimonio familiare e dalla consapevolezza dei delitti, entrambe le quali cose egli
aveva accresciuto con quelle arti che ho ricordato in precedenza. Inoltre lo incitavano i costumi corrotti della
cittadinanza, che i mali peggiori e diversi tra di loro - ovvero l'amore per il lusso e l'avidità - tormentavano.

Ma tra questi (in iis – tra i congiurati) vi era Sempronia, che spesso aveva commesso molte azioni (facinora –
accusativo plurale) sfrontate (virilis audaciae – genitivo di qualità – letteralmente = di virile audacia;
l’accostamento dei 2 termini vuole sottolineare la sfrontatezza della donna).
Questa donna fu abbastanza (satis) fortunata per la stirpe e l'aspetto (genere…forma – ablativi di limitazione), e
inoltre (praeterea) per il marito e i figli (viro liberis – ablativi di limitazione); era [erat sottinteso] istruita (docta)
nelle lettere greche e latine (litteris Graecis et Latinis – ablativo di limitazione), nel suonare la cetra (psallere -
grecismo) e nel ballare più elegantemente (elegantius - comparativo di maggioranza di eleganter) di quanto fosse
necessario per una donna onesta (probae – dativo di vantaggio di aggettivo sostantivato), e inoltre in molte altre
cose (multa alia – accusativo di relazione) che sono strumenti di dissolutezza.
Ma per lei fu sempre tutto (omnia – aggettivo sostantivato) più gradito (cariora – comparativo di maggioranza di
carus) del decoro e del pudore; tu (tu sottinteso con valore impersonale) non avresti potuto capire (discerneres –
congiuntivo imperfetto di discernere) facilmente se lei avesse meno misericordia (parceret – da parcere = avere
misericordia; regge i 2 dativi: pecuniae e famae) per il denaro (pecuniae – dativo di vantaggio) o per la fama
(famae – dativo di vantaggio); la libidine (lubido – sta per libido) [era] così ardente che ricercava gli uomini più
spesso (saepius - comparativo di maggioranza dell'avverbio saepe) di quanto fosse cercata da loro.
Ma spesso quella in precedenza aveva tradito un giuramento, negato un debito, era stata complice di un delitto;
per la lussuria (luxuria – ablativo di causa) e la povertà (inopia – ablativo di causa) era caduta a capofitto
(praeceps – letteralmente: a testa in giù; praeceps deriva da prae + caput).
Eppure (verum) il suo ingegno non [era] spregevole: era in grado (posse – infinito storico che regge facere,
movere, uti) di comporre versi, suscitare il riso, adoperare (uti – infinito di utor, uteris, usus sum, uti – regge
l’ablativo sermone) un linguaggio (sermone - ablativo) modesto o languido o sfrontato; insomma (prorsus), [in
lei] c'era (inerat – imperfetto - composto di sum: insum, ines, infui, inesse – regge il complemento di stato in
luogo sottinteso: in ea = in lei ) molta arguzia e molta grazia.

Ma, portata a termine la battaglia, allora veramente avresti potuto vedere quanto coraggio e quanta forza
d'animo fossero stati nell'esercito di Catilina. Infatti ogni soldato ricopriva con il suo corpo morto all'incirca il
luogo che da vivo aveva occupato combattendo. Pochi poi, che la corte pretoria aveva disperso al centro della
schieramento, erano caduti un po' più lontano ma tu tuttavia con ferite frontali. Poi Catilina fu trovato lontano
dai suoi in mezzo ai cadaveri dei nemici mentre ancora respirava a stento e manteneva sul volto l'espressione
feroce dell'animo che aveva avuto da vivo. Insomma di tutto il gran numero dei soldati, non fu catturato nè in
battaglia nè in fuga nessun cittadino libero: a tal punto tua avevano avuto uguale riguardo per la propria vita e
per quella dei nemici. E d'altra parte l'esercito del popolo romano aveva riportato una vittoria facile o senza
spargimento di sangue. Infatti tutti i più coraggiosi o erano caduti nella mischia, o ne erano usci gravemente
feriti. Molti poi usciti dall'accampamento per esaminare o spogliare i cadaveri, rivoltando i cadaveri dei nemici
trovano chi un amico, chi un ospite, chi un parente. E vi furono quelli che riconobbero pure i propri nemici
personali. Così per tuo l'esercito confusamente si mescolavano letizia e dolore, compianto e gioia

Mi accingo a scrivere la guerra che il popolo romano condusse contro il re dei Numidi Giugurta, per prima cosa
perché fu un fatto importante, (una guerra) terribile e la vittoria fu incerta, in secondo luogo perché allora per
la prima volta si andò contro l’arroganza della nobiltà. E questa contesa mescolò tutti i valori umani e divini, e
giunse a tal punto di follia che la guerra e la rovina dell’Italia posero fine alle passioni civili. Ma prima di
spiegare l’inizio di un fatto di tale portata mi rifarò da poco più indietro, perché tutti i fatti di rilievo appaiano

sempre di più chiari per la comprensione. Costui, non appena fu ragazzo - e prestante di forza fisica, di
bell’aspetto, ma soprattutto ben fornito d’intelligenza -, non si fece indebolire dal lusso e dalla pigrizia, ma,
com’è abitudine di quel popolo, andava a cavallo e si esercitava nel lancio del giavellotto; gareggiava nella
corsa con i coetanei e, nonostante superasse tutti in gloria, era comunque simpatico a tutti; oltre a ciò,
trascorreva la maggior parte del tempo nell’andare a caccia e per primo o tra i primi feriva leoni e altre belve:
faceva moltissimo, ma parlava di sé pochissimo. [2] E sebbene all’inizio Micipsa fosse stato contento di queste
cose, pensando che il valore di Giugurta sarebbe stato di vanto per il suo regno, tuttavia, dopo che capì che il
giovane si faceva sempre più uomo mentre la sua vita era ormai passata e i suoi figli erano piccoli, fortemente
preoccupato da quella situazione, pensava a molte cose tra sé. [3] Lo spaventava la natura degli uomini,
insaziabile di potere e incline a soddisfare i desideri del proprio animo, poi la condizione dell’età sua e dei figli,
che spinge anche gli uomini mediocri fuori dalla retta via con la speranza di un successo, e oltre a questo le
simpatie dei Numidi nate nei confronti di Giugurta, dalle quali era in ansia che nascesse una qualche rivolta o
una guerra, se avesse ucciso con l’inganno un tale uomo.

Costui, non appena fu ragazzo - e prestante di forza fisica, di bell’aspetto, ma soprattutto ben fornito
d’intelligenza -, non si fece indebolire dal lusso e dalla pigrizia, ma, com’è abitudine di quel popolo, andava a
cavallo e si esercitava nel lancio del giavellotto; gareggiava nella corsa con i coetanei e, nonostante superasse
tutti in gloria, era comunque simpatico a tutti; oltre a ciò, trascorreva la maggior parte del tempo nell’andare a
caccia e per primo o tra i primi feriva leoni e altre belve: faceva moltissimo, ma parlava di sé pochissimo. [2] E
sebbene all’inizio Micipsa fosse stato contento di queste cose, pensando che il valore di Giugurta sarebbe stato di
vanto per il suo regno, tuttavia, dopo che capì che il giovane si faceva sempre più uomo mentre la sua vita era
ormai passata e i suoi figli erano piccoli, fortemente preoccupato da quella situazione, pensava a molte cose tra
sé. [3] Lo spaventava la natura degli uomini, insaziabile di potere e incline a soddisfare i desideri del proprio
animo, poi la condizione dell’età sua e dei figli, che spinge anche gli uomini mediocri fuori dalla retta via con la
speranza di un successo, e oltre a questo le simpatie dei Numidi nate nei confronti di Giugurta, dalle quali era in
ansia che nascesse una qualche rivolta o una guerra, se avesse ucciso con l’inganno un tale uomo.

Costui, non appena fu ragazzo - e prestante di forza fisica, di bell’aspetto, ma soprattutto ben fornito
d’intelligenza -, non si fece indebolire dal lusso e dalla pigrizia, ma, com’è abitudine di quel popolo, andava a
cavallo e si esercitava nel lancio del giavellotto; gareggiava nella corsa con i coetanei e, nonostante superasse
tutti in gloria, era comunque simpatico a tutti; oltre a ciò, trascorreva la maggior parte del tempo nell’andare a
caccia e per primo o tra i primi feriva leoni e altre belve: faceva moltissimo, ma parlava di sé pochissimo. [2] E
sebbene all’inizio Micipsa fosse stato contento di queste cose, pensando che il valore di Giugurta sarebbe stato di
vanto per il suo regno, tuttavia, dopo che capì che il giovane si faceva sempre più uomo mentre la sua vita era
ormai passata e i suoi figli erano piccoli, fortemente preoccupato da quella situazione, pensava a molte cose tra
sé. [3] Lo spaventava la natura degli uomini, insaziabile di potere e incline a soddisfare i desideri del proprio
animo, poi la condizione dell’età sua e dei figli, che spinge anche gli uomini mediocri fuori dalla retta via con la
speranza di un successo, e oltre a questo le simpatie dei Numidi nate nei confronti di Giugurta, dalle quali era in
ansia che nascesse una qualche rivolta o una guerra, se avesse ucciso con l’inganno un tale uomo.
Tutti gli uomini che ambiscono ad essere superiori agli altri esseri animati, è opportuno che si sforzino con sommo impegno per non
passare la vita senza far parlare di sé come gli animali da gregge, che la natura plasmò piegati a terra e obbedienti al ventre. Ma ogni nostra
capacità è collocata nell'animo e nel corpo: dell'animo usiamo il comando, del corpo piuttosto l'esecuzione; un elemento è per noi comune
con gli dei, l'altro con le bestie. Motivo per cui mi sembra più giusto cercare la gloria con i mezzi dell'ingegno che con quelli delle forze e,
poiché la vita stessa, di cui godiamo, è breve, rendere il ricordo di noi il più possibile lungo. Infatti la gloria delle ricchezze e della bellezza è
fuggevole e fragile, la virtù si mantiene gloriosa ed eterna. Ma a lungo ci fu tra i mortali una grande contesa, se l'attività militare ricevesse
vantaggio più dalla forza fisica o dalla capacità della mente. Infatti c'è bisogno sia, prima che tu inizi, di riflettere, sia, una volta che tu abbia
riflettuto, di agire al momento giusto. Così entrambi gli elementi, manchevoli per conto proprio, hanno bisogno uno dell'aiuto dell'altro.

[2] Quindi all'inizio i re (infatti nel mondo fu quello il primo nome del potere) comportandosi diversamente esercitavano parte l'ingegno, altri il
corpo: allora la vita degli uomini si svolgeva ancora senza avidità; a ciascuno piacevano sufficientemente i propri beni. Ma dopo che in Asia
Ciro, in Grecia gli Spartani e gli Ateniesi iniziarono a sottomettere città e popolazioni, a considerare motivo di guerra il capriccio del dominare,
a identificare la massima gloria nel massimo dominio, allora infine col pericolo e con le situazioni si comprese che in guerra moltisimo può
l'ingegno. Che se la virtù dell'animo dei re e dei comandanti valesse in pace così come in guerra, le situazioni umane si svolgerebbero in modo
più giusto e più stabile né vedresti una cosa spostarsi da una parte un'altra da un'altra, né tutto cambiare ed essere sovvertito. Infatti il potere
si mantiene facilmente con quelle arti con le quali all'inizio è stato procurato. Ma una volta che si sono diffuse in luogo della fatica l'inerzia, in
luogo della moderazione e dell'equità la sfrenatezza e la superbia, la fortuna cambia insieme con i costumi. Così il potere si trasferisce sempre
dal meno capace a tutti i migliori. Le attività che gli uomini svolgono quando arano, navigano, costruiscono, dipendono tutte dalla capacità. Ma
molti mortali, dediti al ventre e al sonno, hanno trascorso la vita da ignoranti e incolti come viandanti; per loro certamente, contro natura, il
corpo fu motivo di piacere, l'anima di peso. La loro vita e morte io le considero allo stesso modo, poiché di entrambe si tace. Ma
effettivamente a me sembra che viva infine e che sfrutti la mente colui che occupato in qualche attività cerca la fama di un'impresa gloriosa o
di una buona arte. Ma nella grande varietà di situazioni la natura mostra a qualcuno un percorso, a qualcuno un altro.

[3] È bello agire bene per la vita pubblica, anche parlare bene è non fuori luogo; sia in pace sia in guerra è possibile diventare famosi; sono
lodati molti sia che agirono, sia che scrissero le imprese di altri. E a me in verità, anche se una gloria per nulla pari segue il narratore e
l'esecutore delle imprese, tuttavia sembra particolarmente arduo scrivere le cose compiute: innanzitutto perché i fatti sono da eguagliare
con le parole; poi perché i più, quei misfatti che tu abbia biasimato, li considerano cose dette per malvolere e ostilità, quando (invece) tu
racconti della grande virtù e gloria delle persone valide, ciascuno accetta di buon grado le cose che ritiene per sé facili da farsi, al di sopra di
quelle le considera alla stregua di false come cose inventate. Ma io da giovane all'inizio, come i più, sono stato indotto dalla passione alla
vita politica e lì molte cose mi furono avverse. Infatti invece del pudore, della moderazione, della virtù dominavano la spudoratezza, la
corruzione, l'avidità. E anche se il mio animo, non avvezzo alle cattive abitudini, disprezzava quei comportamenti, tuttavia in mezzo a vizi
così gravi la mia età immatura era mantenuta corrotta dall'ambizione; e, benchè io dissentissi dai cattivi costumi degli altri, nondimeno il
desiderio di successo mi comprometteva con la stessa fama e ostilità con cui (comprometteva) gli altri.

[4] Dunque quando il mio animo fu al riparo da molte sventure e pericoli e io decisi di dover tenere il resto dell'esistenza lontano dalla
realtà politica, non fu mia decisione sprecare la positiva libertà da impegni nella viltà e nell'inattività né poi condurre l'esistenza intento a
coltivare campagna o a cacciare, impegni degni di schiavi; ma, ritornato al medesimo proposito e interesse dal quale la cattiva ambizione mi
aveva tenuto lontano, decisi di scrivere le imprese del popolo romano settorialmente, a seconda che i singoli momenti sembravano degni di
ricordo, tanto più che per me l'animo era libero da speranza, paura, fazioni della vita politica. Quindi sulla congiura di Catilina tratterò
brevemente, quanto più obiettivamente potrò; infatti quell'episodio io lo ritengo particolarmente importante per l'eccezionalità del crimine
e del pericolo. Sui comportamenti di quest'uomo sono da spiegare poche cose prima che io affronti l'inizio del narrare.

Ma nella mia epoca ci furono due uomini di grande virtù e opposto carattere, M. Catone e C. Cesare. Poiché
l'argomento li ha fat comparire, ho deciso di non tralasciare di mettere in luce la natura e i costumi di entrambi,
con quanta capacità mi è possibile. Dunque essi ebbero la famiglia, l'età e l'eloquenza all'incirca uguali, la
grandezza d'animo pari, similmente la gloria, ma diversa p ciascuno. Cesare era considerato grande per i beneci e
la generosità, mentre Catone per l'integrità di vita. Quello (fu) reso famoso dall'umanità e la misericordia, invece
a questo la severità aveva aggiunto dignità. Cesare ottenne la gloria con il dare, co il consolare, con il perdonare,
Catone senza elargire nulla. In uno c'era il rifugio per gli sciagurati, mentre nell'altro la rovina per malvagi. La
cortesia di quello, invece la tenacia di questo erano lodate. Inne Cesare si era proposto di darsi da fare, vigilare;
tralasciare i suoi fatti, per occuparsi degli aari degli amici, non negare nulla che fosse degno di un dono;
desiderava per sé un grande potere, un esercito, una nuova guerra dove la virtù potesse cominciare a splendere.
Invece Catone aveva interesse per la modestia, il decoro, ma soprattutto per la severità; non lottava in ricchezze
con il ricco, né in faziosità con il fazioso, ma per il valore con il coraggioso, per il pudore con il modesto, per
l'integrità con l'onesto; preferiva essere buono che sembrar(lo): così, quanto meno cercava la gloria, tanto più lo
seguiva.
Mentre si svolgono questi fatti, giunge al campo il questore Lucio Silla con un grosso contingente di cavalieri: era
stato lasciato a Roma per reclutarli nel Lazio e fra gli alleati. Dato che l'argomento ci ha portato a menzionare un
personaggio di tale rilievo, mi è parso opportuno spendere poche parole sul suo carattere e sulla sua condotta.
Non avrò infatti altra occasione per parlare dell imprese di Silla e d'altra parte, Lucio Sisenna, che fra quanti le
narrarono, le trattò nel modo migliore e più accurato, non ne ha parlato, mi sembra, con suciente imparzialità.
Silla, dunque, era di nobile gente patrizia, di famiglia quasi completamente decaduta per l'inettitudine dei suoi
antenati. Fu profondissimo conoscitore delle lettere latine e parimenti di quelle greche; uom d'animo grande,
amava i piaceri, ma ancor più la gloria. Benché fosse dissoluto nell'ozio, il piacere non lo distolse mai dai suoi
doveri, anche se nella vita coniugale avrebbe potuto comportarsi più decorosamente. Era eloquente, astuto,
disponibile con gli amici, assolutamente imperscrutabile quando doveva dissimulare, prodigo di molte cose, ma
soprattutto di denaro. Prima della vittoria nella guerra civile fu il più fortunato degli uomini, ma la fortuna non fu
mai superiore alla sua energia, sicché molti si son chiesti se sia stato più valoroso o fortunato. Quanto a quello
che fece in séguito non so se sia più vergognoso o ripugnante parlarne

Informato di ciò, Cicerone, angustiato da un duplice pericolo, poiché non poteva proteggere più a lungo la città di
sua propria iniziativa, e non conosceva esattamente l'entità e i piani dell'esercito di Manlio, porta davanti al
Senato la questione di cui s'era g prima impossessata la pubblica opinione. Pertanto, come suole accadere nelle
situazioni estreme, il Senato emanò il decreto secondo il quale «i consoli dovessero provvedere a che nessuna
sciagura incogliesse lo Stato». Tale potere, secondo la legge romana, è il massimo che sia concesso a un
magistrato, levare un esercito, far guerra, reprimere in ogni modo alleati e cittadini, esercitare in patria e fuori la
suprema autorità militare e civile, altrimenti, senza l'autorizzazione del popolo romano, il console non ha il diritto
di nessuno di questi poteri.

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