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Teoria dei giochi e spiegazione sociologica

Author(s): GIAN ENRICO RUSCONI


Source: Stato e mercato , AGOSTO 1983, No. 8 (2) (AGOSTO 1983), pp. 251-270
Published by: Società editrice Il Mulino S.p.A.

Stable URL: https://www.jstor.org/stable/24649379

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GIAN ENRICO RUSCONI

Teoria dei giochi e spiegazione sociologica

1. Marxismo, funzionalismo e teoria dei giochi

«La teoria dei giochi offre solide microfondazioni per ogni


studio (folla struttura sociale e del mutamento sociale». Così
scrive Jon Elster in un saggio apparso su Tbeory and So
ciety provocando un dibattito tanto interessante nell'argomento
quanto deludente nelle conclusioni.
Essendo convinto della sostanziale correttezza dell'afferma
zione iniziale, vorrei qui rivisitare quel dibattito chiarendo al
cuni equivoci e modificando le aspettative di resa della teoria
dei giochi in sociologia. Si tratta, tra l'altro, di stabilire l'esatto
significato di «microfondazione», che ci collega direttamente
alla questione dell'individualismo metodologico nelle scienze
sociali.
Diciamo subito che il dibattito è decollato e si è vivacizzato
perché ha investito il marxismo — o meglio quello che gli
scienziati sociali radicai intendono per marxismo. Infatti la
premessa da cui parte Elster è che il marxismo ha scarse capa
cità esplicative sinché assimila schemi di spiegazione macroso
ciali «funzionalisti». La teoria marxista necessita invece di fon
dazioni a livello di comportamento individuale. «Senza una
precisa conoscenza dei meccanismi che operano a livèllo indi
viduale, le grandi pretese marxiste circa le macrostrutture e il
mutamento a lungo termine sono condannate a rimanere a li
vello di speculazione»z.

1 Elster (1982, p. 477). L'autore sviluppa tesi già implicite nei suoi volumi
Logic and Society (1978) e Ulysses ani the Sirens (1979). È annunciata la
pubblicazione di un altro libro Sour Grapes.
1 Ibid., p. 454.

STATO E MERCATO/n. 8, agosto 1983

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Come si vede, ce n'è abbastanza per provocare marxisti or


todossi e neomarxisti, convinti d'aver già portato a termine in
modo costruttivo la revisione del marxismo. Tanto più che
Elster non intende respingere tale revisione, ma riformularne
le tesi.
In realtà, impostato così il dibattito, era fatale che le ener
gie migliori fossero spese nel precisare o nel contestare l'accusa
di funzionalismo al marxismo, nel dibattere la compatibilità o
meno dell'individualismo metodologico con l'analisi sociale a
livello macro. Questa ottica ha pregiudicato nel merito i ter
mini della tesi che «la teoria dei giochi è inestimabile per ogni
analisi del processo storico centrato su sfruttamento, lotta, al
leanze e rivoluzione» 3.
Non ci si è chiesti se e come questi concetti debbano essere
riformulati per entrare nei modelli di gioco ed essere capaci di
spiegare più di quanto non facciano le classiche formulazioni
marxiste e/o funzionaliste. Assente è rimasta la domanda se
quella di Elster è la teoria dei giochi o una versione piuttosto
generica del paradigma della «scelta razionale» altrimenti ricco
e complesso. Non ci si è interrogati se sono possibili modelli
di interazione strategica più adeguati alla spiegazione sociologi
ca di quelli offerti da Elster.
È alla luce di questi problemi che riprendo qui alcuni spunti
degli interventi in Theory and Society, cominciando dall'accusa
di «funzionalismo» rivolta al marxismo. Evidentemente qui
non c'entra la teoria funzionalista alla Parsons. Sotto accusa è
una logica di spiegazione sociologica che stabilisce «nessi fun
zionali» tra istituzioni, tra fenomeni sociali e politici, senza
offrire precise imputazioni di intenzioni di singoli soggetti,
senza esibire precisi nessi di causa ed effetto di azioni indivi
duali e collettive.
Elster dà tre versioni di questo «paradigma funzionale»:
debole, medio, forte. Il paradigma funzionale debole considera
una istituzione o uno schema di comportamento nelle sue con
seguenze che sono (a) di vantaggio a determinati gruppi o
strutture economiche e politiche, (b) non sono tuttavia inten
zionali, volute (unìntended) dagli attori, (c) non sono neppure
riconosciute dai beneficiari come provenienti dagli attori o isti
tuzioni d'origine. Questo paradigma molto generico — del tipo

3 Ibid., p. 453.

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«mano invisibile» — è piuttosto diffuso nelle discipline socio


logiche. Esso per altro non pretende di «spiegare» le istituzioni
o i comportamenti direttamente a partire dalle sue conseguenze.
Quando invece si stabilisce questo rapporto in termini di
«funzione latente» (mantenendo cioè la non-intenzionalità e il
non-riconoscimento degli interessati) entriamo nel paradigma
funzionale medio. Le funzioni latenti di una istituzione o di un
comportamento «spiegano» la loto esistenza. Il paradigma fun
zionale forte, infine, generalizza la tesi che tutte le istituzioni e
modi di comportamento hanno una funzione che spiega la loro
esistenza. Postulato comune a tutte e tre i paradigmi funziona
listi è la presenza di un fine senza un attore intenzionale.
Secondo Elster, in Marx sono all'opera logiche funzionaliste —
tramite l'influenza hegeliana — là dove le varie istituzioni del
sistema borghese vengono spiegate grazie alla loro funzione per
il capitalismo. Questo modo di ragionare è particolarmente evi
dente nelle pagine marxiane dove viene riconosciuto, ad esem
pio, uno Stato dai tratti non-capitalistici, eppure funzionali al
capitale. Marx non dice che la classe capitalistica deliberata
mente, intenzionalmente crea uno Stato a propria misura: si
limita a trarne benefici con una strategia indiretta. «Ma una
spiegazione in termini di funzione latente — commenta Elster
— non può mai invocare considerazioni strategiche di questo
tipo. Il funzionalismo di lungo termine soffre di tutti i difetti
delle spiegazioni funzionali ordinarie, cioè dell'aporia di uno
scopo in cerca di un attore che ha tale scopo»4. I neomarxisti
del tipo Aitvater, Poulantzas, O'Connor hanno portato all'e
stremo la spiegazione funzionalista, sottraendo la loro analisi
ad ogni disconferma empirica e quindi privandola di ogni vero
interesse scientifico.
La controproposta di Elster parte da un paradigma che vuol
essere causale e intenzionale nello stesso tempo: intenzionale
nella comprensione delle azioni individuali e causale nella spie
gazione della loro interazione. Naturalmente anche gli individui
interagiscono intenzionalmente. Da qui la teoria dei giochi e la
razionalità strategica, da essa presupposta. Esse diventano ne
cessarie quando «gli attori individuali cessano di considerarsi
l'un l'altro come vincoli dati nelle loro azioni, ma si conside
rano come esseri intenzionali. Nella razionalità parametrica o

4 Ibid., pp. 458-59.

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gni persona guarda a se stessa come una variabile e tutti gli


altri attori come costanti, mentre nella razionalità strategica
tutti si guardano come variabili» 5.
In questa ottica la game theory studia la interdipendenza
delle scelte degli attori, partendo dal duplice postulato che
ciascun attore non è mai completamente condizionato dai vin
coli strutturali, che pure contrassegnano il suo agire, e che
ciascun attore sceglie entro un quadro di preferenze preciso.
I,'interdipendenza delle scelte si articola in tre momenti: il
vantaggio di ciascuno dipende dalla scelta di tutti; il vantaggio
di ciascuno dipende dal vantaggio di tutti; la scelta di ciascuno
dipende dalla scelta di tutti. Il pregio della teoria dei giochi
sta nel saper abbracciare simultaneamente tutti e tre i momen
ti della interdipendenza. Nulla di più fasullo che considerare
l'individuo nel gioco come un atomo isolato ed egocentrico.
Per avere un gioco sono necessari altri requisiti: l'informa
zione, ipoteticamente al grado perfetto; «punti di equilibrio»,
dove i singoli giocatori ottengono i loro risultati ottimali com
patibilmente con quelli degli altri; una «soluzione» del gioco
stesso ottenibile con una strategia razionale. Naturalmente ci
sono soluzioni diverse a seconda se si tratta di giochi a due
persone o n persone, giochi a somma zero o a somma variabi
le. Sono questi ultimi i più significativi per le scienze sociali,
suddivisi tra giochi di cooperazione e giochi misti di conflitto
e cooperazione. Elster intende appunto ritrascrivere in essi i
tradizionali problemi della solidarietà e del conflitto entro le
classi e tra le classi. Attraverso la game theory si potrà stabili
re quale tipo di razionalità è messa in atto dalle classi e dai
suoi membri. Elster formalizza questa situazione generale in un
gioco semplice a due attori («io» e «tutti gli altri») e due
strategie: solidale (S) ed egoista (E). Il quadro dei possibili
comportamenti è il seguente:

A. Cooperazione universale: tutti scelgono S


B. Egoismo universale: tutti scelgono E
C. Scelta individuale opportunistica: «io» sceglie E, tutti gli
altri scelgono S
D. Scelta individuale ingenua: «io» sceglie S, tutti gli altri
scelgono E.

5 Ibid., p. 463.

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Assumendo che tutti gli «io» vedano le cose nello stesso


modo, si hanno combinazioni o gerarchie di scelta interessanti
dal punto di vista strategico. Ipotizziamo che le scelte seguano
l'ordine C A B D (cioè la prima opzione è il comportamento
opportunistico, la seconda quello cooperativo e così via). In
questo caso avremmo il famoso «dilemma del prigioniero» con
strategia dominante E. Ciascun attore infatti considera la scelta
«egoistica» la più vantaggiosa per sé, qualunque cosa facciano
gli altri. Ma se tutti si comportano così, il risultato è un
danno comune, o quanto meno la mancata acquisizione di un
vantaggio comune. Come si esce dal dilemma? Elster risponde:
occorre mutare il quadro delle preferenze dei singoli tramite
una continua, reciproca informazione.
In realtà il dilemma del prigioniero è qui presentato in mo
do estremamente semplificato rispetto alla problematica che da
anni appassiona gli studiosi. In particolare manca la esplicita
zione dei motivi di «razionalità» che portano alla scelta domi
nante E, troppo semplicisticamente presentata come egoistica.
Data questa premessa, la soluzione suggerita da Elster è ovvia.
Come dire: occorre convincere gli operai ad agire in modo
solidaristico anziché individualistico all'interno della propria
classe. È un suggerimento tanto sensato quanto deludente sul
piano concettuale, che non valorizza neppure la forza euristica
del Prisoners' Dilemma che consiste appunto nel mettere a
fuoco il contrasto di razionalità degli attori. In maniera troppo
immediata e ingenua Elster ha identificato i contenuti della
classica «coscienza di classe» con il comportamento da «attore
collettivo» che risolve al proprio interno la tentazione del free
rider (cioè la tentazione del singolo di trarre benefici egoistici
senza partecipare all'azione e ai costi del gruppo).

2. I giochi dell'azione di classe

Riprendiamo il filo del discorso. Se si realizza la reciproca


attenzione tra gli individui, il gioco cambia natura. Diventa un
Assurance Game, un gioco di assicurazione con un ordine di
priorità A C B D. In esso non c'è strategia dominante per i
singoli, che possono rispondere egoisticamente all'egoismo de
gli altri e solidaristicamente al solidarismo degli altri. Ma la
soluzione solidaristica cooperativa è raggiunta solo in presenza
di informazione «perfetta». Inutile dire che qui sta il limite del

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gioco. L'Assurance Game tuttavia per Elster garantisce il soli


darismo di classe meglio che non l'appello all'imperativo cate
gorico del solidarismo incondizionato. Storicamente la classe
operaia ha mostrato un comportamento cooperativo condizionato
anziché incondizionato, un solidarismo pratico, pagante, anziché
un astratto spirito di sacrificio incurante delle conseguenze.
«Spesso da eroici atti individuali di disobbedienza e rivolta se
gue più male che bene, se gli altri non sono disposti a dare
seguito; tali atti possono offrire alle autorità e agli imprendi
tori la scusa di cui hanno bisogno per schiacciare ulteriormente
gli operai» 6.
È questa l'unica e modesta esemplificazione che Elster offre
per caratterizzare l'Assurance Game del solidarismo operaio.
Di seguito passa a leggere in questa chiave l'evento rivoluzio
nario.
Nella rivoluzione il movente decisivo dell'azione collettiva è
la «coordinazione tacita» che si instaura tra individui e gruppi,
fiduciosi che è possibile realizzare il grande cambiamento. Alla
leadership rivoluzionaria non spetta il ruolo d'autorità confi
nante con la coercizione, secondo il classico modello leninista
(ripreso in codice diverso da Olson per superare la scelta e
goistica del singolo preso nel dilemma del prigioniero). Secon
do Elster alla leadership spetta solo un ruolo di informazione
che renda possibile la coordinazione. Al tradizionale modello di
autorità è contrapposto «l'altruismo condizionale del gioco
d'assicurazione» con la sua «struttura motivazionale capace di
condurre all'azione collettiva, grazie alla coordinazione tacita,
quando i leader forniscono l'informazione»1.
A parte la poco convincente opposizione tra modello d'auto
rità e modello (spontaneista) d'assicurazione, il ragionamento di
Elster rischia di perdere l'aspetto più interessante dell'applica
zione dei giochi: spiegare come si arriva all'eventuale coordi
nazione da basi di partenza prive di informazione e di fiducia
reciproca — ovvero come si arriva alla coordinazione giocando.
Questo aspetto, che la teoria dei giochi affronta sistematica
mente sotto la voce bargaining, è sostanzialmente eluso da El
ster che del bargaining sviluppa solo lo schema più convenzio
nale e macroscopico: la trattativa tra operai e capitalisti.

6 Ibid., p. 469.
7 Ibid., p. 470.

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Passiamo così ad un ulteriore livello dei giochi: non più


individui all'interno della stessa classe, ma classe contro classe.
Esplicitando gli assunti di valore del suo ragionamento, Elster
considera il bargaining un tipico comportamento negoziale «so
cialdemocratico» in cui gli operai superano «l'alienazione della
propria classe ma non quella della propria storia». Gli operai
cioè si comportano come attore collettivo nei confronti del
capitale di oggi, ma «dimenticano» che il capitale di oggi è già
loro prodotto, è frutto dell'alienazione operaia di ieri. Questa
dimenticanza è tipica della mentalità socialdemocratica che im
posta la contrattazione come conflitto/cooperazione attorno ad
un prodotto comune da spartire con parità di diritto.
Fatta questa premessa Elster si rifà ai modelli di bargaining
di Zeuthen e Nash per illustrare l'esito cooperativo come una
sequenza causale rigorosa. Naturalmente la soluzione ha alcuni
requisiti: una scala definita di utilità; un «ottimo paretiano»
per ciascun attore (cioè un risultato ottimale non migliorabile
senza mutare il corrispettivo vantaggio dell'avversario); sim
metria, nel senso di stretta rispondenza tra potere e risultati
per ciascun attore. Soddisfatti questi requisiti, emerge come
«soluzione» quella che accorda proporzionalmente all'attore più
forte la porzione più ampia del prodotto comune. È l'«effetto
Matteo» (con l'allusione al detto evangelico: «a chi ha sarà
dato . . .») per cui l'attore più debole si accontenta di fatto di
un risultato proporzionalmente più piccolo che risponde tutta
via alle sue basi di partenza. Siamo così davanti alla formaliz
zazione di un modello di sfruttamento o quanto meno di nega
zione di una giustizia distributiva che dovrebbe favorire il me
no avvantaggiato alla partenza.
A questo punto Elster introduce il modello di Kelvin Lan
caster, che studia la lotta tra capitale e lavoro come un «gioco
differenziale». Esso farebbe «per la socialdemocrazia ciò che
Marx ha fatto per il capitalismo classico: spiega come evolve
la lotta di classe quando i lavoratori superano l'alienazione
sincronica, ma non quella diacronica»8 — cioè l'alienazione
della propria classe, ma non dèlia propria storia.
Il modello di Lancaster presuppone che operai e capitalisti
si confrontino come attori unitari che controllano risoettiva

8 Ibid., p. 474. Il lavoro cui fa riferimento l'autore è Lancaster (1973, pp.


1092-1109).

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mente le due variabili economiche essenziali. I lavoratori de


terminano il tasso di consumo di ciò che è prodotto, i capita
listi il tasso di investimento. Si configura allora un doppio
dilemma incrociato per gli operai e per i capitalisti. «Il dilemma
degli operai: se consumano tutto ora, nulla sarà lasciato per
gli investimenti e le future crescite di consumo, ma se lasciano
qualcosa per i profitti, non hanno alcuna garanzia che i capita
listi li useranno per gli investimenti anziché per il loro privato
consumo. Il dilemma dei capitalisti: se consumano l'intero
profitto ora, nulla sarà lasciato per gli investimenti e le future
crescite di consumo; ma se essi investono i profitti, non hanno
garanzia alcuna che i lavoratori non riterranno per loro stessi
la crescita di consumo che si produrrà9.
Il risultato di questo dilemma è il sottoutilizzo sistematico
da parte dei lavoratori del loro potere. La classe operaia «so
cialdemocratica» controlla i consumi, ma non gli investimenti,
può avere il potere politico ma è impotente davanti a quello
economico; può condizionare il presente ma non il futuro.
«Gli operai soffrono non solo di sfruttamento, ma di mancan
za di autodeterminazione. Nei paesi capitalisti, dove la social
democrazia è più avanzata, si può dire con Dahrendorf che il
potere più che la ricchezza è il nucleo decisivo della lotta di
classe» 10.
La tesi conclusiva di Elster è largamente condividibile, ma è
sorprendentemente modesta rispetto alle aspettative sollevate
dalla applicazione della teoria dei giochi. Lo deve ammettere lo
stesso autore. Dichiara che la game theory è carente ancora di
«ipotesi verificabili», che il suo apparato formalizzato non è
ancora ben tagliato sulla realtà concreta. Eppure è una strada
da battere per fornire «microfondazioni» all'analisi sociale.

3. Microfondazione e macroanalisi

Non dò torto a Elster, ma mi pare che la strada da lui


intrapresa contenga più di un equivoco. Innanzitutto la sua
preoccupazione di convincere i marxisti della bontà del suo
approccio, pone la teoria dei giochi in una gabbia di postulati
di valore che le sono impropri. «La teoria dei giochi può aiu

9 Ibid., p. 475.
10 Ibid., p. 476.

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Teoria dei giochi e spiegazione-sociologica 259

tare a capire la meccanica di solidarietà e lotta di classe, senza


assumere che lavoratori e capitalisti hanno un interesse comu
ne e bisogno di cooperazione» Giusto. Ma questa affer
mazione può valere come postulato per ogni analisi strategica
del rapporto tra lavoro e capitale se è sottintesa la tesi com
plementare: «senza assumere che lavoratori e capitalisti hanno
interessi incompatibili e contraddittori». Il vantaggio della teo
ria dei giochi sta appunto nella possibilità di decifrare la di
namica strategica senza vincolarsi ad assiomi di valore sugli
attori in gioco. Prende atto dei valori in lizza. Non è questa
evidentemente la posizione di Elster che nella game theory
ricerca una specie di fondazione dell'interesse della classe ope
raia a sopprimere marxianamente la classe capitalistica.
Questa critica sarebbe di scarsa rilevanza se la pretesa mar
xista di Elster non pregiudicasse il senso da dare alla sua esi
genza di microfondazione delle scienze sociali.
La teoria dei giochi presuppone l'individuazione di soggetti
o attori determinati, capaci di azione intenzionale, di calcolo di
costi e benefici. Soltanto tali oggetti entrano in una 'interazione
strategica. Vale questo per i concetti di «operaio» versus «ca
pitalista»? Questa distinzione concettuale è sufficiente per in
dividuare attori nel senso specifico dell'agire strategico? Non
si tratta, beninteso, di negare l'esistenza di tali collettivi, tradi
zionalmente designati come «classi», o di negar loro connotati
di soggettività e intenzionalità. Ci chiediamo se offrono requi
siti di determinatezza sufficienti per qualificarli come attori di
un gioco strategico in senso proprio: capaci di scelte determi
nate, di fronte ad alternative determinate, con conseguenze de
terminate (anche se non volute).
Solo in questo modo la teoria dei giochi acquista un valore
euristico e non si limita a trascrivere in un paradigma nuovo
cose vecchie. Questo è invece il rischio che corrono Lancaster,
Elster e altri. In essi la crisi di spiegazione del codice marxista
non è risolta se il nuovo codice riproduce (come input) le
aporie del primo. Così avviene invece se, ad esempio, l'inten
zionalità degli attori-operai nella loro azione strategica ha come
criterio nulla di meno che la «coscienza di classe» rivoluziona
ria classicamente intesa. Viene meno il senso dell'analisi stra
tegica che è di capire il tipo contingente di intenzionalità e

11 Ibid., p. 478.

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razionalità che guida le scelte degli attori nella situazione mista


di cooperazione e conflitto. In questa ottica la «coscienza di
classe» può valere solo come indicatore empirico del grado e
delle forme della soggettività empirica degli interessati, non
come concetto autoevidente e normativo.
Solo così ha senso parlare di microfondazione dell'azione
collettiva, di classe. Il concetto di microfondazione indica la
priorità logica delle scelte e degli atti di singoli attori rispetto
al risultato complessivo riferito ad un aggregato o ad un col
lettivo. Si badi: «singolo attore» non significa necessariamente
«individuo»; può indicare gruppo organizzato capace di azione
intenzionale. Non può riferirsi alla «classe», se a questo con
cetto conserviamo il suo significato analitico astratto di insie
me dei salariati nei rapporti di produzione capitalistici. È stata
l'illusione del marxismo attribuire a questa astrazione analitica
i connotati di un soggetto capace di azione strategica in senso
specifico. EH fatto gli stessi marxisti nelle loro analisi stori
co-politiche vi hanno sostituito attori concretissimi — questi sì
capaci di azione — quali partiti, sindacati, movimenti ecc.
Mi pare che Lancaster e Elster riportino indietro il discorso.
Non nego la legittimità del livello concettuale su cui essi ap
plicano la game theory, ma non mi sembra adatto a fornire
«microfondazioni» dell'agire sociale. Queste sono possibili solo
in giochi con soggetti circoscritti storicamente e sociologica
mente, in grado di agire con decisioni dalle conseguenze misu
rabili non sdlo alle intenzioni soggettive ma negli effetti sog
gettivi di interazione. In breve, solo gruppi determinati (sinda
cati, partiti, movimenti circoscritti) possono compiere scelte e
decisioni interpretabili come giochi strategici.
Il dibattito che segue il saggio di Elster su Theory and
Society non verte tanto sulla praticabilità o meno della game
theory quanto sulle premesse generali da cui nasce la sua pro
posta. G.A. Cohen sostenendo la insostituibilità della spiega
zione funzionale nell'analisi sociale si pone in netta antitesi a
Elster, dicendo a chiare lettere che «se la spiegazione funziona
le è inaccettabile nella teoria sociale, allora il materialismo sto
rico non può essere riformulato ma deve essere respinto» n.
Singolare è il modo con cui è ridimensionata l'utilità della
teoria dei giochi per il marxismo: «il marxismo riguarda fon

12 Cohen (1982, p. 483).

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Teoria del giochi e spiegazione sociologica 261

damentalmente non il comportamento ma le forze e le relazio


ni che lo vincolano e lo dirigono» 13. Leggiamo con stupore che i
marxisti non avrebbero ancora (!) elaborato in modo soddisfa
cente le loro spiegazioni funzionali. Il materialismo storico sa
rebbe ancora in una posizione teoricamente sottosviluppata a
naloga a quella della «storia naturale prima di Darwin».
Non è la sede per riaprire la controversia sullo status epi
stemologico del marxismo. Il minimo che si può dire è die
Cohen dimentica che il marxismo, prima di essere una teoria
dell'evoluzione sociale, è una teoria dell'azione rivoluzionaria,
uiia teoria del comportamento. Non c'è dubbio che in Marx e
nei marxisti i due aspetti sono fusi. Ma se siamo qui a discu
tere ora, è proprio perché quella fusione si è rivelata fallace e
incapace di spiegare i comportamenti effettivi dei soggetti so
ciali. Comunque 9Ìa, per Cohen la teoria dei giochi potrebbe
spiegare le vidssitudini della lotta di classe, le sue battaglie,
non le radid della «guerra di classe». Dal suo punto di vista
non ha torto.
Vicino alle posizioni di Elster è John E. Roemer 14. Anch'e
gli sostiene che l'analisi di classe deve avere fondamenti «indi
vidualistid» forniti dalla game theory, che saprebbe cogliere i
momenti di passaggio da una situazione storica all'altra.
Insoddisfatti si dichiarano invece Johannes Berger e Claus
Offe, per i quali il discorso è rimasto su un piano esclusiva
mente metodologico. La loro freddezza verso la teoria dei gio
chi nasce tuttavia da una premessa di fondo: «le 'strutture
sociali' rimangono irriducibili agli atti individuali della decisio
ne» 15. Sembra una obiezione fulminante, ma in realtà introdu
ce una stantia dicotomia tra «struttura» e «azione», di cui la
teoria dei giochi è in parte già un superamento, dal momento
che prevede le 'strutture' sotto forma di vincolo (o stimolo)
dell'azione degli attori. Non è una gran soluzione, ma è mi
gliore delle solite divagazioni.

13 Ibid., p. 489.
14 Roemer (1982b, pp. 513 e ss.). Roemer è autore di un volume (1982a) nel
quale applica la teoria del gioco cooperativo »-persone alla condizione di
sfruttamento in una prospettiva storica che comprende ü modo di produzione
feudale, capitalistico e socialistico. Il concetto di sfruttamento è collegato alla
possibilità che un gruppo sociale ha di «ritirarsi», secondo determinate leggi,
dalla società d'appartenenza. I lavoratori sono sfruttati nel sistema capitalistico
perché potrebbero migliorare la loro condizione «ritirandosi» dall'attuale sistema
con la loro quota di beni di capitale.
15 Berger e Offe, (1982, p. 521).

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262 Gian Enrico Rusconi

Merita attenzione un'altra osservazione: «logicamente il gio


co parte solo dopo che gli attori sono stati costituiti e il loro
ordine di preferenza si è formato come risultato di processi
che non possono essere considerati parte del gioco16. Berger e
Offe non parlano di «identità» degli attori, ma questo concet
to sintetizza bene quello che vogliono dire. I modi di forma
zione della gerarchia soggettiva di priorità, le ragioni profonde
delle scelte, la natura delle risorse con le quali i soggetti en
trano nel gioco non sono concepibili nel quadro ristretto della
«scelta razionale».
È un'obiezione frequente e popolare, eppure basata su un
curioso equivoco. Si respinge la game theory perché non spiega
quello che non intende spiegare: le condizioni di partenza del
gioco. La teoria dei giochi non è fatta per cogliere la forma
zione e la trasformazione degli attori, ma per fissare, fermare,
formalizzare di volta in volta le reciproche mosse e posizioni
dell'interazione. Solo di conseguenza segnala effetti di ritorno
sulle identità di partenza. Il suo «purismo metodologico» non
ostacola, anzi richiede una metodologia complementare che ri
guarda la formazione e trasformazione delle identità, tenendo
conto dei risultati del gioco.
Tutto questo ha a che fare solo marginalmente con la con
trapposizione tra micro e macrorelazioni su cui insistono Ber
ger e Offe. Secondo loro la game theory sarebbe qualificata a
trattare la dinamica micro degli attori mentre questi non com
parirebbero come tali nelle relazioni macro. Avendo eluso il
punto cruciale se le classi come tali possano considerarsi attori
strategici, o se altri attori collettivi possano rispondere ai re
quisiti della game theory, l'intervento di Berger e Offe si con
clude con l'imbarazzante ammissione dell'esistenza di uno «ia
to» tra micro e macro, che nessuna analisi sociale saprebbe
superare.
Anthony Giddens tenta un bilancio del dibattito su funzio
nalismo, strutturalismo e individualismo metodoloigco. Le vir
tù della teoria dei giochi gli appaiono piuttosto limitate, so
prattutto perché essa non sarebbe in grado di trattare la durée
dell'agire sociale quotidiano. «La durée dell'azione umana pre
suppone intenzionalità, ma in gran parte essa opera a livello
della 'coscienza pratica' che non è oeaetto di processi delibera

16 Ibid., p. 525.

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Teoria dei giochi e spiegazione sociologica 263

ti della decisione; è piuttosto un orientamento di routine delle


basi di condotta» 17.
Per quanto plausibile, questa obiezione vale solo nel caso la
game theory mirasse a spiegare il comportamento umano nella
sua universalità e continuità, come farebbe una social theory
dalle pretese onnicomprensive. Non è il caso dei teorici dei
giochi più avvertiti.
In un numero successivo di Theory and Society Elster repli
ca constatando come gli argomenti usati dai suoi critici si an
nullino spesso a vicenda rivelando una grande incertezza teori
ca. Ciò non toglie che anch'egli insista su questioni generali
del tipo «scelta versus struttura», anziché mostrare in concreto
come un'attenta applicazione della teoria dei giochi le sdram
matizzi. Si crea così un circolo vizioso: nella misura in cui
Elster fa l'elogio di principio della game theory i suoi interlo
cutori lo bloccano su questioni generali con reciproca insoddi
sfazione o piccole convergenze nominalistiche. Alla fine, lo
stesso Elster sembra accettare il ridimensionamento delle pre
tese della teoria dei giochi a forma di concettualizzazione rigo
rosa di acquisizioni già fatte. Continua tuttavia a difendere il
modello di Lancaster, capace di spiegare il fatto controintuiti
vo di perché la classe operaia continui a lasciarsi sfruttare
anche là dove è più forte. Lancaster spiegherebbe, secondo lui,
in modo logicamente rigoroso questo fatto sulla base della
distribuzione del potere economico. «Sebbene i dettagli della
soluzione di Lancaster non siano robusti, questa analisi del
capitalismo come dilemma intrecciato ci permette di capire al
meno in una dimensione qualitativa l'equilibrio délia lotta di
classe» 18.
Non credo che Cohen, Offe, Giddens si lascino convincere
da questa affermazione, tanto più che Elster per definire lo
sfruttamento capitalistico ricorre esplicitamente alla centralità
della questione del potere anziché al rapporto economico. Ep
pure questa è l'unica argomentazione che potrebbe giustificare
agli occhi di un (post)marxista l'applicazione della game theory
alla dinamica delle classi: «per distinguere le classi le une
dalle altre, ci si allontana molto meno dal marxismo classico se

« Giddens, (1982, p. 536).


« Elster, (1983, p. 118).

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264 Gian Enrico Rusconi

usiamo l'interazione politica o il dominio, anziché il confronto


19
economico»

4. Un'applicazione allo scambio politico

Come dicevo all'inizio, il coinvolgimento del mar


dibattito sulla teoria dei giochi da un lato ha allar
resse per questa tecnica conoscitiva, ben al di là d
cerchio dei suoi cultori tradizionali; dall'altro però
to fattori di ambiguità. Si è dibattuto più sulla «f
giochi che sulla sua fecondità applicativa. Soprattu
mica attorno al «funzionalismo» marxista ha creato uno
schermo al fatto che buona parte delle cose dette valgono per
la spiegazione sociologica in generale. Individuare soggetti so
ciali capaci di azione intenzionale, di decisioni interagenti con
le decisioni di altri soggetti, affrontare il problema della impu
tazione delle conseguenze volute e non volute — sono que
stioni tipiche della ricerca sociologica come tale. E con una
significativa dimensione diacronica, storica.
La teoria dei giochi è una tecnica d'analisi formidabile per
fissare situazioni di interazione, purché siano rispettati i suoi
requisiti e non si chieda ad essa più di quanto non sa dare.
Nelle pagine precedenti ho insistito molto sulla individua
zione precisa degli attori strategici — premessa indispensabile
per rispondere ai criteri della microfondazione dell'azione col
lettiva e, più modestamente, per l'operatività dei giochi.
In questa ottica, attori possono considerarsi soltanto colletti
vi capaci di mosse univocamente determinabili lungo la se
quenza scontro-accordo di una situazione strategica. Pensiamo
alle forme del conflitto industriale nelle società contemporanee.
Qui la dinamica conflittuale può essere effettivamente forma
lizzata nel «dilemma del prigioniero», almeno per quanto ri
guarda i due attori principali, sindacato e padronato. Ma situa
zioni più complesse del tipo «scambio politico» già richiedono
un modello diverso. Facciamo qualche rapida considerazione su
questi punti, scostandoci dal discorso di Elster, lasciando al
lettore l'onere e lo stimolo di riferire schemi generali a espe
rien7P nartimlari

19 Ibidem.

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Teoria dei giochi e spiegazione sociologica 265

La logica del gioco del prigioniero è semplice: in una situa


zione di interdipendenza, i singoli attori, massimizzando il
proprio interesse, arrivano a decisioni reciprocamente dannose,
pur avendo a disposizione soluzioni migliori. Ma queste solu
zioni richiedono costi di cooperazione. Il senso del gioco non
consiste soltanto nel segnalare come «logico» un risultato ne
gativo, dettato dalla razionalità della scelta individuale; il gio
co si propone anche come strumento euristico affinché le parti
si comportino secondo una «razionalità collettiva», di comune
interesse, sopportandone i costi.
Nel modello standard originario, i due giocatori dispongono
di due strategie alternative: il perseguimento del proprio inte
resse, senza alcuna considerazione dell'altro, con scelta D (nel
codice convenzionale sta per defect, nel senso di distogliersi da
ogni collaborazione tenendo duro nel proprio interesse) oppure
la strategia C (da concede) che può significare sia cedimento
unilaterale che collaborazione, a costo di qualche concessione,
a seconda del contesto di interazione.
Nel gioco standard gli attori conoscono gli esiti possibili, ma
devono scegliere simultaneamente senza conoscere le decisioni
dell'altro. Il gioco si configura nel modo seguente:

attore B
tiene
cede duro

cede C C C D
attore A
tiene D C D D
duro

Il «dilemma» consiste nel chiedersi: A deve scegliere di


tener fermo nella sua posizione (D) a costo di arrivare allo
scontro (DD), oppure deve rischiare di cedere (C), contando
che anche B faccia lo stesso? Davanti ad un tale dilemma, la
strategia «razionale» del singolo è quella di scegliere comun
que D, qualunque cosa faccia l'altro. Infatti pur sapendo che
la scelta collaborativa è un esito migliore per tutti e due, il
singolo attore non ha garanzia che giocando C, l'altro risponda
anche lui con C e non approfitti invece per giocare D, vincen
do. Si arriva così al risultato che nessuno vuole intenzional
mente, allo scontro (DD). Eppure per il singolo esso è preferi
bile al puro cedimento (rispettivamente CD per l'attore A, e
DC per l'attore B). Infatti, ponendo su una scala negativa le

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266 Gian Enrico Rusconi

preferenze dei singoli attori, abbiamo il seguente ordine: l'esi


to peggiore è cedere (1), in seconda posizione negativa lo
scontro o mancato accordo (2), in terza posizione l'accordo (3),
rimanendo come soluzione ottimale logica l'auto-affermazione
(4). Ovvero, ponendoci nella prospettiva di A, abbiamo l'ordi
ne: CD<DD<CC<DC
Siccome ciascun attore ha lo stesso ordine di prefe
matrice del gioco si presenta così:
attore B
C D
(In ciascuna casella,
cC 3.3
3,3 1,4 il primo numero si
attore A riferisce alle priori
D 4,1 2,2 tà di A, il secondo a
quelle di B)

L'aspetto operativo, attivo del gioco consiste nel portare i


due contendenti dalla posizione 2 (DD) alla 3 (CC), cioè dallo
scontro all'accordo.
Per applicare questo gioco alla sequenza dèlio scontro-accor
do industriale, occorre partire da presupposti diversi che cam
biano la faccia del dilemma, ma non la sua logica.
Per cominciare, i contraenti conoscono e vedono le mosse
reciproche. Il rischio non sta tanto nel prevedere la mossa
dell'avversario, quanto nel valutarne i costi. Si arriva allo
scontro non per mancanza di conoscenza delle scelte, ma inten
zionalmente come prova di forza. Giocando D, ciascuno spera
che l'altro ripieghi su C, cioè ceda. L'esito DD (lo scontro) è
per definizione costoso per entrambe le parti; ciò che non è
definito è il livello di sopportabilità per le singole parti. Da
qui il carattere di «prova di forza» della posizione DD, che è
invece assente nel modello originario del gioco del prigioniero.
La logica del gioco, per altro, è confermata dal fatto che,
pur essendo DD un esito costoso per entrambe le parti, nessu
na trova buone ragioni per passare a CC, alla collaborazione.
Ciascuna infatti teme che cedendo per prima, l'altra ne appro
fitti per imporsi. Da qui la impasse che corrisponde nella real
tà alle complesse e defatiganti tecniche della «trattativa». Non
si sa mai con certezza se la controparte fa sul serio o sta
adottando tattiche dilatorie o altro. A questo punto nel gioco
trova posto tutta la fenomenologia del bargaining nella sua
gamma di manovre, bluff, e reali cedimenti — una continua
oscillazione tra DD e CC.

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Teoria dei giochi e spiegazione sociologica 267

Ciò che distingue questo gioco dal puro bargaining costruito


sulla logica del mercato, è la centralità della comunicazione e
della sua manipolazione. Il calcolo delle utilità soggettive è
fagocitato dalle strategie del condizionamento cognitivo reci
proco. Oltretutto, dal mercato ci si può ritirare se il bilancio
costi/benefici si rivela fallimentare; dal gioco del prigioniero
non ci si può ritirare: si perde, si vince o ci si accorda. Il
gioco strategico è per definizione sotto il segno del reciproco
condizionamento, perché la dipendenza contiene virtualmente
la capacità di danno reciproco.
Per uscire dalla impasse e assicurarsi un esito positivo, di
tipo collaborativo, occorre l'azione di un altro giocatore, con
risorse diverse. Nel caso concreto del conflitto industriale nelle
democrazie contemporanee è necessario l'intervento dello Stato
nella forma dello «scambio politico». Ma con questo la strut
tura del gioco cambia. Al livello di astrazione in cui ci stiamo
muovendo, non c'è bisogno di aprire una discussione su che
cosa sia veramente lo scambio politico. Al nostro scopo basta
l'assunto che lo Stato non è un attore eguale agli altri due.
Dispone di una risorsa — l'autorità — che parifica di fronte a
sé i due contendenti, cambiando la natura del gioco. Lo scam
bio politico non è un allargamento del gioco da due a tre
attori. È un gioco asimmetrico. Le due parti sociali hanno un
identico ordine di priorità di fronte allo Stato, ma esso non
coincide con quello che avevano loro nel gioco precedente né
tanto meno coincide con l'ordine di priorità dello Stato. Si ha
cioè una struttura asimmetrica. Il punto è importante perché
in questo caso l'ordine di preferenza sta per risorse politiche
degli attori e quindi l'asimmetria delle priorità rispecchia la
struttura politica del sistema entro cui si svolge il gioco.
In un sistema democratico, la soluzione peggiore (1) per lo
Stato è «cedere» di fronte agli interessi congiunti delle contro
parti (CD); piuttosto che cedere, lo Stato preferisce (2) entrare
in conflitto con le parti sociali (DD); la soluzione più accetta
bile (3) è la collaborazione con esse (CC); la soluzione imposi
tiva autoritaria (DC) rimane solo un esito logico possibile ma
improbabile. In sequenza la formula per lo Stato (attore A)
è: CD<DD<CC<DC.
Di fronte a questo ordine di priorità dello Stato, le
sociali unitamente pongono al livello più basso di priori
lo scontro, che in questo gioco significa scontro frontale
co con l'autorità costituita; ad esso preferiscono eventualm

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268 Gian Enrico Rusconi

(2) cedere; ma la soluzione augurabile (3) è l'accordo contrat


tato (CC); l'opzione più alta (4) dell'imposizione delle parti
allo Stato rimane solo come un'ipotesi improbabile del gioco,
perché significherebbe reale subalternità politica dello Stato.
L'ordine di priorità delle parti sociali (attore B) è dunque il
seguente: DD<DC<CC<CD.
In termini numerici, il gioco dello «scambio politico» pre
senta la seguente struttura:

parti sociali

C D

c 3,3 1,4
Stato
D 4,2 2,1

Da questa disposizione sono evidenti sia l'asimmetria sia il


punto d'equilibrio del gioco. Naturalmente non ci si deve la
sciar ingannare dalla semplicità della soluzione. Essa non dice
nulla sulla faticosa dinamica reale che porta alla posizione co
mune (CC) da posizioni di partenza assai distanti. Tace sulla
qualità delle strategie di minaccia messe in atto dagli attori (le
parti sociali minacciano la sottrazione di consenso; lo Stato
minaccia di lasciare le parti nella loro impasse). «Scontro» e
«accordo» nascondono processi politici tutt'altro che semplici.
La seduzione cooperativa risulta «contrattata» non solo per il
carattere compromissorio dei contenuti materiali, ma perché
l'attore-Stato deve comunque pagare in termini politici (in
termini d'autorità) il riconoscimento del suo ruolo di garante
nello scambio politico.
Tutto questo è solo implicito nella struttura del gioco. Ma
sarebbe anche scorretto pretendere di dedurlo da essa. I meriti
della tecnica dei giochi in sociologia vanno ricercati altrove:
nella capacità di fissare in modo chiaro rapporti strategici, che
riproducono di volta in volta complesse situazioni di interazio
ne, continuamente mutanti anche per l'alto numero di varianti.

5. Giochi e identità

Rimane un'ultima riflessione da fare circa il rapporto tra


gioco strategico e identità. Le identità sono «fuori gioco»?
Non c'è dubbio che il gioco inizia con identità preformate,

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Teoria dei giochi e spiegazione sociologica 269

precostituite con un ordine di priorità ormai fermo, da cui


discendono le scelte. La game theory prevede e formalizza il
quadro delle possibili mosse reciproche, sulla base di una limi
tata conoscenza dei processi soggettivi che portano gli attori ad
entrare nel gioco. Anzi, misura e ridimensiona le pretese sog
gettive delle singole identità alla luce di una situazione ogget
tiva creata dalle loro mosse effettive. D'altro lato, però, gli
attori «apprendono» giocando; esercitano cioè una delle prero
gative tipiche dell'identità. E apprendono secondo le regole del
gioco in cui sono entrate. In forza delle repliche dell'avversa
rio l'attore — se è razionale — modifica l'insieme delle tre
opzioni e il suo piano d'azione.
Naturalmente tutto questo è facile da dire, molto più diffici
le da formalizzare scientificamente. Ma se accettiamo questa
prospettiva, abbiamo già ammesso che virtualmente le identità
mutano nel gioco. In effetti, in una situazione strategica con
forte investimento di senso (quale è il caso dei grandi conflitti
industriali) le identità rigide sono spesso perdenti. Viceversa,
un'identità esce modificata anche da una strategia vincente.
Per poter dare forma scientifica adeguata a queste conside
razioni, occorre un impianto analitico più sofisticato di quello
tracciato sin qui. È necessario un impianto che accanto alle
posizioni e mosse convenzionali dei giochi, tenga conto dei
processi cognitivi e manipolativi dei soggetti coinvolti.
Questo discorso rimarrebbe vago se non avessimo a disposi
zione interessanti risultati di questa tecnica in campi affini alla
sociologia storica. Mi riferisco agli studi sui conflitti interna
zionali — guerre scatenate, minacciate e/o evitate. Ritroviamo
qui molta della problematica evocata sopra: attraverso quali
processi si arriva all'identificazione dell'avversario che fa scat
tare la decisione conflittuale? quali sono gli atti strategici veri
e propri, quali le mosse puramente simboliche? come e perché
una certa mossa scatena un effetto non voluto? quali conse
guenze si possono imputare a quali decisioni? ecc.
Molte di queste domande trovano una risposta in tipologie e
sequenze di giochi che innovano in modo originale rispetto a
quelli standard. Si obietterà che la situazione strategica guer
ra/pace, e in generale quella delle grandi crisi internazionali, è
relativamente semplice a livello concettuale. Questo facilita
l'applicazione dei giochi. È vero; ma metodologicamente gli
studiosi di questo settore hanno fatto significativi passi in a
vanti. Ora tocca ai sociologi.

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270 Gian Enrico Rusconi

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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Roemer, J. E. (1982b), Methodological Individualism and Deductive
Marxisms, in Theory and Society, vol. II, n. 4, luglio.

Summary. The article analyzes the recent debate on marxism, functionalism


and game theory, published in «Theory and Society» (1982 n. 4 and 1983 n. 1).
The starting point is the appréciation of Jon Elster's statement that game
theory provides microfoundations for any study of social structure and social
change. The final result of the debate, however, is less conclusive than
expected. The emphasis on the criticism of «functional marxisms» and his
defense by some authors failed to develop fruitful suggestions on the actual
application of game models to social and politicai reality.
Game theory can be an important tecnique in explaining strategie relations
between social and politicai actors, provided that these con be well definite
subjects acting with identifiable resources, whose moves are predictable, and
in an arena which can be described accurately. It is doubtful that these
requisites are met with such strategie actors as «workers» versus «capitalists»
in general. Moreover the game theory approach has to account for the
problem of identity of actors, who learn and change through gaming.
This article sugests some hypothèses of application of games to the confrontation
between trade unions and management, by considering possible moves of the
State in such a game as the politicai market one.

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