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Un artista autocritico in perpetua ricerca: Schubert e l’incompiuto

Sull’incompiutezza di molti lavori di Schubert sono stati versati fiumi d’inchiostro: nel “non finito”, in
particolare riguardo alla celebre Sinfonia D 759 nota proprio come “Incompiuta”, si è visto l’emblema dei
misteri e degli enigmi che circondano la figura di Schubert. Alcune domande ricorrenti (perché Schubert ha
lasciato incompiuti così tanti lavori? E se alcuni di questi fossero in qualche modo compiuti nella loro
incompiutezza?) hanno generato infiniti ricami pseudo-filosofici e fantasiose ipotesi non verificabili. A
distanza di quasi due secoli dalla morte del compositore è difficile fare illazioni sulle cause psicologiche
della schubertiana tendenza a non completare molte delle sue composizioni. Tuttavia, lo studio attento
delle opere lasciate allo stato di frammento ha permesso negli ultimi decenni di fare un po’ di chiarezza su
questo argomento affascinante, scrostando molti radicati luoghi comuni.
Il principale luogo comune è legato al metodo di lavoro di Schubert: si è a lungo creduto che il compositore
viennese scrivesse direttamente le sue opere nella loro versione definitiva. Il mito di uno Schubert che
scrive musica sul menù di un’osteria, quasi in maniera irriflessa o puramente “sonnambolica”, è duro a
morire. Da questa convinzione ne deriva un’altra: ovvero che l’incompiutezza dei lavori di Schubert fosse
legata a questo suo presunto modo di scrittura spontaneo ma anche disordinato, che lo avrebbe portato
quindi a lasciare da parte molte opere per pigrizia o improvvisa mancanza d’ispirazione. Il mito dell’artista
bohémien ha senz’altro un suo fascino e una parte di verità: Schubert non era certo un modello di
organizzazione pratica nella vita quotidiana, come dimostrano i suoi fallimenti carrieristici (la difficoltà a
trovare un incarico stabile) e i suoi difficili rapporti con gli editori. Ma questo mito di uno Schubert
“scapigliato” porta con sé anche molti malintesi: l’apparente disordine schubertiano, infatti, altro non è che
un riflesso di una coscienza autocritica fortissima. Studiando da vicino il processo compositivo
schubertiano, nonché la biografia dell’autore, è del tutto evidente che la tendenza all’incompiutezza sia
legata a una costante insoddisfazione, a una ricerca inesausta di una via estetica personale, nonché alla
consapevolezza di confrontarsi con una scuola viennese (Haydn, Mozart, Beethoven) rispetto alla quale
Schubert si sentiva quasi un nano sulle spalle dei giganti. Volendo azzardare una considerazione psicologica,
si potrebbe avanzare l’ipotesi che dietro all’incompiutezza ci sia un mix di insicurezza e di orgoglio: la prima
era legata a un sentimento di inadeguatezza rispetto a quei compositori che Schubert considerava veri e
propri Dei; il secondo alla speranza, e poco a poco alla consapevolezza, di potersi davvero porre sulla scia di
cotali genî. Per tali ragioni, è del tutto comprensibile che Schubert fosse spesso insoddisfatto dei propri
lavori, o che talvolta si mettesse all’opera con l’idea di sperimentare, senza sapere a priori se la
sperimentazione avrebbe condotto a un esito soddisfacente. In tale processo creativo “aperto”possiamo
anche rintracciare la natura estremamente indipendente dell’artista, che, pur mirando a pubblicare le
proprie opere, compone innanzitutto per un’esigenza interiore di ricerca artistica. È inoltre evidente che
Schubert fosse molto selettivo riguardo alle proprie composizioni: non tutto doveva essere lasciato alla
posterità.
È importante innanzitutto osservare come avvenisse il processo creativo schubertiano, non sempre così
spontaneo e immediato come viene dipinto solitamente. Lo studio dei manoscritti e delle testimonianze dei
contemporanei ha permesso di individuare tre tappe fondamentali di tale processo:

1) Entwurf – abbozzo
2) Erste Niederschrift – prima scrittura
3) Reinschrift – copia pulita

Il processo compositivo schubertiano era dunque del tutto aderente a quello settecentesco, tipico anche
del suo maestro Antonio Salieri. A quanto ci risulta, Schubert non aveva un “quaderno di schizzi” simile a
quello di Beethoven, dove annotare idee che poi sarebbero magari state usate per composizioni future. In
pochissimi casi, inoltre, egli riprendeva un’opera terminata per farla diventare altra cosa, come faceva
frequentemente Brahms (si pensi al Quintetto op. 34, nato dalla Sonata op. 34 b per due pianoforti, a sua
volta nata da un Quintetto per archi distrutto). Il suo metodo di lavoro era quindi molto più tradizionale di
quanto si possa pensare. Da dove nasce quindi l’equivoco di una scrittura derivante da un furor istantaneo,
legato anche all’immagine di uno Schubert che stende la sua musica con gli occhi infuocati, come posseduto
da un misterioso demone? Sicuramente dal fatto che semplicemente non possediamo la maggior parte
degli abbozzi, poiché, una volta terminata l’opera, Schubert distruggeva le tappe precedenti a quella
definitiva. Quando un’opera raggiungeva la sua forma finita Schubert desiderava che non rimanesse traccia
del processo. Ma perché, ci si potrebbe allora domandare, sono rimasti molti abbozzi di opere incompiute o
non pubblicate degli ultimi mesi? Semplice: perché il fratello Ferdinand non aveva distrutto tali abbozzi
dopo la morte di Franz.
Le tre tappe individuate (abbozzo, prima scrittura, copia pulita) sono tappe ideali, perché spesso il processo
era più complesso e non strettamente corrispondente a questo schema. Talvolta Schubert abbozzava una
sinfonia in partitura e, sugli stessi fogli, la rendeva poi direttamente “prima scrittura” completando le parti
mancanti; altre volte una “prima scrittura” veniva più volte corretta, al punto da divenire illeggibile e
richiedere una seconda o una terza scrittura prima di passare alla copia pulita; e anche la copia pulita
poteva essere soggetta a modifiche dell’ultimo momento (per Winterreise D 911, ad esempio, Schubert
dovette far realizzare una copia pulita ad hoc da un copista, perché quella approntata da lui aveva un
eccesso di correzioni e di pagine tagliate e sostituite con nuovi fogli).
Da queste considerazioni possiamo trarre una domanda fondamentale: quando un’opera di Schubert si può
considerare compiuta? A rigore, quando possediamo una copia pulita definitiva dell’opera. Tale
considerazione ci riporta all’idea di uno Schubert fortemente critico ed esigente con sé stesso.
Emblematica, in questo senso, è una lettera che il compositore scrisse all’editore Schott di Magonza il 21
febbraio 1828 (Schubert sarebbe morto il 19 novembre di quello stesso anno), in cui menziona il «catalogo
delle [sue] composizioni compiute». Schubert annovera in questo elenco ben pochi lavori: i Quartetti D 810
e D 887; la Fantasia D 940 per pianoforte a quattro mani (unica opera pianistica citata!); la Sinfonia
“Grande” D 944 in do maggiore; la Messa in la bemolle D 678. L’elenco non comprende i Lieder, ma è molto
indicativo il fatto che quando Schubert vuole pubblicare un Lied composto in passato ne prepara spesso
una nuova versione (così avviene, ad esempio, per An Emma D 113, composto nel 1814, pubblicato nel
1821 e poi, con alcune correzioni, nel 1826). Sorprendentemente, in questo elenco non troviamo nessuna
delle sonate per pianoforte che Schubert aveva pubblicato (D 845 in la minore, D 850 in re maggiore e D
894 in sol maggiore), segno che egli conservava la sua attitudine critica anche quando aveva già dato alle
stampe un lavoro. Non è un caso che Schubert ricominci a numerare daccapo le proprie Sonate per ben tre
volte: la Sonata D 279 (incompiuta) fu titolata Sonate I (quando iniziò a comporla, Schubert aveva
evidentemente l’intenzione di farne la sua prima Sonata, dopo aver lasciato incompiuta la D 157), ma lo
stesso titolo fu dato alla Sonata D 566 (incompiuta anch’essa) e alla Sonata D 958, che apriva il trittico finale
(pubblicato postumo solo nel 1839, dopo il fortunato ritrovamento del manoscritto da parte di Schumann, a
casa di Ferdinand Schubert).
Noi non possiamo però essere intransigenti quanto Schubert: se considerassimo compiute solo le opere di
cui abbiamo una copia pulita, pronta per la pubblicazione, dovremmo tagliar fuori tutte quelle opere
complete di cui ci resta soltanto una “scrittura completa” (fra cui, per esempio, le ultime tre Sonate per
pianoforte D 958, D 959 e D 960). A rendere più complicato il panorama c’è il fatto che molti manoscritti
schubertiani sono stati dispersi, raccolti in quaderni compositi, distrutti o talvolta ricomparsi dopo essere
spariti. Un ulteriore problema è legato al fatto che talvolta Schubert abbreviava la “prima scrittura”, per
esempio non scrivendo la ripresa in una forma-sonata: in tali casi il lavoro è di fatto incompiuto, anche se
probabilmente nella mente di Schubert (che sottintendeva una ripresa identica o quasi) era virtualmente
compiuto. Un caso particolare è quello del Klavierstück D 946 n. 1, da cui Schubert ha espunto il secondo
couplet, rendendo necessaria quindi (se si decide di eseguire solo il primo couplet, come da volontà
definitiva del compositore) una conclusione del “da capo” apocrifa.
Uno dei lavori più importanti sul tema dell’incompiutezza in Schubert è il libro di Andrea Lindmayr-Brandl,
Franz Schubert. Das fragmentarische Werk, pubblicato nel 2003 da Steiner di Stoccarda. Questa
pubblicazione ci fornisce anche statistiche utilissime per capire qualcosa di più su questo tema così
controverso. In tutto, Schubert ha lasciato 95 frammenti incompiuti, dei quali 81 possono essere
considerati veri e propri “lavori incompiuti”, poiché i rimanenti 14 sono frammenti di studio (ci si potrebbe
chiedere in effetti se i terzetti vocali o gli esercizi di contrappunto scritti per Salieri o per Sechter, pur
catalogati da Otto Deutsch, siano annoverabili fra le “opere incompiute”). Quegli 81 lavori rappresentano
l’8,2% della produzione schubertiana, una percentuale piuttosto alta. Tale percentuale ha dei picchi negli
anni “di crisi” 1820 e 1821 (quando arriva al 20% e al 24%) e negli ultimi due anni (14,7% nel 1827 e 10,8%
nel 1828). Ma il dato più significativo è quello relativo alla ripartizione per genere: 46,2% delle sinfonie,
45,6% delle sonate per pianoforte, 35% delle opere liriche, ma 2,6% delle opere per pianoforte a quattro
mani, 4,5% dei Lieder e 4,9% delle danze per pianoforte solo. Se consideriamo che i Lieder rappresentano
circa il 60% della produzione schubertiana, vediamo che ci sono più opere incompiute tra le opere
strumentali che non tra le opere vocali. Sicuramente, un’opera in più movimenti (sinfonia o sonata)
presenta più rischi di essere incompiuta rispetto a un’opera in un tempo solo (ouverture o Klavierstück). Ma
è anche molto probabile che Schubert fosse incredibilmente esigente proprio in quegli ambiti (la sinfonia e
la sonata innanzitutto) in cui aveva come modelli i venerati Mozart, Haydn e, sopra a tutti, Beethoven. In
una lettera spedita all’amico Kupelwieser il 31 marzo 1824, Schubert sottolineava il fatto di dedicarsi
sempre più alla musica strumentale per spianarsi «la via verso la grande Sinfonia». Senza nulla togliere al
valore intrinseco delle sonate per pianoforte o della musica da camera, è evidente che in molti casi la
musica strumentale diveniva un laboratorio, una fucina simile a quella beethoveniana, con lo sguardo volto
verso l’ambito sinfonico. Questa natura “laboratoriale”, che in Schubert è ancora più evidente e tormentata
che in Beethoven, è probabilmente un’ulteriore causa dell’incompiutezza di molti lavori.

Nell’ambito dell’opera lirica, considerando sempre la lettera del febbraio 1828, Schubert riteneva suoi
lavori compiuti Alfonso und Estrella D732, Die Verschworenen D787 e Fierrabras D796. Schubert non cita
Die Zwillingsbrüder D647 e Die Zauberharfe D644, che pure furono rappresentate nel 1820. Altri lavori
teatrali completi furono Des Teufels Lustschloss D84, dall’anno 1815, i Singspiele in un atto Der vierjährige
Posten D190 e Fernando D220, il Singspiel in 3 atti Die Freunde von Salamanka D326. La prima delle opere
incompiute è Der Spiegelritter D11, su un libretto di Kotzebue, cominciata alla fine di 1811: Schubert aveva
appena quattordici anni e interruppe il lavoro dopo l’inizio degli studi con Salieri (1812). È anche l’unica
delle opere incompiute schubertiane ad avere un’ouverture: da quando iniziò a studiare con Salieri, egli
prese infatti l’abitudine di comporre la sinfonia per ultima, come faceva il suo maestro. Del maggio 1816 è
la composizione di Die Bürgschaft D435, opera di carattere eroico basata sulla ballata eponima di Schiller:
secondo Brigitte Massin, Schubert l’avrebbe scritta per il milieu universitario che frequentava in quell’anno,
sostituendola però con la cantata Prometheus D 451 (il terzo atto rimase così incompiuto). Altre opere
rimaste allo stato di frammento sono Adrast D 137 (1819-20), Sakontala D 701 (1820, basata su una
leggenda indiana), Rüdiger D 791, Der Graf von Gleichen D918 e l’oratorio Lazarus (che può essere
considerato un lavoro scenico). Dalle lettere di Schubert, sappiamo bene quanto egli tenesse al successo in
ambito operistico. Perché, quindi, lasciò incompiuti così tanti lavori? La coscienza autocritica e i mille dubbi
e ripensamenti di chi mirava alle massime vette dell’arte sono ragioni importanti, ma ci sono anche altri
motivi. Spesso il problema era legato al libretto: nel caso del Graf von Gleichen, per esempio, sappiamo che
il libretto era stato rifiutato dalla censura (a causa di un caso di bigamia). Le difficoltà di rappresentazione
potevano poi dipendere da una generale attitudine di Schubert, restio all’adulazione della classe dirigente.
A Vienna era inoltre esplosa la mania rossiniana: l’opera schubertiana, che affondava le sue radici in Gluck e
Salieri, era piuttosto controcorrente rispetto alla nuova moda (ciò non toglie che Schubert avesse stima di
Rossini). Spesso Schubert integrava all’interno dei suoi lavori scenici la propria sensibilità liederistica,
tendente a un intimismo non sempre compreso dai melomani: nel Graf von Gleichen, ad esempio, egli
orchestra due propri Lieder, Wonne der Wehmut D260 e Die Betende D102.
Il caso del Lazarus è particolarmente complesso, perché Schubert fece una copia pulita dei primi due atti,
segno che prevedeva una rappresentazione. Evidentemente la rappresentazione saltò, rendendo inutile la
composizione del terzo atto.
In ambito sinfonico, Schubert compose sette lavori completi: le sinfonie D82, D125, D200, D 417, D485,
D589 e la “Grande” D944 del 1825-1826. Le prime sinfonie sono scritte per l’orchestra dell’Imperial Regio
Convitto in cui l’adolescente Schubert suonava, mentre la “Grande” è la prima sinfonia completa che
Schubert giudicò degna di comparire nel novero delle sue opere. Il primo lavoro sinfonico incompiuto è
invece del 1811: quattordicenne, Schubert inizia una Sinfonia in Re maggiore, ma si ferma dopo appena
trenta battute. Nei cosiddetti “anni di crisi”, fra la fine del primo decennio dell’Ottocento e l’inizio del
secondo, il percorso che porta alla “Grande” è costellato da sperimentazioni e ripensamenti, che si
presentano a noi sotto forma di frammenti incompiuti: del maggio 1818 sono gli abbozzi per una Sinfonia in
re maggiore (D 615), costituita da un’introduzione di 33 battute e da un Allegro di cui ci resta solo
l’esposizione. Schubert sperimenta un trapasso senza soluzione di continuità dall’introduzione all’Allegro,
come avverrà poi nella “Grande”. Vi sono anche 120 battute di un altro movimento, che secondo Brian
Newbould potrebbero costituire l’abbozzo del finale. Per Schubert si tratta di una fase sperimentale non
soltanto sul piano artistico, ma anche su quello esistenziale: al 1819 risale l’inizio del periodo di
coabitazione con il poeta Mayrhofer. È una fase bohémien in cui la musica, pur in modo talora disordinato,
mantiene comunque un ruolo dominante (emblematica, nel 1821, l’istituzione delle celebri serate viennesi
note come “schubertiadi”).
Nel 1820-21 Schubert abbozzò un’altra Sinfonia in Re maggiore (D 708A), di cui ci restano frammenti per
tutti i quattro movimenti. Gli abbozzi ci permettono di capire quale fosse il metodo di lavoro del
compositore: Schubert non curava subito i dettagli, ma scriveva rapidamente, segnando innanzitutto la
linea melodica e abbozzando qua e là il contrappunto. Le indicazioni di orchestrazione sono scarsissime. Il
grande problema esecutivo, nei lavori orchestrali (ma anche in quelli teatrali), sta proprio nella
ricostruzione di un’orchestrazione che, per quanto stilisticamente verosimile, rimane una mera ipotesi.
All’agosto del 1821 risale la Sinfonia in Mi maggiore D 729: anche in questo caso Schubert ha abbozzato
tutti i movimenti (quattro), scrivendo fra l’altro in modo solenne la parola “fine” dopo l’ultima battuta.
Purtroppo, però, solo le prime 110 battute sono orchestrate (con un organico imponente, che comprende
tre tromboni), e su 1340 battute totali ben 950 sono costituite dalla mera linea melodica. È difficile
comprendere perché Schubert avesse interrotto un lavoro che nella sua testa aveva certamente concepito
nella sua completezza: probabilmente l’impegno compositivo legato a Alfonso und Estrella D 732 tolse
spazio al completamento della Sinfonia (non dimentichiamo che, a livello carrieristico, il successo teatrale
rappresentava una priorità).
Dell’ottobre 1822 è la celeberrima Sinfonia “Incompiuta” D 759, in si minore. In quel periodo, alla “crisi”
artistica (dove per crisi si intende una fase di passaggio e di sperimentazione dai connotati non
necessariamente negativi) si aggiunse una crisi esistenziale determinata dalla malattia venerea (quasi
certamente la sifilide) che colpì Schubert, costringendolo a curarsi in un ospedale pubblico e a barricarsi in
casa per un periodo, in modo da nascondere i segni della malattia. Legare la biografia all’opera d’arte è
pericoloso, ma è piuttosto evidente che lo shock della malattia abbia influito anche sulla creatività
schubertiana. Da una lettera a Kupelwieser, datata 14 agosto 1823, intuiamo che Schubert, dubitando di
poter tornare in «perfetta salute», era sull’orlo della disperazione. Egli confidò all’amico di sentirsi
«l’essere più misero e infelice al mondo. Immagina un uomo, la cui salute è definitivamente compromessa
e, anziché migliorare, continua a peggiorare a causa della sua disperazione, un uomo, ti dico, che ha visto
svanire nel nulla le sue più brillanti speranze e per il quale le gioie dell’amore e dell’amicizia si trasformano
in sofferenze, che minaccia di non essere più ispirato (o per lo meno stimolato) dalla bellezza, ti domando
se non sia proprio un uomo misero, infelice? La mia pace è perduta, oppresso è il mio cuore, non troverò più
la mia pace, mai più la ritroverò posso cantare ogni giorno, perché ogni notte, quando vado a dormire,
spero di non risvegliarmi mai più e ogni mattino non fa che ricordarmi l’affanno del giorno precedente».
È difficile non associare il clima drammatico, e a tratti abissalmente tragico, dell’Incompiuta con i sentimenti
che Schubert dovette provare negli anni 1822-23. Sentimenti di vergogna, sensi di colpa, desideri di
innocenza e di purificazione, ma anche moti di orgoglio e una grande forza nel rialzare la testa. Forse
Schubert temeva di «non essere più ispirato (o per lo meno stimolato) dalla bellezza», ma la sua creatività
fra il 1822 e il 1828 dimostra piuttosto il contrario. Dal 1822-23, l’ideale di bellezza composta e
classicamente armoniosa sui cui si era formato lascia spazio a un’espressione in cui trovano posto la
dismisura, l’inquietante, lo spettrale, il sublime nei suoi aspetti più lancinanti e terribili. Certamente tali
aspetti emergono già fortemente nell’Incompiuta (si pensi in particolare all’incipit e allo sviluppo del primo
movimento), ma Schubert si rendeva conto di essere di fronte a una svolta? Forse no, dato che non dette a
questa Sinfonia un’importanza pari, ad esempio, alla “Grande”. Pensare che l’Incompiuta sia tale perché
Schubert la considerasse già perfetta così (ovvero in due soli movimenti) è un’ipotesi del tutto irrealistica:
infatti possediamo anche gli abbozzi per lo Scherzo (116 battute, nonché 16 battute di linea melodica del
Trio). Si tratta di abbozzi molto più dettagliati rispetto a quelli delle sinfonie precedenti, segno che Schubert
ci teneva particolarmente a questo lavoro, al punto di farne un regalo per l’amico Hüttenbrenner, forse
anche destinato alla Società Musicale della Stiria. Hüttenbrenner portò però il manoscritto a Graz, e
Schubert non batté ciglio: se il compositore avesse ritenuto per lui cruciale quest’opera, non l’avrebbe di
certo “seppellita” nella lontana Graz! Da quel momento, Schubert non menzionò più l’Incompiuta. In una
lettera a Spaun del dicembre 1822, dove gli scrive «tutto quello che [può] dire su [sé] stesso e la [sua]
musica», parla della Wandererfantasie, di Alfonso und Estrella, della Messa in la bemolle, dei Lieder: ma
non dice una parola sulla sinfonia. Nel 1828, quando menziona “una sinfonia”, si tratta della Grande,
terminata nel 1826.
L’Incompiuta non è l’ultima delle sinfonie rimaste allo stato di frammento. Negli ultimi mesi di vita,
Schubert abbozza una Sinfonia in Re maggiore, D 936A. Vi è un primo movimento Allegro di 145 battute
(più altre 71 aggiunte), un Andante in si minore di 204 battute e un movimento che in una prima versione è
intitolato “Scherzo” e in una seconda rimane senza titolo. Gli abbozzi sono molto difficili da leggere e da
interpretare. La scrittura è febbrile e poco curata, ci sono molte correzioni, passaggi cancellati e riscritti
altrove, passaggi aggiunti marcati da un segno. Sugli stessi fogli si trovano anche esercizi di contrappunto e
fuga per il lavoro con Simon Sechter, i cui corsi Schubert aveva iniziato a seguire a poche settimane dalla
morte. Ci sono poche indicazioni strumentali. Brian Newbould ha realizzato una performance version a
partire da questi abbozzi. Newbould sottolinea la presenza di insoliti cambi di tempo (lo sviluppo inizia
“andante”, le 71 battute aggiunte sono pezzi che si combinano come un puzzle fino a terminare in una coda
“presto”) e di armonia (l’esposizione termina in la maggiore, lo sviluppo inizia in si bemolle minore), di un
secondo movimento di straordinaria densità di espressione (che richiama il mondo della Winterreise) e d’un
terzo movimento con un contrappunto d’una «leggerezza vivace» che rende chiaro che «Schubert aveva
poco bisogno dei consigli di Sechter», nonché un fugato a regola d’arte.
Meno numerose, soprattutto in rapporto alla quantità di lavori completati, sono le opere cameristiche
incompiute di Schubert (così come i Lieder, che sono appena una trentina su più di 600). Al 1814 risalgono
un frammento di quartetto (in do minore D 108) e un trio per archi (in si bemolle maggiore D 11A: 55 sole
battute che confluiranno nel Quartetto D 112, in uno dei rari casi in cui Schubert cambierà concezione
dell’opera). Al settembre 1816 risale il Trio per archi D 471, di cui ci resta l’intero primo movimento, dallo
charme mozartiano, e 39 battute del secondo. Il lavoro cameristico incompiuto più noto è però il
Quartettsatz D 703 in do minore (dicembre 1820), di cui ci resta l’intero sublime primo movimento, oltre a
41 battute di un Andante in la bemolle maggiore. È il primo Quartetto che Schubert non scrive per
l’ambiente familiare: la densità del primo movimento ci fa capire che il compositore, scrivendo per dei
professionisti, cercò di superare sé stesso. Le poche battute del secondo movimento sembrano quasi
prefigurare l’Adagio del Quintetto D 956. È una disdetta che Schubert si sia fermato: possiamo ipotizzare
che nel 1820 il ventitreenne non fosse ancora psicologicamente pronto per portare fino in fondo una strada
così nuova come quella che intraprese in questa pagina visionaria. Ma forse il passaggio dalla dimensione
privata a quella pubblica è la chiave di volta per comprendere le ragioni dell’incompiutezza di questo e di
molti altri lavori: sentendosi ormai compositore professionista, Schubert era divenuto estremamente
esigente verso sé stesso.

Più complesso, ma anche molto affascinante, è il discorso sulle sonate per pianoforte. Il laboratorio
tormentato del giovane Schubert, fra i diciotto e i ventuno anni circa, contiene intuizioni che non solo
confluiscono nelle sue ultime opere, ma che – pur ancora sotto l’influenza dello stile classico e del
Biedermeier – spalancano la strada alla piena stagione romantica. Tale laboratorio, fatto di frammenti,
strade interrotte e ripensamenti, è particolarmente emozionante, poiché rappresenta il ritratto di un
giovane genio ancora immerso nei grovigli della post-adolescenza e della prima giovinezza: al punto che i
fallimenti, che contengono spesso gli spunti più visionari, commuovono ancor più delle riuscite. La
complessità, dal punto di vista dello studioso, sta nel distinguere un abbozzo, una prima scrittura o una
copia pulita che diventa sempre meno “pulita” man mano che Schubert aggiunge correzioni e ritocchi. È
anche difficile sapere se un movimento isolato era destinato a rimanere isolato (come l’Adagio in sol
maggiore D178) o faceva inizialmente parte di una composizione più ampia. Inoltre, molto manoscritti
furono raccolti e poi separati, persi e ritrovati: districarsi è ancora più difficile di quanto avvenga con le
pagine sinfoniche o operistiche. A differenza di un’opera lirica o una sinfonia, era infatti più consueto che
un movimento completo di una sonata incompiuta divenisse un pezzo da concerto. Oppure, in certi casi,
diversi movimenti di una sonata confluivano in una “raccolta” che con il tempo e la consuetudine si
trasformava in un’opera fatta di più brani. Insomma, la situazione delle opere per pianoforte di Schubert
degli anni 1815-1818 è estremamente caotica.
Il primo frammento di sonata, un primo movimento Allegro D 154 in Mi maggiore scritto nel 1815, non va
oltre l’esposizione: si tratta in realtà di un abbozzo che confluisce immediatamente nella Sonata D 157,
anch’essa in Mi maggiore, incompiuta in quanto priva del finale (e non vi è nemmeno la certezza che il
Minuetto facesse effettivamente parte di questo lavoro). Il secondo movimento della D 157, in mi minore,
dall’incedere fatalistico e malinconico, sembra una prefigurazione delle più dolenti pagine dello Schubert
maturo. Il modo in cui, alla terza presentazione del refrain, Schubert varia il tema attraverso un
accompagnamento contraddistinto da suoni ribattuti anticipa già quei rintocchi ossessivi, quasi presagi di
morte, che troviamo nelle riprese variate dell’Andantino della Sonata D 959 e dell’Andante sostenuto della
Sonata D 960; ma ancor più innovativa è la seconda presentazione, in cui la mano sinistra tace sul battere,
per poi evocare sul secondo e terzo tempo di battuta il suono dei pizzicati del violoncello. Nello Schubert
diciottenne abbiamo già, dunque, una centralità del silenzio vissuto come parte fondamentale dell’opera.
Stupisce che un tale capolavoro sia rimasto incompiuto, ma è anche evidente che la giovanile ispirazione
andava di pari passo con tormentosi bivi estetici, soprattutto durante il periodo di studi con Salieri. Il bivio
era essenzialmente fra natura e artificio: Salieri e Gluck incarnavano la cosiddetta “espressione naturale”,
mentre Beethoven era accusato, proprio nel circolo del suo maestro Salieri, di «bizzarrie che uniscono e
confondono senza distinzione il tragico con il comico, il gradevole con il disgustoso, l’eroico con il lagnoso, il
sacrale con il buffonesco; fanno impazzire l’uomo anziché scioglierlo nell’amore, suscitano il senso del
ridicolo anziché elevare a Dio». Queste sono parole che proprio Schubert scrisse in una pagina del suo
diario datata 16 giugno 1816. Negli anni, però, Beethoven diventerà la sua stella polare. Le indecisioni e i
tormenti sono senz’altro legate anche a questo profondo dilemma estetico. Come abbiamo già notato, è
solo dal 1822-23 che Schubert, con la malattia e l’addio definitivo al giardino d’infanzia e di giovinezza,
intraprende con convinzione la più visionaria delle due strade possibili. Il parallelo con la svolta
beethoveniana successiva al Testamento di Heiligenstadt è piuttosto evidente: per entrambi, l’arte diventa
una sorta di percorso di ricerca salvifica, quasi una “più che vita” che nasce paradossalmente da un addio
alla normale e sana “calda vita”.
La critica è sostanzialmente unanime nel considerare la Sonata D 279 in Do maggiore come un lavoro meno
profondamente personale e originale rispetto alla sonata precedente. Schubert ha segnato sul manoscritto
Sonate I, come a voler ripartire da capo dopo l’esperimento della Sonata precedente, ma anche questa
Sonata non presenta un finale. Talvolta la Sonata è stata completata con l’Allegretto in Do maggiore D 346,
che però data più probabilmente all’anno successivo. Andrea Lindmayr-Brandl sostiene che D346 è «l’unico
frammento nell’opera pianistica di Schubert per il quale sopraggiunge il sospetto che una “divagazione”
nella disposizione armonica sia stata la causa dell’aborto». Il pezzo è un rondò-sonata A B C A B C (più
coda). Il primo episodio B è in la minore, il C in Fa maggiore. Il ritorno di B è in fa minore: il ritorno di C
sarebbe avvenuto quindi in Re bemolle maggiore, lontanissimo dal Do maggiore. Schubert avrebbe dovuto
elaborare una complicata modulazione per tornare ad A, e si è quindi fermato sul B in fa minore. Anni
dopo, negli ultimi lavori (pensiamo a certe modulazioni della Sonata D 960), Schubert non si farà problemi
nel fare salti di tono audacissimi senza alcuna preparazione.
La sonata successiva, D459 in mi maggiore, è una “sonata-fantasma” che ci conduce in sentieri avventurosi.
Nel 1843 l’editore Klemm di Lipsia stampò i Fünf Klavierstücke, di cui assicurò l’autenticità: Allegro
moderato in mi maggiore, Scherzo in mi maggiore, Adagio in do maggiore, Allegro patetico in mi maggiore.
In 1928 si trovò un manoscritto intitolato “Sonate Aug. 1816” con l’Allegro moderato e il primo Scherzo
qualificato solo con “Allegro” e solo fino alla ripresa. Questo bastò per riqualificare i Klavierstücke come
Sonata in mi maggiore (in 5 movimenti). Si suppose che Klemm avesse avuto la copia pulita della sonata e
che avesse pubblicato la sonata come Fünf Klavierstücke per ragioni di marketing. Stranamente, però, il
primo Scherzo era in forma-sonata e nella stessa tonalità del movimento iniziale. Otto Erich Deutsch aveva
già notato che la fine dell’Allegro patetico è identica alle 8 battute di una composizione sconosciuta che
precede l’Adagio D349 in una raccolta di manoscritti della biblioteca di Vienna. Nel 1968 Claudio Bisogni
fece notare il modo in cui l’Adagio succede immediatamente, senza cesura, alle ultime battute dell’Allegro
patetico e suppose quindi che due lavori facessero parte di un’opera ciclica. Il manoscritto apparso nel 1928
fu venduto in un’asta nel 1947 e scomparve. Riapparì nel 1999 da Sotheby’s (si trova attualmente alla
biblioteca di Vienna) e Andrea Lindmayr-Brandl poté analizzarlo, arrivando alla conclusione che i due primi
pezzi di D 459 costituiscono una sonata incompiuta in due movimenti e supponendo che un’altra sonata in
mi maggiore fosse costituita dall’Allegro patetico e dall’Adagio D349 (più un’eventuale finale).
Interessante è anche il caso della Sonata in la bemolle maggiore D557, considerata come incompiuta
perché il finale è un Allegro in mi bemolle maggiore. Il manoscritto è una prima scrittura ed è incompleto (si
trova a New York), ma esiste una copia completa dei tre movimenti. Il fratello Ferdinand aveva proposto la
sonata all’editore Diabelli, che la rifiutò. Successivamente, passando di mano in mano durante i vari
acquisti, il manoscritto perse gli ultimi fogli. Ma dalla proposta di Ferdinand possiamo ipotizzare che la
sonata fosse compiuta. Ancora più complesso è il caso della Sonata D 566 in mi minore. Il catalogo di Fuchs
menziona una sonata in mi minore del giugno 1817 (primo tempo e scherzo). Una prima scrittura,
scomparsa nel 1945, conteneva un Moderato in mi minore, un Allegretto in mi maggiore e uno Scherzo in la
bemolle. La tonalità del terzo tempo è insolita, ma non possiamo più verificare se il manoscritto fosse
originale e unitario oppure composto.
Molti altri sono i casi problematici. Limitiamoci alle due Sonate incompiute più note, la D 625 in fa minore e
la D 840 in do maggiore detta “Reliquie”. Per quanto riguarda la D 625, non possiamo tutt’oggi sapere, in
base allo studio delle fonti, se questa Sonata fosse in tre o in quattro movimenti (l’Adagio D 505 potrebbe
farne parte). La D 840 fu concepita in quattro movimenti, ma solo i primi due sono compiuti. Il terzo, un
minuetto, ha una concezione armonica estremamente ardita. Dell’aprile 1825, D 840 può essere
considerata la prima delle grandi sonate dell’ultima fase schubertiana. Da questo momento in avanti,
Schubert porterà a termine tutte le sue sonate. Aveva trovato definitivamente la giusta via? O l’orologio
biologico gli diceva che era il caso di affrettarsi?

Luca Ciammarughi

Bibliografia

Walther Dürr- Andreas Krause (edit.): Schubert-Handbuch Kassel, 1997


Andrea Lindmayr-Brandl: Die "wiederentdeckte" unvollendete "Sonate in E" D 459 und die "Fünf
Klavierstücke" von Franz Schubert – Archiv für Musikwissenschaft 2000
Andrea Lindmayr-Brandl: Franz Schubert. Das fragmentarische Werk Stuttgart 2003

Brian Newbould: Schubert and the symphony. A new perspective London 1992

Thierry Morice: Schubert’s piano sonatas. Attempt of a chronological survey and description, in The
Schubertian, April 2009

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