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Livio, Ab urbe condita (praefatio)

Livio, Ab urbe condita (praefatio)

Conformemente ai dettami del genere storiografico, il proemio della monumentale narrazione di


Livio ha una funzione programmatica, ossia contiene l’esposizione dei criteri che guidano l’intera
opera. Nell’accingersi a raccontare anno per anno la storia di Roma, a partire dalla sua
fondazione, Livio si prefigge uno scopo rievocativo e consolatorio insieme: da un lato, infatti, egli
rivolge lo sguardo ai secoli passati, e, in particolare, alle origini del popolo romano, per ricordarne
le singolari virtù nella fase emergente e per far rivivere l’essenza del mos maiorum; dall’altro, il
racconto in sé serve anche a distogliere l’attenzione dal presente, caratterizzato da una desolante
degenerazione, soprattutto morale. Immergendosi nel tempo glorioso in cui Roma si formava e via
via si imponeva politicamente, fino a diventare la maggior potenza del Mediterraneo, il lettore (e
l’autore con lui) potrà astrarsi dai mali che lo circondano e recuperare l’orgoglio della sua identità di
civis. Il lavoro dello storico, dunque, assume una funzione più ampia di quella di un qualsiasi
intellettuale: egli deve mettere in luce le vicende e le personalità esemplari del passato, in modo
che la storia possa servire da insegnamento ai lettori: historia magistra vitae.

Facturusne operae pretium sim si a 1] Se comporrò un’opera di valore, avendo


primordio urbis res populi Romani raccontato per intero dall’inizio le vicende della
perscripserim nec satis scio nec, si sciam, città del popolo romano, né lo so per certo né, se
dicere ausim, quippe qui cum veterem tum lo sapessi, oserei dirlo, [2] perché mi rendo
volgatam esse rem videam, dum novi conto che l’argomento è tanto passato di moda
semper scriptores aut in rebus certius quanto arcinoto, mentre gli storici
aliquid allaturos se aut scribendi arte rudem moderni pensano sempre o di riportare qualcosa
vetustatem superaturos credunt. di più certo sui fatti o di superare nell’arte dello
scrivere lo stile rozzo degli antichi. [3]
Utcumque erit, iuvabit tamen rerum Comunque sia, sarà tuttavia utile essermi preso
gestarum memoriae principis terrarum cura secondo le mie possibilità e in prima
populi pro virili parte et ipsum consuluisse; persona del ricordo delle imprese del popolo più
et si in tanta scriptorum turba mea fama in importante del mondo; e se in una così gran
obscuro sit, nobilitate ac magnitudine folla di storici la mia fama fosse oscurata, mi
eorum me qui nomini officient meo consolerei con la nobiltà e la grandezza di quelli
consoler. che metteranno in ombra il mio nome.

Res est praeterea et inmensi operis, ut [4] Inoltre l’argomento comporta una fatica
quae supra septingentesimum annum immensa, poiché risale a oltre settecento anni fa
repetatur et quae ab exiguis profecta initiis e poiché, partito da inizi modesti, è poi cresciuto
eo creverit ut iam magnitudine laboret sua; così tanto che ormai collassa sotto il suo stesso
et legentium plerisque haud dubito quin peso. E non dubito che le prime origini e le
primae origines proximaque originibus vicende vicine alle origini offriranno meno
minus praebitura voluptatis sint, piacere alla maggior parte dei lettori, che invece
festinantibus ad haec nova quibus iam si affrettano [ad arrivare] a quei fatti recenti in
pridem praevalentis populi vires se ipsae cui le forze di un popolo una volta molto
conficiunt. valoroso si esauriscono da sole.

Ego contra hoc quoque laboris praemium [5] Io al contrario cercherò anche questa
petam, ut me a conspectu malorum quae ricompensa dalla mia fatica, di
nostra tot per annos vidit aetas, tantisper allontanarmi dalla vista dei mali a cui la nostra
certe dum prisca tota illa mente repeto, epoca ha assistito per tanti anni, almeno finché
avertam, omnis expers curae quae ripercorro con la mente tutti quei fatti antichi,
scribentis animum, etsi non flectere a vero, libero da ogni preoccupazione che potrebbe, se
sollicitum tamen efficere posset. non allontanare l’animo di chi scrive dal vero,

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almeno renderlo inquieto.

Quae ante conditam condendamve urbem [6] Non ho intenzione né di confermare né di


poeticis magis decora fabulis quam respingere quelle leggende precedenti la
incorruptis rerum gestarum monumentis fondazione - o il progetto della fondazione - di
traduntur, ea nec adfirmare nec refellere in Roma, più consone ai discorsi dei poeti che a
animo est. resoconti affidabili di fatti realmente accaduti.

Datur haec venia antiquitati ut miscendo [7] Sia concessa questa scusa all’antichità, di
humana divinis primordia urbium augustiora rendere, mescolando le vicende umane a quelle
faciat; et si cui populo licere oportet degli dei, più sacri gli inizi delle città; e se a
consecrare origines suas et ad deos referre qualche popolo è giusto concedere di rendere
auctores, ea belli gloria est populo Romano sacre le proprie origini e di rimandare agli dei
ut, cum suum conditorisque sui parentem come capostipiti, il popolo romano ha una tale
Martem potissimum ferat, tam et hoc gloria di guerra che, innalzando il potentissimo
gentes humanae patiantur aequo animo Marte a padre suo e del suo fondatore, i popoli
quam imperium patiuntur. della terra sopportano pazientemente anche
questa convinzione tanto quanto ne sopportano
il dominio.

Sed haec et his similia utcumque [8] Ma di certo io non terrò in grande
animadversa aut existimata erunt haud in considerazione queste cose e quelle simili a
magno equidem ponam discrimine: ad illa queste, in qualunque modo possano essere
mihi pro se quisque acriter intendat considerate e valutate: [9] ciascuno di per sé,
animum, quae vita, qui mores fuerint, per per favore, rivolga puntualmente l’attenzione a
quos viros quibusque artibus domi ciò,  quale sia stato il tenore di vita, quali i
militiaeque et partum et auctum imperium costumi, grazie a quali uomini e capacità in pace
sit; labente deinde paulatim disciplina velut e in guerra il dominio [di Roma] sia sorto e si
desidentes primo mores sequatur animo, sia sviluppato; ponga poi ancora attenzione a
deinde ut magis magisque lapsi sint, tum ire come, man mano che il rigore morale veniva
coeperint praecipites, donec ad haec meno, i costumi dapprima si siano infiacchiti,
tempora quibus nec vitia nostra nec poi come siano sempre più degenerati, infine
remedia pati possumus perventum est. come abbiamo iniziato a precipitare, finché si è
giunti a questi tempi in cui non possiamo
tollerare né i nostri vizi né i loro rimedi.

Hoc illud est praecipue in cognitione rerum [10] È soprattutto questo che vi è di salutare e
salubre ac frugiferum: omnis te exempli utile nella conoscenza della storia, che si possa
documenta in inlustri posita monumento avere sotto gli occhi modelli di ogni genere
intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod ricordati in un’opera illustre; da qui seleziona
imitere capias, inde foedum inceptu foedum per te e per il tuo stato ciò che va imitato, da
exitu quod vites. qui ciò che di vergognoso va evitato sia
all’inizio che alla fine.

Ceterum aut me amor negotii suscepti fallit, [11] Del resto o mi inganna la passione per
aut nulla unquam res publica nec maior nec l’opera intrapresa o nessuno stato fu mai né più
sanctior nec bonis exemplis ditior fuit, nec grande né più sacro né più ricco di buoni
in quam tam serae avaritia luxuriaque esempi, né ci fu una città in cui si insinuarono
immigraverint, nec ubi tantus ac tam diu tanto tardi l’avidità e l’amore per il lusso, né in
paupertati ac parsimoniae honos fuerit. cui l’accontentarsi di poco e la
parsimonia godettero di una considerazione

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tanto grande e così duratura.

Adeo quanto rerum minus, tanto minus Perciò quanti meno erano i beni, tanto meno era
cupiditatis erat: nuper divitiae avaritiam et il desiderio [di possederli]. [12] Ora, invece, le
abundantes voluptates desiderium per ricchezze hanno portato con sé l’avidità, i
luxum atque libidinem pereundi piaceri smodati, il desiderio di mandare in
perdendique omnia invexere. rovina e di perdere tutto per colpa del lusso e
della dissolutezza.

Sed querellae, ne tum quidem gratae Ma, nel momento di iniziare un’impresa tanto
futurae cum forsitan necessariae erunt, ab grande, stiano lontane le lamentele, che non
initio certe tantae ordiendae rei absint: cum saranno gradite nemmeno quando forse saranno
bonis potius ominibus votisque et necessarie: [13] piuttosto, se anche per me -
precationibus deorum dearumque, si, ut come per i poeti - ci fosse [questa] usanza,
poetis, nobis quoque mos esset, libentius inizierei più volentieri [il lavoro] con buoni
inciperemus, ut orsis tantum operis auspici, voti e preghiere agli dei e alla dee,
successus prosperos darent. perché mi concedessero esiti felici, mentre mi
accingo a un’opera di tale importanza.

LO STILE

Come si può facilmente rilevare dalla lettura della Praefatio, la prosa con cui si apre l’Ab
urbe condita è particolarmente ricca e complessa: il periodare è ampio e dominato
dall’ipotassi; le frasi sono spesso impreziosite dall’uso di nessi poco usati (come ante
conditam condendamve urbem, che, tra l’altro, allude al titolo dell’opera) o da arcaismi
lessicali (volgatam; inmensi); inoltre, la dispositio (organizzazione delle parole nel testo)
indulge di frequente all’iperbato (ad es., me / qui nomini / officient / meo / consoler;
magnitudine / laboret / sua). Numerose sono anche le allitterazioni (ad es., satis scio ..., si
sciam; veterem...volgatam...videam; principis...populi...pro parte) ed è presente anche la
figura retorica del poliptoto (ad es., scio / sciam; patiantur / patiuntur). Si aggiunga che,
come fa notare G.B. Conte, le prime tre parole della Praefatio (Facturusne operae pretium)
costituiscono l’inizio di un esametro, secondo un espediente “già adottato da Sallustio, poi
da Tacito”, cosa che, naturalmente, rappresenta un incipit piuttosto solenne.
Tuttavia, se a livello formale la prosa liviana è decisamente sostenuta, sul piano del
contenuto, invece, il tenore dei concetti espressi non è altrettanto altisonante, poiché Livio
confessa di non esser certo del buon esito del suo lavoro e di temere che il suo nome
verrà confuso tra quello dei tanti autori che si dilettano di storia. Ma si tratta di una
contraddizione che, in realtà, tende a sottolineare proprio l’orgoglio dell’autore,
consapevole di avere intrapreso un’opera di monumentale importanza; difatti, tale esordio
obbedisce a quello che Curtius chiama il topos della falsa modestia, di cui si hanno molte
attestazioni sia nella letteratura latina, sia in quella medievale. Una tale modalità di esordio
appartiene originariamente all’oratoria forense, ma si è poi estesa ad altri tipi di discorsi,
come apprendiamo da Cicerone, che, nel De inventione (I 16, 22), sostiene che l’oratore
deve dimostrare sottomissione ed umiltà, per disporre favorevolmente i giudici.
Nella Praefatio, dunque, Livio ostenta una excusatio propter infirmitatem (“il
riconoscimento della propria debolezza”), esposta in una forma assai elaborata; essa va
intesa esattamente al contrario di come suona alla lettera, ossia come la fiera
consapevolezza di Livio dell’importanza della sua narrazione storica.

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Livio e Augusto
Fin dalla Prefazione dell’Ab urbe condita, si evince che Livio non considera il presente una
nuova età dell’oro ed Augusto come uomo della provvidenza e novello Saturno; difatti,
anche nel resto dell’opera gli elogi al princeps sono rari e piuttosto convenzionali,
soprattutto se rapportati alla consacrazione dell’Eneide e alla celebrazione del Carmen
Saeculare, un inno commissionato ad Orazio in occasione dei ludi saeculares, con cui
Augusto intendeva inaugurare l’era di rinnovamento che iniziava col suo governo.
Livio, invece, apre la sua opera all’insegna di un profondo pessimismo: il tempo in cui egli
vive è caratterizzato dalla decadenza del popolo romano, che, ormai vittima della sua
stessa grandezza, fatica a sostenere il ruolo egemone conquistato nel tempo; l’autore non
si addentra ad analizzare le cause economiche, politiche e sociali che hanno prodotto la
crisi delle istituzioni romane e la conseguente degenerazione dell’imperium, ma si limita ad
individuare in una generica “corruzione dei costumi” il problema di Roma. La conclusione
di Livio è amara: la classe dirigente romana, ormai corrotta, non è più in grado di
governare la repubblica ed è inevitabile che venga sostituita dal princeps, una soluzione
autoritaria, ma ormai ineludibile.
Se, dunque, il presente non è una nuova età dell’oro, non resta che consolarsi rievocando
il passato, riconoscendo nelle origini di Roma una fase genuina e positiva e nella
repubblica la forma di governo migliore. Ecco perché Livio è pomepianus ed, anche,
sostanzialmente innocuo: il suo culto del passato è intriso di consapevolezza che esso
non tornerà più; tale culto, piuttosto moralistico, da un lato è utile alla propaganda
augustea, dall’altro si intreccia con uno spiccato disinteresse di Livio nei confronti
dell’attualità, che lo rende inoffensivo (tant’è che Augusto affida a Livio l’educazione dei
nipoti, mentre fa bruciare i libri di un altro pompeiano, Tito Labieno, nei confronti del quale
è più diffidente).

L’opera
Tra il 27 e il 25 a. C. Tito Livio maturò il progetto di dedicarsi alla composizione di un’opera
storiografica, il cui titolo è tradizionalmente indicato dai codici come Ab urbe condita, ossia
la storia di Roma “dalla sua fondazione”, anche se l’autore, in 43, 13, 2, definisce il suo
lavoro annales. È probabile che Livio volesse portare la narrazione fino a comprendere gli
eventi del suo tempo e che la stesura fosse interrotta dalla morte dell’autore (17 d. C.).
Si tratta di un’opera monumentale in 142 libri, che abbracciano un periodo assai vasto,
dalla fondazione di Roma al 9 a. C. (morte di Druso); essa ci è giunta solo in parte: i libri 1
– 10, che narrano le vicende della monarchia e i primi passi della repubblica; 21 – 30, con
i fatti della seconda guerra punica; 31 – 45, con gli eventi dell’espansione di Roma nel
Mediterraneo orientale. Per quel che riguarda il resto ci sono giunti dei riassunti
(periochae), composti probabilmente fra il III e il IV secolo d. C., che permettono di
ricostruire i libri perduti.
Il metodo usato da Livio nella composizione del testo è piuttosto semplice: egli segue
quasi sempre un’unica fonte, che rielabora obbedendo a criteri di funzionalità narrativa. E
proprio il carattere narrativo dell’Ab urbe condita è parte del fascino dell’opera stessa e
frutto di una visione della storiografia come opus oratorium maxime, cioè principalmente
come forma di eloquenza, secondo la definizione di Cicerone (Leg., 1, 5, 21). La scelta
della fonte non risponde, invece, ad un medesimo criterio: può essere, di volta in volta, la
più antica o la più dettagliata o quella che meglio si presta ad una visione moralistica; in
generale, per il periodo più antico Livio consulta gli annalisti latini arcaici (soprattutto
Valerio Anziate, più raramente Fabio Pittore) e per gli anni successivi Celio Antipatro ed il
greco Polibio.

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Livio, Ab urbe condita (praefatio)

Nel trattare la materia storica, Livio non si preoccupa di analizza le strutture economiche e
sociali, o di offrire descrizioni geografiche e informazioni cronologiche particolarmente
precise; egli si limita, se così si può dire, a rappresentare gli eventi drammaticamente, così
che le persone e le cose diventino protagonisti di un racconto di vicende ricche di pathos:
un modo, spiega lo storico L. Canfora, per mantenere viva la memoria ed “impedire che si
raffreddino i fatti” rievocati.

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